Lino Lavorgna - Visioni Europee" - Archivio 2015
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L’importanza di sentirsi “Europei”
Se uno vive in un spazio angusto, con famiglia numerosa, è naturale che sogni
una grande villa, con piscina e tanto verde. Non sempre ciò è possibile,
naturalmente. Questo esempio serve a spiegare le immani sciocchezze perpetrate
da chi, potendo agevolmente “effettuare il trasloco”, vi rinuncia. Lo spazio
angusto, che tanti guasti ha prodotto nel corso dei secoli, si chiama
“nazionalismo”. La villa meravigliosa, la meta “a portata di mano” e purtroppo
vessata per ragioni che affronteremo dettagliatamente in questa rubrica, mese
dopo mese, si chiama “Europeismo”, termine che caratterizza chi ama l’Europa e
la sogna unita. Oggi, purtroppo, non è facile parlare di “Europa Unita”, a causa
dei rigurgiti di nazionalismo presenti un po’ ovunque, conditi di quel
qualunquismo che è il cibo preferito di chi resta prigioniero del proprio “orticello”.
Iniziamo questo viaggio alla scoperta del nostro continente, pertanto, citando
degli aforismi di personaggi che s’innalzano sugli altri, e non di poco, per la loro
statura “etico-morale”, per la loro cultura, per la storia personale, per il lascito di
civiltà e di “esempio” destinato ai posteri. Uno di loro non è nato in Europa, ma il
suo “universalismo” rende ancora più pregnante l’allargamento dei confini,
concettuali e reali, che s’intende proporre.
Il primo personaggio è Hermann Hesse, che tra i tanti meriti vanta anche un
premio Nobel per la letteratura. Un suo aforisma recita testualmente: “Nonostante
il tenero amore che nutro per il mio Paese, non ho mai saputo essere un grande
patriota né un nazionalista. Ben presto è nata in me una diffidenza verso i confini e
un amore profondo, spesso appassionato, per quei beni umani che per loro natura
stanno al di là dei confini, che creano altri rapporti oltre a quelli politici. Col passare
degli anni mi sono sentito ineluttabilmente spinto ad apprezzare maggiormente ciò
che unisce uomini e nazioni piuttosto che ciò che li divide”. Isabelle Allende, dal suo
canto, con la sofferenza nel cuore per le sue tristi vicende, mentre pativa l’esilio,
ci ammonì con questo bellissimo pensiero inserito nel romanzo “D’amore e
ombra”: “L'umanità deve vivere in un mondo unito, dove si mescolino le lingue, i
costumi e i sogni di tutti gli uomini. Il nazionalismo ripugna alla ragione. In nulla
beneficia i popoli. Serve solo affinché in suo nome si commettano i peggiori abusi”.
Luigi Einaudi, il secondo Presidente della Repubblica Italiana, come tutti gli
economisti, prediligeva la sintesi anche nell’eloquio e il suo anatema contro il
nazionalismo si racchiude in una semplice frase: “I nazionalisti sono il veleno delle
nazioni”. Una frase che, pronunciata dopo gli anni terribili della seconda guerra
mondiale, da sola vale quanto un intero libro che spieghi dettagliatamente i mali
del nazionalismo.
Anche l’autore di questo articolo, senza alcune pretesa di mischiarsi con i grandi
nomi citati in precedenza, nel lontano 1977, coniò un aforisma più volte ribadito
nel corso degli anni, ovunque fosse possibile pronunciare parole d’amore per
contrastare quelle che incitavano all’odio, al razzismo, alle divisioni: “Nessun
essere umano ha colpe o meriti per il luogo in cui nasce, ma solo colpe o meriti per
come vive”.
Acquisire una coscienza “Europea” vuol dire “allargare i propri orizzonti”, uscire
da quegli spazi angusti che opprimono e fanno stare male. Vuol dire scoprire un
continente meraviglioso che ha dato i natali a uomini meravigliosi.
Questa rubrica si prefigge di stimolare l’interesse per la “Patria comune”, che
ciascuno, poi, potrà affinare con un percorso personale che di sicuro lo farà
diventare più ricco interiormente. La meta è un sogno chiamato “Stati Uniti
d’Europa”. L’augurio è di riuscire a vedere il sogno trasformarsi in realtà.
Lino Lavorgna
(ALBATROS – GENNAIO 2015)
Uno degli aforismi più celebri di Oscar Wilde recita testualmente: “L'uomo ha
un'insaziabile curiosità di conoscere ogni cosa, eccetto quelle che meritano di
essere conosciute”. Le “radici” sono importanti, ma non sono molti coloro che si
preoccupano di approfondirle.
Il termine Europa, come concetto geografico, era già noto in epoca pre-cristiana e
indicava tutte le terre a ovest della Siria, l’antica Fenicia. Bisogna attendere la
fine del VI secolo, però, affinché il monaco e missionario irlandese Colombano,
assurto agli onori della Santità, ne parlasse con peculiarità vicine alla nostra
percezione. Un altro monaco, Isidoro Pacensis, definì “Europei” i soldati di Carlo
Martello che fermarono l’espansione araba a Poitiers, nella famosa battaglia del
732. Questi concetti, qui espressi sinteticamente, assumono un’importanza
fondamentale alla luce di problematiche che affioreranno nei secoli a venire e che,
in massima parte, persistono ancora. Il mancato riconoscimento delle radici
cristiane nella moderna costituzione europea, ad esempio, reso necessario dalla
banalissima constatazione che esse non sono state le sole e non necessariamente
positive, è ancora oggi oggetto di aspro scontro politico. Ritorneremo in futuro su
questi importanti argomenti, ivi compresi quelli che riguardano il ruolo di Carlo
Magno, che molti vedono come il “padre dell’Europa”, la qualcosa è una delle
mille “bufale” tramandate generazione dopo generazione sui testi di storia.
