Introduzione allo studio della letteratura profetica biblica · 2021. 2. 22. · dell’impero...

ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE «S. APOLLINARE»

delle diocesi di Ravenna, Cesena, Imola, Faenza, Forlì

Introduzione allo studio

della letteratura profetica biblica

a cura di

GIUSEPPE DE CARLO

ad uso degli studenti

Forlì Via Lunga, 47

Il materiale contenuto in questo volume è ad uso esclusivo degli studenti che frequentano il Corso di Antico Testamento sui Profeti presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose «S. Apollinare» di Forlì. Non è materiale originale, ma quasi tutto è preso integralmente da altri autori: a suo luogo vengono puntualmente indicate le parti prese da ciascuno. Il lavoro redazionale mira a dare a tutto il materiale unità sistematica per una presentazione introduttiva tendenzialmente completa al pro‐fetismo di Israele.

INTRODUZIONE AL FENOMENO DEL PROFETISMO BIBLICO*

1. SVILUPPO STORICO DELLA PROFEZIA BIBLICA

I profeti dell’AT, pur essendo – nelle bibbie cattoliche – suddivisi in «maggiori» (Is, Ger, Ez, Dn) e «minori» (Os, Gl, Am, Abd, Gio, Mic, Na, Ab, Sof, Ag, Zc, Ml), vengono oggi presentati dagli studiosi prevalentemente seguendo un criterio storico‐letterario e suddivisi in profeti preclassici (o «profe‐zia orale») e profeti classici (o «profezia scritta»). Facciamo nostro tale suggerimento, pur sapen‐do che si tratta di una suddivisione di tipo funzionale, che non vuole, cioè, contrapporre i due mo‐menti, essendoci continuità nel movimento profetico in quanto a stile di vita delle persone coinvol‐te, a modi espressivi con cui annunciano la parola di Dio e al contenuto del loro messaggio. Esiste, però, diversità nel loro collocarsi dal punto di vista politico e sociale. I profeti non scrittori hanno più a che fare con l’istituzione della monarchia e appaiono, pertanto, come intermediari tra Dio‐Re e l’attuale regnante in Giuda o in Israele soprattutto in momenti in cui si fa forte la minaccia di qualche guerra con popoli confinanti (cf. Natan e specialmente Elia ed Eliseo). I profeti scrittori so‐no, invece, più legati al popolo, minacciato da guerre e deportazioni soprattutto a opera dell’impero assiro (secolo VIII a.C.: cf. Amos e Osea, Isaia, Michea e Sofonia) e di quello babilonese (secolo VII e VI a.C.: cf. Geremia, Ezechiele, Deuteroisaia). Essi prendono posizione di fronte al peri‐colo per scongiurarlo o almeno ritardarlo mediante un forte richiamo alla conversione a Dio, richie‐sta a tutti e non solo al re. Pur giocando un ruolo destabilizzante più che convalidante nella vita re‐ligiosa dei loro contemporanei, questi profeti sono indubbiamente vicini alla gente comune che, anche se con il senno di poi maturato di fronte alla catastrofe dell’esilio, farà di tutto per riabilitarli, per averli cari come i precedenti (specie Elia) e per conservarne le parole e attualizzarle in nuovi contesti storici, soprattutto nel post‐esilio quando i libri che portano il loro nome saranno redatti definitivamente. Diverso è anche il modo con cui le parole profetiche sono giunte a noi. Dei profeti preclassici, infat‐ti, si parla da parte di altri autori (o «profeti») specialmente nei libri denominati dalla tradizione ebraica «profeti anteriori», mentre quelli classici costituiscono il gruppo di libri denominato «pro‐feti posteriori». Ci soffermeremo in modo particolare su questi ultimi, per accennare poi alle rilet‐ture in senso profetico di alcune personalità fondanti la storia del popolo ebraico (o «profezia re‐trospettiva») e terminare con la presentazione dell’apocalittica (o «profezia impazzita»).

1.1. Profeti preclassici

Sono così denominati quei profeti che svolgono la loro missione o prima dell’istituzione della mo‐narchia o durante le prime fasi dell’esperienza monarchica (secoli XI‐IX a.C.), ma che non hanno la‐sciato testi scritti (da qui l’espressione «profezia orale») e sui quali si riferisce nei libri di 1‐2Sam e 1‐2Re. Agli inizi del movimento profetico ebraico troviamo delle esperienze singolari, in parte simili ad al‐tre presenti in tutto il Medio Oriente antico e in parte differenti: si pensi al fenomeno dei veggenti dai quali ci si reca per conoscere la volontà di YHWH sui casi della vita (dalla profetessa Debora in Gdc 4,4ss, o da altri veggenti/profeti in 1Sam 9,6‐11; 1Re 22,6; 2Re 4,22‐25; 22,11ss), o a quelle delle forme estatiche praticato dai «figli dei profeti» (1Sam 10; 19,18‐24; 1Re 22,10‐12; 2Re 4,1) o di maghi e indovini (proibite in Lv 19,31; Dt 18,9‐14). Da segnalare ancora la presenza di forme di contestazione profetica come i recabiti che rifiutano la vita urbana per riproporre l’ideale del de‐serto (2Re 10,15‐24; Ger 35,1‐11) e i nazirei che con le loro scelte richiamano alla fedeltà a YHWH (cf. Nm 6,1‐21).

* G. CAPPELLETTO – M. MILANI, In ascolto dei profeti e dei sapienti. Introduzione all’Antico Testamento, vol. II, EMP, Pa‐

dova 42010, 15‐62.

4 Introduzione al fenomeno del profetismo

La vera profezia inizia con Samuele: vissuto in un momento cruciale della storia ebraica, svolge la triplice funzione di giudice (1Sam 7,6), sacerdote (1Sam 7,10; 13) e profeta (1Sam 3,19‐21) oppo‐nendosi in qualche misura all’introduzione della figura del re (1Sam 8‐12). È sintomatico che la pro‐fezia (= carisma) nasca con la monarchia (= istituzione) e si attenui con la scomparsa di essa. Durante la prima fase dell’esperienza monarchica si incontrano i cosiddetti profeti di corte: Gad profeta di Davide (1Sam 22,5; 2Sam 24,11), Natan presso lo stesso re (2Sam 7,2s; 12,1s; 1Re 1,11s), Achia sotto Geroboamo (1Re 11,29s; 14,2s), Ieu figlio di Anani sotto Baasà (1Re 16,7), Elia ed Eliseo sotto Acab e i suoi successori (1Re 17‐2Re 13 passim), Giona sotto Geroboamo II (2Re 14,25), la profetessa Culda sotto Giosia (2Re 22,14s), Uria sotto Ioiakìm (Ger 26,20). A questa lista, i libri delle Cronache aggiungono Semaia sotto Roboamo (2Cr 12,15; 13,22), Iddo sotto Roboamo e sotto Abia (2Cr 12,15; 13,22), Azaria sotto Asa (2Cr 15,1s), Oded sotto Acaz (2Cr 28,9s) e alcuni anonimi. Spesso appaiono come consiglieri del re negli affari politici e religiosi, ma più spesso ne criticano le scelte politiche per le conseguenze in campo religioso (come Natan in 2Sam 7). Altre volte manife‐stano la loro libertà denunciando i peccati dei re a livello umano (1Sam 11‐12), sociale (1Re 21) e religioso (1Re 18). Di essi, particolare interesse suscitano le azioni di Elia, il «profeta simile al fuoco, la cui parola bru‐ciava come fiaccola» (Sir 48,1): conduce una vita ascetica molto dura (1Re 17,2‐6; 2Re 1,8); è difen‐sore accanito della fede in YHWH contro le divinità cananee (1Re 18), conosce momenti di smarri‐mento personale, ma anche di intima esperienza di Dio (1 Re 19); prende con passione le difese dei poveri (1Re 17; 21). Ampiamente ricordato anche nel NT in varie forme (o in rapporto con Giovanni il Battista come in Mt 11,14 e Lc 1,17, o con Gesù di Nazaret come in Lc 4,25‐26), è significativo che appaia al momento della trasfigurazione come rappresentante della profezia (Mt 17,3 e par.). A lui si rifarà – in epoca cristiana – tutta la tradizione monastica.

1.2. Profeti classici

Dall’VII al III secolo a.C., si constata nella storia del popolo ebraico la presenza di personaggi singoli chiamati profeti che non solo parlano a nome di Dio ma mettono anche per iscritto la loro parola (per questo vengono anche denominati «profeti scrittori»). Svolgono la loro missione in situazioni storiche ben precise e a volte molto diverse tra loro: è chiaro che, essendo il profeta l’uomo del presente, il contenuto del suo messaggio e la sua incidenza nella storia concreta varierà a seconda delle circostanze storiche, pur restando ferme alcune costanti di fondo. Seguendo il criterio cronologico, si possono suddividere in pre‐esilici (dal 760 circa al 587), esilici (dalla prima deportazione del 597 al 538) e post‐esilici (dal 538 al III secolo a.C.). Vediamo breve‐mente chi sono e come si configura globalmente l’epoca in cui svolgono la loro attività, lasciando all’esegesi l’approfondimento specifico di alcune parti del loro messaggio.

1.2.1. Profeti pre‐esilici (760‐587 a.C.)

Li troviamo presenti sia nel regno di Israele che in quello di Giuda. Durante questo periodo pren‐dono sempre più consistenza in entrambi i regni alcuni cambiamenti già iniziati almeno dall’instau‐razione della monarchia. * In ambito sociale: si passa un po’ alla volta da una vita seminomade legata all’esperienza pastora‐le a una più sedentarizzata legata allo sviluppo dell’agricoltura e del commercio; nasce il latifondi‐smo e si sperimenta un certo benessere, ma cresce anche la divisione tra ricchi e poveri, favorita a volte da un certo malgoverno. * In ambito politico: si assiste al passaggio da una struttura che favoriva le autonomie locali delle tribù e dei clan (periodo dei giudici) a una che prevede la centralizzazione del potere decisionale attorno alla figura del re e/o alla corte; inoltre, i due regni ebraici si trovano coinvolti in giochi di politica internazionale che li portano certe volte a dipendere o dagli imperi mesopotamici (Assiria prima e Babilonia poi) o dall’Egitto e altre volte a tentare la via dell’indipendenza.

Introduzione al fenomeno del profetismo 5

* In ambito religioso: la prima grande trappola per la fede in YHWH il Liberatore è costituita dal baa‐lismo cananeo che si impone per il suo legame con la fertilità della terra e del bestiame ed è favori‐to in molti casi dalle scelte dei re che devono mantenere la pace tra cananei ed ebrei. Idolatria pe‐rò è anche tutto ciò che viene posto in contrapposizione a YHWH (le grandi potenze, il potere milita‐re, la ricchezza) e tutte le modalità con cui si manipola il vero Dio distorcendone il volto emerso dagli eventi fondanti (esodo, alleanza). In secondo luogo, la lontananza storica dall’esperienza esodale non sempre viene colmata da feste e celebrazioni che ne facciano un’autentica memoria attualizzante che impegni nell’ oggi: il culto rischia di diventare un insieme di riti che non incidono nella realtà della vita, specialmente a livello sociale; diventano un semplice tranquillante per la coscienza e una giustificazione del proprio di‐simpegno. In terzo luogo, il concentrare la presenza di YHWH in un luogo sacro (tempio) come facevano i cana‐nei e gli altri popoli, rischia di far dimenticare che egli si rivela e agisce nella storia concreta degli uomini e in esso richiede una risposta coerente: è nella storia che risuona la parola di Dio, è nella storia concreta che la si accoglie con fede. Infine, è da tener presente che il re (quello di discendenza davidica che siede in Gerusalemme) è considerato come māšîaḥ = unto/consacrato da YHWH, suo figlio adottivo (2Sam 7; Sal 2) e quindi suo rappresentante in mezzo al popolo. Deve essere il vero pastore che custodisce e protegge il popolo, in particolare deve assicurare il diritto (mišpāṭ) e la giustizia (ṣedāqāh) specialmente nei confronti dei poveri (Sal 72). Ma per realizzare il progetto di YHWH – sintetizzabile nel termine šālôm = pienezza di vita – deve imparare a vivere secondo il cuore stesso di Dio. È ai problemi suscitati da queste novità che i profeti pongono attenzione, pur con accentuazioni di‐verse e con sottolineature specifiche. * Così, nel regno del Nord, Amos (760‐750 a.C.) accusa Israele di violenze e ingiustizie (cc. 3‐4; 6‐9) e ricorda che il vero culto consiste nel «cercare il Signore» nell’umiltà e nella giustizia (c. 5). Subito dopo (750‐725), Osea – riflettendo sulla sua esperienza matrimoniale – proclama la misericordia di Dio (cc. 2; 11; 14) nel tentativo di far ritornare a YHWH il popolo che si è prostituito ai Baalim (cc. 1‐3), al benessere economico e alle potenze straniere (cc. 4ss). * Nel regno del Sud, Isaia (740‐701 circa) denuncia sia gli abusi nel sociale (cc. 1‐5) come la poca fede del discendente di David (cc. 7‐8) e invita a sperare in un re fedele (cc. 9; 11), dato che YHWH è il Signore della storia (c. 10). Il suo contemporaneo Michea (730‐680 circa) annuncia sì un severo giudizio e un castigo contro tutti coloro che calpestano la giustizia sociale e praticano l’idolatria (cc. 1‐3; 6‐7), ma promette anche per il futuro una consolante certezza legata alla figura di un re scelto da Dio (cc. 4‐5). * Più tardi, Sofonia (660‐630), Naum (630‐612) e Abacuc (612‐598) intervengono in un momento di profonda crisi religiosa (cf. Ab 1‐2), politica (cf. Na 1‐2) e sociale (cf. Sof 1) nonostante la conco‐mitante riforma di Giosia. Essi proclamano che YHWH, Signore del mondo, sta per intervenire con tutta la sua ira (il dies irae di Sof 1,14‐18) per distruggere sia le potenze straniere come l’Assiria (Na 2‐3; Sof 1‐2) sia lo stesso regno di Giuda (Sof 1). Nonostante questo, manifesterà anche la sua bon‐tà e pazienza nei confronti di tutti coloro che si rifugiano in lui (Na 1; Sof 3), specialmente i piccoli, gli umili (Sof 2,3; 3,12) e il giusto che «vivrà per la sua fede» (Ab 2,4). * Infine, Geremia (627‐585 a.C.) svolge la sua missione nel momento più difficile della storia del regno di Giuda con l’incarico di far comprendere ai contemporanei il senso di quanto stavano vi‐vendo. Fedele alla missione ricevuta (c. 1) nonostante difficoltà interiori (cc. 11; 15; 17; 18; 20) ed esterne (cc. 36‐45), richiama alla conversione a YHWH (cc. 2‐24) e annuncia una trasformazione in‐teriore dell’uomo (cc. 30‐34). Come Amos (cc. 1‐2) e Isaia (cc. 13‐23), anche il profeta di Anatot (cc. 46‐51) condanna le nazioni che circondano il popolo ebraico, colpevoli di violenze e ingiustizie, proclamando così YHWH «Signore» della storia.


1.2.2. Profeti esilici (587‐538 a.C.)

La gran parte della popolazione del regno di Giuda – specialmente i suoi capi e le personalità più influenti – è stata deportata a Babilonia in due tempi: nel 597 e nel 587. In esilio gli ebrei sembrano destinati alla morte civile e religiosa, con la scomparsa di tutte le sicurezze precedenti: sono in ter‐ra straniera = impura, il re davidico è in prigione, la città santa e il tempio – dimora Dio – sono stati distrutti, YHWH sembra incapace di difendere il suo popolo e comunque appare perdente di fronte al dio dei vincitori. La crisi di fede è profonda e sembra senza sbocco. Un po’ alla volta, però, diventa un vero trampo‐lino di lancio per la formazione di una nuova coscienza religiosa e di un nuovo orientamento di vi‐ta. A ciò contribuiscono da una parte la scuola deuteronomistica e la tradizione sacerdotale e dall’altra la presenza dei profeti. * Così Ezechiele, se in un primo momento (593‐587) giustifica l’esilio come castigo meritato per i peccati commessi – specie l’idolatria (cc. 8‐11; 14‐16; 20‐23) –, dopo l’arrivo della seconda ondata di deportati proclama (586‐571 circa) un messaggio di speranza legato alla presenza di YHWH tra gli esiliati (cc. 1‐3; 10‐11) e al suo impegno di rinnovare il loro cuore (cc. 34; 36‐37). Per questo descri‐ve anche come saranno il nuovo popolo e il nuovo tempio (cc. 40‐48). * Poco dopo (555‐539), il profeta anonimo denominato Deuteroisaia (Is 40‐55) concretizzerà le speranze di Ezechiele, dei sacerdoti e della tradizione deuteronomistica annunciando l’imminente liberazione grazie alla presenza del persiano Ciro, strumento fedele di YHWH (cc. 42; 45). Dio appare così come il creatore e il liberatore (c. 43) capace di realizzare un «nuovo esodo» più stupendo di quello dell’Egitto (cc. 49; 52). Questo è il messaggio di consolazione che il profeta è invitato a pro‐clamare (c. 40) e di cui sono garanzia la parola di Dio (c. 55) e la presenza di un suo servo, fedele fino alla morte (cc. 42; 49; 50; 53). * A portare, invece, un barlume di speranza a coloro che sono rimasti a Gerusalemme a piangere sulle rovine della città ci pensa l’anonimo autore del libro delle Lamentazioni: quanto è capitato è opera del giudizio di condanna espresso da Dio per i peccati del suo popolo infedele (cc. 1‐2; 4); eppure esiste ancora una ragione di speranza (c. 3) legata alla possibilità che egli perdoni le colpe commesse (c. 5).

1.2.3. Profeti post‐esilici (dal 538 al III secolo a.C.)

La ricostruzione da parte degli esiliati ritornati in patria al tempo della dominazione persiana ha trovato delle difficoltà: contrasti con i residenti e con i samaritani (Esd 4; Ne 2‐4; 6); mescolanza con altri gruppi etnici (Esd 9‐10); difficoltà nella ripresa del culto al tempio (Esd 3; 5‐6); il rinascere di problemi sociali (Ne 5) e di forme di idolatria (Is 57; 65). Ma il tempo del post‐esilio è caratterizzato per una sempre più crescente importanza della Torah proclamata come «legge del Dio del cielo» (Esd 7,11‐26), per la centralità del ruolo dei sacerdoti e degli scribi (gli esperti nell’interpretazione della Torah), per la pratica del culto al tempio di Geru‐salemme. La comunità si dà una struttura di tipo teocratico tutta centrata attorno al tempio e al culto, all’osservanza della legge e allo zelo per la purità della razza (Esd 7; Ne 8‐10). Nasce ufficial‐mente il giudaismo. Durante questo periodo, la predicazione profetica cala di tono e sottolinea principalmente due aspetti: 1. l’importanza del tempio come criterio di unità della comunità attorno alla dimora del suo Dio e del culto che in esso viene svolto come espressione del servizio autentico: è la cosiddetta profezia del tempio presente in Aggeo, Zaccaria e Malachia; 2. l’attesa della venuta definitiva del Signore nel suo giorno (il «giorno di YHWH»), quando egli stabi‐lirà il suo regno di giustizia e di pace per i buoni, i pii e i giusti e giudicherà con severità gli empi e i peccatori: è la profezia escatologica, preludio dell’apocalittica. * Così, Aggeo (520‐519) invita con appelli accorati a ricostruire il tempio (c. 1) per poter godere della benedizione di Dio il cui arrivo è imminente (c. 2). E Zaccaria (520‐518; cc. 1‐8), attraverso ot‐


to visioni, rinnova l’invito di Aggeo e annuncia l’intervento salvifico di Dio (c. 8), attuato anche me‐diante la presenza del sommo sacerdote Giosuè e del davidico Zorobabele (cc. 3; 4; 6). Da parte sua, Abdia (510 circa) applicando la legge del taglione prevede il castigo di Edom (vv. 1‐15) e il giu‐dizio delle nazioni nel giorno in cui YHWH instaurerà il suo regno (vv. 16‐21). In questo, è seguito da Gioele (V‐III secolo): il «giorno di YHWH» è preceduto da catastrofi terribili (cavallette, siccità, in‐cendi) che dovrebbero indurre al pentimento e ad affidarsi al Signore. Egli, infatti, perdonerà e da‐rà pace al suo popolo pentito inviando su tutti il suo spirito (cc. 1‐3), ma castigherà i suoi nemici (c. 4). Anche Malachia (tra il 520 e il 400) annuncia il giudizio di Dio contro ogni forma di idolatria, di falsità nel culto e di infedeltà alla legge (cc. 1‐2), invitando il popolo a prepararsi per l’incontro con il Signore che si farà precedere dal suo messaggero (c. 3). * Solo la profezia del cosiddetto Tritoisaia (Is 56‐66; 538‐510 circa) si sofferma sui problemi sociali (c. 58) e sull’idolatria (cc. 57; 65). Cerca anche di infondere coraggio ai rimpatriati, delusi perché le promesse di Dio non si erano attuate (cc. 63‐64), annunciando una salvezza ancora più meraviglio‐sa (cc. 60‐62; 65‐66) a cui parteciperanno anche gli stranieri (c. 56). * Attenzione a parte merita il libretto didattico di Giona (V‐IV secolo). Con tono ironico vuol senz’altro contestare la pretesa della comunità ebraica di avere Dio e la sua salvezza tutta per sé, contro gli altri popoli rappresentati – nel racconto – dagli abitanti di Ninive. Nazionalismo e integri‐smo religioso non dovrebbero trovare spazio nella comunità credente in YHWH, Dio di tutti gli uo‐mini. Ma soprattutto sembra voler sottolineare la libertà di Dio di fronte alla stessa parola che ha affidato al profeta, il progetto cioè di distruggere i niniviti se non si convertono. Dio con la scelta di rispondere con la misericordia al pentimento sincero e alla preghiera accorata dei pagani, nemici per antonomasia di Israele come erano gli Assiri, smentisce la stessa parola affidata al profeta, mandandolo in crisi! L’ironia sta nel fatto che mentre i nemici comprendono la portata di tale ge‐sto, il profeta no! Così tra la parola profetica di condanna e la sua realizzazione (attesa dal profeta!) si interpone la libera scelta di Dio di offrire salvezza (invocata dai peccatori di Ninive!). Viene in tal modo aperta la strada a un nuovo modo di intendere l’ufficio profetico, fondato sulla profonda e semplice convinzione che alla fine la volontà di Dio è quella di salvare. Questa nuova forma, che potrebbe essere chiamata profezia apostolica, ha implicazioni che non abbiamo ancora elaborato o forse neanche pienamente afferrato. * Nel periodo ellenistico la comunità giudaica si chiuderà ancor più in se stessa, tutta preoccupata di difendersi dalla nuova mentalità penetrata in Medio Oriente con Alessandro Magno (dal 333 a.C.). Se si eccettua il libro di Baruc (dal III al I secolo a.C.: è un deuterocanonico), in questo periodo si assiste all’estinguersi della profezia. Ciò può essere dipeso da diversi fattori: ormai esiste la Torah quale mezzo sicuro per conoscere la volontà di Dio; i profeti del passato vengono reinterpretati come i “servi di YHWH”, che da sempre non hanno fatto altro che spronare all’osservanza della sua legge; la profezia si è impoverita centrandosi esclusivamente sulla previsione del futuro (cf. apoca‐littica); sono in aumento gli indovini, i maghi, i falsi profeti che gettano discredito sulla profezia au‐tentica (Zc 13,1‐6); il carisma profetico aveva cambiato forma e si era trasferito sulla figura dello scriba sapiente, leader del giudaismo. Nonostante questo, si sente la sua mancanza (Sal 74,9; 77,9; Lam 2,9; Ez 7,26; Dn 3,38; 1Mac 4,46; 9,27; 14,41) e si vive nell’attesa che arrivi il profeta promesso da Dio a Mosè (Dt 18,15‐18).

1.2.4. Riletture profetiche

La profezia è stata utilizzata anche come modello sia per interpretare la storia passata (è il caso del‐la cosiddetta «storia deuteronomistica») sia per ripresentare oggi come profeti alcuni personaggi biblici. Questo sembra essere avvenuto in un momento in cui il profeta aveva un suo ruolo ben specifico in seno al popolo ebraico, all’incirca tra 1’800 e il 400 a.C. Si spiega così il tentativo di spingere sempre più indietro l’inizio del movimento profetico fino a farlo iniziare con le radici della fede in YHWH, cioè con Abramo e Mosè («profezia retrospettiva»).


Così, Abramo è denominato espressamente nābî’ in Gen 20,7; ma anche le esperienze di Gen 12,1‐4a e 15,1‐6 vengono presentate con dei modelli presi dalla letteratura profetica. A sua volta, il cammino di Mosè è punteggiato da richiami alla profezia: è chiamato e inviato (Es 3‐4); parla «fac‐cia a faccia» con YHWH (Es 33,11; Nm 12,8); sente il peso della sua missione (Es 5,22; Nm 11,11‐15); è considerato il nābî’ per eccellenza (Nm 12,6‐8; Dt 18,15; 34,10‐12). Attorno a lui, poi, ci sono per‐sone che ricevono il dono della profezia, anche se solo in modo temporaneo (Nm 11,17.25‐30). La stessa profezia è stata reinterpretata: specialmente in epoca post‐esilica, i profeti dei secoli VIII‐VI a.C. – prima spesso non accolti né compresi – vengono riabilitati e considerati servi di YHWH co‐me Mosè, perché hanno costantemente richiamato il popolo ebraico alla conversione (Zc 1,1‐6) e all’osservanza della parola del Signore presente nella legge (Zc 7,4‐14). Così, in un momento in cui lo spirito profetico sta venendo meno, si ricupera tutto il movimento profetico considerandolo un servizio reso alla legge di Dio (Dt 34,10; Ml 3,22‐24). Si tratta certamente anche di una svalutazione dei profeti, perché visti in stretta dipendenza dalla Torah. Questo spiega l’uso sinagogale che legge i profeti come pericopi aggiunte alle sezioni della Torah, e l’affermazione del Talmud che li considera come un anello della trasmissione della Torah orale e scritta iniziata con Mosè: «Mosè ricevette [la] Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè, e Gio‐suè agli anziani, e gli anziani ai profeti. E i profeti la trasmisero agli uomini della grande sinagoga».

1.2.5. L’apocalittica

Considerata figlia della profezia e della riflessione sapienziale, ha – come vedremo a suo luogo – elementi di contatto con il movimento profetico, anche se si distanzia da esso in molti aspetti (è una «profezia impazzita»).

2. INFLUSSI DEL PROFETISMO ESTRA‐BIBLICO

Pur condividendo con le altre culture medio‐orientali antiche il bisogno di entrare in contatto con il Trascendente per conoscerne il volere, il profetismo biblico si caratterizza in modo tale da incidere profondamente sulla vita religiosa del popolo ebraico e sul suo destino fino a raggiungere una di‐mensione di modello per ogni altra forma di profezia: basti pensare che il Nuovo Testamento pre‐senta la figura dell’apostolo non con i tratti del sacerdote quanto con quelli del profeta e che l’Islam vede in Maometto «il profeta». E anche oggi, in molti casi, si adopera il termine «profeta» avendo sullo sfondo (più o meno consapevolmente) l’esperienza biblica. Ma se nel nostro contesto culturale «profeta» è generalmente quella persona che, dotata di particolari capacità, predice con una certa precisione il futuro o comunica esperienze non percepibili dai più o rivela e interpreta la volontà del Dio in cui si crede, non solo così sembra essere il profeta dell’Antico Testamento, alme‐no quello ritenuto modello di riferimento per ebrei e cristiani. Se si intende il profetismo come un modo ispirato di mettersi in comunicazione con il trascendente o il “sacro”, finalizzato alla mediazione dei risultati alla comunità è chiaro che non lo si può affron‐tare come un fenomeno prettamente «ebraico» perché esso si risconta nella maggior parte delle società premoderne e moderne di stampo arcaico con fenomeni di persone che entrano in stato di estasi o cadono in trance con lo scopo specifico di comunicare al popolo la volontà divina nei vari eventi importanti della vita. Esperienza non del tutto da condannare perché espressione diffusa di un bisogno reale dello spirito umano, alla base del quale, per i credenti, vi è la mano sapiente di Dio che ha posto “semi di verità” in tutti gli uomini. Inoltre, gli scavi archeologici e i documenti letterari in nostro possesso hanno messo in luce nel vi‐cino Oriente antico tutta una serie di manifestazioni profetiche che presentano delle affinità con il profetismo ebraico. Pur riconoscendo che i profeti biblici non derivano la loro fisionomia e l’essen‐za del loro messaggio dall’una o dall’altra fase del nebiismo antico (corrente estatico‐intuitiva, cul‐turalismo, divinazione magica, nomadismo sinaitico...), ci pare però molto realistico non conside‐rarli quasi delle meteore discese dal cielo, bensì come dei germogli sorti nel vasto campo della mil‐


lenaria esperienza religiosa d’oriente, sublimati per un misterioso impulso a nuove dimensioni, a forme più eccelse di ispirazione. In effetti, la Bibbia non ha il monopolio di questa attività religiosa, ma ne condivide la ricchezza con la maggior parte delle religioni, antiche e attuali. In generale, l’esperienza profetica è da colle‐garsi: * alla natura emotivo‐razionale dell’homo religiosus: chi ha percepito l’esistenza di un Essere tra‐scendente, ha sentito la necessità di mettersi in contatto con lui e tenersi in ascolto dei suoi even‐tuali messaggi; * al senso molto vivo della precarietà dell’esistenza del Medio Oriente antico: nell’universo che gli serve da quadro di riferimento, quest’uomo si scontra con numerosi problemi insoluti e insolubili, con una serie di mali inevitabili e opprimenti, tanto da guardare al suo destino con una certa in‐quietudine. Il suo innato e spontaneo senso religioso lo porta alla ricerca, presso la divinità, di una risposta agli enigmi che lo turbano, una guarigione dei mali che lo torturano. L’uomo si avvicina agli dèi per questuare salute fisica e felicità. E si sforza di ottenere tutto ciò mettendo in atto dei mezzi di persuasione o d’influenza, la cui realtà ed efficienza dipendono dalle sue rappresentazioni sia psicologiche che teologiche. Tra tutti i mezzi ce n’è uno sparso e utilizzato ovunque: consiste nello scoprire ciò che Dio vuole dall’uomo. Infatti, conoscere il disegno divino sulla storia e agire in piena conformità ad esso signi‐fica rendersi favorevole la divinità, è procedere nel senso stesso delle cose, è conciliarsi tutte le fonti del benessere e della felicità, è assicurarsi la vita, è realizzare la propria salvezza. Per arrivare a conoscere la volontà divina, l’uomo antico dispone di specifiche tecniche divinatorie come gli oracoli divini e la magia, la oniromanzia e la necromanzia, tutte esperienze conosciute an‐che dalla Bibbia (cf. Gen 44,5; Nm 22,23‐35; 23,10; Gdc 4,4; 1Sam 28,3‐19; 2Sam 5,24; Is 47,12‐14; Os 4,12). Tecniche particolari molto utilizzate in contesto ebraico sono: * la consultazione dei terāfîm: sono degli idoli domestici (Gen 31,19.34‐35; 1Sam 18,13), probabil‐mente delle statuette, di dimensioni ridotte, alle quali si chiedevano dei responsi (Ez 21,26; Zc 10,2); * gli ’ûrîm e i tummîm: parole dal significato incerto, designano una pratica divinatoria variamene interpretata, ma che sembra riferirsi alle 22 lettere dell’alfabeto ebraico, che estratte a sorte dall’ ’ēfôd davano delle parole significative; * l’’ēfôd: per alcuni era un indumento sacerdotale che conteneva in una tasca gli oggetti sacri (co‐me gli ’ûrîm e i tummîm) che servivano per interrogare il Signore e conoscere la sua volontà (cf. Es 28,6‐30); per altri, invece, si tratta del vestito di una statua divina (non rappresentata) usato per la divinazione: lo si porta e lo si tiene in mano (1Sam 2,28; 14,3; 23,6), viene portato davanti a Davide che vuole «consultare YHWH» (1Sam 23,9; 30,7). Viene condannato in Gdc 8,26‐27 e Os 3,4. L’utilizzo di queste tecniche, così pure l’interpretazione dei segni che fornivano, erano appannaggio di uno specialista, incaricato di decifrare il disegno di Dio e di renderlo pubblico. Tale persona rice‐veva nomi diversi secondo le sfumature che ogni contesto aggiungeva alla funzione primaria di co‐noscere la volontà divina. Presso gli ebrei, spesso era il sacerdote, altre volte il profeta (cf. Ger 14,18). In Israele, vi fu una opposizione crescente a queste modalità di «cercare YHWH»: * Osea vede nell’’ēfôd e nei terāfîm una sorgente di corruzione di cui Israele deve sbarazzarsi (3,4); * Giosia, durante la sua riforma, «fece scomparire (anche) i negromanti, gli indovini, i terāfîm, gli idoli e tutti gli obbrobri, che erano comparsi nella terra di Giuda e a Gerusalemme» (2Re 23,24); * il Deuteronomio rifiuta in blocco tutte queste tecniche, citando in modo particolare la necroman‐zia (18,9.12). Così, l’indovino diventa un ciarlatano (Dt 18,10‐14) e il modello del profetismo menzognero che ha condotto il popolo alla rovina (Ger 27,9; Ez 13,9.23; 21,28.34; Zc 10,2).


Oltre a queste tecniche divinatorie, ci sono almeno due esperienze profetiche importanti presenti nella cultura mediorientale antica: quella dei profeti mesopotamici e quella degli estatici sirio‐fenici.

2.1. Mesopotamia

Abbiamo: * il baru o veggente: vive generalmente presso il tempio e fa parte dei suoi ministranti. Sua specia‐lità è di annunciare l’avvenire penetrando nei segreti della divinità attraverso modalità varie fino a giungere alla illuminazione diretta del suo spirito grazie alla comunicazione del suo dio. All’interno della Bibbia, è conservato il ricordo di uno di loro nei racconti di Balaam (Nm 22‐24); * il muhhu o «estatico dotato di visione»: sembra essere un professionista dell’estasi che ha il compito di comunicare i responsi della divinità. Particolarmente significativa la testimonianza giuntaci dall’archivio del piccolo regno di Mari, ar‐chivio scoperto nel 1933 tra le rovine del palazzo reale, forse distrutto da Hammurabi nel 1750 a.C.: circa 20.000 tavolette risalenti al 1800‐1770 a.C. e che trattano di questioni della vita ordina‐ria. Tra di esse, i 52 oracoli profetici riguardano se fare la guerra o no, il costruire la porta di una cit‐tà o un tempio o una casa, ecc. L’oracolo è pronunciato in prima persona a nome della divinità con lo stile del messaggero («Così dice il dio X – Il dio X mi manda per dirti»), la protezione divina («Non temere: io sono con te»), promesse e minacce.

2.2. Siria‐Fenicia‐Canaan

Abbiamo qualcosa di simile e insieme diverso, grazie soprattutto all’introduzione della musica e strumenti affini (= battito di mani, grida, danze, mutilazioni...) come tecniche preparatorie e intro‐duttive all’estasi e al responso divino. Alcuni testi biblici confermano la presenza di simili «profeti convulsionari»: * ciclo di Elia, specie 1Re 18,20‐40: durante la sfida sul monte Carmelo, i profeti di Baal «gridarono a gran voce e si fecero incisioni, secondo il loro costume, con spade e lance, fino a bagnarsi tutti di sangue. Passato il mezzogiorno, quelli ancora agirono da profeti» (vv. 28‐29); * Is 28,7‐8: si lamenta del comportamento di certi profeti che affermano di trovare nel vino il cammino per l’estasi. Nonostante le coincidenze strutturali e letterarie esistenti tra i veggenti e i messaggeri extrabiblici e i profeti israeliti, ci sono però delle differenze sostanziali, quali: * la fede in YHWH, Dio unico e personale, creatore del cosmo e Signore della storia; * l’esperienza dell’alleanza (variamente espressa) come base delle relazioni speciali tra il Signore e il suo popolo; * il continuo richiamo alla conversione al Signore come abbandono di ogni forma di idolatria, ri‐chiamo rivolto a tutto il popolo; * il testimoniare, da parte del profeta biblico, la veridicità e la fondatezza del messaggio trasmesso pagando un prezzo a volte molto alto, quello della propria vita.

Concludendo, si può riconoscere che la profezia in Israele, nelle sue remote origini dei secoli XI e X, presenta dei punti di contatto con quella presente a Mari e in Canaan; e appare persino probabile che è lì che dobbiamo individuare il punto di partenza. Tuttavia i profeti di Israele si allontanano più tardi da quel mondo; e anche se è probabile che si siano avvalsi di spunti letterari diffusi da al‐tri paesi, questo non toglie originalità al loro messaggio, né alla sua attuazione. In definitiva, il pro‐blema principale non è quello della relazione tra la profezia israelita e la profezia dell’Antico Orien‐te, ma quello della relazione tra i primi profeti biblici e i suoi continuatori. Fondamentalmente cre‐do che la differenza essenziale che distingue la profezia d’Israele sia il passaggio da una profezia sollecitata dalla gente a un oracolo dato spontaneamente da Dio, una parola che abbraccia gli am‐biti più diversi della vita.


3. L’IDENTITÀ DEL PROFETA

I termini che i testi biblici adoperano per descrivere il fenomeno della profezia sono vari e il loro si‐gnificato non sempre ci è chiaro. Tuttavia, il loro uso in determinati contesti aiuta a comprendere in qualche misura la complessa identità del profeta e a precisarne la vocazione e la missione. Il testo ebraico (= TM) adopera più termini: rō’ēh = il veggente (1Sam 9,9; 1Cr 9,22; 26,28) e ḥōzēh = il visionario (2Sam 24,11; 2Re 17,13; Am 7,12; Mic 3,5.7); ’îš ’ĕlōhîm = uomo di Dio, usato spe‐cialmente nei cicli narrativi di Elia e di Eliseo (1Re 13,1; 20,28); ’îš harûaḥ = uomo dello spirito (Os 9,7), però solo dall’esilio il profeta è collegato con lo Spirito di YHWH (cf. Ez; Is 61,1; Gl 3). Ma il termine più adoperato (315 volte come sostantivo e 115 come verbo) è nābî’ = profeta, il cui significato esatto resta incerto. Generalmente lo si fa derivare da parole accadiche che significano o «colui che è chiamato» (ipotesi più probabile) oppure «colui che annuncia/proclama» a nome di un altro. Nell’esperienza biblica nābî’ assorbe tutti i significati dei termini precedenti ed è utilizzato in contesti di profezia sia cananea (legata a Baal) che ebraica (legata a YHWH). Designa poi tutti i profeti classici e anche i falsi profeti. La versione in greco dei LXX traduce questi termini generalmente con la parola profḗtēs (profeta): composta dal verbo fēmí (dire/parlare) e dalla preposizione pro che può indicare sostituzione (al posto di), luogo (davanti a) e tempo (prima che). Qualifica così il profeta biblico sia come il «porta‐parola» o «portavoce» di Dio davanti a tutto il popolo, sia come colui che a nome di Dio parla pub‐blicamente di avvenimenti storici prima che avvengano. È in quest’ultimo senso che l’apocalittica intende l’attività profetica, seguita dal NT che a sua volta considera la profezia veterotestamentaria quale rivelazione che annuncia e prepara la venuta di Gesù di Nazaret, il Cristo. Tenendo conto del possibile significato dei termini utilizzati per indicare l’attività profetica sia in ebraico che in greco e guardando i testi attuali in cui è narrata l’esperienza concreta dei profeti, si può delineare la loro identità concentrandola attorno alla realtà della vocazione (presente in nābî’) e della missione (sottolineata dal greco profḗtēs).

3.1. La vocazione dei profeti: afferrati dalla Parola

Il profeta è prima di tutto un chiamato, cioè una persona coinvolta da YHWH in un incontro persona‐le talmente profondo e significativo da cambiargli radicalmente l’esistenza. La chiamata è vissuta come una iniziativa libera e gratuita di Dio, non provocata in alcun modo da preghiere o meriti particolari dell’uomo: è Dio che si manifesta, afferra, prende, seduce, e sempre in modo sorpren‐dente e diverso da profeta a profeta (Am 3,3‐8; 7,10‐17; Is 6; Ger 1; Ez 2‐3; Is 49,1‐7; 61,1ss; Gio‐na). E non sono neppure richieste, nel chiamato, particolari doti o capacità: Isaia sembra un carattere forte e sicuro (6,8), mentre Geremia appare un timido (1,6); Giona è un caparbio (1,3: 4,2), mentre Osea è molto più duttile (c. 1). Né esistono classi o ambienti di provenienza specifica dei profeti: non si fa differenza di sesso dal momento che il testo biblico presenta anche delle profetesse (Ma‐ria sorella di Mosè e Aronne; Debora; Culda), di età (Samuele e Geremia sono giovani, gli altri ap‐paiono già adulti), di stato civile (Geremia è celibe, mentre Isaia, Osea ed Ezechiele sono senz’altro sposati), né di salute (Mosè è balbuziente, Ezechiele pare ammalato) o di classe sociale (Amos è un contadino, Isaia un nobile, Geremia ed Ezechiele provengono dalle file dei sacerdoti). Tutta la missione dei profeti si basa sull’autenticità della loro esperienza inaugurale: nessuno di lo‐ro si autocandida a essere tale, ma afferrati da Dio a un certo momento della loro vita si rendono disponibili a essere inviati ad annunciare solo quello che Dio ha fatto sperimentare loro. Ne sono chiara indicazione le espressioni: «Come dice il Signore» (Am 1,3.6.9; ecc.); «Oracolo del Signore» (Os 2,15.18; ecc.); «Il Signore mi disse» (Os 1,6.9; ecc.); «Parole che il Signore rivolse a...» (30 volte in Ger e 50 in Ez); «Parola di YHWH» (presente 241 volte nell’AT, in ben 221 casi indica la parola pro‐fetica). Anche alcune immagini sono da comprendere in questa direzione: Dio che pone la sua pa‐rola sulle labbra del profeta (Is 6,6‐7; Ger 1,9), il comando di mangiare il rotolo della parola (Ez 3,1‐


3), il fatto di essere costituito o come «fortezza e muro di bronzo» (Ger 1,18; 12,20) o come senti‐nella che trasmette ciò che ascolta da Dio (Ez 3,16‐21; 33,1‐9; Is 21,6‐11) o come «messaggero di bene che annuncia la salvezza» (Is 52,7‐8) o come semplice «voce che grida» (Is 40,1‐11) trasfor‐mano il profeta in «uomo della parola» (Ger 15,16; 18,18), in testimone che conserva quanto ha sperimentato e ne diventa «segno e presagio per Israele da parte del Signore degli eserciti, che abi‐ta in Gerusalemme» (Is 8,16‐18). E quando, durante lo svolgimento della missione, qualcuno trove‐rà degli ostacoli o vivrà dei momenti di crisi, sarà invitato da Dio a ricuperare il senso della prima chiamata (cf. Ger 1,4‐19 e 15,10‐21).

3.2. La missione dei profeti: a servizio della Parola

Non è altro che il prolungamento esterno dell’obbedienza a Dio maturata nell’esperienza vocazio‐nale. L’uomo afferrato da Dio diventa ora servo della parola: accetta di essere il suo portavoce, an‐che quando questo richiede rinunce (Geremia resta celibe, c. 16), scelte non in linea con un certo buon senso (Osea sposa una prostituta, cc. 1‐3), la prospettiva di essere non ascoltati (Is 6) o scac‐ciati (Am 7,10‐17) o addirittura messi in prigione e condannati a morte (Ger 36‐38). Il suo compito è quello di permettere alla parola di Dio di risuonare nell’oggi con tutta la sua efficacia: la parola divina, infatti, non è un concetto astratto quanto un avvenimento storico, sperimentabile sia dal profeta che da chi lo ascolta. La sua efficacia nella storia viene presentata con immagini vive e per‐cepibili: è un «ruggito» che rende desolata la terra (Am 1,2); è un «fuoco» che brucerà il popolo ri‐belle (Ger 5,14; 23,29) come brucia nell’intimo del profeta (Ger 20,7‐9); è forte «come un martello che spacca la roccia» (Ger 23,29), qualcosa che «cade» pesantemente (Is 9,7‐10,4); è «gioia e leti‐zia del cuore» (Ger 15,16), «dolce come il miele» per chi ne fa esperienza profonda (Ez 3,3). La sua efficace azione si estende a tutta la storia: è «fischio» che convoca i popoli lontani contro Gerusa‐lemme (Is 5,26; Ger 5,17‐17; 6,22ss); «mano stesa» che giudica tutti i popoli (Am 1‐2; Is 13‐23; Ger 46–51; Ez 25‐32); «pioggia e neve» che feconda di salvezza tutta la terra (Is 55, 10‐11).

3.3. Uomo di relazione

Servitore della parola di Dio, il profeta è uomo di relazione, in quanto deve essere fedele sia a Co‐lui che è all’origine della parola che riceve come al destinatario al quale la deve comunicare. Fedele a Dio e solidale con i suoi contemporanei, il profeta vive la tensione che spesso si instaura tra que‐sti due poli. Poiché, infatti, il termine ebraico dābār può indicare sia «parola» che «azione», in quanto servo della parola di Dio il profeta ha il compito di fare in modo che profezia e storia siano sempre in relazione tra loro, che Dio (mandante) e popolo (destinatario) possano entrare in dialo‐go, anche scontrandosi. Pertanto la «parola» che il Signore affida a chi chiama va’ pronunciata (prima che scritta) perché diventi «azione», vale a dire impegno concreto nella vita del chiamato e in quella del popolo. E d’altra parte, la «storia» è il luogo in cui il profeta – alla luce della sua espe‐rienza vocazionale – riesce a «leggere» la presenza di una parola del suo Signore. Non è un visiona‐rio come sarà l’apocalittico al quale vengono rivelati i misteri non conosciuti ai più, ma un contem‐plativo che sa cogliere nei fatti della vita quotidiana (cf. Ger 1,11‐19) e negli avvenimenti della sto‐ria (cf. Is 7,1‐17) uno spessore più profondo, una «presenza» che – conformemente al caso – diven‐ta appello alla conversione (cf. Osea e Geremia), minaccia di castigo (cf. Amos e Sofonia), consola‐zione nella desolazione (cf. Is 40‐55 e Ger 30‐33), esortazione e intercessione nella necessità (cf. Ger 14,7‐9; anche Gen 18,23‐32 e Nm 14,13‐19).

3.4. Servitore fedele fino al martirio

Non potendo annullare né la fedeltà a Dio né la partecipazione al destino del popolo al quale ap‐partiene, il profeta vive il dramma del rifiuto della parola del Signore e quello della vita minacciata del suo popolo. Infatti, come la parola profetica viene disprezzata perché non presa seriamente (cf. Ez 33,30‐33), o derisa perché ritarda a compiersi (cf. Ger 17,15; 19), o sostituita con la ricerca di pa‐role più «piacevoli e allettanti» (cf. Is 30,10), così è del suo «messaggero», il profeta. Può essere di‐


sprezzato e rifiutato (cf. Am 7,10‐17; Ger 18,18‐23), deriso e preso in giro (cf. Ger 20,10), sostituito con altri profeti (cf. Ger 19). E, come il suo popolo, anche il servo della parola di Dio soffre nel ve‐dere la propria e altrui esistenza minacciata da pestilenze o flagelli naturali (cf. Ger 14,17‐22), in‐giustizie sociali e politiche (cf. Ger 12,713), guerre e devastazioni (cf. Ger 10,17‐25; 13,15‐17). Personaggio pubblico e segno di contraddizione, il profeta in quanto servo della parola di Dio spe‐rimenta la verità di quanto affermerà più tardi Gesù di Nazaret: «nessun profeta è bene accetto nella sua patria» (Lc 4,24). Così Amos viene espulso dal regno del Nord (Am 7,12‐13), Osea è accu‐sato di vaneggiamento (Os 9,7), Isaia è costretto al silenzio (Is 8,16‐20), Geremia è prima frustato e imprigionato (Ger 20,2) e poi condannato a morire in una cisterna (Ger 38,1‐13), Uria viene ucciso di spada (Ger 26,20‐24) e Zaccaria lapidato nell’atrio del tempio (2Cr 24,17‐22). La tradizione bibli‐ca prima e quella giudaica dopo sottolineeranno ancor di più il legame tra profezia e martirio: Ge‐remia parla di profeti uccisi di spada (Ger 2,30) e Neemia di profeti eliminati perché richiamavano alla conversione (Ne 9,26). Di Isaia viene poi affermato che è stato segato (Ascensione di Isaia 5,1‐16; Eb 11,36) e di Geremia che sia stato lapidato o bruciato vivo in Egitto. Tutto questo si riflette nella «parabola dei vignaioli omicidi» (cf. Mt 21,33‐44), nel rimprovero di Gesù agli scribi e ai farisei che innalzano bei sepolcri ai profeti uccisi dai padri (Mt 23,29‐32; cf. At 7,52), e nella morte di Gio‐vanni il Battista (Mt 14,1‐12), definito da Gesù «più che un profeta» (Lc 7,26), e dello stesso Naza‐reno, «il santo di Dio» (Mc 1,24). È quanto può succedere anche oggi a ogni servitore della parola: può essere accolto «come profeta» (Mt 10,40) o perseguitato «come i profeti» (Mt 5,12). All’interno del servizio alla Parola vissuto come fedeltà al Signore che chiama e invia e come solida‐rietà con il popolo a cui appartiene, il profeta è colui che – pur a prezzo della propria vita – sa esse‐re di volta in volta coscienza critica del presente per accrescere la responsabilità di fronte al bene da fare e al male da evitare, uomo che radica l’esistenza del popolo alle solide radici del suo passa‐to, persona aperta al futuro che Dio sta attuando in modo discreto e che sembra nascosto nei sot‐terranei della storia.

3.5. Coscienza critica del presente

In ogni situazione, al profeta è richiesta la fedeltà alla missione affidata: far risuonare nell’oggi della storia a lui contemporanea quella parola di Dio che da una parte smaschera i rifiuti continui della sua presenza salvifica (oracoli di accusa e/o denuncia, di forte richiamo alla conversione) e dall’altra aiuta a leggerne l’efficacia in momenti storici contraddittori (oracolo e/o annuncio di sal‐vezza). Così, il profeta è la coscienza critica del presente a nome di Dio; non è al di fuori della storia a lui contemporanea, ma vi partecipa a tutti gli effetti leggendola con coraggio e con simpatia a partire dal progetto salvifico di Dio. Infatti, tutto preso dal pathos divino, cioè dall’attenzione viva e dall’interesse appassionato che il Signore ha per il mondo fino a entrare in simpatia con Dio, il pro‐feta diventa nell’oggi segno concreto del desiderio di YHWH di continuare la sua opera di salvezza richiamando il popolo eletto alle sue responsabilità storiche concrete. Poiché, però, l’esistenza pre‐senta volti sempre diversi, anche il contenuto della predicazione profetica si adatterà alla realtà del popolo ebraico senza sminuire l’efficacia della parola di Dio. Inoltre, di un medesimo periodo stori‐co un profeta può sottolineare ora uno ora l’altro aspetto del vissuto del popolo.

3.6. Uomo della memoria storica

Inviato a richiamare il popolo alla serietà e radicalità nel rapporto con Dio, il profeta si fa autentico uomo della memoria perché ha il coraggio di indicare qual è la via per un autentico rinnovamento: ritornare costantemente alle origini della propria fede, ricuperandone le radici e le ragioni in quegli eventi fondanti che hanno caratterizzato la storia dei padri. E questo non per far opera di dietrolo‐gia, quanto piuttosto per smascherare tutte le attualizzazioni deformanti che della fede si fanno nell’oggi e togliere le incrostazioni che ne diminuiscono la genuinità. Così il profeta è anche l’uomo del passato, di un passato rivisitato perché possa essere stimolo autentico all’impegno di oggi. In particolare, egli invita a fare memoria attualizzante dei fondamenti della fede: la centralità di YHWH


il Liberatore rispetto alle forme di idolatria cananea, l’impegno a costruire una fraternità autentica basata sul diritto e sulla giustizia derivanti dall’essere famiglia di Dio, la connessione tra celebrazio‐ni cultuali e vita concreta. In questi richiami, la relazione YHWH‐popolo ebraico – presentata in altri testi e da altre scuole di riflessione con il termine berît (= alleanza) – è resa dai profeti in espressio‐ni talmente nuove da iniziare una tradizione che sarà ripresa successivamente: alcuni utilizzano la simbologia matrimoniale (Os 1‐3; Ger 2,1‐7; 3,11‐12; 16; Ez 16, 23; Is 50,1; 54,5; 62,4‐5), altri il rapporto genitori‐figlio (Os 11; Is 1,2; 49,14‐15) o vignaiolo‐vigna (Is 5; 27) oppure pastore‐gregge (Is 40,11) o vasaio‐argilla (Ger 18). Ancora, delle antiche esperienze religiose ritenute ormai sacre tradizioni, alcuni profeti richiamano alla memoria quella dell’esodo (Am 2,9‐12; 3,1‐2; Os 2; Ger 2,1‐7; Is 40‐55), mentre altri si rifanno a quelle legate a Davide e a Sion/Gerusalemme (Am 9; Is 2,1‐5; 7,1‐17; 9,1‐6; 11,1‐9; Mic 5; Ger 23, 1‐8; Ez 17; 34; 37; Is 60; 62; 66) o all’esperienza di Abramo (Is 41,89; 51,2; Ez 33,24).

3.7. Persona aperta al futuro di Dio

Ancorato al passato per poter vivere l’oggi, il profeta è anche l’uomo della speranza: con lo sguar‐do aperto sul futuro, riesce non semplicemente a pre‐vederlo quanto piuttosto a prolungare in avanti il senso del progetto di Dio compreso oggi e garantito dalla sua realizzazione nel passato. In altre parole, il profeta biblico: * è persona aperta, che crede al cammino della storia e alla sua possibile conversione verso il pro‐getto di Dio; * sa individuare gli orizzonti verso cui Dio sta facendo avanzare la storia presente e le speranze che in esso sono racchiuse; * non si accontenta delle piccole salvezze del quotidiano né si smarrisce di fronte ai fallimenti che, nell’immediato, sembrano smentire le promesse di Dio, ma è l’uomo che rilancia sempre oltre la parola salvifica. Tale prolungamento in avanti fino a un punto x del tempo viene generalmente denominato escato‐logia profetica: è “escatologica” una profezia che concerne il giudizio finale di Dio nella storia o al di fuori di essa e che mira a portare la salvezza alla sua predeterminata pienezza. Il giudizio di Dio presenta due aspetti: la punizione e la reintegrazione. Tale giudizio può avvenire nella storia ed es‐ser legato a una particolare situazione, e si ha un’escatologia intrastorica; questo può avere origi‐ne da una precisa situazione storica, ma può diventare una speranza a livello universale diventando così escatologia ultrastorica; oppure può essere dissociato da ogni altra situazione contingente ed essere applicato a qualsiasi situazione: si tratta di una escatologia detta “di modello”. Dal punto di vista letterario, la speranza escatologica è generalmente indicata con espressioni del tipo «Avverrà in quel giorno» (Is 7,18ss; Os 2,18‐25), «In quel giorno» (Am 9,11; Is 4,2; 12,1; Mic 4,6), «Ci sarà un giorno del Signore» (Is 2,12), «Allora»; o il verbo al futuro (Am 5,18‐29; Sof 3,9; Is 65); «Verranno giorni» (Am 4,2; 8,11), «Alla fine dei giorni» (Is 1,2; Mic 4,1). In linea di massima, nei profeti preesilici esse indicano un’escatologia intrastorica che predice la fine di quella situazio‐ne storica specifica (Am 8,7ss; Os 9‐10; Is 2,11‐22; 34 e Sof); in quelli immediatamente prima dell’esilio, durante questo e dopo, prospettano un’escatologia ultrastorica, che prevede una certa idealizzazione della restaurazione proiettata a livello universale. Poiché «la parola di Dio resterà per sempre» (Is 40,8), la parola profetica non muore mai, ma si rivolge a ogni generazione successiva nelle circostanze storiche che essa vive, e ogni generazione coglie il messaggio che le è rivolto. Svincolata da una ben definita situazione storica e inserita specialmente nella pratica liturgica della comunità credente, l’escatologia profetica diventa escatologia di modello. Essa è più una filosofia della storia che può essere riapplicata a ogni situazione contingente simile a quella da cui prese origine; il suo Sitz im Leben è il culto nel tempo, specialmente nei periodi di tribolazione; ogni ge‐nerazione sperimenta una parziale realizzazione di questo tipo di profezie, ma anche questo non esaurisce l’ampiezza e la portata del modello che fluisce nella coscienza del popolo di Israele esor‐tandolo ad avere sempre fiducia in YHWH, il Dio del futuro. Così, è facile che una profezia escatolo‐


gica intrastorica venga interpretata in senso ultrastorico e poi trasformata in profezia «di modello»: il NT la applicherà – pur con modalità diverse – a Gesù di Nazaret, scorgendone in lui la realizzazio‐ne piena.

4. IL LINGUAGGIO DELLA PROFEZIA

«Vedi, oggi ti do autorità sopra le nazioni e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare» (Ger 1,10). Queste parole rivolte da Dio a Geremia possono riassumere il compito affidato a ogni profeta e il messaggio che è inviato ad annunciare. Le due coppie di verbi sradicare e demolire, distruggere e abbattere richiamano la funzione critica del pro‐feta che si presenta come denuncia molto forte (4 verbi di distruzione) pronunciata sul presente e su parte del passato del popolo ebraico (e delle nazioni straniere). Però il suo compito va oltre l’accusa e la minaccia del castigo, avendo come obiettivo ultimo edificare e piantare (due verbi di costruzione), vale a dire promuovere la conversione, alimentare la speranza, annunciare la salvezza e indicarne le modalità con cui si sta incarnando, costruire il futuro. Tutto questo il profeta lo rea‐lizza con «parole» e con «azioni».

4.1. Le parole

Il ministero profetico è stato prima di tutto un servizio orale, poi scritto. Le principali modalità espressive (generi letterari) utilizzate dai profeti sono le seguenti. * L’oracolo: ha una forma prevalentemente poetica e si caratterizza per un suo inizio chiaro («Così dice il Signore») e una conclusione anche se non sempre esplicita («Oracolo del Signore»), indican‐do così che il profeta è un semplice messaggero che trasmette una parola non sua. Secondo il contenuto, può essere distinto in due tipologie: 1. giudizio, come la minaccia (Am 3,12‐15; Is 3,24‐4,1; Ez 6,11‐14; Sof 3,1‐8), il rimprovero (i «guai!» di Is 5,8‐30; 10,1‐4; Ab 2,5‐20), l’avvertimento con invito alla conversione (Is 1,18‐20; Os 14,2‐4; Gl 2,12‐14), l’accusa di un peccato e la condanna corrispondente, secondo la legge del ta‐glione (Am 1‐2; Ger 2). 2. salvezza, quando annuncia il cambiamento della situazione e promette un futuro migliore (Is 35; Ger 31,31‐34; Ez 39,25‐29; Am 9,11‐15; Mic 4,1‐5). * Il racconto della vocazione: l’incontro fondamentale con Dio viene narrato dai profeti non per tramandare la loro «cronaca spirituale», quanto piuttosto per fondare e legittimare la loro missio‐ne davanti al popolo (Ger 1,4‐10; Ez 1‐3) e alle altre istituzioni come il sacerdozio (Am 7,10‐17) e la monarchia (Is 6). Le forme letterarie utilizzate sono diverse e manifestano il rispetto di Dio verso la realtà di ogni singolo profeta. Così, mentre qualcuno sottolinea la forza che ha avuto in lui la parola di YHWH utilizzando uno schema militare (ordine‐esecuzione, come in Gen 12,1‐4a; Am 7,14‐15; Os 1,2‐8; Gio 1,1‐3; 3,1‐3), altri si presentano come ambasciatori di Dio usando uno schema diploma‐tico (con entrata in scena di Dio – affidamento della missione – difficoltà – conferma – consacra‐zione, come in Es 3‐4; Gdc 6,12‐24; Ger 1,4‐10; Ez 2,3‐3,11). Altri ancora utilizzano uno schema po‐litico per indicare il ruolo di consiglieri della corte celeste (Is 6). In qualche altro caso si adopera uno schema pedagogico per esprimere la gradualità dell’esperienza vocazionale (1Sam 3). * La visione: 1Sam 9,9 afferma che la visione ha sempre accompagnato la profezia; infatti «quello che oggi si chiama profeta (= nābî’) allora si chiamava veggente (= rō’ēh)». Ciò non fa del profeta biblico un visionario come lo si intende oggi: la visione profetica infatti è sempre accompagnata dalla parola che la spiega, per cui il profeta è colui che legge la realtà in profondità, è un mistico e un contemplativo. Lo testimonia la forma con cui viene presentata la visione (Am 7‐9; Is 6; Ger 1,11‐15; Ez 1; 8‐11; 37,1‐14; 40‐48; Zc 1‐6). Generalmente, si riscontrano tre elementi: visione – domanda sul senso – risposta interpretativa. Appare evidente che visione e parola sono stretta‐mente collegate: senza rivelazione, il profeta resta muto (Ez 3,26‐27; 24,27; 29,21; 33,22) o è un


falso profeta (Ez 13); senza comunicazione, la visione diventa illusione e inganno (Ger 4,10; 6,14; 20,1‐6; Ez 13). Questa forma letteraria avrà uno sviluppo particolare nell’apocalittica. * Il processo (ebr: rîb): qualche volta i profeti esprimono il loro oracolo di giudizio attraverso il pro‐cedimento che veniva adoperato nei tribunali a carico di un accusato, il processo giudiziario (Is 1,2‐9.10‐20; 3,13‐15; 41,1‐5.21‐29; Ger 2,9‐13.14‐19; Ez 22,1‐16; Os 2,4‐25; 4; Mic 1,2‐7; 6,1‐8). La struttura – utilizzata con flessibilità – comprende: indizione del processo – richiamo dei benefici compiuti – denuncia delle trasgressioni del popolo – emissione della sentenza di condanna e/o ri‐conciliazione tra le parti.

4.2. Le azioni

Oltre che con la parola e con la coerenza della propria vita, il profeta accompagna il suo ministero con delle azioni simboliche. Così, ad esempio, Osea sposa una prostituta per indicare l’amore di YHWH verso il suo popolo (cc. 1‐3) e Isaia gira nudo per tre anni per testimoniare come sarà trattata Gerusalemme (c. 20). Geremia deve andare in giro con un giogo sul collo per rappresentare l’imminente schiavitù (c. 27) e restare celibe per segnalare la rottura della relazione tra Dio e il po‐polo (c. 16). Ezechiele rappresenta con vivacità la prossima distruzione di Gerusalemme (cc. 4–5) e non fa il lutto per la morte della moglie (24,15‐27). Si tratta di azioni reali che non hanno niente di magico. Gli elementi essenziali sono: ordine di Dio – obbedienza del profeta – interpretazione dell’azione – impegno di Dio a concretizzare quanto sim‐boleggiato dal profeta. Con tali azioni il messaggio profetico diventa più comprensibile ai destinatari, che possono vedere attuata quella parola che è stata loro annunciata. Inoltre, esse appaiono dei discorsi in atto, parola agente già da quando viene simboleggiata. Infine, il gesto è anche «più» della parola, perché ha capacità evocative molto più ampie: Osea che sposa una prostituta o che riprende con sé la moglie infedele sono azioni che dicono molto di più che non le semplici affermazioni «il popolo si sta pro‐stituendo» o «Dio ama ancora il suo popolo infedele». Si fa capire così che il mistero di Dio non è semplice flatus vocis quanto piuttosto un’esperienza reale: l’atto simbolico visibilizza «qualcosa» di questa realtà.

5. FORMAZIONE DEI LIBRI PROFETICI

È un problema alquanto complesso e che – alle volte – dà l’impressione che lo studioso stia facen‐do una specie di «spezzatino biblico» nell’assegnare le singole parti dei testi ad autori vissuti in momenti storici diversi tra loro. Però in più di qualche caso il lavoro dà ottimi risultati, come per il libro di Isaia (cf. più avanti).

