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Introduzione

Il profeta Sofonia svolse il suo ministero durante il regno di Giosia in Giuda (640-609). Con la sua voce, la prima voce profetica a udirsi nel paese dai tempi di Isaia e Michea, vale a dire dal 701 a.C., recò da parte del Signore un messaggio radicale e di portata universale:

«Io distruggerò ogni cosa dalla faccia della terra», dice il Signore (1,2).

Il grande Giorno del Signore, il giorno del Possente Guerriero, stava per porre fine a tutto il creato.

Sofonia annunciò tale messaggio a Gerusalemme negli anni che se-guirono i regni di Manasse (687-642) e Amon (642-640), contrassegnati dal sincretismo religioso; ma la chiesa lo ha giudicato rilevante per la propria esistenza in qualsiasi tempo e ce lo ha trasmesso come parola di Dio valida anche per la nostra epoca.

Si è spesso osservato che Sofonia è l’unico profeta di cui siano ripor-tate quattro generazioni di antenati, fra i quali anche un certo Ezechia (1,1). È poco probabile, tuttavia, che tale nome si riferisca a re Ezechia di Giuda (727-698/696); e in ogni caso, qualunque sia il lignaggio di So-fonia, ciò non determina il contenuto del suo messaggio.

Il libro ci è stato preservato in quello che a prima vista sembra lo schema editoriale tripartito tipico di molta letteratura profetica. Infat-

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ti, presenta un giudizio su Giuda (1,2 - 2,3), seguito da profezie contro le nazioni straniere (2,4 - 3,8) e infine da una serie di promesse (3,9-20). Tuttavia, esso appare caratterizzato da un’integrità organica che depo-ne a sfavore della tesi secondo la quale avrebbe subìto una complessiva rivisitazione per mano di un redattore. Il tema della peccaminosa su-perbia umana attraversa l’intero testo, le cui diverse parti, inoltre, sono tenute insieme da immagini simili e contrastanti. Per un esame di que-ste ultime rimandiamo al corpo del commento, segnalandone qui due soltanto a titolo di esempio: quella del «valoroso» in 1,14 e 3,17, e quella dell’«esultanza» in 2,15 e 3,17. Allo stesso tempo, anche le strutture re-toriche dell’originale ebraico impediscono la separazione delle tre pre-sunte parti del libro: 2,3 non è disgiungibile da 2,4, e 3,8 è unito a 3,9. Ha scritto J.H. Eaton:

[...] L’opera rivela il suo autentico significato se la si considera nella sua totalità. Una volta divisa, perde il suo senso fondamentale. Le sue com-ponenti devono in verità essere distinte, ma solo per poter apprezzarne le relazioni reciproche.[…] È l’opera finita a vantare i migliori titoli per richiedere la nostra at-tenzione. Ed è, dopotutto, l’opera finita quella che il canone ebraico e cristiano affidano a noi (eaton 1961, pp. 123, 124).

Concordo sentitamente con tale opinione.Si è anche spesso rilevato come 3,14-20 contenga frasi simili a certe

espressioni che si ritrovano nelle sezioni deuteronomistiche di Geremia. Può darsi, in effetti, che Sofonia facesse parte di quel gruppo riformista levitico-profetico responsabile dell’assemblaggio dei testi del Deutero-nomio, da cui era scaturita la riforma deuteronomista del gennaio 622-621, gruppo che annoverò fra i suoi membri anche il profeta Geremia e, in un periodo successivo, gli autori del Trito-Isaia (vedi E. Achtemeier 1978, 1982). Tali riformatori non ebbero in comune soltanto una causa, ma apparentemente anche una retorica, di cui talvolta, a quanto emerge dal testo, anche Sofonia si avvalse. Per parte mia, in ogni caso, ritengo che i primi due capitoli del libro risalgano a poco dopo il 640, cioè siano anteriori alla riforma, e che invece la sezione 3,1-17 sia stata originaria-mente pronunciata fra il 612 e il 609 a.C., ossia in seguito alla caduta della capitale assira Ninive e al fallimento della riforma in Giuda. I vv. 18-20, d’altro canto, sono senz’altro aggiunte deuteronomiste successive.

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Sofonia 1,2-6

Nel 1939, un predicatore inglese di nome W.E. Bowen pubblicò un sermone intitolato Black-Robed Years, basato sul testo di Sof. 1,2. In tale sermone costui fece quello che molti cristiani sono tentati di fare con il libro di Sofonia: indebolì la sentenza annunciata dal profeta, ponendo l’accento sulla nostra salvezza in Cristo. A tal fine, Bowen giustappose Giov. 3,16 a Sof. 1,2 e lesse ad alta voce entrambi i passi per poi com-mentarli in questo modo:

Possiamo forse noi, «che ci professiamo e chiamiamo cristiani», avere dubbi su quale sia, dal punto di vista spirituale, la migliore di queste due massime?[…] Di certo, nel suo [di Gesù] insegnamento non c’è nulla che giusti-fichi la supposizione che egli avrebbe approvato una simile profezia di sterminio generale […] (Bowen 1939, pp. 31, 33).

In tal modo, le asserzioni radicali di Sofonia circa la condanna divi-na della terra intera diventavano irrilevanti e trascurabili per il lettore o l’ascoltatore cristiano.

Fra parentesi, si potrebbe ironicamente osservare quanto potesse suo-nare stonata tale interpretazione di Bowen in quel determinato frangente storico, dal momento che nel 1939, al di là della Manica, e più precisa-

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mente nella Germania nazista, stava prendendo piede un totale perver-timento della fede biblica, cosa che egli fece notare nel suo sermone, per accantonarla però subito con una certa leggerezza. E dire che per riusci-re a sbarazzarsi di tale pervertimento sarebbe stato necessario spazzarlo via dalla faccia della terra!

Forse l’esordio del libro di Sofonia ha qualcosa da insegnarci, visto che le parole del profeta sono pervenute sino a noi attraverso i secoli co-me parte del canone della chiesa. La chiesa storica, dunque, ci invita a non liquidare con troppa fretta le sentenze di Sofonia, ma ad ascoltarle come se fossero indirizzate anche a noi.

Senza dubbio, Sof. 1,2-3 ci presenta una delle immagini più dure dell’intera Bibbia, ossia quella di un Dio che distrugge la sua creazione, incollerito per averla vista prendere la direzione sbagliata. Come nel-la terribile visione dell’atto di creazione divino rovesciato di Ger. 4,23-25, ogni cosa verrà annientata: uomini e bestie, uccelli e pesci. Per dirla con una familiare frase biblica: tutte le cose «che sono lassù nei cieli o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra» (Es. 20,4). In Rom. 1,18, Paolo dipinge un quadro analogo: «L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia degli uomini». E, come sempre accade nella Bibbia, la peccaminosità degli esseri umani trascina nel fango anche la natura stessa, coinvolgendola nell’errore e nella susseguente condanna (cfr. Gen. 3,17; Ger. 12,4; Rom. 8,20-21).

Tuttavia, i testi dell’Antico Testamento non fanno mai solo conside-razioni di carattere generale. Muovono sempre dall’universale al parti-colare. Così, nel v. 4 del passo in esame, il giudizio di Dio si concentra su Giuda e Gerusalemme. Poiché costituiscono la parte del Popolo Elet-to sopravvissuta alla caduta del Regno del Nord nelle mani dell’Assiria del 722 a.C., sia Giuda, sia Gerusalemme non devono credere di essere esentati dal giudizio divino, che abbraccerà tutta la terra (cfr. Am. 3,2).

I peccati da loro commessi nei riguardi del Signore con cui hanno stretto alleanza vengono specificati con cura. Essi sono tre: 1) idolatria, 2) sincretismo e 3) indifferenza verso Dio (vv. 4-5). Sono questi i frutti, in Giuda, del lungo regno di Manasse e del breve regno di Amon, en-trambi vassalli dell’impero assiro. Dal quadro generale che ci è offerto al proposito da II Re 21,1-5 e 23,4-14, sappiamo che quando Giuda di-venne servo dell’Assiria, incominciò a servirne anche gli dèi, venerando quei corpi astrali che gli assiri – come gli astrologi odierni – reputavano controllassero la sorte della terra. Inoltre, era ancora praticato l’antico culto dei ba‘al, dèi cananei della fertilità, con le correlate e abominevoli pratiche di prostituzione sacra e sacrifici infantili. E, lascito di Salomone, si tributava ancora obbedienza a Milcom, dio degli ammoniti (cfr. I Re 11,5.33; II Re 23,13). Quest’idolatria infettava il centro stesso della vita

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religiosa di Giuda, il Tempio, dove si conservavano oggetti cultuali sa-cri usati per la venerazione della dea cananea Astarte (II Re 23,4; 21,7) e statue dedicate al dio solare Shamash (II Re 23,11), così come altari per i sacrifici alle divinità astrali assire (II Re 23,12; 21,4). E i sacerdoti giudei conducevano il culto presso tali altari idolatri.

Inoltre, i giudei non vedevano alcun male in una tale confusione di dèi. Potevano fare un giuramento nel nome del Signore, impegnandosi con lui, e tuttavia porlo sullo stesso piano del dio straniero Milcom (v. 5)1, come se fra i vari dèi non intercorressero affatto differenze, più o meno come nei moderni tentativi sincretistici di equiparare Gesù a Buddha o Allah o Sun Myung Moon o qualche oscura “presenza” mistica. Il Dio santo del patto, accanto al quale non sedeva alcun altro dio, il cui no-me era Uno e la cui personalità era assolutamente unica fra gli dèi (cfr. Deut. 6,4; Is. 45,6), era diventato per i giudei semplicemente una delle tante divinità di un infinito pantheon di potenze.

