IL MA NIFES T O CULTURA&VISIONI...

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MERCOLEDÌ 13 APRILE 2011 il manifesto pagina 11 ITALIANE I L M A N I F E S T O C U L T U R A & V I S I O N I In molti atenei europei e statunitensi la filosofia politica che si rifà all’operaismo e alla differenza sessuale ha preso il posto della «French Theory». Una scoperta avvenuta negli anni Novanta e culminata con il successo accademico della riflessione di Roberto Esposito Mappe Roberto Ciccarelli L eggere il Grande Inquisitore di Dostoievski e scoprire che gli elettori di sinistra sono quei do- dicimila santi che per ciascuna genera- zione seguono l’insegnamento di Ge- sù Cristo. In questo pamphlet Franco Cassano - L’umiltà del male, Laterza, pp. 94, euro - non nasconde il fascino della storia che Ivan racconta a suo fra- tello Alioscia nel quinto libro dei Fratel- li Karamazov. Nella requisitoria che questo mostruoso vecchio conduce in nome della Chiesa contro l’aristocrati- smo etico dell’insegnamento evangeli- co, il sociologo barese declina tutti i te- mi che rendono il berlusconismo insu- perabile. Gli uomini non potranno mai essere liberi perché sono deboli, pieni di vizi, inconsistenti e sediziosi. Sarà difficile ascoltare una simile confessione dalle labbra del presiden- te del Consiglio o dal sistema che ripro- duce la pandemia dei suoi tic nel magi- stero dell’uomo di Stato, ma oggi è fi- nalmente possibile spiegare la morale del Sultano – perché questo purtroppo è – come una visione dura e spietata dell’uomo. Incapace di redenzione questo bipede è sensibile ai fantasmi della sessualità maschile, al miraggio di una facile ricchezza e alla gloria ter- rena della proprietà. Non potendo ob- bedire a nessuno di questi tre coman- damenti, l’animale umano si limita a sognare l’onnipotenza, vuole essere li- berato dalla sua libertà e sottomesso al- la forza dirompente del miracolo, del mistero televisivo e dell’autorità del- l’unto del Signore. L’errore che il Gran- de Inquisitore rimprovera a Cristo, e al- la sinistra, è un errore di generosità nei riguardi del vizio. Un errore in cui in- corrono tutti coloro che, mossi da una forte spinta ideale, si lanciano nel vuo- to scoprendo di non avere più amici al- le spalle e rischiano di essere circonda- ti dalla noia del sempre uguale. Il tono profetico e disperato delle re- quisitorie anti-berlusconiane ignora che il nemico degli uomini e delle don- ne non è semplicemente il tiranno me- schino, ma è la maggioranza dei pro- pri simili che hanno rifiutato di salvar- si insieme al battaglione dei dodicimi- la santi che aspira ad un posto nel pa- radiso dell’etica. Il motivo del dissidio è dunque tutto interno al fronte del- l’opposizione: nella rediviva epopea cristiano-socialista tutti dichiarano di volere stare con gli ultimi, ma nessuno affronta le loro debolezze, avvicinando- si al bisogno di certezze e sottomissio- ne. Per essere divini non bisogna lan- ciare il cuore oltre l’ostacolo, ma restar- gli accanto in maniera profana. Al- l’umorismo della situazione non sfug- ge che prima di partecipare al campio- nato dell’etica bisogna affrontare un duro allenamento per controllare l’in- sopportabile presunzione dei migliori e tagliare la testa al narcisismo della perfezione morale. Si sa però che il Grande Inquisitore – in cui si riconosce oggi la figura ba- rocca di Giuliano Ferrara - lavora per dividere gli uomini migliori dagli altri, presentandoli come un’aristocrazia bo- riosa e innamorata del proprio purita- nesimo. E per questa ragione bisogna diffidare di lui, anche perché la critica al perfettismo dei sacerdoti della chie- sa giustizialista diventa seria se non re- plica in piccolo quello che condanna su vasta scala. Così facendo Cassano ri- scopre parole bandite dal gergo della sinistra. Chi ha a cuore l’emancipazio- ne deve imparare a fare i conti con l’umiltà del male e non limitarsi a guar- darlo dall’alto. Un altro vecchio trucco di questi barzellettieri da crociera è di spiegare il desiderio di emancipazione con la velleità di restare sempre giova- ni. Ma chi vive nel mondo degli umili sa che il vero problema oggi è nascere già vecchi come i conservatori, dise- gnando il mondo come una cristalleria in cui un respiro è più devastante del passo di un elefante. Ai dodicimila san- ti che hanno sopportato decine d’anni di deserto mangiando locuste e radici va rivolta una preghiera: uscite dalla trincea e pensate che se per la maggio- ranza è impossibile salire in aria, non è detto che per molti sia meglio salire un gradino alla volta. Matteo Pasquinelli P er una bizzarra nemesi non del tutto ca- suale, nel momento di massima crisi del- l’impero universitario anglo-americano, da Londra alla California, è la filosofia politica italiana ad «egemonizzare» i suoi dipartimenti. Da Toni Negri a Paolo Virno, da Christin Maraz- zi a Sandro Mezzadra, da Maurizio Lazzarato Lazzarato a Franco Berardi, basta guardare ai nomi che compaiono ai primi posti delle pub- blicazioni accademiche australiane (scovati da- gli impassibili algoritmi di Google Scholar) o nei cataloghi delle biennali tedesche (ad opera di più mondani critici d’arte) per capire come la repressione dell’anomalia italiana abbia pro- dotto per contrappasso una fertile diaspora teo- rica. Sotto l’etichetta di Italian Theory si organiz- zano oggi conferenze, seminari e pubblicazioni su quei pensatori che nell’ultima decade han- no sdoganato l’operaismo italiano oltreoceano o segnato il ritorno delle categoria del biopoliti- co (con Giorgio Agamben e Roberto Esposito) in quegli ambienti universitari anglofoni narco- tizzati dalla rivoluzione laica dei cultural stu- dies, dalla filosofia postmoderna e dalla tradi- zione analitica. Solo nel 2010 si veda la confe- renza dell’università di Pittsburgh per il decen- nale della pubblicazione di Empire di Hardt e Negri, o il simposio alla Cornell University di New York sul concetto di comune (il manifesto del 18 Settembre e del 14 Ottobre 2010). Ad Am- sterdam, il prossimo 19 maggio, si terrà la con- ferenza Post-Autonomia sulla disseminazione del pensiero operaista tra le nuove generazioni di scholars (finanziata da una generosa borsa pubblica). Ma si tratta ovviamente di una nemesi a due facce, se la critica al capitalismo cognitivo, la nozione di moltitudine e la figura del lavorato- re precario, sono recuperati dai sistemi accade- mici per cambiare casacca alla teoria senza mettere in discussione gerarchie e discipline, quando i suoi autori hanno sempre vissuto ai margini o non possono mettere più piede nel- l’accademia nostrana. Genealogia del materialismo antagonista Il nome Italian Theory indica da sè una ricezio- ne anglofona e fa il calco alla precedente eti- chetta French Theory con la quale è stato assor- bito e neutralizzato il post-strutturalismo fran- cese (da autori d’ontologia come Foucault, De- leuze e Guattari ad aeroliti della specie Baudril- lard). La prima breccia all’interno dell’accade- mica americana va però fatta risalire alla pub- blicazione di Radical Thought in Italy da parte di Michael Hardt e Paolo Virno nel 1996, prepa- rata con anticipo dall’antologia Autonomia: Post Political Politics curata da Lotringer e Ma- razzi in collaborazione con il comitato «7 apri- le» nel lontano 1980, quando ancora New York mescolava graffiti di Basquiat e teoria under- ground. Ma al di là degli equlibrismi accademi- ci, il passaggio dalla French Theory alla Italian Theory ha sue motivazioni storiche. Nel pamphlet La differenza italiana (2005), Negri ricorda come il pensiero postmoderno abbia fatto saltare le categorie