5.1. Dall’esperienza della Parola al testo scritto

È opportuno precisare, prima di tutto, il cammino attraverso cui un profeta giunge alla elaborazio‐ne scritta di un oracolo. 1. Prima di tutto c’è l’esperienza personale del profeta di incontro con Dio mediante la visione (Is 6), o l’ascolto interiore (Ger 1,4‐10), o un’ispirazione improvvisa (Is 7,10‐17), o una spiegazione sul‐la realtà (Ger 1,11‐17); 2. segue l’interpretazione e la spiegazione da parte del profeta stesso, fatte sempre alla luce della propria fede in Dio; è il momento dell’integrazione dell’esperienza nel proprio orizzonte di fede e della crescita di quest’ultimo; 3. il tutto viene elaborato razionalmente per essere espresso con parole comprensibili e viene an‐nunciato oralmente in pubblico, anche se si ritiene che in taluni casi sia stato prima scritto e poi proclamato (si pensa sia il caso di Is 40–55); è facile che il profeta aggiunga spiegazioni appropriate, motivazioni adeguate, sottolineature specifiche inerenti alla situazione storica;


4. parallelamente, si compie anche la struttura artistica che porta a esprimere l’oracolo in quella forma specifica con cui viene poi scritto. Quella che viene proclamata come «parola di YHWH» è, quindi, un intreccio di conoscenza comuni‐cata da Dio e di spiegazione, di interpretazione e di elaborazione profetica. È una parola incarnata in una esperienza di fede e plasmata dal linguaggio umano del tempo.

5.2. Il «libro profetico»

È un dato ormai acquisito dall’indagine storico‐critica che i diversi libri profetici non sono usciti di‐rettamente dalle mani dei profeti di cui portano il nome, ma che si sono formati attraverso una molteplice opera redazionale scaglionata in più secoli, a partire dalla predicazione fatta a viva voce, che è stata poi tramandata, per lo più oralmente, nella cerchia dei loro rispettivi discepoli. S’impone ora a noi il compito di identificare i diversi strati redazionali che si sono man mano so‐vrapposti nel testo e che erano ispirati dal desiderio di attualizzare, nei momenti storici successivi, la loro parola iniziale. Possiamo sintetizzare nel modo seguente le tappe attraverso le quali – pur con flessibilità – si è formato ogni singolo libro profetico. 1. Una parte dei testi è messa per iscritto dallo stesso profeta (cf. quanto dicono Is 8,16; 30,8; Ger 51,60; Ez 43,11; Ab 2,2). 2. Altri brani vengono scritti dai discepoli o immediati (cf. Is 8,16; Ger 36,5‐7) o distanti nel tempo, ma che condividono la stessa spiritualità del profeta (vedi la «scuola isaiana»).1 Il loro lavoro consi‐ste nello stendere testi biografici sul maestro (come Am 7,10‐17; Os 3), nel rielaborare alcuni ora‐coli cercando di attualizzarli (così in Is 14,22‐23; 28,5‐6), nel creare poemi nuovi (come in Ger 32). 3. Infine, in epoca post‐esilica, i testi vengono strutturati dai redattori finali non secondo un crite‐rio cronologico, ma stilistico e tematico. Troviamo così raccolte di oracoli rivolti al proprio popolo (Am 3‐9; Is 1‐12; Ger 1‐25; Ez 1‐24) o alle nazioni straniere (Am 1‐2; Is 13‐23; Ger 46‐51; Ez 25‐32); messaggi di consolazione e salvezza (Ger 30‐33) o visioni sul futuro (Ez 40‐48); sezioni narrative (Is 36‐39; Ger 36‐45). Sempre dei redattori finali sembra essere l’attuale ordinamento di diversi libri profetici secondo uno schema che prevede all’inizio gli oracoli di rimprovero e di castigo contro il popolo ebraico (come in Is 1‐12; Ez 1‐24; Sof 1,2‐2,3; 3,1‐10), nel mezzo gli oracoli contro le nazioni straniere che devono essere punite per il male fatto a Israele (come in Is 13‐23; Ez 25‐32; Sof 2,4‐15), e nella par‐te finale il messaggio di consolazione (come in Is 28‐35; Ez 34‐48; Sof 3,11‐20). Scopo di simile di‐sposizione è di esprimere la fede dei redattori finali nella possibile restaurazione di un Israele libe‐ro, mediante la liberazione dai nemici di Dio e del suo popolo. Esempio tipico di tale lavoro redazionale può essere visto nel libro di Amos: il materiale, prove‐niente in parte dal profeta di Tekoa (almeno le cinque visioni redatte in prima persona: 7,1‐8,14; 9,1‐6), viene prima raggruppato dai discepoli in raccolte tematiche con l’aggiunta di altri oracoli tramandati oralmente (cc. 1‐2: sette oracoli contro le nazioni; cc. 3‐6: sei oracoli contro Israele; cc. 8‐9: cinque visioni) e poi rivisto e attualizzato dal redattore finale, che vi inserisce, per esempio, l’introduzione (1,1‐2), l’oracolo contro Giuda (2,4‐5), le tre dossologie (4,13; 5,8‐9; 9,5‐6) e la con‐clusione (9,11‐15). Nella forma ultima e attuale il libro appare così strutturato: 1,1‐2: introduzione storica; 1,3‐2,16: oracoli contro le nazioni; 3,1‐6,14: appelli e ammonimenti rivolti al popolo ebrai‐co; 7,1‐9,10: cinque visioni; 9,11‐15: restaurazione di Israele. All’insieme dei testi, possono essere state aggiunte intere sezioni: in Is 1‐39 vengono inserite le parti apocalittiche (cc. 24‐27; 34‐35) o ad esso vengono aggiunti i cc. 40‐66. Sembra, comunque, che dal 200 a.C. i libri profetici non abbiano subito altre trasformazioni di rilievo.

1 Cfr. G. DE CARLO, Il profeta come maestro e i suoi discepoli, in G. DE CARLO, Il bagliore delle luci antiche. Una lettura

sapienziale della Bibbia ebraica (Biblica), EDB, Bologna 2015, 109‐123.


Come spiegare questo lungo cammino nella formazione dei testi? L’antichità biblica non aveva il senso di «proprietà letteraria» come ce l’abbiamo noi oggi. Trovava quindi normale far passare sotto il nome di un personaggio celebre (come Isaia) testi scritti da altri, specialmente se questi ultimi avevano subìto un chiaro influsso dal primo. Inoltre, la storia della letteratura rabbinica dimostra questo: la parola di Dio è sempre stata consi‐derata, presso gli ebrei, come un oggetto di tradizione, cioè parola da tramandare attualizzandola. Così, testi o frammenti di oracoli sono stati completati da brani più recenti che li rendevano più comprensibili, anche se questo comportava il dare loro un senso diverso dal probabile originale. I testi ritenuti sacri vengono riletti perché parlino al/del presente di chi li accosta. Se si tiene conto, quindi, che i vari libri profetici, sia quelli dei cosiddetti “profeti maggiori” (Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele), che quelli dei dodici “profeti minori”, sono stati fortemente rimaneg‐giati dalle generazioni successive, ne consegue che: Oggetto della ricerca non è più semplicemente l’autore, inteso come la persona originaria che ha prodotto lo scritto, bensì il testo nella sua complessa realtà di corpus letterario in fieri. Così, ci si accorgerà che la parola profetica è stata continuamente meditata e adattata agli eventi contempo‐ranei, specie a quelli che hanno prodotto grandi momenti di crisi nel popolo ebraico. Tra di essi: la scomparsa del regno del Nord nel 722, la distruzione di Gerusalemme nel 587 e l’amara esperienza dell’esilio in Babilonia, la fatica della ricostruzione e della ricomposizione della comunità dopo il ri‐torno dall’esilio (dal 538) all’interno dell’impero persiano, la svolta conseguente alle imprese di Alessandro Magno e l’accentuazione di attese escatologiche nei secoli IV‐III. La parola profetica, globalmente intesa, ci parla di una storia sacra in movimento verso orizzonti sempre più grandiosi, che trasfigurano via via le immagini delle tradizioni e delle istituzioni d’Israele; tipico può essere l’approfondimento circa la speranza messianica. Non è più possibile utilizzare solamente il criterio storico‐cronologico nella lettura e comprensione dei libri profetici, perché è molto difficile, allo stato attuale delle ricerche, rintracciare con sicurezza i dettagli storici che sono dietro i singoli testi e ancor più difficile, se non impossibile, ricostruire una collocazione storica e una biografia dei profeti. Piuttosto, i libri attuali rimandano a una reda‐zione complessa tardiva, che ha impresso una certa uniformità stilistica e teologica ai testi letterari. Da qui la necessità di una lettura anche di tipo sincronico e canonico che aiuti a scoprire in questi difficili scritti un’unità più grande di quella che a volte si avverte, quale può essere il tentativo di delineare con modalità sempre attuali l’identità del popolo ebraico, testimone di una speranza per tutta l’umanità, e di favorirne la continua conversione attraverso un esame di coscienza che lo porti a rivedere le proprie responsabilità.

5.3. I «libri profetici»

«Molti e profondi insegnamenti ci sono stati dati nella legge, nei profeti e negli altri scritti successi‐vi e per essi si deve lodare Israele come popolo istruito e sapiente». Così si esprime il nipote di Ben Sira nel prologo al libro da noi conosciuto come Siracide, testimonianza preziosa sulla tripartizione della Sacra Scrittura in uso nelle comunità ebraiche verso il 200‐150 a.C. Ma subito dopo presso le comunità di lingua greca che utilizzano la traduzione dei LXX viene cambiata la successione delle raccolte, con lo spostamento degli scritti a prima dei profeti. E così la troviamo in uso presso le co‐munità cristiane. Chiedendoci quale sia il senso della diversa collocazione dei libri profetici nel testo biblico ancor utilizzato dagli ebrei (e chiamato TaNaK, dalle iniziali delle tre parti) e in quello in uso presso i cri‐stiani (denominato da alcuni Primo Testamento), possiamo fare le seguenti osservazioni. 1. Nel TaNaK (o «canone ebraico») la Torah costituisce la parte fondamentale della Scrittura perché consegna alla memoria “l’insegnamento” sul perché, sul modo e sul fine per cui esiste, e deve esi‐stere, Israele quale popolo dell’alleanza con Dio. Su di esso poggiano le altre due parti: i Nebî’îm («profeti»), intesi come commenti della Torah, e i Ketûbîm («scritti») considerati approfondimenti


della stessa Torah (cf. Sal 1,1‐2) e quale sguardo aperto al futuro di Dio per il popolo dopo ogni ca‐tastrofe (cf. 2Cr 36,22‐23). In particolare, poi, i Nebî’îm fungono da collegamento tra le tre parti. La Tôrāh, infatti, trova il suo punto culminante nel comando di Mosè al popolo: «Ascolta, Israele, le leggi e le norme che oggi io proclamo ai vostri occhi; imparatele e custoditele per metterle in pratica. Il Signore, nostro Dio, ha stabilito con noi un’alleanza sull’Oreb. Il Signore non ha stabilito questa alleanza con i nostri padri, ma con noi che siamo qui oggi tutti vivi» (Dt 5,1‐3). L’ascolto obbedienziale diventa l’atteggiamento fondamentale che porta alla vera felicità, come afferma lo stesso Mosè al termine della sua bene‐dizione: «Te beato, Israele! Chi è come te, popolo salvato dal Signore?» (Dt 33,29). I Ketûbîm, a loro volta, iniziano ricordando che il compito di ogni uomo sulla terra (e prima di tutto di ogni ebreo) è quello di realizzare il sogno di Dio che ognuno possa essere felice mediante l’ascolto continuo della sua parola: «Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non re‐sta nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti; ma nella legge del Signore tro‐va la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte» (Sal 1,1‐2). Nel mezzo, i Nebî’îm iniziano con questa raccomandazione di Mosè a Giosuè: «Non si allontani dal‐la tua bocca il libro di questa legge, ma mèditalo giorno e notte, per osservare e mettere in pratica tutto quanto vi è scritto; così porterai a buon fine il tuo cammino e avrai successo» (Gs 1,8). E ter‐minano con questa speranza: «Tenete a mente la legge del mio servo Mosè, al quale ordinai sull’Oreb precetti e norme per tutto Israele. Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il gior‐no grande e terribile del Signore: egli convertirà il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli ver‐so i padri, perché io, venendo, non colpisca la terra con lo sterminio» (Ml 3,22‐24). Compito dei profeti è aiutare a tenere a mente la Tôrāh che è stata rivelata a Mosè sull’Oreb! La comunità ebraica è costituita, perciò, da «discepoli» che si mettono in ascolto della Legge (cf. Dt 6,4‐9 e Ger 31,33) interpretata dai Profeti e incarnata nella vita quotidiana studiando gli Scritti. Ri‐lievo particolare assume, in tutto questo, Elia, prototipo di ogni profeta autentico, impegnato a far sì che fra padri e figli si stabilisca una autentica relazione di comunione che trova il suo fondamen‐to nell’apprendimento della Tôrāh. 2. Nell’Antico o Primo Testamento dei cristiani la disposizione delle singole parti riceve una strut‐tura quadripartita. La Tôrāh (o “Pentateuco”), cioè il racconto sulla rivelazione originaria fatta da Dio sul Sinai e le relative istruzioni, mantiene il primo posto: il cristiano la accoglie come «proposta di vita» da realizzare alla sequela di Gesù di Nazaret (cf. Mt 22,24‐39, alla luce di 5,17‐20). Seguono poi tre parti che richiamano lo schema di passato – presente – futuro. Dapprima l’entrata e la per‐manenza di Israele nella terra promessa: è il passato di cui si fa memoria nei libri storici (da Giosuè a 2 Maccabei) e che il cristiano accosta come storia dei «fratelli maggiori» e del Dio che è comune a entrambi. Poi la proposta di una sapienza che dia sapore e senso alla vita quotidiana: è il presen‐te sul quale si medita, alla luce della Torah, nei libri sapienziali (da Giobbe a Siracide). Infine, la ri‐flessione profetica sulla storia e sul suo orientamento finale pervenutaci nei libri profetici (da Isaia a Malachia). In modo particolare questi ultimi sono aperti dal testo programmatico di Is 2,1‐5 che prevede (co‐me visione del mondo e della storia umana) l’affluire di tutte le genti a Gerusalemme per parteci‐pare – da autentici discepoli della Tôrāh (= istruzione per la vita) che in essa è presente e che da essa «esce» alla loro ricerca – alla «scuola della pace» il cui maestro è YHWH, il Signore. La conclu‐sione dei libri profetici (che è anche la conclusione del canone del Primo Testamento, non del Ta‐NaK!) è ancora Ml 3,22‐24, più volte citato nel Nuovo Testamento (cf. Mt 17,10‐13; Mc 9,11ss; Lc 1,17), per far comprendere che l’Elia promesso per gli ultimi tempi è Giovanni Battista. Inoltre, il «giorno di YHWH» annunciato al v. 23 trova piena realizzazione in Gesù di cui i Vangeli ci tramanda‐no la memoria. Il Primo Testamento è, in questa prospettiva, aperto al futuro di Dio, quel futuro che – nell’ottica cristiana – viene pienamente rivelato e realizzato nella persona del Nazareno, il Cristo, nel quale «tutte le promesse di Dio sono “sì”. Per questo attraverso di lui sale a Dio il nostro “Amen” per la sua gloria» (2Cor 1,20).


6. LA FALSA PROFEZIA

Il TM non adopera mai l’espressione «falso profeta»: è infatti la LXX che interpreta in questo modo alcune esperienze guardando sia il contesto storico in cui agiscono le persone che il messaggio da loro proclamato e le qualifica come pseudoprofeti. La prima esperienza chiara di falsa profezia si ha nel regno del Nord quando la regina Gezabele in‐troduce in modo consistente il culto a Baal (1Re 16,31‐33). Così i profeti di Baal sono presenti a centinaia (1Re 18,11‐25) e si distinguono dai profeti di YHWH (1Re 18,4). Il problema si ripresenta nel regno del Sud quasi cent’anni dopo, al tempo dei profeti Michea e Isaia: la distinzione tra veri e falsi profeti non è facile, perché tutti pretendono o asseriscono di par‐lare in nome di YHWH! (Mic 3,5‐6.11; Is 28,7). Poi, con l’approssimarsi della catastrofe per il regno di Giuda, il problema si fa più difficile: esiste infatti un gruppo di profeti in completo disaccordo con Geremia sul modo di leggere la realtà. Il profeta di Anatot li accusa di «profetizzare nel nome di Baal» (2,8) e di annunciare solo delle men‐zogne (5,31; 14,13‐16; 23,940). Famoso resterà lo scontro con il profeta Anania (c. 28). Pure Ezechiele, in Babilonia, si scontrerà con i profeti della pace, cioè del falso ottimismo (c. 13). Zaccaria prevede la scomparsa anche della profezia per gli abusi che se ne faceva (13,2‐6)... e pure Gesù in Mt 7,15‐23 dirà: «Guardatevi dai falsi profeti»!

Come distinguere i veri dai falsi profeti? Guardando l’esperienza di coloro che – magari «dopo» – sono stati considerati profeti autentici e tenendo conto delle indicazioni offerte da Dt 13,1‐6 e 18,15‐22 si possono ricavare i seguenti criteri che non vanno presi singolarmente come degli assoluti, ma applicati in modo convergente e com‐plementare. * Criteri relativi al messaggio: la vera profezia deve essere in linea con la tradizione (Dt 13,1‐4) e deve realizzarsi (Dt 18,21‐22; Ger 17,15); il vero profeta, poi, deve annunciare fedelmente quello che Dio gli ha affidato (Dt 18,20), senza adattarlo alle attese dei re o del popolo. * Criteri relativi alla persona: oltre alla chiara coscienza di essere chiamato e inviato da YHWH e quindi di parlare solo a nome suo (Dt 18,20; Ger 14,14), il vero profeta è disinteressato perché non agisce per desiderio di successo, o per denaro, o per salvare la faccia (Mic 3,5; Ger 15,10); si sforza, poi, di vivere con coerenza, in conformità con la parola che annuncia (Ger 15,19‐21), disposto ad essere fedele anche a prezzo della vita, pur nella consapevolezza della propria fragilità (Ger 1,6‐8). Ogni persona chiamata da Dio ad annunciare la sua parola deve, pertanto, vigilare sulle scelte che fa perché si può essere indotti ad annunciare la propria parola piuttosto che quella del Signore. Come ogni uomo di Dio, anche il profeta è infatti un uomo a rischio: può, prima di tutto, lasciarsi sottomettere dal potere politico e/o economico perché dica quello che interessa a determinate ca‐tegorie di persone (esemplare è lo scontro tra Amos e Amasia in Am 7,10‐17). Inoltre, per paura del nuovo e dell’inedito, può risultare incline a un certo immobilismo interpretativo di fronte alla realtà, mancando di coraggio e di realismo, come avviene per Anania, incapace di leggere corret‐tamente i segni dei tempi, cosa che invece fa Geremia, anche a costo di non essere creduto o di ri‐sultare impopolare (cf. Ger 28). Altro rischio è la tentazione di adeguarsi al sentire comune, con‐fondendo la «vox populi» (voce del popolo) con la «vox Dei» (voce di Dio), come fanno i cosiddetti «profeti della pace» denunciati da Michea (3,57), Geremia (14,13‐16) ed Ezechiele (c. 13), o come stava per fare lo stesso Geremia (cf. 15,19‐21). Infine, anche l’uomo di Dio deve stare attento a non utilizzare il ministero ricevuto come trampolino per migliorare la propria posizione economica e il proprio prestigio sociale, cosa che facevano alcuni al tempo di Amos (7,12) e Michea (3,5‐8). * Per completezza, possiamo aggiungere anche i criteri che indica il NT per saper distinguere il ve‐ro dal falso profeta: quello dei frutti annunciato da Gesù (Mt 7,15‐20: «dai loro frutti li riconoscere‐te»), quello dell’amore proclamato da Paolo (1Cor 13,2: «se avessi il dono della profezia, ma non avessi la carità...»).


7. IL MESSAGGIO DEI PROFETI

Non è facile riassumere il messaggio dei profeti perché abbiamo a che fare con delle personalità talmente diverse che sembra impossibile poterle inquadrare dentro schemi fissi, anche se è senz’altro possibile individuare delle linee comuni, come fanno la maggior parte delle attuali intro‐duzioni al profetismo biblico. Inoltre, bisogna prendere coscienza delle idee che già si hanno o ci si fa sui profeti di Israele e che diventano criteri di lettura (precomprensione): così, per esempio, in ambito cristiano, i profeti han‐no sempre goduto di molta simpatia perché considerati gli annunciatori diretti del Messia, cioè di Gesù di Nazaret, il Cristo; mentre per la tradizione ebraica solo ultimamente (con le opere di M. Buber, A. Heschel, A. Neher) stanno godendo di una discreta considerazione.

7.1. Criteri di lettura dei profeti

Se poi guardiamo a come sono stati interpretati i profeti, notiamo che nell’Ottocento alcuni stu‐diosi (J. Wellhausen, B. Duhm, H. Gunkel e la «scuola liberale») li hanno intesi come coloro che hanno rotto con una forma di religiosità naturistica e proposto una religiosità etica (teoria evolu‐zionista). Altri, poi (H. Wincler, W. Erbt), li hanno presentati come dei «sindacalisti» impegnati nel sociale e nel politico (teoria politico‐sociale dell’inizio del Novecento), mentre qualcuno (come M. Weber) li ha posti in opposizione all’istituzione (teoria carismatica). Per altri ancora, il profeta è semplicemente colui che presenta e interpreta il piano salvifico di Dio nella storia passata e presente (teoria tradizionalista, come in F. Delitzch, O. Procksh, G. Von Rad). Qualche studioso più vicino a noi li considera come dei professionisti del culto (S. Mowinckel), o come degli estatici (J. Lindblom) o dei mistici che partecipano al «pathos» divino e lo testimoniano (A. Heschel, A. Neher). Non mancano le letture psicologiche (G. Hölscher) specialmente riguardo la loro esperienza voca‐zionale o sociologiche (M. Weber, P. Berger, R. Wilson, B. Lang), ricerche interessanti ma bisognose di affinare i loro metodi. In particolare queste ultime tendono a vedere nel profeta una istituzione della società israelitica statalizzata che si affiancava a quella del sacerdote, dello scriba funzionario e del re, pur mantenendo con entrambe un rapporto dialettico di critica e spesso di contrasto. Nella ricerca attuale si preferisce presentarli o come degli esistenzialisti religiosi promotori di un autentico rapporto dell’uomo con il Dio d’Israele «qui‐ora» (G. Fohrer, J. Bright, P. Zerafa, F. Raurell) o come dei testimoni dell’assoluto di Dio ai loro contemporanei: partecipano al «pathos» di Dio per l’uomo e diventano testimoni di una «religione della simpatia» (A. Heschel, A. Neher). Su una linea che sintetizza le due posizioni si collocano i recenti contributi e studi specifici. Possia‐mo orientarci come segue: I profeti sono dei testimoni perché hanno avuto un’esperienza affasci‐nante di Dio e sono stati liberamente assenzienti alla chiamata di Dio. Essi testimoniano non tanto la loro fede e la loro esperienza, ma il Dio che ha suscitato la loro esperienza di fede. E hanno “compreso” Dio perché hanno aderito a lui nella libertà, hanno consentito cordialmente e consa‐pevolmente alla sua verità. I profeti fanno “vedere” che non è possibile testimoniare la verità di Dio senza viverla, soffrirla, gioirne, lasciarla penetrare in tutte le fibre della propria esistenza. Dio è testimoniato davvero solo da chi si lascia da lui “prendere”, come dice Amos, e plasmare.

7.2. Principali temi profetici

Lasciando le specificazioni alla presentazione dei singoli profeti, si può fin d’ora segnalare quali so‐no stati i loro principali centri di interesse o i settori della vita del popolo in cui hanno fatto risuo‐nare la parola di Dio. La loro testimonianza, infatti, si inserisce a livello di vita religiosa e cultuale, di scelte politiche e di relazioni sociali, sempre aperta a un futuro che resta comunque in mano a quel Dio che hanno sperimentato in prima persona nel momento della chiamata.


7.2.1. La vita religiosa e il culto

* Partendo dalla loro profonda esperienza di Dio maturata dal momento della vocazione e tenendo presente quanto la tradizione religiosa legata agli eventi dell’esodo cercava di far vivere a tutti, i profeti prima di tutto difendono i diritti di YHWH contro ogni forma di idolatria e/o di sincretismo re‐ligioso. Sembra che i profeti pre‐esilici (come Elia, Osea, Isaia, Geremia...) siano preoccupati di di‐fendere un monoteismo esistenziale o pratico: anche se esistono più divinità (o ’ĕlōhîm) come af‐fermano gli altri popoli, non c’è alcun dio che può stare alla pari di YHWH, perché solo lui ha liberato il popolo ebraico dalla schiavitù d’Egitto. I profeti esilici, invece, sono i difensori (soprattutto il Deu‐teroisaia) di un monoteismo teoretico, quando affermano che esiste solo un unico Dio per tutti gli uomini, YHWH, Creatore e Liberatore. * In secondo luogo, condannano sia un culto staccato dalla vita concreta perché Dio non può sop‐portare «delitto e solennità» (Is 1,13), sia tutte le forme cultuali che manipolano o sviliscono il vero volto di YHWH perché contaminate dall’idolatria che porta a dimenticare il Dio dell’esodo (cf. Os 2,4‐15; 4,1‐3). Sono invece testimoni di un Dio capace di donarsi per puro amore e di perdonare co‐stantemente il tradimento del suo popolo (cf. Os 2,16‐25; 11,1‐11). In particolare per quanto ri‐guarda il culto, sono soprattutto i profeti pre‐esilici a mostrarsi molto critici di fronte a pratiche re‐ligiose diventate solo riti che non fermentano più il vivere sociale e politico (cf. Am 5,21‐27; Os 6,6; Is 1,12‐17; Ger 7,21‐23). Non si tratta di critica al culto in quanto espressione della fede adorante il Signore della storia, quanto del culto ridotto a formalismo esteriore e a rito incapace di essere au‐tentico memoriale che attualizza quanto celebra. Ecco perché Dio stesso ammonisce: «Io detesto, respingo le vostre feste solenni e non gradisco le vostre riunioni sacre; anche se voi mi offrite olocausti, io non gradisco le vostre offerte e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo. Lontano da me il frastuono dei vostri canti: il suono delle vostre arpe non posso sentirlo! Piuttosto come le acque scorra il diritto e la giustizia come un torrente perenne» (Am 5,21‐24). * In terzo luogo, la colpa di questo vuoto cultuale viene fatta ricadere soprattutto sui sacerdoti: appartengono a una istituzione che si tramanda di padre in figlio, mentre i profeti godono di una ispirazione carismatica. Proprio a partire da tale fatto questi ultimi condannano il sacerdozio non solo quando i sacerdoti non svolgono in modo corretto il loro compito (come in Ml 1,6‐2,9), ma an‐che quando non adempiono fino in fondo la missione loro affidata di educare il popolo trasmet‐tendogli in modo fedele e corretto la Torah/legge di Dio (cf. Ger 18,18). A causa di ciò, afferma il Si‐gnore, «perisce il mio popolo per mancanza di conoscenza. Poiché tu rifiuti la conoscenza, rifiuterò te come mio sacerdote; hai dimenticato la legge del tuo Dio e anch’io dimenticherò i tuoi figli. Tutti hanno peccato contro di me; cambierò la loro gloria in ignominia. Essi si nutrono del peccato del mio popolo e sono avidi della sua iniquità. Il popolo e il sacerdote avranno la stessa sorte; li punirò per la loro condotta e li ripagherò secondo le loro azioni (Os 4,6‐9; cf. anche Ger 2,8; 6,13; Mic 3,11; Sof 3,4). Tutte queste accuse e critiche si comprendono se si tiene presente a cosa mirano i profeti: salvare l’identità del popolo ebraico nato da un evento di liberazione e cresciuto come popolo eletto e al‐leato di YHWH. Essi, infatti, credono nell’elezione di Israele in quanto popolo del Signore e la difen‐dono contro ogni forma di compiacimento e di esaltazione nazionalistica (cf. Am 3,2; 5,18‐20; 9,7). Israele è stato scelto da Dio non per il proprio valore, ma per amore, come testimonia il celebre «canto della vigna» di Isaia (5,1‐7)! È grazie a questa scelta che il popolo vive come alleato del Si‐gnore e come testimone del suo amore tra gli altri popoli. Il profeta è quindi sentinella che vigila e richiama alla fedeltà all’alleanza e alla reciprocità responsabile nella relazione (cf. Ez 3,16‐21). Se i profeti (almeno quelli pre‐esilici come Amos e Isaia) utilizzano poco il termine berit (generalmente tradotto in italiano con «alleanza»), è vero però che ad essa alludono sempre quando invitano tutti a vivere relazioni profonde e autentiche con Dio e con gli altri. Berît = alleanza denota, infatti, una relazione che si stabilisce tra due persone e che prevede degli obblighi reciproci. Nei testi narrativi (cf. Es 19,3‐8; il libro del Deuteronomio e Gs 24) la berît viene intesa e presentata in termini politici,


come un trattato tra un re (YHWH) e un suo servo (Israele), quindi tra un superiore e un inferiore. I profeti preferiscono cambiare metafora: da quella signorile del re‐servo a quella nuziale di marito‐moglie (cf. Os 1‐3; Is 54; 62; Ger 3,19‐20; Ez 16; 20) e a quella genitoriale di padre/madre‐figlio (cf. Os 11,1‐9; Is 1,2ss; 22,21; 63,16; Ger 31,9.20). Passando dal piano politico a quello familiare, i pro‐feti intendono affermare che la relazione tra Dio e il suo popolo è qualcosa che coinvolge in pro‐fondità, che si vive nella esclusività e nella donazione reciproca. Soprattutto vogliono sottolineare l’intensità dell’amore di Dio sposo‐padre‐madre capace di ricuperare sempre alla relazione autenti‐ca chi l’ha infranta o attenuata con il peccato. La nuova alleanza, infatti, consiste proprio nella ri‐creazione del cuore delle persone – il loro centro vitale, affettivo ed esistenziale – grazie al perdo‐no liberamente offerto da Dio: «Io perdonerò le loro colpe e non mi ricorderò più dei loro peccati. Io, il Signore, lo prometto solennemente» (Ger 31,34).

7.2.2. Le scelte politiche

Se è vero che i profeti sono coscienza critica del presente, appare evidente che non possono essere staccati dalle scelte che vengono fatte a livello politico dai re e dagli altri responsabili del bene co‐mune. Prima di tutto sono critici verso l’istituzione della monarchia: non pensano di sostituirla con altre forme di governo né ritengono opportuno proporre stili di vita alternativi come i Recabiti (cf. Ger 35). Sono convinti, però, che anche i re debbano convertirsi fidandosi più delle promesse di pace e di sicurezza offerte da Dio che di quelle che offrono le potenze umane. Con i loro interventi, i pro‐feti intendono difendere il primato di Dio, unico re e signore del suo popolo, e fare in modo che la sua volontà espressa nella legge mosaica non venga soppiantata dal volere e dai decreti del re (cf. 1Re 21; Am 7,10ss; Is 7,1‐17; ecc.). Nei loro interventi presso i vari re di Samaria e di Gerusalemme, i profeti non appaiono rassegnati di fronte al potere politico né rivoluzionari, ma testimoni disar‐mati della fede nel Signore tanto da apparire ingenui, esponendosi allo scherno e alla critica di tutti in nome del buon senso. Infatti, salvo alcuni casi (cf. Is 20; 37; Ger 21,9; 29), non offrono quasi mai indicazioni pratiche su cosa è possibile fare in questa circostanza perché proclamano sempre delle esortazioni belle in se stesse ma alquanto generiche per gli uomini politici. Tipico può essere il se‐guente richiamo di Isaia: «Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza» (Is 30,15). Bisogna, allora, precisare che compito del profeta è di ri‐velare il pensiero di Dio e di smascherare i modi con cui di esso non si tiene conto, mentre spetta ad altri tradurre la parola di Dio in piani operativi nella vita personale e in quella pubblica. La paro‐la profetica è, pertanto, debole perché non possiede gli strumenti politici per incarnarla nel vissu‐to. Questi sono in mano al re che fa progetti senza tener conto dei valori religiosi (cf. Is 7,10ss), al sacerdote che spesso non conosce la legge del Signore (cf. Os 4,6), al popolo che il più delle volte non si mette in ascolto (cf. Is 6,9‐10). Critici verso la monarchia, i profeti hanno però riconosciuto che attraverso di essa YHWH stava pro‐gettando cose grandi: realizzare la salvezza e la pace definitiva per il suo popolo. Pur senza enfatiz‐zarlo come succederà nelle riletture fatte dai cristiani, i profeti (soprattutto quelli pre‐esilici ed esi‐lici) riconoscono l’importanza del messianismo regale davidico, vale a dire della speranza‐certezza che Dio sia capace di realizzare il suo «progetto šalom» (benessere e prosperità, pienezza di vita e felicità, pace e riconciliazione) grazie alla presenza di un re secondo il suo cuore. Con la sua media‐zione, pertanto, il Signore porterà a compimento tutte le sue promesse fatte ai padri, secondo l’impegno preso con Davide attraverso il profeta Natan (cf. 2Sam 7,1‐17). Più che esaltare il ruolo del re‐messia, i profeti sottolineano la potenza del Signore che agisce per suo mezzo, a differenza – per esempio – dei «salmi regali» che invece enfatizzano il ruolo del re (cf. tra tutti i Sal 72 e 110).

7.2.3. Le relazioni sociali

Se i profeti non sono politici di professione, non sono nemmeno dei riformatori sociali né tanto‐meno dei sindacalisti «ante litteram». Non hanno alcuna intenzione di occupare il potere promet‐


tendo di fare giustizia. Sono, invece, dei testimoni che annunciano a chiare lettere quello che han‐no visto e capito: Dio che è sposo fedele e padre misericordioso non tollera la violenza e l’ingiusti‐zia tra i suoi figli! Facendo un serio discernimento sulla realtà sociale in cui pure loro vivono, i pro‐feti la giudicano alla luce dell’evento esodale («YHWH ti ha liberato dalla schiavitù d’Egitto e ha stretto una relazione profonda con te e con tutti i tuoi fratelli») e ne denunciano tutte le forme che negano il senso di tale evento («Non fai dono agli altri di quanto hai ricevuto gratuitamente dal Si‐gnore ma tieni tutto per te e sfrutti gli altri»): ingiustizie e soprusi, ruberie e assassini, ricchezza ar‐rogante conquistata con la frode e con la violenza e che è responsabile della povertà che così pro‐duce, benessere sfacciato che impedisce di prendersi cura del povero e dell’oppresso (cf. Am 2,6‐16; 6,1‐7). Coscienza critica delle relazioni violente che si sono instaurate tra i membri del popolo eletto e con gli altri popoli, i profeti non fanno altro che insistere sulle virtù sociali già presenti nel‐la dottrina dell’elezione e dell’alleanza, grazie alle quali è possibile costruire una «società alterna‐tiva», che non segua cioè la logica della violenza e dell’ingiustizia ma quella della giustizia (ṣedāqāh) e del diritto (mišpāṭ), dell’amore (ḥesed) e della benevolenza (raḥămîm), della fedeltà (’ĕmûnāh), virtù sociali indispensabili per realizzare quel «progetto šālôm = felicità» che da sempre il Signore ha sul suo popolo e sull’intera umanità (cf. Gen 2,4b‐3,24) e che i profeti proclamano (cf. Os 2,21‐22; 6,6; Is 9,16; 11,1‐9; ecc.). Alla base del sistema sociale violento e ingiusto ci sta, secondo la lettura che ne fanno i profeti, il disprezzo della giustizia e del diritto: «Essi trasformano il diritto (mišpāṭ) in assenzio e gettano a terra la giustizia (ṣedāqāh)» (Am 5,7; cf. 5,24; 6,12; Is 5,7; ecc.). Queste due virtù sociali che ap‐paiono sempre in coppia connotano il mantenimento di un giusto ordine, di strutture sociali e di procedure giudiziali che rispettano i diritti di tutte le classi. Una società che non rispetta quest’ordine, anche una in cui fiorisce la pratica della religione (cf. Am 5,21‐24; Is 1,12‐17), non merita di sopravvivere. Alla denuncia radicale (cf. Amos; Os 4,1‐3; Is 1‐5; Mic 1‐3; ecc.) i profeti fanno seguire, però, una proposta di possibile rinnovamento sociale perché «come le acque scorra il diritto (mišpāṭ) e la giustizia (ṣedāqāh) come un torrente perenne» (Am 5,24), proposta che pos‐siamo riassumere con il celebre detto di Michea: «Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio» (6,8). – Praticare la giustizia (ṣedāqāh) significa stabilire relazioni sociali che rispettino gli altri a tutti i li‐velli (politico, economico, giuridico), riconoscendo i diritti dei deboli e proteggendoli specialmente nei processi giudiziari (cf. 3,1.8; Am 5,7.12.24; 6,12; Is 1,17). – Amare la bontà (ḥesed) impegna ogni persona a vivere la compassione e la solidarietà verso i bi‐sognosi e i poveri e a sostituire l’appropriazione e l’avarizia con la libera condivisione e la gratuità; impegna, inoltre, a rispondere a Dio con fedeltà, avendo a cuore il suo nome e il suo progetto sulla storia personale e di tutti. – Camminare umilmente con il tuo Dio equivale a fare di Dio e della sua parola il fondamento della propria esistenza, riconoscendo e accettando di essere creatura in mano al Creatore (umiltà). E questo non per dovere imposto dall’esterno, ma come libera risposta al dono ricevuto dal Signore che consiste nel poter abitare – per l’ebreo di allora – nella terra promessa ai padri, libero e felice. Dalla predicazione profetica in ambito sociale emerge, infine, un tema che un po’ alla volta diviene centrale nell’Antico Testamento e troverà un prolungamento nel Nuovo con la proclamazione del Regno di Dio ai poveri (cf. Mt 5,3). Si tratta dei «poveri (‘ănāwîm) di YHWH», vale a dire di coloro che sono socialmente oppressi e la cui liberazione può giungere solo dal Signore. I profeti difendo‐no i poveri non perché la scelta della povertà sia una bella esperienza (come la ritiene la tradizione cristiana) quanto piuttosto perché è la conseguenza nefasta dello sfruttamento e dell’avidità dei ricchi (cf. Amos). Mettendo così sotto accusa il peccato dei ricchi e dei benestanti, il profeta prende le difese del povero e dell’oppresso, manifestando tutta la sua passione per la giustizia di Dio, vale a dire per la sua scelta di essere difensore del povero e del debole (cf. Sal 12,6; 34,7; 109,31; ecc.). Un po’ alla volta, però, il termine ‘ănāwîm = poveri viene spiritualizzato e indica tutti coloro che,


poveri di beni materiali, restano fedeli all’alleanza con il Signore, ne osservano con impegno la leg‐ge e attendono da lui la liberazione definitiva da ogni tipo di violenza e di sfruttamento (cf. Sof 2,3). Il Signore, infatti, nel suo amore fedele sarà capace di donare riposo e pace (Sof 3,13), gioia e giorni di festa a coloro che gli sono rimasti fedeli (Sof 3,17‐20).

7.2.4. Testimoni della speranza

I profeti invitano, infine, a sperare in un mondo nuovo che Dio stesso farà nascere, grazie – per al‐cuni – alla presenza del suo Messia. Testimoni, per la loro esperienza personale e viva del Signore, di nuove possibilità di vita e di rinnovamento, di rinascita e di risurrezione, i profeti seppero non so‐lo predicare la speranza anche nei momenti più difficili e tragici della storia del loro popolo, quanto soprattutto forgiare attese e sogni. Aprirono, così, la storia del loro popolo e dell’intera umanità a un futuro di liberazione definitiva da tutto ciò che impedisce alla vita umana di esprimersi come vi‐ta (guerre e pestilenze; dolore e malattia; violenze e morte). Basandosi sulle grandi esperienze e verità della liberazione dalla schiavitù d’Egitto (cf. Am 2,9‐11; 3,2), dell’alleanza tra il Signore e il suo popolo (cf. Es 19‐24), dell’elezione di Gerusalemme in quanto città santa (cf. Is 1‐9) e della casa di Davide come dinastia eterna, i profeti annunciano e sperano in un nuovo esodo (come Os 2,4‐25 e il Deuteroisaia), una nuova ed eterna alleanza (cf. Ger 31,31‐34; Ez 37,36‐37), una nuova Gerusa‐lemme (come per Is 52,1‐12; 54; 62) e un nuovo Davide che instauri sulla terra il «regno di YHWH» (come per Ez 34,23ss). Queste sono le speranze che, assieme alle promesse di un nuovo popolo (cf. Is 66,10‐14) e di una nuova creazione (Is 66,22), costituiscono le grandi linee dell’escatologia profetica. Non si tratta, pe‐rò, per il credente, di semplici utopie, vale a dire di sogni al di fuori della realtà, quanto piuttosto di «eutopie», cioè di «buoni luoghi» nel senso che – fondate in Dio – le speranze diventano promesse cui aggrapparsi nella certezza che il presente può un po’ alla volta assumere le caratteristiche di quel «buon luogo» annunciato e prefigurato. Dio, in altre parole, si impegna a realizzare oggi quan‐to promette per domani. E quel futuro che i profeti annunciano con toni solenni e descrivendolo a volte nei particolari non è la fotografia di quello che succederà, né una specie di cartina geografica della storia che riporta segnati ben bene tutti gli eventi, né tantomeno una tele‐visione, cioè una visione a distanza. I profeti non hanno il dono della prescienza, ma vedono in quale direzione Dio, in azione dentro ad eventi specifici, sta guidando la storia del loro popolo e quella dell’intera uma‐nità e lo annunciano come fondato nel cuore stesso di Dio. Testimoniano, così, che i desideri più genuini di ogni persona riguardanti l’oggi e il domani (prosperità, pace, felicità) sono gli stessi desi‐deri che ha Dio, i cui progetti sono «progetti di pace e non di sventura», per concedere a tutti «un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11). Appare evidente, allora, come il futuro sperato dall’uomo è iscritto nel futuro desiderato da Dio! In quest’ottica, particolarmente significativa risulta allora l’attesa del giorno di YHWH, vale a dire del momento in cui il Signore prenderà in mano con decisione la storia e – attraverso un giudizio con cui regola i conti con i nemici suoi e del suo popolo – stabilisce finalmente la sua regalità. In quel giorno troverà salvezza in modo particolare il resto fedele, formato da tutti coloro che con pazienza e nella vigilanza hanno atteso l’avvento del regno di Dio vivendo con onestà, giustizia e sobrietà; fedeli all’alleanza con il loro Signore, verranno definitivamente iscritti nel libro della vita (cf. Is 4,2‐6; 6,12‐13; 11,1; Sof 3,13.19‐20). È probabile che i profeti (senz’altro quelli preesilici) pensassero che a breve termine Dio garantisse una possibilità di vita dignitosa e sicura a coloro che rispettava‐no la sua alleanza. Un po’ alla volta l’orizzonte si è aperto a una dimensione ultrastorica, facendo riferimento alla salvezza definitiva che Dio avrebbe offerto ai suoi fedeli nel giudizio finale o escato‐logico (così nei profeti postesilici). In ogni caso, appare chiaro che scopo ultimo della speranza pro‐fetica è «che il popolo viva», anche nelle proporzioni ridotte di un piccolo resto fedele! Tutto ciò è presente in modo particolare nel testo dei Dodici profeti minori considerati dalla tradi‐zione ebraica come un solo libro (o «rotolo»). Ciò che – nella redazione canonica attuale – li tiene insieme e che ne dà unità non sono solo i criteri letterari (titoli introduttivi; ripetizione degli stessi


termini; presenza di visioni, immagini e temi comuni) quanto anche un messaggio coerente che può essere riassunto nella sequenza: peccato del popolo ebraico e degli altri popoli; punizione o castigo, specie dei «popoli stranieri»; restaurazione o salvezza e «novità di vita» non solo per Israe‐le ma per l’intera umanità. Il peccato è denunciato particolarmente da Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona e Michea facendo riferimento all’alleanza tra Dio e il suo popolo. Il momento della punizio‐ne/castigo è centrale specialmente in Naum, Abacuc e Sofonia. Aggeo, Zaccaria e Malachia, infine, fanno sperare nella possibilità della restaurazione/salvezza. Questa successione di momenti diversi ma tra di loro strettamente collegati riguarda, in una «lettura d’insieme» dei Dodici profeti minori, non solo il popolo ebraico ma anche l’umanità intera e si realizzerà in modo inequivocabile nel «giorno del Signore». È questa l’espressione e l’esperienza che dà unità all’insieme dei dodici libri profetici e li caratterizza come invito pressante al pentimento e come attesa fiduciosa della salvez‐za operata da Dio «in quel giorno». Alla critica della storia presente i profeti minori (al pari dei tre maggiori) fanno seguire la speranza di un intervento radicale del Signore che cambierà in meglio la vita del popolo ebraico e di tutta l’umanità. Anche se dovrà passare attraverso il giudizio (denuncia del peccato) e gravi catastrofi (segno del castigo), la storia umana è orientata – per tutti i profeti – a un incontro salvifico con YHWH, il Signore creatore e liberatore.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE SUI PROFETI

BALLARINI T. (a cura di), Profetismo e profeti in generale (Introduzione alla Bibbia con antologia ese‐getica 2/2), Marietti, Torino 1971.

RAMLOT L., Prophétisme, in Dictionnaire de la Bible. Supplement, vol. 8, 1972, 811‐1222. VON RAD G., Teologia dell’Antico Testamento, vol. 2: Teologia delle tradizioni profetiche d’Israele

(Biblioteca teologica 7), Paideia, Brescia 1974. ALONSO SCHÖKEL L. – SICRE DIAZ J. L., I profeti (Commenti biblici), Borla, Roma 1984. NEHER A., L’essenza del profetismo, Marietti, Genova 1984. SAVOCA G., I Profeti di Israele. Voce del Dio vivente (La Bibbia nella storia 3), EDB, Bologna 1985. TESTA E. – MARCONCINI B., Profetismo, profeti e apocalittica (Il messaggio della Salvezza 4), Elledici,

Leumann (Torino) 51985. AMSLER S. – ASURMENDI J. – AUNEAU J. – MARTIN‐ACHARD R., I profeti e i libri profetici (Piccola Enciclo‐

pedia Biblica 4), Borla, Roma 1987. SICRE J. L., I profeti d’Israele e il loro messaggio, Borla, Roma 1989. ROFÉ A., Storie di Profeti. La narrativa sui profeti nella Bibbia ebraica: generi letterari e storia, Pai‐

deia, Brescia 1991. VOGELS W., I profeti. Saggio di teologia biblica, Edizioni Messaggero, Padova 1994. ROFÉ A., Introduzione alla letteratura profetica (Studi biblici 111), Paideia, Brescia 1995. SICRE J. L., Il Profetismo in Israele. Il Profeta. I Profeti. Il Messaggio, Borla, Roma 1995. ABREGO DE LACY, J. M., I libri profetici (Introduzione allo studio della Bibbia 4), Paideia, Brescia 1996. BLENKINSOPP J., Storia della profezia in Israele (Biblioteca biblica 22), Queriniana, Brescia 1997. VAWTER B., Introduzione alla letteratura profetica, in Nuovo Grande Commentario Biblico, a cura di

R. E. BROWN – J. A. FITZMYER – R. E. MURPHY, Queriniana, Brescia 1997, 244‐262. ZENGER E. e altri, I libri profetici, in E. ZENGER (a cura di), Introduzione all’Antico Testamento, Queri‐

niana, Brescia 2005, 631‐882. MARCONCINI B. (a cura di), Profeti e apocalittici. Seconda edizione aumentata (Logos 3), Elledici,

Leumann (Torino) 2007. RÖMER T. ‐ MACCHI J.D. ‐ NIHAN C. e altri, I profeti, in T. RÖMER ‐ J.D. MACCHI ‐ C. NIHAN (a cura di), Guida

di lettura dell’Antico Testamento, EDB, Bologna 2007, 285‐442; 511‐522; 531‐540; 625‐636. BOVATI P., “Così parla il Signore”. Studi sul profetismo biblico (Biblica), EDB, Bologna 2008. RIZZI G., I libri profetici, P. MERLO (a cura di), L’Antico Testamento. Introduzione storico‐letteraria, Ca‐

rocci, Roma 2008, 197‐240.


SESSA S. M. ‐ SETTEMBRINI M., I libri profetici. Un messaggio universale e perenne e Il «libro» dei Dodi‐ci profeti minori, G. RAVASI (a cura di), L’Antico Testamento. Conoscerlo, leggerlo, viverlo, San Pao‐lo, Cinisello Balsamo 2013, 231‐285.287‐400.

SPREAFICO A., La voce di Dio. Per capire i profeti. Nuova edizione (Studi biblici 66), EDB, Bologna 2014.

CUCCA M., La Parola intimata. Introduzione ai Libri profetici, San Paolo, Cinisello Balsamo 2016. PAGANO G., I profeti tra storia e teologia (Studi biblici 76), EDB, Bologna 2016. ROTA SCALABRINI P., Sedotti dalla Parola. Introduzione ai libri profetici (Graphé 05), Elledici, Torino

2017.

Per una conoscenza della storia e della geografia di Israele

ALONSO SCHÖKEL ‐ ASURMENDI J. e altri (a cura di), La Bibbia nel suo contesto (Introduzione allo studio della Bibbia 1), Paideia, Brescia 1994; si possono utilmente consultare le parti seguenti: Geogra‐fia e archeologia bibliche (J. G. Echegaray), 15‐99; Storia e istituzioni del popolo biblico (J. Asur‐mendi e F. García Martínez), 101‐311. Inoltre ivi si può trovare ulteriore bibliografia.

FABRIS R. (a cura di), Introduzione generale alla Bibbia. Seconda edizione rinnovata (Logos 1), Elledi‐ci, Leumann 2006; si possono utilmente consultare i seguenti capitoli: Profilo storico del Vicino Oriente antico (L. Cagni), 31‐48; La storia di Israele: dalle origini all’esilio babilonese (C. Balzaret‐ti), 49‐90; La storia del popolo ebraico dopo l’esilio (P. Sacchi), 91‐124; Geografia biblica (E. Gal‐biati), 179‐203; Archeologia biblica (E. Galbiati), 205‐235. Inoltre ivi si può trovare ulteriore bi‐bliografia.

NOTH M., Storia di Israele, Paideia, Brescia 1975. HERMANN S., Storia di Israele. I tempi dell’Antico Testamento (Strumenti 6), Queriniana. Brescia

21977. METZGER M., Breve storia di Israele (Strumenti 32), Queriniana, Brescia 1985. SACCHI P., Storia del secondo tempio. Israele tra VI secolo a.C. e I secolo d.C., SEI, Torino 1994. FINKELSTEIN I. – SILBERMAN N.A., Le tracce di Mosè. La Bibbia tra storia e mito, Carocci, Roma 2002. SOGGIN J. A., Storia di Israele. Introduzione alla storia d’Israele e Giuda dalle origini alla rivolta di Bar

Kochbà. Seconda edizione interamente rifatta e aggiornata, Paideia, Brescia 2002. LIVERANI M., Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Laterza, Bari 2003. MAZZINGHI L., Storia d’Israele dalle origini al periodo romano, EDB, Bologna 2007.

LEMAIRE P. – BALDI D., Atlante biblico. Storia e geografia della Bibbia, Marietti, Torino 21964. AHARONI Y. – AVI‐YONAH M., Atlante della Bibbia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1987. GALBIATI E. R. – SERAFINI F., Atlante storico della Bibbia, Massimo‐Jaka Book, Milano 2004. PEREGO G. – CUCCA M., Nuovo atlante biblico interdisciplinare, San Paolo, Cinisello Balsamo 2012.

CENNI STORICI PER I PROFETI PRE‐ESILICI (SEC. VIII A.C.)*

I primi quattro profeti scrittori (Amos, Osea, Michea e Isaia) interpretano gli eventi della seconda parte dell’VIII secolo, dal 760 circa, anno della predicazione di Amos, al 701, anno dell’assedio di Gerusalemme da parte del re assiro Sennacherib. Due argomenti rendono «ragionevole» il 760 come inizio della profezia: – la menzione del terremoto (Am 1,1), ricordato ancora da Zaccaria (14,4‐5), a distanza di secoli, il quale avrebbe provocato l’avvallamento tra il monte Scopus e il monte degli Ulivi: la datazione tar‐diva è confermata indirettamente dagli scavi di Hazor nell’alta Galilea; – l’attacco concentrato contro la Transgiordania, con atti di estrema crudeltà commessi da Dama‐sco nella zona nord (Am 1,3) e dagli Ammoniti nella zona centro‐meridionale (Am 1,13): la ricon‐quista da parte di Geroboamo II della Transgiordania, resa possibile dalla debolezza di Damasco, provoca infondato ottimismo, non condiviso dal profeta (Am 6,13‐14; cf. 2Re 13,25; 14,25). I sessanta anni si possono dividere in tre periodi di estensione quasi eguale.

1. Pace all’esterno e oppressione all’interno

II primo ventennio circa è caratterizzato da sicurezza e da benessere economico almeno della cor‐te, da rapporti pacifici tra Samaria e Gerusalemme, libere dalle minacce delle superpotenze assira ed egiziana: esso corrisponde all’ultima parte del regno di Geroboamo II (782‐743) al nord e di quello altrettanto lungo di Ozia o Azaria (781‐740; cf. Am 1,1; Os 1,1) al sud. Quest’ultimo, che con‐tinua a guidare le sorti del regno nonostante la lebbra (2Re 15,5), riesce ad allargare i confini meri‐dionali fino ad Eilat, indebolisce Filistei e Ammoniti, potenzia con fortificazioni Gerusalemme e fa‐vorisce insediamenti agricoli nel Negheb. Sul piano sociale la situazione è tutt’altro che rosea. Accanto a pochi privilegiati che detengono la quasi totalità della ricchezza, esiste una maggioranza oppressa fisicamente e moralmente (cf. Am 2,6‐8), composta da piccoli agricoltori e stipendiati, per di più indifesi dinanzi alle frequenti calami‐tà naturali (Am 4; 7,1‐3); i loro diritti sono costantemente violati perfino nei tribunali (Am 5,7.10; 6,12). La classe dominante fa sfoggio di lusso (Am 4,1‐3), come documentano raffinate lavorazioni d’avorio emerse dagli scavi (Am 6,4‐7). Religiosamente dominano due atteggiamenti contrari alla dottrina rivelata. Da una parte si moltiplicano superficiali gesti religiosi, feste e pellegrinaggi ai san‐tuari (Am 4,4‐5), dall’altra si è attratti dai riti locali della fecondità, dalla ricerca in Baal della propria sicurezza, quando non ci si rivolge al Signore come a un Baal (“baalizzazione di YHWH”) (Os 11,1‐3). «Non capì che io le davo grano, vino nuovo e olio e le prodigavo l’argento e l’oro che hanno usato per Baal... Le farò scontare i giorni dei Baal quando bruciava a loro profumi... mi chiamerai: mio marito e non più mio Baal... più chiamavano i Baal, più si allontanavano da me» (Os 2,10.15.18; 11,1): è di questo «adulterio» che si occupa Osea. Egli condanna il costume di recarsi sugli alti luo‐ghi sacri (bâmôt), nei boschetti, dove si adorano le potenze divine (Os 4,13), dalle quali si attende fertilità della terra, fecondità del bestiame, stabilità della casa. Biasima parimenti il pellegrinare ai vari santuari, Galaad e Sichem (6,8‐9), Mizpa e Tabor (5,1), Betel e Dan, i tradizionali luoghi di culto del toro, ai quali si aggiungono Samaria (8,5) e Galgala (4,15; 9,15; 12,12), dove si rinnova il pecca‐to a Baal‐Peor (9,10).

2. Sotto il pesante martello dell’Assiria

La morte di Geroboamo II dà inizio a un ventennio di instabilità, di cui continua ad essere interpre‐te Osea, affiancato da Isaia e da Michea. Il figlio di Geroboamo, Zaccaria, è subito eliminato da un certo Sallum, ucciso a sua volta da Menachem, che riesce con la forza a conservare per alcuni anni il potere (cf. 2Re 15,8‐22), dopo il pagamento di un forte tributo al grande re assiro, Tiglat‐Pilezer III

* B. MARCONCINI (a cura di), Profeti e apocalittici. Seconda edizione aumentata (Logos 3), Leumann (Torino) 2007, 85‐

88.

Cenni storici per i profeti pre‐esilici (sec. VIII a.C.) 29

(745‐727): questi, ottenuto il predominio su tutta la regione, da Babilonia alla Siria centrale, con l’annessione di Hamat, si appresta a premere su Damasco e Israele. Il re assiro infatti con un eserci‐to permanente, dotato di carri da guerra e di cavalleria pronta all’attacco – una novità per quei tempi – mette in atto un piano di conquista feroce (cf. Is 5,27‐30) in tre momenti: – stato di vassallaggio, offerto spontaneamente dai sovrani vicini per prevenire mali maggiori, con il pagamento di forti tributi e la perdita dell’autonomia in politica estera; – violenta rappresaglia militare al primo accenno di disobbedienza, mediante la sostituzione del sovrano con una persona favorevole, per lo più della dinastia del paese, con l’aumento dei tributi e l’espropriazione di territori; – incorporazione del territorio nell’impero con l’affidamento del potere a un governatore assiro, cui fa seguito la deportazione della classe dirigente e l’immissione nel territorio di popolazioni estranee. Dopo appena un decennio, questo piano raggiunge Israele fino al terzo grado.

2.1. La guerra siro‐efraimitica

In questo processo ineluttabile due fatti sono degni di segnalazione: l’instabilità e l’incertezza poli‐tica – incerta è anche la cronologia – con l’uccisione di Pekachia, figlio di Menachem, deposto da Pekach figlio di Romelia, e la nuova discesa nel 734 di Tiglat‐Pilezer contro i Filistei e specialmente contro Gaza, con l’estensione del potere assiro fino al “torrente d’Egitto”: questo evento impedisce contatti tra la superpotenza meridionale e i regni siro‐palestinesi. Il desiderio dei re di Damasco, Rezin, e di Samaria, Pekach, di scrollare il giogo assiro dà luogo alla cosiddetta guerra “siro‐efraimita”, dal nome della più forte tribù del nord. La lega invita anche il re Acaz (733‐728) – salito al trono dopo Iotam (740‐733) – ad aderire a questa coalizione antiassira, ottenendone un rifiuto. I siro‐efraimiti pertanto assediano Gerusalemme. È a questo punto che interviene Isaia, il cui pensie‐ro è riportato in Is 7‐8. Il profeta è d’accordo con Acaz, quando egli decide di tenersi fuori dalla le‐ga, ma lo critica nel momento in cui si lascia intimorire dai due re, sprezzantemente definiti dal profeta «avanzi di tizzoni fumosi», e lo invita alla calma (7,4). Per Isaia la salvezza si trova solo nella fiducia in Dio, che resta invece offuscata dal ricorso ai mezzi umani. Il proposito dei due coalizzati di mettere al posto di Acaz un pretendente, il «figlio di Tabeel» (7,6), cozza infatti contro la pro‐messa divina della perennità della dinastia davidica (cf. 2Sam 7): in questo contesto si inserisce uno dei più celebri oracoli messianici (Is 7,10‐17).

2.2. La distruzione di Samaria (722)

A distanza di un decennio, l’esercito assiro ricompare e provoca nel 722 la distruzione di Samaria (cf. Is 28,1‐4), dove l’ultimo re, Osea, finora fedele vassallo dell’Assiria, si era ribellato, probabil‐mente in occasione dell’ascesa al trono di Salmanassar V (727‐722): 27.290 persone sono deporta‐te, secondo un’iscrizione di Sargon II. Come concordemente i profeti avevano previsto, una società fondata sull’ingiustizia non poteva durare a lungo. Il nuovo re assiro Sargon II, completando l’opera iniziata dal predecessore, espugna Samaria, vincendo la strenua resistenza, durata oltre due anni, da parte dei cittadini, trasferiti poi in massa nel paese invasore: Samaria diventa così provincia assi‐ra.

3. Gerusalemme opprime i cittadini più deboli

Frattanto i popoli sottomessi aspettano ancora l’occasione per rivoltarsi contro il dominio assiro. L’opportunità si presenta quando nella città filistea di Asdod, dalle lotte interne, risulta vincitore il partito antiassiro: si forma così la lega di Asdod. La voglia di ribellione, alimentata dall’Egitto, si al‐larga intanto a molti paesi: questa volta, a differenza di quanto aveva fatto il padre Acaz, alla coali‐zione antiassira aderisce pure il re Ezechia (727‐698), giunto ormai all’età di governare da solo. Egli riceve anche gli ambasciatori del re di Babilonia, Me‐rodach‐Baladam, ai quali mostra i suoi tesori, significando con ciò di essere pronto alla guerra (Is 39). Il rapido invio da parte di Sargon II del ge‐neralissimo, il Tartan (Is 20), pone fine alla coalizione: Asdod è occupata e saccheggiata nel 711.

30 Cenni storici per i profeti pre‐esilici (sec. VIII a.C.)

Ezechia si salva, sottomettendosi in tempo, senza gravi danni: anzi, con le riserve del tesoro può re‐staurare le mura della città. Isaia, intervenuto fin dall’inizio, critica la politica di Ezechia (cf. cc. 38‐39). La morte di Sargon II nel 705 alimenta nuovamente le speranze di liberazione e spinge ad al‐leanze sconsigliate da Isaia (18,1‐6; 30,1‐7). Il nuovo re, Sennacherib, vince tutte le resistenze, conquistando le 46 fortezze riparate o costruite da Ezechia, che aveva provveduto a dotare Gerusalemme perfino di un rifornimento idrico, attra‐verso una conduttura dalla sorgente Ghicon alla piscina di Siloe. Il re assiro pone allora l’assedio a Gerusalemme e chiede sprezzantemente una resa incondizionata. Isaia è ben convinto dell’inefficacia dei mezzi umani di difesa, ma non può tollerare l’insulto rivolto a Dio stesso, il cui aiuto è ridicolizzato dall’invasore: egli perciò interviene a sua volta con invettive e minacce (37,22‐29). Inaspettatamente l’esercito assiro abbandona l’assedio e riprende deluso la via del ritorno: una pestilenza, forse, aveva decimato i guerrieri, permettendo così una liberazione che conserva qualcosa di prodigioso (Is 29). Dal punto di vista sociale, negli ultimi decenni dell’VIII secolo la situazione del regno del sud non differisce molto da quella del nord. Una minoranza ricca opprime una maggioranza povera, la città di Gerusalemme vive alle spalle della campagna, specialmente della Shefela (Lachish), aggravata dallo stanziamento dell’esercito assiro. La crisi sociale è acuita dal passaggio da una struttura triba‐le a un’emergente classe artigiana e contadina. Gran parte della profezia del contadino Michea in‐terpreta questa situazione, ponendosi dalla parte dei poveri (Mic 1,8‐16; 2,1‐5; 3,1‐4; 6,9‐15; 7,1‐7): anche il cittadino Isaia, talvolta in dialettica con il primo, è dalla parte dei più deboli (Is 1,1‐7.21‐28; 5,1‐7). Religiosamente preoccupa la separazione tra culto e vita, un’attenzione esagerata ai ge‐sti sacrificali (Is 1,10‐15) e un disprezzo sfacciato ai miseri, attraverso il lusso provocante (3,16‐24). Effimero fu pure l’effetto della riforma di Ezechia, desideroso di eliminare ogni traccia di religiosità straniera, e di incentrare tutto sul culto di YHWH nel tempio di Gerusalemme.

I PROFETI AMOS, OSEA E MICHEA E I LORO LIBRI*

I primi profeti scrittori sono collocati nella Bibbia tra i «minori». Svolgono la loro missione tra il 760 e il 720 a.C. Amos è del Regno del Sud, ma è inviato a predicare al Nord; Osea vive e opera al Nord; Michea è un contadino del Regno del Sud e lì svolge la sua attività profetica. Vivono in un periodo storico caratterizzato da ambiguità politiche, sociali e reliogiose. Essi però fanno della realtà non una «lettura turistica» che guarda all’esteriorità e all’apparenza, ma «profetica»: vi penetrano den‐tro per cogliere tutte le inconsistenze e le debolezze. Pur diversa nelle modalità, la loro predicazione fa emergere che l’ingiustizia prospera là dove manca un serio incontro con Dio; si sfruttano gli altri perché si è estromesso Dio dall’orizzonte della propria esistenza.

