Il Libro Infame di Gianluca Nicoletti e Roberto Ronchi

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Il ritorno in libreria dissacrante e inaspettato del noto giornalista e scrittore che ha scalato le classifiche 2013 con Una notte ho sognato che parlavi

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«Già di nuovo Natale, aspetto martedì grasso e la Pasqua mi assopirà mentre penso al tedio delle vacanze, sogno agosto solo in città e già l’autunno mi entra nelle ossa mentre cominciano a vedersi le prime

luminarie natalizie… Questo, ogni anno, è il mio anno; un tunnelconcentrico, ma per fortuna con incolmabili fessure.»

So che non vincerò la guerra con il tempo, soprattutto continuerò a restare immobile sulla mia sedia. Ne sono più che convinto, ma comunque trascorro le giornate davanti a una tastiera a passare in rassegna le mie truppe.

Senza saperne il perché, sono padrone e succubo perfetto di un

io mi consumi. Spesso mi accorgo della sua presenza come mi-sura del tempo che è passato; dovrei provare rimorso, invece ciò mi mette allegria, perché solo i ricordi che si affastellano mi con-sentono di mettere l’uno sull’altro il maggior numero possibile di futili pensieri.

Costui è una moltitudine che riempie lo spazio esiguo a mia di-sposizione; è un numero, una cifra, un codice, un progetto… In-somma, è qualcuno che per ordinare i ricordi m’impone un «tem-po a castello», sovrapposto e vivibile a più livelli.

Sono passati esattamente venti anni da quando attribuii per la prima volta a questa presenza le caratteristiche di un Golem. Mi rendo conto di avere seguito in ogni dettaglio le tappe operative degli antichi costruttori di schiavi d’argilla; anch’io non riesco più a ricordare la formula per rendere inoffensivo quello che pensavo fosse solamente un mio robot faccendiere.

Ora non faccio più caso a questa irruzione continua di pensieri che spesso trasformo in parole, e che so bene non generati da me. Parlo di ogni argomento, posso farlo per lungo tempo, anche pen-

Il tempo a castello

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il mio mestiere, quindi sono in parte compensato dal non essere più padrone del mio discorrere.

Tutto quello che io penso, mi arriva senza che io lo cerchi. A me sta solamente organizzarlo; per questa ragione, quando ho neces-sità di attingere a uno dei tanti tempi sovrapposti, lui appare e io

Da quando sono il volontario prigioniero di questa creatura, di

il tempo. Dal mio punto di vista immutabile, mi vedo circonda-to dalle pareti di una torre cava, costruita con moduli identici,

pomeriggio di febbraio; quando alzai gli occhi dal tavolo, mi ac-

semicircolare e composto da più piani, che non sono mai riuscito -

de, erano di ferro verniciato grigio, come quelle che arredano le camerate di una caserma. Penso siano state necessarie migliaia di

per accogliere interi battaglioni di soldati dormienti.Sono rudimentali letti di ferro, costruiti con degli incastri, in

modo da poter essere sovrapponibili. Si usano per far entrare il maggior numero possibile di soldati nello spazio del dormitorio; nel mio caso, è probabile che il tempo a castello preferisse mo-strarsi sotto quell’allegoria per rendermi più comprensibile la sua struttura, fatta di porzioni uniformi che si alternano con una

-ziale che li restituisca perfettamente allineati e coperti.

Le brande non sono mai vuote: intravedo i dormienti silenziosi e marziali anche da stesi. Alcuni li scorgo per intero, di altri pos-so distinguere solamente le suole degli scarponi che appoggiano alla spalliera del letto. I soldati riposano in uniforme con l’arma

-ro costituire il gruppo addetto alla guardia, il quale, dopo essersi dato il cambio con quello successivo, per consegna deve comun-que essere pronto a un eventuale attacco del nemico.