hegeliane, bor- ghesi e patriarcali, del moderno, ma lasciando un orizzonte di differenze ambivalenti e indeci- dibili. Negli anni precedenti, spettava già al- l’operaismo di Tronti e al femminismo di Luisa Muraro, scrive Negri, portare la polarizzazione delle lotte sociali nell’«ontologia italiana» del Novecento. Fatta propria l’intuizione separati- sta ed irriducibile dei maestri, Negri rivendica per l’operaismo il progetto di una ontologia co- stituente riprendendo il filo del discorso laddo- ve il pensiero francese aveva lasciato desiderio e micropolitica. Il testo di Negri fornisce il titolo anche all’an- tologia The Italian Difference: Between Nihili- sm and Biopolitics (2009), una panoramica che affianca alla tradizione costituente quelle del ni- chilismo di Massimo Cacciari e della biopoliti- ca di Giorgio Agamben. Seguendo questa trac- cia, più recentemente Roberto Esposito nel suo Pensiero vivente. Origine e attualità della filoso- fia italiana (pubblicato da Einaudi e percepito come il breviario dell’Italian Theory prima an- cora di essere tradotto in inglese) ha descritto la cifra della tradizione italiana nel suo essere antagonista al potere, coerenza pagata a caro prezzo da Bruno fino a Gramsci. Questo sinolo di tumulto e prassi istituente, questa immanen- za dell’antagonismo, viene tracciata da Roberto Esposito in una storia ideale che da Tronti risa- le fino a Machiavelli. Materialismo antagonista che viene estetizzato nella Battaglia di Anghia- ri di Leonardo, figura della Lotta che fonde l’uo- mo e l’animale come nel centauro machiavel- liano. Esposito contestualizza l’emergere della «dif- ferenza italiana» con la crisi di quelle scuole eu- ropee che si sono fondate sul primato del lin- guaggio: la filosofia analitica inglese, l’ermenu- tica tedesca e il decostruzionismo francese. Fuori dai recinti accademici, questa crisi viene forse meglio esercitata dalla pressione delle nuove forme del lavoro. Dal frammento sulle macchine nei Grundrisse di Karl Marx al concet- to di capitalismo cognitivo, infatti il pensiero operaista non ha mai considerato il linguaggio «casa dell’essere», ma al contrario mezzo di pro- duzione al centro del lavoro contemporaneo. Principale motivo per cui oltreoceano si adotta l’Italian Theory è proprio per essere una delle poche letture antagoniste e non logocentriche dei grandi apparati dell’«economia della cono- scenza», del lavoro immateriale e della network society (come già nel 1999 il canadese Nick Dyer-Witheford notava nel suo libro Cyber- Marx). Alla svolta linguistica dell’economia politica (sia marxista e neoliberale), non ha mai corri- sposto una svolta economico-politica della filo- sofia del linguaggio. In questo si può compren- dere forse l’operazione filosofica di Virno negli ultimi anni: invece di forzare i bastioni della fi- losofia analitica dal di fuori, ne ha cercato le chiavi per aprirli alla politica dall’interno. In modo simile, appunto dall’interno della scuola analitica e cercando di separarsi dall’eredità di Alain Badiou, il gruppo di giovani filosofi della corrente Speculative Realism (che si raccoglie intorno alla rivista inglese Collapse) si sforza og- gi di raggiungere le sponde del materialismo continentale per via negativa, ma impiegando centinaia di pagine di Kant per eguagliare quel concetto di conatus per il quale a Spinoza è ba- stata una proposizione dell’Etica. Ideologia del realismo capitalista Il mondo accademico nord-europeo si trova an- cora dominato da un’altra scuola logocentrica dimenticata da Esposito, la psicanalisi lacania- na di rito sloveno, che vede appunto il capitali- smo semplicemente come un effetto di realtà ideologicamene mediato. Il pendolino ipnotico di Slavoj Zizek non lascia vie di scampo e recita più o meno così: l’ideologia non è qualcosa di conscio e astratto: per esempio, ogni qual volta crediamo che l’economia sia un fatto empirico e naturale, è proprio lì che interviene l’ideolo- gia. Questa lettura viene applicata con la stessa generosità sia all’economista borghese che a quello marxista, anch’esso responsabile di ec- cessivo economicismo (come Badiou ama sotto- lineare). Per questa scuola di pensiero il proble- ma si chiama quindi «Realismo Capitalista» (per citare il titolo di un recente libro di Mark Fisher) e l’impegno politico si risolve nell’eserci- zio psicoanalitico di sollevare il velo di maya dell’ideologia quotidiana. Contro il peccato della «passione per il reale» del pensiero italiano, Zizek descrive l’attivismo esattamente come il desiderio lacaniano: non legato all’hic et nunc, ma come segno che ri- manda sempre altrove. Il comportamento eco- nomico si descrive quindi come un linguaggio, l’immaginario politico diventa una grammati- ca manipolabile, la militanza è sempre pre-der- minata da un «ordine simbolico» in una griglia di ruoli. Come per Badiou, Zizek viene presen- tato come marxista nei consessi di tutto il mon- do: ma il suo è un «marxismo senza Marx», mentre la critica di una economia politica è re- legata al ruolo di simulacro dell’ideologia. In tutto questo non ci si stupisce che Zizek confon- da la filosofia con la critica cinematografica. Il suo è non tanto un «Comunismo Metafisico» che non si sporcherebbe le mani con le lotte re- ali, come spesso si fa notare. Forse si tratta for- se più semplicemente di un «Comunismo Ava- tar». E non è casuale che la seconda edizione della conferenza Idea of Communism organiz- zata da Zizek e Badiou a Berlino nel 2010 fosse dedicata soprattutto alle produzioni teatrali sul tema. Ma se il pensiero italiano è andato «a scuola» nelle lotte degli anni Sessanta e Settanta, qual è stata la palestra storica di questa peculiare para- digma teorico? L’insistente lettura di Zizek sul neoliberalismo come apparato ideologico non si forma paradossalmente sotto il Washington consensus, bensì ai tempi del del realismo socia- lista. Come la Scuola di Francoforte adottò l’ap- parato di propaganda nazista come calco per descrivere l’industria culturale americana, in modo simile Zizek impiega contro il pensiero unico neoliberista gli strumenti concettuali svi- luppati sotto l’ideologia della cortina di ferro e i suoi apparati. In fondo quella era la forma del conflitto percepita, vissuta e sofferta nel quoti- diano della ex-Jugoslavia, ideologica appunto, ma probabilmente non adatta oggi a descrivere il capitalismo, biopolitico e non. Crisi globale dell’economia Questa interpretazione del politico come pro- blema ideologico produce continue ricadute. Fiancheggiando la vulgata lacaniana, il recente convegno di AmsterdamThe Populist Front de- dicato all’analisi critica dei populismi contem- poranei, dal Tea Party all’olandese Geert Wil- ders passando ovviamente per l’Italia, sembra pericolosamente suggerire ai movimenti e ai partiti di sinistra di cimentarsi nell’invenzione del nemico per uscire dalla propria crisi. Si ri- vendicano qui tecnologie mitopoietiche simili a quelle che i leader populisti europei usano nella costruzione delle fobie di massa, ma pare un po’ isterico il bisogno di dotarsi di un un «ne- mico immaginario», proprio nel momento in cui il nord e il sud sono attraversati da nuovi movimenti sociali. Alla deriva «populista» del- l’intelligentsia olandese e a questo nodo irrisol- to dell’immaginario politico nel dibattito filoso- fico, sembra rispondere a distanza la Scuola Eu- ropea di Immaginazione Sociale che Berardi Bi- fo sta organizzando per il prossimo 21 maggio a San Marino. CONTINUA |PAGINA 12 L’ASCESA IN CATTEDRA DI UN PENSIERO CRITICO FRANCO CASSANO La morale posticcia di un sultano che incanta gli umani FOTO REUTERS