Parliamo, invece, di una distonia interpretativa che ha alimentato non poca
confusione. Non vi è epopea umana che non affondi le radici nel “mito”, la cui
importanza, già riconosciuta dai sofisti, che in esso vedevano il rivestimento
fantastico di un fatto reale, sarà conclamata nel corso dei secoli grazie al
contributo di filosofi, sociologi e psicanalisti. Il “mito” ci rimanda al famoso “ratto
di Europa”, perpetrato da Zeus, che si trasformò in toro per sedurre la bella
principessa, figlia di Agenore, re dei Fenici. Da Zeus ed Europa nacquero tre figli.
Il primogenito, Minosse, subentrò come re di Creta al padre adottivo Asterione,
che aveva sposato Europa quando Zeus, capriccioso e volubile come tutti gli Dei,
si dedicò ad altre fanciulle. Da quel momento, i Greci, in segno di omaggio per la
moglie e madre dei due re di Creta, chiamarono “Europa” i territori a nord
dell’isola. La genesi simbolica dell’Europa, pertanto, scaturirebbe da uno dei tanti
capricci di Zeus e da una “violenza carnale”. Questo aspetto “del mito”, con
variegate sfumature, si ripete ciclicamente anche in altri contesti, non solo
europei, quasi come se alle origini di ogni evidenza storica vi debba essere sempre
una “macchia” che ponga in rilievo tanto i limiti della natura umana quanto quelli
“divini”. La ricostruzione della leggenda del “ratto”, però, si presta a una diversa
interpretazione sol che si analizzino correttamente le “fonti letterarie” e la ricca
iconografia succedutesi nel corso dei secoli. Su tutto brilla ciò che scrisse Ovidio,
nelle “Metamorfosi”: “Nulla di minaccioso ha l’aspetto, né lo sguardo incute paura;
l’espressione è foriera di pace. La figlia di Agenore si stupisce ch’esso sia così
prosperoso, che non minacci nessun assalto […] Ma poi gli si accosta e a quella
testa così bianca offre fiori. Ne gioisce l’amante, e nell’attesa che giunga la sperata
voluttà, alle mani di lei porge baci […] E ora si scapriccia e balza sull’erba verde,
ora distende il niveo fianco sulla sabbia bionda; e a poco a poco, al cessar del
ritegno, ora offre il petto da palpare alla fanciullesca mano, ora le corna da
avvincere con nuove corone”. Le numerose rappresentazioni iconografiche non
sono meno eloquenti: in nessuna di essa è percepibile “la volontà di violenza” da
parte di Zeus e in tutte, “Europa”, appare serena e felice. Quale donna
resisterebbe alle avances di un Dio, del resto, o al “Lancillotto” di turno? Il
termine “ratto”, pertanto, può essere tranquillamente sostituito con “invito”,
ponendo riparo a una fastidiosa interpretazione del mito. Anche se è solo
leggenda, infatti, l’Europa è una realtà troppo grande e bella per tributarle una
genesi che rimanda a una violenza carnale.
Ammirando le opere dei pittori che hanno raffigurato l’unione di Zeus con Europa
è facile rendersi conto di quanto sia impropria la definizione di “ratto”. Fino al
prossimo mese di maggio, poi, nella ridente cittadina sannita di Sant’Agata de’
Goti, è attiva una mostra che espone il “Cratere di Assteas”, stupendo reperto
archeologico realizzato nel terzo secolo A.C. Anche in esso è ben evidente la
dolcezza di “Europa”, comodamente assisa sul dorso di Zeus e già presaga delle
ore liete che l’aspettano tra le braccia di un Dio.
(Lino Lavorgna)
IL CRATERE DI ASSTEAS
“IL RATTO DI EUROPA” – FRANCOIS BOUCHER
NESSUNO VUOLE LE GUERRE. PERCHE’ SCOPPIANO?
Lino Lavorgna
Venti di guerra in Europa dopo settanta anni. Una guerra che nessuno vuole,
ovviamente, a cominciare da Putin e Merkel, i cui due paesi sono legati da solide
relazioni commerciali e da un vivace scambio culturale.
Eppure le guerre scoppiano.
Nessuno voleva la prima guerra mondiale, per esempio. Non la voleva Guglielmo
II, che con la pace vedeva prosperare la potenza economica della Germania (toh:
corsi e ricorsi). Non la voleva Poincaré, ben consapevole che la Francia, ancora
scossa per la batosta di Sedan e per la perdita dell’Alsazia-Lorena, non era pronta
per una nuova guerra contro la Germania, che tra l’altro l’aveva superata
demograficamente, togliendole il primato di nazione più popolosa del continente.