PREMESSA: I “DODICI PROFETI”**

a) I Dodici come «libro»

«Le ossa dei dodici profeti rifioriscano dalla loro tomba, perché essi hanno consolato Giacobbe, lo hanno riscattato con la loro confidente speranza» (Sir 49,10). Già nel libro del Siracide (cf. anche At 7,42), e quindi verso il 180 circa a.C., vi è un riferimento esplicito a una considerazione unitaria del‐la serie dei Dodici profeti minori, così definiti da Girolamo quanto alla inferiore lunghezza rispetto ai libri profetici più estesi di Isaia, Geremia ed Ezechiele, non in relazione alla loro importanza. Il fatto però che essi debbano o meno essere effettivamente considerati (come del resto avveniva nel passato) e soprattutto letti (il che è controverso) come un «libro» autonomo, e non solo come una raccolta antologica, è oggetto di una discussione piuttosto recente, con ricadute interpretative in gran parte ancora da indagare. Ci sono del resto connotazioni moderne insite nella parola «libro» che non trovano analoghe o precise corrispondenze semantiche nel lessico impiegato nel mondo antico per indicare un prodot‐to letterario (la stessa fattura materiale odierna, che riprende la forma del «codice» e non del roto‐lo; elementi quali data e luogo di pubblicazione; il concetto di diritti di autore ecc.). Nondimeno, definire un insieme testuale come «un libro» ha – ieri come oggi – inevitabili implicazioni erme‐neutiche, soprattutto quanto a coerenza e intenzionalità, in riferimento a tutto ciò che esso con‐tiene, tanto più se ad essere compresi in questa unità materiale sono dodici scritti diversi, ricon‐dotti tradizionalmente ad altrettanti diversi autori, letti e commentati sempre singolarmente. Nel solco dell’espressione unificante attestata in Sir 49,10 («i dodici profeti») sia la tradizione ebraica che quella cristiana hanno di fatto considerato i Dodici un insieme organico, dotato di una propria autonomia letteraria. Lo conferma a chiare lettere Girolamo, per esempio, che nel prologo della Vulgata loro dedicato si premura di evidenziare come i profeti minori formino (almeno dal punto di vista materiale) un unico libro. Nonostante ciò non si riscontra di per sé nessuna esplicita o immediatamente evidente indicazione testuale nei singoli libri (solo Naum in 1,1 definisce se stesso come un sefer, cioè un «libro/rotolo») e negli antichi manoscritti ebraici (al di là di alcuni in‐dizi non stringenti) che obblighi a pensare all’insieme dei Dodici non come a un normale, e piutto‐sto casuale, processo di antologizzazione, ma come a un unitario progetto editoriale. È tuttavia sempre più in aumento tra gli studiosi una particolare attenzione critica su vari fattori connaturali alla trasmissione di questa parte della letteratura profetica che orientano verso tale direzione. Non

* G. CAPPELLETTO ‐ M. MILANI, In ascolto dei profeti e dei sapienti. Introduzione all’Antico Testamento. Vol. II, Edizioni

Messaggero, Padova 2010, 65‐81; L. ALONSO SCHÖKEL – J.L. SICRE DIAZ, I profeti (Commenti biblici), Borla, Roma 1984, 1081‐1083; B. MARCONCINI (a cura di), Profeti e apocalittici. Seconda edizione (Logos 3), Elledici, Leumann 2007, 123‐128.

** M. SETTEMBRINI, Il «libro» dei Dodici profeti minori, in G. RAVASI (a cura di), L’Antico Testamento. Conoscerlo, legger‐lo, viverlo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013, 287‐296.

32 I profeti Amos, Osea e Michea e i loro libri

pochi studi esegetici contemporanei stanno infatti scoprendo connessioni interne che sembrano evidenziare la presenza di un preciso intento redazionale globale. Tra gli elementi basilari su cui si sta volgendo attenzione vi è la pratica scribale antica (attestata dai ritrovamenti presso il Mar Morto), ripresa dal rabbinismo successivo (cf. gli indizi offerti in tal senso dal Talmùd babilonese, Baba Bathra 13b‐15° e dal tardivo colofone masoretico inserito a conclu‐sione di Malachia), di inserire i Dodici in un unico rotolo e di considerarli quindi un unico libro (così è attestato anche dall’apocrifo quarto libro di Esdra in 14,44‐47 e da Giuseppe Flavio in Contro Apione 1,38‐42) che, quanto ad ampiezza, risulta così paragonabile ai libri dei profeti maggiori. L’ordine della successione degli scritti poi sembra obbedire ad alcuni criteri non casuali, anche quando tale disposizione varia a seconda delle tradizioni testuali. Le titolature dei singoli libri pro‐fetici sono spesso molto simili tra loro e si richiamano a vicenda (cf. Os 1,1 con Gl 1,1; Am 1,1; Mi 1,1; Sof 1,1; Na 1,1 con Ab 1,1; Ag 1,1 con Zc 1,1). Anche il fattore relativo all’estensione materiale dei testi, insieme a quello cronologico (così come lo si poteva desumere in assenza di espliciti rife‐rimenti in Gioele, Abdia, Giona, Naum, Abacuc, Malachia), ha senz’altro giocato un ruolo, visto che i libri più lunghi e più antichi sono anche i primi della serie (il che si apprezza meglio nella sequenza dei primi cinque libri nell’antica versione greca dei Settanta). Si nota poi come l’organizzazione complessiva attuale faccia iniziare la serie con parole dirette contro Israele, cui seguono oracoli contro le nazioni e una conclusione con aperture escatologico‐salvifiche, riflettendo così in qualche modo la sistemazione del materiale di Isaia e di Geremia (secondo la Settanta). Il principio ordinatore determinante sembra comunque essere di natura macrostrutturale e viene rivelato da riferimenti testuali e/o parole‐gancio inserite soprattutto all’inizio o alla fine dei singoli libri, in modo tale da evidenziarne, a seconda dei casi, continuità o giustapposizione tematica. An‐che se in base a tutti questi elementi per non pochi studiosi si potrebbe parlare al massimo di una sorta di raccolta antologica, unificata soprattutto dal tema del «giorno del Signore», l’impressione suscitata dal reticolo intertestuale (lessicale e contenutistico) che si sta evidenziando farebbe piut‐tosto pensare a testi messi volutamente in dialogo tra loro per stimolare una comprensione teolo‐gica articolata da compiersi in itinere, man mano che si procede con la lettura, mantenendo e in‐terpretando tensioni e richiami, con lo scopo di far evitare improprie riduzioni o assolutizzazioni ermeneutiche limitate alle singole prospettive teologiche di ciascuno scritto.

b) Articolazione e aspetti teologico‐letterari

Le differenze tra l’assetto dei Dodici attestato dalla tradizione ebraica e quello presentato dalla Set‐tanta non significano che la disposizione dei singoli scritti sia insignificante o casuale; al contrario, sembrano documentare un particolare interesse per una visione unitaria, una diversa o nuova comprensione dell’insieme e delle relazioni interne. Entrambe le versioni del libro dei Dodici inizia‐no con Osea e terminano con Malachia, facendo emergere la preoccupazione di sotto‐lineare che l’amore di Dio, nonostante gli avvenimenti drammatici che hanno segnato la storia di Israele, rima‐ne certo e immutabile, chiedendo ancora, in ogni caso, la fedeltà all’alleanza. In particolare Mi 3,22‐24 (pur con la caratteristica inversione dell’ordine dei versetti del testo greco) si segnala in en‐trambe le tradizioni testuali come conclusione dell’intero libro dei Dodici, confermandone l’interconnessione con la legge o Torà (il Pentateuco) e mantenendo la tensione verso la venuta del «giorno del Signore». A differenza della Settanta tale chiusura sigilla per il canone ebraico l’intero corpus profetico (che inizia da Giosuè), mentre per quello cristiano, sotto l’influsso della Vulgata, oltre a concludere la serie dei profeti, traccia anche il confine tra l’Antico e il Nuovo Testamento, vi‐sto come compimento di tale attesa. La discrepanza nell’ordine interno, che riguarda solo i primi sei libri, è resa evidente dal fatto che la tradizione greca dopo Osea non ha Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, ma pone Amos, Michea, Gioele, Abdia e Giona, avvicinandosi così maggiormente alla reale scansione temporale che ha vi‐sto la produzione dei singoli libri. Il principio della loro disposizione secondo una linea di succes‐sione cronologica, per cui si andrebbe dal più antico al più recente, si fonda sulle rispettive titola‐

I profeti Amos, Osea e Michea e i loro libri 33

zioni o su quanto si può intendere implicitamente dal loro stesso contenuto tematico. I primi sei sarebbero quindi da collocarsi nelTVIII secolo a.C., gli altri tre alla fine del VII secolo e l’ultimo rag‐gruppamento verso la fine del VI secolo a.C. Benché il principio abbia una sua plausibilità, e può ben corrispondere a quanto pensavano in proposito gli antichi, la critica storica attualmente sotto‐linea piuttosto l’artificiosità di tede impianto strutturale, resa evidente in particolare nei libri di Gioele, Abdia, Giona e Malachia, i quali, oltre ad essere più recenti di quanto tradizionalmente ri‐tenuto, sembrano tra l’altro espressione di una «profezia scribale» o «letteraria» non riconducibile a precise figure di profeti storici. Un altro dato letterario interessante è la duplice modulazione della recezione profetica come paro‐la che «accade» e viene accolta (mediante la formula di evento della parola: cf. Os 1,1; Gl 1,1; Gio 1,1; Sof 1,1; Ag 1,1; Zc 1,1) e come «visione» che viene percepita (cf. Am 1,1; Abd 1; Mi 1,1; Na 1,1; Ab 1,1). Notevole anche la caratteristica polarità, che ha il suo contraccolpo letterario nell’alternanza correlata tra poesia e prosa, che si ottiene mediante rinserimento narrativo della storia parabolica del libro di Giona in una serie di testi profetici in prevalenza oracolari. La sua ete‐rogeneità e quindi la sua apparente estraneità all’insieme riproducono in realtà nel libro dei Dodici la tipica articolazione attestata nei profeti maggiori tra la comunicazione profetica verbale e quella ge‐stuale‐simbolica (ossia tra detti e fatti della vita del profeta). La macrostruttura redazionale, che sembra tradire un assetto deliberatamente impostato, è piutto‐sto complessa, ma può essere parzialmente focalizzata seguendo lo sviluppo di almeno due temi fondamentali: il rapporto tra Israele e le nazioni, la venuta del «giorno del Signore». Il primo tema si snoda in realtà attraverso tutto l’Antico Testamento e riguarda in modo essenziale il rapporto con il Nuovo Testamento. Due atteggiamenti si confrontano nel libro dei Dodici e altret‐tante proposte risolutive vengono appositamente messe in dialogo per evitare unilaterali asso‐lutizzazioni. A volte la prospettiva è quella dell’opposizione intransigente, in quanto lo straniero rappresenta un pericolo per la purezza della fede di Israele e una minaccia militare. È il caso della confinante nazione di Edom o dell’antica capitale assira Ninive, metaforizzazioni permanenti del nemico del popolo di Dio. Che l’identità di Israele e la sconfitta del sincretismo idolatrico non pos‐sano essere guadagnate e custodite solo in base a una relazione conflittuale che esiga la distruzio‐ne dell’altro, come sembrerebbe suggerire per esempio Abdia nei confronti di Edom, si evince pro‐prio dal contiguo libro di Giona, che mette in scena un profeta «integralista» e riottoso, radical‐mente spiazzato dalla misericordia di Dio nei confronti di Ninive. Il tema del «giorno del Signore» si segnala per la sua frequente e significativa occorrenza nel libro dei Dodici (è assente solo in Giona e Naum): non ha uguali in nessun altro libro profetico. Esso con‐voglia in unità ima serie di tematiche differenti, distribuite nei singoli scritti. Il potenziale lettore dei Dodici, dopo alcuni accenni in Osea, lo trova subito annunciato in Gioele in modo massivo e secon‐do angolature diverse, che allertano preventivamente circa le successive occorrenze un attento at‐to di lettura. La ripresa di Am 5,18‐20 implica che gli interlocutori antagonisti di Amos siano già in‐formati su tale «giorno» e ne aspettino la venuta, travisandone però il senso, che è un appello alla conversione a YHWH, mentre si attende, spudoratamente, una salvezza disgiunta dalla fedeltà all’alleanza e dalle sue esigenze di verità e giustizia (cf. Am 5,4‐6.14‐15). Amos viene posto così in dialogo con il tema annunciato da Gioele, integrandone in modo complementare le connotazioni mediante la sua personale prospettiva. Lo stesso motivo viene declinato in Abdia in senso univer‐salistico (cf. Abd 15‐21) e come vittoria schiacciante della «casa di Giacobbe» sulla «casa» e sul «monte di Esaù» (ossia sugli Edomiti). La questione della conversione e della possibile salvezza an‐che per le nazioni pagane, simboleggiate dalla malfamata città di Ninive, è tenuta viva da Giona, che rimane in tensione con Abdia. Ma Ninive toma ancora in Naum e qui è sottoposta a giudizio, perché vista prima di tutto nella sua realtà storica di pervicace e impenitente ostilità al popolo di Dio. Abacuc dell canto suo questiona il senso stesso del tipo di giustizia espresso da questo «gior‐no» di distruzione e, insieme a Sofonia, in cui assume ancora una dimensione sia universale che particolare, rimette a tema il peccato di Israele. Infine, con l’ultimo capitolo di Malachia, esso viene


annunciato come un giorno di purificazione riservato al popolo dell’alleanza, che compirà tutto il senso della Legge e dei Profeti (cf. Ml 3,22‐24). Nel libro dei Dodici, in sintesi, se considerato come un’unità ermeneutica coerente, si può rinvenire il suggerimento provocante di un atto di lettura della storia e del volto di Dio diversificato e com‐plesso, che rende sicuramente più giustizia al Mistero rivelato rispetto a semplificate o fin troppo «chiare» e monolitiche riduzioni teologico‐sistematiche, antiche e moderne.

c) Risvolti ermeneutici

Un primo risvolto ermeneutico‐teologico, conseguente al riconoscimento dell’unitarietà di ciò che potremmo chiamare in un certo senso come l’ipotesi di un «progetto dei Dodici», consiste nel prendere ulteriormente coscienza di quanto sia stata rilevante nel processo della rivelazione biblica la rielaborazione ininterrotta di testimonianze e tradizioni sia scritte che orali, da parte di una tra‐dizione vivente. Vi è una comunità credente e orante, non solo l’esperienza di singoli eletti, dietro e dentro la Scrittura. E la comunità ecclesiale la riconosce oggi come ispirata, non dettata, vedendovi il principio di incarnazione all’opera fin dall’inizio e non emergente solo alla fine. Gesù Cristo infatti ne è il compimento, non un’aliena eccezione. La parola di Dio impatta realmente sulla storia, si dice nella molteplicità delle parole dell’uomo, assume kenoticamente le dinamiche di accoglienza e di trasmissione di ogni umano discorso. Le riletture continue, espresse in glosse, interventi redaziona‐li, organizzazione degli insiemi testuali ecc., fanno esse stesse parte integrante della dinamica rive‐lativa e non possono ridursi, teologicamente parlando, solo a contrapposte ideologie in lotta tra lo‐ro e in cerca di autolegittimazioni sacralizzanti. Alla luce di questo concetto di ispirazione globale, distinzioni moderne tra «detti autentici» o «non‐autentici», attribuibili o meno ai singoli autori bi‐blici connessi tradizionalmente ai rispettivi libri (ammesso e non concesso che possano davvero es‐sere dimostrate), sembrano perdere consistenza e interesse. Un secondo aspetto riguarda il fatto che tale prospettiva rafforza il senso di una «lettura canonica» della Scrittura, perché coglie tale ermeneutica all’intemo del suo complesso processo generativo. Nell’assetto redazionale del libro dei Dodici si può evidenziare in particolare la dinamicità di ima vi‐sione olistica, che considera cioè l’insieme della tradizione scritta di Israele già esistente e in via di canonizzazione come un tutto dotato di una sua unità di senso con cui interagire consapevolmente. Guardando al Deuteronomio e alla storia deuteronomistica (ma probabilmente anche al corpus isaiano in fase di elaborazione), i Dodici si pongono con Malachia (cf. in particolare Mi 3,22‐24 in‐sieme a quanto precede) come sigillo della Legge e dei Profeti, aprendo contemporaneamente a una tensione apocalittica verso la venuta del «giorno del Signore». In terzo luogo, se i Dodici sono euristicamente considerati come «un libro», si scopre che l’insieme è diverso dalla somma delle singole parti. Letti come un continuum appaiono infatti come un’ampia rilettura profetica della storia, che si pone quasi in parallelo con la storia deuteronomistica (da Gio‐suè al secondo libro dei Re) e con quella del Cronista (i due libri delle Cronache più o insieme a Esdra e Neemia). Difatti, se i libri dei profeti maggiori coprono estensioni di tempo piuttosto preci‐se (Isaia con le sue varie parti raggiunge circa due‐centoquaranta anni; Geremia quaranta; Ezechie‐le quasi venticinque), il libro dei Dodici sottende un arco di tempo che va approssimativamente dall’VIII al V‐IV secolo a.C.

d) Composizione e trasmissione del testo

Che i profeti minori abbiano avuto una complessa formazione prima di tutto autonoma, in quanto singoli libri, pare evidente. Per questo è senz’altro necessario uno studio previo di tipo analiti‐co/individuale, riguardante sia il loro specifico profilo teologico sia la loro particolare storia di composizione del testo. La domanda critica che si sta facendo strada riguarda però l’ipotesi che proprio tale processo di elaborazione sia stato da un certo momento in poi accompagnato e guida‐to progressivamente da precisi intenti teologico‐redazionali di più ampio respiro, che abbiano


compreso all’inizio alcuni raggruppamenti originari e in seguito tutto il corpus dei Dodici pensato come libro unitario. Sebbene la ricerca sia ancora agli inizi, si pensa per lo più a un’iniziale correlazione editoriale di mano deuteronomistica, elaborata al più tardi nel periodo esilico (VI secolo a.C.), tra i libri di Osea, Amos, Michea e probabilmente Sofonia, concentrati nella riflessione sul disastro della distruzione di Gerusalemme e del regno davidico. Questo primo libro «poli‐profetico» sarebbe successivamen‐te stato combinato, nel periodo post‐esilico, con un secondo «libro» formato dalla convergenza di altri profeti (anzitutto Aggeo e Zc 1‐8), impegnati con la questione della riedificazione del tempio e del rafforzamento delle condizioni socio‐politico‐religiose della comunità dei rimpatriati. Solo dopo questo momento sarebbero stati inseriti anche i libri di Gioele, Abdia, Giona, Naum e Abacuc (oltre a Zc 9‐11.12‐14, incluso per alcuni studiosi solo in epoca greca) e infine il libro di Malachia (tra il IV e il III secolo a.C.) con funzione conclusiva di tutto l’insieme e come apertura escatologica verso il compimento del disegno di Dio sulla storia di Israele. Secondo alcuni studiosi il collettore nevralgi‐co o la chiave di volta di tutta la strutturazione del progetto redazionale unitario sarebbe il libro di Gioele, perché in esso sono ravvisabili tutta una serie di «parole‐gancio» che lo interfacciano con gli altri profeti minori. Ed è proprio a partire da tali interconnessioni, oggetto particolare di studio da parte dei biblisti, che la capacità comunicativa dei singoli libri viene trascesa in vista di un mes‐saggio ancora più articolato e complesso. Molto resta ancora da esplorare in tal senso, ma in ogni caso è già piuttosto evidente nella serie dei Dodici considerati come «libro» un continuo processo di rilettura e di riscrittura (ispirata) del mes‐saggio profetico, che è poi una mediazione attualizzante animata dalla consapevolezza che esso era destinato a tutte le generazioni, passate, presenti e future.

1. AMOS: IL SIGNORE CHIEDE GIUSTIZIA

1.1. Il profeta e il suo ambiente

Il primo dei profeti scrittori (ma terzo dei «minori») è originario di Tekòa, cittadina della tribù di Giuda, a diciotto chilometri a sud di Gerusalemme, nella regione di Betlemme. Sembra abbia svolto l’attività di allevatore di bestiame (1,1; 7,14) e di coltivatore di sicomori (7,14), frutti utilizzati per l’alimentazione del bestiame. L’origine contadina di Amos apparirà anche nella sua attività profeti‐ca: non parla in astratto, ma usa un linguaggio concreto, pieno di naturalezza e di forza; non ama le mezze misure, per cui appare spesso duro, energico, tagliente; non pare abbia molta simpatia per la vita urbana di allora. Si pensa, inoltre, che abbia viaggiato molto, perché conosce bene la situa‐zione sociopolitica del tempo, la storia dei popoli vicini, la sapienza popolare. Viene «sradicato» (7,15) dalla potenza della parola di Dio (3,3) dal suo ambiente d’origine e mandato a svolgere la sua missione nel regno di Israele al tempo di Geroboamo II (787‐747 a.C.; cf. 2Re 14,23‐29), all’incirca tra il 760 e il 750 a.C. Il regno del Nord gode di una buona stabilità interna, di pace con il regno del Sud e di un’espansione territoriale a danno degli aramei di Damasco. Ciò favorisce sia l’instaurarsi di un cli‐ma di entusiasmo e di sicurezza nazionale, sia la ripresa economica grazie al commercio che porta un certo benessere e una discreta «spensieratezza» (6,1.7). Si costruiscono, infatti, palazzi splendidi e lussuosi e si può avere anche la doppia casa (3,15); le sale sono tappezzate d’avorio e addobbate con splendidi divani (3,15; 6,4); si beve vino in abbondanza, ci si dà alla pazza gioia e ci si unge «con gli unguenti più raffinati» (6,6; 4,1). Inoltre, i santuari funzionano a pieno ritmo, con pellegri‐naggi, offerte di sacrifici e di decime (4,4‐5; 5,21‐22). Tutto questo, però, è solo per pochi: la gran parte del popolo vive nella miseria ed è sfruttata. Infatti, i poveri vengono venduti come schiavi, sono calpestati, non rispettati come persone (2,6‐8; 8,4); le sentenze nei tribunali possono essere comperate con delle bustarelle (5,10‐13.15). I responsabili del popolo badano solo agli affari, an‐che nei giorni festivi (8,4‐7), senza curarsi della «rovina di Giuseppe» (6,1‐7), istigati in questo an‐


che dalle loro mogli (4,1‐3). Vivono in palazzi sontuosi, frutto di «violenza e rapina» (3,9‐12). E tra i popoli vicini la situazione non è certo migliore (cc. 1–2).

1.2. Il libro di Amos

La predicazione profetica di Amos è giunta a noi in un libro con una struttura chiara e omogenea, anche se gli oracoli non sono posti secondo un ordine cronologico e qualcuno sembra opera di un discepolo. Ecco una possibile struttura: * cc. 1–2: in otto oracoli, tutti strutturati allo stesso modo, vengono denunciati i peccati commessi dai popoli vicini a quello ebraico e dagli stessi Giuda e Israele. Segue il castigo, previsto secondo la legge del taglione. Il profeta nel denunciare i peccati degli altri popoli non si rifà chiaramente all’esperienza esodale come per Giuda (2,4) e per Israele (2,9‐11) quanto piuttosto allo ius gen‐tium, a una specie di diritto internazionale secondo il quale la persona umana ha una sua dignità sempre, prescindendo dalla sua condizione etnica, religiosa, sociale o culturale. L’uomo è conside‐rato persona sempre, perché creato a immagine di Dio (cf. Gen 9,5‐7), per cui YHWH osserva, giudi‐ca e castiga i comportamenti scorretti di ogni persona, anche se non appartiene al popolo ebraico. Amos proclama cosi i diritti fondamentali dell’uomo: a vivere, anche se sconfitto in guerra (1,3); a restare nella propria patria e non essere venduto schiavo o deportato (1,6); al rispetto dei trattati di fratellanza (1,9); alla pace fra nazioni confinanti (1,11‐12); al rispetto per le donne e per la vita che portano in grembo (1,13); al rispetto verso i morti, anche se nemici (2,1). Inoltre è significativo che venga castigato anche il popolo ebraico (Giuda e Israele): è scelto da Dio, ma deve vivere con coerenza e responsabilità questa sua identità (2,4‐16; anche 3,1‐2). * cc. 3–6: sono parole infuocate rivolte al regno del Nord, suddivise da tre «ascoltate» (3,1; 4,1; 5,1) che si alternano con dei «guai!» (5,7.18; 6,1). Il messaggio presenta due linee che si intreccia‐no continuamente: – da una parte c’è la denuncia (pars destruens) di una società che opprime i poveri (3,9‐15; 4,1‐3; 5,10‐13; 6,1‐7; anche 2,6‐16 e 8); ha una religiosità di facciata perché il suo culto è staccato dalla vita (3,13‐15; 4,4‐12; 5,4‐7.14‐15.21‐27); si maschera dietro sicurezze religiose (5,18‐20 e 9,7‐10); su ogni situazione denunciata pende minacciosamente un castigo; – dall’altra propone (pars construens) il ritorno a Dio per poter evitare il castigo, un ritorno formu‐lato dai tre verbi «conoscere» (3,2), «ritornare» (4,6.8.9.10.11), «cercare» (5,4.6.14) e che si attua «cercando il bene e non il male» (5,14), cioè facendo «scorrere il diritto come l’acqua e la giustizia come un torrente perenne» (5,24; anche 4,6‐12; 5,4‐7.14‐15.24‐25). * cc. 7–9: presentano cinque visioni, tra loro collegate, che manifestano – in crescendo – la fine della nazione colpevole. Mentre le prime due (cavallette e siccità) prevedono l’indulgenza da parte di Dio, dalla terza in poi (piombino, canestro di frutta matura e santuario) non c’è più possibilità di scampo. Ciò è aggravato dal fatto che non ci si può rifugiare neppure presso quanto era ritenuto simbolo di sicura protezione (il santuario di Dio). Il tutto sembra essere finalizzato al «cercare il Si‐gnore per vivere» (5,6) finché si è in tempo (8,11‐14). * c. 9,11‐15: brano inserito dal redattore finale, nel tentativo forse di presentare anche una spe‐ranza concreta, cosa che i capitoli precedenti sembrano escludere (ma cf. 5,15). Le promesse an‐nunciano la restaurazione del regno davidico (v. 11‐12, citati da Giacomo in At 15,16‐17 secondo la LXX); il benessere materiale (v. 13‐14); la permanenza stabile nella terra (v. 15). Segni chiari dell’amore e della sollecitudine di YHWH che non abbandona il suo popolo e lo apre a un futuro di šalom (= pienezza di vita).

1.3. Il messaggio di Amos

Per comprendere il messaggio di Amos, dobbiamo partire dalle sue visioni, anche se esse si trovano poste alla fine del libro. È vero che non equivalgono all’esperienza della vocazione e che si sono ve‐rificate in momenti diversi; riflettono tuttavia l’esperienza profonda che Dio fece vivere al profeta e l’atteggiamento che egli adottò nella sua predicazione.


Avvertiamo in esse un progresso crescente. Le prime due (7,1‐6) sono assai simili:

71Ecco ciò che mi fece vedere il Signore Dio: quando cominciava a germogliare la seconda erba, quella che spunta dopo la falciatura per il re, egli formava uno sciame di cavallette. 2Quando quelle stavano per finire di di‐vorare l’erba della regione, io dissi: «Signore Dio, perdona! Come potrà resistere Giacobbe? È tanto piccolo». 3Il Signore allora si ravvide: «Questo non avverrà», disse il Signore.

74Ecco ciò che mi fece vedere il Signore Dio: il Signore Dio chiamava a una lite per mezzo del fuoco che consu‐mava il grande abisso e divorava la campagna. 5Io dissi: «Signore Dio, desisti! Come potrà resistere Giacobbe? È tanto piccolo». 6Il Signore allora si ravvide: «Neanche questo avverrà», disse il Signore Dio.

Dio manifesta la sua volontà di castigare il popolo con un flagello di cavallette e una siccità. Il profe‐ta intercede e il Signore si muove a compassione e perdona. Amos concentra l’attenzione sul casti‐go; non pensa se sia giusto o ingiusto e, vedendo il popolo tanto piccolo, chiede perdono per lui. Tuttavia, nella terza (7,7‐9) e quarta visione (8,1‐3) Dio lo obbliga a fissare la situazione del popolo.

77Ecco ciò che mi fece vedere il Signore Dio: il Signore stava sopra un muro tirato a piombo e con un filo a piombo in mano. 8Il Signore mi disse: «Che cosa vedi, Amos?». Io risposi: «Un filo a piombo». Il Signore mi dis‐se: «Io pongo un filo a piombo in mezzo al mio popolo, Israele; non gli perdonerò più. 9Saranno demolite le al‐ture d’Isacco e saranno ridotti in rovina i santuari d’Israele, quando io mi leverò con la spada contro la casa di Geroboamo».

La terza paragona Israele a un muro, e Dio ne fa la prova col piombino per vedere se è dritto o bombato. Benché il testo non lo dica, Amos comprende che il muro non può stare in piedi e che il crollo è inevitabile. Il male non è fuori (cavallette, siccità) ma dentro. Per questo non ha senso l’intercessione del profeta e Amos tace.

81Ecco ciò che mi fece vedere il Signore Dio: era un canestro di frutta matura. 2Egli domandò: «Che cosa vedi, Amos?». Io risposi: «Un canestro di frutta matura». Il Signore mi disse: «È maturata la fine per il mio popolo, Israele; non gli perdonerò più. 3In quel giorno i canti del tempio diventeranno lamenti. Oracolo del Signore Dio. Numerosi i cadaveri, gettati dovunque. Silenzio!

Lo stesso avviene in questa quarta visione. Il popolo somiglia a un cesto di fichi maturi. La vita della frutta termina con il sopraggiungere della maturazione: da questo momento è alla mercé del primo passante. Lo stesso avviene per il regno del Nord: è ormai arrivato a maturazione; basta solo che una potenza straniera venga a divorarlo.

91Vidi il Signore che stava sopra l’altare e diceva: «Colpisci con forza i capitelli e siano scossi gli architravi, falli cadere sulla testa di tutti e io ucciderò il resto con la spada; nessuno di loro riuscirà a fuggire, nessuno di loro scamperà. 2Anche se si rifugiassero negli inferi, di là li prenderà la mia mano; se salissero al cielo, di là li tirerò giù; 3se si nascondessero in cima al Carmelo, là li scoverò e li prenderò; se si occultassero al mio sguardo in fondo al mare, là comanderò al serpente di morderli; 4se andassero in schiavitù davanti ai loro nemici, là comanderò alla spada di ucciderli. Io volgerò il mio sguardo su di loro in male e non in bene».

La quinta visione (9,1‐4) sviluppa la stessa idea con un’immagine diversa, quella di un terremoto che apre la strada a una catastrofe militare e alla persecuzione da parte di Dio stesso. Così com‐prendiamo meglio la progressione crescente delle visioni: da un castigo in apparenza ingiustificato (cavallette, siccità), Amos passa a rivelare la corruzione del popolo (muro, cesto di fichi), che rende inevitabile la catastrofe (terremoto). Il che avverrà di fatto quarant’anni più tardi, quando le truppe assire conquisteranno Samaria e il regno del Nord scomparirà dalla storia. Dire questo al tempo di Geroboamo II significava passare per pazzo, annunciare cose che parevano impossibili. Ma questo è il messaggio che Dio gli affida e con il quale Amos si presenta al popolo. Il tema del castigo si ri‐


pete lungo tutto l’arco del libro, come un leitmotiv insistente. A volte si tratta di affermazioni gene‐rali: «Li schiaccerò al suolo, come un carro carico di covoni» (2,13); «Ci sarà lamento in tutte le vi‐gne quando passerò in mezzo a te» (5,17). Ma in altre occasioni Amos parla apertamente di un at‐tacco nemico e possiamo ricostruirne la sequenza di devastazione, rovina, morte e deportazione (cfr. 6,14; 3,11; 5,9; 6,11; 6,8b‐9; 5,27; 4,2‐3). Ma Amos non può limitarsi ad annunciare il castigo. Deve spiegare alla gente che cosa lo motivi. Per questo denuncia una serie di peccati concreti:

1. Profondamente convinto che YHWH sia un Dio «giusto», cioè capace di prendere le difese del po‐vero e dell’oppresso, Amos chiede al popolo scelto dal Signore tra tutti i popoli (3,1‐2) di praticare il diritto e la giustizia. Diritto (mišpat) è l’ordine giuridico che proviene dall’alleanza con Dio e che mira a realizzare e conservare il suo progetto (šalom) nella fraternità umana. Giustizia (ṣedāqāh) è il comportamento pratico che corrisponde al mišpat, vale a dire è il cooperare fattivo alla crescita nel bene/šalom della comunità alla quale si appartiene. Purtroppo – constata il profeta – il diritto è stato trasformato in veleno e la giustizia è stata gettata a terra e calpestata (5,7; 6,12). E allora di‐laga l’ingiustizia e l’oppressione, indizio chiaro che si è dimenticata la propria identità e le radici della propria fede, ossia l’esperienza esodale (2,9‐11). Ciò che ha provocato tutto questo è, per Amos, il benessere assolutizzato a scelta che fonda l’esistenza: questo significa concretamente espellere Dio dall’orizzonte della propria vita, non rico‐noscere più la sua signoria sulla storia personale e collettiva. E quando si elimina Dio dalla propria esistenza, gli altri diventano concorrenti da eliminare o da sfruttare per i propri interessi. Amos de‐nuncia proprio un benessere frutto di continue ingiustizie a livello sociale: si afferma a scapito dei poveri che crea, si maschera dietro una facciata di legalità, intorpidisce e spegne la fede autentica rendendola pura ritualità.

2. Il culto, infatti, è stato ridotto a pura facciata che tranquillizza la coscienza, ma non impegna nel‐la vita. Ecco, allora, la denuncia di Amos: non è contro il culto in sé, quanto contro la sua riduzione a semplice rito esterno. La sua insistenza ha come scopo di riavvicinare il culto alla vita: il culto ve‐ro è attuare la giustizia, cioè prendere concretamente le difese del povero e dell’oppresso. Da qui inizia il «ritorno a Dio» (5,14‐15). Così, «cercare il Signore» è «cercare l’uomo», favorire i «privile‐giati di Dio», quelli per i quali egli si compromette con tutta la sua fedeltà (5,4‐7.14‐15):

54Poiché così dice il Signore alla casa d’Israele: «Cercate me e vivrete! 5Non cercate Betel, non andate a Gàlgala, non passate a Bersabea, perché Gàlgala andrà certo in esilio e Betel sarà ridotta al nulla». 6Cercate il Signore e vivrete, altrimenti egli, come un fuoco, brucerà la casa di Giuseppe, la divorerà e nessuno spegnerà Betel! 7Essi trasformano il diritto in assenzio e gettano a terra la giustizia.

514Cercate il bene e non il male, se volete vivere, e solo così il Signore, Dio degli eserciti, sarà con voi, come voi dite. 15Odiate il male e amate il bene e ristabilite nei tribunali il diritto; forse il Signore, Dio degli eserciti, avrà pietà del resto di Giuseppe.

Fede matura, allora, non è andare a santuari – per quanto rinomati (5,5) – e fare offerte per mette‐re a posto la coscienza, ma smascherare le forme di ipocrisia che si celano dietro una pratica rituale osservante e scegliere di praticare «diritto e giustizia»:

521«Io detesto, respingo le vostre feste solenni e non gradisco le vostre riunioni sacre; 22anche se voi mi offrite olocausti, io non gradisco le vostre offerte, e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo. 23Lontano da me il frastuono dei vostri canti: il suono delle vostre arpe non posso sentirlo! 24Piuttosto come le acque scorra il diritto e la giustizia come un torrente perenne.


Per arrivare a questo, bisogna saper leggere in modo autentico la storia per scorgervi i richiami di Dio alla conversione (4,6‐12), sia accogliere i profeti che egli invia (2,12; 7,10‐17).

3. Questo, però, sembra non avvenire anche perché si difende il proprio stile di vita ricorrendo a delle affermazioni teologiche interpretate a proprio vantaggio, per giustificarsi: così si ritiene di es‐sere a posto semplicemente perché si è popolo scelto da Dio (3,1‐2 e 9,7) e si pensa che il giorno del Signore (5,18‐20) sarà senz’altro salvezza! Il profeta denuncia queste deformazioni teologiche e invita alla vigilanza e all’ascolto della parola di Dio, finché si è in tempo (8,11‐14). Se questo non avviene, non resta che prepararsi all’incontro con il Signore (4,12).

4. Il libro si conclude con due oracoli (Am 9,11‐15) in cui non è prevista la distruzione totale del popolo, quanto della sua organizzazione politica, religiosa ed economica. Dio, infatti, «rialzerà la capanna di Davide» (9,11):

911In quel giorno rialzerò la capanna di Davide, che è cadente; ne riparerò le brecce, ne rialzerò le rovine, la ricostruirò come ai tempi antichi, 12perché conquistino il resto di Edom e tutte le nazioni sulle quali è stato invocato il mio nome. Oracolo del Signore, che farà tutto questo.

913Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore – in cui chi ara s’incontrerà con chi miete e chi pigia l’uva con chi getta il seme; i monti stilleranno il vino nuovo e le colline si scioglieranno. 14Muterò le sorti del mio popolo Israele, ricostruiranno le città devastate e vi abiteranno, pianteranno vigne e ne berranno il vino, coltiveranno giardini e ne mangeranno il frutto. 15Li pianterò nella loro terra e non saranno mai divelti da quel suolo che io ho dato loro», dice il Signore, tuo Dio.

1.4. Letture esegetiche dal libro di Amos

1.4.1. La vocazione di Amos (7,10‐17) Questo episodio dello scontro tra il sacerdote Amasìa e Amos è inserito fra la terza (7,7‐9) e la quarta visione (8,1‐3). Suddiviso in due parti (7,10‐13; 7,14‐17), ognuna delle quali dominata da uno dei due protagonisti, è tutto centrato sulla realtà della parola profetica, sulla sua efficacia e sul modo di accoglierla o rifiutarla.

710Amasìa, sacerdote di Betel, mandò a dire a Geroboamo, re d’Israele: «Amos congiura contro di te, in mezzo alla casa d’Israele; il paese non può sopportare le sue parole, 11poiché così dice Amos: “Di spada morirà Gero‐boamo, e Israele sarà condotto in esilio lontano dalla sua terra”». 12Amasia disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritirati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, 13ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno».

La parola profetica è depotenziata della sua efficacia prima di tutto perché viene politicizzata. Amasìa, infatti, denuncia Amos di congiurare contro il re Geroboamo II. La parola profetica fa pau‐ra, ha un potere destabilizzante; il sistema religioso – servo del potere monarchico – si difende ac‐cusando il profeta Amos di far politica (vv. 10‐11). In secondo luogo, la parola di Amos viene mercificata, cioè ridotta a semplice mezzo per guada‐gnarsi il pane. Se il profeta («veggente») vuole continuare a mangiare alla mensa del «santuario del re e del tempio del regno» (v. 13), deve parlare secondo le attese del potere che gestisce il luogo sacro. Altrimenti se ne ritorni pure a casa, al Sud! (vv. 12‐13).


714Amos rispose ad Amasìa e disse: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro. 15Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele.

16Ora ascolta la parola del Signore: Tu dici: “Non profetizzare contro Israele, non parlare contro la casa d’Isacco”. 17Ebbene, dice il Signore: “Tua moglie diventerà una prostituta nella città, i tuoi figli e le tue figlie cadranno di spada, la tua terra sarà divisa con la corda in più proprietà; tu morirai in terra impura e Israele sarà deportato in esilio lontano dalla sua terra”».

Per nulla intimorito, Amos risponde a tono e motiva il suo intervento a Betel ricordando come è giunto lì. Non apparteneva a gruppi di profeti già costituiti (v. 14); tutto è stato iniziativa libera e sorprendente di Dio. Utilizzando lo schema militare della vocazione (ordine – esecuzione), Amos ricorda come YHWH sia entrato con potenza («il Signore mi prese = strappò via»: v. 15) nella sua vita di pastore e contadino e lo abbia mandato a profetizzare a Israele, suo popolo (v. 15). Egli non ha potuto sottrarsi a quanto gli è stato richiesto (cf. 3,8: «il Signore Dio ha parlato: chi non profete‐rà?»). Così, la parola di Dio – grazie all’obbedienza del profeta – irrompe in Israele, spazio sequestrato dal potere politico, per richiamare e contestare, andando anche contro le istituzioni politiche e religio‐se che difendono un sistema oppressivo. E chi custodisce gelosamente il suo potere opponendosi alla novità della parola profetica, verrà espulso verso una terra straniera (vv. 16‐17). Così Amasìa, che non ha saputo riconoscere in Amos il portavoce della parola di quel Dio che «ruggisce da Sion» (1,2), sarà il primo a fare esperienza della sua efficacia. Conclusione. Da questo testo si possono ricavare gli elementi di fondo della vocazione profetica: (1) tutto ha inizio dalla libera iniziativa di Dio che, mediante la sua parola, (2) strappa e sradica dal suo ambiente l’uomo che ha scelto, (3) esigendo da lui un’obbedienza radicale; (4) il profeta è così a servizio di Dio e del suo progetto di far risuonare la sua parola nella storia concreta del suo popo‐lo; (5) restare fedele alla missione ricevuta comporta accettare sia di scontrarsi con chi detiene il potere, sia di essere frainteso, accusato, scacciato. 1.4.2. La missione del profeta (2,6‐16)

Perché Amasìa ha espulso Amos? Cosa diceva il profeta di tanto scandaloso da essere accusato di far politica e di fare il mestierante? La risposta la troviamo leggendo il resto del libro. Può essere significativo soffermarsi su 2,6‐16, l’ultimo degli otto oracoli contro le nazioni vicine a Israele. Il numero otto, originale o risultato della redazione finale, è molto importante: rompe la serie perfet‐ta (sette) e concentra tutta l’attenzione nell’ultimo oracolo perché inaspettato, «fuori serie». Il brano può essere facilmente suddiviso in tre parti: accusa (vv. 6‐8.12); motivazione (vv. 9‐12); ca‐stigo (vv. 13‐16).

* accusa

26Così dice il Signore: «Per tre misfatti d’Israele e per quattro non revocherò il mio decreto di condanna, perché hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali, 7essi che calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri e fanno deviare il cammino dei miseri, e padre e figlio vanno dalla stessa ragazza, profanando così il mio santo nome. 8Su vesti prese come pegno si stendono presso ogni altare e bevono il vino confiscato come ammenda nella casa del loro Dio.


Il profeta Amos denuncia sette peccati commessi da Israele: 1. (i creditori) hanno venduto il giusto (colui che è incappato nei debiti senza sua colpa) per denaro (= avidità); 2. e il povero (il bisognoso che non ha nulla) per (a causa di/in cambio di) un paio di sandali (quan‐tità esigua di denaro = avidità o disprezzo della persona); 3. calpestano come la polvere della terra (con indifferenza e faciloneria) la testa dei poveri; 4. fanno deviare il cammino dei poveri, cioè falsano i processi o riducono i poveri in condizioni economiche difficili, tali da indurli a furti per poter sopravvivere; 5. padre e figlio vanno dalla stessa ragazza: è condannata l’umiliazione continua a cui sono sotto‐poste le ragazze di servizio. Tutti questi peccati sono una profanazione del nome stesso di Dio: ogni sopruso contro una perso‐na umana, infatti, è anche peccato contro il suo Creatore (cf. Pr 14,31; Mt 25,31‐36) 6‐7. Al v. 8 si parla dello sfruttamento a volte legalizzato, perché i ricchi se ne approfittano delle ve‐sti avute come pegno e del vino delle decime: le prime alla sera vanno riconsegnate (Es 22,25‐26), il secondo è offerto al tempio. I soprusi vengono commessi nella casa di Dio, alla sua presenza: egli non sarà però uno spettatore imparziale!

* motivazione

29Eppure io ho sterminato davanti a loro l’Amorreo, la cui statura era come quella dei cedri e la forza come quella della quercia; ho strappato i suoi frutti in alto e le sue radici di sotto. 10Io vi ho fatto salire dalla terra d’Egitto e vi ho condotto per quarant’anni nel deserto, per darvi in possesso la terra dell’Amorreo. 11Ho fatto sorgere profeti fra i vostri figli e nazirei fra i vostri giovani. Non è forse così, o figli d’Israele? Oracolo del Signore. 12Ma voi avete fatto bere vino ai nazirei e ai profeti avete ordinato: “Non profetate!”.

Amos fa memoria del passato, vale a dire dei benefici che YHWH ha fatto nei confronti del suo po‐polo. Viene così offerto il quadro di riferimento che motiva la denuncia, cioè l’esperienza della libe‐razione dall’Egitto. Gli Israeliti ricchi e oppressori sono così messi di fronte alla loro identità e alla responsabilità che ne deriva: «Siete nati da un evento di liberazione, perché ora rendete schiavi i vostri fratelli?».

* castigo

213Ecco, vi farò affondare nella terra, come affonda un carro quando è tutto carico di covoni. 14Allora nemmeno l’uomo agile potrà più fuggire né l’uomo forte usare la sua forza, il prode non salverà la sua vita 15né l’arciere resisterà, non si salverà il corridore né il cavaliere salverà la sua vita. 16Il più coraggioso fra i prodi fuggirà nudo in quel giorno!». Oracolo del Signore.

Il richiamo sembra non avere effetti, anzi lo stesso profeta ha subìto il rifiuto (v. 12). Allora non re‐sta che il castigo, presentato nel testo come un terremoto che «affonda» tutto e tutti e di fronte al quale non valgono le qualità fisiche.

Conclusione. Dal testo preso in esame si possono enucleare gli elementi che qualificano la missione profetica: – essere (a nome di YHWH) coscienza critica nella vita quotidiana del popolo perché non si adagi, più o meno coscientemente, su situazioni di peccato, ma realizzi il progetto di Dio; – denunciare quanto è in contrasto con la sua identità di popolo libero, nato dall’esperienza esoda‐le, una denuncia non superficiale ma chiara, precisa, puntuale; – richiamare alla coerenza che si esprime nella responsabilità per una vita socio‐religiosa impegna‐ta a ristabilire diritto e giustizia per tutti, specie per i poveri; – prospettare il risultato (castigo) del permanere di certe scelte che pongono in primo piano le nuove idolatrie (potere, denaro, benessere).


1.4.3. Il “giorno di YHWH” (5,18‐20)1

La più antica attestazione dell’espressione “il giorno di YHWH” (yôm YHWH) la si incontra in Am 5,18‐20:

Guai a coloro che bramano il giorno di YHWH! Che sarà per voi il giorno di YHWH? Sarà tenebre (ḥōšek) e non luce (’ôr). Come quando uno fugge davanti al leone e s’imbatte in un orso; entra in casa, appoggia la mano sul muro e un serpente lo morde. Non sarà forse tenebra (ḥōšek) e non luce (’ôr) il giorno di YHWH, e oscurità (’āfēl) senza splendore (nōgāh) alcuno?

Il brano inizia con un “guai!” (hôy), che richiama un contesto di castigo e di morte. È da notare che, ad eccezione di 1Re 13,30, la minaccia del “guai!” ricorre sempre nella letteratura profetica e gene‐ralmente non è isolata, ma appare in una serie. Nel libro di Amos è presente in una serie di tre (5,72; 5,18; 6,1) e in tutti e tre i casi introduce oracoli che denunciano atteggiamenti peccaminosi e annunciano l’imminente castigo. Am 5,7 stigmatizza l’atteggiamento di «coloro che trasformano il diritto in veleno e gettano a terra la giustizia». Am 6,1 censura «gli spensierati di Sion3 e quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria». In Am 5,18 sono presi di mira coloro che «bra‐mano il giorno di YHWH»4. Il verbo “bramare”, “desiderare” (’āwāh), nell’AT esprime solitamente un desiderio disordinato5. Il contesto di denuncia e di castigo sembra esigere anche qui un’accezione negativa del verbo: la brama è orientata verso qualcosa che non sarebbe opportuno desiderare. Che cosa effettivamente ci si attendesse dal bramato giorno di YHWH non lo sappiamo direttamen‐te; lo possiamo dedurre dalle parole di Amos. Sembra che il popolo facesse conto sul giorno di YHWH come di un evento positivo, mentre il profeta si affretta a far cadere ogni illusione. Attendere con brama il giorno di YHWH come fanno gli interlocutori di Amos è come attendere con brama le tenebre e come desiderare ardentemente di trovarsi in una situazione di pericolo, senza via d’uscita.

1 G. DE CARLO, Il giudizio di Dio nell’AT: il giorno di Jhwh, in G. BORTONE (a cura di), I novissimi nella Bibbia (Studio

Biblico Teologico Aquilano 19), L’Aquila 1999, 37‐45; IDEM, Giorno del Signore, in R. PENNA ‐ G. PEREGO ‐ G. RAVASI (a cura di), Temi teologici della Bibbia (Dizionari San Paolo), Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, 576‐581.

2 Contrariamente a quanto fa la Bibbia CEI, d’accordo con la maggioranza degli autori e come suggeriscono anche gli editori della BHS, ritengo che qui il TM vada corretto. All’inizio della frase occorre aggiungere proprio “guai!” (hôy); cfr. R. SMEND, La formazione dell’Antico Testamento, Brescia 1993, 227: «in 5,7 hôy “guai” è integrazione sicura»; inol‐tre, W. RUDOLPH, Joel, Amos, Obadja, Jona (KAT XII/2), Gütersloh 1971, 195.225; H.W. WOLFF, Dodekapropheton. II: Joel, Amos (BK XIV/2), Neukirchen‐Vluyn 21975, 228.286; J.A. SOGGIN, Il profeta Amos, Brescia 1982, 122; ALONSO ‐ SICRE, I profeti, 1109‐1110. Invece P. BOVATI ‐ R. MEYNET, Il libro del profeta Amos, Roma 1995, 285, non ritengono necessaria la correzione del TM.

3 Probabile rilettura per applicare al regno del sud quanto denunciato da Amos per il regno del nord. 4 Come appare dal contesto immediato degli altri due brani introdotti dal “guai!” e più in generale dall’intero libro

di Amos, anche qui non è il popolo in generale ad essere preso di mira dalla denuncia del profeta, ma l’élite: príncipi, sacerdoti, profeti, giudici, commercianti, ecc. K.A.D. SMELIK, The Meaning of Amos V 18‐20, in VT 36 (1986) 246‐248, propone di vedere in «coloro che bramano il giorno di YHWH» i falsi profeti che seducono Israele proclamando che il Signore libererà il suo popolo dai nemici in qualsiasi situazione; invece di richiamare Israele al pentimento, essi lo rassi‐curano nel suo comportamento. Ad essi perciò Amos annuncia che saranno annientati, in luogo dei nemici di Israele.

5 Cfr. Nm 11,34: «La gente che si era lasciata dominare dalla ingordigia»; Dt 5,21: «Non bramare la casa del tuo prossimo, né il suo campo...»; Sal 106,14: «Arsero di brame nel deserto»; Pr 21,10: «L’anima del malvagio brama fare il male». A livello terminologico – per la presenza nei due testi sia del sostantivo “giorno” che del verbo “bramare” all’hitpael – è interessante il confronto tra Am 5,18a e Ger 17,16: «Non ho bramato il giorno funesto». Geremia prote‐sta di non aver chiesto a Dio né desiderato la punizione del popolo. Ancora più pertinente appare il confronto con un testo di Qumran – databile paleograficamente alla prima metà del I sec. d.C. –, dove il desiderio del giorno della salvez‐za di Dio è incoraggiato positivamente, 11QPsa XXII,4: «Chi desidera il giorno della tua salvezza gioirà nella tua grande gloria» (trad. it. in F. GARCÍA MARTÍNEZ, Testi di Qumran. Edizione italiana a cura di C. Martone, Brescia 1996, 496‐497).


Retoricamente il brano è organizzato in modo da mettere in estremo rilievo l’aspetto funesto del giorno di YHWH. Oltre al già ricordato “guai!”, l’insistenza sulle tenebre e sulla non‐luce e il richiamo a immagini di ineluttabile pericolo danno a tutto l’insieme un alone di grande minaccia. Stilistica‐mente sono da sottolineare le domande dei vv. 18b e 20. Negli oracoli profetici di condanna la do‐manda ha spesso la funzione di dare espressione all’accusa e di indurre il popolo a prendere co‐scienza dei propri reali sentimenti, che spesso e volentieri sono in contrasto con i sentimenti di Dio. In Am 5,18b la domanda ha di mira «coloro che bramano il giorno di YHWH», che interpella diret‐tamente: «voi». Gli accusati sono così stimolati a rivedere la propria concezione del giorno di YHWH. Al v. 20 la domanda è retorica, attende una risposta positiva: certo! il giorno di YHWH sarà un giorno di tenebre e non di luce, di oscurità e non di splendore. La concezione che di questo giorno hanno gli accusati è da dedurre dunque dalle parole di Amos: il popolo brama questo giorno e lo attende come giorno di luce (’ôr) e di splendore (nōgah). La luce (’ôr) è la prima opera “buona” che Dio crea6; nella benedizione di Nm 6,25 la luce sul volto di Dio esprime la sua attenzione benevola; nell’escatologia profetica la tenebra dell’angustia si tramuterà in luce di salvezza7; la luce circonda Dio nella sua dimora celeste e nelle sue teofanie8. «’ôr “luce” è quindi un termine teologicamente assai rilevante, che si riferisce soprattutto ad un’opera di crea‐zione e ad una particolare manifestazione di Dio. Questo duplice valore fondamentale si è svilup‐pato in più direzioni, soprattutto in relazione alla salvezza divina (anzitutto per Israele, e poi anche per i popoli)»9. Il termine “splendore” (nōgah) appartiene allo stesso campo semantico di “luce” ed è ampiamente utilizzato nel contesto delle manifestazioni teofaniche di YHWH apportatrici di sal‐vezza, sia storica che escatologica10. Attendere il giorno di YHWH come giorno di luce e di splendore equivale dunque ad attendere un intervento salvifico e benefico di YHWH. È precisamente a questa attesa che Amos si oppone. Non nega l’intervento di YHWH nel suo giorno, ma esclude che esso avrà necessariamente le modalità e i contenuti previsti dal popolo. A tre ri‐prese, nei vv. 18b.20a.c, dichiara quali in realtà saranno le caratteristiche di quel giorno. In questi versetti domina la terminologia dell’oscurità, intesa sia come tenebre sia come non‐luce. Come la luce è simbolo positivo di salvezza, oscurità (’āfēl) e tenebre (ḥōšek) parlano di morte e di perdizione11. Esse rappresentano il caos primordiale che ricopriva l’abisso, e non sono elencate tra le opere “buone” create da Dio. L’attività creatrice si manifesta, anzi, proprio nel far trionfare la lu‐ce a danno delle tenebre12. Altrove indicano giudizio e maledizione13; la liberazione da esse è il frutto dell’intervento storico ed escatologico del Signore a favore dei suoi fedeli14. Per Amos dunque il giorno di YHWH sarà un ritorno al caos primordiale; un giorno di morte, di ca‐stigo e di giudizio. L’esatto contrario di ciò che si attende il popolo. Le immagini del v. 19 descrivono l’ineluttabilità di tale giorno, l’assoluta impossibilità di fuga e il conseguente terrore che invaderà il popolo. Il castigo è inevitabile, perché si è giunti al giorno di YHWH impreparati, con un’aspettativa che è tutt’altro. Il popolo può ben ripetere: «Aspettavamo la pace, ma non c’è alcun bene; l’ora della salvezza, ed ecco il terrore» (Ger 8,15; cfr. 14,19). Alcuni capitoli più oltre il profeta torna a descrivere le caratteristiche di oscurità del giorno di YHWH. Anche se non usa la formula intera, è chiaro che «in quel giorno» equivale a «nel giorno di YHWH» di cui aveva parlato in 5,18‐20.

6 Cfr. Gn 1,3‐4. 7 Cfr. Is 8,23–9,1; 10,17; 42,16; 58,8.10; Mi 7,8‐9. 8 Cfr. Sal 104,2; 44,4; Is 60,1‐3; Ab 3,4.11. 9 M. SÆBØ, «’ôr, luce», DTAT I, 78. 10 Cfr. 2Sam 22,13; Sal 18,13; Is 4,5; 60,3.19; Ez 1,4.13.27.28; 10.4; ecc. 11 Cfr. 1Sam 2,9; Gb 10,21; 18,18; 34,22; Sal 88,13; Qo 6,4. 12 Cfr. Gen 1,2.4.5.18. 13 Cfr. Gb 3,9; 18,6; Sal 105,28; Is 5,30; 13,10; Ger 13,16; Ez 30,18; Am 5,8; 8,9; Mi 3,6. 14 Cfr. 2Sam 22,29; Gb 29,3; Sal 18,29; Is 9,1; 29,18; 42,7; 49,9; 58,10; 60,2; Mi 7,8.


In quel giorno – oracolo di YHWH Dio – farò tramontare il sole a mezzodì e oscurerò15 la terra in pieno giorno! Cambierò le vostre feste in lutto e tutti i vostri canti in lamento: farò mettere su ogni fianco il sacco, su ogni testa calvizie: ne farò come un lutto per un figlio unico e la sua fine sarà come un giorno amaro (Am 8,9‐10).

In questo brano appare più chiaramente che l’iniziativa del castigo parte da YHWH Dio16 e che mette in conto anche la morte, perché per due volte vi si parla di lutto (’ēbel) e dei canti di lamento (qînāh). Il “giorno” poi è definito con un nuovo attributo: amaro (mar). In tal modo Am 8,9‐10 ci aiuta a concretizzare le minacce di 5,18‐20: lo scenario di oscurità, di tenebre e di non‐luce è con‐cretizzato in una situazione di morte, di lutto, di penitenza, di amarezza, e tutto è inserito nel con‐testo del culto. È qui del tutto evidente che questa situazione di castigo interesserà Israele e non i suoi nemici, come invece sembrava sottintendere l’attesa di «coloro che bramano il giorno di YHWH» come giorno di salvezza. In conclusione, in 5,18‐20 e 8,9‐10 il profeta annuncia per il giorno di YHWH un castigo che colpirà Israele, provocando morte, distruzione e lamento. Resta da chiedersi quando questo accadrà. In altre parole, è necessario precisare se il giorno di YHWH è per Amos un evento storico o se è invece escatologico. Quanto ad “escatologia”, se si intende con questo termine la fine del cosmo e della storia e l’inizio di qualcosa di completamente nuovo, allora non si può parlare di escatologia per i testi biblici redatti prima dell’esilio babilonese (586 a.C.). Se al contrario si intende parlare della fi‐ne dell’attuale ordine del mondo e l’instaurazione di un nuovo ordine, creato da un intervento po‐tente di Dio, che comunque si attui nella storia, allora anche il testo di Amos può essere classificato come escatologico17. Se dunque il testo di Amos attende il verificarsi delle cose annunciate in un intervento storico di Dio, allora vengono a proposito due testi dello stesso profeta che parlano del passaggio di Dio in mezzo al suo popolo e che annunciano punizione e castigo come conseguenza di quella visita. Il primo testo precede immediatamente il brano sul giorno di YHWH e conclude gli annunci di casti‐go iniziati con il «guai!» di 5,7.

«In tutte le vigne vi sarà pianto, perché io passerò (’e‘ĕbōr) in mezzo a te, dice YHWH» (Am 5,17).

Il secondo testo conclude il brano di Am 4,6‐12 che elenca tutta una serie di castighi pedagogici messi in atto da Dio per far ritornare a sé il suo popolo, ma che Israele non ha accolto: «e non siete ritornati a me, oracolo del Signore» (4,6.8.9.10.11).

«Perciò ti tratterò così, o Israele! Poiché questo devo fare di te, preparati ad incontrare (liqra’t) il tuo Dio, o Israe‐le!» (Am 4,12).

Il castigo sarà dunque inevitabile e più severo dei precedenti. Questo testo, soprattutto, ci fa intra‐vedere la funzione che il castigo ha nelle intenzioni di Dio: esso mira alla conversione del popolo. Il giorno di YHWH è nella trama del libro di Amos l’adempimento della visita di Dio annunciata in 4,12 e 5,17. Avrà la caratteristica del castigo perché il popolo (e, in particolare, i suoi capi) ha com‐pletamente stravolto le esigenze dell’alleanza, ma Dio si manifesterà18 di nuovo in modo potente

15 Hifil del verbo ḥšk. 16 YHWH Dio è soggetto dei cinque verbi del brano, che sono tutti alla prima persona singolare; tre sono all’hifil, “fat‐

titivi”. 17 Cfr. C. VAN LEEUWEN, The Prophecy of the yōm yhwh in Amos V 18‐20, in Language and Meaning. Studies in

Hebrew Language and Biblical Exegesis (OTS 19), Leiden 1974, 133‐134. 18 Il tema della teofania in questi testi di Amos è richiamato dal verbo “passare”, ‘ābar (Am 5,17; cfr. Es 33,18‐23) e

dai termini “luce”, ’ôr (5,18.20; cfr. Sal 104,2; 44,4; Is 60,1‐3; Ab 3,4.11) e “tenebre”, ḥōšek (Am 5,18.20; cfr. Dt 4,11; 5,22; 2Sam 22,10; Gb 22,13‐14; Sal 97,2).


per distruggere il vecchio ordine fatto di peccato e di sopruso, per instaurarne uno nuovo di con‐versione, di riconciliazione e di giustizia19.

Bibliografia scelta su Amos

BONORA A., Amos, il profeta della giustizia, Queriniana, Brescia 1979.

SOGGIN J.A., Il profeta Amos, Paideia, Brescia 1982. BOVATI P. – MEYNET R., Il libro del profeta Amos, Dehoniane, Roma 1995. SGARGI G., Gioele, Amos, Abdia, Dehoniane, Bologna 1998. JEREMIAS J., Amos, Paideia, Brescia 2000.

SIMIAN‐YOFRE H., Amos, Paoline, Milano 2002. NOBILE M., Amos e Osea, Messaggero, Padova 2005.

LIMBURG J., I dodici profeti. Parte prima: Osea, Gioele, Amos, Giona, Abdia, Michea, Claudiana, Torino 2007, 115‐174.

Il libro dei Dodici Profeti: Gioele e Amos, in Parole di Vita 54 (2009/2) 18‐52.

LUCCI L., Amos (Nuova versione della Bibbia dai testi antichi 14.2), San Paolo, Cinisello Balsamo 2012.

2. OSEA: IL SIGNORE È MISERICORDIA

2.1. Il profeta e il suo ambiente

Di Osea (= YHWH salva), nel canone primo tra tutti i «profeti minori» e unico originario del regno del Nord, sappiamo molto poco, al di fuori della sua esperienza matrimoniale (cc. 1–3). Dai suoi scritti appare di animo sensibile, capace di tenerezza paterna (11,1‐9) e di perdono autentico come mari‐to (2,4‐25); legge con acutezza la situazione socio‐religiosa del suo tempo utilizzando la sua espe‐rienza umana come profezia per comprendere l’amore di YHWH verso il suo popolo infedele. Ha svolto la sua missione dagli ultimi anni di Geroboamo II a poco prima della caduta di Samaria, cioè dal 750 al 725 circa a.C. Si tratta di un periodo contrassegnato da grande instabilità politica per i continui colpi di stato (7,3‐7) fatti da monarchi effimeri (8,4) e i cambiamenti di alleanze per tentare di difendersi dall’Assiria che minaccia di assorbire il piccolo regno del Nord (5,13; 7,8‐11; 8,8‐10; 12,2). Così, mentre Zaccaria (regna sei mesi nel 743) è filoassiro, Sallum (un mese nel 743) è pro‐egiziano; Menachem (743‐738) riannoda l’alleanza con l’Assiria, seguito dal successore Peka‐chia (738‐737). Ma Pekach (737‐732) e Osea (732‐724) sono anti‐assiri (2Re 15,8‐31; 17). Dal punto di vista sociale, la situazione non è cambiata rispetto al tempo di Amos:

41bNon c’è infatti sincerità né amore, né conoscenza di Dio nel paese. 2Si spergiura, si dice il falso, si uccide, si ruba, si commette adulterio, tutto questo dilaga e si versa sangue su sangue.