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A periodi ricorrenti i pensieri escono, scandendo il passo, per alternarsi ad altrettanti pensieri, reduci, almeno immagino, dal loro turno di guardia. Questa dunque è la corvè ininterrotta dei miei tanti tempi possibili, tradotti in pensieri che marciano verso

-ti che io vivo nello stesso tempo.

Io osservo a uno a uno ogni milite addormentato. Per i più, il son-no equivale a sprofondare in un pozzo di tenebra, da cui si emerge con il fragore della tromba che scandisce il «giù dalle brande!»: inizia così il nuovo turno di guardia. Costoro equivalgono a quelle

buchi nella partitura di un hard disk, dentro ci potrebbero essere universi, ma non li posso scorgere.

Al contrario, alcuni dei dormienti mi permettono di vedere o meglio, non sono io a farlo, ma quella specie di cosa che ho ac-canto. Quando credo di cogliere i primi segni di una tenue nebbia addensarsi con il respiro di qualcuno dei soldati in branda, il de-mone comincia a smaniare. Io capisco che è pronto a produrmi l’icona sulla quale potrò costruire una catena di ricordi. Dovessi però dire di vederlo prendere qualche cosa che assomigli a una matita o un pennello, mentirei.

Mentre scrivo, posso solo rappresentare la sensazione di nausea provata al formarsi di una nuova immagine sulla pagina. I fram-

da un ammasso di parole scritte. I concetti mi appaiono come testo

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e disegni che sembrano animati da una vita autonoma. All’inizio

schermo del mio computer. Poi si allarga e si fa spazio, le lettere sal---

chia ai bordi del monitor, vittima di quel tracimare implacabile. Il

un disegno nitido s’impossessa dello spazio a lui necessario: solo allora permette alle parole di ricostituirsi attorno ai suoi margini.

A volte il senso della pagina ne è completamente stravolto, altre si auto conclude spontaneamente per farmi riprendere a scrivere, partendo da quel disegno contenente una porzione navigabile del lago senza fondo del mio tempo perduto.

Mi sono così abbandonato alla dissennata destrutturazione del fantastico che la costruzione postuma appioppa a ogni epoca.

L’aria che è respirata per ogni decade celebrata storicamente è una sensazione che rimane impressa nel nostro sentire; al contra-rio di quello che comunemente si crede, non è la musica, non sono i grandi eventi, non le mutazioni globali, a permetterci quei ricor-di condivisi, che attribuiscono sensi «epici» a un decennio. È più profondamente radicato in noi quel particolare sapore sottile che ogni periodo vissuto ha seminato nel nostro ricordo. Ogni giorno della nostra vita ha un suo modo di farsi percepire esclusivo e irriproducibile, tutti lo proviamo, ma raccontarlo non è facile. Ep-pure, quel particolare gusto che ha ogni epoca ognuno di noi l’ha assaggiato e lo può ricordare. Il ricordo della vita sbocconcellata è per me tradotto nel tempo a castello, come fosse un continuo cambio della guardia, tra militi che hanno appena vigilato, con altri che hanno appena dormito.

Oggi esistono fantastiche applicazioni che permettono di aggiun-gere patine di altre epoche alle proprie foto digitali. Sembrerebbe quasi che sia esplosa una follia iconoclasta per ogni rappresenta-

-chiamento si sta divorando ogni scorcio del presente, ingoiandolo

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A ogni rappresentazione della modernità deve essere sottratta la cifra distintiva del tempo attuale, spostando a ritroso le lancette del proprio orologio verso un vago passato che tende al dagherrotipo digitalmente resuscitato. È probabile che questa sia una fase ne-cessaria all’evoluzione di una maggiore consapevolezza del «tempo

-cata nella nostra memoria profonda. Sono operazioni di volontaria e struggente immersione nella condivisione dell’anacronismo, ulte-riore dimensione – oggi – della socialità attraverso protesi emotive.