Non la voleva Nicola II, pacifista, mediocre, tranquillo, amante della caccia, della
bella vita di corte e anch’egli ben consapevole che un esercito in grado di
combattere una guerra non sarebbe stato pronto prima del 1917. Eppure…
Gli attriti tra i vari stati, che coinvolgevano anche l’Inghilterra, cui premeva solo il
mantenimento dell’impero coloniale, ebbero il sopravvento e la guerra scoppiò. Il
nazionalismo, che induce a vedere gli altri come potenziali nemici, fu la scintilla
da cui scaturì il grande incendio. Incendio alimentato dalla “volontà egemonica”,
che in quell’epoca riteneva del tutto naturale “sottomettere” altri simili, anche e
soprattutto in modo violento, per accrescere il proprio ruolo al cospetto del
mondo, acquisire ricchezze e migliorare la qualità della vita, prescindendo da
quella altrui. (Uno dei principali “attriti” riguardava proprio la “divisione” e lo
sfruttamento delle colonie).
Sono passati cento anni. Cosa è cambiato? Poco a quanto pare. I nazionalismi
prosperano e gli interessi commerciali fungono da deterrente solo nei consigli di
amministrazione delle grandi aziende. I governanti, purtroppo, pur non essendo
“guerrafondai”, non riescono ad attuare quelle politiche congiunte in grado di
assicurare una “vera” pace duratura. Per mancanza di coraggio? Per viltà? Per
inadeguatezza al ruolo? Certamente queste componenti sono importanti, ma al
primo posto vi è la paura di compromettere, con alcune scelte, il proprio “potere”,
che scaturisce dal consenso elettorale di europei confusi e delusi. E pazienza se il
rischio è la guerra.
Ribadiamolo a mo’ di mantra, allora, affinché sia ben chiaro! Non esiste
alternativa agli STATI UNITI D’EUROPA; all’Europa dei Popoli sotto un’unica
bandiera, che rispetti le etnie! Non esiste alternativa a una ridefinizione
dell’assetto geografico, che privilegi “le Regioni Europee”, riunite in uno Stato
federato, nel quale ciascuno possa sentirsi legato agli altri, perché “finalmente”
non si sente più sottomesso e dominato. (Ogni riferimento alla situazione attuale
è puramente “voluto”).
Fu facile profeta, George Sorel, quando scrisse, nel 1906: “L’Europa è per
eccellenza la terra delle catastrofi belliche. In America si sono potuti federare popoli
in tutto simili, abitanti in Stati in tutto simili. Bell’affare! Ma come fareste a federare
degli slavi, religiosi o mistici rivoluzionari; degli scandinavi giudiziosi; dei tedeschi
ambiziosi; degli inglesi avidi di supremazia; dei francesi avari; degli italiani afflitti
da una crisi di crescenza; dei balcanici bracconieri; degli ungheresi guerrieri? Come
ristabilireste la calma in un simile cesto di granchi, intento a mordersi fra di loro
tutto il santo giorno? Povera Europa! Perché nasconderle quello che l’attende? Entro
dieci anni essa sprofonderà nella guerra e nell’anarchia”.
E’ tempo di emanciparci e di storicizzare una profezia ancora tremendamente
attuale. Non possiamo contare sulla “politica”, per le ragioni sopra esposte. La
società civile, pertanto, deve trovare nel suo seno le risorse per “elevarsi”,
soprattutto culturalmente. Solo in tal modo si creeranno i presupposti per
delegare il potere politico a persone in grado di scrivere nuove pagine di “Grande
Storia”, avviando un serio processo di unificazione.
Si può partire da una frase di un “Grande Europeo”, ferito nell’animo per il troppo
sangue innocente versato: “Questi meschini europei hanno preferito logorarsi in
lotte intestine, invece di assumere nel mondo il grande ruolo che i Romani seppero
assumersi e mantenere per secoli”. Il suo nome è Paul Valéry, Scrittore e Poeta.
Forse dovremmo imparare ad ascoltare di più sia gli uni sia gli altri.
(Albatros – Marzo 2015)
TURCHIA E GENOCIDIO ARMENO: UNA FERITA APERTA.
di Lino Lavorgna
Il 24 aprile ricorre il centesimo anniversario del genocidio armeno. Nell’impero
ottomano, oramai prossimo alla dissoluzione, si era affermato un progetto che
vedeva al centro le popolazioni turche, omogenee per etnia, religione lingua e
cultura. Per gli armeni, minoranza cristiana nel firmamento islamico, non vi era
più posto. Nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 iniziò lo sterminio. Prima i
militari e l’élite intellettuale e imprenditoriale, poi i vecchi, le donne, i bambini,
allontanati a forza dai luoghi dove vivevano da millenni, deportati nei deserti di
Siria e Mesopotamia e lasciati morire di fame e di sete. Oltre 1.300.000 le vittime,
cui vanno aggiunte le decine di migliaia trucidate dal 1890.
Oggi l’Armenia è un pacifico stato con poco più di tre milioni di abitanti, che
portano nel DNA il retaggio di una tormentata storia. Ottenuta l’indipendenza
dall’URSS nel 1991, ha risolto nel 1994 il lungo conflitto con l’Azerbaigian per il
controllo del Nagorno-Karabakh, un'enclave armena in territorio azero, assegnata
al governo di Baku da Stalin. Il tasso di emigrazione è molto alto, solo in parte
compensato da chi rientra dalla “diaspora”.
Il genocidio armeno rappresenta una delle pagine più buie e atroci della storia
dell’umanità, sulla quale ricade una scarsa attenzione mediatica e culturale. La
propensione diffusa è quella di “dimenticare”, lasciando prevalere i molteplici
interessi nei confronti della Turchia, che proprio non ne vuole sapere di
riconoscere il genocidio, ammettendo le responsabilità dei “Giovani Turchi”.