Ma ciò che preoccupa il profeta Osea è la situazione religiosa: i sacerdoti, ignoranti e negligenti, avidi e briganti (4,4‐10; 6,9), stanno conducendo – assieme ai notabili e ai re – il popolo alla rovina (5,1‐7). Questi, infatti, si abbandona all’idolatria cananea (4,11‐14; 8,4‐7; 10,1‐10; 12,1‐2; 13,1‐3), con qualche «ritorno» a YHWH inconsistente «come la rugiada che all’alba svanisce» (6,1‐6) perché il culto reso è falso e vano (4,12‐14; 5,1‐7; 9,1‐7).

2.2. Il libro di Osea

Gli oracoli di Osea, scritti di suo pugno (come 1,2‐9 e 3,1‐5) o raccolti dai discepoli (come 2,4‐25; 5,8–6,6; 8,1‐14) e disposti secondo l’affinità di contenuto, sono stati ordinati probabilmente a Ge‐rusalemme dopo la caduta di Samaria (721 a.C.) e sottoposti successivamente a un lavoro di revi‐sione e rielaborazione, fino a raggiungere l’attuale sistemazione durante o immediatamente dopo l’esilio babilonese. Sinteticamente, dopo il titolo (1,1) abbiamo:

19 «Cercate me e vivrete!» (Am 5,4b); «Cercate il bene e non il male, se volete vivere, e così il Signore, Dio degli

eserciti, sia con voi, come voi dite» (Am 5,14).


* cc. 1–3: il matrimonio di Osea e il suo valore simbolico. È la parte più nota, ma anche più discussa del libro. In particolare, ci si chiede se si tratta di un matrimonio reale o di una semplice allegoria; se la donna che Osea sposa è già prostituta o lo sia diventata dopo; se la donna del c. 3 è la stessa del c. 1. Si può ritenere che si tratti di un matrimonio reale; che la moglie di cui si parla sia sempre la stessa; che essa fosse un’adoratrice di Baal e che si sottoponesse liberamente alla pratica della prostituzione sacra. * cc. 4,1–14,1: vengono denunciate vecchie e nuove idolatrie a livello religioso e politico (cc. 5–7; 11–13) e la responsabilità dei dirigenti (c. 4; 8–10), seguite sempre dal castigo ormai prossimo. Lo sguardo del profeta spazia dalla situazione attuale (cc. 4–9) alla storia di Israele (cc. 9–13). * c. 14,2‐10: è annunciata la conversione sincera di Israele e il suo ritorno definitivo a YHWH.

2.3. Il messaggio di Osea

Prima di tutto, il profeta denuncia la situazione presente definendola prostituzione (4,12; 5,4): il popolo ha abbandonato il suo primo marito, YHWH, e si è prostituito sia a livello politico (si vende al potente di turno per tentare di salvarsi), che sociale (si rende schiavo degli idoli del denaro e del benessere, facendone pagare le spese ai poveri) e religioso (si danno alla «prostituzione sacra» e alle orge presso i santuari di Baal). Causa di tutto questo è sia la mancanza di «conoscenza di Dio» (daat = esperienza profonda e coinvolgente: 4,1), sia una certa peccaminosità che Israele si porta dietro fin dai tempi antichi. Osea, infatti, rilegge in modo molto critico alcuni episodi della storia passata: 1,4 (massacro da parte di Ieu della famiglia reale di Acab, giustificato in 2Re 10,30); 9,10‐17 (infedeltà di Baal‐Peòr e di Galgala); 12,3‐7.13‐15 (il patriarca Giacobbe non è certo un esempio edificante!); 13,4‐8 (infedeltà nel deserto). Anche 11,1‐6 è una rilettura della storia passata (dall’Egitto alla Terra promessa). In secondo luogo, poiché Israele non è più capace di autentica «conversione» (šûb = cambiamento di strada, cioè del centro della propria esistenza, intesa come «ritorno a YHWH, ricercarlo»; 7,10), Osea annuncia il castigo ormai imminente (6,1‐6; 7,8‐16; 8,1‐2; 9–10; 13). Eppure la sentenza non è senza appello, perché Dio è capace di far ritornare a sé il suo popolo me‐diante la sua misericordia: il perdono di YHWH è capace di recuperare l’uomo perché supera i pec‐cati del popolo (cc. 11; 14). C’è una speranza concreta di salvezza; per YHWH, infatti, nessuna situa‐zione di peccato è irrecuperabile! È il trionfo della misericordia di Dio, descritta come ḥesed, cioè amore profondo di benevolenza che parte dal cuore (9,15; 11,1‐2; 14,5), e raḥamîm (da reḥem = viscere, grembo materno), ossia amore di tenerezza viscerale, come quello di una madre che «non dimentica il suo bambino e si commuove per il figlio delle viscere» (Is 49,15). È l’amore di Dio che provocherà la conversione autentica che si esprimerà nella ḥesed verso il prossimo e nella daat (= conoscenza) di Dio (6,6). Il profeta sembra essere arrivato a questa consolante conclusione e a sperimentare che «il cuore di Dio si commuove dentro di lui e il suo intimo freme di compassione» (11,8) riflettendo sulla sua avventura matrimoniale: ripensata simbolicamente, diventa cifra per descrivere il rapporto tra il popolo ebraico (moglie infedele) e YHWH (marito fedele). Cosi, nei cc. 1–3 il racconto di un’esperienza personale si trasforma in un «segno e presagio per Israele da parte del Signore degli eserciti» (Is 8,18).

2.4. Lettura esegetica (cc. 1–3)

Nei primi tre capitoli viene narrata l’esperienza matrimoniale di Osea con valore profeticosimboli‐co: è la vocazione e missione del profeta!

12Quando il Signore cominciò a parlare a Osea, gli disse: «Va’, prenditi in moglie una prostituta, genera figli di prostituzione, poiché il paese non fa che prostituirsi allontanandosi dal Signore». 3Egli andò a prendere Gomer, figlia di Diblàim: ella concepì e gli partorì un figlio.


4E il Signore disse a Osea: «Chiamalo Izreèl, perché tra poco punirò la casa di Ieu per il sangue sparso a Izreèl e porrò fine al regno della casa d’Israele. 5In quel giorno io spezzerò l’arco d’Israele nella valle di Izreèl». 6La donna concepì di nuovo e partorì una figlia e il Signore disse a Osea: «Chiamala Non‐amata, perché non amerò più la casa d’Israele, non li perdonerò più. 7Invece io amerò la casa di Giuda e li salverò nel Signore, loro Dio; non li salverò con l’arco, con la spada, con la guerra, né con cavalli o cavalieri». 8Quando ebbe svezzato Non‐amata, Gomer concepì e partorì un figlio. 9E il Signore disse a Osea: «Chiamalo Non‐popolo‐mio, perché voi non siete popolo mio e io per voi non sono.

Il racconto, suddiviso in quattro momenti dall’espressione «il Signore disse a Osea» (vv. 2.4.6.9) ca‐ratterizzati dallo schema ordine‐esecuzione, presenta le esigenze di YHWH verso il suo profeta: deve sposare una prostituta (vv. 2‐3) e dare dei nomi particolari ai figli (vv. 4‐9). La famiglia del profeta risulta immagine reale della situazione religiosa del popolo nel suo rapporto con Dio. La moglie Gomer, infatti, è simbolo dell’infedeltà religiosa del popolo «che non fa che prostituirsi allontanan‐dosi dal Signore» (v. 2). I figli richiamano, con i loro nomi, la situazione di rottura nei rapporti YHWH‐Israele: Izreel denuncia le violenze politiche (2Re 10); Non‐amata (= Lō’‐ruḥāmāh) indica che Dio non ama più visceralmente il suo popolo; Non‐mio‐popolo (= Lō’‐ammî) è la negazione della formu‐la classica dell’alleanza tra Dio e Israele: «Sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo» (Lv 26,12; Ger 7,23; Ez 11,20; Zc 8,8). Dio ritorna a essere un estraneo che «non è più per voi» (v. 9 ed Es 3,14).

Il capitolo 2 inizia con questa promessa di salvezza legata ai nomi dei figli, ripresi in senso positivo (come più avanti in 2,24‐25).

21Il numero degli Israeliti sarà come la sabbia del mare, che non si può misurare né contare. E avverrà che invece di dire loro: “Voi non siete popolo mio”, si dirà loro: “Siete figli del Dio vivente”. 2I figli di Giuda e i figli d’Israele si riuniranno insieme, si daranno un unico capo e saliranno dalla terra, perché grande sarà il giorno di Izreèl! 3Dite ai vostri fratelli: “Popolo mio”, e alle vostre sorelle: “Amata”.

Il capitolo 3 contiene, in prima persona, un nuovo invito del Signore per Osea: deve riprendersi Gomer, che nel frattempo lo aveva abbandonato per andarsene con un altro uomo:

31Il Signore mi disse: «Va’ ancora, ama la tua donna: è amata dal marito ed è adultera, come il Signore ama i fi‐gli d’Israele ed essi si rivolgono ad altri dèi e amano le schiacciate d’uva». 2Io me l’acquistai per quindici pezzi d’argento e un homer e mezzo d’orzo 3e le dissi: «Per molti giorni starai con me, non ti prostituirai e non sarai di alcun uomo; così anch’io mi comporterò con te». 4Poiché per molti giorni staranno i figli d’Israele senza re e senza capo, senza sacrificio e senza stele, senza efod e senza terafìm. 5Poi torneranno i figli d’Israele, e cercheranno il Signore, loro Dio, e Davide, loro re, e trepidi si volgeranno al Signore e ai suoi beni, alla fine dei giorni.

Il brano centrale dei capitoli 1–3 (2,4‐25) è una lettura profetico‐teologica dell’esperienza matri‐moniale. Osea presenta il rapporto YHWH‐Israele non più con termini dell’alleanza politica, quanto di tenera relazione di due innamorati che si cercano nella gioia e nell’intimità. L’amore umano di‐venta il paradigma per parlare dell’amore di Dio per l’uomo e della risposta umana al Dio che è amore (lGv 4,8.16). Os 2,4‐2520 è formulato secondo il genere letterario della «controversia bilaterale» (in ebraico rîb), dove si confrontano due contendenti per stabilire l’innocenza e la colpevolezza. Nella controversia bilaterale non c’è un giudice esterno che dà la sentenza, ma la causa si deve risolvere tra i due. I due contendenti sono in questo caso Dio e Israele. Israele viene presentato come madre (vv. 4.7) – moglie (v. 4), mentre Dio è il marito (v. 4.18). La controversia comporta un’accusa, a cui può se‐guire la ricostituzione del rapporto primitivo se uno dei due riconosce la propria colpevolezza, op‐pure la definitiva rottura del rapporto.

20 A. SPREAFICO, La voce di Dio. Per capire i profeti. Nuova edizione (Studi biblici 66), Bologna 2014, 217‐226.


In Os 2,4‐25 è Dio che prende l’iniziativa nei confronti del suo popolo. La controversia inizia con la constatazione della rottura del rapporto mediante la dichiarazione di divorzio («lei non è mia mo‐glie e io non sono più suo marito»), cui segue un invito (v. 4b: «allontani le sue prostituzioni...») che lascia aperta un’alternativa (v. 5: «affinché non...»). L’invito diventa al v. 7 una constatazione di colpevolezza («poiché si è prostituita...») a cui segue un giudizio (v. 8: «perciò...»). Gli accusatori sono i figli (v. 4: «fate una controversia contro vostra madre...»), che sono associati al marito (v. 4: «io»). Però anche i figli sono considerati colpevoli (figli di prostituzione). Si dissociano quindi un io, Dio, che accusa, e un lei, la madre‐moglie, cui è rivolta l’accusa. Tuttavia il rapporto a due io‐lei diventa di fatto un rapporto a tre: io‐lei‐amanti. La prostituzione della donna introduce nella controversia gli amanti (vv. 7ss): il rapporto io‐lei è interrotto dagli amanti, che sono a loro volta in relazione con i beni della terra. Tutta la pericope si sviluppa all’interno di questo confronto, come vedremo meglio nella struttura del testo. Os 2,4‐25 si può considerare una unità articolata in tre sezioni: I. vv. 4‐9 il tradimento II. vv. 10‐15 l’ignoranza colpevole della donna III. vv. 16‐25 l’inganno di Dio Questa divisione si basa sulla ripetizione di due termini nelle tre parti: a) nel primo versetto delle tre parti abbiamo il soggetto «io» (in ebraico ’ānōkî), la cui presenza, almeno nei vv. 10 e 16, è su‐perflua secondo la sintassi ebraica, essendo il soggetto già contenuto nella forma del verbo; per questo la sua presenza assume un significato particolare; b) in tutte e tre le parti abbiamo la parti‐cella «perciò» (in ebraico lākēn), che si trova progressivamente sempre più verso l’inizio della se‐zione (vv. 8.11.16). La ripetizione del soggetto «io» mette in risalto l’intervento divino, che inizia accusando la donna di tradimento‐prostituzione per essere passata dall’amore di Dio a quello degli amanti‐idoli. Que‐sto tradimento è la conseguenza del fatto che la donna‐Israele non ha riconosciuto in Dio colui che le ha elargito i beni della terra (v. 10). «PERCIÒ» Dio interverrà nei suoi confronti in tre riprese (vv. 8.11.16) fino alla spoliazione totale della donna, che ridotta allo stato di nudità originaria comince‐rà a riconoscere il rapporto privilegiato di Dio con lei (vv. 16‐25). Nell’oracolo profetico, espresso nella forma della «contesa giudiziaria», Dio mediante il profeta in‐tenta una vera e propria causa contro il suo popolo, rappresentato da quella donna e dai figli. Si tratta però di un giudizio bilaterale, in cui Dio stesso è parte in causa e non giudice esterno che dal di sopra dà la sua sentenza. Infatti Dio è legato al suo popolo dall’alleanza, cioè da un rapporto par‐ticolare. Se Israele viene meno a questo legame, Dio dovrà intervenire per convincerlo del suo tra‐dimento, della sua colpevolezza affinché egli si ravveda. L’intento dell’accusa è tutto volto al ravve‐dimento di Israele, al riconoscimento della sua colpevolezza e per contro dell’innocenza di Dio, che è pronto a perdonare e a ristabilire l’alleanza. L’alleanza si manifesta in questa pericope come rapporto matrimoniale: Dio è il marito, la donna è la moglie. Altri testi dell’Antico Testamento presentano la relazione di Dio con il suo popolo facen‐do uso dell’immagine matrimoniale (cfr. Is 1,21‐27; Ger 2,2; 3,1‐5; Ez 16; 23). L’amore di Dio per Israele è particolare e intenso, per cui gli autori biblici cercano immagini umane per poter esprime‐re questa realtà così unica. Ma vediamo come si sviluppano nel testo questi diversi aspetti della struttura.

Il tradimento: vv. 4‐9

4Accusate vostra madre, accusatela, perché lei non è più mia moglie e IO non sono più suo marito! Si tolga dalla faccia i segni delle sue prostituzioni e i segni del suo adulterio dal suo petto; 5altrimenti la spoglierò tutta nuda e la renderò simile a quando nacque, e la ridurrò a un deserto, come una terra arida, e la farò morire di sete. 6I suoi figli non li amerò, perché sono figli di prostituzione. 7La loro madre, infatti, si è prostituita, la loro genitrice si è coperta di vergogna, perché ha detto: “Seguirò i miei amanti, che mi danno il mio pane e la mia acqua, la mia lana, il mio lino, il mio olio e le mie bevande”.


8PERCIÒ ecco, ti chiuderò la strada con spine, la sbarrerò con barriere e non ritroverà i suoi sentieri. 9Inseguirà i suoi amanti, ma non li raggiungerà, li cercherà senza trovarli. Allora dirà: “Ritornerò al mio marito di prima, perché stavo meglio di adesso”.

È Dio che in prima persona parla per mezzo del profeta aprendo una contesa giudiziaria. L’inizio del v. 4 si dovrebbe tradurre: «Aprite una contesa con vostra madre, aprite una contesa». In modo iro‐nico Dio invita i figli, quasi differenziandoli dalla madre, a prendere questa iniziativa e a distanziarsi dall’atteggiamento della madre. Questa contesa nasce dalla nuova situazione che si è venuta a creare nel rapporto tra i due alleati: Dio dichiara sciolto il matrimonio con questa donna mediante una certificazione formale di divorzio: «Lei non è mia moglie e io non sono suo marito» (v. 4). Il motivo della contesa e della rottura del rapporto, come sarà specificato nell’accusa del v. 7, è la prostituzione e l’adulterio, cioè l’abbandono di Dio per gli idoli. Dio dà alla donna un avvertimento, quasi un ultimatum: se essa non toglierà le prostituzioni e gli adulteri, sarà denudata, come nel giorno della nascita, sarà ridotta a deserto e fatta morire. La minaccia, conseguenza del tradimento della donna, riporta Israele alla sua situazione originaria, negando tutta la sua storia. L’esclusione di Dio annulla infatti la storia e rende la vita improduttiva, arida, senza frutto. Nella prostituzione Israele aveva posto la sua fiducia negli idoli, attribuendo loro tutto quanto Dio gli aveva concesso. Il problema di Israele è infatti il soggetto del «dono»: chi è all’origine dei beni della terra? Dio o gli idoli? E la terra indica la realizzazione dell’esodo, i suoi beni sono il segno della salvezza e della benedizione di Dio, della sua presenza. È una scelta non nuova per il popolo di Dio. Il ricorso all’idolatria è la continua tentazione di affidarsi a ciò che sembra più vicino, meno impe‐gnativo: «Facci un dio che cammini alla nostra testa – disse Israele ad Aronne nel deserto –, perché a quel Mosè, l’uomo che ci ha fatti uscire dal paese d’Egitto, non sappiamo cosa sia accaduto» (Es 32,1). Allora c’è un primo intervento di Dio: Dio tenta di impedire al suo popolo di correre dietro agli amanti‐idoli (vv. 8‐9). È il primo annuncio di giudizio, introdotto da «perciò». Cosa può fare Dio, se non tentare di interrompere questa attrazione di Israele verso gli idoli? L’azione divina è sempre volta alla conversione del popolo. Dio spera che quella donna si renda conto della stoltezza e della vanità del suo atteggiamento e della sua scelta: la strada dell’idolatria non porta ad alcun risultato. Dio spera che essa ritorni a lui. E così sembra infatti alla fine del v. 9. Ma si tratta di un ritorno effi‐mero, non duraturo.

L’ignoranza colpevole della donna: vv. 10‐15

10Non capì che IO le davo grano, vino nuovo e olio, e la coprivo d’argento e d’oro, che hanno usato per BAAL. 11PERCIÒ anch’IO tornerò a riprendere il mio grano, a suo tempo, il mio vino nuovo nella sua stagione; porterò via la mia lana e il mio lino, che dovevano coprire le sue nudità. 12Scoprirò allora le sue vergogne agli occhi dei suoi amanti e nessuno la toglierà dalle mie mani. 13Farò cessare tutte le sue gioie, le feste, i noviluni, i sabati, tutte le sue assemblee solenni. 14Devasterò le sue viti e i suoi fichi, di cui ella diceva: “Ecco il dono che mi hanno dato i miei amanti”. Li ridurrò a una sterpaglia e a un pascolo di animali selvatici. 15La punirò per i giorni dedicati ai Baal, quando bruciava loro i profumi, si adornava di anelli e di collane e seguiva i suoi amanti, mentre dimenticava me! Oracolo del Signore.

La sezione è compresa tra due azioni della donna, che si contrappongono a quella di Dio: «Ma Lei non sapeva» (v. 10) – «e me dimenticava» (v. 15). La vita di Israele è contrassegnata dal miscono‐scimento e dalla dimenticanza nei confronti di Dio. Non si tratta innanzitutto di un problema intel‐lettuale o di poca memoria delle cose. Dimenticare Dio significa non riconoscere la sua presenza salvifica nella storia, non accettare questa presenza come determinante per la propria vita e per il futuro. L’invito a non dimenticare in relazione alla terra è frequente nel Deuteronomio:

«Osserva i comandi del Signore tuo Dio camminando nelle sue vie e temendolo, perché il Signore tuo Dio sta per farti entrare in un paese fertile, paese di torrenti, di fonti e di acque sotterranee che scaturiscono nella pia‐nura e sulla montagna; paese di frumento e di orzo, di viti, di fichi e di melograni; paese di ulivi, di olio e di mie‐


le; paese dove non mangerai con scarsità il pane... Guardati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio così da non osservare i suoi comandi... Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fat‐to uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spavento‐so...» (Dt 8,6‐15).

Gli amanti (vv. 7.9), che la donna seguiva, si specificano nei Baal, divinità della fecondità, che as‐sieme ad Astarte si trovano al vertice del pantheon cananeo. La donna si inserisce nel ciclo di Baal, degli idoli. Si parla infatti dei «giorni di Baal» (v. 15). Il suo tempo è dominato dagli idoli: essa aspetta i beni della terra come una ricompensa che ritorna ciclicamente nei «giorni di Baal». Que‐sta ciclicità è però la negazione del dono, perché stabilisce una relazione con i beni che è del tipo dare per ricevere. Nel rapporto con gli idoli si perde il senso della gratuità del dono del Signore e viceversa, non riconoscendo la gratuità del dono di Dio, si ricorre agli idoli, si vive in modo idolatri‐co. Perciò Dio interviene e toglie tutto quello che ha dato (vv. 11‐15): i beni (che sono suoi: «mio gra‐no, mio mosto...», in contrapposizione con il v. 7, in cui la donna li attribuiva ai Baal), le feste e per‐sino il sabato (vv. 13‐14). Dio distrugge il ciclo cultuale: toglie i beni «a suo tempo» (v. 11), quando la donna si aspetta di averli dagli idoli; toglie le feste e il sabato, che sono diventati «giorni di Baal», sebbene dovevano essere segno della storia di Dio e del dono di Dio. Il sabato, memoria del com‐pimento della creazione di Dio, in cui l’uomo riconosce e loda l’opera di Dio (cfr. Es 20,8‐11), non‐ché memoria dell’esodo dall’Egitto (Dt 5,12‐15), viene vanificato nell’annullamento del suo legame con la storia della salvezza operata da Dio. Infatti il tempo di Israele non è ciclico, non è sottomesso al potere dell’uomo; esso è memoria di un evento unico, dell’origine della storia di Dio con l’uomo (creazione) e con il suo popolo (esodo). Il peccato fondamentale di Israele è l’idolatria, perché è in‐nanzitutto la negazione del primo comandamento: «Io sono il Signore tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile» (Dt 5,6).

L’inganno di Dio: vv. 16‐25

16PERCIÒ, ecco, IO la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. 17Le renderò le sue vigne e trasformerò la valle di Acor in porta di speranza. Là mi risponderà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto. 18E avverrà, in quel giorno – oracolo del Signore – mi chiamerai: “Marito mio”, e non mi chiamerai più: “Baal, mio padrone”. 19Le toglierò dalla bocca i nomi dei Baal e non saranno più chiamati per nome. 20In quel tempo farò per loro un’alleanza con gli animali selvatici e gli uccelli del cielo e i rettili del suolo; arco e spada e guerra eliminerò dal paese, e li farò riposare tranquilli. 21Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia (ṣedeq) e nel diritto (mišpāṭ), nell’amore (ḥesed) e nella benevolenza (raḥămîm),22ti farò mia sposa nella fedeltà (’ĕmûnāh) e tu conoscerai (yāda‘) il Signore. 23E avverrà, in quel giorno – oracolo del Signore – io risponderò al cielo ed esso risponderà alla terra; 24la terra risponderà al grano, al vino nuovo e all’olio e questi risponderanno a Izreèl. 25Io li seminerò di nuovo per me nel paese e amerò Non‐amata, e a Non‐popolo‐mio dirò: “Popolo mio”, ed egli mi dirà: “Dio mio”».

L’ultima sezione è determinata dal «perciò» iniziale e dalla triplice «in quel giorno» (vv. 18.20.23). In quest’ultima parte si ricostituisce il rapporto originario tra Dio‐marito e Israeledonna/moglie. Ma la sezione inizia con un annuncio di giudizio, chiaramente indicato da «perciò». Spesso si è data un’interpretazione sbagliata all’oracolo dei vv. 16‐17. Si è parlato del ritorno di Israele al deserto come un fatto positivo, come se il deserto in se stesso avesse nell’esperienza di Israele un valore positivo. Os 2,16 sarebbe l’espressione di una teologia esaltatrice dell’epoca no‐made di Israele. Al contrario negli stessi libri dell’Esodo e dei Numeri il deserto è il luogo della ri‐bellione di Israele, della fatica, della fame e della sete. Il deserto non sembra il luogo in cui il popo‐


lo cerca il suo Dio; è piuttosto Dio che cerca Israele e si prende cura di lui. Il deserto inoltre non è il punto di arrivo dell’esodo, che invece è la terra, promessa da Dio al suo popolo. Così, quando Osea dice «io la condurrò nel deserto» bisogna pensare innanzitutto che andare nel deserto significa abbandonare la terra. Quest’azione, e lo conferma il «perciò» introduttivo, ha i ca‐ratteri di un intervento punitivo di Dio nei confronti del suo popolo. L’interpretazione negativa del cammino verso il deserto viene confermata anche dalla prima azione con cui Dio interviene presso la donna: «io la sedurrò». Il verbo tradotto con «sedurre» ha l’accezione negativa dell’inganno: Dio con inganno raggira il suo popolo e lo conduce nel deserto. Con questa azione Dio toglie la terra e allontana Israele dagli amanti. Paradossalmente l’azione seduttrice di Dio è l’unico modo attraverso cui Israele interrompe il rapporto con gli amanti e può ricominciare un nuovo cammino. Il «parlare al cuore», a differenza di «sedurre», ha un senso positivo nelle intenzioni. L’intervento di Dio che parla nel deserto risulta in opposizione all’azione espressa dalla parola di Israele, che nella terra aveva dato origine a un cammino dietro gli amanti e a un falso ritorno (vv. 7.9). In 2,16 il dia‐logo iniziato da Dio, il cui specifico è il tentativo di convinzione del suo popolo, è l’azione che tra‐sforma la funzione della parola all’interno di tutta la pericope. La svolta avviene per l’intervento di Dio al v. 16; è esso che provoca la risposta di Israele. Tuttavia questo intervento comincia con un cammino contrario a quello dell’esodo, nel quale Israele viene privato del dono della terra come conseguenza del suo rapporto con gli idoli. Già dal deserto Dio promette il dono dei beni della terra: «darò a lei le sue vigne fin da là e tra‐sformerò la valle di Acor in porta di speranza.» Il dono delle vigne sta a indicare che Dio ricostitui‐sce il rapporto con Israele presentandosi come «colui che dà» la terra e i suoi frutti in contrapposi‐zione ai Baal. Anche la trasformazione della valle di Acor è solo apparentemente fuori luogo. Ad Acor, come si racconta in Gs 7, Acan era venuto meno alla legge dello sterminio, che imponeva la distruzione di tutto quello di cui Israele si impadroniva: «Gli israeliti si resero colpevoli di violazione quanto allo sterminio: Acan... si impadronì di quanto era votato allo sterminio e allora la collera del Signore si accese contro gli israeliti» (Gs 7,1) La legge dello sterminio vuole indicare che il vero au‐tore della vittoria di Israele è Dio e che la terra come le proprietà del nemico sono quindi sue. Per questo nessuno può conservarle per sé. La valle di Acor, da luogo di punizione e di arresto nella presa di possesso della terra, diventa in Osea luogo di speranza, attraverso cui Israele di nuovo po‐trà accedere alla terra. La reazione all’intervento di Dio è la risposta di Israele, che avviene nel deserto, il tempo della gio‐vinezza di Israele, ma che è come la risposta del giorno della «salita dall’Egitto»; ha quindi qualcosa di originario e di fondante. Essa è come la risposta del Sinai, quando il popolo si impegnò all’osservanza della legge e accettò l’alleanza che Dio gli aveva offerto per mezzo di Mosè: «Mosè andò e convocò gli anziani del popolo e pose davanti a loro tutte queste parole... Rispose tutto il popolo insieme e disse: tutto quello che ha detto il Signore faremo...» (Es 19,7‐8). Così in Os 2,17 nella risposta della donna si ristabilisce il rapporto con Dio, che fonda l’alleanza, come era avvenu‐to nel deserto. Il deserto è allora il punto di arrivo di uno schema di anti‐esodo, in cui Israele esce dalla terra, ma è anche il punto di partenza, l’inizio. Il movimento dalla terra al deserto fa ritornare all’origine della storia salvifica, la «salita dall’Egitto». Tutto il resto dell’oracolo non è altro che la descrizione di questo rapporto che si va ricostituendo e che, mediante la ripetizione di «in quel giorno», si proietta nel futuro come un evento definitivo. Il giorno dell’origine (v. 17b) è anche il giorno escatologico e definitivo. Osserviamo lo sviluppo di quest’ultima sezione attraverso tre chiavi di lettura:

1. La parola. La parola di Dio rivolta alla donna nel deserto ristabilisce il dialogo. La sezione è rac‐chiusa tra l’intervento di parola di Dio al v. 16 e il dialogo conclusivo al v. 25 fra Dio e il popolo. La donna non parla più rivolgendosi agli amanti e aspettando da loro una risposta come nella prima e nella seconda sezione, ma «risponde» a Dio. Così si riprende il dialogo e il testo comincia a usare la


prima e la seconda persona. La possibilità di ricominciare a parlare con Dio è alla base della tra‐sformazione del rapporto, quale viene descritto nei due punti seguenti.

2. Matrimonio. Si ricostituisce il rapporto vero tra il popolo e Dio: mio marito – non più mio Baal. Il passaggio all’interno delle sezioni è: I. marito = amanti II. amanti = Baal III. marito = non più Baal Se in 2,4 Dio aveva dichiarato il divorzio dalla donna a causa delle sue prostituzioni e dell’adulterio con gli amanti‐Baal, la donna ora può chiamare di nuovo Dio «mio marito», perché dalla «sua boc‐ca» sono tolti i «nomi di Baal» (v. 19).

3. Alleanza. Il rapporto ricostituito porta a un’alleanza: «farò con loro un’alleanza» (v. 19). «Loro» sono i «figli». C’è un passaggio continuo in quest’ultima parte dalla madre ai figli. L’alleanza ha delle conseguenze: un nuovo rapporto con gli esseri viventi (cfr. Is 11,6; 35,9; Ez 34,25.28), la fi‐ne della guerra (cfr. Mic 5,9‐10; Sal 76,4), un nuovo atto di fidanzamento accompagnato da un do‐no («giustizia, diritto, benevolenza, affetto... fedeltà»: vv. 21.22). L’alleanza è universale: ristabilisce il rapporto con il cosmo (cielo‐terra; animali; rapporto tra gli uomini: giustizia...), ma soprattutto pone Israele nel giusto rapporto con la terra, che dà i beni co‐me risposta a questo nuovo atto di Dio. Al v. 25 i due nomi con cui Dio e popolo si chiamano espri‐mono la nuova realtà che si è andata costituendo. La formula dell’alleanza «mio popolo‐mio Dio» sancisce in maniera definitiva questa nuova situazione.

Riassumendo,21 il poema contenuto in Os 2,4‐25 indica che, davanti alla condotta della sposa, co‐me una storia di peccato e di ribellione, il Signore conta su tre possibilità: a) porle una serie di ostacoli, perché non se ne possa andare con gli amanti e finisca per tornare allo sposo (vv. 8‐9); b) castigarla pubblicamente e con durezza (vv. 10‐15); c) perdonarle per puro amore, facendo un nuovo viaggio di nozze e un nuovo regalo sponsale, che restauri l’intimità e sia come un nuovo ma‐trimonio (16‐25). La predicazione di Osea è passata probabilmente per queste tre tappe. In un primo momento sembra che Osea non pensi a un castigo totale e terribile, come fa Amos, bensì a una serie di castighi passeggeri, atti a provocare la conversione: «Ritornerò al mio posto finché espiino e cerchino il mio volto» (5,15). Il risultato, tuttavia, è vano: «Quando cambiavo la sorte del mio popolo, quando tentavo di guarire Israele, montavano a fiotti i peccati di Efraim, le malvagità di Samaria» (6,11b‐7,1a); «si convertono, ma ai loro idoli» (7,16a). Anche ciò che sembrerebbe autentica conversione e desi‐derio sincero di cercare Dio, si rivela una pietà transitoria e superficiale (5,15b–6,6). Allora il casti‐go si fa inevitabile e presenta la stessa sequenza di invasione, rovina, morte ed esilio che trovava‐mo in Amos (cfr. 9,7a; 10,10.14a; 11,6; 9,17; 14,1). Ma nemmeno ora il castigo è l’ultima parola. Ciò che finisce per trionfare è l’amore di Dio, che di nuovo accoglie la sposa, anche se non del tutto pentita. Questo tema, in Osea, è importantissimo. Lo ha già insinuato il poema di 2,4‐25, ma quello del capitolo 11 lo sviluppa con un’immagine nuo‐va.

111Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. 2Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi. 3A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. 4Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare. 5Non ritornerà al paese d’Egitto, ma Assur sarà il suo re, perché non hanno voluto convertirsi.

21 ALONSO SCHÖKEL ‐ SICRE DIAZ, I profeti, 975‐976.


6La spada farà strage nelle loro città, spaccherà la spranga di difesa, l’annienterà al di là dei loro progetti. 7Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo. 8Come potrei abbandonarti, Èfraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Adma, ridurti allo stato di Seboìm? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. 9Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira.

Qui Dio non appare più come sposo ma come padre; e Israele non è più la sposa, ma il figlio. I ver‐setti 1‐5 parlano di una triplice dimostrazione dell’amore di Dio e di un triplice rifiuto da parte di Israele. Dio, come padre, «ama», «chiama», «insegna a camminare», «si prende cura», «attrae», «si inclina per dar da mangiare». Ma Israele, il figlio, «si allontana», «non lo comprende», non met‐te la fiducia in suo padre, ma negli amici. È il prototipo del figlio ribelle, che, secondo la legge, deve morire (Dt 21,18‐21). Davanti all’imminenza del castigo paterno (vv. 5b‐6), Israele chiede aiuto a Baal, ma senza fortuna (v. 7). E quando pare che la situazione sia totalmente disperata, Dio lotta con se stesso e la misericordia la vince sulla collera (vv. 8‐9). È interessante notare come questo testo non parli affatto della conversione del figlio, così come nel capitolo 2 non si parlava di una conversione previa della sposa. L’accento ricade di tutta forza sull’amore gratuito di Dio. Lo stesso si verifica nel poema finale (14,2‐9).

142Torna dunque, Israele, al Signore, tuo Dio, poiché hai inciampato nella tua iniquità. 3Preparate le parole da dire e tornate al Signore; ditegli: «Togli ogni iniquità, accetta ciò che è bene: non offerta di tori immolati, ma la lode delle nostre labbra. 4Assur non ci salverà, non cavalcheremo più su cavalli, né chiameremo più “dio nostro” l’opera delle nostre mani, perché presso di te l’orfano trova misericordia». 5«Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò profondamente, poiché la mia ira si è allontanata da loro. 6Sarò come rugiada per Israele; fiorirà come un giglio e metterà radici come un albero del Libano, 7si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’olivo e la fragranza del Libano. 8Ritorneranno a sedersi alla mia ombra, faranno rivivere il grano, fioriranno come le vigne, saranno famosi come il vino del Libano. 9Che ho ancora in comune con gli idoli, o Èfraim? Io l’esaudisco e veglio su di lui; io sono come un cipresso sempre verde, il tuo frutto è opera mia».

L’inizio è un’esortazione del profeta alla conversione, che deve concretizzarsi nel rinunciare a tutto ciò in cui il popolo ha posto la sua fiducia: potenze straniere, esercito, idoli (vv. 2‐4). Ne dovrebbe seguire la liturgia penitenziale del popolo, ma Dio interviene d’improvviso per annunciare il suo perdono per pura grazia: «Io curerò i loro fuorviamenti, li amerò senza che se lo meritino» (v. 5). E ciò che Baal non poté concedergli – la fecondità della terra – lo accorda Dio, sottolineando che la pioggia e i frutti sono suo dono (vv. 6‐9). Il messaggio di Osea ha qualcosa di sconcertante. La nostra logica religiosa segue il passaggio pec‐cato‐conversione‐perdono. La grande novità di Osea, che lo situa su un piano diverso e lo fa un precursore del Nuovo Testamento, è che egli inverte l’ordine: il perdono precede la conversione. Dio perdona prima che il popolo si converta, e sebbene non si sia convertito. S. Paolo ripete quest’idea quando scrive ai Romani: «La prova che Dio ci ama è che Cristo è morto per noi quando ancora eravamo peccatori» (Rm 5,8). E la stessa cosa dice Giovanni, nella sua prima Lettera: «In questo consiste l’amore, non che noi abbiamo amato Dio, ma che Egli ci ha amato e ci ha inviato il suo Figlio come propiziazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10). Questo non significa che la conversione non sia necessaria. Ma che essa si realizza come risposta all’amore di Dio, e non come condizione previa al perdono.


Bibliografia scelta su Osea

FANULI A., Osea. Michea, Queriniana, Brescia 1984, pp. 7‐143. BECK E., Osea‐Amos‐Michea, Cittadella, Assisi 1989, pp. 5‐59.

SIMIAN‐YOFRE H., Il deserto degli dèi. Teologia e storia nel libro di Osea, EDB, Bologna 1994.

STUHLMÜLLER C., I libri di Amos, Osea, Michea, Naum, Sofonia, Abacuc (La Bibbia per tutti 15), Queriniana, Brescia 1996. DACCÒ P. – SABBIONI L., Dalla parte di Dio. Leggere e pregare il libro di Osea, Paoline, Milano 1996.

LIMENTANI G., Il profeta e la prostituta. Osea (La Parola e le parole), Paoline, Cinisello Balsamo 1999. JEREMIAS J., Osea, Paidea, Brescia 2000. NOBILE M., Amos e Osea, Messaggero, Padova 2005.

LIMBURG J., I dodici profeti. Parte prima: Osea, Gioele, Amos, Giona, Abdia, Michea, Claudiana, Torino 2007, 15‐82.

Il libro dei Dodici Profeti: Osea, in Parole di Vita 54 (2009/1) 15‐59.

3. MICHEA, IL PROFETA CONTADINO

3.1. La persona

Michea, che significa «chi come YHWH» (nella forma lunga Mìkayah), è nativo di Moreshet‐Gat (1,14), nella Shefela, 35 km a sud‐ovest di Gerusalemme, tra la montagna e la costa, ed è diverso da Michea figlio di Imla, vissuto oltre un secolo prima (cf. 1Re 22,19‐28). È un po’ più giovane di Isaia: si discute infatti se abbia esercitato il suo ministero già sotto Iotam e Acaz, cioè dal 740 al 728 come vorrebbe il titolo (1,1) apposto dall’ultimo redattore. Sicuro, invece, è il ministero prima della distruzione di Samaria (1,2‐7), con Ezechia (cf. Ger 26,17) e anche negli anni dell’ultima invasione assira (1,8‐16): Michea profetizza pertanto nell’ultimo quarto di secolo. È un contadino che, al pari di altri, è stato colpito nei suoi beni dall’esercito assiro invasore, come lasciano intendere le invetti‐ve contro i latifondisti: è meno probabile che sia stato una persona di riguardo tra i più anziani del luogo, un capo‐gruppo. Mancano notizie sulla vocazione, sulla vita, sugli effetti della sua pungente predicazione. Egli è fondamentalmente un contestatore: campagnolo contro la città che «sarà ara‐ta» (3,12) quale covo dell’oppressione, sfruttato contro gli accaparratori (2,1‐5), povero contro i governanti (3,1‐4.9‐11), profeta dello spirito (3,8) contro gli inseguitori di vento (2,6‐11; 3,5‐7). Il testo ebraico è spesso corrotto; come quello di Osea, contiene versetti incomprensibili (1,10‐11; 2,4.6‐8; 6,8‐10), spiegazioni (3,8; 5,1), varietà di generi letterari, dialoghi (2,6‐7.10; 3,11b), interrogazioni (1,5; 2,7), risposte (6,6‐8), bruschi passaggi di immagini (2,10‐15; 4,7.10.13). Lo stile è rude, espressivo, vario, rivelativo dei propri sentimenti (1,8; 3,1; 7,7), ricco di immagini tratte dal mondo agricolo, con gli animali selvaggi (5,7; 7,17) e domestici (2,12), i frutti (7,1), la pioggia (5,6), il fango delle strade (7,10).

3.2. La formazione del libro

Costituisce il problema più controverso della critica: dopo averne esposti gli orientamenti, eviden‐ziamo la linea strutturale del testo definitivo e segnaliamo i passi più significativi del libro.

3.2.1. Opinioni sulla formazione

La critica (se non teniamo conto delle due ipotesi estreme di chi ritiene quasi tutto autentico o al contrario accetta appena 40 versetti dei primi capitoli) è generalmente d’accordo nell’attribuire al profeta di Moreshet i cc. 1–3; 6,1–7,7 (eccetto 2,12‐13 e qualche aggiunta minore, come ad es. 1,1; 4,6‐7.11‐13; 5,6s) e nel datare al dopoesilio 7,8‐20, composto di quattro brani pieni di speranza per la ricostruzione di Sion. Su questa base si possono delineare tre ulteriori orientamenti relativi alle altre parti del testo.


a. Sostanziale autenticità

L’opinione tradizionale estende l’autenticità al blocco 4,1–5,14 totalmente o quasi (A. van Hoonac‐ker, E. Sellin, A. Weiser, W. Rudolph, G. Rinaldi, S. Virgulin, R. Vuilleumier), oppure parzialmente (A. George, E. Testa, A. Deissler, S. Amsler – R. Martin‐Achard, O. Eissfeldt): quest’ultimo studioso pe‐raltro afferma che l’attribuzione a Michea di 7,7‐20 va presa in seria considerazione.

b. Prevalenza di riletture successive

Secondo altri studiosi, oltre ai cc. 1–3 a Michea va attribuito «qualcosa dei brani seguenti, in cui però prevalgono chiaramente i successivi strati di rielaborazione». Il blocco 4,1–5,14, in particolare, sarebbe una collezione di brani preesistenti messi assieme tardivamente (E. Nielsen, E. Sellin, G. Fohrer), oppure unificati attorno alla speranza del regno di Dio e del discendente di Davide (A.S. Kapelrud); altri considerano i cc. 4–5 un’armonica composizione midrashica sulla restaurazione d’Israele chiasticamente disposta o parallelamente ordinata.

c. L’ipotesi di un Secondo Michea

Le opinioni fin qui esposte concordano nel vedere in Michea l’unico autore principale, al quale si sono aggiunti apporti secondari di altri scrittori distribuiti in tempi più o meno lunghi. Questa nuo‐va ipotesi, invece, individua un secondo autore, anonimo, del nord, contemporaneo del profeta giudeo. L’ipotesi attribuisce al profeta meridionale i cc. 1–5 e all’anonimo settentrionale i cc. 6–7, reagendo così al frazionamento operato dalla critica: essa è favorevole sia all’unità che all’antichità del testo. Gli argomenti principali sono: la destinazione alla Samaria dei cc. 6–7 che risultano simili al pensiero di Osea; la vicinanza ad Isaia dei cc. 1–5; la presenza di dati geografici e storici e delle tradizioni dell’esodo (cf. 6,5.16; 7,14), ai quali era più interessato il nord; più ragionevole è una col‐locazione dei cc. 4–5 nell’VIII secolo, anziché dopo il 586.

Il problema della formazione di Michea è ben lontano dal trovare una soluzione convincente, per la quale occorrono ulteriori studi. Questo non impedisce di cogliere il messaggio nel suo insieme, sul‐la base di una chiara struttura letteraria.

3.2.2. La struttura

È evidente l’alternanza tematica del giudizio (cc. 1–3) e della salvezza (4,1–5,8) e di nuovo giudizio (5,9–7,7) e salvezza (7,8‐20): perfino 2,12‐13, dai temi marcatamente positivi, potrebbe trovarsi al suo posto qualora sia interpretato (così fa L. Alonso Schökel) come parole non di Michea, ma degli avversari che interrompono il discorso (cf. 2,6‐7). La denuncia si apre con la teofania di Dio testimone (‘ēd) contro i due tronconi del popolo, Israele e Giuda (1,2‐9), ed è seguita da un lamento per la devastazione delle dodici città meridionali espres‐samente nominate (1,10‐16). L’ulteriore minaccia riguarda singole categorie di persone, gli acca‐parratori di ricchezze (2,1‐5), gli oppressori del popolo (2,6‐11), identificati per ben due volte nei «capi di Giacobbe e nei governanti d’Israele» (3,1‐4.9‐11), i profeti (3,5‐7). Il giudizio ha come esito il crollo di Sion «arata come un campo» (3,12), un detto ripreso in Geremia (26,18). Il giudizio della terza parte centrato su una lite sembra di natura più generale, relativo a tutta la società incapace di comprendere il vero senso dell’alleanza fondata su un culto autentico; solo una volta si addita una particolare categoria di persone, i truffatori negli affari (6,9‐15). La salvezza comporta nel futuro regno messianico la centralità di Sion, verso cui accorreranno i po‐poli (4,1‐5; cf. Is 2,2‐4), la riunione dei dispersi (4,6‐10), la protezione contro l’assalto dei popoli (4,11‐13), l’annuncio del Messia dominatore e pastore, riconciliatore (5,1‐5). Il brano finale, di in‐tonazione liturgica, delimitato da una duplice possibilità di perdono (7,8.19), ribadisce la speranza di una restaurazione di Sion.


3.3. Messaggio teologico: un progetto divino in tre momenti

La difficoltà a ricostruire la formazione del libro non impedisce di cogliere il pensiero unitario nella redazione finale. L’impressione che Michea non faccia che ripresentare in sintesi il pensiero dei tre profeti contemporanei più noti non deve far trascurare gli aspetti personali e nuovi, frutto della sua consapevolezza di essere inviato dal Signore, ripieno di forza, giustizia e coraggio (3,8).

Primo momento: LA DENUNCIA. Lo scopo principale del libro è di far prendere coscienza di una cata‐strofe imminente a persone che si ritengono sicure e in pace con Dio (3,9‐11):

9Udite questo, dunque, capi della casa di Giacobbe, governanti della casa d’Israele, che aborrite la giustizia e storcete quanto è retto, 10che costruite Sion sul sangue e Gerusalemme con il sopruso; 11i suoi capi giudicano in vista dei regali, i suoi sacerdoti insegnano per lucro, i suoi profeti danno oracoli per denaro. Osano appoggiarsi al Signore dicendo: «Non è forse il Signore in mezzo a noi? Non ci coglierà alcun male».

Gli avidi accaparratori perderanno tutto (2,1‐5.8‐10); i capi, divoratori «della carne del mio popolo al quale strappano la pelle di dosso», non saranno ascoltati da Dio quando grideranno a lui nel momento della rovina (3,3‐4):

3Divorano la carne del mio popolo e gli strappano la pelle di dosso, ne rompono le ossa e lo fanno a pezzi, come carne in una pentola, come lesso in un calderone. 4Allora grideranno al Signore, ma egli non risponderà; nasconderà loro la faccia, in quel tempo, perché hanno compiuto azioni malvagie.

I profeti venditori del loro carisma vedranno solo la notte e saranno ridotti al silenzio (3,5‐7):

5Così dice il Signore contro i profeti che fanno traviare il mio popolo, che annunciano la pace se hanno qualcosa tra i denti da mordere, ma a chi non mette loro niente in bocca dichiarano la guerra. 6Quindi, per voi sarà notte invece di visioni, tenebre per voi invece di responsi. Il sole tramonterà su questi profeti e oscuro si farà il giorno su di loro. 7I veggenti saranno ricoperti di vergogna e gli indovini arrossiranno; si copriranno tutti il labbro, perché non hanno risposta da Dio.

I mercanti disumani resteranno affamati (6,10‐15) e la stessa città santa diventerà un campo (3,12):

12Perciò, per causa vostra, Sion sarà arata come un campo e Gerusalemme diverrà un mucchio di rovine, il monte del tempio un’altura boscosa.

Una società in cui domina la legge del più forte e dove la giustizia è disprezzata da chi dovrebbe at‐tuarla (3,1‐2) crollerà come un muro rovinato al primo urto esterno:

1Io dissi: «Ascoltate, capi di Giacobbe, voi governanti della casa d’Israele: Non spetta forse a voi conoscere la giustizia?». 2Nemici del bene e amanti del male, voi togliete loro la pelle di dosso e la carne dalle ossa.

La denuncia sociale avvicina Michea al suo conterraneo Amos.

Secondo momento: RESTAURAZIONE DI UN RAPPORTO AUTENTICO CON DIO (6,1‐8). La denuncia però non è fine a se stessa, ma tende a riportare tra il popolo un ideale etico, fondato su un corretto rapporto con Dio. È quanto Michea annuncia nell’oracolo di 6,1‐8.22 L’oracolo è nella sua forma attuale una controversia bilaterale (in ebraico rîb) e si presenta con la struttura caratteristica di questo genere letterario, che forse ha integrato linguaggi provenienti da al‐tri generi letterari, come l’oracolo di giudizio (vv. 2‐5) e la tôrāh liturgica (vv. 6‐8). Abbiamo tre parti: I. vv. 1‐2 Dio proclama la controversia II. vv. 3‐5 accusa III. vv. 6‐8 soluzione con sentenza finale

22 SPREAFICO, La voce di Dio, 269‐277.


Nella prima parte (6,1‐2) si convocano i testimoni, che sono monti e colline, perché ascoltino e in‐tervengano come accusa nella controversia che Dio fa contro il suo popolo. Il ruolo dei testimoni non è quello del giudice esterno, ma quello dell’accusatore.

61Ascoltate dunque ciò che dice il Signore: «Su, illustra la tua causa ai monti e i colli ascoltino la tua voce!». 2Ascoltate, o monti, il processo del Signore, o perenni fondamenta della terra, perché il Signore è in causa con il suo popolo, accusa Israele.

v. 1 – Il verbo «ascoltare» (šāma‘) esprime l’appello del profeta che invita l’uditorio a prestare at‐tenzione a quanto YHWH sta per dire. È un invito che altre volte introduce gli oracoli profetici (cfr. Is 1,2.10; 7,13; 28,14; Am 3,1.13; 4,1; 5,1). Esso non è una ripetizione esteriore, ma indica l’atteggia‐mento essenziale che il popolo deve avere davanti alla parola di Dio annunciata dai profeti. Secon‐do Geremia e la letteratura deuteronomista il non ascolto di YHWH, della sua parola o dei profeti, sta alla base del tradimento dell’alleanza (cfr. Nm 14,22; Gs 5,6; Gdc 2,17.20; Ger 7,26.28; 13,11; 35,17). L’ascolto apre le porte alla fede. Se accettiamo la proposta di Alonso Schökel di tradurre rîb con «convocare a giudizio», il senso del testo è molto lineare: il Signore invita il profeta a convocare i testimoni della controversia, i monti e le colline. Il profeta è l’intermediario dell’intervento divino contro il suo popolo. È lui che si alza per iniziare il processo. È la sua voce che i testimoni devono ascoltare. Il profeta appare come la voce di Dio nella storia, colui che invita il cosmo a unirsi a lui nella difesa di Dio e della sua opera. Crea‐zione e storia si uniscono per testimoniare la giustizia di Dio. v. 2 – Inizia a parlare il profeta, che invita i monti e i fondamenti della terra ad ascoltare la contro‐versia. L’ascolto ha una funzione essenziale in un processo, dove Dio per mezzo del profeta invoca l’intervento dei testimoni in genere cosmici, ma anche umani: il cielo e la terra (Dt 32,1; Is 1,2; Sal 50,4‐6), il cielo (Ger 2,12), la terra (Ger 6,19), le nazioni pagane (Ger 2,10; 6,18). Nella controversia bilaterale tra Dio e il suo popolo i testimoni non hanno il ruolo di giudici esterni, ma sono chiamati in causa per mostrare l’innocenza‐giustizia di Dio. Il cosmo è perlopiù un testimone silenzioso nel processo, ma c’è una forza implicita nella sua presenza che viene dall’essere opera di Dio. Qui i testimoni sono «monti» e «fondamenti della terra». Si indica una dimensione spaziale vertica‐le, che chiama in causa soprattutto gli elementi del globo terrestre, mentre «cielo e terra» farebbe‐ro pensare più all’universo nella sua totalità. La sottolineatura terrestre forse si collega alla dimen‐sione storica della salvezza, come viene enunciata nei vv. 4‐5. I due termini «controversia» (sostantivo rîb) e «fare una causa» (verbo yākaḥ) sono termini tecnici all’interno della «controversia giuridica bilaterale». Cfr. nei testi profetici per rîb Is 1,17; 3,13; 19,20; 27,8; 51,22; Ger 2,9.29; 12,1; Os 2,4; 4,1.4; 12,3; Mic 7,9; per yākaḥ Is 1,18; Os 4,4. Essi pos‐sono essere usati sia per l’accusa che per la difesa. Nel nostro testo, anche se abbiamo tradotto con «controversia» e «causa», lo scopo dell’intervento divino è chiaro: si tratta di un’accusa, che verrà esplicitata nei versetti seguenti, il cui oggetto è Israele. Forse l’uso di «mio popolo» fa pensa‐re al rapporto di alleanza con Dio, tipico rapporto bilaterale. Dio si è impegnato con Israele in un modo del tutto particolare. Nella controversia bilaterale l’intervento di Dio nei confronti del suo popolo, la sua accusa, non è quella di un giudice esterno, ma di una parte in causa.

Nella seconda parte (6,3‐5) Dio accusa il suo popolo. L’accusa non è diretta, né riguarda peccati so‐ciali o cultuali. Essa si fonda su una retrospettiva storica, in cui Dio ricorda al suo popolo tutto quanto egli ha operato nella sua storia. Il riferimento è all’esodo dall’Egitto nella sua estensione storico‐geografica: Egitto‐deserto‐terra. La storia testimonia a favore di Dio, perché manifesta la sua giustizia‐innocenza (v. 5).


63«Popolo mio, che cosa ti ho fatto? In che cosa ti ho stancato? Rispondimi. 4Forse perché ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, ti ho riscattato dalla condizione servile e ho mandato davanti a te Mosè, Aronne e Maria? 5Popolo mio, ricorda le trame di Balak, re di Moab, e quello che gli rispose Balaam, figlio di Beor. Ricòrdati di quello che è avvenuto da Sittìm a Gàlgala, per riconoscere le vittorie del Signore».

vv. 3‐5 – Rispetto alla struttura normale di una controversia dovrebbe trovarsi a questo punto l’accusa. Ma il posto dell’accusa è occupato da una retrospettiva storica, introdotta da una doman‐da che suona come un’accusa o un invito a Israele a rendere ragione del suo comportamento. YHWH parla per bocca del profeta in prima persona e chiama in causa il suo popolo come partner dell’alleanza; infatti lo chiama «mio popolo». Non dimentichiamo che la formula dell’alleanza suo‐na: «Tu sei il mio popolo e io sono il tuo Dio». Il Signore chiede a Israele un giudizio sul suo com‐portamento, quasi che Dio potesse aver agito male nei suoi confronti. La traduzione «testimonia contro di me» è senza dubbio da preferire alla traduzione della Cei «rispondimi» (cfr. l’uso del ver‐bo in questo senso in Es 20,16; Nm 35,20; 1Sam 12,3s; 2Sam 1,16; Is 3,9). L’invito di Dio rientra nel linguaggio giuridico della controversia bilaterale: Israele è invitato a portare le prove contro il com‐portamento di Dio per dimostrarne la colpevolezza. Ma YHWH non aspetta la parola del suo popolo. Le prove della sua innocenza sono scritte nella sto‐ria e diventano un’accusa contro il popolo stesso. Quali sono queste prove? Sono i suoi atti salvifici nei confronti di Israele. La retrospettiva storica percorre due momenti dell’esodo: l’uscita dall’Egit‐to e l’ingresso nella terra. L’uscita è introdotta da una formula nota: «Ti ho fatto salire dal paese d’Egitto» (cfr. Am 2,10; 9,7; Es 17,3; 33,1; Nm 16,3; Gs 24,17; Gdc 6,8; 1Sam 10,18; ecc.). Si è di‐scusso con risultati diversi e persino opposti sul rapporto di questa formula con quella che utilizza il verbo «uscire» invece di «salire» (cfr. Es 12,51; 13,9.14; 16,6; 18,1; Dt 7,8; ecc.) e sulla rispettiva antichità. Ad essa segue una specificazione, che qualifica l’Egitto come «casa di schiavitù», usando un altro termine caro alle tradizioni del Pentateuco, soprattutto a quella deuteronomista. Lo stesso si può dire del verbo «liberare» (pādāh; cfr. Dt 7,8; 13,6; 15,15; 24,18). L’uscita dall’Egitto ha impli‐cato un movimento nello spazio verso la terra e insieme è stata una liberazione dalla schiavitù. Queste azioni sono opera di Dio e contrastano implicitamente con l’atteggiamento di Israele. Più difficile è qualificare la presenza dei tre personaggi Mosè, Aronne e Miriam, che all’interno del‐lo sviluppo dello schema dell’esodo appaiono come una novità. Alcuni pensano che essi indichino il tempo del deserto e non l’uscita dall’Egitto. Tuttavia Mosè e Aronne sono considerati insieme in relazione all’uscita dall’Egitto (cfr. Gs 24,5; 1Sam 12,6.8; Sal 105,26). La menzione di Miriam con‐ferma che la loro presenza è in relazione all’uscita dall’Egitto. Di lei si parla per la prima volta in Es 15,20‐21 a proposito del passaggio del mare. Nel deserto essa appare nell’episodio della ribellione contro Mosè (Nm 12,1.4.5.10.15; Dt 24,9). Altrove si parla della sua morte e della sua nascita (Nm 20,1; 26,59; 1Cron 5,29). Ma, dato il senso positivo di Mic 6,4b, il ricordo di Miriam non si può rife‐rire alla ribellione contro Mosè, bensì deve riferirsi a Es 15,20‐21. Nella sua menzione si vuole per‐ciò ricordare l’ultimo atto dell’uscita dall’Egitto, il passaggio del mare. I due personaggi seguenti, Balak e Bileam, si collocano invece all’interno di quei testi che parlano dell’inizio della penetrazione nella terra di Canaan da parte delle tribù uscite dall’Egitto (cfr. Nm 22–24; Gs 24,8‐13). Sittim e Galgala indicano il momento dell’ingresso nella terra, cioè la traversata del Giordano: Sittim è il punto di partenza, Galgala quello di arrivo (cfr. Gs 2,1; 3,1ss). Perché questo modo di parlare dell’esodo, dove si dà in maniera inconsueta un ruolo così determi‐nante ad alcuni personaggi? Infatti anche dal punto di vista dello sviluppo dello schema essi ne so‐no al centro, collocati tra il luogo di partenza, l’Egitto, e quello di arrivo, Sittim e Galgala. La centra‐lità dei personaggi mostra che il profeta intende l’esodo come opera di YHWH, ma anche di uomini da lui inviati («ho mandato», dice l’inizio del v. 4b). All’interno della controversia bilaterale questi uomini hanno la funzione di testimoni che, al contrario di Israele, riconoscono l’innocenza di YHWH. L’azione di YHWH si conclude infatti con la proclamazione delle «giustizie di YHWH»: la giustizia‐


innocenza di YHWH si manifesta attraverso le sue opere e la testimonianza di coloro che egli ha in‐viato. In particolare nella struttura dei vv. 3‐8 è al centro la figura di Bileam, come ho già mostrato. Bi‐leam, rispondendo a Balak, riconosce con la benedizione di Israele l’opera e la presenza di YHWH e la sua giustizia‐innocenza di fronte a Balak. Perciò l’introduzione dello schema dell’esodo nella con‐troversia non è solo l’autodifesa di YHWH e un’accusa al suo popolo, ma, attraverso la presenza di Mosè, Aronne e Miriam, e soprattutto di Bileam (in opposizione a Balak), è l’indicazione ad Israele della richiesta di YHWH e della sua innocenza.

La terza parte (6,6‐8) contiene la conclusione della controversia in due momenti: a) vv. 6‐7, è la ri‐sposta del popolo; b) v. 8, è la risposta di Dio. Tra le due risposte c’è un netto contrasto, espresso dal «piuttosto» del v. 8, che si presenta come la sentenza di Dio, verbalizzata dal verbo «annuncia‐re».

66«Con che cosa mi presenterò al Signore, mi prostrerò al Dio altissimo? Mi presenterò a lui con olocausti, con vitelli di un anno? 7Gradirà il Signore migliaia di montoni e torrenti di olio a miriadi? Gli offrirò forse il mio primogenito per la mia colpa, il frutto delle mie viscere per il mio peccato?». 8Uomo, ti è stato insegnato (higghîd) ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia (‘ăśôt mišpāṭ), amare la bontà (’ahăbat ḥesed), camminare umilmente (haṣnēa‘ leket) con il tuo Dio.

vv. 6‐7 – Il popolo interviene per rispondere alla requisitoria di YHWH. Israele riconosce il suo pec‐cato e quindi l’innocenza di Dio, ma la sua risposta percorre le vie tradizionali della religione: come meglio ricostituire l’alleanza tradita se non offrendo olocausti e sacrifici? D’altra parte era questa l’indicazione della legge: la comunione con Dio, interrotta dal peccato, si ricostituisce mediante un atto rituale che avviene nel culto. Basta leggere il rituale dei sacrifici contenuto in Lev 1–7, che, an‐che se di formulazione redazionale recente, contiene senza dubbio prescrizioni che parzialmente devono risalire già al periodo del primo tempio. Si nominano due tipi di sacrifici: l’olocausto (vv. 6b‐7a) e il sacrificio per il peccato (v. 7b). Il linguag‐gio è paradossale e tende a mostrare la generosità dell’offerente, che non lesina su ciò che deve of‐frire, tanto da essere disposto persino a offrire il primogenito se questo fosse gradito a Dio e ser‐visse quindi per riconciliarsi con lui.23 v. 8 – Dio tuttavia dà la sua risposta al tentativo di riconciliazione proposto dal popolo. Il verbo «annunciare» (higghîd, la forma hifîl di ngd) introduce la proclamazione di qualcosa di pubblico: la risposta di YHWH è la soluzione della controversia. Il verbo è alla terza persona e non ha quindi per soggetto esplicito YHWH; inoltre l’annuncio non si rivolge solo a Israele, ma ha come riferente l’uomo (’ādām). Sembra che l’autore voglia presentare la sentenza come universale e come stabili‐ta da Dio per tutto il genere umano. La norma che viene enunciata, introdotta dal pronome indefi‐nito «che cosa», è la risposta all’intera controversia, che era iniziata con lo stesso pronome ma con senso interrogativo (cfr. la struttura). Essa ha un valore etico, poiché riguarda ciò che viene consi‐derato «buono», e religioso, in quanto corrispondente alla richiesta esplicita di YHWH («ciò che YHWH chiede da te»). La sentenza inizia con una opposizione, indicata da «piuttosto» (kî ’im), alla proposta di soluzione avanzata da Israele nei vv. 6‐7. C’è anche un rapporto con il v. 3 nella ripetizione del verbo «fare» (‘āśāh): YHWH non aveva «fatto» al suo popolo se non azioni salvifiche manifestando così la sua giu‐stizia, l’uomo dal canto suo dovrà «fare» diritto e amore della benevolenza. Proviamo a soffermarci sui tre contenuti del «fare». Il primo è «fare diritto» (‘ăśôt mišpāṭ). La composizione del rapporto con Dio non avviene mediante l’olocausto, ma attraverso la pratica del diritto, termine che indica l’applicazione della giustizia nella sua dimensione concreta e storica.

23 Cfr. per i vari tipi di sacrifici la spiegazione di R. DE VAUX, Le istituzioni dell’Antico Testamento, Marietti, Torino

1964, 404‐411.