-te lancinante. Ci riesco perché ho la tendenza a sentirmi astratto in una sospensione deliberata dal tempo attuale. Quando scrivo sono circondato da molti dei miei frammenti di vissuto. Le frazio-ni di tempo sono appoggiate l’una sull’altra come i tanti soldati addormentati sulle loro brande a castello. Io posso solo cogliere

di pensieri, storie, immagini.-

ni, a volte nitide a volte confuse, quindi bisognose di una «legen-da» che ne bilanci i vuoti. Le compensazioni sono narrazioni pa-rallele, derive improvvise, ricongiungimenti inaspettati. Questo è un po’ il mio metodo di racconto dell’attualità, almeno come uso da decenni farlo alla radio.

Il felice incontro con Roberto Ronchi mi ha permesso di ancorar-mi realmente a delle illustrazioni, che mi hanno aiutato a riprende-re il passo ogni volta che mi fermavo. I suoi disegni sono stati come i sassi che attraversano un guado: solo saltando dal proprio punto fermo si può andare avanti. Roberto ha disegnato dove più si è sen-tito ispirato, e da lì io riuscivo a recuperare i codici che mancavano per accedere a un successivo livello del mio «tempo a castello».

Le immagini, da qui in poi, fanno parte del testo al punto tale da rappresentare le porte d’entrata alle pagine successive a quelle in cui compaiono. Ciò che segue non nasce come un testo scritto e poi illustrato, ma è una continua partenogenesi di testo e immagini che si riproducono ogni volta che s’incontrano tra un capitolo e l’altro.

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I dieci comandamenti

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«La vita mi tartassa un po’ tanto, su tutti i fronti e sto perdendo fantasia e intrepidezza maliarda.»

La mia prima traccia memorabile è del 3 settembre 1954, ave-vo venti giorni. In assoluto è la più antica foto della mia vita, il più remoto fermo immagine di un attimo della mia esistenza. Mi spiace che non potrò mai sapere quale sarà l’estremo. Se sola-mente potessi avere a disposizione quella che sarà l’ultima foto della mia vita, mi piacerebbe metterla accanto a questa, che mi ritrae avvolto come un bozzolo nella copertina scozzese. Potrei così facilmente fare un confronto fra la mia immagine Alfa e quel-la Omega.

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come certezza di documentazione è pure piuttosto ambigua. Im-magino fosse stata una zia svampita ad avere scritto sul retro la

La foto predittiva

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località Ferro di Cavallo, dove abitavano i miei genitori, ma per la data si era sbagliata collocandola nell’anno 1953. Qualcun altro, forse mia madre, molto tempo dopo ha corretto il 3 con un 4, ri-portando la data all’anno giusto in cui sono nato.

Si può dire che in assoluto questa immagine, per un certo tem-po, ha anticipato la mia nascita. Se fosse stata una foto digitale, il giorno, l’ora e altre caratteristiche dello scatto avrebbero fatto

non ci sarebbe stata confusione, la foto sarebbe interiormente le-gata all’attimo temporale che aveva immobilizzato.

Invece era un’antica foto analogica, dove ognuno poteva scri-vere quel che voleva; forse potrei ipotizzare che fu scattata con la Ferrania di un altro giovane zio che aveva la passione della foto-

L’unica epigrafe storica è quella data scritta a penna sul retro, che a sua volta riproduceva una datazione addirittura precedente alla mia venuta al mondo: in basso a destra si legge ancora «3 Se…», che era 3 settembre, la data poi riportata, forse scritta con

io che nell’originale ero orizzontale, sono stato verticalizzato. In sintesi, avevano eliminato tutto quello che era attorno a me nella prima foto della mia vita.

La foto originale era più grande e, con somma probabilità, era anche quella datata come fosse stata scattata nell’anno preceden-te alla mia nascita. Se la prima datazione l’aveva scritta mio pa-dre, come ha fatto a sbagliarsi? Ero il suo primogenito, poteva confondere l’anno?