Storia analoga a quella delle “foibe”, per anni “dimenticate” onde non dispiacere a
Tito, che faceva comodo all’Occidente in chiave anti URSS.
Vorrei dilungarmi a parlare degli Armeni, del loro “spirito” e della profonda
umanità. Questa rubrica, però, è dedicata all’Europa e quindi le loro sofferenze
servono come materia da mettere sulla bilancia per valutare se sia possibile
l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea.
Il problema non è di facile soluzione, anche a causa dell’esiguo numero di stati
che hanno riconosciuto ufficialmente il genocidio. Il non riconoscimento,
ovviamente, non scaturisce dall’ignoranza, ma dal “pragmatismo opportunistico”.
E’ chiaro che tutto sarebbe più semplice se la Turchia rompesse gli indugi e
facesse davvero i conti con la propria storia, togliendo dall’imbarazzo “gli stati
amici”. Purtroppo così non è. In Turchia, addirittura, si rischiano fino a tre anni
di carcere se si parla di “genocidio armeno”. Bene ha fatto la Francia, pertanto,
varando una legge che in galera manda i “negazionisti”. Sarebbe opportuno che
anche gli altri Stati seguissero il suo esempio.
Sono agghiaccianti le argomentazioni addotte dai turchi per “negare” ciò che è
testimoniato da migliaia di foto, da riprese video e dai ricordi dei sopravvissuti. La
morte di migliaia di persone durante le deportazioni, che loro chiamano
“trasferimenti”, non può essere considerata “genocidio” perché in parte si è
provveduto a eliminare i “filo-russi” (la Russia sosteneva la causa armena per
l’ottenimento dell’indipendenza) e tanti sono morti di “fame e di freddo”.
Commenti non servono e consiglio a tutti la visione del bellissimo film dei Fratelli
Taviani, “La masseria delle allodole”, nonché dei tanti documentari reperibili in
rete e un altro stupendo film, “Ararat”, diretto da Atom Egoyan, per “entrare” nel
cuore del genocidio e rendesi conto di quanta ferocia sia stata riversata su una
comunità pacifica e laboriosa.
Tutto ciò premesso, resta il dilemma se un popolo debba pagare o no il fio per il
comportamento dei propri governanti. Ho sempre sostenuto che le grandi
decisioni storiche debbano prescindere dalla realtà contingente, destinata a
mutare. In Turchia, però, non è ancora possibile scindere il pensiero dei
governanti (tra i quali, è bene ricordarlo, vi è un vice-ministro che ritiene non sia
lecito, per le donne, ridere in pubblico e utilizzare troppo il cellulare; che tutti
dovrebbero votarsi alla castità; che televisione e media mostrano troppo sesso) da
quello della maggioranza del popolo, che registra ancora un netto “ritardo”
nell’acquisizione dei più elementari principi di democrazia. Con questi
presupposti, e per altre ragioni non meno valide e non menzionate in questo
articolo, acquisiscono maggiore valenza, almeno per ora, le tesi di chi è contrario
all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea.
(ALBATROS – APRILE 2015)
Qualche anno fa ero al seguito di “Miss Motors International”, un fashion award
che, dopo un tour di 15 giorni, culminava con un evento a Roma. Oltre cinquanta
modelle, provenienti da tutto il mondo, ma in massima parte europee,
concorrevano per l’ambito titolo, foriero di lauti contratti professionali. Nel corso
di una trasferta proposi un argomento a una decina di modelle: ciascuna avrebbe
dovuto indicare una lingua comune per l’Europa, da studiare sin dalle
elementari, in modo che fungesse da lingua ufficiale.
Avevo previsto le reazioni, ma la discussione assunse toni ancora più accesi,
dilatandosi su altri aspetti. Lo scontro più “violento” avvenne tra la modella
macedone (studentessa universitaria ventenne) e il titolare dell’agenzia cui faceva
capo: un giornalista quarantenne di Atene, laureato. Costui, nonostante il
dislivello culturale, si abbandonò a un’eccessiva vis polemica, portando alle
lacrime la ragazza. Con inaudita violenza verbale, infatti, accusava i macedoni di
aver “usurpato” il nome dello stato e di alimentare una confusione storica su
Alessandro Magno (nato a Pella, in Grecia, nella regione che nel IV secolo A.C. si
chiamava proprio Macedonia). La giovinetta cercava di replicare, non senza
difficoltà, che era nata nel 1991, un mese dopo la proclamazione della
Repubblica; che a scuola aveva ben studiato la storia greca; che non gliene
fregava nulla di “Alessandro il Macedone” e che, soprattutto, non si sentiva
responsabile del nome scelto dai suoi governanti. Si dichiarava “macedone”
perché nata in “Macedonia”, proprio come chi nasce in Grecia si definisce greco e
così via.
Fui costretto a intervenire per sedare la discussione e riportarla nell’ambito
gioioso che mi ero prefisso, evitando che sfociasse in derive sgradevoli. Dovetti
faticare un po’. La modella francese, infatti, colse la palla al balzo per aggredire
colei “che avrebbe dovuto rappresentare il Belgio”, secondo gli accordi intercorsi
con l’agenzia che l’aveva inviata. “Avrebbe dovuto”, perché all’atto dell’accredito
con un gesto sprezzante, rifiutò la fascia con la scritta “Miss Belgio”: “Mi dispiace
– esclamò alla presenza di tutti – ma io non rappresento quei rozzi e lavativi
Valloni. Io sono “Miss Fiandre” e rappresento solo le Fiandre”. Non volle sentire
ragioni e dovemmo preparare, a poche ore dal “Gran Gala di presentazione”, una
nuova fascia raffazzonata e con lettere adesive.