L’espressione «fare diritto» è usata per Dio (cfr. Gen 18,25; Ger 9,23...), per il re (2Sam 8,15; 1Re 3,28; 10,9; Ger 22,3.15; 23,5: Messia re; ...), per l’uomo (Ger 5,1; 7,5...). Essa è innanzitutto un compito insito nella funzione stessa di governo, sia essa espressa da Dio, dal re, dai capi o dai giu‐dici: si tratta dell’applicazione della giustizia in tutte le sue implicazioni concrete. Qui essa viene ri‐chiesta a tutti come una dimensione etica essenziale per mantenersi in comunione con Dio. La con‐trapposizione tra offerta di sacrifici cultuali e pratica del diritto e della giustizia o più generalmente tra culto e giustizia è presente in altri testi profetici, come Is 1,10‐20; 58; Ger 7,1‐15; Ez 22,1‐16; Os 6,1‐6; Am 4,1‐5; 5,1‐27; 6,1‐14. Essa non significa il rifiuto della pratica cultuale o la dichiarazione della sua inutilità, quanto piuttosto l’affermazione che il culto senza giustizia non è gradito al Signo‐re, quindi è inutile. Così bisogna intendere anche il testo di Michea. Il secondo contenuto del «fare» è espresso mediante la giustapposizione inconsueta di due termi‐ni, che ho tradotto con «amore della benevolenza» (’ahăbat ḥesed). La traduzione è un tentativo di interpretare due parole ebraiche che sono in se stesse molto pregnanti e difficilmente esprimibili in modo univoco, soprattutto la seconda (ḥesed). Il profeta si sforza indubbiamente di esprimere un sentimento del tutto particolare di condiscendenza, di amore, di benevolenza, di bontà, di at‐tenzione verso gli altri. Di solito il binomio più comune è ḥesed we’ĕmet, benevolenza e verità: cfr. Gen 24,49; 47,29; Es 34,6; Gs 2,14; 2Sam 2,6: Os 4,1; ...). Questo sentimento o meglio atteggia‐mento, nel senso che «benevolenza» (ḥesed) è un termine concreto, sembra essere per il profeta innanzitutto quello di YHWH: «amore della benevolenza» si intende amore della stessa benevolenza di Dio verso gli uomini in genere e il suo popolo in particolare, quale si era espresso nella storia. In questo senso la «benevolenza» ha i tratti concreti della storia. L’uomo e Israele devono amare que‐sto atteggiamento di fondo di Dio, se vogliono essere in comunione con lui. Il terzo contenuto del «fare» consiste nel «camminare umilmente» (haṣnēa‘ leket) con Dio. L’implicita testimonianza di Israele contro il suo Dio e l’affermazione della propria innocenza sono segni di presunzione e di orgoglio. Altre volte i profeti denunciano l’orgoglio come un peccato radi‐cale dell’uomo, che stravolge il rapporto con Dio. Basta scorrere fra tutti il testo di Is 2,11‐18:

«L’uomo abbasserà gli occhi orgogliosi, l’alterigia umana si piegherà; sarà esaltato il Signore, lui solo in quel giorno. Poiché ci sarà un giorno del Signore degli eserciti contro ogni superbo e altero, contro chiunque si innal‐za ad abbatterlo; contro tutti i cedri del Libano alti ed elevati, contro tutte le querce di Basan, contro tutti gli alti monti, contro tutti i colli elevati, contro ogni torre eccelsa, contro ogni muro inaccessibile, contro tutte le navi di Tarsis e contro tutte le imbarcazioni di lusso. Sarà piegato l’orgoglio degli uomini, sarà abbassata l’alterigia uma‐na; sarà esaltato il Signore lui solo in quel giorno e gli idoli spariranno del tutto».

Ma si potrebbe citare anche Ger 9,22‐23 o Sof 3,11‐13. Tra l’altro in Ger 9,23 la vera sapienza si presenta come la conoscenza del Signore, che è colui che «fa benevolenza, diritto e giustizia». An‐che l’uomo può vivere gli stessi atteggiamenti di Dio se accetta di camminare umilmente con lui, se riconosce il suo bisogno di Dio. La lezione di Michea è di grande saggezza. Egli indica una via che si conclude con l’accettare di vive‐re umilmente con il proprio Dio e che sancisce la comunione con lui; ma questa via è all’origine di atteggiamenti e sentimenti in cui l’uomo rispecchia l’amore stesso di Dio e la sua giustizia.

Terzo momento: L’ATTESA DI UN FUTURO PACIFICO è fondata per Michea più sull’intervento divino che sull’auspicato cambiamento umano: «Io rivolgo lo sguardo al Signore, spero nel Dio della mia sal‐vezza, il mio Dio mi esaudirà» (7,7). Quest’attesa sorpassa la semplice salvezza per concentrarsi sul salvatore:

51E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti. 2Perciò Dio li metterà in potere altrui fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele. 3Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio. Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra. 4Egli stesso sarà la pace! Se Assur entrerà nella nostra terra e metterà il piede nei nostri palazzi,


noi schiereremo contro di lui sette pastori e otto capi di uomini, 5che governeranno la terra di Assur con la spada, la terra di Nimrod con il suo stesso pugnale. Egli ci libererà da Assur, se entrerà nella nostra terra e metterà piede entro i nostri confini.

In questo testo emergono tre «figure» molto interessanti e anche un po’ misteriose: la «partorien‐te», il «dominatore di Israele» e la borgata di «Betlemme di Efrata». La «partoriente». La citazione di questa donna «partoriente» che deve partorire è una rilettura del famoso oracolo di Is 7,14: «Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele». Quanto tale rilettura sia opera del profeta Michea stesso oppure delle successive riletture è assai difficile stabilirlo. Se ci trovassimo in un punto di «contatto» molto antico tra due profeti? La figura della donna che concepisce e genera può essere messa in relazione alle narrazioni di nascite straordinarie da grembi sterili dei cicli patriarcali. Ve‐diamo dunque affiorare sotto la profezia di Isaia e di Michea tutta una rete di riferimenti sia alla storia patriarcale, sia al contesto della monarchia davidica, nella linea del rinnovarsi dell’intervento stupefacente di Dio in relazione alla nascita di una nuova vita. Possiamo in sintesi pensare per il personaggio della «partoriente» due livelli interpretativi: quello storico (la «ragazza» della corte che, pur in un contesto di guerra e contrasto, genera un principe ereditario) e quello figurale (un personaggio enigmatico di «partoriente» che rimanda ai cicli patriarcali e ai «parti» eccezionali ivi narrati), quest’ultimo contesto riluce nel testo di Michea. Tanto il primo quanto il secondo livello esplicitano una situazione «nuova» carica di attesa e speranza, ma attestano che tale novità si ge‐nera dal di dentro di una situazione difficoltosa ove le promesse di Dio appaiono disattese. È evi‐dente dunque la proiezione in chiave messianica e apocalittica di questo personaggio. Il «dominatore di Israele». Siamo di fronte in questo caso a una figura assai più complessa. Il môšēl di Israele ha un indubbio richiamo alla dinastia davidica, chiamata a governare, secondo la narra‐zione deuteronomista, Giuda e l’intero Israele. Questa annotazione però ci porta al tempo del re Giosia, il re giusto per eccellenza, il bambino la cui nascita al trono è celebrata in Is 9,1‐6. Siamo dunque in uno stadio decisamente successivo all’epoca storica di Michea. L’emistichio iniziale «da te uscirà per me» ricorda Is 11,1, in cui si parla di un germoglio che «uscirà» dal «tronco di lesse» (cf. anche Is 6,13), ma anche il testo per certi versi «fondativo» della casata davidica 2Sam 7,12‐13: «Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri, io susciterò un tuo discen‐dente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile il trono del suo regno per sempre». La scelta del termine môšēl, «dominatore», piuttosto che quella di melek, «re», ci permette però di formulare l’ipotesi che que‐sto oracolo non sia più legato a un periodo in cui è operante la dinastia davidica, si tratterebbe dunque del periodo postesilico in cui la speranza in un discendente della dinastia reale è venuta meno, ma non la fiducia nelle promesse di Dio che dunque vengono proiettate nel futuro in una figura messianica. Venuta meno anche questa speranza, cioè di ricostituire una monarchia auto‐noma, il profeta eleva il discorso a un livello metastorico. Esso è segnato «dai giorni più remoti» nel piano di Dio. Siamo così già alle soglie dell’apocalittica. La borgata di «Betlemme di Efrata». La terza «figura» è il luogo dal quale trarrà origine questo «dominatore». L’aggiunta di «Efrata» e l’aggettivo «piccola» mostra una chiara allusione all’origine modesta della casata davidica e insieme all’origine «non evidente» di questo «dominatore», il qua‐le però (come appare dai vv. 3‐5) potrà governare con una «grandezza» che proviene dal Signore, nel diritto e nella giustizia, «egli stesso sarà la pace!» (cf. Is 9,6). Abbiamo così un quadro completo circa la rilettura messianica dell’oracolo isaiano dell’Emmanuele: non un nuovo re (così come si configura in Is 7,14) ma un condottiero che farà trionfare le promesse di Dio su Israele.

Concludendo, L’alternarsi di giudizio (capp. 1–3 e 5,8–7,7) e salvezza (capp. 4,1–5,7 e 7,8‐20) rivela l’identità del Dio che punisce e del Dio che salva. Entrambe le unità del testo cominciano con il giudizio, probabilmente in entrambi i casi a partire dal profeta dell’VIII secolo, ed entrambe culmi‐nano con le promesse di restaurazione che riflettono una circostanza successiva e un’esigenza suc‐cessiva della comunità. Queste successive visioni di restaurazione con carattere di promessa non


sono del profeta dell’VIII secolo, ma sono un prodotto della tradizione, che ha plasmato la forma definitiva del libro di Michea.

Bibliografia scelta su Michea

RINALDI G. ‐ LUCIANI F., Michea, in I profeti minori, vol. 3, Marietti, Torino‐Roma 1969, 1‐46. BERNINI G., Osea, Michea, Nahum, Abacuc, Paoline, Roma 1970, 219‐353. MAILLOT A. ‐ LELIÈVRE A., Attualità di Michea, Paideia, Brescia 1978. FANULI A., Osea, Michea, Queriniana, Brescia 1984, 145‐181. NICCACCI A., Un profeta tra oppressori e oppressi. Analisi esegetica del capitolo 2 di Michea nel piano generale del libro,

Franciscan Printing Press, Jerusalem 1989.

LIMBURG J., I dodici profeti. Parte prima: Osea, Gioele, Amos, Giona, Abdia, Michea, Claudiana, Torino 2007, 219‐267. Il libro dei Dodici Profeti: Michea e Naum, in Parole di Vita 54 (2009/4) 4‐28. SCAIOLA D., Abdia, Giona, Michea (Nuova versione della Bibbia dai testi antichi 15), San Paolo, Cinisello Balsamo 2012,

81‐153.

INTRODUZIONE GENERALE AL LIBRO DI ISAIA*

Sono probabilmente molto poche le persone che hanno letto tutto di seguito il libro di Isaia; nes‐suno forse. La brevità di certi oracoli, i frequenti cambiamenti di tematica, la difficoltà inerente alla poesia esigono una lettura riposata. Immaginiamo però una lettura rapida, senza pause. Un buon conoscitore della storia di Israele si sentirebbe sorpreso. Il titolo del libro gli indica che Isaia operò durante il regno di Ozia, Iotam, Acaz ed Ezechia, cioè approssimativamente negli anni 767‐698. Giunto al cap. 6 nota che la vocazione ha luogo l’anno della morte di Ozia; con ciò la precedente panoramica si riduce agli anni 740‐698. Con un po’ di buona volontà potrebbe inserire in questa epoca numerosi testi dei primi 39 capitoli. Il lettore sente parlare dei re menzionati all’inizio: Ozia, Acaz, Ezechia e di altri personaggi contem‐poranei: Pekach di Samaria, Rezìn di Damasco, Sargon d’Assiria, ecc. Giuda e Israele appaiono come regni indipendenti coinvolti nei gravi problemi politici della seconda metà del secolo VIII. L’Assiria è la potenza dominante. Vi sono chiari riferimenti alla guerra siro‐efraimita, alla caduta del regno del Nord, all’assedio di Asdod, all’invasione di Sennacherib. A partire dal capitolo 40 il lettore si vede però sommerso in un mondo differente: per due volte viene menzionato Ciro (44,28; 54,1), re persiano della metà del secolo VI; e si esorta il popolo a «uscire da Babilonia» (48,20; cfr. 52,11; 55,12) e intraprendere il ritorno a Gerusalemme. Ci tro‐viamo, senza dubbio, negli anni dell’esilio babilonese, un secolo e mezzo dopo la morte di Isaia; a partire poi dal capitolo 56 si ha l’impressione di trovarsi di nuovo a Gerusalemme, immersi nella problematica degli anni successivi all’esilio. Se quest’ipotetico lettore avesse al tempo stesso sensibilità letteraria e buona conoscenza dell’ebraico, avvertirebbe notevoli differenze stilistiche. Nella prima parte (1–39), sebbene non sempre, lo stile è terso, solenne e misurato; l’autore si rivela buon poeta, amante della brevità e della concisione, con alcuni finali lapidari. Nella seconda parte (40–55) lo stile è più retorico, caldo e appassionato; l’autore ama le ripetizioni, le enumerazioni dettagliate. Sviluppa in formule qua‐ternarie, con molti sinonimi; costruisce poco e le immagini sono meno rigorose. Nella terza (56–66) restiamo entro lo stile della seconda parte, ma con l’impressione di un livello poetico meno eleva‐to, salvo onorevoli eccezioni. D’altra parte, alle differenze di stile e situazioni storiche si aggiungono quelle di indole teologica: la teologia della storia viene sviluppata in misura molto maggiore nei capitoli 40– 66; lo stesso avvie‐ne per quanto riguarda l’immagine di Dio creatore, senza paralleli nei capitoli 1–39; il concetto di «resto» è diverso; le differenze tra il salvatore di cui si parla in 9,1‐6 e 11,1‐9 rispetto al servo di Dio (52,13–53,12) sono talmente notevoli che difficilmente lo stesso autore può aver creato entrambe le figure. Non possiamo dire nemmeno che i capitoli 40– 66 offrano una teologia totalmente omo‐genea. In 56–66 incontriamo un maggior interesse per il culto, vengono concepiti in modo diverso tanto il problema dell’apostasia quanto la visione escatologica. Per molti secoli si è pensato che queste differenze storiche, letterarie e teologiche non facessero problema per l’attribuzione dell’intero libro al profeta Isaia. Questi poteva aver dominato i generi più diversi e aver scritto in tutti gli stili possibili: da una poesia energica e concisa ai poemi sovrac‐carichi e barocchi, passando per la prosa più comune. Quanto alla conoscenza del lontano futuro, di situazioni e persone che sarebbero sorte soltanto secoli più tardi (si pensi al caso di Ciro) la solu‐zione era facile: Dio poteva rivelare al profeta quanto sarebbe avvenuto secoli dopo. Quanto alle differenze teologiche, si poteva accettarle come stadi successivi di una rivelazione divina in via di completamento.

* L. ALONSO SCHÖKEL ‐ J. SICRE DIAZ, I profeti, Borla, Roma 1984, 97‐100; G. CAPPELLETTO ‐ M. MILANI, In ascolto dei profe‐

ti e dei sapienti. Introduzione all’Antico Testamento. Vol. II, Edizioni Messaggero, Padova 2010, 83‐87.

64 Il profeta Isaia e il suo libro

In un’epoca poco critica queste soluzioni artificiose risultavano convincenti. Soltanto autori molto antichi, come Mosè ben Samuel Ibn Gekatilla nel secolo XI d.C., o il suo continuatore Ibn Ezra nel secolo XII, attribuirono la prima parte al profeta Isaia e la seconda all’epoca postesilica. Nell’investigazione critica del libro di Isaia vi sono due date chiave: il 1788, quando Döderlein1 co‐mincia a parlare di un Deuteroisaia, profeta anonimo dei tempi dell’esilio cui attribuisce i capitoli 40–66; e il 1892, anno in cui Duhm2 pubblica il suo commentario a Isaia e spezza la supposta unità dei capitoli 40–66 attribuendoli a due autori diversi: 40–55 al Deuteroisaia e 56–66 al Tritoisaia. Da allora in poi è abituale dividere il libro di Isaia in tre grandi blocchi: Protoisaia o I Isaia (capitoli 1–39); Deuteroisaia o II Isaia (capitoli 40–55); Tritoisaia o III Isaia (capitoli 56–66), parlando però soltanto di due profeti concreti: Isaia, quello del secolo VIII, il cui messaggio è conservato nei capi‐toli 1–39; e il Deuteroisaia, profeta dell’esilio, cui dobbiamo i capitoli 40–55. La terza parte (56–66) non va attribuita a un profeta concreto ma ad una serie di profeti, a una scuola postesilica. D’altra parte, se dalla fine del sec. XVIII l’impegno della critica biblica si incentra sul dividere e di‐stinguere grandi blocchi, gli ultimi anni rivelano lo sforzo diverso di organizzare e riunire tali bloc‐chi.3 Senza dubbio, le diverse sezioni del libro di Isaia non costituiscono dei compartimenti stagni, o massi erratici che si sono aggiunti pian piano a un nucleo originario in modo puramente casuale. Diverse immagini e temi attraversano tutto il libro, stabilendo fra le sue parti una profonda relazio‐ne. In questo senso rivestono particolare interesse i punti di contatto tra il capitolo iniziale e i due capitoli finali; dimostrano uno sforzo degli editori, che spesso passò inavvertito a molti critici. Il collegamento formale tra le parti è dato dalla presenza di: * tematiche comuni, come la gloria del «Santo di Israele» (6,3; 47,4; 48,17; 49,7) che si manifesta su tutta la terra (6,3), su Gerusalemme (35,2), sugli esiliati (40,5; 42,12) e sui rimpatriati (60,1‐3; 62,2; 66,18) ora come giudizio (1,4; 5,19.24; ecc.), ora come salvezza (41,14.16.20) e ora come glo‐rificazione (60,9‐14); * sviluppi di pensiero, come quello riguardante il Messia: è un re bambino della stirpe di Davide (cc. 7; 9; 11), che assume poi le caratteristiche di profeta sulla linea di Mosè (Dt 18,18) e di profeta sof‐ferente, ma vittorioso e benedetto da Dio (i «Canti del Servo» e 61,1‐3); * richiami che scandiscono le tappe dell’intero libro, come il consolare che chiude i primi dodici ca‐pitoli (12,1), apre la seconda parte (40,1) e alla fine designa Dio stesso come il consolatore (51,12; 66,13); o come la presenza di Sion/Gerusalemme nei momenti cruciali del testo (1,8; 12,6; 40,2.9; 52,1‐2; 60,14; 62,7.11). L’insieme di questi elementi induce a ritenere che il progetto teologico dell’attuale libro del profeta Isaia parta da un nucleo originario che si incontra nella pagina che narra l’esperienza di Isaia al momento della vocazione (cf. 6,1‐11[13]) che celebra la regalità di YHWH e la sua santità e si con‐centri attorno alla dialettica «peccato‐castigo/liberazione‐salvezza» per Sion/Gerusalemme e tutti i popoli (inclusione tra i cc. 1–2 e i cc. 65–66). Tale dinamismo interno alla storia umana (presente in 7,1–8,18) vede, alla fine, il netto prevalere della «salvezza/redenzione» operata dal «Santo di Israe‐le» attraverso il suo «messia/consacrato» (re‐profeta sofferente) e si sperimenta come «giustizia», cioè come perdono del peccato (cf. 1,4.18; 40,2; 55,6‐7; 57,17‐18; 63,10‐16; 64,4‐8; 66,24). E que‐sto sia in una prospettiva storica (perché Dio è il «Dio con noi» [8,10], il «tuo redentore» [41,14]; il «padre nostro» [63,16]), sia come attesa escatologica perché Dio è anche colui che farà «nuovi cie‐li e nuova terra» (65,17). Appare così evidente che la storia del popolo di YHWH e dell’umanità si sviluppa secondo un piano che trascende i dinamismi delle forze intramondane e, proprio per que‐sto, non riflette solo un progetto umano, ma proviene dal Signore ed è espressione del suo eterno disegno.

1 J. C. DÖDERLEIN, Auserlesenen theologischen Bibliotek, vol. IV/8, Leipzig 1788, 554‐579. 2 B. DUHM, Das Buch Jesaja, Göttingen 1892. 3 Cfr. G. BENZI ‐ S. PAGANINI, «Dal centro agli estremi. Dinamiche sincroniche e diacroniche dell’intero libro di Isaia», in

Studia Patavina 61 (2014) 123‐140.

Il profeta Isaia e il suo libro 65

Conclusione. Nell’attuale libro di Isaia si intrecciano, richiamandosi e approfondendosi: * azione di Dio negli avvenimenti storici nazionali e internazionali e prospettiva escatologica (teo‐logia della storia); liberazione dal peccato attuale del popolo ebraico (annuncio del perdono) e ri‐creazione di tutto il creato (teologia della creazione); * attenzione alla situazione socio‐religiosa del popolo ebraico (particolarismo) e apertura a tutti i popoli, chiamati a convenire verso Sion/Gerusalemme (universalismo); * centralità di Sion‐Gerusalemme e presenza del re, con funzioni salvifiche nazionali e universali (messianismo regale e profetico); * opera salvifica di Dio (redenzione) e apporto dell’uomo inteso come conversione (ascolto della parola) e adesione al suo progetto (esperienza di fede autentica), atteggiamenti capaci di superare ogni forma di ingiustizia sociale e politica (giustizia e diritto), di contrastare la propaganda dell’ido‐latria pagana e di evitare di costruirsi un dio su misura (religiosità fondata in YHWH). Tutto «questo farà lo zelo del Signore degli eserciti» (9,6) per preparare la via alla venuta del suo Figlio, Gesù di Nazaret, proclamato Messia‐Cristo dai cristiani. Può essere applicato in modo speci‐fico a Isaia quanto afferma l’apostolo Pietro dei profeti in genere: «A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome» (At 10,43). Infatti, l’intero libro di Isaia, che riporta testi nati dall’VIII al V secolo, è il cuore della Bibbia e l’anello di congiunzione fra le tradizioni risalenti all’epoca patriarcale e la pienezza che si realizza in Gesù di Nazaret. Costituisce pertanto la più valida introduzione al mistero di Cristo, intravisto nei molti testi messianici e illustrato dalle numerose citazioni neotestamentarie. La ricchezza di lin‐guaggio, di immagini e di contenuto che emerge dall’insieme del libro del profeta Isaia costituisce un pressante invito al lettore a rileggere e meditare più volte i testi isaiani, che sono tra le pagine più belle della Bibbia.

IL PROTO‐ISAIA E IL SUO LIBRO (IS 1–39)*

1. LA PERSONA DEL PROFETA

Pochi sono i dati in nostro possesso sulla vita intima di Isaia. Dovette nascere intorno al 760, duran‐te il regno di Ozia. Suo padre si chiamava Amos, ma non c’è motivo per identificarlo col profeta di Tekòa. Il luogo di nascita, anche se non lo sappiamo con certezza, dovette essere Gerusalemme. Isaia dimostra una cultura che difficilmente potrebbe aver conseguito fuori della capitale. Questa origine gerosolimitana è importante, perché il futuro profeta crescerà in mezzo a tradizioni religio‐se che ne condizioneranno il messaggio: l’elezione divina di Gerusalemme e della dinastia davidica. Due realtà, la capitale e la monarchia, con cui Dio si era impegnato sin da tempi remoti. A differen‐za del suo contemporaneo Osea, profeta del Nord, Isaia baserà gran parte della sua fede e della sua predicazione su questi due pilastri. Non in modo superficiale, acritico, ma deducendo da essi le più gravi conseguenze per il suo momento storico. Ancora piuttosto giovane ricevette la vocazione profetica «nell’anno della morte del re Ozia» (6,1). Risulta difficile datare con esattezza questo avvenimento. Le opinioni oscillano fra il 747 e il 735, anche se attualmente la maggioranza è incline a pensare che Ozia sia morto nel 740‐739. Isaia avrebbe avuto allora circa vent’anni. L’esperienza della vocazione lo apre a un mondo nuovo. Dalle verità tradizionali, dalla pietà giovanile, passa a captare il grande piano di Dio rispetto al suo popo‐lo. Il racconto della vocazione lo ha forse scritto soltanto anni più tardi, quando fissa gli oracoli rife‐riti alla guerra siro‐efraimita; in ogni modo, ci rivela la sua profonda esperienza in quel momento. Seguendo il filo del racconto (Is 6) possiamo concretizzare questa esperienza in quattro punti: 1) santità di Dio, 2) coscienza del peccato (personale e collettivo), 3) necessità di un castigo e 4) spe‐ranza della salvezza. Questi quattro temi, uniti alle tradizioni di Sion e della dinastia davidica, devo‐no esser tenuti presenti per comprendere a fondo la predicazione di Isaia. Alcuni commentatori pretendono di eliminare la speranza della salvezza, come qualcosa di aggiunto successivamente ed estraneo alla prospettiva isaiana; ma a noi questo sembra un procedere ingiustificato, che mutila gran parte del messaggio del profeta. Poco dopo la vocazione dovette contrarre matrimonio. Igno‐riamo il nome di sua moglie che in un’occasione egli chiama semplicemente «la profetessa» (8,3). Di qui alcuni deducono che si trattasse di una autentica profetessa, come Culda; altri credono che essa ne ricevesse il titolo solo perché sposata con il profeta. Totalmente assurda e ingiustificata è l’opinione accettata da un autore secondo cui «profetessa» equivarrebbe a prostituta del tempio. Da questo matrimonio nacquero almeno due figli, cui Isaia mise nomi simbolici, Seariasùb (šeār yāšûb, «un resto tornerà»)1 e Mahèr‐salàl‐cash‐baz (mahēr šālāl ḥāš baz, «lesto al saccheggio, pronto al bottino»). Seguì in ciò la stessa condotta di Osea, dimostrando che tutta l’esistenza del profeta è al servizio del messaggio affidatogli da Dio. Nulla possiamo dire della sua vita intima. Non conosciamo nemmeno la data della sua morte, che dovette essere successiva al 701. La tradizione giudaica raccolta nel Talmud ce lo riferisce assassi‐nato da Manasse, che ordinò di tagliarlo a metà con una sega; pure raccolta da Giustino, Tertullia‐no e Girolamo, questa tradizione manca però di fondamento. Il carattere di Isaia si può sufficientemente conoscere attraverso la sua opera. È un uomo deciso, senza false modestie, che si offre volontariamente a Dio nel momento della vocazione. Questa stessa energia egli dimostra anni più tardi, quando deve affrontare re e politici, fallendo nei suoi continui tentativi di convertire il popolo: non si lascia mai abbattere e, se tace per alcuni anni, non

* ALONSO SCHÖKEL – SICRE DIAZ, I profeti, 101‐123. 1 La traduzione di šeār yāšûb è molto discussa: «Un resto tornerà», «Il resto tornerà», «Il resto che torna», ecc. Il

difficile è sapere se il nome vada inteso come promessa o come minaccia.

Il Proto‐Isaia e il suo libro (Is 1–39) 67

è per sconforto. Proprio questo lo fa apparire a volte quasi insensibile, mentre si dovrebbe parlare piuttosto di forte controllo delle proprie passioni. Si è detto che Isaia è un personaggio aristocratico, politicamente conservatore, nemico di rivolte e di profondi cambiamenti sociali; sul suo preteso carattere aristocratico ha forse influito la tradizio‐ne che lo presenta nipote del re Amasìa. Nulla di ciò ha un serio fondamento. Che il profeta sia nemico dell’anarchia e la consideri un castigo appare evidente (si veda 3,1‐9), ma ciò non significa che egli appoggi la classe alta. Dai suoi primi poemi (1,21‐26) fino agli ultimi oracoli (28,7ss), i maggiori attacchi sono rivolti contro i gruppi dominanti: autorità, giudici, latifondisti, politici; è ter‐ribilmente duro e ironico con le donne della classe alta di Gerusalemme (3,16‐24; 32,9‐14); e quando difende qualcuno con passione non si tratta degli aristocratici, ma degli oppressi, degli or‐fani e delle vedove (1,17), del popolo sfruttato e traviato dai governanti (3,12‐15). Come scrittore è il classico grande poeta, padrone di una singolare maestria stilistica che gli per‐mette di variare originalmente un tema. Di fine sensibilità, ama la brevità e la concisione con alcuni finali lapidari. Appare in lui, più che in altri profeti, la classica distanza tra l’esperienza o rivelazione e la realizzazione letteraria: apprezziamo nei suoi poemi una distanza senza indifferenza, un senso costruttivo dinamico ma non appassionato, dove l’emozione solo affiora leggermente. Nella sua predicazione al popolo sa essere incisivo, con immagini originali e recise che scuotono per imme‐diatezza.

2. ATTIVITÀ PROFETICA DI ISAIA

I compilatori e gli editori del libro di Isaia non si scomodarono a ordinare cronologicamente il ma‐teriale, né distinsero tra oracoli autentici e non autentici. In questo modo, ricostruire l’attività pro‐fetica di Isaia è un’avventura appassionante, ma in molti casi poco sicura. Si dubita, per esempio, che due famosi testi «messianici» (9,1‐6 e 11,1‐9) siano del profeta; fra i difensori dell’autenticità alcuni li datano all’anno 732 e altri dopo il 701. I risultati sono molto diversi, secondo che ci si at‐tenga all’una o all’altra delle tre ipotesi. In ogni modo, crediamo che valga la pena di affrontare il problema, in quanto mette in rilievo il carattere concreto e storico della parola di Dio e dell’attività di Isaia. Nel corso di queste pagine cercheremo di chiarire quali dati siano sicuri e quali meramente probabili. Divideremo l’attività di Isaia in quattro periodi, conformemente alle linee generali dei re‐gni in cui è vissuto (Iotam, Acaz, minore e maggiore età di Ezechia).

IL RACCONTO DELLA VOCAZIONE DI ISAIA: IS 6,1‐13*

Il racconto della vocazione, scritto alcuni anni dopo l’evento, in un linguaggio «regale» o di corte finalizzato a legittimare la missione, dovrebbe trovarsi, come avviene in Geremia ed Ezechiele all’inizio del libro. La collocazione attuale è comunemente spiegata come introduzione preposta fin dall’origine ai cc. 6,1–9,5, con i quali esistono più legami: corrispondenza tra il re Ozia morto (6,1) ed Ezechia intronizzato (9,5‐6); uso dell’appellativo «questo popolo» (6,5.9. 19; 8,6.11.12) diverso dalla formula del patto («mio popolo»); menzione di una devastazione e distruzione (6,11‐13a; 7,6.8b.22.24; 8,23b).

I. La struttura

Il brano è variamente suddiviso dagli studiosi. Più rispettosa del testo appare una divisione triparti‐ta:

* B. MARCONCINI, Il racconto della vocazione (Is 6,1‐13), in B. MARCONCINI (a cura di), Profeti e apocalittici. Seconda

edizione rinnovata (Logos 3), Leumann (TO) 2007, 275‐284.

68 Il Proto‐Isaia e il suo libro (Is 1–39)

1. teofania (vv. 1‐5) 2. consacrazione (vv. 6‐7) 3. missione (vv. 8‐13) La teofania è chiaramente delimitata da un’inclusione tra i vv. 1 e 5: «io vidi il Signore / i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti». La duplice menzione del nome divino ai versetti estremi richiama l’attenzione sul v. 3a (proclamazione del tre volte santo). Si corrispondono in forma chia‐stica i vv. 1b e 4b:

I lembi del manto riempivano il tempio (hêkāl) / La casa (bayit) si riempiva di fumo.

Decisivi risultano il v. 3b («tutta la terra [kol hā’āreṣ] è piena della sua gloria») e la rispondenza tra tempio/terra/casa da una parte e dall’altra lembi/gloria/fumo. È sottolineata pertanto la santità, la gloria e la pienezza divina evidenziate dallo schema ternario che ritorna senza appesantire: le tre coppie di ali dei serafini (due per coprirsi la faccia, due per i piedi, due per volare), il «trisagio» (santo, santo, santo), la triplice reazione del profeta (sono perduto, sono impuro, abito con impuri) danno al testo una eccezionale musicalità. Mondo divino e umano sono diversi, eppure si richia‐mano e si compenetrano. Risulta evidente pertanto che il v. 5 appartiene alla visione che include la reazione dell’uomo. Tutti gli elementi convergono nell’evidenziare la teofania, nella quale Dio è rappresentato come re, secondo un’antica concezione teologica e cultica della divinità in tutto il Medio Oriente. La consacrazione, che consta di un’azione simbolica (il toccare il labbro da parte dei serafini) e di una dichiarazione, è strettamente collegata alla prima parte dal tema delle labbra:

5b Sono un uomo dalle labbra impure / 7a Questo ha toccato le tue labbra

Si può notare come il ritmo ternario del v. 5 (sono perduto, sono impuro, abito con impuri) – cer‐niera tra le due parti – prosegue nel v. 6 (uno dei serafini volò, toccò, disse) e nel v. 7 (questo ha toccato, è scomparsa, è espiata). La missione è introdotta dal verbo «e udii» (v. 8), corrispondente al «e vidi» del v. 1. Sono indivi‐duabili due parti formate ciascuna da tre versetti (vv. 8‐10 e 11‐13) piuttosto che da quattro + due (vv. 8‐11 e 12‐13). Si passa infatti: – da un interesse sull’uomo dei vv. 8‐10 a un’attenzione rivolta all’ambiente nei vv. 11‐13; – da un vocabolario che evidenzia l’indurimento totale del popolo (cuore, orecchi, occhi) a termini

che parlano di devastazione, deserto, desolazione ulteriormente illustrata dall’immagine vege‐tale;

– da inizi che si richiamano (e udii... e dissi...) a finali che si contrastano dialetticamente (da una conversione come possibilità perduta alla prospettiva di un futuro salvifico per il resto);

– l’inizio e la fine delle due parti principali hanno sempre la stessa persona: io vidi – io dissi (vv. 1.5) / io udii – io dissi (vv. 8.11), mentre la parte intermedia ha la terza persona (v. 6: uno dei se‐rafini volò).

Questa struttura unisce maggiormente il v. 13 ai precedenti, quale vertice di tutto il racconto. Il v. 12 invece, per il cambio di persona, per la novità di vocabolario e per l’allusione all’esilio, è proba‐bilmente un’inserzione posteriore. Esiste pertanto un movimento in attenuazione che parte dalla tragicità dell’indurimento totale, si porta sulle conseguenze esterne e si chiude con un raggio di speranza nell’annuncio di un resto salvato.


II. Analisi del testo

a) La teofania

61Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. 2Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali: con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi e con due volava. 3Proclamavano l’uno all’altro, dicendo: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria». 4Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. 5E dissi: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti».

v. 1: Il racconto inizia con un’annotazione temporale che colloca nella storia del popolo la manife‐stazione di YHWH. La morte nel 740 del re Ozia o Azaria (cfr. 2Re 15,1‐7), il cui regno più che qua‐rantennale fu caratterizzato da pace esterna e prosperità interna, segna una nuova e creativa mani‐festazione divina: dopo questo evento l’uomo, singolo e comunità, non è più lo stesso. L’evento è riportato attraverso il comune verbo «vedere» (rā’āh). YHWH (da preferire al termine ’ădōnāy per il parallelismo con il v. 5) è interpretato dal Targum «gloria del Signore» (cfr. Gv 12,41), attenuando così la forza del testo. Il verbo «vedere» con molto realismo indica percezione della presenza di una persona, superamen‐to di una distanza, un’esperienza mistica quale ponte tra l’eternità e il tempo. Su tutte le altre sfu‐mature prevale la percezione fisica, per cui «vedere Dio» non può essere inteso come atto pura‐mente spirituale in opposizione alla percezione sensibile; la sua origine non va ricercata nell’evento cultuale; il suo punto di riferimento era là dove Israele sperimentava l’azione di Dio a suo favore: nella storia. Alla verità di non poter vedere Dio (Es 33,23; cfr. Gv 1,18) fanno eccezione alcuni privi‐legiati, come Abramo (Gen 18,1) e Mosè (Dt 34,10). Le immagini per tradurre questa visione sono il fuoco (Es 3,2; 24,17; Dt 4,36), i metalli preziosi e lucenti (Es 24,10), lo splendore/gloria che rivela o la nube che nasconde (Es 16,10; 40,34.38; Nm 17,7; 1Re 8,10ss). Isaia ricorre all’immagine di un manto di cui si indica la parte inferiore, sotto i fianchi, non solo l’orlo. Il termine śûlîm, nel senso di veste femminile, è presente in Ger 13,26; Lam 1,9; Na 3,5 e sa‐cerdotale in Es 28,33; 39,24. Poiché la veste è unita allo splendore e alla lucentezza (cfr. Sal 104,2‐3; Ez 1,27) e nel nostro testo è in parallelo con fumo (variante della nube nel culto), l’immagine del manto lascia intendere una manifestazione di luce, segno della trascendenza connotata dalla figura umana non delineata che si perde nell’immensità dei cieli. Il tempio è quello terrestre come si de‐sume dal vocabolo del v. 4 (bayit), un termine inusitato per il tempio celeste. Il trono alto ed eleva‐to, in relazione a quello di Salomone (cfr. 1Re 10,18), connota una figura regale. Il versetto afferma la trascendenza assoluta di Dio, mentre la parte più sacra della terra, il tempio, è appena sfiorata non da Dio stesso, ma da una sua manifestazione luminosa.

v. 2: Il nome dei serafini (letteralmente «i brucianti» da śārāf) allude alla capacità trasformante e purificante di Dio, verso cui esprimono prontezza nell’eseguire gli ordini, riverenza e rispetto con quel coprirsi la faccia e i piedi (cioè il sesso; cfr. Es 4,25; Is 7,20). Dato il loro aspetto umano, non è ammissibile la tesi che i serafini siano in rapporto coi serpenti del deserto (Nm 21,6; cfr. Dt 8,15), con il śārāf che guariva il popolo (Nm 21,8), con il neḥuštān (2Re 18,4) abbattuto nel tempio da Ezechia e con quel dragone volante di cui fa menzione il libro di Isaia (14,29). Si distinguono inoltre dagli esseri viventi di Ezechiele (1,5ss), statici e sostenitori del trono. Nominati solo da Isaia, met‐tono in risalto la regalità di Dio e, in quanto ne costituiscono la corte, sono vicini all’esercito del cie‐lo che sta intorno al Signore, a destra e a sinistra, nella visione di Michea figlio di Imla (1Re 22,19; cfr. Ger 23,18.22; Zac 1,11.14; Sal 89,6‐9; Gb 2,1; Dan 7,10). Il testo non parla del loro numero: se ridotti a due, sono da intendere piuttosto come capi di cori alternati.


a. La santità divina vv. 3‐4: La Biblia Hebraica suggerisce la possibilità che «santo» sia detto una sola volta, mentre 1QIsa lo riporta due volte: conseguentemente qualche esegeta ha parlato di una geminazione «pie‐tosa» e di una trigeminazione quale «lectio conflata». Resta tuttavia preferibile la triplice ripetizio‐ne, attestata anche altrove (cfr. Ger 7,4; 22,29; Ez 21,32), fondata su altre testimonianze testuali e accettata dalla maggioranza degli studiosi. Il grido (qôl), il fumo/nube, il terremoto («tremavano gli stipiti») danno risalto ai due singolari titoli divini. L’aggettivo qādôš, santo, indica l’aspetto numinoso e trascendente, affascinante e terribile, attraen‐te e terrorizzante, mirabile, di gran valore. A questa santità ontologica, che esige sottomissione, è strettamente collegata la santità morale, l’assenza di ogni macchia e imperfezione, che esige l’imitazione (cfr. Lev 17,27; 19,2: «siate santi, perché io il Signore Dio vostro sono santo»). YHWH è pertanto diverso dalla natura impura (ṭamē’) del profeta, incapace di porgere un annuncio divino al popolo egualmente impuro. Questa esperienza porterà Isaia a prediligere l’appellativo «santo d’Israele», frequente in tutto il libro (1,10; 5,19, ecc.). Il titolo YHWH ṣebā’ôt, che ricorre 267 volte nell’AT, a partire da Isaia esprime la sovranità assoluta del Signore sul cosmo e sulla storia. È difficile precisare ulteriormente se ṣebā’ôt sia da intendere come genitivo o attributivo, quindi se il titolo equivalga a «YHWH degli eserciti», oppure «YHWH bel‐licoso», anche se per quest’ultima interpretazione fa difficoltà la frequenza con cui la formula è usata nei profeti. Gli eserciti possono essere quelli di Israele (1Sam 17,45) in collegamento con l’arca quale santuario militare; oppure le schiere cosmiche (astri, angeli, demoni, l’intera creazio‐ne): ṣebā’ôt è da intendere forse come un astratto di intensità, traducibile con «il Signore onnipo‐tente» (cfr. il theós pantocrátōr dei LXX) che ha il trono sui cherubini (1Sam 4,4; 2Sam 6,2). Il titolo prediletto da Isaia ricompare con frequenza in Geremia e poi in Aggeo, Zaccaria e Malachia, ma è inspiegabilmente assente in Ezechiele e nel Terzo Isaia.

b. La gloria Kābôd, gloria, è la manifestazione della santità divina nel cosmo: «Pienezza di tutta la terra è la sua gloria». La santità e la maestà invisibile e inaccessibile del Signore è resa visibile dalla gloria, realtà distinta, ma non separata da Dio. Il canto dei serafini segna un progresso nella rivelazione: la pre‐senza divina finora limitata nel tempo e nello spazio (al Sinai, nel tempio) è annunciata come realtà universale, senza confini. Dal senso originario di «avere peso» e quindi valore, maestà, onore, ‘glo‐ria’ è da intendere qui e altrove (Sal 57,6; 19,2) come quell’aspetto dell’agire di YHWH che l’uomo può riconoscere e nel quale egli stesso diventa visibile nella sua potenza. Tanto valore tende ad es‐sere riconosciuto. Poiché il peccato dell’uomo costituisce un impedimento, Is 6,3 esprime un au‐spicio e una speranza.

v. 5: Il profeta è assalito da timore mortale per due motivi che si assommano: ho visto il Signore, sono impuro. Il perfetto nidmêtî (da dāmāh, nifal) dal senso originario di «restare immobile», «ces‐sare di far qualcosa» richiama il morire e il tacere. Le labbra sono ricordate, sia in relazione al noto realismo biblico di indicare l’organo esterno per connotare l’intimo dell’uomo (cfr. la confusione del labbro di Gen 11), sia in rapporto alla missione profetica costituita dal parlare: Isaia condivide la si‐tuazione del suo popolo che non solo ha peccato, ma è peccato.

b) La purificazione

66Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. 7Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato».

vv. 6‐7: L’azione simbolica ha una capacità espressiva intermedia, tra la più semplice di Geremia che riceve sulle labbra la parola (1,9) e quella impressionante di Ezechiele, a cui è chiesto di man‐giare il rotolo (3,2). L’efficacia purificante del contatto con Dio è illustrata con tutto il vocabolario disponibile: il serafino (il cui etimo significa bruciare) in movimento (volò, toccò, disse), il fuoco, il


cui carattere distruttivo e purificatorio è aumentato in quanto fuoco dell’altare, il peccato espresso sia con il termine che significa delitto, crimine, offesa contro Dio e la sua legge (‘āwôn), sia dal vo‐cabolo indicante colpa che esige una pena (ḥaṭṭā’t), e soprattutto le forme verbali toccare (nāga‘), scomparire (sûr), espiare (kippēr). Quest’ultimo verbo, in particolare, evoca il rito dell’espiazione (Lev 16) e suggerisce che Dio resta libero di rispondere alla domanda di perdono dell’uomo, inca‐pace da solo di ristabilire relazioni positive con lui. L’offerta di qualcosa proporzionato al peccato, una rinuncia o un sacrificio, è qui sostituita dal riconoscimento sincero, senza attenuanti, del pro‐prio peccato.

c) La missione

68Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!». 9Egli disse: «Va’ e riferisci a questo popolo: “Ascoltate pure, ma non comprenderete, osservate pure, ma non conoscerete”. 10Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendilo duro d’orecchio e acceca i suoi occhi, e non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore né si converta in modo da essere guarito». 11Io dissi: «Fino a quando, Signore?». Egli rispose: «Fino a quando le città non siano devastate, senza abitanti, le case senza uomini e la campagna resti deserta e desolata». 12Il Signore scaccerà la gente e grande sarà l’abbandono nella terra. 13Ne rimarrà una decima parte, ma sarà ancora preda della distruzione come una quercia e come un terebinto, di cui alla caduta resta il ceppo: seme santo il suo ceppo.

v. 8: La parola di Isaia diventa efficace, perché parola di uno che è «inviato», come esprime il voca‐bolario tecnico della missione («mandare»/«andare»): si sente capace, perché qualcuno lo ha reso tale. Il «per noi» più che segno della maestà divina è da collegare al genere letterario di corte (il sovrano si consulta e decide con i suoi ministri) comune alle religioni orientali, particolarmente ugaritica. Nella sua risposta Isaia si mostra deciso come Abramo (Gen 12,4), non incerto come Mo‐sè (Es 4,10) o Geremia (1,6).

a. Un messaggio sconvolgente

vv. 9‐10: L’appellativo «questo popolo» (6,10; 8,6.12; 9,15; 28,11.14) segnala l’attuale distacco da Dio il quale evita la formula del patto «mio popolo» (3,12; 10,2). Siamo di fronte a uno dei testi più difficili della Bibbia: il profeta sembra inviato a intensificare con la sua parola questo distacco, ad approfondire l’abisso del peccato (cfr. Is 59,2). Il comando è espresso con due imperativi rafforzati da due infiniti assoluti:

šime‘û šāmôa‘: «ascoltate attentamente».

Invito a partecipare con tutto l’essere, non solo ad aprire le orecchie; re’û rā’ô: «osservate attentamente».

Esortazione a leggere in profondità gli eventi della storia, il cui senso resta nascosto al popolo (Dt 29,3). I due verbi sono gli stessi usati per l’esperienza del profeta che ha visto (vv. 1.5) e udito (vv. 3.4.8). Anche per il popolo sembra aprirsi la stessa possibilità toccata a Isaia. La conseguenza dovrebbe essere positiva: «Ascoltate attentamente (šime‘û šāmôa‘) e mangerete cose buone; ascoltate e vi‐vrete» (55,2‐3). L’effetto invece è negativo: seguono due imperativi, sia pure nella forma attenuata (con ’al): gli ascoltatori non raggiungono né l’intendere (bîn), né il conoscere (yāda‘). Questi verbi sono uniti dalla congiunzione «e», da non tradurre con un’avversativa che attenua il paradosso. La mancata comprensione non deriva infatti dalla difficoltà del messaggio, ma dal cuore indurito, come precisa il v. 10 che contiene un comando diretto al profeta. I tre imperativi in hifîl esprimono lo stesso concetto: il comando di rendere insensibili gli ascoltatori al messaggio tra‐smesso dal profeta, di impedire che percepiscano l’azione di Dio nella storia, in una parola l’ordine di provocare l’indurimento, cioè la chiusura di tutto l’essere alla rivelazione. La drammaticità dell’ordine è sottolineata dalla scelta dei verbi sinonimi adatti a ognuno dei tre organi: la sede


dell’intelligenza e dei sentimenti, il cuore, è appesantita con il grasso (šāman), l’orecchio è reso du‐ro e pesante (kābēd), l’occhio è accecato (hāša‘). La frase è costruita con un efficace parallelismo chiastico: cuore‐orecchi‐occhi / occhi‐orecchi‐cuore. Se viene meno la capacità interiore di comprensione, anche i sensi esterni perdono la loro funzio‐ne. La finale del versetto sottolinea in modo impressionante l’effetto negativo e chiarifica le imma‐gini mediante l’introduzione di due categorie nuove, la conversione (šûb) e la salute (rāfā’). Come spiegare questa difficoltà teologica (un comando a rifiutare il messaggio salvifico!) che Simmaco, la versione siriaca e i LXX hanno attenuato, trasformando gli imperativi in aoristi (epachýnthē, baréōs ēkousan, ekámmysan)? Si è cercato frequentemente di rispondere con la teoria della permissione. La parola del profeta non sarebbe la causa neppure parziale dell’indurimento, ma l’occasione che accentua il rifiuto di un cuore già indurito. Lo scopo della missione raggiungerebbe una finalità positiva, in quanto ma‐nifesterebbe l’ostinazione finora nascosta nel cuore dell’uomo. Ciò sarebbe conforme con il pensie‐ro comune della Bibbia che non distingue tra permissione e volontà, attribuendo direttamente a Dio l’intero sviluppo della vicenda, come quando si legge che «Dio indurì il cuore del faraone» (Es 4,21; 9,35). Altri si limitano a vedervi la previsione di un rifiuto a convertirsi: essa è comunicata in anticipo al profeta che si assume il grave incarico di parlare, pur sapendo di non essere ascoltato. Tale esito negativo è parzialmente intravisto in base alla legge psicologica per cui la ripetizione di atti tende a stabilizzare un comportamento: l’abitudine a disattendere gli ammonimenti di Dio ren‐de insensibili al suo agire. Permissione e previsione non spiegano a sufficienza il testo isaiano per due motivi, letterario e teo‐logico. Le due spiegazioni riducono infatti gli imperativi a indicativi, non considerano a sufficienza la totalità del rifiuto, trascurando l’efficacia che il parlare di Dio ha per la salvezza dell’uomo. La Pa‐rola infatti conserva sempre il suo valore dinamico e creativo, senza mai ridursi a pura passività. Come obiettivo della missione l’indurimento appare inverosimile; esso va letto sia come frutto di un ordine divino che come rifiuto del popolo alla predicazione del profeta. L’indurimento, quale opera divina e non solamente come eventualità nei rapporti umani, è presente in numerosi testi biblici (Gdc 9,23; 1Sam 16,14; 18,10; 19,9; 1Re 12,15; 22,19‐22 e poi Is 19,14; 29,10), anche se non unificabili in un pensiero coerente. La novità della concezione isaiana sta nel fatto che la Parola è efficace non solamente nell’ambito esterno, ma anche nell’intimità del cuore umano e la sua effi‐cacia consiste nel rigetto della parola di YHWH che chiama alla salvezza. Se la prima cosa che (Isaia) ha da dire è l’annuncio dell’accecamento di Israele, essa non è però l’ultima. La parola sull’indurimento è all’inizio di una storia salvifica che alla fine vedrà l’uomo prendere co‐scienza del suo errore, anche se costretto in qualche modo dalle tragiche conseguenze subìte. Pro‐vocare l’indurimento è positivo (cfr. 8,17) per il fatto che la salvezza è possibile solo in base all’accettazione della Parola. Poiché attualmente il popolo la rifiuta, non resta che sperare in una futura accettazione che scaturisce dalle tristi conseguenze della distanza da Dio: prima l’uomo toc‐ca il fondo del male, prima si salva. Bisogna arrivare al punto zero perché alla fine il popolo com‐prenda che solo la morte può essere il passaggio verso una nuova vita. L’indurimento rivela para‐dossalmente l’interesse di Dio per l’uomo: nel momento della sventura egli riconoscerà il giusto giudizio di Dio. Non sarebbe meglio allora che Dio tacesse? Un evento tragico vissuto da soli porta alla disperazione, ma se è illuminato dalla Parola che lo carica di senso estende al popolo l’esperienza di vita attraverso la morte già fatta dal profeta.

b. La sopravvivenza di un resto

vv. 11‐13a: Sono preannunciate delle conseguenze sociali dell’indurimento: devastazione, depor‐tazione, distruzione. Ciò si verificò totalmente per il regno del Nord con la fine di Samaria nel 722 e parzialmente per il Sud nelle quattro invasioni assire, specialmente nell’assedio del 701, che, al di là di ogni previsione, non raggiunse conseguenze più tragiche. L’annuncio è illustrato con un’imma‐


gine tratta dal regno vegetale, di una quercia abbattuta di cui resta solo il ceppo. La decima parte potrebbe indicare il regno di Giuda (cfr. 2Sam 19,44).

v. 13b: zera‘ qōdeš maṣṣabtāh. Il problema fondamentale è di sapere se quest’ultimo stico conti‐nua il tema della distruzione o introduce improvvisamente un filo di speranza, annunciando la sal‐vezza del resto. Decisivo è il senso da attribuire a maṣṣebāh2. Se è intesa come stele cultica in pie‐tra, si tratta allora di una realtà esecranda, proprio l’opposto dell’idea biblica di resto. La distruzio‐ne sarebbe pertanto totale e una salvezza sarebbe possibile solo se il popolo ripercorresse l’esperienza del profeta, riconoscendo giusto il castigo ricevuto e lasciandosi consumare dal fuoco divino (cfr. 6,5.7): questo però il testo non lo annuncia, né lo prevede. È tuttavia possibile sostene‐re l’interpretazione comune, che vede l’idea di un resto, attestato d’altronde in tutto il libro: la pre‐senza di «santo» nei vv. 3.13 favorisce questa linea interpretativa. maṣṣebāh infatti, può significare anche stemma regale in conformità a testi egiziani, nei quali pietra e albero non si oppongono. Il concetto di continuità della dinastia è presente poi in Is 11,1, sebbene con altri termini, quali ger‐moglio (ḥōṭer) e virgulto (nēṣer). La distruzione non sarà totale, poiché rimarrà un resto. Alla fine risuona la voce della speranza, in un prolungarsi immaginifico non molto logico: il ceppo si trasfor‐ma in seme. Il resto che sopravvive alla catastrofe diventa seme di un popolo santo, consacrato al Signore. Il capitolo della vocazione del profeta si apre alla speranza. Resta aperto il problema se questa aggiunta sia stata fatta da Isaia stesso – come è probabile – o in seguito.

2.1. DURANTE IL REGNO DI IOTAM (740‐734)

È questa un’epoca di discreta prosperità economica e di indipendenza politica, minacciata soltanto negli ultimi anni. Ma, anche se tutto sembra andar bene, Isaia, come già anni prima Amos nel re‐gno del Nord, rivela una situazione molto difficile; d’accordo con la maggioranza dei commentatori troviamo il suo messaggio di questo periodo nei capitoli 1–5 (anche se vi sono testi posteriori del profeta e della sua scuola), in 9,7‐20 e in 10,1‐4. A preoccupare Isaia, in questi primi anni, è soprat‐tutto la situazione sociale e religiosa. Egli constata numerose ingiustizie, arbìtri dei giudici, corru‐zione delle autorità, cupidigia dei latifondisti, oppressione dei governanti; si pretende di maschera‐re tutto ciò con una falsa pietà e abbondanti pratiche religiose (1,10‐20). Isaia reagisce in modo energico: Gerusalemme ha cessato di essere la sposa fedele, per trasformarsi in una prostituta (1,21‐26); la vigna curata da Dio non produce che frutti amari (5,1‐7). D’altra parte il lusso e il benessere hanno provocato l’orgoglio di certi settori del popolo, manifesta‐to a volte in forma superficiale e infantile, come nel caso delle donne (3,16‐24), ma che in alcune occasioni porta a una dimenticanza reale e assoluta di Dio, come se egli avesse meno importanza dell’uomo. A ciò il profeta risponde con il magnifico poema di 2,6‐22, in cui si osserva l’enorme im‐patto prodotto in lui dall’esperienza della santità di Dio al momento della vocazione. È difficile sintetizzare l’atteggiamento di Isaia dinanzi a questa problematica così varia. Vi predomi‐na la denuncia, lo scuotere le coscienze degli uditori perché si rendano conto che la loro situazione non è così rosea come pensano. Di conseguenza egli sviluppa ampiamente il tema del castigo (2,6‐22; 3,1‐9; 5,26‐29; ecc.), in cui non si riflette però esattamente l’atteggiamento di Isaia in questo periodo. Poiché il suo principale interesse è che l’uomo si converta (1,16‐17; 9,12) che pratichi la giustizia, che si mostri umile davanti a Dio. Il suo profondo desiderio non è che Gerusalemme ven‐ga rasa al suolo, ma che torni ad essere una città «fedele». Denuncia e annuncio del castigo sono subordinati a questo profondo cambiamento nel popolo di Dio.

2 La variante di Qumrān che legge nel penultimo stico miššalleket bemāh anziché bešalletet bām ha indotto, troppo

affrettatamente, a vedervi designato un insieme completo cultuale composto di albero sacro, querce e pilastro sacro (cfr. S. IWRY, Massebah and Bamah in 1QIs 6,13, in JBL 76 [1957] 225‐232). In realtà bemāh, anziché particolare luogo di culto, può equivalere a bām ampliato di h nel pronome personale.


2.2. DURANTE IL REGNO DI ACAZ (734‐727)

La situazione di benessere e fiducia si vide minacciata negli ultimi anni di Iotam dai preparativi di Damasco e Samaria contro Gerusalemme, che sarebbero sfociati più tardi nella guerra siro‐efraimita. L’atteggiamento di Isaia dinanzi a tale guerra è stato spesso male interpretato. Si afferma che Isaia si è opposto alla richiesta di aiuti rivolta da Acaz a Tiglat‐Pilèzer III. Tuttavia il profeta non menziona mai questo fatto, né lo dà per scontato. Decisamente, Isaia si oppone al timore del re e del popolo di fronte alla minaccia nemica. Un’attenta lettura dei testi conferma quest’idea. Fin dall’inizio si dice che «il cuore di Acaz e del popolo si agitò come si agitano gli alberi del bosco» (7,2). Per questo Isaia gli intima: «Non temere, non avvilirti» (7,4). Alla fine di questi oracoli torna a insistere sull’idea del timore (8,12‐13). In defi‐nitiva per Isaia l’alternativa non si pone tra il «credere» e il «chiedere aiuto» ma tra il «credere» e il «temere». Perché Isaia respinge il timore in modo così energico? Perché esso suppone la sfiducia in Dio, che si è impegnato con Gerusalemme e con la dinastia davidica. Suppone che si dia maggiore importanza ai piani di Rezìn e di Pekach («due pezzi di tizzoni fumiganti») che non alle promesse di Dio. Suppo‐ne, in definitiva, il disperare che Dio sia col suo popolo. Davanti a tale posizione Isaia difende non un atteggiamento quietista, come a volte si è detto, ma una politica basata sulla fede. Umanamente si tratta di qualcosa di molto duro. Poiché questa presenza di Dio in mezzo al suo popolo si manifesta in forma mansueta e soave, come l’acqua di Siloe (8,6), viene indicata dalla na‐scita di un essere debole, qual è un bambino (7,14). Poca cosa per allontanare il timore, ma non c’è altra alternativa: «Se non credete, non sussisterete» (7,9b). Si comprende allora la strana succes‐sione di promesse e minacce che incontriamo in questi capitoli. Dio, che si è impegnato col suo popolo, decide la rovina di Damasco e Samaria (7,7.16; 8,4; forse 8,9‐10). Scontrandosi però con la mancanza di fede, annuncia anche un castigo (7,17‐25; 8,5‐8). In quest’epoca il messaggio di Isaia oscilla tra i due poli, a volte con un equilibrio quasi perfetto tra salvezza e condanna. La chiave interpretativa di queste affermazioni, apparentemente contraddittorie, la troviamo forse in 8,18: «Io e i miei figli, quelli che il Signore mi diede, saremo segni e presagi per Israele, come te‐stimonianza e istruzione». Entra qui in gioco il valore dei nomi simbolici. Isaia (yeša‘yāhû) significa «Dio salva»; Seariasùb (šeār yāšûb) «un resto tornerà»; Mahèr‐salàl‐cash‐baz (mahēr šālāl ḥāš baz) «lesto al saccheggio, pronto al bottino». Quest’ultimo si riferisce senza dubbio al castigo di Dama‐sco e Samaria (cfr. 8,1‐4). Seariasùb fa riferimento a un castigo purificatore di Giuda, a un «resto» (non a tutto il popolo) che si salverà e tornerà al Signore. Isaia significa, al di sopra del castigo e della purificazione, l’eterno impegno di Dio col suo popolo. Quanto alla successione cronologica degli oracoli di questo periodo, si ammette generalmente che i capitoli 7–8 conservino abbastanza bene il loro ordine. All’intervento del profeta rivolto al re (7,1‐17, accompagnato forse dalle minacce di 7,18‐25, anche se alcuni versetti sembrano posteriori), farebbero seguito l’azione simbolica di 8,1‐4 e la minaccia di 8,5‐7(8). Risulta difficile datare 8,9‐10. Dopo il fallimento il profeta ha l’esperienza riflessa in 8,11‐15, che lo porta a sigillare la propria te‐stimonianza (8,16‐18). In ogni caso sembra che Isaia sia rimasto in silenzio negli anni successivi fino alla morte di Acaz.

2.3. DURANTE LA MINORE ETÀ DI EZECHIA (727‐715)

Nell’anno 727 muore Tiglat‐Pilèzer e gli succede Salmanassàr V. Nello stesso anno muore Acaz e gli succede Ezechia. Ha solo cinque anni, e del governo si incarica un reggente di cui ignoriamo il no‐me. A questi anni, in cui Giuda rimane al margine di alleanze e ribellioni contro l’Assiria, possiamo datare con sicurezza soltanto due oracoli di Isaia. Il primo è rivolto contro la Filistea che, contenta della morte di Tiglat‐Pilèzer, invita Giuda alla ribel‐lione (14,28‐32). Isaia ripete nuovamente che la salvezza è nel Signore e che l’uomo deve confidare


nelle promesse di lui. Il reggente e il popolo devono aver dato retta a Isaia, poiché nulla suggerisce una ribellione di Giuda. Il secondo oracolo (28,1‐4) si riferisce alla ribellione di Samaria (724). Il profeta attacca duramente questa decisione dei Samaritani e minaccia la rovina della città.