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MERCOLEDÌ 13 APRILE 2011 il manifesto pagina 11

ITALIANE

I L M A N I F E S T O C U L T U R A & V I S I O N I

In molti atenei europeie statunitensi la filosofia politicache si rifà all’operaismoe alla differenza sessualeha preso il posto della «FrenchTheory». Una scopertaavvenuta negli anni Novantae culminata con il successoaccademico della riflessionedi Roberto Esposito

MappeRoberto Ciccarelli

Leggere il Grande Inquisitore diDostoievski e scoprire che glielettori di sinistra sono quei do-

dicimila santi che per ciascuna genera-zione seguono l’insegnamento di Ge-sù Cristo. In questo pamphlet FrancoCassano - L’umiltà del male, Laterza,pp. 94, euro - non nasconde il fascinodella storia che Ivan racconta a suo fra-tello Alioscia nel quinto libro dei Fratel-li Karamazov. Nella requisitoria chequesto mostruoso vecchio conduce innome della Chiesa contro l’aristocrati-smo etico dell’insegnamento evangeli-co, il sociologo barese declina tutti i te-mi che rendono il berlusconismo insu-perabile. Gli uomini non potrannomai essere liberi perché sono deboli,pieni di vizi, inconsistenti e sediziosi.

Sarà difficile ascoltare una simileconfessione dalle labbra del presiden-te del Consiglio o dal sistema che ripro-duce la pandemia dei suoi tic nel magi-stero dell’uomo di Stato, ma oggi è fi-nalmente possibile spiegare la moraledel Sultano – perché questo purtroppoè – come una visione dura e spietatadell’uomo. Incapace di redenzionequesto bipede è sensibile ai fantasmidella sessualità maschile, al miraggiodi una facile ricchezza e alla gloria ter-rena della proprietà. Non potendo ob-bedire a nessuno di questi tre coman-damenti, l’animale umano si limita asognare l’onnipotenza, vuole essere li-berato dalla sua libertà e sottomesso al-la forza dirompente del miracolo, delmistero televisivo e dell’autorità del-l’unto del Signore. L’errore che il Gran-de Inquisitore rimprovera a Cristo, e al-la sinistra, è un errore di generosità neiriguardi del vizio. Un errore in cui in-corrono tutti coloro che, mossi da unaforte spinta ideale, si lanciano nel vuo-to scoprendo di non avere più amici al-le spalle e rischiano di essere circonda-ti dalla noia del sempre uguale.