Circa la lingua, si sentì di tutto. Coloro che proprio non potevano “aspirare” a
proporre la propria, sempre con il tono sprezzante dei nazionalisti incalliti,
espressero un fermo e deciso diniego nei confronti di una lingua ufficiale. La
serba e la montenegrina, che facevano coppia fissa senza legare con nessuno,
erano le più determinate. La francese ebbe facile gioco nel sostenere che la sua è
già la lingua ufficiale della diplomazia e quindi le sembrava la soluzione più
idonea. L’inglese, supportata dalle colleghe di Irlanda, Scozia e Galles, (al fashion
award partecipavano anche delegate delle regioni europee più importanti), dal suo
canto, non voleva nemmeno discutere: per lei non vi era dubbio alcuno su quale
dovesse essere la lingua comune. L’italiana, manco a dirlo, parlò del paese
dell’arte e della cultura per eccellenza.
La meta da raggiungere, Bisceglie, era prossima, e quindi decisi di chiudere il
discorso, cercando di infondere alla mia voce il tono più dolce e cordiale possibile:
“Care amiche e cari amici, questa interessante conversazione ha messo in luce
quanta strada debba essere ancora percorsa affinché l’Europa possa davvero
considerarsi una “nazione unita”. Nessuno ha fatto passi indietro. Vi invito, però, a
considerare una sola cosa: tutti noi rappresentiamo una dozzina di stati europei e
stiamo discutendo da oltre un’ora… in che lingua? Avremmo potuto confrontarci,
così animatamente, esprimendoci nelle nostre rispettive lingue? Penso di no. E la
conoscenza della lingua che abbiamo utilizzato, per voi modelle, costituiva un
requisito obbligatorio ai fini dell’ammissione, qui come altrove. Riflettiamo, quindi,
tanto su questo dato quanto sulle “divisioni”, in particolare su quelle sciocche e
pretestuose”. Non vi è bisogno che scriva quale fosse la lingua conosciuta da tutti
e non nascondo che provai un pizzico di compiacimento nel vederli silenti e
sorpresi. L’idea degli Stati Uniti d’Europa, con una lingua comune, almeno in
quella circostanza, guadagnò una dozzina di fans. Forse.
(ALBATROS – MAGGIO 2015)
Negli ultimi quindici anni oltre trentamila profughi hanno perso la vita tentando
di raggiungere le sponde dell’Italia, inseguendo un sogno di libertà. Dal 2010 si
contano circa cinquecentomila profughi soccorsi e ospitati nei campi di
accoglienza. Queste le cifre, destinate a incrementarsi sensibilmente, perché
dall’Africa e da alcuni paesi dell’Asia la fuga è l’unico rimedio alla morte certa per
fame, sevizie, torture, guerra.
Tutti parlano dei profughi ma pochi sanno ciò che realmente accada durante
l’esodo, che a volte dura anni. La realtà supera ogni immaginazione e vede nei
soggetti più deboli, donne e bambini, le vittime principali.
Non troverete “ricette per risolvere il problema”, in questo articolo. Ve ne sono già
troppe in giro e nessuna mi convince. Forse perché una vera “soluzione ottimale”
non esiste, almeno in tempi brevi.
Lucio Caracciolo, che di “geopolitica” se ne intende, è stato molto caustico:
“Questo dramma occuperà il resto delle nostre vite. Va dunque gestito con speciale
urgenza e cura. Ma senza illudersi di risolverlo con la forza. Se provassimo a farlo,
lo renderemmo ingestibile. Otterremmo di moltiplicare le vittime, non di ridurle. Non
ci sono scorciatoie militari — blocchi navali, aerei o terrestri — a meno di rioccupare
la Libia”. (La Repubblica – 23-4-2015).
E’ una delle dichiarazioni più sensate che abbia letto negli ultimi tempi, a
differenza di quanto traspaia nei dieci punti sanciti dal vertice congiunto dei
ministri degli Esteri e dell’Interno dell’Unione Europea, tenutosi il 21 aprile 2015.
Amenità diplomatiche formali e senza costrutto a parte, il punto due prevede “uno
sforzo sistematico per catturare e distruggere le imbarcazioni usate dai trafficanti”.
Il che equivale a dire: “Catturare e distruggere tutte le automobili in circolazione per
prevenire gli incidenti stradali”. Superficialità, ignoranza dei fatti e tanta ipocrisia
sono i principali ostacoli alla vera risoluzione del problema, che ha radici antiche.
Se non le comprendiamo a fondo e non partiamo da esse, non ne usciremo mai.
La popolazione africana ammonta oggi a un miliardo e 100 milioni d’individui e
raddoppierà nei prossimi trenta anni. Le condizioni sociali ed economiche di stati
già “falliti”, in mano a governanti senza scrupoli, peggioreranno a dismisura. Non
è azzardato, pertanto, ipotizzare un flusso continuo di profughi. Parliamo di
decine di milioni. Forse di centinaia. Al di là dei buoni propositi di coloro che
sono mossi da “spirito umanitario” e a prescindere dalle rozze speculazioni dei
razzisti ipernazionalisti, un dato è inoppugnabile: non è possibile accogliere tutte
queste persone, assicurando loro una vita dignitosa.