Ma alla sparizione di Dio all’interno di una selva di divinità qualun-que seguono da vicino l’indifferenza nei suoi riguardi, l’assenza dal cul-to a lui dedicato e l’oblio dei suoi comandamenti. Quando la personalità di Dio, rivelata per mezzo della storia sacra della Bibbia, incomincia a farsi indistinta sino a svanire del tutto, si cessa di attribuire importanza all’obbedienza, alla preghiera, alla lode e all’impegno verso di lui. Così, Giuda è diventato «apostata» (v. 6), trascurando il solo Uno che gli ave-va infuso vita, e Dio reagisce a tale suo peccato condannandolo a quella morte che esso stesso ha scelto per sé.

Talvolta, noi cristiani pensiamo che la croce ci difenderà sempre da una simile condanna, ma nell’evangelo di Cristo non è implicita alcuna garanzia automatica contro una simile morte. Quando la venerazione della sua autorità si mescola con la fedeltà ad altri signori, quando si incomincia a credere che in ultima analisi siano la fortuna, le stelle o le potenze di questo mondo a determinare il nostro destino, quando per-tanto trascuriamo il culto del Signore e ci conformiamo ai costumi della società, mitigando i suoi comandamenti per convenienza o asservimen-to ideologico, anche noi ci ritroviamo a dover affrontare un Dio che può ben dirci: «Io distruggerò ogni cosa dalla faccia della terra». E forse, in questa nostra era nucleare, ci siamo già potuti fare una vaga idea degli strumenti che il Signore potrebbe adoperare per spazzarci via.

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1. Sofonia 1,2-6

1 In questo caso, la Nuova Riveduta presenta la lezione «Malcam», ma in altri casi rende con «Milcom» (per esempio, I Re 11,5.33; 23,13; N.d.T.).

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Sofonia 1,7-13

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È senz’altro possibile che questo passo sia una raccolta di una serie di oracoli profetici molto brevi originariamente indipendenti, ma il tutto è stato unito insieme – dal profeta stesso o da qualcun altro – per dare vita a un impressionante annuncio iniziale dell’avvento del Giorno del Signo-re e della ragione principale di tale evento. Qui, Sofonia enuncia l’accusa fondamentale che Dio muove nei confronti del popolo del patto.

Nel libro di Sofonia, l’importanza dell’idea del Giorno del Signore, che pure è ampiamente trattata anche nel libro di Gioele, è forse espli-citata più che in ogni altro scritto profetico; quindi, per capire il senso della predicazione di Sofonia, dobbiamo prima comprendere la natura di tale Giorno.

Il concetto di Giorno del Signore affonda le sue radici nell’antica teologia delle guerre sante di Israele, combattute nel periodo della le-ga tribale (ca 1220-1020), e in verità sino all’epoca di Saul (1020-1000), nel rispetto di norme cultuali o sacrali prestabilite (di qui la definizione di guerra «santa»). In tali battaglie, il Signore si era presentato sotto le spoglie del Guerriero Divino, guidando gli eserciti di Israele e di fatto procurando loro la vittoria con l’ausilio di armi cosmiche come il tuono (I Sam. 7,10), pietre scagliate dal cielo (Gios. 10,11), tenebre (Es. 14,20; Gios. 24,7), pioggia e terremoti (Giud. 5,4-5). Cosa ancor più importan-

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te, il Signore aveva seminato terrore e panico tra le file dei nemici (Es. 15,14-16; 23,27; Gios. 2,9.24; 5,1; 7,5), inducendoli ad autodistruggersi. Molto tempo dopo, all’epoca di Sofonia e Geremia, il Deuteronomio si era avvalso di quest’intero complesso di idee per rassicurare Giuda, cir-condato da truppe nemiche (cfr. Deut. 20).

I profeti, tuttavia, conferirono un significato nuovo a tale tradizione. A cominciare da Amos, essi annunciarono che, nel Giorno del Signore, Dio avrebbe rivolto il suo furore bellico non più soltanto contro i nemici di Israele, ma anche contro Israele stesso, in punizione dei suoi peccati. Un annuncio di tal fatta è esplicito non solo qui in Sof. 1, ma anche in Am. 5,18-20, Is. 2,6-22, Ez. 7,5-27, Gioele 1,15; 2,1-11, e Mal. 4,5 (cfr. Lam. 2,1.21-22; Ez. 34,12). Anzi, tale guerra divina contro Israele costituisce probabilmente lo sfondo dell’intero messaggio di Amos, della maggior parte di quello di Geremia, e così pure di Sof. 1,2 - 3,8.

Secondo qualche studioso, il titolo di «Giorno» non sta a designa-re una definita estensione temporale, bensì un preciso evento nel tem-po, la cui natura sarà determinata interamente dal Signore; pertanto, espressioni come «in quel tempo» o «in quel giorno» indicano non pe-riodi già stabiliti, ma particolari eventi, di cui vengono quindi illustra-te nei dettagli le caratteristiche. Secondo i profeti, la natura del Giorno è la seguente:

1. È vicino (Sof. 1,7.14; Am. 6,3; Ez. 7,7; Gioele 1,15; 2,1; cfr. Is. 13,6; Ez. 30,3; Abd. 15; Gioele 3,14).

2. È un giorno in cui Dio sfoga la sua collera contro i malvagi (Sof. 1,15.18; 2,2.3; Ger. 4,8; 12,13; Ez. 7,3.8.12 s.14.19; Lam. 2,1.21-22; cfr. Is. 13,9.13).

3. È un giorno di tenebre e caligine (Sof. 1,15; Am. 5,18; 8,9; Gioele 2,2), o di nubi e fitta oscurità (Sof. 1,15; Ez. 34,12; Gioele 2,2; cfr. Ez. 30,3).

4. In esso, i corpi celesti vengono oscurati (Am. 8,9; Gioele 2,10; cfr. 2,31; 3,15; Is. 13,10).

5. Dio vi è raffigurato come un guerriero (Sof. 1,14: vedi il commen-to a questo versetto; 3,17; Ger. 20,11; Is. 59,15-18; 63,1-6; 66,15-16; Zac. 14,3; Gioele 2,11).

6. È un giorno di battaglia, di squilli di tromba e grida di combatti-mento (Sof. 1,16; cfr. Ez. 7,14; Ger. 4,5.19.21; 6,1; Is. 13,2-22; 22,5-8; Ez. 30,4-5; Abd. 8-9; Zac. 14,2-3). È anche un giorno di spade (Sof. 2,12; cfr. Ez. 7,15; Ger. 4,10; 12,12; 46,10; Is. 13,15).

7. I nemici vengono spaventati e resi impotenti (Ez. 7,17.27; cfr. Ger. 4,9; 6,24; Is. 13,7-8; Ez. 30,9; Zac. 14,13).

8. Dio va a scovarli per distruggerli (Sof. 1,12; Am. 9,2-4; cfr. Is. 13,14-15).

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2. Sofonia 1,7-13

9. La ricchezza di costoro non può salvarli e si rivela pertanto inu-tile (Sof. 1,18; Is. 2,20; Ez. 7,11.19; cfr. Is. 13,17).

10. La superbia umana è nullificata (Sof. 3,11-12; Is. 2,11-17; cfr. Ez. 7,10.24; Is. 13,11; Abd. 3-4).

11. È possibile che nel Giorno alcuni siano messi al sicuro o salvati quale residuo (Sof. 2,3.7.9; Am. 5,14-15; cfr. Gioele 2,18-32; Ger. 4,14; Abd. 17).

I profeti, dunque, nel raffigurare il Giorno del Signore si attennero a quanto stabilito dalla tradizione, e nella descrizione di Sofonia non vi è effettivamente nulla di essenziale che non si trovi già nelle profezie di Amos e Isaia e che non sia passato da questi ai profeti successivi. Eppu-re, ciascun uomo di Dio dipinse il Giorno nei colori peculiari alla situa-zione in cui versava, chi più liberamente, chi meno: forse, è nelle profe-zie di Geremia che possiamo trovare l’uso maggiormente creativo del materiale tradizionale.

Anche Sofonia diede un suo contributo all’arricchimento della descri-zione, in particolare nel passo relativo al sacrificio allestito dal Signo-re (1,7). «Tacete davanti al Signore, Dio», gridano i sacerdoti davanti al sacrificio. Per lo più, si è ravvisato in Giuda l’«animale» immolato e sul punto di essere condiviso da Dio con i suoi ospiti in questo versetto. Ciò sarebbe vero se questo fosse il sacrificio dello herem, che, nella tradizione della guerra santa, veniva celebrato al termine della battaglia (cfr. Deut. 20,16-18; 25,17-19; I Sam. 15,3; Ger. 46,10; 50,26-27; Is. 34,5-7). In questo caso, però, il combattimento non è ancora iniziato. Incombe minaccio-so, ma non è ancora in corso, e Sof. 1 serve in realtà da preludio all’in-vocazione al pentimento di 2,1-4. Il sacrificio di 1,7, perciò, è quello che precedeva sempre la guerra santa (cfr. I Sam 13,9; II Sam. 15,12), in cui si consacravano i soldati per la battaglia (Sof. 1,7; Is. 13,3; cfr. i «prepa-rativi bellici» di Ger. 6,4; 22,7; 51,27). Sofonia ritrae Dio nell’atto di al-lestire il suo esercito, un esercito i cui membri sono tanto sconosciuti e misteriosi quanto l’identità del nemico proveniente dal Nord in Gere-mia. Dio si prepara a distruggere tutte le nazioni, Giuda compreso e chi può dire di quali misteriosi agenti si avvarrà per mettere in atto tale sua condanna? Non si tratta, tuttavia, di un quadro apocalittico, così come non lo è Am. 1 - 2. Infatti, segnala non la fine del mondo, ma la sua tra-sformazione.