Il tono profetico e disperato delle re-quisitorie anti-berlusconiane ignorache il nemico degli uomini e delle don-ne non è semplicemente il tiranno me-schino, ma è la maggioranza dei pro-pri simili che hanno rifiutato di salvar-si insieme al battaglione dei dodicimi-la santi che aspira ad un posto nel pa-radiso dell’etica. Il motivo del dissidioè dunque tutto interno al fronte del-l’opposizione: nella rediviva epopeacristiano-socialista tutti dichiarano divolere stare con gli ultimi, ma nessunoaffronta le loro debolezze, avvicinando-si al bisogno di certezze e sottomissio-ne. Per essere divini non bisogna lan-ciare il cuore oltre l’ostacolo, ma restar-gli accanto in maniera profana. Al-l’umorismo della situazione non sfug-ge che prima di partecipare al campio-nato dell’etica bisogna affrontare unduro allenamento per controllare l’in-sopportabile presunzione dei migliorie tagliare la testa al narcisismo dellaperfezione morale.

Si sa però che il Grande Inquisitore– in cui si riconosce oggi la figura ba-rocca di Giuliano Ferrara - lavora perdividere gli uomini migliori dagli altri,presentandoli come un’aristocrazia bo-riosa e innamorata del proprio purita-nesimo. E per questa ragione bisognadiffidare di lui, anche perché la criticaal perfettismo dei sacerdoti della chie-sa giustizialista diventa seria se non re-plica in piccolo quello che condannasu vasta scala. Così facendo Cassano ri-scopre parole bandite dal gergo dellasinistra. Chi ha a cuore l’emancipazio-ne deve imparare a fare i conti conl’umiltà del male e non limitarsi a guar-darlo dall’alto. Un altro vecchio truccodi questi barzellettieri da crociera è dispiegare il desiderio di emancipazionecon la velleità di restare sempre giova-ni. Ma chi vive nel mondo degli umilisa che il vero problema oggi è nasceregià vecchi come i conservatori, dise-gnando il mondo come una cristalleriain cui un respiro è più devastante delpasso di un elefante. Ai dodicimila san-ti che hanno sopportato decine d’annidi deserto mangiando locuste e radiciva rivolta una preghiera: uscite dallatrincea e pensate che se per la maggio-ranza è impossibile salire in aria, non èdetto che per molti sia meglio salire ungradino alla volta.

Matteo Pasquinelli

Per una bizzarra nemesi non del tutto ca-suale, nel momento di massima crisi del-l’impero universitario anglo-americano,

da Londra alla California, è la filosofia politicaitaliana ad «egemonizzare» i suoi dipartimenti.Da Toni Negri a Paolo Virno, da Christin Maraz-zi a Sandro Mezzadra, da Maurizio LazzaratoLazzarato a Franco Berardi, basta guardare ainomi che compaiono ai primi posti delle pub-blicazioni accademiche australiane (scovati da-gli impassibili algoritmi di Google Scholar) onei cataloghi delle biennali tedesche (ad operadi più mondani critici d’arte) per capire comela repressione dell’anomalia italiana abbia pro-dotto per contrappasso una fertile diaspora teo-rica.

Sotto l’etichetta di Italian Theory si organiz-zano oggi conferenze, seminari e pubblicazionisu quei pensatori che nell’ultima decade han-no sdoganato l’operaismo italiano oltreoceanoo segnato il ritorno delle categoria del biopoliti-co (con Giorgio Agamben e Roberto Esposito)in quegli ambienti universitari anglofoni narco-tizzati dalla rivoluzione laica dei cultural stu-dies, dalla filosofia postmoderna e dalla tradi-zione analitica. Solo nel 2010 si veda la confe-renza dell’università di Pittsburgh per il decen-nale della pubblicazione di Empire di Hardt eNegri, o il simposio alla Cornell University diNew York sul concetto di comune (il manifestodel 18 Settembre e del 14 Ottobre 2010). Ad Am-sterdam, il prossimo 19 maggio, si terrà la con-ferenza Post-Autonomia sulla disseminazionedel pensiero operaista tra le nuove generazionidi scholars (finanziata da una generosa borsapubblica).

Ma si tratta ovviamente di una nemesi a duefacce, se la critica al capitalismo cognitivo, lanozione di moltitudine e la figura del lavorato-re precario, sono recuperati dai sistemi accade-mici per cambiare casacca alla teoria senzamettere in discussione gerarchie e discipline,quando i suoi autori hanno sempre vissuto aimargini o non possono mettere più piede nel-l’accademia nostrana.

Genealogia del materialismo antagonistaIl nome Italian Theory indica da sè una ricezio-ne anglofona e fa il calco alla precedente eti-chetta French Theory con la quale è stato assor-bito e neutralizzato il post-strutturalismo fran-cese (da autori d’ontologia come Foucault, De-leuze e Guattari ad aeroliti della specie Baudril-lard). La prima breccia all’interno dell’accade-mica americana va però fatta risalire alla pub-blicazione di Radical Thought in Italy da partedi Michael Hardt e Paolo Virno nel 1996, prepa-rata con anticipo dall’antologia Autonomia:Post Political Politics curata da Lotringer e Ma-razzi in collaborazione con il comitato «7 apri-le» nel lontano 1980, quando ancora New Yorkmescolava graffiti di Basquiat e teoria under-ground. Ma al di là degli equlibrismi accademi-ci, il passaggio dalla French Theory alla ItalianTheory ha sue motivazioni storiche.