In effetti era possibile, io stesso non ricordo sempre bene giorno

il ’95 e il ’98, perché sono due memorabili versioni di Windows. Forse lui non aveva paletti emotivi così indelebili per ancorarci l’anno esatto della mia venuta al mondo.

buona sorte. Posso dire di aver attraversato tutti i fantastici decen-

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dagli anni Cinquanta agli anni Dieci del secondo millennio. Al mo-mento che scrivo, di fantastico generazionale si è smesso di parla-

La prima trance della mia vita la circoscrivo nel periodo che va

1965. Mi ricordo bene quasi tutto delle elementari. Forse proprio quel periodo segna l’appartenenza della mia generazione a una fase arcaica della storia contemporanea, che a me sembra impossibile avere vissuto ed essere ancora in grado di parlarne lucidamente.

Come mai non sono ancora morto, o per lo meno in preda alla demenza senile, se io ho una parte della mia vita intrisa dell’ultimo strascico cruento della Seconda guerra mondiale? Forse dipende dal fatto che, anche se la guerra è terminata nel ’45, per i venti anni successivi la mia generazione ne restò fortemente impressionata,

La guerra è stata una realtà ancora presente, per quelli della mia

sui bombardamenti, oscuramenti, atrocementi vari, bisognereb-be aprire una lunga parentesi su di noi (forse concepiti sul tavolo di un cucinino di formica davanti a un televisore acceso con Mike Bongiorno), almeno quelli nati da settembre in poi, ma forse pure qualche settimino. Di certo, tutti allevati con l’incubo che durante

di trovare qualcosa da mettere sotto i denti. Pensai anni più tardi a quell’assillo alimentare durante una di

-tostop, tenda, pochissimo denaro e lunghe serate passate a de-scrivere con i compagni di viaggio cosa ci saremmo fatti cucinare dalle rispettive madri al nostro ritorno.

solo una generazione allevata sull’epica familiare di stenti, fame, tessere annonarie, borsa nera. Erano i motivi dominanti per cui dovevamo sentirci in dovere di mangiare, se non altro per compensare la fame che avevano patito i nostri genitori.

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Solo molti anni dopo sentiremo parlare di disturbi alimentari, di anoressia, di angoscia per l’ingestione da cibaria. Era un segno dei tempi; almeno per noi lo spauracchio della guerra e della ca-restia aveva creato un costante ostacolo alla possibilità di mettere in rapporto il cibo con il desiderio di morte.

Piuttosto che la concupiscenza della dissoluzione, fu il fascino dell’indistruttibile a fare parte del nostro più tenace . Non fummo allevati con l’idolatria del «naturale» e banalmente biologico: si pensi che tra i miti alimentari della nostra epoca nulla pretendeva parentele con tali modelli. Noi amavamo la minestra fatta con il dado, ne riconoscevo l’origine organica unicamente dai mini frammenti di prezzemolo che galleggiavano sulla super-

-betto che era già l’anticipazione domestica del cibo in pillole degli astronauti, mito sub gastronomico che tutti pensavamo avrebbe presto sostituito ogni altra forma di alimentazione.

Il gioco da desco più frequente di me bambino era fare delle pal-

che fossero le famose pillole degli astronauti che avrebbero presto preso il posto dell’odiata fettina, che puntualmente pre-mastica-vo e smaltivo sotto al tavolo, boccone dopo boccone, dandola ai gatti che a casa non mancavano mai.

Era pure l’epoca in cui i nostri appetiti erano stimolati, soprattut-to, da quegli oggetti avvolti nella stagnola che venivano chiamati

ma a detta dei vecchi benpensanti e luddisti, che preferivano la caciotta comperata a peso, scarsamente dotati di autentico buon formaggio. Di certo, girava qualche voce che avrebbe dovuto al-larmarci, ma erano tutte talmente paradossali, come ad esempio

-molavano in noi quel meraviglioso senso di azzardo che ce li face-va sembrare addirittura più buoni.