Per la comprensione di Sofonia come parola di Dio sono di massima importanza le ragioni che sottendono alla condanna divina di Giuda, che, come nel passo precedente, vengono illustrate chiaramente nella loro specificità.

Innanzitutto, una volta divenuti vassalli dell’Assiria, i capi di Giuda hanno adattato i propri costumi a quelli di una cultura straniera, come

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Parte prima – La parola del Signore negli ultimi anni

si evince dal fatto che vestono di abiti stranieri all’ultima moda (1,8). Giuda ha dunque fatto proprie usanze e abitudini assire. Eppure, sin dal principio, si supponeva che Israele sarebbe dovuto essere una nazione unica (Es. 33,16), «un popolo che dimora solo» (Num. 23,9), a differen-za di qualsiasi altra società. Gli israeliti non si sarebbero dovuti com-portare come i popoli che li circondavano (Lev. 18,1-5), ma avrebbero dovuto agire secondo i comandamenti impartiti da Dio nella legge del patto. Come la chiesa, Israele non si sarebbe dovuto conformare agli usi di questo mondo, ma avrebbe dovuto obbedire unicamente alla volontà del Signore con cui aveva stretto alleanza (Rom. 12,2); ora, invece, aveva rinunciato alla sua unicità per adattarsi alla situazione presente.

Come già osservato nel passo precedente (vv. 4-5), Israele era cadu-to pertanto vittima dell’idolatria pagana, simboleggiata qui ancora una volta da un atto specifico, quello di saltare la soglia, sulla quale, secon-do le credenze pagane, dimoravano spiriti maligni (1,9; cfr. I Sam. 5,5 e l’antica usanza romana di portare in braccio una sposa al di là di essa).

Inoltre, nell’abbandonare il suo unico Dio, Israele ne ha messo da parte i comandamenti, che imponevano di prestare particolare aiuto ai poveri e ai derelitti (Es. 22,21-27; 23,6-10). Di conseguenza, nei tribuna-li, negli scambi commerciali e nei rapporti sociali, violenze e frodi nei riguardi dei più deboli erano diventate la norma (1,9). Infatti, gli ogget-ti lussuosi che adornavano le case dei capi non erano che il ricavato di una simile rapacità.

Giuda, come la nostra società moderna di questa cosiddetta «era post-cristiana», ritenne che per potersela cavare in una situazione nuova fos-se opportuno adottare sistemi nuovi: bisognava essere pratici, accettare compromessi, adeguarsi alla realtà. In fin dei conti, l’Assiria era il sovra-no del momento e, se si è saggi, conviene mostrarsi il più disponibili e accomodanti possibile con chi tiene in mano le redini del potere: il pro-prio capo, i propri leader, la propria organizzazione o i propri funzio-nari governativi. Antichi comandamenti impartiti da un Dio invisibile conservano ben poca forza e importanza in un mondo che è chiaramen-te retto da altre, umane potenze.

Il profeta riassume tale atteggiamento di Giuda in 1,12, che costi-tuisce l’accusa centrale del suo libro: i suoi uomini e le sue donne si sono «adagiati sulle loro fecce». L’immagine è tratta dal processo di vinificazione. Le fecce sono i sedimenti dell’uva. Il vino nuovo viene lasciato riposare sui propri sedimenti sino a che non acquisisce il giu-sto colore e la giusta corposità. Occorre poi rimuoverlo, travasandolo in un altro recipiente, prima che diventi torbido e sciropposo, dolcia-stro e soggetto a muffa (cfr. Ger. 48,11; Is. 25,6, pertanto, indica un vi-no molto dolce).

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2. Sofonia 1,7-13

I giudei, dunque, sono diventati un «vino torbido». Che cosa ciò si-gnifichi è spiegato chiaramente nelle righe successive. Essi «dicono in cuor loro: «Il Signore non fa né bene né male». L’ultima parte della mas-sima è in forma di proverbio e dev’essere stata quindi un’espressione corrente nella parlata quotidiana della Gerusalemme dell’epoca di So-fonia; infatti, come osserva il profeta, descrive bene l’atteggiamento dei cittadini di Giuda, rivelandone il pensiero recondito e il motivo ispirato-re di tutte le loro azioni. Quel che dice il proverbio è che il Signore non farà proprio nulla (cfr. Gen. 31,24 e l’applicazione del detto agli idoli in Is. 41,23; Ger. 10,5)! Gli abitanti di Gerusalemme del tempo di Sofonia ritengono che Dio non governi più il mondo. Alle sue azioni non attri-buiscono nemmeno cose buone, perché a loro giudizio egli non agisce affatto, non esercita più la sua influenza sulle vicende terrene e non sta più effettivamente portando avanti un suo proposito per il mondo. Ciò mi fa venire in mente un uomo che una volta, durante l’assemblea dei fedeli, osservò: «Sicuramente io credo in Dio, ma non penso che faccia alcunché». Di certo, questo è anche ciò che pensa la moderna società se-colare, secondo la quale Dio è assente dal mondo e pertanto «qualunque cosa va bene»: dal momento che nessuno vede ciò che facciamo (cfr. Ez. 8,12; 9,9), non dobbiamo temere di doverne pagare le conseguenze. In una società come questa, gli esseri umani hanno commesso il più estre-mo atto di idolatria che sia concepibile: il peccato ultimo di provare a eleggere se stessi a propri dèi (cfr. Gen. 3,5).

Di fronte a un tale supremo atto di idolatria, a una tale totale rottura del patto (cfr. Es. 20,3), Sofonia annuncia che il Giorno del Signore è vi-cino e viene in gran fretta. Quel Giorno rivelerà chi governa davvero il mondo e chi ha il potere di agire (cfr. il riferimento a Dio come «Re» in 3,15; Dio viene spesso indicato con il titolo di «Re» in connessione con il Giorno del Signore: Ger. 51,57; Ez. 20,33; Zac. 14,9.16).

La battaglia di Dio contro il suo popolo e la sua terra ribelli prenderà le mosse dal cuore di Gerusalemme: il giudizio deve cominciare dalla casa di Dio (I Pie. 4,17). Tuttavia, in maniera consona all’avvenuta seco-larizzazione della società urbana, Dio inizierà ad annientare i peccato-ri a partire non dal Tempio, ma dal quartiere commerciale: dalla Porta dei Pesci, sita nella parte settentrionale delle mura (cfr. Ne. 3,3; 12,39; II Cr. 33,14), dalla quale entravano con i frutti del loro lavoro i pescatori provenienti da Tiro (cfr. Ne. 13,16); dal quartiere nuovo, un sobborgo situato nei pressi delle mura di Manasse, vicino alla Porta suddetta; e dal Mortaio, quartiere eretto in un bacino sito fra le colline (a oriente e occidente) sulle quali era stata edificata Gerusalemme, dove evidente-mente dimoravano commercianti e mercanti. Proprio qui, nel suo centro commerciale – la sua antica Wall Street – Gerusalemme avrebbe speri-mentato il primo attacco da parte di Dio (vv. 10-11).

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Con la sua poesia, Sofonia ci fa udire i suoni della battaglia: grida d’angoscia, lamenti per la rovina della città, un gran fracasso di cui i colli circostanti restituiscono l’eco (cfr. Ger. 50,22; 51,54).

Dio darà inizio al suo Giorno nel centro commerciale. In seguito, pe-rò, come Diogene alla ricerca della verità con la sua lampada, e come Geremia che esortava a percorrere le strade di Gerusalemme in cerca di una persona che praticasse la giustizia (Ger. 5,1; cfr. Gen. 18,22-33), egli frugherà in ogni angolo della città finché non avrà scovato tutti coloro che pensano che non sia lui a dirigere il suo mondo (cfr. la stessa imma-gine nei passi sulla guerra santa di Am. 9,2-4 e Is. 13,14-15; vedi anche Ger. 16,16-18 ed Ez. 9,4-6). Sarà impossibile sottrarsi alla sua minuziosa e accurata investigazione (cfr. Sal. 139,7-12). Gli idolatri ricchi e presun-tuosi, che ritengono di essere degli dèi, vedranno i loro beni diventare il bottino della guerra di Dio (cfr. v. 13; Ger. 15,13; 17,3) e scopriranno di essere del tutto indifesi di fronte a lui.

Le ultime quattro righe del v. 13 riprendono le maledizioni di Deut. 28,30.39 (cfr. Am. 5,11; Mich. 6,15, e l’inverso della maledizione di Is. 65,21-22; Ez. 28,26), che si abbatteranno su coloro che hanno rotto il patto con Dio. Ed è proprio questo, in definitiva, il peccato di Giuda: ha infranto la sua alleanza con il Signore, e non solo temporaneamente, lasciandosi andare a minuscole violazioni dei suoi comandamenti, ma in maniera radicale, dal profondo del cuore. Ha collocato se stesso al posto di Dio. Ha pensato che Dio non fosse necessario. Tale sua totale infrazione del patto di fedeltà determinerà la sua completa distruzione. A un’epoca se-colarizzata come la nostra, e a una chiesa così uniformata agli usi mon-dani come quella di cui facciamo parte, la parola di Dio trasmessa da Sofonia suona spaventosa e terribile.