Nel pamphlet La differenza italiana (2005),Negri ricorda come il pensiero postmodernoabbia fatto saltare le categorie hegeliane, bor-ghesi e patriarcali, del moderno, ma lasciandoun orizzonte di differenze ambivalenti e indeci-dibili. Negli anni precedenti, spettava già al-l’operaismo di Tronti e al femminismo di LuisaMuraro, scrive Negri, portare la polarizzazionedelle lotte sociali nell’«ontologia italiana» delNovecento. Fatta propria l’intuizione separati-sta ed irriducibile dei maestri, Negri rivendicaper l’operaismo il progetto di una ontologia co-stituente riprendendo il filo del discorso laddo-ve il pensiero francese aveva lasciato desiderioe micropolitica.

Il testo di Negri fornisce il titolo anche all’an-tologia The Italian Difference: Between Nihili-sm and Biopolitics (2009), una panoramica cheaffianca alla tradizione costituente quelle del ni-chilismo di Massimo Cacciari e della biopoliti-ca di Giorgio Agamben. Seguendo questa trac-cia, più recentemente Roberto Esposito nel suoPensiero vivente. Origine e attualità della filoso-fia italiana (pubblicato da Einaudi e percepitocome il breviario dell’Italian Theory prima an-cora di essere tradotto in inglese) ha descrittola cifra della tradizione italiana nel suo essere

antagonista al potere, coerenza pagata a caroprezzo da Bruno fino a Gramsci. Questo sinolodi tumulto e prassi istituente, questa immanen-za dell’antagonismo, viene tracciata da RobertoEsposito in una storia ideale che da Tronti risa-le fino a Machiavelli. Materialismo antagonistache viene estetizzato nella Battaglia di Anghia-ri di Leonardo, figura della Lotta che fonde l’uo-mo e l’animale come nel centauro machiavel-liano.

Esposito contestualizza l’emergere della «dif-ferenza italiana» con la crisi di quelle scuole eu-ropee che si sono fondate sul primato del lin-guaggio: la filosofia analitica inglese, l’ermenu-tica tedesca e il decostruzionismo francese.Fuori dai recinti accademici, questa crisi vieneforse meglio esercitata dalla pressione dellenuove forme del lavoro. Dal frammento sullemacchine nei Grundrisse di Karl Marx al concet-to di capitalismo cognitivo, infatti il pensierooperaista non ha mai considerato il linguaggio«casa dell’essere», ma al contrario mezzo di pro-duzione al centro del lavoro contemporaneo.Principale motivo per cui oltreoceano si adottal’Italian Theory è proprio per essere una dellepoche letture antagoniste e non logocentrichedei grandi apparati dell’«economia della cono-scenza», del lavoro immateriale e della networksociety (come già nel 1999 il canadese NickDyer-Witheford notava nel suo libro Cyber-Marx).

Alla svolta linguistica dell’economia politica(sia marxista e neoliberale), non ha mai corri-sposto una svolta economico-politica della filo-sofia del linguaggio. In questo si può compren-dere forse l’operazione filosofica di Virno negliultimi anni: invece di forzare i bastioni della fi-losofia analitica dal di fuori, ne ha cercato lechiavi per aprirli alla politica dall’interno. Inmodo simile, appunto dall’interno della scuolaanalitica e cercando di separarsi dall’eredità diAlain Badiou, il gruppo di giovani filosofi dellacorrente Speculative Realism (che si raccoglieintorno alla rivista inglese Collapse) si sforza og-gi di raggiungere le sponde del materialismocontinentale per via negativa, ma impiegandocentinaia di pagine di Kant per eguagliare quelconcetto di conatus per il quale a Spinoza è ba-stata una proposizione dell’Etica.

Ideologia del realismo capitalistaIl mondo accademico nord-europeo si trova an-cora dominato da un’altra scuola logocentricadimenticata da Esposito, la psicanalisi lacania-na di rito sloveno, che vede appunto il capitali-smo semplicemente come un effetto di realtàideologicamene mediato. Il pendolino ipnoticodi Slavoj Zizek non lascia vie di scampo e recitapiù o meno così: l’ideologia non è qualcosa diconscio e astratto: per esempio, ogni qual voltacrediamo che l’economia sia un fatto empiricoe naturale, è proprio lì che interviene l’ideolo-gia. Questa lettura viene applicata con la stessagenerosità sia all’economista borghese che aquello marxista, anch’esso responsabile di ec-cessivo economicismo (come Badiou ama sotto-lineare). Per questa scuola di pensiero il proble-ma si chiama quindi «Realismo Capitalista»(per citare il titolo di un recente libro di MarkFisher) e l’impegno politico si risolve nell’eserci-zio psicoanalitico di sollevare il velo di mayadell’ideologia quotidiana.

Contro il peccato della «passione per il reale»del pensiero italiano, Zizek descrive l’attivismoesattamente come il desiderio lacaniano: nonlegato all’hic et nunc, ma come segno che ri-manda sempre altrove. Il comportamento eco-

nomico si descrive quindi come un linguaggio,l’immaginario politico diventa una grammati-ca manipolabile, la militanza è sempre pre-der-minata da un «ordine simbolico» in una grigliadi ruoli. Come per Badiou, Zizek viene presen-tato come marxista nei consessi di tutto il mon-do: ma il suo è un «marxismo senza Marx»,mentre la critica di una economia politica è re-legata al ruolo di simulacro dell’ideologia. Intutto questo non ci si stupisce che Zizek confon-da la filosofia con la critica cinematografica. Ilsuo è non tanto un «Comunismo Metafisico»che non si sporcherebbe le mani con le lotte re-ali, come spesso si fa notare. Forse si tratta for-se più semplicemente di un «Comunismo Ava-tar». E non è casuale che la seconda edizionedella conferenza Idea of Communism organiz-zata da Zizek e Badiou a Berlino nel 2010 fossededicata soprattutto alle produzioni teatrali sultema.