2.4. DURANTE LA MAGGIORE ETÀ DI EZECHIA (714‐698)

Nel corso di vent’anni Giuda è vissuto tranquillo, pagando un tributo all’Assiria. Nel 714 sale però al trono Ezechia, all’età di diciotto/diciannove anni. Mosso da desideri di riforma religiosa e di indi‐pendenza politica, si mostrerà propenso a immischiarsi nelle rivolte; cosa che interessa anche le grandi potenze rivali dell’Assiria (Babilonia ed Egitto). Due testi lo lasciano intravedere con suffi‐ciente chiarezza. Il primo (Is 39) ci riferisce che Merodach‐Bàladan, re di Babilonia, invia un’ambasciata a Ezechia per congratularsi della sua miracolosa guarigione (sull’infermità del re si veda Is 38). Sarebbe però in‐genuo pensare che Merodach‐Bàladan sia molto preoccupato della salute di Ezechia. Il suo intento è di farsi un alleato in vista della ribellione. Il testo non lo dice chiaramente, ma lo insinua indican‐do che Ezechia mostrò agli ambasciatori tutti i suoi tesori, come per dimostrare di esser pronto alla guerra. Isaia condanna tale atteggiamento e predice la perdita dei tesori in questione (39,3‐8), il che avverrà dodici anni più tardi. Il secondo testo (18,1‐6) ci dimostra che anche l’Egitto era inte‐ressato a fomentare la ribellione. Questa tuttavia non sarà condotta a termine da nessuna delle grandi potenze, ma dalla piccola cit‐tà di Asdòd nel 713‐711. Come sempre, risulta difficile sapere quali testi raccolgono la predicazione di Isaia in questo momento. La maggior parte degli studiosi vede un chiaro riferimento alla ribellio‐ne di Asdod nel cap. 20. Si tratta di un’azione simbolica di lunga durata, in cui il profeta annuncia il fallimento dei Filistei ridicolizzando la vana speranza che essi ripongono nell’Egitto. Di fatto gli Egi‐ziani non si presentarono nemmeno alla battaglia. Sargon II realizzò una rapida campagna contro Asdod, Gaza e Asdudimmu. Giuda non fu invaso, ma sottomesso. È possibile che Ezechia si sia af‐frettato a pagare un tributo, evitando in questo modo il castigo. Seguirono alcuni anni di calma, finché la morte di Sargon nel 705 diede il via a una nuova rivolta, questa volta di più gravi conseguenze. Sul corso degli avvenimenti sappiamo con esattezza: a) che i Giudei contavano sull’appoggio militare dell’Egitto; b) che questo aiuto non servì loro a nulla, poi‐ché Sennacherib invase Giuda e assediò Gerusalemme; c) che Gerusalemme non cadde in mano agli Assiri, poiché questi dovettero ritirarsi. È molto difficile stabilire quali testi raccolgono la predicazione di Isaia durante gli anni 705‐701. A partire dalla fine del XIX sec. si è soliti attribuire a questa epoca gli oracoli autentici contenuti nei cc. 28–31, scoprendovi diversi momenti della ribellione: formazione del partito antiassiro, decisio‐ne di ribellarsi, ambasceria all’Egitto, firma del trattato. A questi testi alcuni autori aggiungono 1,2‐9; 22,1‐14 (entrambi rivolti a Giuda) e 10,5‐15; 14,24‐27 (contro l’Assiria). Possiamo ricostruire l’attività di Isaia partendo da dati così dispersi e discussi? È difficile, ma vale la pena di tentare. Indicheremo alla fine quali dati sembrano sicuri e quali ipotetici. Distingueremo tre momenti: preparazione occulta della ribellione, preparazione aperta, dopo la ribellione. 1) Nel primo momento, della preparazione occulta, possiamo situare sei oracoli: 28,7‐13.14‐22.23‐29; 29,1‐4.9‐12.15‐16.3 Sono molto vaghi quanto alle circostanze, ma riflettono un’inquietudine di Isaia dinanzi a preparativi che non avrebbero apportato libertà ma distruzione (cfr. 28,13.18s.22, ecc.), perché messi in atto senza tener conto della volontà di Dio (29,15s). 2) Nel secondo momento, della preparazione aperta, Giuda invia messaggeri all’Egitto chiedendo aiuto. Isaia condanna questo atteggiamento in due oracoli (30,1‐5; 31,1‐3). L’alleanza con l’Egitto

3 Cfr. G. DE CARLO, «D'improvviso, subito, dal Signore degli eserciti sarai visitata» (Is 29,1‐8), in Parola Spirito e Vita

72 (2015) 51‐71.


equivale a non aver fiducia in Dio e a divinizzare le grandi potenze. I Giudei non soltanto si sono imbarcati in una politica assurda, ma stanno commettendo un peccato di idolatria. 3) Nel terzo momento, a ribellione avvenuta, Isaia si sente fallito e lascia una testimonianza scritta sull’atteggiamento peccatore del popolo e sul castigo che si merita (30,8‐17). È forse entrato in un periodo di silenzio, destinato però a non durare a lungo: gli avvenimenti lo obbligheranno presto a parlare. Nell’anno 701 Sennacherib invade Giuda e conquista 46 fortezze, tra cui Lachis. Da lì invia a Gerusalemme il gran Coppiere a esigere la resa. Le parole che lo incarica di dire (36,4‐20) provo‐cheranno in Isaia un cambiamento profondo. Il gran Coppiere comincia smontando le fiducie uma‐ne basate sulle semplici parole, sulla strategia militare e sull’aiuto dell’Egitto (vv. 4‐6). Isaia vi avrebbe messo la firma. Ma poi attacca l’ultimo baluardo di Giuda: «che non vi inganni Ezechia di‐cendo: “il Signore ci libererà”. Forse gli dèi delle nazioni hanno liberato i loro paesi dalla mano del re d’Assiria?» (36,18). Questa bestemmia aiuta a comprendere il cambiamento del profeta. All’inizio della sua vita aveva considerato l’Assiria come uno strumento nelle mani di Dio (5,26‐29; 10,56; 28,2). Ora ne condanna l’atteggiamento pieno di orgoglio e di superbia; uscendo dal silenzio, attacca il grande Impero, in vari oracoli che possiamo datare a questo momento con sufficiente probabilità (10,5‐15; 14,24‐27; 30,27‐33; 37,21‐29). Ma Isaia non si limita a condannare l’Assiria; a nome di Dio annuncia anche la salvezza di Gerusa‐lemme (31,5‐6; 37,33‐35). In effetti Sennacherib dovette togliere l’assedio e si limitò a imporre alla città un pesante tributo. Tuttavia il profeta soffre una nuova delusione. Si attendeva che i tragici avvenimenti dell’invasione e dell’assedio servissero al popolo a convertirsi. Ma l’atteggiamento del popolo è diverso: venuto a conoscere la ritirata delle truppe assire, non rende grazie a Dio né riconosce il proprio peccato; sale allegro sulle terrazze a contemplare il cammino dell’esercito nemico. Isaia non può sopportarlo. In un duro oracolo, in cui la sua fede religiosa si mescola a un profondo patriottismo, condanna il po‐polo per la sua condotta (22,1‐14). Secondo von Rad «è questo uno dei pochissimi testi dove, pur nella severa temperie dell’annuncio profetico, un sentimento gagliardo e umanissimo di Isaia pro‐rompe per chiedere rispetto»4. La situazione in cui rimase il paese dopo l’invasione la conosciamo da un altro oracolo (1,4‐9), che utilizza l’immagine dell’infermo per descrivere l’impossibilità della guarigione. Termina con questo l’attività di Isaia? Molti autori lo pensano. Può darsi però che le sue ultime pa‐role non fossero così tragiche. Convinto fin dalla sua vocazione della necessità di un castigo, il pro‐feta sa che dall’albero abbattuto uscirà un seme santo (6,13), che il Signore «ha lasciato un resto» (1,9). Sembra quasi impossibile pensare che il profeta non abbia meditato nei suoi ultimi anni sul futuro del suo popolo e delle nazioni angustiate da decenni di guerra. È forse in questo contesto, come pensava Duhm, che vanno situati gli oracoli 2,2‐4; 11,1‐9; 32,1‐5.15‐20, che lasciano intrave‐dere un futuro di pace internazionale con la sparizione della guerra e delle armi, e lo stabilirsi della giustizia e del diritto, della fraternità e del benessere. Quando abbiamo cominciato a ricostruire l’attività degli anni 705‐701, ci siamo proposti di distin‐guere tra dati sicuri e dati ipotetici. Sicuri appaiono: a) che Isaia si è opposto decisamente alla ri‐bellione fin dai primi momenti; b) che ha condannato l’alleanza con l’Egitto; c) che ha considerato l’invasione assira come giusto castigo per l’atteggiamento del popolo; d) che malgrado tutto questo ha promesso la salvezza di Gerusalemme; e) che il successivo atteggiamento del popolo è tornato a deluderlo. Sembra invece molto probabile: a) che Isaia abbia cambiato atteggiamento nei confronti dell’Assiria in questi anni. Il cambiamento non dà luogo a dubbi; discutibile è il momento in cui si produsse. Tenendo conto delle bestemmie del re assiro, è probabile che si sia verificato dopo

4 VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, vol. 2, 197.


l’ambasciata a Lachis; b) che Isaia non sia finito nella delusione, ma abbia contemplato con speran‐za un futuro migliore, nazionale e internazionale. Semplice ipotesi, più o meno discutibile a seconda di ciascun elemento, è l’intera ricostruzione che abbiamo tentato, soprattutto per quanto si riferisce alla datazione dei testi.

3. IL MESSAGGIO

Risulta particolarmente difficile sintetizzare in poche linee il messaggio di Isaia; soprattutto perché su alcuni punti chiave non sappiamo cosa pensasse il profeta, come ad esempio sulla questione messianica. Se 9,1‐6 e 11,1‐9 non provengono da Isaia, la sua visione del messianismo è molto di‐versa da quella che potremmo presentare basandoci su questi testi. Ciò nonostante cercheremo di abbozzare alcune idee. Quanto al contenuto, il messaggio di Isaia comprende due grandi filoni: la questione sociale duran‐te i primi anni della sua attività, e la politica a partire dal 734. Quanto alla denuncia sociale, su Isaia influisce molto Amos, profeta a lui quasi contemporaneo. Anche se Amos predicò nel Nord, il suo messaggio dovette esser presto conosciuto nel Sud; di fatto certe formule isaiane sembrano ispirate al profeta di Tekòa. La problematica è in gran parte la stes‐sa: Isaia constata numerose ingiustizie, arbìtri dei giudici, corruzione delle autorità, cupidigia dei latifondisti, oppressione dei governanti; si pretende di mascherare tutto ciò con una falsa pietà e abbondanti pratiche religiose (1,10‐20):

110Ascoltate la parola del Signore, capi di Sòdoma; prestate orecchio all’insegnamento del nostro Dio, popolo di Gomorra! 11«Perché mi offrite i vostri sacrifici senza numero? – dice il Signore. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli. Il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. 12Quando venite a presentarvi a me, chi richiede a voi questo: che veniate a calpestare i miei atri? 13Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità. 14Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. 15Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue. 16Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, 17imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova». 18«Su, venite e discutiamo – dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana. 19Se sarete docili e ascolterete, mangerete i frutti della terra. 20Ma se vi ostinate e vi ribellate, sarete divorati dalla spada, perché la bocca del Signore ha parlato».

Isaia reagisce in modo energico: Gerusalemme ha cessato di essere la sposa fedele, per trasfor‐marsi in una prostituta (1,21‐26):

121Come mai la città fedele è diventata una prostituta? Era piena di rettitudine, vi dimorava la giustizia, ora invece è piena di assassini! 22Il tuo argento è diventato scoria, il tuo vino è diluito con acqua. 23I tuoi capi sono ribelli e complici di ladri. Tutti sono bramosi di regali e ricercano mance. Non rendono giustizia all’orfano e la causa della vedova fino a loro non giunge. 24Perciò, oracolo del Signore, Dio degli eserciti, il Potente d’Israele: «Guai! Esigerò soddisfazioni dai miei avversari, mi vendicherò dei miei nemici. 25Stenderò la mia mano su di te, purificherò come in un forno le tue scorie, eliminerò da te tutto il piombo. 26Renderò i tuoi giudici come una volta, i tuoi consiglieri come al principio. Allora sarai chiamata “Città della giustizia”, “Città fedele”».


La vigna curata da Dio non produce che frutti amari (5,1‐7):

51Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. 2Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi. 3E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna. 4Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? 5Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. 6La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. 7Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi.

D’altra parte il lusso e il benessere hanno provocato l’orgoglio di certi settori del popolo, manifesta‐to a volte in forma superficiale e infantile, come nel caso delle donne (3,16‐24):

316Dice il Signore: «Poiché si sono insuperbite le figlie di Sion, procedono a collo teso, ammiccando con gli occhi, e camminano a piccoli passi, facendo tintinnare gli anelli ai piedi, 17il Signore renderà tignoso il cranio delle figlie di Sion, il Signore denuderà la loro fronte». 18In quel giorno il Signore toglierà l’ornamento di fibbie, fermagli e lunette, 19orecchini, braccialetti, veli, 20bende, catenine ai piedi, cinture, boccette di profumi, amuleti, 21anelli, pendenti al naso, 22vesti preziose e mantelline, scialli, borsette, 23specchi, tuniche, turbanti e vestaglie. 24Invece di profumo ci sarà marciume, invece di cintura una corda, invece di ricci calvizie, invece di vesti eleganti uno stretto sacco, invece di bellezza bruciatura.

In alcune occasioni il lusso porta a una dimenticanza reale e assoluta di Dio, come se egli avesse meno importanza dell’uomo. A ciò il profeta risponde con il magnifico poema di 2,6‐22, in cui si os‐serva l’enorme impatto prodotto in lui dall’esperienza della santità di Dio al momento della voca‐zione:

26Sì, tu hai rigettato il tuo popolo, la casa di Giacobbe, perché rigurgitano di maghi orientali e di indovini come i Filistei; agli stranieri battono le mani. 7La sua terra è piena d’argento e d’oro, senza limite sono i suoi tesori; la sua terra è piena di cavalli, senza limite sono i suoi carri. 8La sua terra è piena di idoli; adorano l’opera delle proprie mani, ciò che hanno fatto le loro dita. 9L’uomo sarà piegato, il mortale sarà abbassato; tu non perdonare loro. 10Entra fra le rocce, nasconditi nella polvere, di fronte al terrore che desta il Signore e allo splendore della sua maestà, quando si alzerà a scuotere la terra. 11L’uomo abbasserà gli occhi superbi, l’alterigia umana si piegherà; sarà esaltato il Signore, lui solo, in quel giorno. 12Poiché il Signore degli eserciti ha un giorno contro ogni superbo e altero, contro chiunque si innalza, per abbatterlo, 13contro tutti i cedri del Libano alti ed elevati, contro tutte le querce del Basan, 14contro tutti gli alti monti, contro tutti i colli elevati, 15contro ogni torre eccelsa, contro ogni muro fortificato, 16contro tutte le navi di Tarsis e contro tutte le imbarcazioni di lusso. 17Sarà piegato l’orgoglio degli uomini, sarà abbassata l’alterigia umana; sarà esaltato il Signore, lui solo, in quel giorno. 18Gli idoli spariranno del tutto. 19Rifugiatevi nelle caverne delle rocce e negli antri sotterranei, di fronte al terrore che desta il Signore e allo splendore della sua maestà, quando si alzerà a scuotere la terra. 20In quel giorno ognuno getterà ai topi e ai pipistrelli gli idoli d’argento e gli idoli d’oro, che si era fatto per adorarli, 21per entrare nei crepacci delle rocce e nelle spaccature delle rupi,


di fronte al terrore che desta il Signore e allo splendore della sua maestà, quando si alzerà a scuotere la terra. 22Guardatevi dunque dall’uomo, nelle cui narici non v’è che un soffio: in quale conto si può tenere?

Riconoscendo l’influsso di Amos non intendiamo togliere originalità a Isaia. Un attento esame dei suoi oracoli dimostra che non si tratta di una semplice copia; inoltre, dal punto di vista letterario, Isaia è di molto superiore.

Quanto all’atteggiamento politico, su Isaia hanno molto influito le tradizioni sull’elezione di Davide e di Gerusalemme. Dio si è impegnato con la città e la dinastia, e in ciò consiste la loro maggior si‐curezza. Ma Isaia non accetta né ripete meccanicamente la tradizione. Quella di Dio non è una promessa incondizionata, che si compie senza tener conto dell’atteggiamento del popolo e del re. Esige una risposta, e questa risposta è la fede. La quale non si manifesta in verità astratte, in formu‐le più o meno vuote e sterili, ma in un atteggiamento vitale di vigilanza, serenità e calma. Dinanzi alla minaccia nemica, quando la città è circondata dalle truppe, credere significa restare tranquilli e attenti, sapendo che Dio non tralascerà di salvare il suo popolo. Per questo il contrario della fede è la ricerca di sicurezze umane, la firma di contratti, l’appoggiarsi sull’esercito straniero, il venire a patti con l’Assiria e con l’Egitto. In definitiva, il contrario della fede è la paura.

È su questo duplice spartiacque, sociale e politico, del suo messaggio che si inquadra la proclama‐zione messianica. Il «Messia» appare sempre in questi testi (autentici o meno: Is 7,1‐17; 9,1‐6; 11,1‐9) come colui che stabilisce sulla terra giustizia e diritto, dando consistenza al trono di Davide. Quando il suo regno avrà inizio, non ci saranno più da temere atteggiamenti di ribellione contro Dio, né di oppressione dei deboli.

L’EMMANUELE E IL PROBLEMA DELLE PROFEZIE MESSIANICHE (IS 7,10‐17; 9,1‐6; 11,1‐9)*

Is 7,10‐17, oggetto di molti e contrapposti commenti, deve essere letto entro un triplice contesto: storico, letterario e teologico. Il passo si riferisce infatti alla guerra siro‐efraimitica del 734/733, continua nella sua tematica in tutto il libro dell’Emmanuele organizzato sul motivo del bambino (7,14; 8,3.8.18; 9,5; 11,1), dell’alternanza invasione/liberazione e del tema stabilità/caducità, ed è illuminato dall’interpretazione dei LXX e soprattutto di Mt 1,23. Dall’analisi del brano scaturisce la possibilità di un approccio all’attuale e difficile problema dell’esistenza e del significato delle profe‐zie messianiche. Più che un’esegesi, in questo contributo ci proponiamo una puntualizzazione di alcuni aspetti del testo messianico.

Senso dei testi

Il contesto letterario immediato, Is 7,2–8,85, è formato da tre scene, ognuna delle quali comprende tre momenti (narrazione, oracolo, minaccia).

Incontro Isaia‐Acaz Emmanuele Figlio di Isaia

Narrazione 7,2‐6 7,10‐13 8,1‐3 Oracolo fausto 7,7‐9a 7,14‐16 8,4 Minaccia 7,9b 7,17‐25 8,5‐8

* B. MARCONCINI, L’Emmanuele (Is 7,10‐17), in MARCONCINI (a cura di), Profeti e apocalittici, 289‐295; cfr. G. BENZI, Ci è

stato dato un figlio. Il libro dell’Emmanuele (Is 6,1–9,6): struttura retorica e interpretazione teologica, EDB, Bologna 2007; G. BENZI, La profezia dell’Emmanuele. I testi di Isaia 6–9 tra attesa e avvento della salvezza, EDB, Bologna 2014.

5 Is 7,1 è redazionale, ripreso da 2Re 16,5‐9 con due significative varianti: Is 7,1 cambia la frase del TM «assediaro‐no Acaz» e legge il singolare «non poté espugnarla», lasciando intravedere che il vero nemico è Damasco.


Il primo quadro ha come centro l’intervento del profeta nel momento in cui i due eserciti federati, siriani ed efraimiti, si dirigono contro Acaz col proposito di sostituirlo con Tabeel6. L’intervento è rassicurante, sia per le parole derivanti da una visione di fede come sicurezza, calma, abbandono, tranquillità (7,4; 30,15), sia per la presenza nel luogo delle fortificazioni difensive del figlio il cui nome è garanzia per il futuro (še’ār‐yāšûb, resto‐ritornerà). Isaia è d’accordo con Acaz nel rifiutare l’adesione alla lega con Siria ed Efraim, che un intuito politico prevedeva facilmente perdenti, ma consiglia di non richiedere l’intervento dell’assiro Tiglat‐Pileser III, che si sarebbe trasformato, per le note mire espansionistiche, da liberatore in oppressore. La sicurezza di Isaia, per il quale la de‐stabilizzazione cui mira la Siria «non avverrà e non sarà», è fondata sulla promessa divina relativa alla perennità della dinastia davidica: «La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me e il tuo trono sarà reso stabile per sempre» (2Sam 7,16). Questa promessa richiede una fede piena nell’aiuto divino, capace di assicurare la stabilità politica. L’origine e il perdurare di un popolo, nato da una speciale volontà e sostenuto dall’aiuto del Signo‐re, è per le nazioni segno dell’esistenza dell’Invisibile. Ciò è efficacemente espresso in un versetto intraducibile che riporta la radice ’āman, credere, in due forme verbali, le quali connettono in mo‐do inscindibile l’appoggio su Dio e la sussistenza politica (7,9b)7. Anche la terza scena (8,1‐8) ri‐chiama la guerra siro‐efraimitica che cesserà prima che l’altro figlio di Isaia («Presto depreda‐svelto saccheggia»), sappia dire babbo e mamma: l’assedio si trasformerà in una disfatta degli assedianti.

I. L’Emmanuele (7,10‐17)

Tra la prima e terza scena si colloca l’annuncio della nascita dell’Emmanuele.

710Il Signore parlò ancora ad Acaz: 11«Chiedi per te un segno (’ōt) dal Signore, tuo Dio, dal profondo degli inferi oppure dall’alto». 12Ma Acaz rispose: «Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore». 13Allora Isaia disse: «Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio? 14Pertanto il Signore stesso vi darà un segno (’ōt). Ecco: la ‘almāh concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele. 15Egli mangerà panna e miele finché non imparerà a rigettare il male e a scegliere il bene. 16Poiché prima ancora che il bimbo impari a rigettare il male e a scegliere il bene, sarà abbandonata la terra di cui temi i due re. 17Il Signore manderà su di te, sul tuo popolo e sulla casa di tuo padre giorni quali non vennero da quan‐do Èfraim si staccò da Giuda: manderà il re d’Assiria».

Il diverso modo di concepire l’agire divino nella storia si palesa già nelle opposte formulazioni «tuo Dio» (v. 11) e «mio Dio» (v. 13). Il Signore conosce i bisogni dell’uomo: rifiutare il suo aiuto offerto è presunzione e sfiducia; richiederlo non è tentazione di Dio, la quale si verifica quando è l’uomo a pretendere un miracolo (cfr. Mt 16,4). Isaia invita il re a fidarsi più della parola divina, chiaramente pronunciata (2Sam 7), che degli aiuti umani. Temere gli uomini quando Dio protegge è incredulità e rischia di gettare nella più grave paura suscitata dal Signore stesso. Il nuovo segno è liberamente dato da Dio, non esige l’accettazione del re e tende a dimostrare la fedeltà divina alle promesse; ci sarà invece timore e terrore per Giuda e Gerusalemme davanti alla potenza assira a causa dell’infedeltà di Acaz. Su questo duplice binario, fiducia in Dio e timore degli uomini, cammina tut‐ta la profezia isaiana. Quattro argomenti (storico, cronologico, letterario, indiretto) rendono certa l’identificazione del bambino in Ezechia e di sua madre in Abi, moglie di Acaz8. L’imminente liberazione dai nemici più

6 Il senso «Dio è buono» del nome Tabeel è polemicamente stravolto attraverso il cambio di vocali rispetto al TM, in

«buono a nulla» (ṭābe’al). L’identificazione del personaggio è quanto mai controversa: giudeo influente, principe di Ammon, di Tiro, di Aram o più probabilmente un individuo nato nel nordest di Israele, in una provincia che il carteggio con l’Assiria chiama appunto Tabeel, individuo che poteva vantare qualche diritto al trono, come figlio, illegittimo, di Ozia.

7 ’im lō’ ta’ămînû kî lō’ tē’āmēnû. La prima forma della radice ’āman è hifîl, la seconda nifal, per cui si potrebbe ren‐dere: «se non vi appoggerete a Dio, non avrete alcun appoggio».

8 Altre interpretazioni del bambino/Emmanuele sono: Gesù di Nazaret, il figlio del profeta, il figlio di una donna qualsiasi in stato di gravidanza in quel momento, Gerusalemme intesa simbolicamente e collettivamente, una figura mitica.


volte richiamata impedisce di pensare a eventi distanti nel tempo: non si vede infatti come la nasci‐ta del Messia lontana di secoli aiuti la casa di Giuda in difficoltà e ridoni pace al cuore del re e del popolo che «si agitarono, come si agitano i rami del bosco per il vento» (7,2). Un’accurata ricostru‐zione della successione dei re rende probabile la nascita di Ezechia nel 733‐732. La madre è indicata con ‘almāh9, che significa «giovane donna» (LXX: neanís), presente al collo‐quio, come dimostra l’articolo (= «eccola»!): questa traduzione è usata dai LXX cinque volte su set‐te (Es 2,8; Prv 30,19; Sal 68,26; Ct 1,3; 6,8), ed è preferita dalle versioni greche di Aquila, Simmaco e Teodozione anche negli altri due casi (Gen 24,43; Is 7,14). Nell’argomento letterario rientra anche il genere espressivo, quello dell’annuncio, usato per i grandi personaggi, nel nostro caso di stirpe regale10. Inconsistenti appaiono i due principali argomenti portati a favore della «profezia diretta»: la «prospettiva» per cui il profeta vedrebbe imminente, vicina, come un paesaggio attraverso un binocolo, la nascita di Cristo, e lo spostamento alla fine del capitolo dei vv. 14b‐15, l’unico ad esse‐re direttamente messianico. Il «segno» (’ōt) non equivale a un miracolo: può essere un evento provvidenziale, verificabile entro breve tempo (cfr. Is 37,30; 38,7‐8). Che il bambino possa nascere e crescere in quelle circostanze, sia pur tra difficoltà («panna e miele» cfr. v. 22 diversamente da «latte e miele»), è prova della pro‐tezione di Dio: egli mantiene sempre le promesse, è fedele. La minaccia rappresentata dall’Assiria (v. 17 collega oracolo e minaccia) si esplicita nei quattro oracoli ben delimitati dalla connotazione cronologica (7,18.20.21.23): fedeltà di Dio e punizione dell’uomo non si contraddicono.

II. Riflessione isaiana sull’Emmanuele (9,1‐6; 11,1‐9)

a. Il bambino nato per noi (Is 9,1‐6)

È inquadrata nella seconda discesa di Tiglat‐Pileser III che occupa i territori delle tribù del Nord, Zabulon e Neftali, le prime a sperimentare in seguito la liberazione (8,23–9,4). Questa è illustrata quattro volte come luce e cinque volte come gioia (quella della mietitura e della spartizione della preda). La scomparsa dei segni di oppressione (giogo, sbarra sulle spalle, bastone dell’aguzzino) e di ogni residuo di guerra preparano la nascita di un bambino «per noi», cioè per il nuovo popolo raggruppato attorno al profeta. Si tratta dell’intronizzazione di Ezechia (cfr. v. 6), associato al padre nel governo, quando era ancora bambino: questa intronizzazione costituisce il terzo motivo della gioia (cfr. «poiché», vv. 3.4.5).

91Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. 2Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si esulta quando si divide la preda. 3Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva, la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino, come nel giorno di Madian. 4Perché ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati, dati in pasto al fuoco. 5Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace. 6Grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul suo regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e per sempre. Questo farà lo zelo del Signore degli eserciti.

Il personaggio è identificato con quattro termini che richiamano uffici di corte, uniti a quattro ag‐gettivi che elevano il personaggio al piano sovrumano.

9 Diverso è il termine betûlāh tradotto 46 volte dai LXX con parthénos, vergine, anche se non sempre nel senso fisi‐

co, poiché Dina è detta tale subito dopo aver subito violenza (cfr. Gen 34,2‐3). 10 Il genere dell’annuncio conserva inalterati nei secoli i quattro elementi: motivo della nascita, simbologia del no‐

me, futuro del bambino e la dieta la quale non è sempre presente come in Gesù (Gen 16,11‐12 per Ismaele; Gdc 13,7 per Sansone; Is 9,5 per Ezechia; Mt 1,21 e Lc 1,31‐33 per Gesù; Lc 1,13‐16 per il Battista).


– Consigliere. È la saggezza pratica che deriva non dai calcoli dei funzionari della casa, ma dalla co‐municazione divina che il re, quale «figlio di Dio», riceve. La qualifica di ammirabile lo rende parte‐cipe dei progetti meravigliosi operati da Dio nella storia, raggiungendo l’ordine del miracolo: non concerne l’essere, ma l’operare. È illustrato in 2Sam 17; 1Re 12. – Potente. Attribuito a Dio, in parallelo con «Santo d’Israele» (10,20‐21), il titolo mette in luce il di‐namismo divino, trasmesso a chi in terra lo rappresenta (cfr. Sal 45,4; 89,20). In un contesto di pace connota le capacità guerriere del re, la sua audacia nella lotta, ed evidenzia l’impegno per la giusti‐zia. L’aggettivo «divino» è perfettamente intelligibile dal momento che ’ēl può riferirsi ad angeli e uomini con alcune caratteristiche divine. – Padre, detto di un bambino, fa meraviglia: è il protettore del popolo, sollecito della sua prosperi‐tà, come Davide chiama padre Saul (1Sam 24,12). Questo compito non può avere limiti, come ogni paternità, ed è perciò eterno, per lunghi giorni. Principe (śar). Titolo premonarchico, qualifica l’impegno primario per la salvezza che si riflette in una pace duratura e ha come fondamento la giustizia (cfr. 32,17). Nello sfondo dell’oppressione as‐sira al Nord, Isaia segnala come rimedio il giovane re, così come l’aveva richiamato nella guerra si‐roefraimitica. Il testo isaiano, anche se ispirato allo «stile di corte», non si limita a parlare di Eze‐chia: la figura descritta è figlia, in parte, della speranza isaiana nel pio re, in parte della fiducia nell’imprevedibile zelo del Signore, cioè nel suo amore fervido.

b. Il virgulto da Iesse (Is 11,1‐9)*

1Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. 2Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore.

3Si compiacerà del timore del Signore. Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire; 4ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli umili della terra. Percuoterà il violento con la verga della sua bocca, con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio. 5La giustizia sarà fascia dei suoi lombi e la fedeltà cintura dei suoi fianchi.

6Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà. 7La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno insieme. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. 8Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso. 9Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte, perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare.

La posizione degli studiosi circa l’autenticità isaiana dell’oracolo non è affatto unanime, tuttavia l’oracolo si colloca molto bene all’interno del discorso iniziato da Isaia nel c. 7: si tratta di un an‐nuncio di salvezza che nasce in una situazione difficile e di pericolo. Inoltre l’oracolo propone

* A. SPREAFICO, La voce di Dio. Per capire i profeti. Nuova edizione (Studi biblici 66), EDB, Bologna 2014, 124‐132.


un’ideologia regale che ben si accorda con il contesto storico e che non contraddice il resto dell’attesa isaiana. Certamente esso è molto più comprensibile al tempo di Isaia che in qualsiasi al‐tro periodo storico. Il testo si sviluppa in tre parti, una introduttiva (I. vv. 1‐2) e altre due viste come la sua conseguenza (II. vv. 3‐5; III. vv. 6‐9). L’introduzione presenta il personaggio di cui parlerà l’oracolo: si tratta di un germoglio della di‐scendenza di Iesse. Su di lui si posa il quadruplice spirito di YHWH, le cui caratteristiche culminano nella «conoscenza» e nel «timore di YHWH». Le due parti riprendono in modo inclusivo proprio queste due ultime caratteristiche dello spirito: timore e conoscenza di YHWH (vv. 3.9). La prima sviluppa il tema della giustizia nel tribunale attra‐verso l’uso dei due verbi «giudicare» e «dare sentenze», e i sostantivi «giustizia‐rettitudine». La giustizia si esprime attraverso quegli organi del corpo, che spesso in altri testi entrano in gioco nel‐la procedura giuridica che conduce a emettere una sentenza: sono gli occhi (cioè il vedere), gli orecchi (cioè l’ascoltare) e la bocca (cioè il parlare). La giustizia coinvolge in modo totale il nuovo re tanto che diventa parte del suo vestito, cintura per i suoi fianchi. Così c’è un progresso nel coinvol‐gimento all’interno della giustizia che parte dagli occhi e giunge sino ai fianchi: egli è rivestito della giustizia, che non è solo qualità esteriore, ma interiore. La seconda parte presenta una serie di sette coppie, il cui rapporto è radicalmente mutato rispetto a quanto normalmente avviene. Esse sono: lupo‐agnello, pantera‐capretto, vitello‐leoncello, vacca‐orsa, leone‐bue, lattante‐aspide, serpente velenoso‐bambino. Il numero 7 vuole indicare che in questa serie si esprime la totalità dei rapporti tra gli esseri viventi. I primi cinque riguardano il rap‐porto all’interno del mondo animale, il sesto e il settimo quello animale‐uomo, dove l’uomo appa‐re nella sua massima debolezza (lattante‐bambino) e l’animale nella sua massima pericolosità (aspide‐serpente velenoso). Le sette coppie manifestano un rapporto paradossale, segno di una pace cosmica. Il v. 9 sancisce questa nuova condizione in relazione al luogo della presenza di Dio. Un altro aspetto interessante della struttura è l’uso del parallelismo sinonimo e della ripetizione. Il parallelismo è spesso inclusivo e presenta l’ordine verbo‐soggetto o complemento‐soggetto o complemento‐verbo. La ripetizione di parole, oltre che entrare in questo procedimento letterario appena descritto, fa anche da collegamento all’interno del testo, che si presenta in modo molto compatto, conferman‐do l’unità dei vv. 1‐9 contro ogni soluzione che tende a dividerli.

v. 1 – L’annuncio salvifico si inserisce come una novità all’interno della storia di Dio con il suo popo‐lo. Il tronco di Iesse e le sue radici rappresentano la storia. Tuttavia negli altri oracoli messianici che annunciano la venuta di un davidide si parla direttamente di Davide, non di Iesse (cfr. Ger 23,5‐6; cfr. anche 2Sam 7,11‐16). Il riferimento a Iesse forse sottolinea l’umile origine del futuro re (cfr. 1Sam 20,30). Su questa storia si innesta l’intervento di Dio, la cui novità è indicata dai due verbi «uscire» // «spuntare» e dai sostantivi «germoglio» // «virgulto». Senza l’azione di Dio quel tronco sarebbe rimasto morto e senza frutto; è lui che darà inizio a una storia nuova. Questo inizio ina‐spettato è una nascita. Così indica il verbo «uscire»:

«Ti renderò molto, molto fecondo; ti farò diventare nazioni e da te nasceranno dei re» (letteralmente: «usciran‐no dei re»; Gen 17,6).

L’oracolo inizia con un simbolismo vegetale per indicare la vita che ricomincia per l’intervento divi‐no. Se leggiamo Gb 14,7‐9 possiamo pensare che Dio è come l’acqua che ridà vita a radici seccate e come linfa che rianima un tronco ormai senza rami e foglie.

v. 2 – Sul futuro re si poserà lo spirito di Dio. Esso si presenta in forma quadruplice, come lo spirito che in Ez 37,9 soffia dai quattro venti, cioè dai quattro punti cardinali: «Profetizza allo spirito, pro‐fetizza figlio dell’uomo e annuncia allo spirito. Dice il Signore Dio: spirito, vieni dai quattro spiriti e soffia su questi morti perché rivivano». È lo spirito cosmico, lo spirito di Dio presente nella creazio‐ne, che viene e investe uomini particolari perché compiano la funzione per cui Dio li ha destinati


(cfr. Nm 11,17.25‐29). Questo re diviene così il centro del cosmo; su di lui converge l’universo e si posa in tutta la sua pienezza la forza che viene da Dio. Già da questo si preannuncia in qualche modo la funzione che il Messia avrà non solo nei confronti del suo popolo, ma anche del mondo intero. Lo spirito si presenta con sei caratteristiche, sette se contiamo anche quella introduttiva: spirito di YHWH. È lo spirito di YHWH che si posa sui giudici (Gdc 3,10; 6,34; 11,31; 14,6.19; 15,14), sui re (1Sam 10,6.10), sui profeti (Mic 3,8). Lo spirito che si poserà su questo re viene dal Signore ed è concesso in vista del compito che gli sarà affidato. La prima coppia di caratteristiche dello spirito sono «la sapienza e l’intelligenza». La sapienza fa pensare immediatamente a Salomone, modello del re sapiente, come ce lo descrive ad esempio 1Re 3,16ss o 5,9. La sapienza è infatti attributo indispensabile per chi governa, come dice Prv 8,15‐16: «Per mezzo mio regnano i re e i magistrati emettono giusti decreti; per mezzo mio i capi comandano e i grandi governano con giustizia». Vediamo che la sapienza è strettamente legata al problema del governo giusto, di cui ci parleranno i versetti seguenti. Infatti i due termini «sapienza e intelligenza» (ḥok‐māh – bînāh), tra loro imparentati, indicano sia la dimensione intellettuale della sapienza che quel‐la pratica, quale si manifesta nell’agire e nelle decisioni concrete. La seconda coppia sono «consiglio e forza». È sempre Prv 8 al v. 14 che ci presenta questi due tratti come tipici della sapienza: «A me appartiene il consiglio e il buon senso, io sono l’intelligenza, a me appartiene la forza». Già al c. 9 le prime due caratteristiche del futuro Messia sono proprio il consi‐glio e la forza: sarà chiamato «consigliere ammirabile, Dio potente» (Is 9,5). Il «consiglio» è una delle caratteristiche di Dio che agisce nella storia con sapienza, è il suo piano (Is 5,19; 14,26‐27), che contrasta con il piano degli uomini (Is 8,10). Il discendente di Iesse partecipa a questa qualifica di Dio, che si manifesterà nel suo intervento rinnovatore nella storia, azione potente e inattesa. Gli ultimi due attributi dello spirito riguardano direttamente la sfera religiosa del rapporto con Dio. «Conoscenza e timore di YHWH»11 sono ancora un binomio tipico del linguaggio sapienziale (cfr. Prv 1,29; 2,5; 9,10). Il parallelismo e il v. 9 suggeriscono forse di intendere come oggetto della cono‐scenza lo stesso del timore, cioè YHWH. La conoscenza in questo caso non sarebbe però né un pro‐cesso intellettuale né la conoscenza, propria del sacerdote, di determinate norme, ma un atteg‐giamento esistenziale di adesione a Dio e al suo insegnamento. Se invece la conoscenza si intende in senso assoluto, si deve pensare all’ambito sapienziale come punto di riferimento. Il timore di YHWH non è la paura, ma l’atteggiamento dell’uomo che, riconoscendo la grandezza di Dio, ne sen‐te la dipendenza e la sottomissione. Temere il Signore, direbbe il Deuteronomio, è amarlo e servir‐lo: «Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio... Temerai il Signore tuo Dio, lo servirai e giurerai per il suo nome» (Dt 6,4.13). «Il timore di YHWH è il principio della sapienza», afferma l’inizio del libro dei Proverbi (1,7). Sulla conoscenza e sul timore del Signore, culmine dei doni dello Spirito al nuovo re, si sviluppa il resto dell’oracolo isaiano, come abbiamo visto nella struttura.

vv. 3‐5 – Conseguenza dei doni dello Spirito è anzitutto un governo giusto. Il tema della giustizia‐ingiustizia è più volte sottolineato nelle parole di Isaia: cfr. 1,17.20‐27; 3,9‐15; 5,7; 5,8; 10,1‐2. Il profeta vede la storia del suo popolo come segnata dall’ingiustizia: «Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele, gli abitanti di Giuda la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine, ed ecco grida di oppressi» (Is 5,7). Le azioni che caratterizzano il comportamento del futuro re sono tutte legate all’amministrazione della giustizia nei suoi diversi momenti: – Le prime due indicazioni («non giudicherà secondo le apparenze e non darà sentenze per sentito dire») si riferiscono alle prove che il giudice deve raccogliere per dare una sentenza; non si tratta

11 La traduzione di yir’at, da parte dei LXX, ora con «pietà», ora con «timore», ha dato luogo alla dottrina dei sette

doni dello Spirito Santo: il testo afferma la pienezza dello Spirito sul discendente davidico, fondandolo però sul numero quattro (i quattro stichi del versetto), di valore universale come il sette.


quindi tanto di un discorso sull’imparzialità, come troviamo in altri testi (cfr. Es 23,2‐3; Lev 19,15; Dt 1,17), ma sulla verità della testimonianza, che si può ricevere da un testimone oculare o da una deposizione. È chiara l’importanza di questi due momenti per l’emissione di una sentenza (cfr. Gb 29,11). – Le due azioni del v. 4a riguardano l’applicazione della giustizia nei confronti dei poveri, indicati dai due termini «indigenti» (dallîm) e «poveri del paese» (’anwê ’āreṣ). Le due categorie nominate indicano persone che sono in una situazione economica e sociale di dipendenza. L’indigente è colui che esprime la povertà anche fisicamente. Il termine povero rappresenta una categoria più ampia, che abbraccia una condizione di difficoltà non solo economica, ma anche sociale. Che la giustizia verso i poveri non fosse facilmente applicata è ben visibile dalle numerose volte in cui i profeti stigmatizzano l’ingiustizia perpetrata verso di loro (cfr. Am 2,6‐7; 4,1; 5,7.10‐12; 8,4‐6). Qui si tratta dei poveri che ricorrono al tribunale, dove era facile che il loro diritto fosse disatteso. Uno dei compiti del Messia‐re sarà quello di difendere il loro diritto, di affermare la giustizia nei confronti dei poveri senza farsi ingannare dalle false testimonianze. Il racconto della vigna di Nabot in 1Re 21 è un esempio chiaro di come la falsa testimonianza può portare persino all’uccisione del povero. – L’atto di «colpire il paese» e di «mettere a morte l’empio» è l’esplicitazione della sentenza del giudice, espressa da «bocca» e «labbra», che dichiara colpevole il «malvagio». Il bastone, segno di comando, è qui espressione dell’azione del giudice che emette il giudizio in modo definitivo. La sua giurisdizione sarà estesa a tutto il paese. – La funzione del re sarà talmente segnata dalla giustizia che essa diventerà il suo vestito assieme alla «verità».

vv. 6‐9 – La nuova situazione, che il re instaurerà, non riguarda solo l’ambito umano della giustizia, ma si estende a tutti gli esseri viventi. Nell’elenco degli animali abbiamo a che fare con coppie di opposti: a un animale feroce si affianca un animale domestico o viceversa (lupo‐agnello; pantera‐capretto; vitello‐leoncello; vacca‐orsa; leone‐bue). Si sottolinea il fatto che tra i due opposti si sta‐bilisce un rapporto di unità, indicato dalle preposizioni «con» (v. 6a), «insieme» (v. 6b) e «come» (v. 7b). L’unità riguarda la vita. All’interno del regno animale si inserisce anche la figura del bambino, che porta al culmine il paradosso di una creazione in cui si stabilisce la pace assoluta tra i viventi. Esso appare con tre parole diverse, che esprimono quasi tre momenti dell’età giovanile: ragazzo, lattante, fanciullo. È la vittoria della debolezza: un ragazzo guiderà gli animali rappacificati, un fan‐ciullo dominerà il loro potere mortale (v. 8). È il segno di un regno dove la concordia, l’armonia e la pace prendono possesso dell’intero ambito di vita dell’universo. Il v. 9 è la logica conclusione dell’oracolo. Chi è il soggetto: gli animali prima nominati o gli uomini? L’ambiguità rimane e evidenzia che sarà totalmente eliminata dal paese ogni azione malvagia da qualunque essere vivente essa provenga. Se tra gli uomini il re ristabilirà la giustizia, all’interno dei viventi dimorerà la pace, perché si è stabilita nel paese la «conoscenza di YHWH», quell’atteggiamento che porta gli esseri viventi ad agire partendo da Dio e dalla sua sapienza.

3. La rilettura di Matteo di Is 7

Mt 1 è un testo cristologico: concentrazione sul nome (1,21) e spiegazione del termine Emmanuele per non Ebrei (1,23) può avere solo il senso della sottolineatura e della convergenza su Gesù delle 42 generazioni. L’evangelista non ha interesse a citare Isaia per provare la verginità di Maria, già ri‐levata due volte (1,16.18), né ricerca il sostegno dei LXX che hanno reso ‘almāh con parthénos. Non si può dire né che Is 7,14 LXX abbia provocato nel testo di Matteo l’inserzione del brano sulla concezione verginale, né che il testo della versione greca sia un testimone di una tradizione più an‐tica». L’evangelista vede una continuità tra Ezechia e Gesù, ambedue segno della fedeltà divina alle pro‐messe di salvezza: segno piccolo per la casa regnante il primo, segno definitivo per tutti gli uomini il secondo. Il collegamento stabilito da Matteo con Is 7 rende più facile la comprensione del rap‐


porto con Is 9 e 11, testi fortemente orientati al futuro. Certamente si può accettare il ‘rischio’ dell’interpretazione di Matteo nel leggere Isaia, solo se con lui accettiamo il fondamento di questa prospettiva: l’esperienza pasquale di Gesù di Nazaret e la sua ‘risurrezione’. Essa ratifica la pretesa di Gesù e della prima comunità che veramente quell’uomo di Nazaret era il compimento di tutte le promesse antiche e l’espressione ‘ultima’ della fedeltà di Dio.

Il senso dell’attività profetica di Isaia

A cosa mira Isaia con la sua predicazione? Per quanto sembri strano, si tratta di una questione mol‐to dibattuta. Molti ritengono che il profeta intenda solo giustificare l’inevitabile castigo da parte di Dio. Ancor più, egli vorrebbe accecare il popolo, ottundergli il cuore perché non giunga a convertir‐si. È impossibile trattare adesso i complessi versetti del racconto della vocazione (Is 6,9‐10). Se pe‐rò, prescindendo da essi, vi è qualcosa di evidente, è che Isaia ha voluto convertire i suoi contem‐poranei. Le sue denunce sociali, la sua critica alle autorità e ai giudici, postulano un cambiamento di condotta: «Cessate di agire male, imparate a fare il bene» (1,17). Le sue avvertenze ad Acaz, il suo consiglio di «vigilanza e calma», non sono formule vane, esigono un nuovo atteggiamento. Quando condanna l’ambasciata in Egitto lo fa, almeno inizialmente, sperando che essa non giunga a mettersi in cammino. Dire che Isaia non ha tentato di convertire i suoi contemporanei appare to‐talmente contrario ai testi e alla mentalità del profeta. All’interno di questa conversione vi è un punto essenziale. Convertirsi significa ristabilire corrette relazioni tra Dio e l’uomo, instaurare nuovamente un equilibrio che era andato perso. I contempo‐ranei di Isaia, lasciandosi trascinare dall’orgoglio, collocavano l’uomo a un livello che non gli spetta‐va: al vertice di un panteon terreno da cui tutto dominare e decidere. Per Dio non restava posto, se non quello di un semplice mezzo, senza ripercussioni dirette sulla vita. Isaia, nella sua vocazione, ha un’esperienza molto diversa. La maestà di Dio, la sua sovranità, de‐stano in lui la coscienza di essere peccatore e di vivere in mezzo a un popolo impuro. L’uomo non ha nulla di cui gloriarsi. Importante e decisivo è soltanto il Signore; e se il popolo non vuole accet‐tare ciò di buon grado dovrà farlo per forza, quando giungerà «il giorno del Signore» e sarà piegata l’arroganza dell’uomo. Per questo il messaggio di Isaia non è la somma di una serie di ricerche pratiche per problemi so‐ciali, economici o politici. Interpretarlo in questo modo sarebbe impoverirlo. Fondamentale nella predicazione di Isaia è il desiderio di provocare nel popolo l’incontro con Dio, la piena accettazione del divino in mezzo all’umano. A partire da tale supremazia del divino, e come risposta ad essa, hanno significato tutti gli altri punti che configurano il messaggio del profeta.

4. ATTIVITÀ LETTERARIA DI ISAIA

Come abbiamo già indicato nell’introduzione generale al libro di Isaia, i capitoli 40–66 provengono da epoche e autori molto diversi. Lo stesso potremmo dire dei capitoli 24–27 e 34–35. D’altra parte i capitoli 36–39 non contengono oracoli di Isaia ma narrazioni; è una sezione storica che parla del profeta in terza persona. Se a questo aggiungiamo che nemmeno molti passi dei cc. 1–12 e quasi la maggioranza dei cc. 13–23 non sono autentici, vedremo che fra le collezioni di oracoli isaiani esi‐stenti nel secolo VIII e l’attuale libro di Isaia le differenze superano di molto le somiglianze. In nes‐sun modo possiamo considerare Isaia autore del suo libro, nemmeno dei capitoli 1–39. Il germe di questo libro, tuttavia, dovette cominciare col profeta. Egli, in 30,8, riceve da Dio quest’ordine: «Ora va’ a scriverlo su una tavoletta, incidilo nel bronzo, ché serva in futuro da testi‐monianza perenne». E in 8,16 si dice: «Conservo sigillate le istruzioni che garantiscono i miei disce‐poli». Molti commentatori vedono in questi dati la prova di un’attività letteraria di Isaia. Per quanto


nessuno dimostri che Isaia abbia scritto i suoi oracoli, l’idea è molto diffusa e accettata, probabil‐mente a ragione. Ma la domanda è quali oracoli o collezioni siano state redatti dal profeta. Non possiamo avere certezze assolute.

Si tenga conto che quanto è detto sopra si riferisce all’attività letteraria di Isaia, non all’autenticità degli oracoli. Molti testi possono appartenere al profeta senza essere stati scritti da lui (trasmissio‐ne orale). Dalla visione precedente si deduce una certa unanimità tra i commentatori nel conside‐rare redazione isaiana le collezioni 6–9 e 28–32 (senza negare che esistano al loro interno testi po‐steriori). D’altra parte gli oracoli di Isaia subirono riletture e continue aggiunte nel corso dei vari se‐coli.

5. VISIONE D’INSIEME DI IS 1–39

Come abbiamo visto, la prima parte del libro di Isaia (cc. 1–39) non proviene interamente dal pro‐feta. Vi si trovano tutti i suoi oracoli, ma numerosi sono quelli aggiunti e le riletture dovute ai secoli successivi. In ogni modo è questo il momento più adatto per presentare una panoramica di tali ca‐pitoli.

La maggioranza dei critici distingue in essi sei blocchi principali:

1. Oracoli rivolti al popolo di Dio (cc. 1–12) 2. Oracoli rivolti alle nazioni straniere (cc. 13–23) 3. La grande escatologia (cc. 24–27). 4. Oracoli rivolti al popolo di Dio (cc. 28–33). 5. La piccola escatologia (cc. 34–35). 6. Appendice storica (cc. 36–39).

Questa divisione, fondamentalmente valida, dev’essere in molti casi sfumata: per esempio 10,5‐15, un oracolo contro l’Assiria, è incluso nella prima sezione; 22,1‐14, rivolto contro Gerusalemme, si trova inserito fra i poemi contro le nazioni straniere; lo stesso avviene delle parole rivolte al mag‐giordomo Sebnà (22,15ss). D’altra parte non conviene considerare queste sezioni come comparti‐menti stagni senza relazione tra loro. La grande escatologia (24–27), sebbene proveniente da un’epoca successiva, va letta in stretta relazione coi capitoli precedenti (13–23); lo stesso si po‐trebbe dire di 34–35. Ciò premesso, abbozzeremo qui di seguito il contenuto di queste sezioni.

5.1. Oracoli rivolti al popolo di Dio (cc. 1–12)

Contiene fondamentalmente la predicazione di Isaia sotto Iotam e durante la guerra siroefraimita, anche se alcuni testi (come 10,5‐15) appartengono all’ultima attività del profeta e altri provengono dai suoi discepoli. Troviamo qui alcuni dei poemi più famosi del libro di Isaia: la denuncia del culto (1,10‐20), la canzone della vigna (5,1‐7), la profezia dell’Emmanuele (7,1‐17) e altri oracoli messia‐nici (9,1‐6; 11,1‐9). Questa sezione può essere divisa in cinque parti: I) 1,1‐31; II) 2,1–4,6; III) 5,1‐30+9,7–10,4; IV) 6,1–9,6; V) 10,5–12,6. Si avverte che l’inserzione del blocco 6,1–9,6 (racconto del‐la vocazione, guerra siro‐efraimita) ha spezzato l’originaria successione dei cc. 5 e 9,7ss. Il redattore (o i redattori) finali cercarono di equilibrare minacce e denunce con promesse di salvezza, per con‐cludere con un inno (c. 12) che risuona come un commento al nome del profeta (Isaia = il Signore salva).

5.2. Oracoli contro nazioni straniere (cc. 13–23)

Caratteristico di questa sezione è soprattutto l’uso del termine maśśā’ (oracolo), che si ripete in 13,1; 14,28; 15,1; 17,1; 19,1; 21,1.11.13; 22,1; 23,1. A ragione gli studiosi parlano di un «libro dei maśśā’ôt». Anche se non sempre, il maśśā’ è un oracolo rivolto prevalentemente contro popoli stranieri. Questo avviene abbastanza spesso nella nostra sezione, in cui appaiono menzionate Babi‐lonia (13,1–14,23 e 21,1‐10), Assiria (14,24‐27), Filistea (14,28‐30), Moab (15–16), Damasco (17,1‐


11), Egitto (18–20), Nubia Duma (21,11‐12), tribù arabe (21,13‐17), Tiro e Sidone (23,1‐18). In ge‐nerale si è cercato di raggruppare gli oracoli secondo il paese a cui vengono rivolti (Moab in 15–16; Egitto in 18–20); ma quelli relativi a Babilonia sono rimasti a parte. Conviene avvertire che il tono di predominante minaccia va mitigandosi a volte con promesse di salvezza per gli stranieri (18,7; 19,19‐25). D’altra parte la sezione non è totalmente omogenea; troviamo in essa un oracolo contro Gerusalemme (22,1‐14) e le uniche parole rivolte da Isaia contro un individuo (22,15ss).

5.3. La grande escatologia (cc. 24–27)

Dopo tutti gli oracoli precedenti, questi capitoli costituiscono una specie di bilancio finale. Tutta la terra, senza distinzione di razza né paese, viene sottomessa al giudizio di Dio. Questi capitoli, cer‐tamente non provenienti da Isaia, si inseriscono nella linea di altri testi escatologici, esilici o poste‐silici (Ez 38–39; Is 56–66, ecc.), in cui si parla della lotta di Dio contro i nemici e della vittoria finale del popolo di Israele. I problemi che pongono riguardo all’origine e alla struttura sono troppo gravi per essere trattati qui.

5.4. Oracoli rivolti al popolo di Dio (cc. 28–33)

Sezione molto complessa, che raccoglie in gran parte la predicazione di Isaia durante gli anni 705‐701. È quasi impossibile avvertire un criterio nel raggruppamento degli oracoli. Si nota che vari di essi cominciano con «guai» (28,1; 29,1.15; 30,1; 31,1 e 33,1). Ciò fa pensare che, originariamente, il nucleo fondamentale di questi capitoli formasse (insieme con 10,5‐14 + 14,24‐25a e 18,1‐6) un «libro dei guai»; la sua coesione venne più tardi spezzata quando vi fu inserita la «grande apocalis‐se» (cc. 24–27) ed altri oracoli. In ogni caso questa sezione corrisponde esattamente al modo in cui il redattore concepisce l’“opera di YHWH”: 1) abbassamento della Assiria e dei suoi successori nella funzione di potenza orgogliosa e malefica; 2) umiliazione dell’orgoglio del popolo eletto; 3) restau‐razione di Sion.

5.5. La piccola escatologia (cc. 34–35)

Questi due capitoli costituiscono un dittico escatologico. Nella prima pala YHWH si confronta con le nazioni pagane, Edom in testa, provocando l’assoluta desolazione dei loro territori. Nella seconda, come contropartita, il popolo eletto riceve la benedizione divina. Diversi elementi di questi due quadri corrispondono punto per punto (si paragonino 34,8 con 35,4; 34,9‐10 con 35,6b‐7a; 34,11‐15 con 35,7b). Alcuni attribuiscono questi capitoli al Deuteroisaia. Per quanto numerosi temi del c. 35 ricordino quelli di 40–55, il 34 si inquadra difficilmente in questo contesto.

5.6. Appendice storica (cc. 36–39)

Questa sezione è composta da tre episodi principali: 1) l’invasione di Sennacherib e la sua amba‐sceria (cc. 36–37); 2) l’infermità e guarigione di Ezechia (c. 38); 3) l’ambasciata del re di Babilonia (c. 39). Comune ai tre è la presenza del profeta Isaia, che giustifica l’inclusione di questi racconti al‐la fine della prima parte del libro. Di questi tre episodi, è il primo a porre i maggiori problemi. I capitoli 36 e 37 offrono a prima vista due versioni diverse degli stessi fatti:

Versione A: messaggio di Sennacherib (36,1‐22), reazione di Ezechia (37,1‐2), intervento di Isaia (37,3‐7), epilogo (37,8‐9a.37‐38).

Versione B: messaggio di Sennacherib (37,9b‐13), reazione di Ezechia (37,14‐20), intervento di Isaia (37,21‐35), epilogo (37,36).

Il primo racconto concede grande importanza al discorso del gran Coppiere; il secondo lo riduce, introducendo in cambio una lunga preghiera sulla bocca di Ezechia e un esteso oracolo di Isaia. Al‐tri autori pensano che i due racconti si basino su due diverse ambasciate. Risulta strano che la sezione si concluda parlando dell’ambasciata babilonese (c. 39), in relazione con l’infermità di Ezechia (c. 38). Questi episodi ebbero luogo intorno all’anno 715/714, molto pri‐


ma degli avvenimenti narrati nei capitoli 36–37 (che riflettono la situazione del 701). Il cambiamen‐to d’ordine cronologico sembra motivato dal desiderio di concludere 1–39 con la menzione dell’esilio a Babilonia (cfr. 39,6‐7), che dà il via all’annuncio della salvezza da Babilonia nei capitoli 40–55. Infine dobbiamo sradicare del tutto l’idea che queste sezioni si siano unite in forma casuale, senza coesione interna. Tutta una serie di motivi e di indagini uniscono questi capitoli tra loro e con il re‐sto del libro, molto più strettamente di quanto potremmo immaginare.

BIBLIOGRAFIA SCELTA SU ISAIA 1–39

PENNA A., Isaia, Marietti, Torino‐Roma 1958. AUVRAY P., Isaïe 1‐39, Gabalda, Paris 1972. VIRGULIN S., Isaia, Paoline, Roma 31977. RONDELEUX L.‐J., Isaia e il profetismo, Gribaudi, Milano 1977. MONTAGNINI F., Il libro di Isaia I (capp. 1‐39), Paideia, Brescia 1982. COLLINS J.J., Isaia, Queriniana, Brescia 1995. KAISER O., Isaia. Vol. I (capp. 1‐12). Vol. II (capp. 13‐39), Paideia, Brescia 1998‐2002. MOTYER A., Isaia. Introduzione e commentario, GBU, Roma 2002. CHILDS B.S., Isaia (Commentari Biblici), Queriniana, Brescia 2005. MELLO A., Isaia (Nuova versione della Bibbia dai testi antichi 10), San Paolo, Cinisello Balsamo 2012. SEITZ C.R., Isaia 1‐39 (Strumenti. Commentari 29), Claudiana, Torino 2012. DELL’ORTO G. (a cura di), Isaia (Parole di Vita), Edizioni Messaggero, Padova 2013. VERMEYLEN J., Le livre d’Isaïe. Une cathédrale littéraire (Lectio Divina 264), Du Cerf, Paris 2014.

IL DEUTERO‐ISAIA E IL SUO LIBRO (IS 40‐55)*

1. L’UOMO

L’anonimo autore, che parla di sé una volta sola (48,16), vede l’aurora di un mondo nuovo nelle vit‐torie di Ciro. Il re persiano infatti, che sconfigge il medo Astiage nel 553, fa cadere Ecbatana nel 550, travolge Creso re della Lidia, occupandone la capitale Sardi nel 546 ed espugna improvvisa‐mente Babilonia nel 539, deponendo l’ultimo re Baldassar e creando un enorme impero abbattuto solo da Alessandro Magno (m. 323 a.C.). Il Secondo Isaia invita alla speranza in uno stile poetico ed energico, segno di una forte personalità, solenne e ridondante, sapienziale e drammatico, dà voce a timori e attese di un popolo troppo a lungo sotto il peso della schiavitù.1 Egli è convinto dell’efficacia della Parola nella storia (16 volte ripete «così dice il Signore»), parla di Dio che inter‐viene in prima persona (cf. 42,6; 44,6). Ha come interesse diretto il cammino del popolo da Babilo‐nia (47,1‐48,20) verso Gerusalemme/Sion, e più in lontananza osserva Etiopia (Cush), Arabia (Se‐ba), Egitto e le Isole (Cipro). Nel suo orizzonte storico risale dal triste presente in via di superamen‐to (40,2; 44,3‐5; 49,22‐23; 51,17‐23) a Davide (55,3), a Giacobbe (43,27), ad Abramo (41,8; 51,2), a Noè (54,9).

2. IL LIBRO

Lo sviluppo della critica orienta il lettore a valorizzare da un lato la bellezza e l’espressività delle piccole parti, dall’altro l’efficacia persuasiva della costruzione d’insieme.

2.1. Orientamenti della critica

Da un secolo a questa parte i critici si dividono in due indirizzi contrapposti. Per alcuni studiosi, i quali seguono i principi metodologici di H. Gunkel e H. Gressmann, Is 40‐55 si avvicina a una giu‐stapposizione di unità, originariamente indipendenti e legate tra loro da processi puramente mec‐canici;2 per altri è un discorso continuo, capace di far emergere un coerente pensiero teologico, anche se unità minori possono avere avuto una vita letteraria indipendente. I due approcci meto‐dologici di tipo formgeschichtlich e redaktionsgeschichtlich vedono nel Libro della Consolazione il campo privilegiato per affermare ciascuno il proprio punto di vista. a. La concezione frammentarista fu sostenuta per primo, nel 1914, da H. Gressmann che ritrovò 49 unità, aumentate poi a 70 da L. Köhler3 in una pluralità di generi letterari più sfumati rispetto a quelli dei profeti precedenti: promesse, rimproveri, avvertimenti, oracoli di consolazione e di giudi‐zio, parole di rassicurazione, considerazioni storiche, inni. S. Mowinckel,4 che ne ammette 41, di‐stingue tra unità originariamente indipendenti e il loro collegamento stabilito dopo il 539 in base alla somiglianza di parole chiave, di formule introduttive o conclusive, di contenuto. Più drastico nel rifiutare l’unità d’autore è W. Caspari5 che data canti e oracoli anonimi verso la fine dell’esilio: il Secondo Isaia non esiste, ma è una creazione degli studiosi.

* B. MARCONCINI, Il secondo Isaia (cc. 40–55), in MARCONCINI (a cura di), Profeti e apocalittici, 171‐180. 1 Per l’inquadratura storica dell’esilio, cf. H. CAZELLES, Storia politica di Israele dalle origini ad Alessandro Magno

(Piccola Enciclopedia Biblica 1), Borla, Roma 1985, 195‐207; S. HERRMANN, Storia di Israele. I tempi dell’Antico Testamen‐to, Queriniana, Brescia 21985, 383‐393; G. FOHRER, Storia della religione israelitica, Paideia, Brescia 1985, 355‐365; J.A. SOGGIN, Storia d’Israele. Introduzione alla storia d’Israele e Giuda dalle origini alla rivolta di Bar Kochbà, Paideia, Brescia 2002, 389‐398.

2 B. DUHM, Das Buch Jesaja, Göttingen 1892, considerava un’unità i singoli capitoli, senza i canti del Servo. 3 H. GRESSMANN, Die literarische Analyse Deuterojesajas, ZAW 34 (1914) 254‐297. L. KÖHLER, Deuterojesaja (Jesaja

40‐55) (BZAW 37), Giessen 1923, vi aggiunge altre forme letterarie, come la parola del messaggero, le «autopredica‐zioni», gli attributi cioè che YHWH dà a se stesso, la teofania.

4 S. MOWINCKEL, Die Komposition des deuterojesanischen Buches, ZAW 49 (1931) 87‐112.242‐260. 5 W. CASPARI, Lieder und Gottesspruche der Ruckwanderer (Jesaja 40‐55), (BZAW 65), Giessen 1934.

Il Deutero‐Isaia e il suo libro (Is 40–55) 91

Pur ammettendo la storicità del profeta morto prima della caduta di Babilonia, il massimo studioso dell’“oracolo di salvezza” e della “disputa sapienziale”, J. Begrich,6 frantuma il testo deutero‐isaiano in 70 composizioni cronologicamente disordinate, pur riconoscendo una certa unità sulla base del‐la speranza escatologica nei testi più antichi del 553/552 e della salvezza politica lasciata intravede‐re dalle vittorie di Ciro del 547/546. Le posizioni frammentariste sono state recentemente ripropo‐ste da H.E. von Waldow e da A. Schoors.7 b. L’unità organica del Libro della Consolazione è emersa gradualmente a partire dagli studi di K. Elliger,8 per il quale essa si fonda su elementi formali come le parole‐chiave e sui contenuti: l’insieme risulta cioè di parti minori concatenate (40,12–42,9; 42,10‐44,23; 44,24‐47,15; 48,1‐52,12), riunite da un discepolo del Secondo Isaia, autore anche del quarto canto del Servo e degli ultimi dieci capitoli. Un’affermazione più accentuata dell’unità è fatta da J. Muilenburg9 che ricono‐sce 14 brani nei cc. 40–48 e 7 nei cc. 49–55, rileva alcune corrispondenze strutturali (es. 40,1‐11; 55,1‐3), evidenzia uno sviluppo del pensiero teologico sulla base della modifica e della fusione dei generi letterari tradizionali operata dal Secondo Isaia. C. Westermann è il primo a conciliare lo studio dei generi letterari e la loro collocazione in un in‐sieme più ampio ben strutturato. Il profeta ha infatti utilizzato – afferma questo esegeta – modi di esprimersi da tempo familiari agli ascoltatori per il dialogo con Dio, generi con una vita “prelettera‐ria” antecedente il loro inserimento in una composizione più vasta, cioè nel libro del Deuteroisaia che «così come lo abbiamo oggi, risale per gran parte allo stesso profeta».10 Gli studi di J. Muilen‐burg e soprattutto di C. Westermann sono largamente seguiti anche da coloro che accentuano la dimensione teologica,11 finché si giunge all’introduzione di due nuovi concetti da parte di R.F. Me‐lugin e di Y. Gitay.12 Il primo sottolinea la strutturazione “kerigmatica” delle varie parti unite tra loro da processi propri della “retorica”; il secondo vi ritrova lo sforzo di persuasione rivolto ad una co‐munità inserita in un particolare contesto storico, culturale, sociale e politico per indurla a un cam‐bio di atteggiamento. Su questa base è possibile individuare un discorso “drammatico”13 in quattro tappe, per invitare gli Israeliti timorosi e increduli a un atto di fede nel Signore, pronto a farli uscire da Babilonia (48,20). Consideriamo ora alcuni strumenti di cui si serve il profeta per trasmettere il suo messaggio: il pri‐mo si colloca su un piano più letterario, il secondo su quello prevalentemente teologico.