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Sofonia 1,14-18

Pochi brani dell’Antico Testamento sono stati più ampiamente rap-presentati nella liturgia ecclesiastica, in letteratura e in musica (tanto sacra quanto profana) dell’inno sul Giorno del Signore che costituisce i primi due versetti di questo passo. Nel xiii secolo, un monaco france-scano compose una poesia di diciassette strofe sul testo del brano, in-titolandola Dies irae, dalle prime parole del v. 15 nella Vulgata. (Proba-bilmente, però, non si tratta di Tommaso da Celano, l’amico di Fran-cesco d’Assisi, cui il componimento è spesso attribuito; vedi treach 1864). La prima parte della poesia offre una descrizione del Giorno del Giudizio, una sorta di riassunto dell’escatologia cristiana. La seconda è un’appassionata preghiera a Cristo affinché si dimostri misericordioso. Come le Scritture, il componimento circolò in parecchie versioni mano-scritte differenti. Nessun altro inno, inoltre, ha conosciuto più traduzio-ni (notevolmente diverse l’una dall’altra) in lingue volgari (per i primi versi di una di queste, vedi taylor 1956, VI, p. 1012) di questo. Nel xiv secolo, cominciò a essere incluso come sequenza nella messa da requiem e nel 1570 fu ufficialmente incorporato nel messale romano (vedi SaDie 1980). Da lì fino ai giorni nostri è stato utilizzato in numerose opere let-terarie e musicali.

Per la chiesa cattolica romana il Dies irae è stato obbligatorio in alcune messe fino al 1969; ora, invece, fatto forse sintomatico dei nostri tempi,

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è caduto in disuso. Ciò nonostante, data la lunga storia ermeneutica del passo, dobbiamo domandarci: che cosa accade in Sof. 1,14-15?

In una visione profetica anticipatrice, Sofonia scorge l’inizio della guerra santa del Signore contro il suo popolo: «Il valoroso – là – leva un grido di guerra» (v. 14d, ebraico)! La scena si apre con l’urlo di battaglia del Signore (cfr. 3,17; Is. 42,13; Ger. 25,28-31; Am. 1,2; Gioele 3,16; per le parole di un grido di guerra nella Guerra Santa, vedi Giud. 7,18). Co-sì, invece che con: «Si sente venire il giorno del Signore», bisognerebbe rendere il v. 14c con: «Si sente la voce del giorno del Signore», perché anche in questo caso il riferimento è alla voce del Divino Guerriero che dà avvio alla lotta.

Ecco, egli fa risonare la sua voce, la sua voce potente (Sal. 68,33).

La voce del Signore è potente, la voce del Signore è piena di maestà (Sal. 29,4).

Quella voce al cui rimprovero, al momento della creazione, le acque fuggirono precipitosamente (Sal. 104,7), il cui tuonare produce grandi-ne e fuoco (Sal. 18,13, cfr. Giob. 37,5); quella voce che fu udita sul Sinai insieme con «tuoni, lampi, una fitta nuvola sul monte e […] un fortissi-mo suono di tromba. Tutto il popolo che era nell’accampamento tremò» (Es. 19,16); una voce il suono delle cui parole è «tale che quanti l’udiro-no supplicarono che più non fosse loro rivolta altra parola» (Ebr. 12,19): è questa la voce che si udrà quando Dio darà inizio alla guerra santa contro il suo popolo.

Come sul Sinai, quando il Signore stipulò il patto con Israele, la sua voce è accompagnata da «tenebre e caligine», «nuvole e fitta oscurità» e squilli di tromba, tutte manifestazioni cosmiche della soverchiante pre-senza di Dio. Ma il terribile messaggio di Sofonia è che, in questo suo Giorno, il Signore dell’alleanza è esploso non di amore, nel desiderio di salvare il suo popolo o per stringere amicizia con esso, come sul Sinai, bensì di collera e furore. E così, questo Giorno in cui si udrà la voce del Signore sarà «un giorno di sventura e d’angoscia […] di rovina e di de-solazione», un giorno da brividi.

Non esistono fortificazioni in grado di respingere questo Guerriero (v. 16). Non c’è argento od oro con cui si possa comprare la salvezza dal suo attacco (v. 18), strategia talvolta rivelatasi efficace contro un nemi-co umano (II Re 15,19-20; cfr. 16,7-9; 18,13-16). Annientati dall’enorme pressione dell’assalto divino, i giudei brancoleranno come ciechi, inca-paci di trovare una via d’uscita, e così si compirà la maledizione scaglia-ta dal Signore in Deut. 28,29. Il popolo amato, la nazione eletta, questo suo peculiare tesoro apparirà agli occhi di Dio del tutto privo di valore,

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come la polvere o immondi escrementi. Polvere sono e in polvere ritor-neranno (cfr. Gen. 3,19).

Ma il peccato contro il quale ora si scaglia il Divino Guerriero non è sta-to commesso da Giuda soltanto. Il peccato di cercare di vivere senza Dio – lo spaventoso, terribile tentativo di governare il mondo senza di lui – è il peccato di tutta la terra (cfr. Gen. 3 - 11). E così Dio, nel fuoco della sua gelosia (la sua sola richiesta era stata la fedeltà di tutte le creature), mostrerà la sua signoria sulla carne consumandola per la sua ribellione (v. 18). Il peccato ha raggiunto dimensioni universali. Universale deve dunque essere anche la sua distruzione.

Stando al v. 18, la fine sarà improvvisa. «Gli uomini, come sappia-mo, sono abituati a prolungare i tempi, in modo da poter coltivare con cura i loro peccati» (calvino 1948, V, p. 221), ma il tempo della loro ri-belle indipendenza da Dio terminerà quando meno se lo aspetteranno (cfr. Mc. 13,32-35).

La chiesa contemporanea ha fatto largo uso di questo passo di Sofo-nia. In alcuni lezionari, Sof. 1,7.12-18 è accoppiato a I Tess. 5,1-10 o I Tess. 4,13-18, e con Mt. 25,14-15.19-29 o Mt. 25,1-13; in tal modo, si equipara il Giorno del Signore di Sofonia alla parousia, alla risurrezione dei morti e al giorno del giudizio. È la stessa interpretazione che ne dà la chiesa cattolica romana nel Dies Irae. Pertanto, la chiesa si avvale del Giorno che, in Sofonia, era «vicino e viene in gran fretta», per dar forma alla sua escatologia, come è il caso anche di molte altre immagini profetiche del giudizio futuro e della salvezza.

La descrizione veterotestamentaria del Giorno del Signore, tuttavia, viene anche utilizzata nel Nuovo Testamento per raffigurare l’escatolo-gia realizzata. Nel racconto degli evangelisti, in occasione della crocifis-sione di nostro Signore l’oscurità del Giorno del Signore cala sulla terra dall’ora sesta all’ora nona (Mc. 15,33 // Mt. 27,45; particolare omesso da Luca); similmente, Giovanni interpreta la crocifissione come il giu-dizio di Dio su questo mondo, contrassegnato dal calare delle tenebre (Giov. 12,31-32.35-36).

In un modo o nell’altro, la chiesa ha sempre collegato il terribile giu-dizio descritto in Sof. 1,14-18 con la figura di Gesù Cristo, che è venuto sulla terra e sta per farvi ritorno. E tale giudizio non va né attenuato, né accantonato. Secondo Gesù, i servi infedeli, distratti e negligenti potran-no trovare la porta chiusa (Mt. 25,10):

[…] La porta sbarrata per sempre, una strada che non conduce da nessu-na parte, la falsa credenza, il buio eterno (BernanoS 1954, p. 23).

Nei nostri tentativi di governare da soli la nostra vita, rischiamo di ritrovarci scagliati «nelle tenebre di fuori», dove non vi sarà che «il pian-

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3. Sofonia 1,14-18

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to e lo stridor dei denti» (Mt. 25,30). L’unico rimedio possibile è abban-donare tale nostra pretesa e confidare in quell’Uno che verrà nel Giorno del Signore a salvarci dalla sua collera, di modo che possiamo «ottene-re salvezza» (I Tess. 5,9) e dimorare per sempre «con il Signore» (I Tess. 4,17). Il gran Giorno del Signore è vicino e viene in gran fretta, ma noi potremo trovare conforto (I Tess. 4,18) «nella vita e nella morte», se lo accoglieremo nei nostri cuori (cfr. Sof. 1,12). È con questo stesso pensie-ro che il libro di Sofonia prosegue (Sof. 2,1-4).

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4

Sofonia 2,1-4

Molte confessioni utilizzano Sof. 2,3, insieme con 3,11-13, come lezio-ne veterotestamentaria fissa per il giorno dell’Epifania. Il passo in esa-me costituisce anche l’annuncio centrale del libro, in armonia con tutto quello che precede e segue.

Nel primo capitolo il profeta ha proclamato che il Giorno in cui il Di-vino Guerriero giudicherà l’umanità intera per il suo peccato estremo di superbia – l’avere cercato di vivere in un mondo senza alcun Dio, un mondo in cui gli esseri umani hanno eletto se stessi a propri dèi – si av-vicina velocemente. E, come anticipato dalle letture neotestamentarie spesso accostate nei lezionari a Sof. 1,14-18 (vedi il capitolo preceden-te), c’è un solo modo per salvarsi da un simile giudizio universale: ces-sare di fare assegnamento sui propri poteri e affidarsi alla misericordia di Dio; in breve, rinunciare al peccato sommo della superbia e umiliarsi davanti al Creatore. È esattamente a quest’unica speranza di salvezza che Sofonia invita la sua nazione peccatrice ad aggrapparsi. In mezzo alla caligine e alla fitta oscurità del tremendo Giorno del Signore, c’è un raggio di luce: la pietà di Dio, il quale desidera che il suo popolo non perisca, ma continui a vivere (cfr. Ez. 18,30-32; Giov. 3,17).

Il problema fondamentale di Giuda, però, è che è una nazione di «gente spudorata» (v. 2,1b). Come ebbe a dire Geremia, che predicò po-co dopo Sofonia:

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Nessuno si pente della sua malvagitàe dice: «Che ho fatto?». Ognuno riprende la sua corsa, come il cavallo che si slancia alla battaglia (8,6c-f).

Nessuno giudica le proprie azioni alla luce della volontà di Dio. Nes-suno si pente per il fatto che i propri comportamenti non sono in accordo con i desideri divini, evidenziati nella legge dell’alleanza.