Ma se il pensiero italiano è andato «a scuola»nelle lotte degli anni Sessanta e Settanta, qual èstata la palestra storica di questa peculiare para-digma teorico? L’insistente lettura di Zizek sulneoliberalismo come apparato ideologico non

si forma paradossalmente sotto il Washingtonconsensus, bensì ai tempi del del realismo socia-lista. Come la Scuola di Francoforte adottò l’ap-parato di propaganda nazista come calco perdescrivere l’industria culturale americana, inmodo simile Zizek impiega contro il pensierounico neoliberista gli strumenti concettuali svi-luppati sotto l’ideologia della cortina di ferro e isuoi apparati. In fondo quella era la forma delconflitto percepita, vissuta e sofferta nel quoti-diano della ex-Jugoslavia, ideologica appunto,ma probabilmente non adatta oggi a descrivereil capitalismo, biopolitico e non.

Crisi globale dell’economiaQuesta interpretazione del politico come pro-blema ideologico produce continue ricadute.Fiancheggiando la vulgata lacaniana, il recenteconvegno di Amsterdam The Populist Front de-dicato all’analisi critica dei populismi contem-poranei, dal Tea Party all’olandese Geert Wil-ders passando ovviamente per l’Italia, sembrapericolosamente suggerire ai movimenti e aipartiti di sinistra di cimentarsi nell’invenzionedel nemico per uscire dalla propria crisi. Si ri-vendicano qui tecnologie mitopoietiche similia quelle che i leader populisti europei usanonella costruzione delle fobie di massa, ma pareun po’ isterico il bisogno di dotarsi di un un «ne-mico immaginario», proprio nel momento incui il nord e il sud sono attraversati da nuovimovimenti sociali. Alla deriva «populista» del-l’intelligentsia olandese e a questo nodo irrisol-to dell’immaginario politico nel dibattito filoso-fico, sembra rispondere a distanza la Scuola Eu-ropea di Immaginazione Sociale che Berardi Bi-fo sta organizzando per il prossimo 21 maggioa San Marino. CONTINUA |PAGINA 12

L’ASCESA IN CATTEDRADI UN PENSIERO CRITICO

FRANCO CASSANO

Lamorale posticciadi un sultanoche incanta gli umani

FOTO REUTERS

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pagina 12 il manifesto MERCOLEDÌ 13 APRILE 2011

Cristina PiccinoNYON

Thomas Heise lo aveva rilanciato al-l’attenzione internazionale Mate-rial (2009) al Forum di Berlino. Il

film ritrovava a distanza di tempo le im-magini che il cineasta, nato nella ex-Ddr,aveva girato nei giorni della caduta delMuro: le discussioni, i confronti spietatitra le persone sul loro ruolo nel sistema, isogni di un popolo. Il crollo di un siste-ma coercitivo, la distanza delle personerispetto alla Storia, e ai vissuti personali,lo spaesamento. Quelle immagini eranoun pezzo di vita del regista a cui si lega inmodo indissolubile la sua ricerca artisti-ca. Heise, punk dell’immaginario nellaGermania socialista, messo a tacere dalleistituzioni che bloccano i suoi film primache vedano luce, ha costruito la sua poe-tica su questo conflitto, la tensione traideologia, controllo, libertà individuale, esu un’idea di una memoria collettiva co-me archivio personale.

Qualche mese dopo Thomas Heise èarrivato in Italia, il Festival dei Popoli diFirenze, gli ha dedicato una retrospetti-va. Lì abbiamo scoperto altri film comeKinder, Wie die Zeit vergeht (2007) , in cuiil regista lavora con lo stesso «metodo»: apartire dai suoi «materiali», in quel casole immagini di un film sugli adolescentinella Ddr bloccato dal governo, li ripren-de cercando i sopravvissuti di allora.

Nel nuovo film Heise abbandona laGermania per filmare in un villaggio inArgentina, ai piedi delle Ande, Rio Blan-quito, 2000 km da Buenos Aires. Ci è ri-masto sei settimane nell’estate del 2009,e quattro l’inverno del 2010, infatti le duestagioni scandiscono la costruzione nar-rativa. Il film nasce da una «commissio-ne», se così possiamo dire per un film-maker come Heise, per la manifestazio-ne German visions of Latina America, inoccasione del bicentenario dell’indipen-denza argentina dalla Spagna.

Sonnensystem, Il sistema solare, ci por-ta nella vita del villaggio in cui vive la co-munità di nativi Tinkunaku. Non ci sonodialoghi, non ci sono personaggi se nongli abitanti ripresi nel gesto quotidiano:un’alternanza di lavoro e rito, religioso,pagano, festivo. Lavorano i bimbi, gli uo-mini, le donne. Nei campi, col bestiame,al macello. A volte la sera alla tavernaqualcuno suona

Heise filma benissimo, le sue immagi-ni sono nette, seducenti ma mai estetiz-zanti. E piano piano noi spettatori ci tro-viamo lì con lui, quasi a condividere quelrespiro di vita. Il suo filmare è un lavorosul tempo immutabile di quei rituali, del-

le stagioni, del fare. . A un certo punto pe-rò, viene da chiedersi: e ora?

La risposta arriva negli ultimi dieci mi-nuti, una lunga carrellata dal treno su unghetto. Siamo a Buenos Aires, la periferiacresciuta intorno alla stazione è la bidon-ville che abitano i nativi, gli stessi che fi-no a poco prima abbiamo visto lottarecontro le asprezze della natura e di unapovertà che non è però emarginazione.

La scelta appare spiazzante ma ancheprogrammatica: all’improvviso ciò che ilregista ha lasciato fuoricampo irrompe,non in una forma «aperta» ma con unpensiero già organizzato. I nativi, massa-crati dal colonialismo, dalla proprietà ter-riera, cancellati nella società argentina,servi senza parola, sembrano predestina-ti alla miseria umiliante appena arrivanoin città, perché così impone il «sistemasolare» che li tiene lontani.