L’Europa ha la terribile responsabilità storica di aver colonizzato l’Africa,
sfruttando uomini e risorse, senza preoccuparsi di favorire processi di sviluppo a
lungo termine. Oggi, con affanno, cerca di individuare soluzioni che,
necessariamente, fanno i conti con le ritrosie dei singoli governi e quindi possono
solo essere soluzioni pasticciate, inutili e dannose. Quindi delle “non soluzioni”.
Come giustamente osserva Caracciolo, è da stupidi pensare di risolvere il
problema in tempi brevi, ma un’attenta analisi può suggerire quanto meno la
strada da “iniziare a percorrere”, per giungere a una “ragionevole soluzione”.
E siamo sempre lì. Solo gli “Stati Uniti d’Europa”, uniti per davvero e non
posticciamente, come avviene oggi, saranno in grado di “adottare i giusti
provvedimenti”. Un vero governo Europeo, infatti, potrebbe prendere in seria
considerazione quelle azioni che oggi sono precluse dalle conflittualità, palesi e
recondite, e dall’ottusità di troppi politici, attenti prevalentemente agli umori dei
propri elettori.
Vi è da restare atterriti nel leggere i commenti che popolano i “social”, divenuti un
validissimo strumento di analisi sociologica.
Spaventa l’altissimo numero di persone che si compiacciono per i morti annegati
e il crescente consenso tributato, a livello politico, a coloro che cavalcano l’onda
del populismo più becero.
Allo stesso modo, però, lasciano perplessi coloro che, demagogicamente, si
approcciano al problema eludendone la gravità, esaltando il solo spirito
umanitario.
Incominciamo a capire le reali cause di questa immane tragedia. I demagoghi,
ovunque alberghino, una volta tanto, facciano un passo indietro. Le decine di
migliaia di morti che giacciono in fondo al mare dovrebbero indurre “tutti” a
fermarsi. Prima che sia troppo tardi.
(ALBATROS – GIUGNO 2015)
SENTIERI EUROPEI
Concediamoci una pausa. La calura estiva mal si concilia con le problematiche
comunitarie. L’antieuropeismo generato dall’Europa dei mercanti cresce a
dismisura, penalizzando lo sviluppo di quella coscienza unitaria che è l’unica
soluzione ai mille problemi che affliggono il continente. Ne riparleremo da
settembre. In questo numero vogliamo suggerire un sentiero reale, non
particolarmente famoso, che ci stupirà per la bellezza, consentendoci anche un
viaggio nel tempo, alla scoperta delle “radici”.
Distretto di Gmunden – Alta Austria.
Partire da Gmunden, sul lago Traunsee, (il “lacus felix” dei romani), dopo due-tre
giorni di permanenza, da dedicare alle escursioni sul lago e alle passeggiate nei
sentieri agresti del monte Traunstein, alternando gli sport acquatici alla visione di
panorami mozzafiato. Tre i castelli da visitare: il meraviglioso “Seeschloss Orth”
(nel lago), “Cumberland” e “Weyer”. Le botteghe ceramiche sono numerose e tra
le più rinomate al mondo.
Costeggiando il lago, una quarantina di chilometri a sud, si arriva a Bad Ischl,
incantevole cittadina termale dove si respira “retaggio asburgico” più che nella
stessa Vienna. Ivi sbocciò l’amore tra la principessa “Sissi” e il futuro imperatore
Francesco Giuseppe e tutto, nell’area circostante, parla di loro. La Kaiservilla,
dono dell’imperatrice Sofia, ospita il museo della fotografia; nell’ex Hotel Austria,
dimora fissa della coppia imperiale durante le vacanze, è invece ubicato il museo
civico. Franz Lehár è sepolto lì e la sua residenza estiva è un museo da visitare
senza indugio.
Il viaggio prosegue verso SUD ed è consigliabile lasciare l’auto per raggiungere
Hallstatt in pullman, dopo aver prenotato uno dei tanti alberghi che affacciano
sull’omonimo lago per altri due o tre giorni. Siamo nel “cuore” dell’Europa. Molti
di voi, in questo momento, stanno avvertendo, magari inconsapevolmente, i tipici
fremiti della “pelle d’oca”. E’ il classico “retaggio ancestrale” che affiora. Le cose
belle da vedere, nel “paese fatato”, sono davvero tante e la sola Hallstatt Viewing
Platform vale il viaggio. In questo suggestivo e sperduto villaggio dell’Alta Austria
si sviluppò la civiltà di Hallstatt, principale cultura protostorica della prima età
del Ferro centro-europea, che poi si estese nel resto del continente, contribuendo,
in modo incisivo, a determinare la struttura fisiologica dei futuri Europei. E’
patrimonio dell’Unesco, ovviamente, ma soprattutto “patrimonio spirituale” di
ogni vero Europeo.
Buone vacanze a tutti.
GMUNDEN
BAD ISCHL
HALLSTATT
(ALBATROS – LUGLIO/AGOSTO 2015)
EUROPA: O UNITA O IN GUERRA
Di LINO LAVORGNA
Parole chiare, nella loro estrema drammaticità, quelle del Presidente
Mattarella, sintetizzate da un titolo che ho concepito volutamente “duro”.
Siamo al “redde rationem” e non vi è più tempo da perdere con le ciance dei
qualunquisti e le furbesche azioni dilatorie dei “potentati” cinici e spietati,
intenti solo a salvaguardare il loro “agiato presente”.