Sofonia, pertanto, esorta la sua gente a «raccogliersi» (2,1), invito che può essere figurato ma anche letterale, nel senso cioè di esortazione a ra-dunarsi in assemblea per digiunare, pentirsi e cercare Dio per un aiuto e un consiglio (cfr. II Cr. 20,3-4; Gioele 1,14). L’urgenza dell’appello del profeta è enfatizzata dal triplice «prima che» del v. 2. (Il testo del v. 2ab è di difficile comprensione e significa probabilmente: «prima che passi un altro giorno senza che si raduni una simile assemblea»; esso, lette-ralmente, recita: «prima che si esegua il decreto [circa la convocazione di tale riunione] e quel giorno passi come la pula».)

«Cercate il Signore», ammonisce Sofonia (2,3; cfr. Am. 5,6; Is. 55,6), perché, nel volgersi a Dio, le persone riconosceranno di non essere loro stesse delle divinità e di dipendere da quell’Uno che è veramente Dio e Signore delle loro vite. Questa ricerca, questa svolta, questo riconosci-mento produrranno tre risultati.

Primo, instilleranno nelle persone la necessaria umiltà (v. 3a.c; cfr. 3,12), quella docilità di spirito (cfr. Is. 11,4), quella debolezza e contrizio-ne di cuore (cfr. Sal. 34,18; 51,17; Is. 57,15; 66,2) che sono appropriate da-vanti a Dio, in quanto permetteranno loro di comprendere che, di fatto, non sono autosufficienti, ma dipendono da lui per ogni singolo respiro, per la luce che vedono ogni mattina e i passi che fanno ogni giorno. A renderci conto che in Dio soltanto viviamo, ci muoviamo ed esistiamo: è a quest’umile ma gioiosa consapevolezza che Sofonia ci chiama (cfr. I Pie. 5,6).

Secondo, il volgersi a Dio conduce all’obbedienza, all’osservanza dei suoi comandi (v. 3b; cfr. Is. 58,2; Ger. 5,4-5; 8,7). Se smettiamo di gestire in prima persona le nostre vite, se rinunciamo a essere signori dei no-stri universi privati e ci affidiamo alle indicazioni di Dio, ci scopriamo a obbedire alla sua volontà, che egli ci ha espresso nei suoi insegnamenti e comandamenti. Ed è precisamente a una tale obbedienza ai coman-damenti prescritti nel Decalogo, nel Codice dell’Alleanza e nella torah profetica e sacerdotale che Sofonia richiama la sua gente.

In tale umile dipendenza e in tale obbedienza consiste, in terzo luo-go, la «giustizia» davanti al Signore (v. 3c): ossia, è con un simile atteg-giamento che si adempie alle richieste del rapporto con Dio, secondo quanto stipulato nel patto d’alleanza (vedi E. achtemeier 1962). Occor-

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re tuttavia osservare che non si rispettano le norme che regolano tale relazione semplicemente obbedendo alla legge. Sino al periodo post-esilico l’Antico Testamento non indulge mai in un simile legalismo. In esso, piuttosto, come del resto nel Nuovo Testamento, la giustizia si conquista primariamente attraverso la fede, tramite quell’amorevole confidenza, con tutto il cuore (cfr. 1,12), in Dio soltanto per tutto ciò che concerne la nostra vita (cfr. Deut. 6,5) che sfocia in un comportamento quotidiano all’insegna dell’abbandono, della fedeltà e dell’obbedienza (cfr. Deut. 10,12-16; 11,1.13.18-20; 30,16.20). A una tale giustizia, otte-nuta cercando Dio, Sofonia chiama il suo popolo impenitente, perché solo essa potrà salvarlo dal Giorno, ormai imminente, in cui il Signore sfogherà la sua collera.

È significativo, pertanto, che le letture neotestamentarie (I Cor. 1,26-31; Mt. 5,1-12) talvolta associate a questo passo nei lezionari abbiano come argomento le caratteristiche che deve avere la fede: umiltà contro la sa-pienza e l’indipendenza mondane; obbedienza anziché pretesa di auto-governarsi; la giustizia di Dio attraverso Cristo al posto delle superbe e peccaminose rivendicazioni degli esseri umani. L’opportunità di esami-nare la natura della vita di fede offerta da tali letture non va sprecata.

Sofonia, comunque, non si rivolge solo a un manipolo di credenti ri-masti in Giuda già umile e obbediente, ma implora l’intera nazione a volgersi a Dio e abbracciare la fede. Come Paolo, quando, rivolgendosi ai «santi» di Corinto (I Cor. 1,2) – quel numeroso gruppo di atei – li esorta a mostrarsi all’altezza della loro santità in Cristo, Sofonia supplica qui il popolo che ha stretto un patto con Dio a rispettarlo nei fatti.

Il profeta, però, non offre garanzie: coloro che accoglieranno il suo invito saranno «forse» messi al sicuro quando la terrà si inabisserà sot-to il diluvio del giudizio (v. 3; cfr. Am. 5,14-15; Is. 26,20-21; Giob. 14,13; Sal. 57,1). La diffusione del peccato ha raggiunto proporzioni univer-sali e il giudizio su di esso sarà altrettanto universale. E nessun uomo, neppure un profeta, è in grado di dire chi sarà risparmiato alla resa dei conti (cfr. Mt. 24,40-42); «forse» voi, forse no. Sono parole che fanno tre-mare le gambe.

Vengono quindi illustrate le conseguenze che le nazioni del mon-do patiranno quando, nel Giorno promesso, Dio sfogherà la sua ira. È necessario che tale descrizione inizi qui, al v. 4, perché essa rappresen-ta lo sfondo dell’urgente appello dei vv. 1-3. L’esortazione è: «Cercate il Signore». Perciò, imparate a essere umili, obbedienti e giusti, perché nel Giorno che sta per arrivare tutto sarà spazzato via (1,2), a comincia-re dai filistei (v. 4). Muovendo dal sud verso nord, Sofonia enumera le quattro città restanti della pianura costiera che costituivano l’antica lega delle cinque tribù filistee (cfr. Gios. 13,3), la quale, dal 1150 a.C. in poi,

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4. Sofonia 2,1-4

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era stata una costante minaccia per Israele e, al tempo di Saul, era quasi riuscita ad annientarlo.

Dio sta per dare avvio alla guerra contro i suoi nemici, tanto all’in-terno quanto al di fuori di Israele (cfr. 1,14). In questo passo, «il testo ebraico è tutto uno scoppiettio di allitterazioni e giochi di parole infau-sti» (eaton 1961, p. 137). In ebraico, il termine che indica «Gaza» suona in modo molto simile ad «abbandonato», e quello per «Ekron» somiglia molto a «sradicato». Perciò, Sofonia si serve di tali assonanze per procla-mare che queste città otterranno quanto i loro nomi lasciano presagire. Una superba poesia al servizio della collera del Dio guerriero.

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5

Sofonia 2,5-15

L’appello è stato pronunciato: «Cercate il Signore», che significa: «Affidatevi alla sua sovranità e misericordia», perché sta per giungere il Giorno in cui il Signore spazzerà via tutti coloro che hanno cercato di vivere senza di lui (vedi 2,1-4). Ora, tale giudizio universale viene de-scritto nei particolari.

Le nazioni qui citate simboleggiano tutto il mondo conosciuto: la Fi-listia a ovest (vv. 5-7); Moab e Ammon a est (vv. 8-11); l’Etiopia, che qui comprende l’Egitto, a sud (v. 12); e, al climax, l’Assiria a nord (vv. 13-15), perché, secondo i profeti (cfr. Ger. 1,15; 4,6; 6,1.22), la regione settentrio-nale era la più malvagia e al tempo di Sofonia l’Assiria ne era l’incar-nazione.

Le ragioni fornite per il giudizio sul mondo sono degne di nota. Il peccato della Filistia non viene specificamente menzionato, ma in Israe-le la sua superba arroganza e blasfemia nei riguardi del suo Dio erano già leggendarie (cfr. I Sam. 17). Ed è precisamente la superbia delle na-zioni (cfr. Gen. 11,1-9) che queste profezie sottolineano e che nel Giorno del Signore diviene oggetto della sua ira (cfr. Is. 2,6-20): l’orgoglio deri-vante dalla ricchezza, cui alludono nel v. 5 il termine «Canaan», sinoni-mo di mercanti avidi, e nel v. 14 il riferimento ai bei «rivestimenti di ce-dro»; la superbia che nasce dal potere, rappresentato qui dalle vanterie e dagli insulti di scherno di Moab e Ammon (vv. 8 e 10; cfr. Is. 16,6; Ger.

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48,7.14.17; 49,4) e dai loro tentativi di impadronirsi di territori apparte-nenti a Israele (cfr. Am. 1,13; Ez. 25,1-7); che è frutto dell’indipendenza, della sicurezza e della sovranità, come sottolineato dalla frecciata del v. 15 nei confronti dell’Assiria (cfr. Is. 47,8.10). Le nazioni esultano nel-la loro arroganza (v. 15; cfr. Is. 22,2; 23,7; 32,13; Sof. 3,11), ma sarà Dio a esultare per ultimo (3,17).

Il profeta offre una descrizione vivida delle conseguenze del Giorno in cui Dio sfogherà la sua ira per la superba indipendenza del genere umano. Le attive città costiere fortificate diventeranno quieti luoghi di rifugio per le greggi (vv. 6-7). Moab e Ammon diverranno lande deso-late, indistinguibili dalle sterili saline e dalle selve di ortiche che circon-dano il Mar Morto (v. 9). Etiopi ed egiziani saranno uccisi dalla spada di Dio (v. 12). E le fertili, verdi regioni dell’Assiria, con i loro fiumi e ca-nali, si tramuteranno in un arido deserto; pellicani e ricci (entrambi ani-mali impuri, secondo Lev. 11,18; Deut. 14,17) dimoreranno fra le colon-ne in rovina della capitale Ninive, dalle finestre rotte si udrà il chiurlo della civetta e si sentiranno gracchiare i corvi sulle soglie deserte (cfr. Is. 34,11-15). Tale sarà la fine di coloro che hanno sostenuto di essere gran-di sulla terra.