Questa considerazione sembra porciun’altra questione più ampia (che forseva al di là di Heise): qual è il punto di vi-sta (o di osservazione) del cinema del rea-le rispetto al contemporaneo? Quasi a di-re dei limiti, e della possibile inadegua-tezza, rispetto alla realtà.

È uno stato che ricorre nella selezionedel festival Visions du Reel, uno dei piùimportanti appuntamenti col documen-tario. Da quest’anno la direzione è di Lu-ciano Barisone, che ritrova alcuni suoi ci-neasti del cuore - José Luis Guerin, Mer-cedes Alvarez, lo stesso Heise - e molti al-tri nuovi, fabbricando col suo gruppo dilavoro un programma denso, tre concor-

si, lunghi, medio e cortometraggi, i «Pri-mi passi» delle scuole, gli atelier, conGuerin e Jay Rosenblatt, un focus sullaColombia, un omaggio alla molto bravaregista brasiliana Marilia Rocha.

La cittadina sul lago, con tracce di pas-saggi romani, vicinissima a Ginevra, ac-coglie anche il mercato, Doc Outlook In-ternationl Market, dove i registi cercanodi chiudere i loro progetti oltre che ven-dere i film. Il festival occupa diverse sale,è abbastanza radicato nella città, una bel-la idea della nuova direzione è stata crea-re subito un luogo di incontro: nella piaz-za davanti alla Sala Comunale, c’è unatenda dove si mangia, si beve un bicchie-re sfidando gli orari stretti ancora fuoristagione dei locali. E soprattutto si riescea incontrare le persone, cosa che per i fe-stival più specialistici è fondamentale.

Tornando ai film, ciò che si cerca nella«scommessa» del contemporaneo è unconfronto non dogmatico, che interrogalo spettatore e lo stesso fare-cinema. Daqui parte anche Cadenza d’inganno di Le-onardo Di Costanzo, nel concorso medio-metraggi, uno dei migliori registi di real-tà che ci sono in Italia, il suo A scuola(2003) è stato subito un riferimento perle generazioni di registi più giovani.

Qui Di Costanzo riprende delle vec-chie immagini, un film che aveva comin-ciato a girare a Napoli dieci anni fa. Sia-mo nei quartieri dove è più difficile cre-scere, i ragazzi del centro sociale Damm,a Montesanto lavorano con i giovanissi-mi, i bambini e gli adolescenti, organizza-

HOLLYWOODJohn Travolta nei pannidi John Gotti senior

MOSTRE · Dal Giappone, artisti «tra paradiso e inferno»

Unparadigmaritrovatoper l’innocenzaperduta

cine

ma

MOSTRE: A CURA DELLA JAPAN SOCIETY,BYE BYE KITTY !!!, NEW YORK, NEW MUSEUM,

FINO AL 12 GIUGNO

Gian Maria Annovi

Dopo quattro anni dall’inaugurazio-ne della nuova sede sulla Bowery,qualche mese fa il New Museum

di New York ha rimosso dalla facciata quel-lo che pareva ormai diventato il suo simbo-lo: una grande scritta arcuata, a tondeggia-ti caratteri arcobaleno, che riportava unacolloquiale esclamazione di gioia o appro-vazione , «Hell, Yes!». Il carattere utilizzatoper quest’opera, creata dall’artista svizzeroUgo Rondinone, richiamava volutamentel’estetica di una delle icone dalla culturapop del Giappone, Hello Kitty, che in appe-na trent’anni è diventata non solo un busi-ness internazionale multimiliardario, mauno dei simboli dell’estetica del «kawaii»,ovvero del carino, del tenero, dell’infantilee dell’innocente. Hello Kitty è l’immaginedi un paese che vuole rappresentarsi comearmonico, pacifico, radicato in un’ideaquasi infantile di felicità e gentilezza.

Il titolo della mostra inaugurata alla Ja-pan Society pochi giorni dopo il terribileterremoto che ha colpito il nord del Giap-pone – Bye Bye Kitty !!! – non è, come qual-cuno potrebbe pensare, un enfatico addioall’opera di Rondinone, ma piuttosto il se-gno esclamativo di un avvenuto distaccoparziale dal paradigma estetico che ha ca-ratterizzato l’arte contemporanea giappo-nese fino a pochi anni fa. Il sottotitolo del-la mostra, Between Heaven and Hell («traparadiso e inferno»), esplicita però chel’addio riguarda anche la perdita d’inno-cenza della società giapponese di oggi, pro-fondamente trasformata dopo la fine delboom economico post-bellico. Come scri-ve Tetsuya Ozaki in uno dei saggi inclusinel catalogo della mostra, oggi anche i gio-vani artisti giapponesi stanno facendo iconti con l’incapacità della società di offri-re la felicità che aveva loro promesso.

L’artista che sembra aver voluto dialoga-re in maniera più esplicita con le premessedel curatore della mostra, David Elliott, èYoshitomo Nara. La sua opera, la foto diuna tomba curatissima e decorata da duegrandi statue in stile Hello Kitty, rendeesplicito quanto l’estetica del «kawaii» – ilcui principale esponente sulla scena inter-nazionale è Takashi Marakami – nascondaaspetti inquietanti: la tomba si trova infattiin un lussuoso cimitero per animali. Eppu-re, proprio alla luce dei recenti eventi che

hanno stravolto il Giappone, la foto di Na-ra risulta quasi didascalica, mentre altreopere assumono significati forse non com-pletamente voluti. La paura del potere im-prevedibile della natura giace infatti nel-l’inconscio di ogni giapponese, insieme alsenso di alienazione e a una fortissima an-sia sociale.