Quest’articolo, cari giovani, è rivolto prevalentemente a voi. Noi adulti
abbiamo la terribile responsabilità di avervi lasciato in eredità un mondo in
macerie e di ciò possiamo solo chiedervi scusa. Anche i “non colpevoli” sono
responsabili per non aver saputo fermare i “colpevoli”. Ora è compito vostro
prendere le redini in mano e ricostruirlo. In che modo? Dipenderà da come vi
preparerete a raccogliere la terribile eredità, in un momento storico che
prevede ancora un lungo processo di transizione, durante il quale sarà
possibile di tutto.
Molti di voi sono pervasi da un alto quoziente intellettivo, che consente di
“capire” meglio di quanto non accada ad altri le fenomenologie sociali, i
processi evolutivi, le tendenze. Queste capacità consentono di essere un passo
avanti e vincenti, qualunque cosa si faccia. Saranno proprio le intelligenze più
lucide che accederanno alle leve del potere politico ed economico e si
abbasserà gradualmente, come già sta avvenendo, l’età media di coloro che
fungeranno da “guida”, perché il processo tecnologico, inarrestabile, sarà
meglio recepito e gestito proprio da chi “cresce con esso”.
Una vera rivoluzione bussa alle porte e tanti studiosi si stanno preoccupando
di analizzarla in fieri, aggiungendo caos al caos, come sempre accade nei
periodi di transizione, con una sola certezza condivisibile: “Le rivoluzioni non
accadono quando la società adotta nuove tecnologie, bensì quando adotta
nuovi comportamenti”. L’intelligenza, da sola, per cambiare in meglio la
società, non basta. Di uomini “intelligenti” al potere ne abbiamo molti,
ovunque. I risultati delle loro azioni, però, sono sotto gli occhi di tutti,
soprattutto i vostri, che siete le principali vittime della loro “inadeguatezza”.
All’intelligenza va affiancata una profonda “conoscenza”, che con termine
generico ma esplicito, si definisce “cultura”. Quella che manca a troppi di voi e
che invece va recuperata d’imperio, perché è l’unico antidoto a derive sociali
sempre più pericolose. Se oggi, infatti, gli uomini al potere si possono
permettere di pronunciare frasi del tipo: “Falsare i bilanci non è reato” o “Per
essere un buon politico non serve studiare i classici, basta guardare The
House of Cards” (insulsa fiction statunitense che insegna come gestire il
potere politico con il cinico disprezzo del bene comune e solo nel proprio
interesse), cosa accadrà domani, quando si dovranno adottare soluzioni
“terribili” per scongiurare davvero la terza guerra mondiale?
Dietro ogni azione si cela la qualità di colui che la pone in essere.
L’intelligenza, mancipia di “conoscenza”, potrà solo generare immani disastri,
ben più gravi di quelli che si registrano oggi. Cambiare “i comportamenti”,
pertanto, è fondamentale. Per tutti. E’ un processo pre-rivoluzionario
propedeutico al vero cambiamento, che dovrà consentirci di preservare la
vita. Quella vita che state rovinando nella vana ricerca di un senso “lì dove un
senso non può esservi”: sballo continuo, droga, alcool, divertimento dissoluto,
rifiuto dello studio “serio”. L’ignoranza che vi attanaglia è abissale, anche tra
le menti “intellettivamente” più dotate. Sarete tutti chiamati a “decidere”
qualcosa e la mancanza di “cultura” non potrà che suggerirvi scelte sbagliate.
“L’Europa ha un compito di grande rilievo”, dice il Presidente Mattarella. E’
vero, ma per esercitarlo occorre che sia davvero unita. E non lo sarà mai fino a
quando voi giovani non sarete ben attrezzati culturalmente per favorire un
reale processo d’integrazione. La cultura sconfigge ogni male, a partire dai
peggiori: il qualunquismo, il nazionalismo becero, il razzismo. Ritornate a
studiare seriamente, partendo dai classici della letteratura, della storia e della
politica, che sono sempre “attuali”, raccogliendo l’invito del Presidente: “La
democrazia si esporta con la cultura e con l’esempio”. Il resto verrà da sé e
l’Europa sarà il perno per un nuovo ordine mondiale. In mancanza, anche se
con strumenti tecnologici avanzati tra le mani, non sarete dissimili dai quei
“lazzari” del 1799, che osannavano chi li depredava di tutto e mandarono alla
forca chi si batteva anche per loro.
(BLOG WWW.GALVANOR.WORDPRESS.COM – 05/09/2015
“CONFINI” – WWW.CONFINI.ORG – OTTOBRE 2015
Lino Lavorgna
EUROPA SCRIVE A PAPA FRANCESCO
Carissimo Papa Francesco,
sono la Principessa Europa, figlia di Agenore re di Tiro, nipote di Poseidone e
moglie concubina di Zeus. Permettimi, pertanto, di rivolgermi a Te con rispettoso
affetto, ma anche con l’utile confidenza che è lecita tra pari, a beneficio delle cose
che ho da riferirti: Tu sei l’espressione terrena del Dio dei Cristiani; io un Dio l’ho
sposato e di un altro sono nipote.
In primis vorrei mettere subito in chiaro un elemento importante legato alla mia
persona, per correggere una grossolana sciocchezza che gli storici perpetuano da
secoli. Quando si parla del mio incontro con Zeus, si usa la parola “ratto”, quasi
come se io fossi stata rapita e costretta a unirmi a lui contro la mia volontà.