La superbia precede la rovina, e lo spirito altero precede la caduta (Prov. 16,18).

Il passo termina con un canto di scherno contro Ninive (v. 15), perché la sua affermazione: «Io, e nessun altro all’infuori di me!» equivale a: «Io sono il Signore, e non ce n’è alcun altro» (Is. 45,5.14.18.21). Nessun Dio che sia realmente tale può lasciar passare una simile pretesa. Quel-lo di Ninive è un vanto comune fra quanti esercitano potere nel mondo: Hitler parlò di un Reich millenario; molti erano sicuri che l’Inghilterra non avrebbe mai perso le sue colonie d’oltremare; un tiranno insigni-ficante come Hailé Selassié si designava come «il Re dei re, l’Eletto del Signore, il Leone di Giuda, la sua più potente Maestà»; e gli statunitensi amano dire che la loro è la più grande nazione della terra e che possono fare qualsiasi cosa perché in fondo sono stati capaci persino di manda-re degli uomini sulla luna. Ma il v. 8 del passo in esame recita: «Ho udi-to […]!». Dio sente, Dio conosce i nostri intenti superbi e, come i vv. 9 e 10 sottolineano, egli è «il Signore degli eserciti», ossia il Signore di ogni potere, supremamente vivo (cfr. v. 9: «com’è vero che io vivo»), sommo sovrano del suo mondo. Pertanto,

il Signore degli eserciti ha un giornocontro tutto ciò che è orgoglioso e altero, e contro chiunque s’innalza, per abbassarlo;

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5. Sofonia 2,5-15

[…] L’alterigia dell’uomo sarà umiliata,e l’orgoglio di ognuno sarà abbassato; il Signore solo sarà esaltato in quel giorno (Is. 2,12.17).

Nel quadro futuro dipinto da Sofonia si parla di un «resto», il resto della casa di Giuda, che sarà risparmiato nel giorno del giudizio univer-sale (vv. 7 e 9). Il profeta descriverà in seguito le caratteristiche di tale residuo (3,9-13). Il fatto degno di nota, tuttavia, è che esso si sposterà nei territori precedentemente appartenuti alle nazioni straniere (vv. 7 e 9; cfr. anche 3,10), dove dimorerà in pace e al sicuro (v. 7), ereditando i frutti della vittoria di Dio (v. 9). In breve, ciò che Sofonia sta qui proclamando è che, come vedremo, i mansueti erediteranno la terra (Mt. 5,5).

Vi è qui una variazione rispetto alle abituali descrizioni profetiche del futuro. La tradizione che fa capo a Isaia aveva sempre ritratto le na-zioni nell’atto di affluire a Gerusalemme per unirsi a Israele (cfr. Is. 2,2-4//Mich. 4,1-3; Is. 45,14.22-25; 55,1-5; 56,3-8; 60; 61,5-6; 66,18-20; forse anche Mich. 7,11-13; e, in seguito, Aggeo 2,6-7; Zac. 8,20-23; 14,16-21). Qui in Sofonia, invece, sono gli israeliti rimanenti a uscire dalla loro ter-ra per dare vita al nuovo popolo di Dio nei territori delle altre nazioni. In 2,5-15, il «forse» di 2,3 è diventato una promessa per il futuro, e i so-pravvissuti che potranno accedere al Regno di Dio saranno coloro che ne avranno riconosciuto la sovranità e avranno cercato con umiltà, ob-bedienza e giustizia il loro vero Signore (2,3).

Ai nostri giorni, non è facile interpretare Sof. 2,5-15 se non in termi-ni escatologici, equiparando il giudizio universale che vi è promesso al-la parousia del Nuovo Testamento. Tuttavia, in uno dei grandi sermoni evangelici composti su questo passo, Charles Haddon Spurgeon prese le mosse da 2,5c: «La parola del Signore è rivolta contro di te», inseren-do dapprima il versetto nel suo contesto storico, ma ampliandone poi il senso fino ad abbracciare le Scritture («la parola») nel loro complesso.

La parola del Signore è rivolta contro di noi: è questo quanto procla-mano le Scritture, a meno che non professiamo nei nostri cuori e nella nostra vita l’esclusiva sovranità del Dio di cui esse sono la testimonianza. Perché il Dio della Bibbia, per dirla con Calvino, «non è affatto uno spet-tatore ozioso, che osserva soltanto ciò che avviene nel mondo» (calvino 1948, IV, p. 248). E il nostro orgoglio sarà sempre destinato a cadere, oggi come in futuro, e nei nostri cuori ortiche, saline e desolazione accompa-gneranno sempre una vita separata da Dio, frutto amaro che consume-remo nei giardini segreti della nostra volontà ribelle. La Parola (quella che troviamo in Sofonia come nel resto delle Scritture), la parola fattasi carne in Gesù Cristo si pone contro di noi e contro la nostra peccamino-sa superbia. E così sarà ora e per sempre se la ignoriamo o la rifiutiamo o pensiamo che sia destinata solo a qualcun altro. Sarebbe davvero un

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terribile peccato! Perché la parola del Signore, da un capo all’altro della Bibbia, è rivolta a noi e non contro di noi, è intesa a rimettere in sesto la nostra vita e a condurci in pascoli tranquilli e a consentirci di coricarci la sera in pace e sicurezza. Pertanto: «Cercate il Signore […] Cercate la giustizia, cercate l’umiltà!».

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Parte prima – La parola del Signore negli ultimi anni

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Sofonia 3,1-20

Una volta letti i primi due capitoli, si ha l’impressione che le profezie di Sof. 3 siano state formulate in un tempo successivo; ed è certamen-te possibile che il profeta abbia pronunciato tali oracoli in un momento più tardo della sua attività, forse dopo che fu divenuto evidente che la riforma deuteronomista non avrebbe portato frutti (cfr. v. 2) e dopo il crollo finale dell’Assiria, sancito dalla sconfitta di Ninive (cfr. v. 6). Per-tanto, il capitolo risalirebbe a un periodo compreso fra il 612 e il 609, e il fatto che molte delle sue espressioni riecheggino in Geremia appari-rebbe dunque significativo. Ciò parrebbe infatti confermare l’opinione secondo la quale i profeti che, come Geremia e Sofonia, sostenevano la riforma si avvalevano anche del medesimo stile retorico.

Eppure, va detto che un simile tentativo di collocare gli ultimi pro-nunciamenti di Sofonia nel loro specifico contesto storico non è assolu-tamente necessario per l’interpretazione del libro nel suo complesso. Il capitolo 3 è in sintonia con tutto quanto affermato nei primi due e forma con loro una totalità organica.

Infatti, a livello strutturale, 3,1-5 è intimamente connesso con 2,15, poiché anche in esso il profeta continua a muovere dall’universale al particolare (cfr. 1,2-3.4-6), per ricordare al suo popolo che non è esenta-to dall’imminente giudizio. Egli opera tale movimento concentrandosi sull’immagine della città, che tale peccaminosa entità sia Ninive (2,15)

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o Gerusalemme (3,1). Come 2,1-4, quindi, 3,1-8 muove ancora una volta da Giuda (3,1-7) alle altre nazioni (3,8). Il terzo capitolo riassume tutti i temi del primo e del secondo. Ma in 3,1-8 appare evidente che l’esorta-zione di Sofonia al pentimento è passata inosservata.

vv. 1-8 Dio non ha mancato di lasciare dietro di sé una testimonian-za (cfr. At. 14,17): questo è quanto attesta 3,1-7. Il Dio d’Israele ha cercato continuamente di correggere il suo popolo infedele e di ripristinare in esso la fiducia in lui avvalendosi di quattro diversi mezzi, ciascuno dei quali è stato uno strumento del suo amore per il suo popolo eletto. In primo luogo, gli ha inviato i suoi profeti, fra cui Sofonia (la «voce» del v. 2; cfr. la frequenza con cui Geremia ripete tale concetto: 7,23; 11,4.7 et al.). Secondo, gli ha dato la legge dell’alleanza (la «correzione» del v. 2, che forse si riferisce alla riforma deuteronomista ed è di nuovo una del-le espressioni preferite da Geremia: vedi 2,30; 5,3; 17,23; 32,33; 35,13 e soprattutto 7,28). Terzo, ha manifestato la sua inesauribile sollecitudine nei suoi riguardi preservando il quotidiano succedersi del giorno e del-la notte (v. 5; «giustizia» qui è sinonimo di ordine nel mondo naturale). Quarto, ha distrutto in battaglia varie nazioni circostanti (v. 6). A questo popolo, che ritiene scioccamente che Dio sia assente dal mondo (vedi il commento a 1,12), Sofonia fa notare come egli sia invece in mezzo alle sue fila (cfr. Ger. 14,9) e operi su tutti i fronti.

La cecità di Giuda davanti alla presenza di un simile compagno di-vino è quasi inconcepibile. Nella descrizione del profeta, Dio medita: «Certamente tu mi temerai» (v. 7; cfr. Is. 63,8)1, cioè, ti volgerai a me in obbedienza e riverente fiducia. In ebraico, il v. 7 è estremamente diffici-le e così sono state suggerite molte varianti. Il testo ebraico può essere letto come segue:

Io dicevo: «Certamente, lei [Gerusalemme] mi temerà,accetterà un legame [per esempio, il vincolo della legge divina; cfr. Ger. 2,20];e non distruggerà il suo rifugio [per esempio, la sua sicurezza sulla pre-senza di Dio e sui suoi comandamenti]e tutto ciò che le ho riservato [per esempio, tutto quello che Dio ha fatto per lei in parole e azioni].