2.2. Aspetti letterari14

a. Alcuni generi letterari – L’inno, frequente nei Salmi (vedi già l’acclamazione «halelû‐yàh» = glorificate YHWH), è un’esplo‐sione di gioia per le meraviglie operate dal Signore. Assieme alla motivazione (per es. Il Signore ha

6 J. BEGRICH, Studien zu Deuterojesaja (BWANT 77), Stuttgart 1938. 7 H.E. VON WALDOW, The Message of Deutero‐Isaiah, Interp. (1968) 259‐287; A. SCHOORS, I am God your Saviour: A

Form‐Critical Study of the Main Genres in Is XL‐LV (VT.S 24), Leiden 1973. 8 K. ELLIGER, Deuterojesaja in seinem Verhältnis zu Tritojesaja (BWANT 63), Stuttgart 1933, spec. 219‐272. 9 J. MUILENBURG, The Book of Isaiah, Chapters 40‐66, New York 1956, 381‐773; Id., Form‐Criticism and Beyond, JBL

88 (1969) 1‐18. 10 C. WESTERMANN, Isaia 40‐66, Paideia, Brescia 1978, 44; Id., Sprache und Struktur der Prophetie Deuterojesajas (TB

24), München 1964, 92‐170. 11 J.D. SMART, History and Theology in Second Isaiah: A Commentary on Isaiah 35.40‐66, Philadelphia 1965; O.A.F.

KNIGHT, Deutero‐Isaiah: A Theological Commentary on Isaiah 40‐55, New York 1965; J.L. MCKENZIE (1968); P.E. BONNARD (1972); H.C. SPYKERBOER, The Structure and Composition of Deutero‐Isaiah with Special Reference to the Polemics against Idolatry, Leek‐Groningen 1976; A. BONORA, Isaia 40‐66. Israele servo di Dio, popolo liberato, Queriniana, Brescia 1988; E. BEAUCAMP, Le II Isaïe (Is 40,1–49,13). Problème de l’unité du livre, RevSR 62 (1988) 218‐226.

12 R.F. Melugin, The Formation of Isaiah 40‐55 (BZAW 141), Berlin‐New York 1976; Y. GITAY, Prophecy and Persuasion. A Study of Isaiah 40‐48, Bonn 1981.

13 P.H. PLAMONDON, Le Deutéro‐Isaïe. De la multiplicité des genres littéraires à l’unité d’un doscours, LTP 39(1983) 181‐185.

14 C. WESTERMANN, Isaia 40‐66, 20‐31; ID., Prophetische Heilsworte im Alten Testament, Göttingen 1987, 3‐45.

92 Il Deutero‐Isaia e il suo libro (Is 40–55)

riscattato Giacobbe) include il destinatario, cioè il popolo, oppure Gerusalemme e la natura. Si ve‐dano Is 42,10‐13; 44,23; 45,8; 52,9‐10. – L’oracolo di salvezza nella sua forma completa è costituito da quattro momenti: l’invito a «non temere», il destinatario descritto nella situazione di bisogno, la promessa di aiuto e la motivazione legata a un titolo divino («sono il tuo redentore, il Signore»). Oltre all’esempio perfetto di Is 41,14‐16, si vedano 41,8‐13; 43,1‐3a; 44,2‐5 e anche 48,17‐19; 49,7.14‐15; 51,7‐8; 54,4‐8 per la presenza di qualcuno dei quattro elementi. – La contesa giudiziaria (rîb) già attestata altrove (Is 1,10‐20; Mic 6,1‐8; Sal 50,1‐15) è un rimprove‐ro rivolto al popolo infedele all’alleanza, lento ad aprirsi alle novità, e una contestazione agli idoli delle nazioni, incapaci di reggere a un minimo confronto con il Signore. Nella forma più perfetta (41,1‐5) comprende vari momenti: invito alla natura a presentarsi come testimone al processo, ri‐cordo delle meraviglie operate dal Signore, minaccia (cf. 41,21‐29; 42,18‐25; 43,8‐13.22‐28; 44,6‐20; 48,1‐11; 50,1‐3). Simile alla contesa, ma con accenti più sereni e in uno schema più libero, si presenta la disputa sapienziale (40,12‐25; e anche 45,9‐13; 46,9‐13; cf. Gb 38).

b. Parole‐chiave15 – «Alleanza» (berît: 42,6; 49,8; 54,10; 55,3), pur limitatamente attestata, è un tema centrale dal momento che l’esilio sembrava una prova della sua rottura. Il vertice è al c. 54, che presenta l’alleanza come dono divino alimentato da un dialogo sponsale e da una promessa di pace; l’ultimo testo le conferisce perennità. – «Annunciare» (higgîd – hišmîa‘ ciascuno dei due verbi è attestato dieci volte) rivela Dio capace di proclamare in anticipo, di far comprendere i fatti che accadranno e di farli emergere dalla storia degli uomini, una capacità questa negata agli idoli (41,22‐23; 43,9‐12; 45,8.21; 48,14). «Non ricor‐date più le cose passate, ecco faccio una cosa nuova» (43,18‐19). La fede, pertanto, non si fonda più solo su eventi passati (cf. Dt 26,5‐9), ma su quanto Dio sta operando: il credente diventa così un uomo rivolto verso l’avvenire. – «Consolare» (niḥam: 40,1; 51,3; 52,9; 54,11) esprime la capacità trasformante dell’azione divina, tale da portare dalla schiavitù alla libertà, ben al di là del pronunciamento di dolci parole. Questa dimensione innovativa è connotata ancor più profondamente attraverso il «creare» (bārā’: 41,20; 43,15; 45,7.12.18) nella storia e nella natura, produrre cioè qualcosa di inesistente. Questo è ve‐ramente un lieto annuncio, un evangelizzare (biśśar, LXX euangelízesthai: 40,9; 41,27; 53,7), in cui consiste quel dono divino che è la giustizia (ṣedeq/ṣedāqāh), presente nel Secondo Isaia ventotto volte, spesso in parallelo con salvezza (cf. ad esempio 45,8.21; 51,5). Essa dà senso pieno al riscatto (gā’al: 41,14; 44,22; 54,5...: diciassette volte). Queste verità sono enunciate all’interno di una con‐trapposizione: da una parte tra il Signore e gli idoli inefficaci e quindi inesistenti, trattati con forte ironia (40,19‐20; 41,6‐7; 44,9‐20); dall’altra tra il popolo redento e le nazioni pagane, destinate a trasferire il loro potere agli oppressi. Questo evidente nazionalismo sarà superato pienamente nei canti del Servo.

c. Immagini Caratteristico del Secondo Isaia è altresì l’uso abbondante di immagini eloquenti quali il pastore (40,11), l’acqua e la sabbia (48, 18s), la natura che germoglia (42,9; 43,19; 44,4; 55,10‐11), gli ani‐mali (51,20), la sposa (54,6), i monti.16

15 Cf. C. WIÉNER, Il profeta del nuovo esodo, Gribaudi, Torino 1980, 29‐42, dove si prendono in considerazione 20

termini. «L’esame del vocabolario si rivela necessario come lo studio delle forme per scoprire la dinamica del testo» (S. AMSLER – J. AUNEAU ET ALII, I profeti e i libri profetici, Borla, Roma 1987, 270).

16 L. ALONSO SCHÖKEL, Estudios de poética hebrea, Barcelona 1963, 300. Per i vari elementi simbolici cf. R. LACK, La symbolique du Livre d’Isaïe. Essai sur l’image littéraire comme élément de structuration (AnBib 59), Roma 1973.


2.3. La struttura: un’unica salvezza in cinque momenti

Anziché un elenco delle strutture proposte,17 sulla base degli studi di C. Westermann elaborati da P.H. Plamondon e da E. Beaucamp e ripresi da A. Bonora, riproponiamo le cinque parti dell’unico tema della salvezza, delimitate dall’inno finale che trasforma in preghiera l’annuncio gioioso.18

a. Il fondamento della salvezza, l’invio di Ciro (40,12–42,12) Dopo l’introduzione (40,1‐11), che costituisce una inclusione con l’epilogo (55,6‐13) per l’identica tematica dell’efficacia della Parola, il primo discorso presenta Dio come incomparabile, superiore agli idoli, capace di rispondere al popolo e di fargli superare le difficoltà. Questo popolo nutre un dubbio tremendo: Dio si è forse dimenticato della situazione (40,27), oppure ha perso la propria forza, si è stancato (40,28), ha rivolto lo sguardo benevolo alle nazioni, attratto dai loro sacrifici (40,16‐17). L’assicurazione del profeta, secondo il quale «Dio dà forza allo stanco, a quanti sperano in lui» (40,29.31), è fondata sulla signoria esercitata dal Signore nel creato e nella storia (40,12‐26) e sul suo coinvolgimento nelle strepitose vittorie di Ciro che gli idoli sono stati incapaci di prevede‐re (41,22‐23). L’inno finale (42,10‐12) costituisce un riconoscimento entusiasta di quanto procla‐mato, accompagnato da un invito al mare, alle isole, al deserto a fare parte del coro.

b. La salvezza come riscatto (42,13–44,23) Finora l’azione di Dio consisteva nel sostenere l’opera di Ciro, ora egli stesso «avanza come un pro‐de, come un guerriero eccita il suo ardore, grida, lancia urla di guerra, si mostra forte contro i suoi nemici» (42,13). L’ulteriore coinvolgimento di Dio a favore del popolo, lasciato intravedere nel di‐scorso precedente («nuovi fatti io preannuncio»: 42,9), è qualificato come un riscatto (gā’al),19 un ricupero di ciò che è proprio. L’obiettivo di questo gesto del Signore è triplice: la gloria che ridonda su di lui per la testimonianza data alle genti da parte del suo popolo, la presa di coscienza da parte di quest’ultimo di aver meritato l’esilio per i propri peccati, e il ristabilimento nella condizione di «servo», dopo il perdono del peccato. La radice gā’al, pur trovandosi anche prima e dopo nella forma sostantivata come titolo divino, sembra caratterizzare questo discorso, sia per una maggiore attestazione (43,1; 44,6.22.23), sia per l’irrilevanza che ha la radice «salvare», maggiormente pre‐sente nei due discorsi seguenti. Al positivo intervento divino inneggia il gioioso canto finale (44,23).

c. La pienezza della salvezza (44,24–49,13) La presenza per tredici volte del termine salvezza/salvare (yāša‘),20 l’attenuata proclamazione dei titoli divini, dati ormai per acquisiti, lo sguardo rivolto al futuro, la richiesta della collaborazione umana, segnalano un ulteriore sviluppo del tema centrale: il «riscatto» era solo dono, la «salvezza» è anche conquista. È chiarito come Ciro, «il messia del Signore, preso per la destra, chiamato per nome», sia nelle mani del Signore strumento di salvezza, come Nabucodonosor lo fu per il giudizio. La salvezza consiste nel ritorno in patria, nella ricostruzione della città, nella riedificazione del tem‐pio, per cui la distruzione di Babilonia (cc. 46‐47) entrerà a far parte di questo disegno: riconoscerà che «solo in Gerusalemme c’è Dio, non ce n’è altri, non esistono altri dèi» (45,14b). La salvezza comporterà una vera e profonda conoscenza di Dio, non più nascosto e indifferente alla sorte del popolo: l’esperienza di un gioioso ritorno a Gerusalemme sarà possibile con la rinuncia alla sicurezza offerta da Babilonia (cf. il ripetuto invito: «uscite da Babilonia, fuggite dai Caldei»),

17 Cf. AMSLER – AUNEAU, I profeti, 275‐278, che ripropone quella di R. Lack; WIÉNER, Il profeta del nuovo esodo, 43‐46,

ricerca la corrispondenza tra le parti rifacendosi a J. Begrich, interpretato da P. Beauchamp; più comunemente si prefe‐risce una divisione bipartita fondata su Giacobbe/Israele (40,12–48,22) e su Dio (49,1–54,17), con una varietà di unità minori, 12 per la prima sezione e 6 per la seconda (cf. P.E. BONNARD, Le Second Isaïe, son disciple et leur éditeurs (40–66), Paris 1972, 19‐28; E. TESTA, Il profetismo e i profeti, ID., Il messaggio della salvezza 4, Elle Di Ci, Leumann 1977, 707‐710), oppure rispettivamente 22 e 18 (L. MCKENZIE, Second Isaiah translated with an Introduction and Notes, New York 1968, XXXI).

18 B. MARCONCINI, La salvezza contemplata dal Secondo‐Isaia, in PSV 25 (1992/1) 58‐62. 19 H. RINGGREN, gā’al, in GLAT I, 1804‐1816. 20 Is 45,8.15.17(bis).20.21.22; 46,7.13(bis); 47,13.15; 49,8.


fidandosi unicamente della guida divina. La salvezza è pertanto anche liberazione dalla paura dell’idolo, ormai rovesciato a terra (46,1); è inserimento in un’armonia universale ristabilita dalla «giustizia» (un termine presente nove volte in questo brano: 45,8.13.19.21.24; 46,12.13; 48,1‐18), talora in parallelo con «salvezza» (45,8‐21; 46,13); è gioiosa contemplazione di una nuova creazio‐ne; è ristabilimento in Gerusalemme, dove soltanto è possibile viverla in pienezza: 49,13 trasforma in preghiera la salvezza posseduta e annunciata.

d. La salvezza come rinascita di una speranza in cuori rinnovati (49,14–52,12) La salvezza evocata in cinque passi (49,25s; 51,5s.8) appare ormai un dato sicuro anche per gli esuli sfiduciati. Non avviene tuttavia nessuno spostamento reale: lo sguardo, il pensiero sono a Gerusa‐lemme, ma i salvati sono ancora a Babilonia. Il clima è quello dell’attesa di una partenza immedia‐ta. Abbandonato il timore e il dubbio, gli esuli «cercano la giustizia, cercano il Signore» (51,1), por‐tano nel cuore la sua legge (51,7). Per la centralità di Gerusalemme cui è rivolto un ripetuto invito a svegliarsi (51,17), in parallelo con l’identico invito al braccio del Signore (51,9), la salvezza consiste a questo punto in una presa di coscienza dell’imminente ricostruzione della città: «svégliati (‘ûrî), Gerusalemme», potrebbe essere la parola‐chiave, meno evidente comunque delle parti precedenti (51,9.17; 52,1). L’inno finale contiene accenti più prolungati (52,9‐12).

e. La salvezza come alleanza di pace in un clima sponsale (54,1–55,6) Il termine «alleanza» (berît šālôm: alleanza di pace) usato finora solo nei canti del Servo, riconduce a unità gli stadi precedenti. L’esilio, solo un bisticcio familiare (54,7), è ormai un fatto del passato, appena ricordato per alimentare la certezza che non accadrà più (54,4). Ora regna la gioia indicibile di una madre preoccupata di «allargare lo spazio della tenda» (54,2) per i figli numerosi che ritor‐neranno e per l’intimità del rapporto sponsale. Quest’ultima parte non ha un inno terminale, ma un invito: «Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo mentre è vicino» (55,6).

3. UN ANNUNCIO DI SALVEZZA E DI PACE

La salvezza è fondamentalmente la liberazione dall’esilio, che riceve una nuova interpretazione. Per la storia deuteronomistica l’esilio è frutto del peccato del popolo che ha costretto Dio a separarsi; per Geremia (29,10‐11) è l’ultima prova della necessità di una nuova «alleanza» che renderà sicuro il ritorno; per Ezechiele (c. 37) è la manifestazione dell’onnipotenza divina capace di dare vita a os‐sa aride. Per il nostro profeta è soprattutto l’occasione perché si manifesti la potenza di Dio e la sua fedeltà. Spiccano la figura di Dio liberatore e il nuovo esodo: due temi che, assieme alla figura del Servo, spiegano perché il Secondo Isaia sia tra i più citati nel NT, soprattutto dal quarto evangeli‐sta.21

3.1. Il volto di Dio

Il profeta usa 23 titoli (Dio: 46 volte; YHWH: 9 volte; e poi Santo, vivente, primo e ultimo, incompa‐rabile, roccia, indomabile, re, pastore, vicino, padre, madre equivalentemente in 49,14, sposo) e 63 termini che ne evidenziano l’attività (crea, fonda, forma, sceglie, chiama, sostiene, ama, guarda, benedice).22 Egli agisce mediante la parola efficace23 che, sotto il profilo letterario, apre (40,1‐11) e chiude la profezia (55,10‐11).

3.2. Il nuovo esodo

La salvezza annunciata è immaginata come un esodo capace di far dimenticare quello dall’Egitto,24

21 Cf. P. BEAUCHAMP, Le Deutéro‐Isaïe dans le cadre de l’Alliance, Lajon 1970, 46‐51; BONNARD, Le Second Isaïe, 71‐81. 22 BONNARD, Le Second Isaïe, 497‐555. 23 BONORA, Isaia 40‐66, 38‐44; L. SABOURIN, Iahweh et sa parole dans l’histoire, in C. MARCHESELLI (a cura di), «Parola e

Spirito», I, Paideia, Brescia 1982, 575‐583; W. ZIMMERLI, Jahwes Wort bei Deuterojesaja, VT 32 (1982) 104‐124. 24 WESTERMANN, Isaia 40‐66, 33s; VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, II, 282.289‐290; B.W. ANDERSON, Exodus

Typology in Second‐Isaiah, in Israel Prophetic Heritage. Fs. J. MUILENBURG, London 1962, 177‐197; W. ZIMMERLI, Il «nuovo


realizzato nel triplice momento dell’uscire da Babilonia (yāṣā’), del camminare nel deserto e dell’entrare in o mandare a Gerusalemme (bô’/šālaḥ).25 Dio signore della storia è «colui che fa uscire» (hammôṣî) dalla strada (derek) del mare e del deser‐to: i lamenti degli Egiziani diventano qui il lutto dei Caldei, in una interessante concentrazione di presente, passato e futuro (43,14‐21). Il deserto, che avrà l’abbondanza di acqua, è considerato un vero anticipo della terra promessa. L’accento è posto sul futuro aperto alla novità e alla speranza, posseduto da un popolo che loderà il Signore, definito con i nuovi titoli di creatore e redentore, ol‐tre che con quelli già noti di colui che «fa» e «forma». Un altro testo (48,20‐21) arricchisce il tema di elementi nuovi. L’uscita è possibile se il popolo obbedisce a un comando. Questo nel primo eso‐do era dato dal faraone (Es 12,31: alzatevi, uscite), nel secondo è ingiunto da Dio, sia che egli lo pronunci direttamente, sia che lo rivolga attraverso un mediatore, il profeta, oppure Ciro. La fuga verso la città della gioia (cf. Sal 126,1‐2) è in contrasto con la fuga precipitosa dei Caldei costretti a cambiare i loro festosi tumulti in lutto (cf. 43,14). Non siamo pertanto davanti a una semplice ripe‐tizione dei fenomeni di un tempo, ma all’assicurazione che Dio sarà guida e protettore adeguato all’importanza del nuovo avvenimento. Il motivo della lode per questo evento sicuro è ora amplia‐to in una dimensione cosmica. L’uscita da Babilonia (48,20; 52,11‐12) avverrà senza fretta (vedi invece Es 12,11.33.34. 39; 14,5); avrà come guida e difensore il Signore, non la semplice manifestazione della sua presenza rappre‐sentata dalla nube e dal fuoco (Es 13,21‐22); si snoderà come una solenne liturgia processionale nella quale sono portati gli arredi del Signore, non i vasi egiziani (Es 12,35). Un passo riassuntivo (55,12‐13) già parzialmente anticipato (44,3‐4) chiude la profezia. Il deserto, anziché essere luogo impervio, è un vero anticipo della terra promessa, una riedizione del paradiso terrestre (cf. Is 35), un giardino lussureggiante, creato dal «braccio del Signore» (40,10), capace di cambiare la natura (50,2), così come un tempo ha prosciugato (’aḥărîv) il mare (50,2; 51,10; 44,27). In un lungo passo (43,1‐7), vero compendio dei titoli di Dio, il nuovo esodo è evocato con il superamento dei pericoli cosmici, dell’acqua e del fuoco incontrati nell’attraversa‐mento del mare ostile e di quel forno che era l’Egitto (Dt 4,20; Ger 11,4), dove «si accese lo sdegno del Signore e divampò il suo fuoco» (Nm 11,1). Nel nuovo esodo regna una sicurezza totale (43,2‐3) come in un quieto e lussureggiante giardino (41,17‐20). La meta dei liberati è la città, Gerusalemme, e non più la terra (40,2.9; 44,26.28; 51,17; 52,9). Con il passaggio da una visione agricola a una prospettiva urbana, è accentuata l’idea di comunione, del vivere insieme in una prospettiva capitale, dove la centralizzazione offre sicurezza e realizza un’unione più stretta rispetto a quella tribale. Anche se distrutta, Gerusalemme vive come simbolo di una storia gloriosa fin dai tempi di Davide, per cui ritornarvi è pervenire a quella casa che si po‐polerà di numerosi figli: vi si entra, come in un luogo santo, in processione liturgica e non – come nel primo ingresso – in una terra contaminata dai peccati dei Cananei. Questo carattere sacro della città è sottolineato dalla variante terminologica di Sion (46,13; 51,3.11.16; 52,7.8), il monte del tempio, mai collegato con i peccati.

esodo» nella predicazione dei due grandi profeti dell’esilio, in ID., Rivelazione di Dio. Una teologia dell’Antico Testamen‐to, Jaca Book, Milano 1975, 175‐185; A. SCHOORS, Les choses antérieures et les choses nouvelles dans les oracles deu‐téro‐isaïens, EThL 40 (1964) 19‐47; R. BEAUDET, La Typologie de l’Exode dans le Second‐Isaïe, LTP 19 (1963) 11‐21; K. KIE‐SOW, Exodustexte im Jesajabuch. Literarkritische und Motivgeschichtliche Analysen (OBO 24), Göttingen 1979; M. CA‐SAMITJANA, De l’Exode au «nouvel Exode» de Deutéro‐Isaïe, in Bible et Christologie, Paris 1984, 133‐160; J.L. SICRE, El can‐tico del nuevo éxodo (Is 42,13‐14), in Miscellanea Augusto Segovia (BTGran 21), Granada 1986; S. HUSIN, La tradición del Éxodo en los profetas, in J.M. CASCIARO ET AL. (a cura di), Biblia y hermenéutica. VII Simposio internacional de teolo‐gia de la Universitad de Navarra, Pamplona 1986, 423‐438; C. STUHLMULLER, Creative Redemption in Deutero‐Isaiah (An‐Bib 43), Roma 1970, 66‐73 (esodo come via alla redenzione creativa) e 82‐94 (motivo del combattimento).

25 Cf. più ampiamente, B. MARCONCINI, Rilettura e profezia dell’esodo nel Secondo‐Isaia, PSV 24 (1991/2) 17‐29. Sul capitolo 55 vedi in particolare G. DE CARLO, Il banchetto della vita e i progetti del Signore (Is 55), in G. DELL’ORTO (a cura di) Isaia (Parole di Vita 4), EMP, Padova 2013, 172‐178.


Concepito come creazione e redenzione, il nuovo esodo assurge così a categoria salvifica capace di interpretare e illuminare la vita del popolo di Dio, assurgendo a elemento profetico. Conseguente‐mente, lo sguardo del popolo di Dio non si volgerà più al passato, ma all’azione creativa che in ogni tempo Dio sta compiendo. Il nuovo esodo non significa però che l’uscita da Babilonia è il punto di riferimento, al posto della liberazione dall’Egitto: sarebbe sempre un guardare indietro, quindi un atteggiamento privo di speranza. Il punto di riferimento sarà l’assoluto che Cristo realizzerà (2Cor 5,17; Ap 21,5). Il secondo esodo si apre così al terzo esodo,26 al cambiamento della condotta, personale e comuni‐taria, all’“esodo sul posto”, costituito dal passaggio da una vita inautentica, dal ripiegamento su di sé alla proiezione in Dio: è quanto sostengono alcuni profeti e testi postesilici. Il nuovo esodo divi‐de la storia in due tempi: ora inizia quello definitivo del nuovo Eden (Is 51,3) e la vittoria finale sul caos e le forze della natura (51,9‐11). La comprensione dell’attività divina nella storia come crea‐zione nuova prepara a capire meglio l’atto decisivo di Dio in Cristo, la cui dipartita da questo mon‐do è presentata come un esodo (cf. Lc 9,31; Gv 13,1) che renderà possibile la partecipazione dei popoli alla salvezza e il passaggio dalla divisione all’unità della famiglia umana. Il tema del Servo del Signore è da insersirsi a questo punto della trattazione, per la sua importanza viene trattato più ampiamente come capitolo a se stante.

I CANTI DEL SERVO*

Bibliografia

ADINOLFI M., Il servo di YHWH nell’autocoscienza di Gesù, in DE GENNARO G. (a cura di), L’Antico Testamento interpretato dal Nuovo: Il Messia, Napoli 1985, 437‐453.

BEAUCHAMP P., Lecture et relectures du quatrième chant du Serviteur. D’Isaïe à Jean, in VERMEYLEN J. (a cura di), The Book of Isaiah (BEThL 81), Leuven 1989, 325‐355.

BESSA TAIPA A. M., O primeiro canto do «Servo de Javé». Is 42,1‐9, in HumTeo 8 (1987) 127‐173. BONORA A., Il Servo di YHWH, in ID., Isaia 40‐66, Brescia 1988, 94‐131. BUBER M., La fede dei profeti, Casale Monf. 1985, 198‐227. CAZELLES H., Les poèmes du Serviteur: leur structure, leur théologie, in RechSR 43 (1955) 5‐51. COPPENS J., Le Messianisme et sa relève prophétique. Les anticipations vétérotestamentaires et leur accomplissement en

Jésus (BEThL 38), Leuven 21989, 41‐113.195‐216. DEL OLMO LETE G., La vocación del lider en el Antiguo Israel, Valencia 1973, 321‐356. FEUILLET A., Les Poèmes du Serviteur, in ID., Ancien Testament. Études d’Exégèse et de Théologie biblique, 119‐179. FÜGLISTER N., Il Servo di Dio, in AA.VV., Mysterium salutis, 5, Brescia 1971, 195‐221. GOSSE B., Isaïe 52,13‐53,10 et Isaïe 6, in RB 98 (1991) 537‐543. GRELOT P., I Canti del Servo del Signore (StBi), EDB, Bologna 1983. HAAG H., Der Gottesinecht bei Deuterojesaja (EdF 233), Darmstadt 1985 (bibliografia completa fino al 1985). MARCONCINI B., Il Servo di Dio nei Canti del libro di Isaia, in BONORA A. (a cura di), La Spiritualità dell’Antico Testamento, I,

EDB, Bologna 1987, 436‐440. ID., Gesù Servo, in ParVi 36 (1991) 346‐352. MASSI P., Teologia del Servo di YHWH e i suoi riflessi nel N. T., in Il Messianismo. Atti della XVIII Settimana Biblica, Brescia

1966, 105‐134. NORTH C.R., The Suffering Servant of Deutero‐Isaiah. An Historial and Critical Study, Oxford 1956. ODASSO G., La missione universale del «servo del Signore» (Is 42,1‐4), in ED 42 (1989) 371‐390. RAD G. VON, Teologia dell’Antico Testamento, II, 294‐306. REMAUD M., Le Serviteur: Jésus et Israel, in NRT 113 (1981) 664‐678. RENAUD B., La mission du Serviteur en Is 42,1‐4, in RevSR 64 (1990) 101‐113. ROWLEY H. H., The Servant of the Lord in the Light of Three Decades of Criticism, in The Servant of the Lord, Oxford

21965, 3‐60. TOURNAY R. J., Les chants du Serviteur dans la seconde partie d’Isaïe, in RB 59 (1952) 355‐384.481‐512.

26 A. SPREAFICO, Il terzo esodo: schemi e immagini, in RivBib 28 (1980) 129‐158; cf. D. DAUBE, The Exodus Pattern in

the Bible, London 1963. * B. MARCONCINI, I canti del servo, in MARCONCINI (a cura di), Profeti e apocalittici, 297‐317.


VARO F., El Cuarto Canto del Siervo (Is 52,13‐53,12). Balance de diez años de investigación (1980‐1990), in ScrTh 22 (1990) 517‐538.

WILCOX P. – PATON‐WILLIAMS D., The Servant Songs in Deutero‐Isaiah, in JSOT 42 (1988) 79‐102.

La parola servo (‘ebed) si trova ventun volte nel Libro della Consolazione e designa i fedeli (54,17), i profeti (44,26), il Secondo Isaia (50,10) e soprattutto Israele o sicuramente (41,8.9; 44,1.2.21; 45,4; 48,20) o assai probabilmente (42,19; 43,10). Il problema che emerge da questi testi può essere enunciato così: negli altri quattro passi, chiamati ormai comunemente «Canti del Servo» (42,1; 49,3; 52,13; 53,11), il termine conserva lo stesso significato oppure si riferisce a un personaggio di‐verso? Questo interrogativo che mira all’identificazione della persona apre altri due quesiti più im‐portanti: quale figura (profetica, regale, sacerdotale?) emerge dai canti e qual è il suo valore mes‐sianico? Per una corretta risposta a queste domande è necessario far luce su tre presupposti, nei quali confluiscono problemi minori: il rapporto con il contesto, il numero dei canti e il tempo di composizione.

I. PRESUPPOSTI PER UNA CORRETTA INTERPRETAZIONE

a) Il rapporto con il contesto

La delimitazione dei Canti del Servo, nel loro inizio e soprattutto nel loro termine, dipende innanzi‐tutto dalla soluzione del problema della struttura del Secondo Isaia. Nella prospettiva infatti del frammentarismo, sostenuta da H. Gressmann (1914), L. Köhler (1923), W. Caspari (1934) e J. Be‐grich (1938), i Canti del Servo sarebbero brani tra altri, da leggere separatamente, dopo aver tenta‐to di ricercare per ognuno la situazione esistenziale. Nella concezione invece di un Secondo Isaia come opera unitaria, ben strutturata, sostenuta da K. Elliger (1933) e soprattutto da J. Muilenburg (1956), seguito da D. Greenwood (1970), R. Melugin (1978) e Y. Gitay (1981), si aprono due possibi‐lità. Alcuni studiosi come P. E. Bonnard27, T. D. N. Mettinger28 e A. Bonora29 leggono i canti alla luce del contesto, altri li staccano da esso, formandone una composizione unitaria. Dall’ipotesi prescel‐ta scaturisce una soluzione diversa circa la figura del servo e la sua identità30. Aderendo all’opinione della discontinuità con il contesto e dell’omogeneità tra di loro sostenuta da B. Duhm (1892,51967), H. Cazelles (1955)31, L. McKenzie (1968), A. Feuillet (1975), C. Westermann (1978), P. Grelot (1981)32, P. H. Plamondon (1982) e probabilmente da E. Beaucamp (1988), rite‐niamo più probabile una lettura continuata dei canti. «Nessuno dei tentativi fatti finora per spiega‐re questi testi partendo dal loro contesto immediato è riuscito. La tesi di Duhm resta dunque tutto‐ra la più accettabile... Il gruppo dei canti del Servo di YHWH rappresenta uno strato speciale, aggiun‐to al libro successivamente, anche se i primi tre canti – come io ritengo – risalgono al Deuteroisaia.

27 «Non esistono quattro poemi eterogenei in rapporto al contesto e omogenei tra loro; è vero esattamente il con‐

trario: i poemi in questione sono omogenei al contesto e parzialmente eterogenei gli uni in rapporto agli altri» (BON‐NARD, Le Second Isaïe, 39).

28 T. D. N. METTINGER, A Farewell to the Servant Songs. A Critical Examination of an Exegetical Axiom, Lund 1983. L’«addio» ai Canti come unica composizione è motivato dalla eterogeneità tra di loro e dall’omogeneità letteraria e contenutistica con Is 40–55.

29 «Forse non c’è una ragione sufficiente per ritenere che i cosiddetti ‘canti del servo’ formino un complesso unita‐rio e indipendente inserito in un secondo tempo nell’opera del Secondo‐Isaia» (Il Servo di YHWH, in ID., Isaia 40‐66, Bre‐scia 1988, 97s; cfr. la recensione critica di B. MARCONCINI, in RivBib 36 [1988] 523‐525).

30 C. WIÉNER, Il profeta del nuovo esodo, 47‐53. Nell’ipotesi di una lettura alla luce del contesto, il servo è Ciro nel primo canto, quindi l’Israele fedele o il «resto» nel secondo, il profeta nel terzo, di nuovo il resto oppresso e causa di salvezza nel quarto canto.

31 «Noi seguiamo dunque qui (cioè sulla rottura chiara col contesto all’inizio e la fluidità nel momento terminale) la posizione di Duhm, Kittel, Staerk, Volz, Dennefeld, Fischer, Rudolph, Vaccari, Van der Ploeg, Robert, Feuillet, Coppens, Auvray, Steinmann, Bentzen, Rowley (bisognerebbe sfumare e, in più casi distinguere, il quarto canto dagli altri). Sono per l’unità Kissane, S. Smith, North, Snaith, Schilderberger, Tournay, Lindblom, Mowinckel, Loisy» (H. CAZELLES, Les poèmes du Serviteur: leur structure, leur théologie, in RechSR 43 (1955) 18 nota 31).

32 «Queste considerazioni ci consentono di proporre, come ipotesi fondata di ricerca, l’unità globale fra i brani at‐tualmente dispersi in quattro diversi punti del libro» (P. GRELOT, I canti del servo del Signore, Bologna 1983, 22).


Il quarto canto, che presuppone la morte del Servo, è più tardivo degli altri tre, i quali furono inse‐riti nel Deuteroisaia insieme ad esso. L’inserimento del quarto canto dopo il brano conclusivo di 52,7‐12 è comprensibile; non lo è invece il motivo per cui gli altri tre canti furono messi là dove si trovano attualmente»33. L’affermazione riguarda la redazione finale, non i momenti della forma‐zione sui quali si riscontra una più accentuata diversità di opinioni. Decisivi sono tre argomenti, di valore decrescente.

1. I canti interrompono lo svolgimento di un tema

Il primo canto (42,1‐7) interrompe una lite (rîb) tra Dio e gli idoli (41,21‐29) ripresa a 42,8 sul tema della capacità di predire, cioè di provocare, realizzare gli eventi, come YHWH ha fatto per Ciro. Gli idoli (41,29; 42,8) sono niente (41,24.29), in quanto incapaci di annunciare gli eventi (41,22.23.26), come invece è ripetuto per il Signore (41,25.27; 42,9): questa tematica non si trova mai nei canti. Il secondo canto (49,1‐9a) divide il discorso sul nuovo esodo (48,20‐21) che riprende34 a 49,9b‐12: il canto svolge il tema della missione, non della liberazione del popolo. Anche il terzo canto (50,4‐9a) risulta inserito all’interno di un linguaggio minaccioso (50,1‐3) – ripreso a 50,9b – dove compaiono avversari, la veste come mezzo espressivo (50,3.9b) e immagini cosmiche di punizione (mari, fiumi, deserto, cielo), non uomini chiamati alla salvezza. L’unanimità degli studiosi sull’estensione del quarto canto (52,13–53,12) è pienamente giustificata dal fatto che l’uscita da Babilonia nella sicu‐rezza e nella calma, nella gioia e nel canto per l’aiuto di Dio (52,7‐12), ha una continuazione in 54,1 che invita Sion ad allargare i confini per accogliere gli esuli. La forza di queste argomentazioni non risiede tanto nel passaggio da una tematica all’altra quanto nell’interruzione di un tema, causata dall’inserimento del canto.

2. La diversità di senso in espressioni affini

L’inserimento fatto da un artista difficilmente dà come risultato un’opera maldestra: somiglianza di vocabolario e di stile tra il servo del Libro della Consolazione (Is 40–55) e quello dei canti in espres‐sioni quali «formato nel seno materno», «preso per mano», sono certamente da attendersi35. Semplici affinità letterarie possono coesistere con la diversità dei contenuti, dell’origine e dell’autore. Il Libro della Consolazione e i canti del Servo manifestano una evoluzione – da un servo identificato (41,8.9; 42,19‐22.24; 43,10) a un personaggio anonimo; – da un comportamento per lo più ribelle e peccatore, un servo sordo e cieco (42,18‐20), a una persona eroicamente docile (50,4.6; 53,7.9), innocente (53,5.9), capace di «giustificare» la molti‐tudine (53,11); – da una testimonianza su una liberazione operata da YHWH (43,12; 44,8) a una missione attiva fat‐ta di sacrificio personale che porta il servo ad essere «alleanza del popolo» (42,6), «luce delle na‐zioni» (49,6).

3. Concezione più profonda della salvezza

La salvezza nel Secondo Isaia è concepita per lo più in una linea politica, come ritorno in patria do‐po la caduta di Babilonia, attraverso un capovolgimento della situazione, per cui le genti divente‐ranno schiave (49,22‐23) riconoscendo – in un contesto di esaltazione di Israele – YHWH come unico Dio (45,14.22‐24); nei canti la salvezza è per lo più di interesse religioso, di ascolto di quanto Dio

33 WESTERMANN, Isaia. Capitoli 40‐66, 31.42. «I canti sembrano formare come un corpo a sé nella predicazione di

questo profeta» (VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, vol. 2, 295). 34 Il v. 22 ripreso da 57,21 per la forma e il contenuto è una riflessione, una glossa. Indizio letterario dell’avvenuta

rottura è la forma wayyibeqa‘ ṣûr, spacca la roccia, dove w dovrebbe segnalare una successione qui inesistente. La forma pertanto wayyiqṭōl, già presente in Qumrān, ha la funzione di prima conclusione del tema, ripresa a 49,9b, allo stesso punto in cui era rimasto (CAZELLES, Les poèmes, 16 nota 30bis).

35 BONNARD, Le Second Isaïe, 37‐41.


dice (42,3.7; 50,4; 53,4‐5), di eliminazione del peccato (53,4‐5), annullato dall’offerta generosa che il servo fa di sé a Dio (53,10‐12), così che la salvezza raggiunge tutti (49,6; 53,12).

4. Coerenza interna dei canti

C’è una continuità nello sviluppo. Il servo accetta una missione difficile alla quale si sente chiamato fin dalla nascita, incontra difficoltà prevedibili nel «portare il diritto alle nazioni» (42,1) e alla fine la morte nella incomprensione e dimenticanza (53,2). Il quarto canto rappresenta certo un vertice: è scritto probabilmente a distanza di tempo. L’inserimento è un fatto sicuro, anche se le ragioni non sono chiare. Tra le motivazioni dell’inserimento potrebbe avere una qualche plausibilità quella che attribuisce a uno scriba, colpito dal carattere innovativo del pensiero, la volontà di far assimilare con gradualità il contenuto, inserendolo sapientemente in luoghi diversi.

b) Il numero dei canti

P. Grelot parla di una dozzina di poemi36, altri offrono numeri diversi, superiori a quattro. La diffe‐renza non è sostanziale, come sembrerebbe, ma radicata in interpretazioni differenti di un fatto so‐stanzialmente identico. Il numero cioè aumenta considerando la formazione, per cui, ad esempio, si ritrovano due canti in 42,1‐7 o più nel terzo, includendovi Is 50,10‐11. La vera diversità è l’aggiunta di Is 55,3‐5, come ritiene P. Grelot, in conseguenza della soluzione politica data al pro‐blema dell’identità del servo, visto in Zorobabele, e della necessità di allacciarne la missione alla speranza tradizionale della dinastia davidica (55,3b); perché allora non aggiungere, per l’identico tono esortativo, anche 55,6‐8? La proposta poi di H. Schmidt (1926) di includervi 42,19‐25 non tie‐ne conto della natura diversa del servo, mentre quella di W. Cannon (1929) e di A. von Hoonacker (1932) relativa a Is 61,1‐3 non trova sufficiente motivazione nel fatto che Gesù lo cita quale testo messianico e nel rilievo che i due personaggi sono uomini dello Spirito.

c) Tempo di composizione e autore

È probabile che questi canti abbiano attraversato un triplice stadio, da un pronunciamento orale davanti a un pubblico, a una composizione scritta gradualmente accresciuta, a un inserimento nel Libro della Consolazione. Quest’ultimo momento, per motivi interni (letterari e teologici), ci riporta probabilmente nel periodo postesilico. Non esistono tuttavia argomenti per negare, né una data‐zione anteriore, né un’attribuzione dei Canti del Servo al profeta stesso: questa ipotesi esige tutta‐via un congruo tempo dalla composizione del Libro della Consolazione e uno sviluppo di pensiero nel Secondo Isaia.

36 GRELOT, I canti, 26. Ne riportiamo lo schema generale:

A. 1. Discorso del profeta: presentazione del servo (42,1‐4). 2. Discorso del profeta: oracolo rivolto al servo (42,5‐7). B. 3. Discorso del servo (49,1‐6) suddiviso in tre sezioni. 4. Oracolo di incoraggiamento rivolto al servo (49,7). 5. Oracolo sulla missione del servo (49,8‐9). C. 6. Discorso autobiografico del servo perseguitato (50,4‐9a). 7. Esortazione all’ascolto del servo (50,10‐11). D. 8. Discorso sulla sofferenza del servo (52,13‐15+53,11b‐12). 9. Discorso in 1ª pers. pl. sullo stesso tema (53,1‐11a). E. 10. Il servo, depositario della speranza nazionale (55,3‐5).


II. ANALISI DEI TESTI

a) Primo canto (Is 42,1‐7): Una nuova figura di profeta 1Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. 2Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, 3non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta; proclamerà il diritto con verità. 4Non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra, e le isole attendono il suo insegnamento.

5Così dice il Signore Dio, che crea i cieli e li dispiega, distende la terra con ciò che vi nasce, dà il respiro alla gente che la abita e l’alito a quanti camminano su di essa: 6«Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, 7perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre.

Due oracoli del Signore ben delineati, rivolti a un gruppo (v. 1: «ecco») e al servo stesso (v. 5: «così dice»; cfr. Gdc 6,8; 1Sam 9,11‐15; 16,12‐13), presentano il personaggio e gli rivelano quanto nel passato YHWH ha fatto per lui in vista di una missione universale. Il linguaggio, intenzionalmente oscuro, tende a evidenziare la figura più che a identificare la persona; la versione greca aggiungen‐do «Giacobbe mio servo... Israele mio eletto» attesta la tendenza alla identificazione del servo con la comunità giudaica. vv. 1.4: L’anonimo personaggio è descritto con tre qualifiche già note: – ‘ebed, servo,37 è detto dei profeti come Elia (1Re 18,39; cfr. Am 3,7; Ger 7,25), dei re come Davide (2Sam 7,8; cfr. 1Re 8,24), di capi politici come Giosuè (Gs 24,29). Il termine, superato il senso peg‐giorativo di schiavo costretto a eseguire ordini onerosi (Es 21,2‐11.20ss.26s.32), anche se mitigati in Israele, e quello di semplice collaboratore, uomo di fiducia del re nella politica interna e in guer‐ra (1Sam 27,5.12; 2Sam 15,21), connota l’adesione libera e totale a un progetto oneroso proposto da Dio, includendovi anche l’adorazione38. Il senso positivo di servo scaturisce anche dal paralleli‐smo con eletto. – beḥîrî, eletto, è detto del popolo scelto nel suo complesso (Dt 7,6‐7; Is 44,2), dei leviti (Dt 18,5; 21,5), di Davide (1Sam 16,8‐10) e implicitamente del profeta, la cui vocazione implica una scelta. – Ripieno di rûaḥ, spirito, al pari dei profeti (1Re 18,12; Ez 3,12.14), Saul (1Sam 10,1), Davide (1Sam 16,13) e soprattutto del discendente di Davide (Is 11,2) che lo possedeva permanentemente e dei carismatici come i giudici, dotati in modo temporaneo (Gdc 3,10; 6,34; 11,6). L’uso di un vocabola‐rio tradizionale fa del servo un punto di convergenza dei grandi personaggi del passato, quasi una sintesi delle loro qualità. La novità è espressa attraverso una frase ripetuta tre volte: «porterà il mišpāṭ alle nazioni» (vv. 1.3.4), dove il significato non muta nonostante la diversità dei verbi39. Da notare invece la comple‐mentarità dei versetti che esprimono – la destinazione universale (v. 1 con gôyîm, «genti», in parallelo con «isole» del v. 4); – l’esito positivo della missione (v. 3 con le’emet, «con fermezza»); – la natura rivelante dell’intervento divino insita nel compito del servo: al v. 4, quale parallelo di mišpāṭ, subentra tôrāh superandone il ristretto senso giuridico. Il termine mišpāṭ, presente ancora

37 ‘ebed (servo), in DTAT 2, 165‐181; doûlos, in GLNT 2, 1417‐1438. 38 In Es 3,12 «servirete Dio» del TM è reso nei LXX con latreúsete. Il senso religioso di doûlos è estraneo alla grecità

e deriva dal proselitismo delle religioni orientali (cfr. doûlos, in GLNT 2, 1424). 39 Il verbo yāṣā’ nella forma hifîl (vv. 1.3: fare uscire, apparire, proclamare) e śûm nella forma qal (v. 4: porre)

esprimono lo stesso senso. J. Jeremias vi trova invece un significato diverso. mišpāṭ equivarrebbe a potere regale (di giudicare e legiferare) concesso al servo al v. 1, significherebbe grazia, perdono, amnistia accordata al popolo al v. 3 e volontà salvifica verso le nazioni al v. 4 (cfr. Mišpāṭ im ersten Gottesknechtslied, in VT 22 [1972] 31‐42).


nei canti (49,4; 50,8; 53,8) e attestato cinque volte nel Libro della Consolazione (40,14.27; 41,1; 51,4; 54,17), è passibile di due interpretazioni40.

a. Senso stretto (giudizio, applicazione di una sentenza giudiziaria): – «Giudizio secondo il diritto» o «decisione di diritto» (C. Westermann). L’azione del servo sconfes‐serà gli idoli nella loro pretesa di essere dèi: è in armonia con i vari oracoli di giudizio (41,1; 42,21‐29)41. – È il diritto uscito da Dio stesso (51,4) capace di ristabilire l’ordine divino delle cose, un’attività pratica atta a tradurre nei fatti il diritto e a illuminare perfino le genti, ammirate per l’armonia crea‐tasi nel popolo eletto con l’applicazione da parte del servo di questo diritto consuetudinario (P. Grelot). «Così descritta, la funzione si avvicina molto a una missione socio‐politica»42.

b. Senso largo, ora inteso in modo generale e astratto come «religione» (F. Delitzsch, A. Vaccari) o «verità», «morale rivelata» (P. Volz, K. Budde), o «il diritto e la giustizia» (V. De Leeuw, E. Osty), ora in un significato particolare e concreto. È piuttosto un’istruzione profetica (cfr. tôrāh) che spiega i nuovi ritrovati divini per salvare gli uomini, la sentenza di grazia che il servo deve portare alle na‐zioni (G. von Rad). Questa modalità nuova di salvare è in sintonia con la novità di comportamento assunto dal servo. vv. 2‐3: La polemica delle sette negazioni (non griderà...) non è rivolta verso le consuete leggi che i re fanno proclamare, né contro le tumultuose e violente vittorie di Ciro (41,2.25). A differenza dei profeti precedenti che pronunciavano spesso condanne, il servo farà una predicazione tranquilla e dimessa, senza gridare, né ricercare effetti risonanti, ma unita alla più incrollabile fermezza. In questo senso va interpretato il v. 3a, comunemente inteso come un’attenzione e un rispetto ver‐so i più deboli. «Canna» e «stoppino» designano invece il servo deciso a raggiungere l’obiettivo della missione. Questa lettura valorizza l’omogeneità di senso delle sette negazioni tutte riferite a uno stesso soggetto e tiene conto dell’unità della struttura fondata sul mišpāṭ, posto al termine delle tre parti (vv. 1.2‐3.4). Ha pure un appoggio in 1QIsª che omette il complemento nel secondo emistichio, a differenza del TM che lo conserva («stoppino smorto, non lo spegnerà»). Questa si‐tuazione testuale permette una lettura al passivo «non si spezzerà, non si spegnerà», anziché all’attivo («non la spezzerà, non lo spegnerà»), senza modificare le consonanti43. La fermezza del servo nel portare a tutti il mišpāṭ è una conseguenza della triplice azione di Dio, il quale ha posto su di lui lo Spirito (cfr. la realizzazione nella vita di Gesù secondo Mt 3,16; 12,18), se ne compiace, lo sostiene. v. 5: Insieme con «Signore Dio» (’ēl YHWH), ripetuto solennemente al v. 6 (Io YHWH), compaiono i ti‐toli divini tipici del Libro della Consolazione: creatore (45,12.18; 48,13), formatore della terra, do‐natore della vita (notare il parallelo tra i sinonimi nešāmāh e rûaḥ). v. 6: L’oracolo rivolto al servo sottolinea quattro ulteriori azioni divine: – «chiamare (qārā’) per la giustizia (ṣedeq)» evidenzia l’obiettivo della vocazione; meno felice e più povera la traduzione «giustamente» (beṣedeq). La giustizia è una realtà divina (42,21; 45,8.19.21.23; 46,13; 51,5.6.8) che rivelerà l’innocenza del servo (50,8), reso giusto da Dio e capa‐ce di comunicare alle moltitudini questa stessa giustizia (53,11). La giustizia opera già in Ciro (41,2; 45,13), è assente al momento in Israele (43,26; 46,12; 48,1.18), anche se nel popolo esistono colo‐

40 COPPENS, Le messianisme et sa relève prophétique, 88s. 41 WESTERMANN, Isaia. Capitoli 40‐66, 120s. A questa posizione si avvicina BONNARD, il quale lo intende come «il giu‐

dizio decretato da Dio (51,4) di cui Israele fu la vittima nel 587 (53,8) e di cui sta per diventare beneficiario nel 538 (49,4), per il crollo di Babilonia davanti all’armata persiana» (Le Second Isaïe, 124).

42 GRELOT, I canti, 31. Il servo sarebbe Zorobabele, visto come «applicatore» della legge in Palestina, senza essere propriamente né un re, né un legislatore, né un sacerdote.

43 «È sufficiente modificare (in ykbh) la vocalizzazione, leggendo al posto di piel, il qal yikbeh ‘non si spegnerà’ e al posto del qal, il nifal yiššaber ‘non sarà spezzato’» (B. RENAUD, La mission du Serviteur en Is 42,1‐4, in RevSR 64 [1990] 103). Per BONNARD (Le Second Isaïe, 124) si tratta delle vittime di Babilonia, poiché un popolo soggiogato è chiamato altrove ‘canna spezzata’ (2Re 18,21; Ez 29,6) e stoppino (Is 43,17).


ro che la ricercano (51,1) e ne fanno esperienza (51,7); e in futuro sarà presente in Israele (54,14.17)44; – «prendere per mano»: è il gesto di investitura; – «formare (yāṣar)» è il verbo usato per il primo uomo (Gen 2,7) ed esprime cura, affetto, apparte‐nenza; – «dare per l’alleanza di popolo (berît ‘ām)»: il servo diventa «vincolo», segno dell’impegno45 di YHWH non solo per Israele, ma per tutti i popoli. Una lettura limitata al popolo eletto è esclusa sia dalla mancanza dell’articolo prima di «popolo», sia dal parallelismo «luce delle genti» (gôyîm). v. 7: Le due immagini della cecità e del carcere, rafforzate da un bel parallelismo, non si limitano alla liberazione dall’esilio, ma indicano quella libertà che deriva all’uomo dalla conoscenza degli in‐terventi divini nella storia. Il servo è pertanto prevalentemente una figura di profeta, nuova per i contenuti e la modalità della sua predicazione, capace di realizzare la missione abbozzata nel primo canto e che sarà sviluppata nei seguenti.

b) Secondo canto (Is 49,1‐9a): La coscienza di una missione senza confini

Rispetto al primo canto varia il genere letterario, divenuto qui un racconto di vocazione con frasi simili a testi di Geremia (Ger 1,5ss e ‘confessioni’), strutturato in un dialogo continuo tra il servo (vv. 1‐2.4) e Dio (vv. 3.5). Compaiono le difficoltà che provocano un momentaneo scoraggiamento (49,4); è accentuata la destinazione universale della missione (v. 6); è maggiormente caratterizzata la figura in rapporto alla Parola in una linea profetica (v. 2) e la dimensione spirituale della missione («la mia salvezza», v. 6). In continuità con il primo canto persistono l’oracolo (42,5; 49,5), espres‐sioni come «porre», «alleanza di popolo», «diritto», «chiamata divina», e il riferimento alle isole e alle nazioni. Un problema importante, anzi il «problema capitale sollevato dal secondo canto»46 è la lettura del v. 3: il termine «Israele» fa parte del testo primitivo, o è un’aggiunta posteriore? Per la prima ipote‐si si portano le seguenti motivazioni: presenza in tutti i codici (eccetto KENNICOT 96), armonia con gli altri passi secondo‐isaiani dove «servo» e «Israele» sono identificati (es. 45,4), glorificazione rice‐vuta da Dio espressa con verbi della stessa radice (p’r). Più forti appaiono le ragioni contrarie. Israe‐le compare sempre47 in parallelo con Giacobbe (49,5b‐6; 44,23); la sua presenza qui è inoltre in‐conciliabile con i vv. 5‐6, dove il servo inviato a Israele risulterebbe inviato a se stesso48. Il linguag‐gio chiaramente riferito a un individuo nei vv. 1‐2 (come in Ger 1,5) mal si concilia con un improvvi‐so senso collettivo del v. 3; si dovrebbe inoltre spiegare in un testo così curato il passaggio dal rit‐mo binario a quello ternario del v. 349. Resta inspiegabile, nell’ipotesi collettiva, l’enfasi del verset‐to, qualora si limiti a dire che Israele è servo del Signore, una verità proclamata più volte (44,1.21; 45,4). L’unica conclusione plausibile è che «Israele» sia considerata una rilettura tardiva della comunità postesilica identificatasi con il servo, analogamente a quanto hanno fatto i LXX in 42,1. Né vale la sottigliezza di spostare l’accento dalla proclamazione «essere servo» a «essere glorificato», poiché una proposizione relativa mal sopporta tanta enfasi; non ottiene esito diverso il ricorso alla teoria

44 La traduzione Cei ha eliminato il termine «giustizia» in 51,17b. 45 Cfr. berît (impegno), in DTAT I, 295‐306 e in GLAT I, 1590‐1644. 46 COPPENS, Le messianisme et sa relève prophétique, 59. «Il v. 3 senza ‘Israele’ è compiuto e comprensibile. La do‐

manda se ‘Israele’ appartenga originariamente al testo o sia stato aggiunto dopo ha il suo peso per il fatto che con questa parola la questione secolare, anzi millenaria, dell’identità del servo potrebbe trovare la sua soluzione: il servo è Israele. Ma purtroppo la cosa non è così semplice» (WESTERMANN, Isaia. Capitoli 40‐66, 253).

47 In 48,20 c’è solo Giacobbe. 48 «Non vediamo qui una contraddizione che ci obbligherebbe a distinguere, in questa pagina, un servo‐individuo

dal servo‐comunità: una parte del popolo, la sua élite, può benissimo agire sull’insieme e in fondo si tratta sempre di Israele operante in favore di Israele» (BONNARD, Le Second Isaïe, 220). È difficile però ammettere che a distanza di un versetto l’autore dia allo stesso termine un senso diverso, senza ulteriori precisazioni.

49 Per una conoscenza della poesia biblica, cfr. L. ALONSO SCHÖKEL, Manuale di poetica ebraica, Brescia 1989.


della «personalità corporativa» che, evocata troppo spesso per risolvere punti controversi, finisce per complicare le difficoltà50. Più facile è il problema posto dal v. 7: esso non appartiene ai canti, dal momento che esso presenta il linguaggio e il pensiero proprio del Libro della Consolazione (cfr. 52,5; 41,14ss)51. I termini, infatti, non si ritrovano più nei canti che non usano una terminologia di potenza per il servo, né applicano a Dio i titoli di «Santo» e «Redentore».

1Ascoltatemi, o isole, udite attentamente, nazioni lontane; il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome. 2Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra. 3Mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria».

4Io ho risposto: «Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze. Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio».

5Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza – 6e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra».

7Così dice il Signore, il redentore d’Israele, il suo Santo, a colui che è disprezzato, rifiutato dalle nazioni, schiavo dei potenti: «I re vedranno e si alzeranno in piedi, i prìncipi si prostreranno, a causa del Signore che è fedele, del Santo d’Israele che ti ha scelto».

8Così dice il Signore: «Al tempo della benevolenza ti ho risposto, nel giorno della salvezza ti ho aiutato. Ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo, per far risorgere la terra, per farti rioccupare l’eredità devastata, 9per dire ai prigionieri: “Uscite”, e a quelli che sono nelle tenebre: “Venite fuori”.

vv. 1‐2: Questi versetti esprimono l’autocoscienza gioiosa del servo per la vocazione ricevuta, per‐cepita come missione ai popoli, ai quali deve riferire una parola del Signore. Si intravede la figura del profeta, chiamato, come Geremia (Ger 1,5), destinato alla Parola (1,9), soggetto allo scorag‐giamento (1,6), dato per i popoli (1,10). Il profeta si percepisce «pensato» prima della nascita, con‐cezione che già affiora per Isacco (Gen 17,21), poi per Sansone (Gdc 13), Samuele (1Sam 1), e ri‐presa da Paolo (Gal 1,15). Il dono della Parola è illustrato con la duplice immagine della spada che colpisce da vicino e della freccia che raggiunge da lontano, rendendo il servo strumento efficace nelle mani di Dio, che lo ha preparato («nascosto») e protetto («riposto nella faretra»). vv. 3‐4: La glorificazione che il Signore riceve dal servo, secondo questo primo oracolo divino segui‐to dalla risposta umana, resta un mistero. Precedentemente (44,23) e in seguito (55,5) gloria e onore trovano il fondamento nella liberazione dall’esilio; qui la gloria deriva da una realtà negativa: le sofferenze (50,4ss) e la morte (53,8‐9). La missione esercitata al servo appare un fallimento, a Dio un successo. Il momentaneo smarrimento, simile a quello di Gesù nel Getsemani (Mc 14,33‐36), è risolto nella piena fiducia in Dio, del quale il servo ricerca il giudizio favorevole (ebr. mišpāṭ) e dal quale si aspetta la realizzazione delle speranze più care (pe‘ullātî). vv. 5‐6: Con questo secondo oracolo il Signore – che plasma, stima, dà forza, assicura l’efficacia del‐la missione mediatrice – addita un campo di azione più ampio, allargandolo dai superstiti di Israele

50 «La relazione esistente tra una comunità nazionale e il suo capo non permetterebbe di attribuire a quest’ultimo,

come titolo eminente, il nome della comunità stessa? Il capo incaricato della restaurazione della comunità non imper‐sona forse, per così dire, l’Israele ideale attraverso il quale YHWH manifesterà la sua gloria? Questa è, sembra, la spiega‐zione migliore della parola ‘Israele’, se si ritiene che appartenga al testo primitivo» (GRELOT, I canti, 38).

51 COPPENS, Le messianisme et sa relève prophétique, 60. Cfr. contra, GRELOT, I canti, 39: «Non c’è ragione di mettere in dubbio l’autenticità e di ritenerlo un’aggiunta tardiva che non apparteneva originariamente alla raccolta dei canti». Per questa affermazione l’illustre esegeta è facilitato dall’identificazione del servo con Zorobabele.


alle nazioni. La missione ha una finalità spirituale: la conversione (due volte ricorre la radice šwb, tipico verbo del ritorno a Dio), mediata efficacemente dal servo divenuto salvezza e luce. La luce è un concetto fondamentale della rivelazione divina. Essa è un segno visibile che manifesta il mondo divino: Dio crea la luce e di essa si riveste. Le teofanie sono sempre accompagnate da fenomeni luminosi. La luce si identifica con la pace e la prosperità degli uomini, cioè con la salvezza. La sal‐vezza riveste un significato più ampio e spirituale che viene spiegato negli altri carmi. vv. 8‐9a: Quest’ultimo pronunciamento divino riprende un linguaggio già presente nel primo can‐to: «alleanza di popolo», da intendersi in senso universale, di ogni popolo, cui si riferiscono pure le immagini della prigione e della cecità. In questo canto, dalla struttura dialogica, la figura del servo si apre a una maggiore universalità (vv. 1.6) e spiritualità (vv. 5.6.8), escludendo una lettura meramente politica52.

c) Terzo canto (Is 50,4‐9a): Costanza nell’annuncio

Formalmente il canto è tutto un monologo, modulato dalla quadruplice menzione del «Signore Dio» (vv. 4.5.7.9). È ancor più sviluppato il tema della sofferenza e in corrispondenza quello della fiducia. In esso si ha una sintesi tra la figura del saggio che ascolta come uno scolaro e quella del profeta che trasmette la Parola con fermezza: continuano i tratti paralleli con il profeta Geremia, il quale però non manifesta la stessa fermezza.

4Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo (limmûdîm), perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli (limmûdîm). 5Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. 6Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. 7Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. 8È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. 9Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?

Il servo, nelle sembianze del saggio e contemporaneamente del profeta, partecipa alla sorte dello stanco, di chi, lontano da Dio, lo contesta aspramente, sperimentando così di persona le reazioni violente dei malvagi contro la sua missione di mediatore. Anziché di ‘ebed il testo parla due volte di limmûd, scolaro, chi riceve un insegnamento dall’uomo (Is 8,16; 54,13): è la persona che medita sul messaggio ricevuto per poterlo trasmettere fedelmente. Centrale è la cruda descrizione delle sof‐ferenze fisiche, particolarmente offensive: percosse, strappo della barba, oltraggi, sputi, sopportati pazientemente con la fiducia nel Signore. Questa fiducia spinge il servo a lanciare una sfida: chi mi dichiarerà colpevole? In questa contesa giudiziaria davanti al tribunale di Dio, il dolore è, secondo gli accusatori, segno certo di colpevolezza, per il servo invece rivelazione della propria innocenza. Un’esauriente soluzione dell’ambiguità si legge nel quarto canto, del quale il presente costituisce una preparazione.

d) Quarto canto (Is 52,13–53,12): Effetti di una vita donata

La risposta soddisfacente all’interrogativo posto sopra consiste nel rivelare che la sofferenza causa esaltazione per il servo (52,13), perdono e giustificazione per le moltitudini (53,4.11b). Siamo av‐vertiti che questa dottrina è nuova e contiene qualcosa di incredibile (53,1), o almeno difficile da accettare. Nello sforzo di comprenderla è necessario evitare due estremi: considerare l’insegna‐mento un’esagerazione o, all’opposto, cercare di razionalizzarlo fino al punto di renderlo ovvio in tutti i suoi aspetti. La sofferenza dell’innocente contrasta con la dottrina tradizionale della retribu‐zione, al pari del colpevole che resta impunito: il nuovo sta soprattutto nel trionfo dell’umiliato, non rintracciabile nell’esperienza.

52 «La prima parola dell’oracolo (v. 8) non conviene assolutamente al conquistatore persiano: il Signore non poteva

avergli risposto, perché Ciro lo ignorava e non l’aveva mai invocato» (BONNARD, Le Second Isaïe, 223).


Nuovo – rispetto ai Salmi – è che il racconto della sofferenza sia fatto non dal salvato, ma dagli ol‐traggiatori, testimoni tardivi dell’innocenza di un dolore capace di redimere il loro peccato. Questo coro osannante, il «noi» ripetuto ad ogni versetto (53,1‐6), non evoca un momento della vita, ma un’intera esistenza tormentata: crebbe nel disprezzo (53,2‐3), fu colpito da continuo dolore (vv. 4‐5), soffrì pazientemente (v. 7), morì ignominiosamente (vv. 8‐9), non fu dimenticato (v. 10s). Que‐sta linea corrisponde puntualmente alla professione di fede della comunità cristiana, quale si ha nel credo apostolico: nacque, soffrì, morì, fu sepolto. Questa identità di struttura riveste maggiore importanza che non certe citazioni occasionali di Is 52s nel NT. In questo passo, irto di difficoltà testuali, è più evidente l’accentuazione dei caratteri individuali. Parliamo di un individuo‐Messia, poiché questo mi sembra essere richiesto dai motivi letterali, al‐meno per la seconda parte del 4° carme, nei vv. 7‐12. La struttura più fedele al testo e per di più semplice è quella tripartita ABA’, dove A (52,13‐15) e A’ (53,11b‐12) si richiamano per lo stesso tema delle conseguenze positive dei dolori, che concerne prima il servo stesso glorificato (52,13: yaśkîl ‘abdî), poi la moltitudine giustificata (53,11b: yaṣdîq ‘abdî): risalta, nell’inclusione, anche il parallelismo eufonico. La parte centrale (53,1‐11a) costitui‐sce come un «elogio funebre» da parte di un’assemblea religiosa che prende coscienza di una mor‐te rivelatasi non punizione, ma salvezza. L’uso di un vocabolario particolare con 46 hapax rispetto al Secondo Isaia, la preferenza dei suoni chiusi (û, ô) e del «noi» con il coinvolgimento del lettore, i contrasti con i frequenti chiasmi (vv. 3.7.12) fanno di questo canto un capolavoro dell’AT. La costruzione risulta pertanto semplice: un narratore principale, Dio, come in una antifona, fa una previsione («il mio servo avrà successo») confermata da un epilogo («il mio servo giustificherà mol‐ti» con la sua morte liberamente accettata per gli altri). Il duplice intervento divino racchiude la parte centrale, dove un gruppo rileva il cambiamento nel modo con cui ha valutato la situazione del servo: un tempo «lo giudicavamo percosso da Dio», ora affermiamo che «si è addossato i nostri peccati». La figura del servo prevale sull’identificazione della persona: possiamo intendere il poe‐ma accettandone come fattore costitutivo la stessa indeterminazione53.