Altra induzione alla nostra progressiva idolatria per il sinteti-co, erano le polveri che trasformavano l’acqua del rubinetto in «acqua da tavola», un sortilegio di retaggio autarchico. Si usava un’apposita bottiglia con il tappo ermetico, quelle con il ferret-

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to a incastro, e la preparazione dell’acqua frizzante, di fronte ai bambini in attesa con il bicchiere in mano, assomigliava a quella di una molotov prima di un assalto alla polizia. La miscelazione era interdetta a donne e minori, solo uomini ardimentosi pote-

collo, con precisione e misurata lentezza, prima la polverina del-la bustina rossa, poi quella contenuta nella bustina blu, che rap-presentava l’innesco alla generazione repentina delle bollicine. Bisognava quindi chiudere velocissimamente la bottiglia, sennò sarebbe schizzata fuori tutta l’acqua in ebollizione. I più sventati la capovolgevano per accelerare il processo idrogassoso. Le donne di casa si chiudevano le orecchie e imploravano di non insistere in quell’innaturale maneggio. Giravano voci leggendarie di bottiglie esplose e di occhi frantumati dalle schegge di vetro.

Così come ci sembrava buonissima la carne in scatola sotto ge-latina, perché la vedevamo a Carosello e quando la madre della pubblicità la portava in tavola erano tutti raggianti di felicità. Quel cilindro di materia rossastra e tremolante aveva perso ogni idea di forma ed essenza della bella mucca al pascolo stampata sulla latta della scatoletta, e forse proprio per quello l’apprezzavamo. Anda-vamo pazzi anche per presidi voluttuari che ci accompagnavano in istanti paradisiaci, come la maionese in tubetto, la pasta d’acciu-ghe, lo sciroppo di frutta da allungare con l’acqua. Tutti capolavo-ri dell’immaginario gastronomico che reinterpretava pesci, salse, prodotti della terra.

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Euro 16,90

9 788897 165750

ISBN 978-88-97165-75-0

tunué.comIllustrazioni di copertina

di Roberto Ronchi

ROBERTO RONCHIIllustratore e creatore di

personaggi e progetti editoriali, disegna da svariati anni per Disney (Italia, Usa, Giappone)

nei settori libri, fumettie consumer product.

Collabora e/o ha collaborato nell’editoria anche con De

Agostini, Piemme, Mondadori, Dalai B&D, Fabbri, Corriere della

Sera, Egmont, Hachette, Hearste Eaglemoss.

Inoltre ha realizzato progetti per Kinder Ferreroe Macdue giocattoli.

Pure lui gradirebbe un Margarita ogni tanto, ma soffre

di acidità di stomaco.

GIANLUCA NICOLETTILa massima parte di tutto quello che negli anni ha fatto, detto, scritto e pensato galleggia sparpagliato in rete. In sintesi, il tempo che nora ha vissuto può essere diviso in tre ere:1) Fase perugina: fanciullezza, adolescenza, vitellonismo (1954 1983).2) Fase romana: il seppellimento glorioso di fronte a un cavallo agonizzante (1984 2004).3) Fase extraterritoriale: la leggera follia del post mortem (2005 ……).Questo Libro Infame è il prequel della sua vita attuale. Oggi sogna di poter costruire una città utopica per la felicità dei ragazzi autistici, ma anche di bersi qualche Margarita in buona compagnia.

Il tempo digitale rievoca ogni presenza strati cata nei nostri ricordi, e la lussuria dell’invecchiamento applica patine di altre epoche alla contemporaneità.Questo diario, in forma di romanzo allucinato, cerca di destrutturare e comprendere il senso del fantastico che la costruzione postuma assegna a ogni periodo storico.

Gianluca Nicoletti fa il punto sul fantastico generazionale, attraversando, in un suo personale teatro della memoria, dagli anni Cinquanta agli anni Dieci del secondo millennio. E i ricordi sono visioni, che le suggestive illustrazioni, le elaborazioni gra che e i fumetti di Roberto Ronchi materializzano in una narrazione parallela, codici di accesso che continuamente alimentano e arricchiscono Il Libro Infame.