Il profeta avrebbe potuto ugualmente ritrarre Dio intento a medita-re sullo stesso pensiero riguardo alla sua chiesa, cui pure aveva offerto certa testimonianza e rifugio in parole e sacramenti, nella storia sacra e nel perenne ciclo della natura.

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Parte prima – La parola del Signore negli ultimi anni

1 Così la RSV, a differenza della Nuova Riveduta che rende con «Se almeno tu vo-lessi tenermi [...]» (N.d.T.).

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Giuda, tuttavia, è rimasto imperturbabile persino davanti alla caduta di altre nazioni. Non ha mai pensato, neppure una volta, che esiste un Dio e che potrebbe distruggere anche lui se persisterà nelle sue azioni corrotte (v. 7); uno stato di cose che Calvino ha così commentato: «Se la casa accanto alla vostra fosse in fiamme, come potreste dormire, a me-no che non siate estremamente stupidi?» (calvino 1948, IV, p. 277). Ma Giuda è stupido (cfr. Ger. 4,22; 5,20-25, in particolare il v. 21)! E dunque, non soltanto continua a ignorare il suo Dio, ma anche a trastullarsi con passione nella sua corrotta libertà dal giogo divino (v. 7; nel testo ebrai-co si può leggere: «si sono alzati presto per pervertire tutte le loro azio-ni», in contrasto con la fedeltà mostrata da Dio ogni mattina, v. 5. Tale immagine si ritrova soltanto in Geremia e in II Cr. 36,15).

Giuda rifiuta tutte e quattro le testimonianze che Dio ha lasciato die-tro di sé (vv. 1-2), come illustrato specificamente nell’accusa rivolta al-le sue quattro classi dirigenti (vv. 3-4). I principi (cfr. 1,8) o i funzionari governativi, che dovrebbero avere cura dei cittadini, li divorano invece come leoni affamati. I giudici, che in teoria dovrebbero difendere i debo-li, accettano bustarelle e ricercano l’arricchimento personale con avidità da lupi. I profeti, che dovrebbero offrire il consiglio della parola di Dio, non sono altro che parolai (letteralmente) «leggeri» e frivoli, propinato-ri di aria fritta. I sacerdoti, che, come richiede il loro ufficio, dovrebbero distinguere fra il sacro e il profano – fra le cose divine e quelle umane (cfr. Lev. 10,10) – vivono in un mondo secolarizzato e ignorano la torah; ossia, sono venuti meno al dovere di insegnare al popolo tutta la storia sacra, con i suoi comandamenti e le risposte a questi appropriate.

«“Perciò, aspettami”, dice il Signore» (v. 8), rivolgendosi non solo ai fedeli, ma a Giuda nel suo complesso. «Aspettare», detto da Dio, signi-fica che è lecito attendersi che egli agisca, tanto per arrecare benedizione (Is. 40,31), quanto, come in questo caso, per esprimere il suo giudizio. Verrà il Giorno dell’ira del Signore, in cui egli si alzerà nell’aula del suo tribunale per testimoniare contro la sua terra. I suoi tentativi di guida-re, correggere e ammonire il suo popolo sono falliti. Anche Giuda, co-me il resto del mondo, è insolente e inquinato (Gerusalemme è «ribelle, contaminata», v. 1). Perciò, darà vita a un nuovo popolo e a una nuova terra, spazzando via quella vecchia.

vv. 9-13 Nel testo ebraico, il v. 9 è strutturalmente connesso al pre-cedente, in quanto la sua prima riga inizia, come l’ultima del v. 8, con la particella ki, che si traduce «poiché»2. Inoltre, c’è un parallelismo di na-

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6. Sofonia 3,1-20

2 Cosa che non si può cogliere nella Nuova Riveduta, essendo il secondo «poiché» omesso (N.d.T.).

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tura teologica. Il passo non va però letto in senso dottrinale, bensì come una testimonianza della storia sacra. Esso muove immediatamente dal concetto del fuoco della gelosia divina (cfr. 1,18), che consumerà la terra (v. 8), all’azione trasformatrice con cui Dio fonderà il suo nuovo popolo (v. 9). La parola di Dio non si conclude mai con il giudizio, perché il suo fine ultimo per il suo mondo non è la morte, ma la vita. Egli non è il Dio dei defunti, ma dei vivi. Alla fine, egli è un Dio d’amore, non di collera.

Che il quadro dipinto da Sofonia alluda al nuovo inizio deciso da Dio per la sua creazione è dimostrato dal fatto che, come ha osservato Ea-ton, i vv. 9-10 riecheggiano Gen. 11,1-9 (cfr. eaton 1961). In quell’antica vicenda, il Signore aveva punito l’umanità confondendone le lingue e disseminandola per tutta la terra. Qui, la lingua pura viene ripristinata e i popoli venerano Dio «di comune accordo» (letteralmente, «con una sola spalla» o «spalla contro spalla»), in unità.

Ma qual è questo nuovo popolo di Dio di cui parla il v. 10? Come ab-biamo visto in Sof. 2,7.9, si tratta del resto di Giuda, che si sposta in lande straniere, impadronendosi della terra. Quest’umile, dipendente, giusto residuo adorerà Dio in tutto il creato, persino nelle regioni site oltre i li-miti immaginabili del mondo («di là dai fiumi d’Etiopia»).

Se pensiamo che quest’unica comunità universale esistente sulla faccia della terra, che ha avuto inizio con la trasformazione delle lingue operata dallo Spirito santo (At. 2), è oggi la chiesa di Gesù Cristo, possiamo ve-dere chiaramente come questa proclamazione di Sofonia contenga me-ravigliosi accenni al futuro che Dio ha in serbo per il suo mondo.

La visione del profeta, tuttavia, non si è ancora realizzata, nemmeno all’interno della chiesa cristiana, dal momento che, anche se noi riven-dichiamo l’esistenza di una comunità universale di fedeli che venerano Gesù Cristo come loro Signore, tale visione va oltre la diffusione mon-diale della professione di fede nella sovranità di Dio, abbracciandone anche le conseguenze. Queste sono evidenziate nell’immagine di Geru-salemme, cui sono rivolti i vv. 11-13.

Gerusalemme! È essa il fulcro dell’opera di Dio. In tale città egli ha dimorato in mezzo al suo popolo. Lì ha dato avvio al suo giudizio. Lì, suo Figlio ha affrontato le potenze del mondo e le supreme autorità dell’oscurità. Lì è stata ottenuta la prima, parziale, vittoria, che si com-pleterà con la purificazione della terra dal male. E sempre lì tale purifi-cazione avverrà per prima e sarà pienamente manifesta. Gerusalemme diventerà la città aliena dal peccato, il simbolo del Regno di Dio sulla terra; nelle parole di Giovanni di Patmos: «E vidi la santa città, la nuo-va Gerusalemme, scender giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Apoc. 21,2). Tutti noi faremmo bene a seguire l’ammonimento dell’antico salmo a «pregare per la pace di Ge-

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rusalemme» (122,6), perché quando questa sarà completa, anche la terra lo sarà e il proposito di Dio troverà finalmente compimento.

Nei vv. 11-13, Sofonia descrive la pace che regnerà in futuro a Geru-salemme. La superbia, quell’estremo, ribelle e insolente peccato umano su cui verte l’intero libro, scomparirà per sempre dalla Città Santa (v. 11). La sua società indecente (3,1), sfrontata nella sua impenitenza (2,1), più non sarà. Colei che, come Ninive, esultava orgogliosa della sua empietà e indipendenza (2,15), non sarà più arrogante (cfr. Is. 3,16); al contrario, la sua gente – il resto di Giuda (v. 12; 2,7.9) – scoprirà in umiltà (cfr. 2,3) e modestia che le sue capacità derivano da Dio (cfr. II Cor. 3,4-5).

Le parole più importanti, tuttavia, sono quelle che seguono nel v. 13. La popolazione di Gerusalemme, facendo assegnamento su Dio, ne ac-quisirà il carattere. Come egli non commette alcun male (3,5), così non ne farà il suo nuovo popolo (v. 13). La fede nel Signore provocherà una trasformazione etica della sua vita.

Tutti i profeti hanno sempre affermato con sicurezza che l’oggetto del culto determina la personalità del fedele (cfr. Ger. 2,5). Così, la ve-nerazione pura del Dio di Israele ha come risultato vite conformi alla sua (cfr. II Cor. 3,18; I Giov. 3,1-3); per dirla con Ezechiele, cuori e spiri-ti trasformati dal suo Spirito (Ez. 36,26-27). L’etica, secondo la Bibbia, è il frutto di un rapporto profondo con il Signore e non ha mai come sua base o movente il potere, se non in assenza di una tale relazione (cfr. Os. 5,4). Tuttavia, se il rapporto con Dio sussiste, esso deve sfociare in una trasformazione dell’agire (cfr. Giac. 2,17; Rom. 12,1; Gal 3,22-24 et al.). Nessuno può incontrare il Signore senza tramutarsi in una creatura nuova (cfr. II Cor. 5,17).

La natura del cambiamento descritto da Sofonia è significativa: la menzogna, l’inganno e la frode sono banditi dalla comunità (v. 13; cfr. Ger. 9,2-8); in breve, ciascuno rispetta fedelmente i patti siglati con i pro-pri simili, così come Dio si attiene all’alleanza stipulata con le sue crea-ture (cfr. 3,5).