Niente di più falso. Ero con le mie ancelle a dilettarmi sulla spiaggia di Tiro
(stupenda, allora, con un mare cristallino e dintorni verdeggianti che dipanavano
verso una città meravigliosa, per nulla assomigliante a quell’agglomerato brutto e
caotico dei tempi attuali) e Zeus “atterrò” dopo aver assunto le sembianze di un
toro. Sorridendo, mi adagiai sul suo groppone e volai con lui tra gli applausi delle
mie ancelle! E vorrei vederla, del resto, una donna mortale che facesse la
schizzinosa riluttante al cospetto di un Dio! I tanti grandi Artisti che hanno
dipinto quell’incontro, essendo molto più intelligenti e lungimiranti degli storici,
hanno ben compreso come si fossero svolti i fatti: in nessuna opera si percepisce
anche un minimo gesto men che dolce, delicato, gradevole. Non sembri questa
una precisazione di poco conto: è davvero una brutta cosa pensare che il
continente cui ho dato il nome affondi la sua genesi in una violenza carnale.
Veniamo ora ai problemi di oggi.
Tu hai dimostrato grande forza, oltre che grande saggezza, e pertanto ritengo che
sia l’unica persona al mondo, in questo momento, in grado di scuotere le
coscienze dei potenti e indurli a trovare il coraggio per bloccare la pericolosa
deriva verso cui stiamo scivolando. Diciamoci le cose esattamente come sono,
Lino Lavorgna
senza girarci troppo intorno. Fermo restando, infatti, tutto il male che si possa
dire dei politici, per la loro facile propensione a gestire il potere pensando
innanzitutto al loro tornaconto personale, per certi scenari “continentali” e
“globali” dobbiamo necessariamente fare i conti con altri aspetti: i limiti della
natura umana, che spingono a quell’atteggiamento “dilatorio”, magistralmente
rappresentato nella celebre frase di Don Abbondio: “Il coraggio uno non se lo può
dare”. E’ evidente, infatti, che certe scelte – certe “non” scelte – sono condizionate
dalla paura. Più che legittima, tra l’altro, non solo per le possibili conseguenze cui
sarebbero esposti i decisori, che ovviamente ben sanno come i migliori apparati di
difesa e di sicurezza siano sempre insufficienti contro un terrorismo in crescente
evoluzione, ma anche per i rischi insiti in tutti i Paesi, per i possibili attentati cui
sono esposti gli inermi cittadini. E’ ben chiaro, però, ce lo insegna la matematica,
che ogni problema “risolvibile” ha solo una soluzione, magari raggiungibile da due
percorsi diversi, ma pur sempre confluenti in quell’unica soluzione.
Ogni giorno, il contadino che vuole assicurarsi un buon raccolto, si sveglia e di
buon’ora raggiunge i propri campi, non importa quanto distanti siano dalla
propria abitazione. Si prende cura di loro, semina, innaffia, concima, pota, ara;
più di ogni altra cosa, però, fa attenzione a che l’erba cattiva non prenda il
sopravvento. La estirpa e la distrugge. Tutto ciò è possibile solo se il contadino si
rechi personalmente nel campo e veda in loco cosa si renda necessario, di volta in
volta, per renderlo fertile.
Caro Francesco, tu sei perfettamente in grado di capire gli scricchiolii della storia
e sai bene che il massiccio esodo dalle zone povere e pericolose del mondo, verso
quella sorta di “Terra promessa” che porta il mio nome, è qualcosa che prescinde
dalla cronaca: quando i popoli si muovono, cambiano la storia, non il quotidiano.
Al di là di tutto ciò che è già avvenuto (mal gestito), si stima che nei prossimi mesi
potrebbero entrare in Europa circa un milione e cinquecentomila migranti. E il
fenomeno è destinato a durare ancora a lungo. Il dramma umano di chi fugge
dalla miseria e dalle guerre si scontra con il dramma umano di chi teme questa
onda migratoria e vede trasformarsi la propria esistenza in qualcosa di
angoscioso, che condiziona scelte e abitudini, aggiungendo problemi ai problemi e
male al male. In Germania ha compiuto un anno di vita il partito neonazista
“PEGIDA”, in continua crescita, e ovunque “la paura” porta acqua al mulino dei
populisti, che raccolgono consenso parlando alla pancia, senza avere una testa
pensante.
Tu puoi incidere profondamente su tutto questo se riuscirai a parlare in modo
ancor più “chiaro” di quanto non abbia fatto fino ad ora, utilizzando un
linguaggio che, senza tradire la tua matrice apostolica, assuma una peculiarità
più “laica” e, oserei aggiungere, più “politica”, in modo da risultare “più incisivo”.
La paura è anche figlia della disinformazione e la Chiesa può fare molto, sotto
questo profilo, sopperendo alle lacune istituzionali e a quelle della Stampa.
E molto puoi fare in prima persona, non solo parlando ai potenti del Pianeta, ma
anche emulando il tuo predecessore Leone I. Certo, lui aveva un solo “Attila” da
fermare e tu, tra Africa e Medio Oriente, ne dovresti incontrare parecchi. Prima
Lino Lavorgna
incominci e più faciliti il compito a chi dovrà intervenire dopo. E sai bene che
siete tutti, nel vostro mondo, in terribile ritardo su ciò che la Storia richiede per
renderlo vivibile.
(BLOG WWW.GALVANOR.WORDPRESS.COM – 14/11/2015)
“CONFINI” – WWW.CONFINI.ORG – NR 39 – NOVEMBRE 2015)