È così che l’enorme dipinto ad acrilicointitolato Montagne color cenere (2009-11)di Makoto Aida, che mostra monumentalicumuli di cadaveri di impiegati vestiti ditutto punto, su uno sfondo bianco chesembra provocato da una improvvisa can-cellazione del mondo, non può che farpensare, oggi, alle decine di migliaia di per-sone spazzate via dall’acqua e dai detritidello tsunami. La critica a una società disoggetti fatti massa, letteralmente ammas-sati, diventa immagine di un’apocalisseforse annunciata ma mai davvero creduta.Eppure l’ansia collettiva legata a un territo-rio che obbliga costantemente, attraverso isuoi sommovimenti, a considerare la lottaimpervia tra uomo e natura, tra civiltà edentropia, sembra al centro anche del lavo-ro di altri artisti, assai lontani dal proporreun’immagine rassicurante del Giappone.In una delle grandi tele di Manabu Ikeda,intitolata Arca (2005), un intero frammen-to di terra urbanizzata, che sembra si siastaccato dal chissà dove, galleggia, solo,nell’oceano. È una città-panico, un am-masso metropolitano annerito dall’inqui-namento, dove la presenza umana è total-mente assente e il cemento sembra aver in-vaso, come un tumore, ogni spazio, ogniinterstizio.

Più ironiche, ma altrettanto inquietanti,sono le carte realizzate ad acquerello e pen-na da Yamaguchi Akira, che nei modi del-l’illustrazione tradizionale giapponese, mo-stra spazi superantropizzati in sezione,claustrofobici, stipati di essere umani in-tenti a tutte le possibili attività cui è deputa-to un non-luogo come l’aeroporto interna-zionale di Tokyo. Su tutto grava la presen-za invasiva di stilizzate nuvole dorate, cherichiamano alla mente le nubi radioattiveche in questi giorni attraversano i pensieridi molti giapponesi e forse i cieli sopra le lo-ro – e le nostre – teste. Mentre il mondo del-l’arte newyorkese si mobilita in ogni modoper raccogliere fondi per i superstiti del si-sma che ha messo in ginocchio il paese, an-che Bye Bye Kitty!!! sembra confermare chela fine del mito dell’innocenza giapponeseè alle porte. E lo fa dandoci l’impressioneche, con l’asse terrestre, si sia spostato an-che il nostro sguardo.

Non è sufficiente qui lo spazio per ri-cordare gli incontri, più prolifici, del-l’Italian Theory con altre aree geofiloso-

fiche: dagli studi postcoloniali alla teoria queer,dalla cultura della rete al dialogo con le discipli-ne del diritto. L’innovazione teorica continuaautonomamente nella rete delle «università no-madi» tra Francia e Italia, Spagna e Brasile. Sivedano i seminari sul comune di Torino (www.uninomade.org) e Parigi (www.dupublicau-commun.com). Per citare un bell’articolo diBrett Nielson del 2005, è tempo di «provincializ-zare l’operaismo».

La post-autonomia, come viene chiamata,non è un animale storico pronto per la taxider-mia, ma un movimento di pensiero vivente chesposta le barricate fin dentro l’università: si in-carna per esempio nelle mobilitazioni inverna-le nelle università europee. Alle nuove genera-zioni di accademici che si apprestano a cano-

nizzare il pensiero italiano andrebbe lasciato inmano il tizzone ardente della massima trontia-na: la conoscenza è legata alla lotta, conosce ve-ramente chi veramente odia.

E’ soprattutto qui, nella definizione stessa diconoscenza, che l’Italian Theory mostra il suonucleo innovativo e irriducibile: fare teoria si-gnifica ancora oggi porre il problema della con-ricerca, della filosofia del non-filosofico (ovverodel politico), significa il superamento delle di-scipline humboldtiane e degli Studies anglo-americani, la soppressione della gerarchia traoggetto e soggetto dell’inchiesta, significa criti-ca della «conoscenza procedurale» e della peer-review, significa mostrare il ruolo del debito del-la vita studentesca e metter in questione, infi-ne, quell’Ikea della formazione che è il BolognaProcess. Conricerca significa oggi ripensare, findentro l’università, il nodo fra prassi e teorianell’epoca della crisi finanziaria. Non è appun-to un caso che sia la scuola di pensiero che hastudiato da vicino il capitalismo cognitivo ademergere nel momento di crisi della edu-factory globale.

Visions du Reel, uno dei piùimportanti appuntamenticol documentario, raccontanella sua selezione la ricercadi un confronto «aperto»con la realtà. In «Cadenzad’inganno», LeonardoDi Costanzo interroga il suoruolo di regista nel rapporto«mancato» col personaggio.Tra gli altri titoli del concorso,«Il sistema solare», il nuovofilm di Thomas Heise

«SOLAR SYSTEM» DI TIMAS HEISE, FOTO PICCOLA «CADENZADI INGANNO» DI LEONARDO DI COSTANZO

Se lo sguardoè «inadeguato»

Da gossip (con molto fondamento) a certezzza.John Travolta nel suo prossimo film sarà John«Teflon Don Gotti», il mafioso più potente efamoso di New York negli Anni Ottanta. JohnGotti senior, nato nel Bronx, a New York, nel1940 da due italo-americani, John e FilomenaGotti, morì in carcere nel 2002 dopo esserestato condannato dieci anni prima all'ergastoloper una incredibile sfilza DI reati: omicidi inserie, estorsione, gioco d'azzardo, riciclaggio didenaro, ostruzione alla giustizia ed evasionefiscale. Uno dei figli, John Gotti junior, non hamai accettato l'idea che il padre venisse ricor-dato «semplicemente come un gangster mafio-so». «Mio padre - ha raccontato a New York nelcorso di una conferenza stampa - era molto,molto più di questo. Un uomo che ha pagatofino in fondo per tutto ciò che ha commesso».È questo (molto, molto) curioso punto di vistaa convincere Travolta ad accettare la parte delfilm che sarà diretto da Nick Cassavetes. Nelcast confermati anche Joe Pesci mentre è inforse la presenza di Lindsay Lohan. Data previ-sta di uscita il 2012.

MAKOTO AIDA, «MONTAGNE COLOR CENERE», (2009-11)

DA PAGINA 11Matteo Pasquinelli