Oggi, la nostra società è lentamente minata da persone che non manten-gono i patti: dai funzionari governativi che tradiscono cinicamente la fi-ducia del pubblico, dagli uomini d’affari e dai lavoratori che producono merci inaffidabili o richiedono ai consumatori un esborso di denaro su-periore al necessario, da mariti e mogli che considerano il legame matri-moniale facilmente risolvibile, da genitori che, giorno dopo giorno, affi-dano per troppe ore alla televisione la responsabilità dell’educazione dei loro bambini (E. achtemeier 1984, p. 112).

Nella nuova Gerusalemme immaginata da Sofonia, il nuovo popolo di Dio manterrà i patti, così come Dio ha sempre fedelmente e amorevol-mente rispettato il suo. «Non commetterà azioni malvagie», perché sarà

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6. Sofonia 3,1-20

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come il suo Signore. E frutto di questa sua trasformazione etica saran-no pace e sicurezza per il gregge del Buon Pastore: «Essi pascoleranno, si coricheranno, e non vi sarà più nessuno che li spaventi». Ecco perché anche il nostro mondo segnato dalla discordia farebbe bene a «pregare per la pace di Gerusalemme»!

vv. 14-20 In questa sezione, i vv. 14-17 sono in pieno accordo con quanto precede. Ancora una volta, come in 1,14 (vedi il commento a tale versetto), Dio è raffigurato nelle vesti del Divino Guerriero (v. 17b); ma ora la terribile devastazione del suo Giorno dell’ira è finita. Il Signore ha revocato i suoi giudizi, cioè le sue condanne e accuse (cfr. 3,8) contro il suo popolo (3,15a), perché ha ormai annientato tutti gli infedeli super-bi che si annidavano tra le sue file (v. 15b; cfr. Ger. 50,20). La sua guerra contro la sua gente è terminata.

In questo senso va letto il v. 17d: «Si acqueterà nel suo amore», il gri-do di guerra si è placato. Non c’è più bisogno che le mani di Giuda sia-no paralizzate dalla paura (v. 16c). Giuda non deve più temere alcun danno, né il giudizio devastante che il male inevitabilmente procura (v. 15d). Dio ha posto termine al conflitto con il popolo alleato (cfr. Is. 40,2; Ez. 37,26-28).

Dacché quest’ultimo è ormai purificato dalla sua miscredente super-bia, Dio dimora in mezzo a lui (cfr. 3,5) come suo Re (v. 15c). Si risolve, così, la questione principale dell’intero libro: il problema, cioè, di chi do-vesse governare la vita di Giuda. Può questo costruirsi da sé un mondo senza Dio e passarla liscia (vedi 1,12), o Dio è veramente il suo Signore? In realtà, da un capo all’altro delle Scritture, non c’è mai alcun dubbio su quale sia la risposta. Dio, il potente guerriero, regna tanto sulla natu-ra quanto sulla storia umana.

Il miracolo, però, è che questo sovrano, questo guerriero, è, nelle pa-role del v. 17b, «un potente che salva» (cfr. Ger. 14,9). Il Re dell’universo è, in ultima analisi, il Re dell’amore, e desidera la salvezza del suo po-polo. A tale proposito, compie con amore la sua opera purificatrice e tra-sformatrice, creando in Sion un nuovo popolo che confida pienamente nel suo governo e può pertanto celebrarne il regno con tutto il cuore (v. 14c; cfr. «in cuor loro» in 1,12).

In 3,14-17 Sofonia dipinge per noi un quadro pieno di immagini grandiose. I fedeli si riversano per le strade di Gerusalemme, dando vi-ta a una grande festa, gridandosi l’un l’altro la propria gioia, esultando con danze, tamburelli e risa per festeggiare il fatto che Dio governa le loro vite (v. 14; cfr. Zac. 9,9; Is. 54,1). È una celebrazione che noi cristia-ni abbiamo conosciuto talvolta la mattina di Pasqua, quando le trombe di Dio hanno fatto risuonare nei nostri santuari e nei nostri cuori la sua

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vittoria sulla morte e il male. Allo stesso modo, è una gioia che ci è ca-pitato di provare in quei quieti momenti di preghiera e meditazione in cui siamo stati inondati dalla certezza che Dio protegge le nostre vite come un bene prezioso.

Ma è di fronte alla successiva immagine di Sofonia che l’universo in-tero deve trattenere il respiro: là, nel mezzo della sua gente festante, Dio si rallegra ed esulta per causa sua (v. 17c.e; cfr. Is. 62,5; 65,19), come un padre alla festa di bentornato per il figlio perduto ora ritrovato (cfr. Lc. 15,11-32), o un pastore che chiami a gran voce amici e vicini per annun-ciare loro di avere recuperato la pecora smarrita (Lc. 15,3-7). Nei cieli, le stelle del mattino intonano di nuovo tutte insieme un inno di lode a questa nuova creazione (cfr. Giob. 38,7; Lc. 15,7.10), e un immenso nume-ro di milizie celesti cantano «Alleluia!» (cfr. Apoc. 19,6-8), mentre, sulla terra, il mare rumoreggia in segno di approvazione (Is. 42,10; Sal. 96,11; 98,7), i monti esultano insieme di gioia (cfr. Sal. 98,8) e gli alberi della campagna battono le mani (cfr. Is. 55,12). Così, dice la Bibbia, si festeg-gia l’amore, il momento in cui Dio salva il suo popolo, è venerato come un Re in mezzo a lui e non ha più bisogno di muovergli guerra. Il libro di Sofonia si conclude con una gioia quasi inimmaginabile (v. 17).

Ovviamente, nel testo così come ci è pervenuto il v. 17 non è l’ultimo versetto del libro e, di fatto, accogliendo una variante fondata sulla ver-sione dei Settanta, la RSV collega la prima riga del v. 18 al versetto pre-cedente. Nell’originale ebraico, il v. 18 è praticamente incomprensibile, dal momento che si può rendere più o meno con: «Io raccoglierò gli af-flitti fra voi per l’assemblea solenne. Essi porteranno il peso del biasi-mo che grava su di voi». Tutto ciò suona come un’allusione a un gruppo perseguitato all’interno della comunità, la cui sofferenza è intesa come un’espiazione per i peccati commessi da quest’ultima. Potremmo dun-que trovarci di fronte a un velato riferimento, aggiunto in epoca succes-siva, a quel gruppo di sostenitori della riforma deuteronomista in Giuda che riteneva di avere assunto il ruolo del servo sofferente del Deutero-Isaia (vedi Achtemeier 1982). Allo stesso tempo, i vv. 19 e 20 (anche se nell’ebraico 20ab è oscuro) contengono promesse molto simili a quelle del Trito-Isaia (cfr. Is. 56,6-8; 60,14.18; 61,7; 62,7; 66,22) e l’intero passo (vv. 18-20) potrebbe dunque essere un più tardo contributo redazionale deuteronomista all’opera del profeta, il quale potrebbe aver fatto par-te egli stesso del partito riformista al tempo di Giosia. I deuteronomisti si sarebbero semplicemente appropriati dell’opera, aggiornandola in quanto parola di Dio applicabile anche alla situazione post-esilica, una procedura del tutto idonea alla natura delle Scritture. Come ebbe a dire in un suo sermone Charles Haddon Spurgeon, che aveva una capacità unica di penetrare dentro la parola di Dio:

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6. Sofonia 3,1-20

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Il compimento di una promessa divina non equivale al suo esaurimen-to. Quando un uomo fa una promessa e la mantiene, questa non sussi-ste più; ma, nel caso di Dio, le cose vanno diversamente. Quando egli rispetta pienamente la sua parola, non è che all’inizio. È pronto a conti-nuare a mantenerla nei secoli dei secoli (Spurgeon 1981, A Sermon for the Time Present, p. 733).

Pertanto, tale parola giunge anche a noi sempre fresca e si applica anche alla nostra situazione.

È dunque appropriato che in alcuni lezionari Sof. 3,14-20 sia segna-lato come lettura veterotestamentaria fissa per l’Avvento (insieme con Fil. 4,4-9, un invito a rallegrarsi, e Lc. 3,7-18, la predicazione della buo-na novella da parte di Giovanni Battista), e che cattolici romani ed epi-scopaliani usino 3,14-18 anche per celebrare la Festa della Visitazione o la Domenica dell’Unità.

In un suo sermone per la domenica dell’Avvento, il luterano Lar-ry A. Hoffsis vide realizzate in Cristo le promesse di Sof. 3,14-20: il Re d’Israele presente in mezzo a noi (v. 17a), mentre noi ci raccogliamo in-torno alla sua tavola; le condanne divine revocate (v. 18a) in virtù della pace offertaci da nostro Signore sulla croce; i nostri nemici buttati fuori (v. 18b) dalla tomba vuota e l’ultimo avversario, la morte, annientato; le nostre mani e i nostri cuori rafforzati (v. 16c) e resi coraggiosi nei secoli dalla presenza costante di Cristo; la chiesa catturata in un canto di vit-toria (v. 14) dagli «angeli, arcangeli, e da tutte le schiere celesti». Hoffsis, però, aggiunse anche quel riferimento al futuro che non manca mai in queste promesse di Dio, che egli continua a mantenere fino all’avvento del suo Regno:

Le parole del profeta sono compiute in Cristo. Ciò nonostante, anche per noi conservano un elemento futuro. Senza dubbio, non è tutto pas-sato in Cristo. Egli ci indica che ritornerà. Ora è in mezzo a noi, di que-sto possiamo essere certi. Ma in futuro, quando ritorneremo finalmente presso Dio, la sua presenza sarà ancora più ravvicinata. In quel tempo, avrà luogo una celebrazione ancora più grande […] festeggiamenti an-cora più intensi di quelli che si ebbero in occasione del ritorno del figliol prodigo (hoffSiS 1979, pp. 30-31).

La chiesa può tranquillamente proseguire nella sua corsa, sapendo che davanti a sé troverà questa gioia.

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