52,13Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. 14Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, 15così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito.

53,1Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? 2È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. 3Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. 4Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. 5Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. 6Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. 7Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. 8Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte. 9Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca. 10Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 11Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza;

53 ALONSO SCHÖKEL – SICRE DÍAZ, I Profeti, 370.


il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. 12Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

– Parla Dio: il servo non morirà (52,13‐15)

L’esaltazione del servo è descritta con quattro verbi al futuro, in progressione. Fondata nella pru‐denza, intelligenza e discernimento (yaśkîl: 41,20; 44,18; Ger 9,23) in una perfetta adesione alla di‐vina volontà (Ger 10,21; 20,11), questa esaltazione è legata al successo descritto con sinonimi che indicano altezza (rûm, niśśā’, gābāh), come alto è il trono del Signore (Is 6,1). Il successo è conside‐rato poi nei suoi effetti, nelle sue ripercussioni cioè sulle genti e sui re, che porteranno rispetto e riverenza («chiuderanno la bocca»: Gb 5,16; 21,5; 29,9; Sal 107,42). Essi proveranno un duplice stupore («come... così»), prima per l’umiliazione estrema (volto sfigurato) poi, ancor di più, per l’esaltazione della stessa persona: un volto piagato era infatti ritenuto castigo del peccato, conse‐guenza di un allontanamento di Dio stesso.

– Parla un gruppo: siamo stati beneficati (53,1‐11a)

vv. 1‐3: Continua la meraviglia per l’inattesa scoperta che la debolezza è il luogo della potenza divi‐na («il braccio del Signore»; cfr. 2Cor 12,9b). Il «noi» più che i pagani (J. Lindblom, E. J. Kissane, C. Stuhlmüller) o il popolo di Israele, rappresenta un gruppo di credenti, testimoni dell’umiliazione e dell’esaltazione: l’uso dei termini credere (he’ĕmîn) e ascolto (šemû‘āh) postula un aiuto sopranna‐turale per poter aderire al nuovo messaggio. Un’intera vita di sofferenza è evocata prima con l’immagine del virgulto (yônēq: Os 14,7; Ez 17,22; Sal 84,12) e della radice (Is 11,10) in terra arida, poi con la negazione della bellezza, l’unica realtà che potrebbe trarlo dall’isolamento, quindi con l’umiliazione prodotta dal dolore; un efficace parallelismo antitetico, dolori (mak’ōbôt) – sofferenza (ḥolî) / sofferenze – dolori, unisce il v. 3 al v. 4, che segna uno sviluppo. vv. 4‐6: La confessione di chi è trasformato dal dolore purificante del servo sofferente «come noi», ma anche «per noi», si concretizza nella coscienza di aver ricevuto pace, guarigione, illuminazione per scegliere la strada giusta: una prima estensione dei benefici è presente nel duplice «tutti noi» (kŭllānû) del v. 6, che prepara il triplice «tutti» dei vv. 11‐12. vv. 7‐11a: Il comportamento del servo, filo conduttore di questi versetti, spicca per il silenzio, più eloquente delle molte parole di Giobbe (cc. 3ss; cfr. Sal 38,14‐15), per l’umiltà /pazienza (v. 7) di‐versa dall’ingenuità di Geremia (11,19), per l’innocenza (v. 9b) e per l’esito positivo raggiunto (v. 11a): gli uomini invece lo condannano, lo uccidono, lo seppelliscono (vv. 8‐9)54. Tanta sofferenza non è frutto solo della malvagità umana: scaturisce anche dall’iniziativa di un amore forte, compia‐cente e misterioso di Dio (v. 10a), che lascia intravedere il passaggio dall’umiliazione all’esaltazione, fondata sul valore espiatorio della vita quale offerta gradita a Dio (’āšām)55 per i peccati degli uo‐mini. La sopravvivenza descritta dal difficile v. 10b è di ordine terrestre ed equivale al ricordo e alla gratitudine dei discepoli (cfr. Prv 3,2.16; 4,10; 11,11; Gb 22,30) senza necessariamente vedervi il concetto di risurrezione, sia pure introdotta da una glossa (J. Coppens, S. Mowinckel): una speran‐za relativa a un imprecisato superamento della morte, fatto di pace e prosperità, un’intuizione che tutto non può finire per chi ha modellato la vita sulla volontà divina non è comunque esclusa da quel «vedrà la luce» (v. 11a).

54 Il v. 8 è particolarmente corrotto, ma probabilmente ricco di contenuto in ognuno dei quattro stichi. Dopo

l’allusione a una sentenza processuale, particolarmente ingiusta, emerge la preoccupazione per quanto accade al servo per la sua dôr, generazione, tempo determinato, contemporanei, oppure corretto in debārô, sorte, o in darkô, causa? Nessuna interpretazione si impone.

55 ’āšām, in GLAT I, 931‐950; R. DE VAUX, Les sacrifices de l’Ancien Testament, Paris 1964, 82‐100.


– Parla Dio: il mio servo giustificherà tutti (53,11b‐12)

L’influsso verso le moltitudini del servo dichiarato giusto, cioè innocente, è inteso in due modi di‐versi. Considerando yaṣdîq come causativo interno, significherebbe: far «apparire il servo giusto davanti a molti... perché riabilitato da Dio, reintegrato nel suo onore»56. Più rispettosa del testo è però l’interpretazione comune, secondo la quale si delinea una vera giustificazione, cioè la comu‐nicazione di quella giustizia, che è posseduta dal servo, nei confronti della moltitudine. Il linguaggio militare del v. 12 (le moltitudini sono date come trofeo di guerra) rafforza la verità di un influsso ef‐fettivo, universale e spirituale: ha consegnato (letteralmente «ha svuotato se stesso», cfr. Fil 2,7) alla morte, si è associato ai peccatori a differenza del giusto dei Salmi desideroso di distinguersi da loro, ha preso su di sé i peccati di tutti, non solo i propri o quelli dei padri, ha pregato per i peccato‐ri e non solo per i figli di Israele come facevano i grandi intercessori (Mosè, Samuele, Geremia). Il punto centrale di questo canto sta nell’efficacia dei dolori del servo verso chi lo ha fatto soffrire: è qui il fondamento di quella che in seguito sarà chiamata «soddisfazione vicaria». La partecipazione del servo alle sofferenze degli uomini va al di là della semplice condivisione ed è specificata da tre serie di affermazioni. Il servo «porta» (nāsā’: v. 12), «si addossa» (sābal: v. 11) le colpe e le iniqui‐tà57, con evocazione dell’immagine del capro espiatorio (Lev 16,22) sostituito qui da una persona; è mediatore di riconciliazione in quanto attraverso il suo sacrificio si assume la responsabilità dei de‐litti altrui (v. 10a) e trasferisce agli altri la sua giustizia; trasforma le sue piaghe non in vendetta co‐me Lamech (Gen 4,23), ma in pace e guarigione (v. 5), poiché Dio ha posto su di lui (pāga‘) i nostri peccati (v. 6).

III. LE OPINIONI SUL SERVO E SUL SUO VALORE MESSIANICO

C’è ampio consenso tra gli esegeti sia intorno alla consistenza storica della figura del servo, che non può ridursi alla drammatizzazione del concetto di una pura donazione, sia intorno al primato del valore e del significato della figura rispetto alla sua identificazione e quanto alla sua realizzazione piena in Gesù di Nazaret; questo anche da parte di coloro che ritengono che il testo isaiano si rife‐risca al popolo di Israele58. Ma precisiamo ulteriormente.

a) La figura

La figura del servo sembra condensare tratti propri della tradizione regale, sapienziale, sacerdotale, dei poveri di YHWH (‘ānāwîm), profetica: è quest’ultima però a emergere tra tutte e ad assorbire anche qualche tratto delle altre. «L’acme della riflessione sul ministero profetico venne raggiunto dai Canti del Servo di Dio... Che questa funzione del servo così universale consista innanzitutto nel compito della parola e che tale compito assuma chiaramente dei tratti profetici, è oltremodo espli‐cito»59. Il servo infatti porta la rivelazione (mišpāṭ – tôrāh: 42,1.4), la parola efficace come una spada affilata per raggiungere le nazioni (49,2.6), ascolta come uno scolaro per parlare ai poveri e ha fiducia in Dio (49,4.9), intercede e soffre per gli altri (53,4‐5.10.12). Questa sofferenza è diversa da quella del giusto nei Salmi, dove è vissuta nella fiducia di un inter‐vento favorevole del Signore al momento opportuno; è altresì diversa dalla sofferenza di Giobbe, priva di una prospettiva comunitaria, e anche da quella di Geremia, che nelle difficoltà è spesso ri‐belle e la percepisce limitatamente in rapporto alla propria vocazione. La sofferenza del servo è strettamente legata al ruolo di mediatore della Parola: è la conseguenza di una fedeltà all’annuncio, quali che possano essere le difficoltà. Il servo è profeta non solo per quel che dice, ma

56 WESTERMANN, Isaia. Capitoli 40‐66, 323, che si rifà all’opinione di S. Mowinckel. 57 Connotate nei due versetti con i termini complementari ḥṭ‘ (mancare) e ‘āwōn (perversità), in DTAT I, 469‐475 e

II, 219‐225; S. LYONNET, Péché, in DBS 7 (1966) 481ss. 58 Cfr. BONNARD, Le Second Isaïe, 280‐284. 59 N. FÜGLISTER, Il Servo di Dio, in AA.VV., Mysterium salutis, 5, Brescia 1971, 195‐199.


anche per quel che soffre: l’annunciatore diventa così il testimone della Parola. Il dolore non è solo invito all’umiltà dinanzi al mistero dell’essere e dell’agire divino (cfr. Gb 38), o segno della transito‐rietà di questo mondo (cfr. Ap 21,3‐4), o mezzo di educazione (Sal 137), ma espressione della soli‐darietà e corresponsabilità della stirpe umana richieste dalla mediazione profetica. «Si tratta di quella sofferenza tipicamente profetica che deriva dalla stessa funzione mediatrice e dalla quale la profezia non è mai disgiunta: sono le prove che affliggono l’inviato di Dio, che provengono tanto dall’interno quanto dall’esterno»60. Emerge pertanto una figura di ordine spirituale, gradualmente descritta, non limitata a un compito politico, ma capace di riconciliare gli uomini con Dio e tra di lo‐ro.

b) L’identificazione della persona

È assai controverso chi sia in concreto la persona alla quale pensa l’autore dei canti61. Possiamo raggruppare le risposte in quattro grandi categorie, all’interno delle quali esistono differenze e sfumature.

1. Le interpretazioni collettive

Si giustificano sia ricorrendo al contesto, sia mediante l’analogia con altre personificazioni dai tratti innegabilmente singolari, come quando il popolo è raffigurato nella sposa (Osea, Geremia, Ezechie‐le), nel bambino (Os 11,1‐4), nelle due sorelle (Ez 23). Per alcuni esegeti è l’Israele storico, messo a morte in esilio, riabilitato con il ritorno in patria e riconosciuto innocente dai popoli (specialmente all’inizio del secolo: Stade, Budde, Marti). Più frequente è l’identificazione con l’Israele parziale, il gruppo fedele capace di soffrire per l’intero popolo peccatore (König, Coppens, Bonnard). Per altri si tratta dell’Israele ideale, quale il popolo eletto sarebbe stato qualora fosse rimasto fedele alla missione ricevuta (Ewald, Davidson, Driver) o di una personalità corporativa che parte dal popolo per realizzarsi in un individuo (Robinson, Eissfeldt, Rowley, North, De Fraine, McKenzie). L’interpre‐tazione giudaica è oscillante, pur orientandosi decisamente per quella comunitaria62.

2. Interpretazione direttamente messianica

La missione salvifica universale e straordinariamente difficile, gli sviluppi in testi posteriori (Zac 12,10; Dan 12,2‐3; Sal 22) e le riletture neotestamentarie sono alla base di questa esegesi classica (A. Feuillet, H. H. Rowley, H. Ringgren).

3. Interpretazioni individuali

Sono stati proposti un po’ tutti i grandi personaggi del passato dotati di qualche caratteristica co‐mune con la figura dei canti63. S. Mowinckel64 pensa al culto tributato dai discepoli («noi») che ce‐lebrano il sacrificio del maestro, mentre altri, come P. Volz, vi vedono una dimensione autobiogra‐fica, cioè identificano il servo con il Secondo Isaia; altri ancora pensano a un individuo futuro, un profeta ideale (H. Gunkel).

60 FÜGLISTER, Il Servo di Dio, 200. 61 Per le varie opinioni cfr. FEUILLET, Les poèmes, 142‐164; COPPENS, Le messianisme et sa relève prophétique, 68‐84. 62 E. FASCHER, Jesaja 53 in christlicher und jüdischer Sicht, Berlin 1958; E. B. PUSEY, The Fifty‐Third Chapter of Isaiah

according to the Jewish Interpreters, II, New York 1969; J. CARMIGNAC, Les citations de l’AT et spécialement des poèmes du Serviteur dans les Hymnes de Qumran, in RdQ (1960) 357‐394; J. S. CROATTO, De messianismo qumranico, in VD 35 (1957) 279‐286, 344‐360.

63 Mosè (Fullkug 1899, Sellin 1926); Giobbe (Cheyne 1886); Geremia (Collins 1927); Zorobabele (Sellin 1898, Grelot 1981); poi Isaia, Ozia, Ezechia, Giosia, Ezechiele, Ioiachin.

64 S. Mowinckel all’inizio ha identificato il servo con il Secondo Isaia, ritenuto anche compositore dei canti, in segui‐to (1931) ha attribuito i canti a un discepolo e quindi (1951) ha visto il servo in un anonimo della cerchia secondo‐isaiana.


4. Interpretazione storico‐messianica

Nella linea dell’interpretazione individuale, ben fondata nei testi (49,5‐6; 53,7‐9.10b), è bene di‐stinguere due momenti di realizzazione della figura nella storia. L’autore aveva in mente la figura di Geremia, i cui caratteri potrebbero essere posti in sinossi con quelli del servo profeta delle nazioni (42,1.6; 49,6; cfr. Ger 1,5), «formato» per questo fin dal seno materno (42,6; 49,1; cfr. Ger 1,5), de‐stinato alla Parola (49,2; cfr. Ger 1,4.9), intercessore (59,12; cfr. Ger 14,11), mite agnello (53,7; cfr. Ger 11,19), perseguitato, umiliato, sofferente. È difficile invece ricorrere a Zorobabele, la cui azio‐ne, limitata al popolo ebraico, è di natura giuridico‐politica: egli richiama più una figura regale (Ag 2,20‐23; Zac 4,6‐14; 6,12‐13), con interessi per il tempio. Eppure, pur partendo da Geremia, la figu‐ra delineata non si esaurisce nel profeta di Anatot, la supera invitando a guardare al futuro: sul piano escatologico il servo è Gesù, nel senso che tutte le caratteristiche si realizzano pienamente in lui (sensus plenior o pienezza di significato del testo). Geremia non si addossa le sofferenze altrui, né ha la pienezza dello Spirito (cfr. Mt 12,17‐21; 3,17), persiste nello scoraggiamento, come dimo‐strano le confessioni (vedi invece Mt 26,39), non sperimenta il rapporto umiliazione/esaltazione (cfr. Fil 2,6‐11).

c) Il servo e Gesù

La piena realizzazione della figura si ha dunque nella vita di Gesù, alla quale i Vangeli riferiscono in continuità citazioni veterotestamentarie (Is 61,1‐4; Zac 12,10; Sal 22 e anche 38,6‐14; 69; 102; 118; Dan 11,32‐35; Sap 2,12‐20; 4,7–5,16)65. Nel confrontare il servo e Gesù si possono seguire più pi‐ste. – La via storica: parte dall’interrogativo se dai testi evangelici risulti la coscienza di Gesù di essere il servo, quindi esamina il pensiero della comunità e l’interpretazione degli agiografi. – La via tematica: privilegia l’analisi delle fasi della vita di Gesù (nascita, fatti e insegnamenti, pas‐sione, morte e risurrezione), qualunque sia la datazione dei testi. – La via del compimento: dà importanza ai testi che pongono un rapporto di causalità tra debolezza e forza, innocenza e persecuzione, pazienza e sofferenza, abbassamento ed esaltazione, anche se è accentuato l’uno o l’altro aspetto, come l’umiliazione in Marco e nelle lettere di Pietro, oppure l’esaltazione negli scritti paolini. I principali testi di confronto restano i racconti della passione e Mc 10,45; 1Cor 15,3‐4; Fil 2,6‐11; 1Pt 2,21‐25. L’importanza e l’attualità dei canti si qualificano pertanto per il loro valore: – critico: sono tra i testi più commentati e controversi dell’AT, esigendo un’attenta selezione delle opinioni; – cristologico‐messianico, che utilizza lo schema abbassamento‐innalzamento ripreso per interpre‐tare la vita di Gesù; – soteriologico: la salvezza limitata nel Libro della Consolazione a Israele e ottenuta attraverso l’annientamento delle nazioni (cfr. 43,3; 49,22‐23) diventa nei canti universalità raggiunta attraver‐so la sofferenza (53,4‐6); – antropologico, in quanto emerge un nuovo tipo di uomo capace di servire gli altri, mediante il dono di sé; – spirituale: si serve l’uomo solo se si è fedeli a un precedente servizio di Dio66; – esistenziale: il problema del dolore, se non proprio risolto, è fortemente illuminato. La sofferenza non sempre è conseguenza di un peccato: uno soffre, altri hanno peccato. Il dolore innocente inol‐tre, in sintonia con un misterioso piano di Dio, procura pace e salvezza agli uomini.

65 MASSI, Teologia del Servo, 120‐134; COPPENS, Le messianisme et sa relève prophétique, 195‐216 e 114‐144 per le

riletture veterotestamentarie. 66 B. MARCONCINI, Servizio di Dio e servizio dell’uomo. Aspetti del loro rapporto nella Bibbia, in Il servizio di Dio – Ser‐

vizio dell’uomo. XLIV Settimana Liturgica Nazionale, CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 1994, 17‐30.


BIBLIOGRAFIA SCELTA SUL DEUTERO‐ISAIA

PENNA A., Isaia, Marietti, Torino‐Roma 1958. LUBSCZYK H., Il libro di Isaia, vol. II, Città Nuova, Roma 1973. VIRGULIN S., Isaia, Paoline, Roma 31977. WESTERMANN C., Isaia. Capitoli 40‐66, Paideia, Brescia 1978. WIÉNER C., Il profeta del nuovo esodo (Deutero‐Isaia) (Bibbia‐oggi. Strumenti per vivere la parola 13), Torino 1980. BONORA A., Isaia 40‐66, Queriniana, Brescia 1988. HANSON P.D., Isaia 40–66. Commentario al Secondo e Terzo Isaia, Claudiana, Torino 2006. MOTYER A., Isaia. Introduzione e commentario, GBU, Roma 2002. CHILDS B.S., Isaia (Commentari Biblici), Queriniana, Brescia 2005. MELLO A., Isaia (Nuova versione della Bibbia dai testi antichi 10), San Paolo, Cinisello Balsamo 2012. DELL’ORTO G. (a cura di), Isaia (Parole di Vita), Edizioni Messaggero, Padova 2013. VERMEYLEN J., Le livre d’Isaïe. Une cathédrale littéraire (Lectio Divina 264), Du Cerf, Paris 2014.

IL TRITO‐ISAIA E IL SUO LIBRO (IS 56‐66)*

1. UN LIBRO COMPOSITO

Anche la terza parte del libro di Isaia si presenta come una raccolta di scritti piuttosto eterogenei e diffìcilmente riconducibili a una chiara unità tematica. Alcuni studiosi vorrebbero vedere un legame tra questi capitoli e i precedenti (40‐55) attribuiti al cosiddetto Secondo Isaia. Ma la maggior parte degli esegeti propende per uno o più autori diversi, nonostante alcune innegabili somiglianze di linguaggio e di contenuto con la seconda parte del libro di Isaia. Ad esempio, sono state notate somiglianze tematiche molto forti tra i cc. 60‐62 e la seconda parte di Isaia; a volte si trovano testi che sembrano citazioni, dirette o leggermente modificate, dai capi‐toli precedenti (cf. 62,11 con 40,10; 57,14 e 62,10 con 40,3; 58,8.14 con 40,5; 65,17 con 43,18s; 61,11 con 45,8; 57,21 con 48,22; 60,4 con 49,18 ecc.). Però, al di là del blocco dei cc. 60‐62, vi sono differenze notevoli con il Secondo Isaia. Non compare più l’attesa del ritorno dall’esilio, né la figura del liberatore Ciro. Si parla del tempio che sembra ormai ricostruito e mancante soltanto degli abbellimenti e rifiniture (60,13), mentre le mura di Ge‐rusalemme sono ancora da ricostruire (60,10; cf. 58,12). Si nota preoccupazione per l’osservanza del sabato (58,13‐14), per il modo di intendere il digiuno (58,1‐12) e di offrire i sacrifici (66,1‐4), per il comportamento dei capi del popolo (56,10‐11). Questi elementi presuppongono almeno un ambiente diverso da quello ri‐specchiato in Is 40‐55 e sembrano esigere anche uno o più autori differenti.

2. L’EPOCA DI COMPOSIZIONE

Tutti gli indizi che si possono ricavare da questi capitoli portano a un tempo posteriore al ritorno dall’esilio babilonese, ma non è facile determinare con sufficiente approssimazione una data più precisa. Alcuni testi sono più comprensibili se letti alla luce degli avvenimenti che conosciamo at‐traverso la narrazione di Esdra (cc. 3‐5) e i libri di Aggeo e Zaccaria (520 a.C. circa). Una lunga meditazione sulla storia di Israele (Is 63,7‐64,11) si trasforma in confessione dei peccati e in supplica a Dio perché si manifesti misericordioso verso il suo popolo. In questo brano le città di Giuda e il tempio appaiono ancora distrutti (63,18; 64,9‐10) e si rileva una preoccupazione che sembra contrastare con quanto affermato in 66,1‐2a, dove si legge piuttosto una contestazione alla pretesa di ricostruire il tempio e all’offerta di sacrifici quando questi siano in contrasto con l’autenticità della vita (66,2b‐4). I cc. 60 e 62 (cf. 66,5‐17) esaltano Gerusalemme, alla quale si augura un futuro splendido che ap‐pare ancora come un sogno, sul tipo delle promesse del Secondo Isaia (51,9‐52,12) e di Zaccaria (Zc 2,14‐17). Ma tutto ciò è in contrasto con la realtà di una città ancora disastrata e in rovina (60,10; cf. 58,12; 61,4), nelle condizioni descritte in Neemia (1,3; 2,13‐15.17); perciò questi testi possono risalire a prima del 445 a.C. Anche i riferimenti alla vita degli Israeliti: osservanza del sabato (58,13‐14), modo di praticare il di‐giuno (58,1‐12) e di offrire i sacrifici (66,1‐4), comportamento dei capi del popolo (56,10‐11), pre‐suppongono la situazione alla quale cercherà di porre rimedio la riforma di Esdra e di Neemia. Un solo testo (57,1‐13) sembra provenire da un’epoca più antica, in quanto riporta una violenta ac‐cusa contro l’idolatria descritta con i toni dei profeti preesilici. Ma non è escluso che pratiche idola‐triche simili siano continuate tra la popolazione rimasta in Giudea e rimanessero in auge nei primi decenni dopo il ritorno dei rimpatriati.

* G. BOGGIO, in MARCONCINI (a cura di), Profeti e apocalittici, 199‐203.

112 Il Trito‐Isaia e il suo libro (Is 56–66)

3. IL PROFETA

Da quanto si è detto sopra è evidente che non sappiamo nulla di preciso sull’autore (o gli autori) di Isaia 56‐66. Un personaggio parla di sé in 61,1ss (il punto centrale di questi capitoli), ma descrive unicamente la sua missione senza dire nulla della propria persona. Lo stile di questo testo lo avvi‐cina ai canti del Servo del Signore (49,1; 50,4; cf. 42,1) non solo per il discorso in prima persona ma anche per certe particolarità legate all’incarico che gli è affidato. II personaggio misterioso afferma di essere stato investito da una forza che Dio gli ha comunicato, attraverso una «unzione» che lo «consacra» a lui (61,1). Egli deve portare un annuncio di liberazio‐ne e di salvezza presentato con termini che alludono a quelli usati dal Levitico per descrivere «l’anno giubilare», cioè l’anno del condono dei debiti (cf. Lv 25,10). La riflessione tardiva sui testi del Levitico relativi a questa istituzione (Lv 26; cf. Dn 9,11.24) ci fa ca‐pire come si attendeva l’arrivo di un giubileo grande e definitivo nel quale Dio avrebbe rimesso tut‐ti i debiti del suo popolo (i peccati) e lo avrebbe introdotto in una situazione stabile di benessere e di pace. E possibile che Is 61,2 rifletta già questa interpretazione di tipo messianico: il profeta si presenta come annunciatore dell’evento straordinario di salvezza, ancora descritta con termini molto concreti (ricostruzione, cambiamento di situazione materiale), ma legati a un rapporto parti‐colare con il Signore (61,6a.8‐9). È significativo che Luca abbia collegato questo testo all’inizio della predicazione di Gesù (Lc 4,18‐19), testimoniando così una tradizione che appare già ben consolidata, per illustrare la missione che Dio gli aveva affidato.

4. IL MESSAGGIO

Se i singoli brani possono avere avuto un’origine eterogenea, pure essi hanno ricevuto una certa unità a livello redazionale. È quindi possibile una presentazione sintetica delle principali idee reli‐giose contenute in questi capitoli, senza che si abbia la pretesa di esporle in modo esaustivo o di attribuirle a un autore preciso.

4.1. Delusione e speranze

Le promesse del Secondo Isaia sembravano irrealizzabili, sebbene l’esilio fosse terminato da tem‐po. Le difficoltà per la ricostruzione del tempio e della città, e per ristabilire condizioni di vita politi‐ca, sociale ed economica decenti, apparivano a molti come insuperabili. Non era bastato riprende‐re il culto regolare per trasformare una situazione che rimaneva sempre difficile. Il nostro autore ripete una frase che doveva essere frequente per esprimere la delusione e lo scoraggiamento: «Perché digiunare, se tu non lo vedi, mortificarci, se tu non lo sai?» (58,3). Questo stato d’animo è testimoniato anche in altri passi con espressioni accorate (63,15‐19; 64,5‐11). Il profeta risponde incoraggiando a fidarsi della parola del Signore che non può venir meno (66,5), perché si è impegnato con il suo popolo attraverso un’alleanza (59,21) confermata nella storia (63,7‐9). Il Signore è sempre uguale a se stesso, non è diventato incapace di aiutare chi si rivolge a lui con fiducia (59,1). In questo contesto si inseriscono le descrizioni entusiaste di Gerusalemme presentata come capita‐le ideale del nuovo regno e centro del mondo, verso il quale accorrono tutti i popoli (60‐62; 65,16‐25; 66,10‐14). Il motivo di questa futura grandezza è dovuto alla presenza del Signore che si espande e si manifesta nel popolo che ha salvato (60,1.19‐22; 62,11‐12).

4.2. Necessità di una vera conversione

Il ritardo nel compimento delle promesse divine è attribuito dal nostro profeta ai peccati del popo‐lo. Non si tratta, come in Aggeo, della trascuratezza nel ricostruire il tempio. Qui si parla di vita mo‐rale, nella sua dimensione sociale (58,3b‐12; 59,2‐15; cf. 56,10‐57,1) e religiosa (58,13‐14; 57,3‐13; 65,2‐7; 66,3‐4).

Il Trito‐Isaia e il suo libro (Is 56–66) 113

Abbiamo già accennato alla difficoltà di stabilire quanto, nella descrizione dell’idolatria (57,3‐13 e 65,2‐5.11), corrisponda a un comportamento effettivo dei rimpatriati, oppure dipenda invece da uno stereotipo profetico, o se piuttosto non si tratti di brani preesilici sfruttati dal nostro autore. Comunque vadano interpretate, queste pericopi vogliono evidentemente giustificare Dio, addos‐sando al popolo la responsabilità della situazione precaria in cui vive. Dio è «l’Alto» e «l’Eccelso» e dimora in un luogo inaccessibile (57,15; 63,15), ma è disposto a per‐donare se il popolo eliminerà gli impedimenti a un incontro sincero: «Spianate, spianate, preparate la via, rimuovete gli ostacoli sulla via del mio popolo» (57,14). A questo invito sembra rispondere il riconoscimento delle colpe da parte del popolo (59,9‐20; 64,4‐6).

4.3. La salvezza è promessa ai poveri

Il profeta, che si sente chiamato a «portare il lieto annunzio ai miseri» (61,1), è convinto che Dio si dimostrerà benevolo verso chi è sinceramente disposto ad accogliere il dono gratuito della salvez‐za. Sono i poveri che possono essere salvati, perché non si fidano che di Dio, non avendo altro pun‐to di appoggio (57,14‐19; 61,1‐3; 66,2).1 Questa fiducia è fondata sulla convinzione che Dio è un «padre» per Israele (63,8.16; 64,7), e per‐ciò è pronto a intervenire di persona per liberarlo, come ha già fatto in passato (63,9; 64,2‐3).

4.4. Dio salva anche gli stranieri

Questa affermazione di tono universalistico anima la prima parte del c. 56 (vv. 3‐7) e si trova alla conclusione di tutto il libro (66,18b‐21). L’orizzonte del profeta si allarga, dalla comunità di Israele ricostruita, a tutti i popoli della terra, che potranno conoscere il vero Dio e rivolgersi a lui con la stessa fiducia degli Israeliti. Il centro verso il quale tutti si rivolgeranno continua ad essere il tempio di Gerusalemme, dove anche gli stranieri offriranno sacrifici e osserveranno il sabato (56,6‐7). Potranno appartenere al popolo di Dio anche coloro che ne erano esclusi dalle regole rigide conte‐nute nel Deuteronomio (Dt 23,2‐5). È sufficiente che aderiscano sinceramente all’alleanza e si sfor‐zino di compiere quanto è gradito a Dio (56,3‐5). Sarà possibile anche un superamento della legge che legava il sacerdozio alla tribù di Levi, perché Dio si sceglierà sacerdoti anche tra coloro che ver‐ranno da lontano (66,21). Non è evidente a chi si riferisca esattamente questa promessa, se agli Ebrei ricondotti a Gerusa‐lemme «da tutti i popoli come offerta al Signore» (66,20), oppure agli stessi popoli stranieri. In ogni caso, il profeta annuncia un superamento delle prescrizioni rituali che limitavano l’appartenenza al popolo santo e l’esercizio del culto, e richiede unicamente l’adesione sincera della persona a Dio. Esige però ancora alcune osservanze esteriori, come quella riguardante il sabato e l’offerta dei sa‐crifici (56,2.6‐7; 58,13‐14). La prospettiva universalistica che apre e chiude questi capitoli sembra però urtare contro un atteg‐giamento diverso, espresso in affermazioni di chiaro stampo nazionalistico. Gli stranieri si mette‐ranno al servizio degli Ebrei e porteranno a Gerusalemme le loro ricchezze come offerta a Dio (60,5‐16). Mentre gli stranieri lavoreranno per gli Ebrei, questi saranno i sacerdoti del Signore e godranno dei beni delle altre nazioni (61,5‐6; 66,12). Il contrasto tra le due serie di testi potrebbe far pensare ad autori diversi, ma può anche essere in‐teso come espressione di una intuizione del futuro ancora confusa e incerta. La centralità di Israele

1 Per molti anni dopo il ritorno dall’esilio la povertà fu reale e largamente diffusa in vasti strati della popolazione.

Ma il profeta, più che l’aspetto sociologico della povertà, sottolinea il rapporto con Dio che è favorito da questa condi‐zione. La povertà, sulla linea di quanto promesso da Sofonia (2,3; 3,11‐12), viene vista sempre più chiaramente come un atteggiamento spirituale che rende più facile accettare la condizione di dipendenza da Dio. Si forma così una cor‐rente di pensiero religioso conosciuta con il nome di ‘ănāwîm, i «poveri» per antonomasia. Alcuni autori moderni vi hanno visto un gruppo di persone organizzato, appartenenti a un preciso ceto sociale. Questa spiritualità caratterizza molti salmi, è presente negli scritti della comunità di Qumran, e alimenta la religiosità espressa nel Nuovo Testamento. Cf. A. GEORGE, Pauvre, in DBS VII (1966) 387‐406, specialmente 393; A. GELIN, Il povero nella Sacra Scrittura, Vita e Pen‐siero, Milano 1956, 35‐40.

114 Il Trito‐Isaia e il suo libro (Is 56–66)

nella storia della salvezza, che si manifesterà in seguito nella sua vera dimensione religiosa, è anco‐ra vista legata a componenti di ordine materiale. Il nostro profeta sente un rapporto profondo con il suo popolo e con Gerusalemme, ma si rende conto che i tempi si stanno aprendo a una realtà diversa. Non riesce però ancora a scorgerla in modo chiaro ed è lontano dall’esprimerla con quel distacco ironico che caratterizzerà l’autore del libro di Giona nei confronti di chi vede nel Giudaismo l’unica strada per avvicinarsi a Dio. Se è vero che «la salvezza viene dai Giudei» (Gv 4,22), come affermerà Gesù dialogando con la donna sama‐ritana, ciò non implica un rapporto di sudditanza politica, economica o culturale nei confronti del popolo che ha trasmesso all’umanità la conoscenza del vero Dio.

5. INFLUSSI SUI TESTI SUCCESSIVI

L’autore di questi capitoli si avvale di doti poetiche notevoli. Soprattutto in 60‐62 il suo discorso è ricco di immagini suggestive, a volte quasi barocche, ma sempre affascinanti. La liturgia cattolica ha adottato diversi brani della terza parte di Isaia, seguendo una tradizione ben testimoniata dagli au‐tori del Nuovo Testamento (cf. Mt 2,11; 3,16; 21,5; ecc.). Gesù cita Is 56,7 per esigere il rispetto del tempio (Mt 21,13; Me 11,17; Le 19,46) e 61,1‐2 per ca‐ratterizzare la propria predicazione (Le 4,18‐19; 7,22). L’Apocalisse sfrutterà molte immagini del Terzo Isaia per descrivere la Gerusalemme celeste (Ap 21,2.11.22‐27; 22,5; cf. 19,7‐8).

BIBLIOGRAFIA SCELTA SUL TRITO‐ISAIA

PENNA A., Isaia, Marietti, Torino‐Roma 1958. VIRGULIN S., Isaia, Paoline, Roma 31977. WESTERMANN C., Isaia. Capitoli 40‐66, Paideia, Brescia 1978. BONORA A., Isaia 40‐66, Queriniana, Brescia 1988. MOTYER A., Isaia. Introduzione e commentario, GBU, Roma 2002. CHILDS B.S., Isaia (Commentari Biblici), Queriniana, Brescia 2005. HANSON P.D., Isaia 40–66. Commentario al Secondo e Terzo Isaia, Claudiana, Torino 2006. MELLO A., Isaia (Nuova versione della Bibbia dai testi antichi 10), San Paolo, Cinisello Balsamo 2012. DELL’ORTO G. (a cura di), Isaia (Parole di Vita), Edizioni Messaggero, Padova 2013. VERMEYLEN J., Le livre d’Isaïe. Une cathédrale littéraire (Lectio Divina 264), Du Cerf, Paris 2014.

CENNI STORICI PER I PROFETI ATTORNO ALL’ESILIO (SECC. VII E VI A.C.)*

1. L’impero assiro

A metà del VII secolo a.C. l’impero assiro, che aveva raggiunto la massima espansione con la con‐quista dell’Egitto da parte di Assaraddon (680‐669), iniziava il suo declino. Assurbanipal (669‐627), dopo una serie di successi iniziali tra i quali va ricordata la conquista di Tebe (l’egiziana No‐Amon sul Nilo) nel 664, perse il controllo sull’Egitto nel 655 ad opera del faraone Psammetico I. Negli anni successivi anche Babilonia si ribellò contro l’Assiria sotto la guida del fratello maggiore di Assurba‐nipal, Shamash‐shumu‐kin. Il tentativo non riuscì, ma era un altro segno evidente che il grande im‐pero assiro si stava indebolendo e si avviava a una fine che sarebbe stata ritardata solo di pochi de‐cenni. Assurbanipal, conosciuto dalla storia greca con il nome di Sardanapalo, fu un sovrano abile politi‐camente e militarmente. Fu anche un grande amante delle opere d’arte, che razziava in tutti i paesi conquistati e raccoglieva nei palazzi della capitale, Ninive. A lui si deve la creazione di una grande biblioteca, che ha fornito agli archeologi un ingente materiale letterario e documenti storici di grandissimo valore; basti ricordare le tavolette che riportano l’epopea di Gilgamesh. L’interesse per l’arte si accompagnava alla violenza contro le popolazioni assoggettate al suo impe‐ro. La grande estensione del territorio occupato e l’eterogeneità di popoli sottomessi furono le cause principali del crollo dell’Assiria, aggredita anche dall’esterno da nuove potenze emergenti: Sciti, Cimmeri, Medi e Persiani. La notizia, fornita dal solo Erodoto, di un’invasione degli Sciti, i qua‐li avrebbero raggiunto l’Egitto seminando rovina e morte, viene tuttavia presa con cautela dagli studiosi. Il colpo mortale per l’impero assiro venne da Babilonia. Nel 627, poco dopo la morte di Assurba‐nipal, il caldeo Nabopolassar guidò la rivolta di Babilonia, sconfìggendo l’esercito assiro e mettendo così le basi per la creazione dell’impero neo‐babilonese. Attorno a Babilonia si radunarono altri popoli, in particolare i Medi guidati da Ciassarre, con l’intento di abbattere l’impero assiro. Dopo alterne vicende militari, nel 612 la capitale dell’Assiria, Ninive, venne occupata, saccheggiata e completamente distrutta dopo tre mesi di assedio dall’esercito congiunto dei Medi e dei Babilo‐nesi. A nulla era valso l’aiuto portato agli Assiri dagli Egiziani, preoccupati del sorgere della nuova potenza babilonese. Tra il 609 e il 605 furono fatti gli ultimi tentativi di mantenere in vita i resti dell’impero assiro con una serie di battaglie lungo l’Eufrate. L’esercito egiziano guidato dal faraone Necao II fu sconfitto definitivamente a Karchemish e ritornò in Egitto lasciando il campo libero al nuovo impero di Babilonia. Nabopolassar morì nel 605 e gli succedette il figlio Nabucodonosor (605‐561) che era già coman‐dante dell’esercito babilonese. Egli si preoccupò di rinforzare i confini verso l’Egitto (che sognava sempre una rivincita sui Babilonesi), occupando le città filistee sulla costa del Mediterraneo. Le vicende militari in questa regione furono alterne. Dal 601 al 598 si ebbe una serie di scontri tra Babilonesi e loro alleati e l’esercito egiziano. In questo frangente venne occupata anche Gerusa‐lemme (598), che subì la distruzione completa dodici anni dopo (586), allorché Nabucodonosor in‐tervenne in forze per annientare una nuova coalizione antibabilonese organizzata probabilmente dall’Egitto. Lotte interne e difficoltà ai confini con la Media determinarono il rapido crollo del grande impero babilonese. L’ultimo re, Nabonedo o Nabonide (562‐539), è presentato dai testi antichi come un personaggio scarsamente interessato agli affari dello Stato, tanto da ritirarsi in un’oasi per dieci an‐ni, affidando il governo al figlio Baldassar (o Belshassar). L’avanzare travolgente di Ciro non trovò resistenza. Babilonia cadde nelle mani del conquistatore nel 539.


116 Cenni storici per I profeti attorno all’esilio (secc. VII e VI a.C.)

2. La Giudea sotto gli imperi assiro e babilonese

La Giudea si trova sulla strada che congiunge l’Egitto alla Mesopotamia, al centro della regione che oggi si suole indicare con il nome di Mezzaluna fertile. La sua posizione geografica l’ha sempre fatta considerare una zona‐cuscinetto, o di frontiera, tra i grandi imperi del Nord e l’Egitto al Sud. È stata quindi sempre soggetta alternativamente alla potenza che di volta in volta aveva il predominio nel‐lo scacchiere del Vicino Oriente. Troviamo così la Giudea sotto l’influsso politico e culturale dell’Assiria fino alla fine di questo impe‐ro. In seguito passò sotto l’influenza dell’Egitto, per diventare parte dell’impero babilonese dopo il 586 e infine provincia dell’impero persiano dopo l’avvento di Ciro. Questo alternarsi di dipendenze politiche, più o meno accentuate, ebbe conseguenze notevoli anche nella vita interna della Giudea. Le simpatie verso l’uno o l’altro degli imperi dominanti portò alla formazione di partiti opposti, che cercavano di spingere ad alleanze anche diverse da quelle tenute ufficialmente dai governanti. Dal punto di vista culturale, gli scambi commerciali favorivano l’introduzione nella Giudea di modi di vivere caratteristici della nazione dominante. Si andava dalla foggia del vestito al modo di vivere, sentiti come estranei al proprio popolo dalla parte più legata alle tradizioni nazionali. Anche la religione non sfuggiva alla suggestione dei culti importati. Non si trattava soltanto di sosti‐tuire un’usanza con un’altra. Ne andava della fede stessa, poiché accettare il culto di un dio stranie‐ro significava riconoscerne la superiorità sul proprio dio nazionale. Politica e religione si confonde‐vano facilmente e il passaggio dall’uno all’altro ambito era quasi inevitabile. Gli ultimi decenni di vita dell’impero assiro furono vissuti nel regno di Giuda in modo contrastante. Il re Manasse (698‐642) fu suddito fedele di Ninive e favorì il diffondersi a Gerusalemme di usanze assire, tanto da modificare radicalmente la stessa religione yahvista (2 Re 21,1‐18; 2 Cr 33,1‐20). Suo figlio Amon regnò solo due anni (642‐641; 2 Re 21,19‐26; 2 Cr 33,21‐25) e venne ucciso in una congiura di palazzo che mise sul trono il giovane figlio Giosia (640‐609), di appena otto anni (2 Re 22,1; 2 Cr 34,1). I disordini interni e la tensione con la regione di Babilonia seguita alla morte di As‐surbanipal, avevano costretto l’Assiria ad alleggerire la sua presenza militare nella provincia di Sa‐maria, il territorio dell’ex‐regno di Israele. Ne approfittò il giovane re Giosia per cercare di riconquistare i territori del regno fratello (632). Contemporaneamente iniziò anche un’opera di riforma religiosa distruggendo ogni traccia di culto idolatrico e imponendo con la forza la religione yahvista (2 Re 23,4‐24; 2 Cr 34,3‐7). Ultimo atto di questi interventi drastici furono i lavori per la ristrutturazione del tempio di Gerusalemme, che di‐venne l’unico luogo di culto ammesso (2 Re 22,3‐23,3; 2 Cr 34,8‐35,19). La riforma religiosa venne sostenuta con l’appello a tradizioni del passato. Quest’opera di ricupero culturale era dovuta forse anche all’influsso assiro. La raccolta di documenti nella biblioteca di As‐surbanipal è forse il segno più appariscente di una esigenza diffusamente sentita in quel periodo. Questa mentalità, condivisa probabilmente anche dagli ambienti sacerdotali ebraici, può averli spinti a valorizzare dei testi che stanno alla base dell’attuale libro del Deuteronomio. Nel 609 Giosia cercò di opporsi al faraone Necao in marcia verso l’Eufrate per portare aiuto all’agonizzante impero assiro. Il re morì nella pianura di Me‐ghiddo. La sua fine è narrata con un certo imbarazzo nelle fonti bibliche (2 Re 23,29; 2 Cr 35,20‐25). Con Giosia infatti finiva l’ultimo tentativo per dare al regno di Giuda l’indipendenza sempre sognata e iniziava il periodo più triste della storia ebraica. Gli ultimi re di Giuda, in particolare Ioiakim (609‐598), fecero precipitare il loro paese verso la rovi‐na seguendo una politica sbagliata, nonostante gli avvertimenti incessanti del profeta Geremia. Cercarono in prevalenza l’appoggio dell’Egitto, cioè del perdente, contro il sorgere del nuovo impe‐ro babilonese. L’esercito di Nabucodonosor intervenne nella regione a diverse riprese per rintuzza‐re i ripetuti tentativi di coalizione antibabilonese (2 Re 23,31‐24,7; 2 Cr 36,1‐7). Nel 598 i Babilonesi occuparono Gerusalemme, la saccheggiarono e deportarono il re, un certo numero di notabili e di artigiani, lasciando però in Giudea

Cenni storici per I profeti attorno all’esilio (secc. VII e VI a.C.) 117

la quasi totalità della popolazione. Al posto del re Ioiachin, deportato a Babilonia, nominarono un altro figlio di Giosia, Mattania, cambiandogli il nome in Sedecìa (598‐586; 2 Re 24,8‐17; 2 Cr 36,8‐16). Con questo re finì ingloriosamente la storia del regno di Giuda. Un tentativo di rivolta contro i Babi‐lonesi nel 594 non ebbe seguito. Quello del 589 sortì l’effetto di riportare nella regione l’esercito di Nabucodonosor. Il nuovo assedio di Gerusalemme, iniziato ai primi di gennaio del 587, durò, con una breve interruzione, fin verso la metà di luglio del 586. La città fu espugnata e distrutta, il re venne catturato e ucciso, e una nuova deportazione privò il popolo lasciato in Giudea di tutta la classe dirigente (2 Re 24,18‐25,21). Il governatore lasciato dai Babilonesi in Giudea fu assassinato e il paese rimase in mano a bande armate che seminavano stragi. Un buon numero di Giudei preferì abbandonare la regione per cer‐care rifugio in Egitto (2 Re 25,22‐26). La Giudea rimase così in parte spopolata, anche se non ab‐bandonata completamente. I Giudei rimasti non riuscirono comunque a riorganizzare la vita socia‐le, politica e religiosa in modo soddisfacente. Invece i deportati a Babilonia ebbero l’opportunità, grazie anche all’opera di profeti come Ezechiele e l’autore della seconda parte del libro di Isaia, di stringere i legami tra di loro e di ritrovare quell’unità che era sempre stata solo un desiderio quando si trovavano in patria. Poterono anche elaborare una interpretazione religiosa di quanto era accaduto, rileggendo la propria storia alla lu‐ce degli avvenimenti tragici che li avevano condotti in esilio. Nacque così, lontano dalla Giudea, quel movimento carico di nostalgia ma ricco di speranza che è all’origine del Giudaismo.

I PROFETI NAUM, SOFONIA E ABACUC E I LORO LIBRI

1. NAUM*

1.1. Un poeta impressionista

Naum è un grande poeta, che entusiasma e affascina per la bellezza e la forza del suo linguaggio. Non ha lasciato scritto niente di sé, si è celato dietro il suo nome, che probabilmente significa «il consolato dal Signore». Conosciamo il suo paese di origine, Elkos (1,1), un villaggio mai nominato altrove nella Bibbia e perciò geograficamente non localizzabile. Ma più dei dati biografici e della cronologia, conta la sua opera che lo colloca tra i più grandi poeti ebrei. Potremmo definirlo un poeta impressionista: con immagini rapide e incisive, come quella del leone (2,12s) e della cavalletta (3,15‐17), con descrizioni colorite ed efficaci della conquista di una superba metropoli (cf. 3,2s), con la voluta ostentazione di un lessico ricercato e difficile, con il tono liricamente patetico di grande tensione emotiva, Naum coinvolge e trascina il lettore; seduce, ep‐pure turba e sconvolge, perché il suo messaggio è durissimo e implacabilmente severo.

1.2. Un profeta nell’occhio del ciclone

Naum non è solo un geniale poeta, ma è anche un arcigno profeta. È vissuto in tempi difficili, tra il 663 a.C. (anno della caduta della città egiziana Tebe, ricordata in 3,8 e chiamata in ebraico No’Amon) e il 612 a.C. (anno della caduta della capitale assira, Ninive, in mano dell’esercito medo‐babilonese). Passò la sua esistenza, probabilmente in Giuda, sotto il regno di Manasse (698‐643 a.C.) e ne vide la rovinosa politica assirofila che tanta corruzione e decadenza religiosa produsse tra il popolo di Dio. Durante il suo lungo periodo di governo, lo spregiudicato re Manasse introdusse in Giuda i culti pagani di Baal e Astarte, l’adorazione del sole, della luna e della milizia celeste (cf. Ger 8,2), fece passare suo figlio attraverso il fuoco cedendo a una pratica di magia superstiziosa, praticò la divinazione e alcuni riti magici. I suoi peccati furono considerati la causa della rovina del popolo d’Israele e della distruzione del tempio: così pensa l’autore deuteronomistico di 2Re 21,9‐14; 24,3ss (cf. anche Ger 15,4). Ma l’origine di tutti i peccati di Manasse fu la sua servile sottomissione politica, culturale e religiosa all’Assiria. Tentativi di rivolta contro lo strapotere assiro serpeggiavano in diversi stati vassalli, com‐presa la Palestina, tanto che anche Manasse subì l’esilio in Babilonia (2Cr 33,11‐13). Ma la sua poli‐tica fu sostanzialmente filoassira. In quegli anni di completo dominio assiro, la voce del profeta si alza per proclamare la caduta di Ninive, capitale del gigantesco impero assiro e per condannare, in linguaggio velato e cifrato, la po‐litica filoassira di Manasse. Le invettive del profeta hanno turbato la delicata sensibilità di molti commentatori, i quali etichettano Naum come profeta crudele, mosso da furore sanguinario contro l’Assiria, sprezzante odiatore dei pagani e fanatico nazionalista ultrà, spirito vendicativo..., insomma un falso profeta. Ma ci siamo dilungati a richiamare il contesto storico in cui predicò questo profeta impetuoso e ardente perché, solo pensando alla corruzione di quei tempi, diventa plausibile l’appello infuocato e forte di Naum. Del resto, il messaggio di Naum non è solo minaccia di castigo, ma è tutto orientato alla salvezza della «vigna» di Dio (2,3), cioè d’Israele.

1.3. Un teologo non nazionalista

Il libro del profeta Naum inizia, dopo il titolo (1,1), con un lungo salmo alfabetico, probabilmente composto dallo stesso profeta o da lui rielaborato e adattato (1,2‐10): questo cantico sul potere immenso di Dio, che è paziente ed esigente (letteralmente: «geloso e vendicatore», 1,2), lento

* A. BONORA, Naum, in G. BARBAGLIO (a cura di), Schede bibliche pastorali. Nuova edizione riveduta e corretta, EDB,

Bologna 2014, 2608‐2612.

I profeti Naum, Sofonia e Abacuc e i loro libri 119

all’ira e potente, equivale a un’enunciazione di princìpi dottrinali secondo i quali si sviluppa tutta la serie di oracoli che compone il resto del libro profetico. In altri termini, questo salmo iniziale è il te‐sto‐chiave per comprendere gli oracoli del profeta attraverso i quali trova concreta applicazione l’immagine di Dio qui tracciata. L’amicizia con Dio porta al successo, mentre i nemici di Dio sono destinati alla rovina: Dio promette a Giuda la liberazione (1,12s), ma minaccia la distruzione per Ninive (1,14). La collocazione del salmo all’inizio del libro, come un «la» musicale che dà il tono, fa pensare che il testo di Naum sia servito per una celebrazione liturgica in onore di Dio, Signore della storia. Un’allusione a tale festa sarebbe 2,1 : «Celebra le tue feste, Giuda, sciogli i tuoi voti, poiché il malvagio non passerà più su di te: egli è del tutto annientato». Il c. 2 è una descrizione vivacissima del castigo di Ninive. Questa è una delle pagine più belle: sem‐bra di assistere all’assalto di Ninive, di sentire le voci e di vedere infuriare la battaglia intorno alla città che cade, alla fine, come un leone vinto. Nel c. 3 continua la visione del massacro compiuto a Ninive, città sanguinaria, piena di menzogne e colma di rapine (3,1), prostituita dalle mille seduzioni (3,4), ma ora svergognata davanti a tutti e ubriacata di dolore. Il disastro è irreparabile e il libro si chiude con un canto funebre (3,18s) intona‐to dai popoli una volta oppressi dall’Assiria per celebrare la fine della crudele dominatrice. Non è per vendetta né per nazionalismo ebraico ad oltranza che il profeta minaccia la rovina di Ni‐nive. Egli vede la realtà politica internazionale dal punto di osservazione della sua fede religiosa. Dio è l’unico sovrano, che esercita il suo potere e il suo giudizio su tutti gli uomini, come canta l’inno iniziale (1,2‐10). Ninive è un esempio, tra gli altri, di potere politico arrogante e ingiusto che Dio non può proteggere e approvare. Anzi, Dio manderà in rovina questo impero corrotto e corrut‐tore per far trionfare la giustizia: per questo la caduta di Ninive è presentata come un giudizio esca‐tologico divino. La fine della «città sanguinaria» (3,1) è un giudizio storico che in qualche modo prefigura e anticipa il giudizio escatologico.

1.4. Un credente nella bufera della storia

Naum è duro, spietato. Non concede nulla alla compassione. Egli ha un’unica passione: la giustizia di Dio. E Dio non può tollerare che l’ingiustizia trionfi, diventi potenza politica e domini nel mondo! Dio non può lasciare che si divinizzi un potere politico dai mille vizi e corrotto che «faceva mercato dei popoli con le sue tresche e delle nazioni con i suoi incantesimi» (3,4). La caduta di Ninive, per Naum, rappresenta un giudizio divino e l’esercizio della giustizia di Dio dentro la storia umana. E resta quindi vero che «buono è il Signore, un asilo sicuro nel giorno dell’angoscia. Si prende cura di chi si rifugia in lui» (1,7). Il profeta costruisce una teologia della storia: Dio è presente e operante nella storia umana, non è indifferente al cumulo di egoismi e di ingiustizie che può diventare grande potenza politica. La caduta di Ninive è un tipo, un modello: essa funziona come plastica illustrazione del trionfo fina‐le, escatologico di Dio sull’ingiustizia e su ogni male. Questa profezia è stata sempre custodita e conservata sia da Israele che dai cristiani, perché è una fonte perenne di fiducia e di speranza nel futuro: l’ultima parola la dirà Dio, non verrà dalla «tana dei leoni» (2,12) delle centrali politiche. In questo senso, Naum è un profeta consolatore. È il profeta della speranza viva nel trionfo finale del Signore: malgrado tutte le apparenze contrarie, Naum sa vedere nella storia lo srotolarsi di un pia‐no e di un giudizio divino. A Qumran, presso il Mar Morto, pochi anni fa, furono scoperti frammenti di un commento del te‐sto di Naum databili verso la fine del II sec. a.C.: una testimonianza significativa che le parole del profeta, anche dopo alcuni secoli, erano meditate e attualizzate dalla comunità «monastica» di es‐seni che dal nostro profeta attingevano speranza e fiducia. La prima comunità cristiana accolse e trasmise questo testo come parola di Dio sempre attuale e importante, paragonabile a quella del cosiddetto «discorso escatologico» dei vangeli (cf. Mc 13 e parr.). Naum insegna a vedere la pre‐senza attiva di Dio nella grande storia dei popoli e a sperare nel futuro: è l’unico modo per capire e vivere in profondità il presente.

120 I profeti Naum, Sofonia e Abacuc e i loro libri

Bibliografia scelta su Naum

BIČ M., Trois prophètes dans un temps de ténèbres: Sophonie‐Nahum‐Habaquc (LD 48), Paris 1968. RINALDI G. – LUCIANI F., Nahum, in I profeti minori, vol. 3, Marietti, Torino‐Roma 1969, 47‐69. BERNINI G., Osea, Michea, Nahum, Abacuc (NVB 30), Paoline, Roma 1970, 355‐396. VUILLEUMIER R. – KELLER C. A., Michée, Nahoum, Habacuc, Sophonie (CAT 11b), Neuchâtel‐Paris 1971. PETER A., I libri di Sofonia, Nahum e Abacuc (Comm. Spirituale AT), Città Nuova, Roma 1974. RUDOLPH W., Micha, Nahum, Habakuk, Zephanja (KAT 13/3), Gütersloh 1975, 141‐190. SAVOCA G., Abdia, Naum, Abacuc, Sofonia (I libri biblici. Primo Testamento 18), Paoline, Milano 2006, 51‐92. ACHTEMEIER E., I dodici profeti. Parte seconda: Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia, Claudiana, Torino

2007, 17‐53. SCAIOLA D., Naum, Abacuc, Sofonia (Nuova versione della Bibbia dai testi antichi 16), San Paolo, Cinisello Balsamo 2012,

9‐54.

2. SOFONIA*

2.1. Sofonia e la riforma di Giosia

Il profeta Sofonia visse a Gerusalemme, nella seconda metà del sec. VII a.C., sotto il regno di Giosia (639‐609). Dopo il lungo e rovinoso regno di Manasse, il popolo viveva in una condizione bisognosa di radicali riforme politiche, sociali e religiose. Infatti «Manasse versò anche sangue innocente in grande quantità fino a riempirne Gerusalemme da un’estremità all’altra, senza contare i peccati che aveva fatto commettere a Giuda, facendo ciò che è male agli occhi del Signore» (2Re 21,16). Violenza, corruzione morale, adorazione di idoli pagani, ingiustizie e oppressioni avevano comple‐tamente dilaniato e reso irriconoscibile il popolo di Dio. Giosia fu il re che si propose di imprimere una svolta, intraprendendo azioni politiche e militari ambiziose per restaurare l’antico splendore del regno davidico (cf. 2 Re 22‐23). Il re tentò anche di promuovere un’intensa riforma religiosa, culminata nella cosiddetta «scoperta» del libro della leg‐ge (622 a.C.). Ma, in quell’occasione, venne consultata la profetessa Culda; forse perché Sofonia era già morto. Possiamo dunque supporre che Sofonia abbia predicato durante i primi anni del regno di Giosia, prima della riforma religiosa del pio re di Giuda. L’orizzonte è limitato a Giuda e Gerusalemme, e a queste si riferisce il titolo «Israele». Le tribù del nord ormai erano state conquistate dall’Assiria cir‐ca un secolo prima. Come i grandi profeti del sec. Vili, cioè Amos, Osea, Isaia e Michea, anche Sofonia denuncia con co‐raggio ed energia le ingiustizie di ogni genere, l’idolatria, il materialismo pratico, l’indifferenza reli‐giosa, gli abusi di potere. Ma non si limita a denunciare, smascherare, condannare. Egli vuole inci‐tare a un’attività nuova, alla conversione, al cambiamento. E in questo senso è un precursore della riforma giosiana, alla quale dette senz’altro un contributo indiretto.

2.2. Struttura del libro

Il Libro del profeta Sofonia consta di tre brevi capitoli soltanto, sostanzialmente attribuibili al profe‐ta stesso. Alcuni versetti, però, sembrano riflettere la situazione po‐stesilica: 2,7; 2,9b.l0; 3,10b; 3,16‐20. Tali versetti si comprendono meglio, infatti, se letti alla luce della catastrofe dell’esilio. L’idea ricorrente e dominante è quella del «giorno del Signore». È una formula per esprimere non soltanto un dato temporale, ma l’intervento di Dio. Sia Israele sia i popoli stranieri sono confrontati col «giorno del Signore»; il Signore viene per tutti, per porre fine al male che è nel mondo e creare un’umanità nuova. Tre sono quindi gli elementi strutturanti il discorso sofoniano; il giorno del Si‐gnore – il popolo d’Israele – i popoli stranieri. È un triangolo di personaggi tra i quali si gioca tutto.

* A. BONORA, Sofonia, in G. BARBAGLIO (a cura di), Schede bibliche pastorali, 3762‐3770.


L’intero libretto di Sofonia, esclusa la finale postesilica (3,16‐20), è articolato in tre parti secondo una figura polidromica: da un punto di partenza c’è un’evoluzione fino a un punto di svolta, dal quale poi si ritorna al punto di partenza. Lo schema triadico dominante è il seguente: minaccia di sventura per Israele – annuncio di sventura per gli altri popoli – promessa di salvezza per Israele. Le tre sezioni del libro sono: a) 1,1‐18; b) 2,1‐3,5; c) 3,6‐15. La prima parte può essere così intitola‐ta: «Il giorno del Signore è vicino per la città di Gerusalemme»; la seconda può portare questo tito‐lo: «Gli dèi sono annientati e i popoli pregano il Signore»; la terza: «A Israele sono perdonati i suoi peccati ed è affidata una missione nel mondo». Esamineremo i contenuti fondamentali delle singo‐le parti, facendo attenzione soprattutto al messaggio teologico.

2.3. Il giorno del Signore (1,1‐18)

È il tema dominante della prima parte. Non è un’espressione per indicare un giorno di festa, un giorno cultuale in onore del Signore, ma per designare l’intervento di Dio nella storia. Il «giorno del Signore» è la stessa azione potente e irresistibile di Dio che salva, sperimentata nella storia concre‐ta dell’umanità. L’espressione presuppone perciò l’idea che Dio sia il signore assoluto di tutta la storia e che sia all’opera efficacemente entro la storia. Nel c. 1 si alternano due voci: risuona la voce di Dio che parla in prima persona (1,2‐6.8s.12s. 17s) e la voce di un «commentatore», il profeta, in terza persona (1,7.10s.14‐16). Dio proclama la sua venuta nel mondo, in Giuda e in modo particolare a Gerusalemme, per abbattere, eliminare, puni‐re, distruggere; il profeta commenta descrivendo gli effetti terrificanti e rovinosi della non‐salvezza, rappresentata come «giorno del Signore». Il profeta annuncia che questo giorno di rovina «è vici‐no» (1,7.14), sta per venire, «avanza a grandi passi» (1,14). Si respira già l’aria della tempesta che tutto distrugge, già ci sono i segni del «grande giorno del Signore» (1,14). Che cosa provoca l’irruzione violenta di tale «giorno amaro» (1,14), giorno «di angoscia e di affli‐zione, di rovina e di sterminio, di tenebra e di oscurità, e giorno di nube e di caligine» (1,15)? Un elenco impressionante di peccati rivela la causa di così devastante catastrofe. Si adora il dio cana‐neo Baal e si ricorre ai suoi falsi sacerdoti (1,4), si rende culto agli astri e si giura per il dio ammoni‐ta Milcom (1,5), non si segue il Signore, non lo si cerca né ci si consulta con lui (1,6); i capi e i prin‐cipi reali vestono lussuosamente e con spreco alla moda straniera umiliando così i poveri; i sacer‐doti fanno pratiche magiche o superstiziose come «saltare la soglia del tempio», riempiendo la cor‐te regale di rapine e di frodi (1,8.9); la città di Gerusalemme è in mano a una turba corrotta di mer‐canti disonesti e di cambiavalute intriganti (1,11); i ricchi della capitale si sentono sicuri perché hanno potere economico, ma non si curano dei piani di Dio e riposano tranquillamente sulle loro ricchezze come su feccia (1,12s). Giuda e Gerusalemme sono una società totalmente corrotta: eco‐nomia, politica, rapporti sociali, religione sono inquinati e insopportabilmente guastati. Il quadro non potrebbe essere più fosco e le deviazioni morali e religiose non potrebbero essere più vaste e profonde. Dio, che viene coinvolto in tale degradazione e depravazione da chi pensa: «Il Signore non fa né bene né male» (1,11), è invece totalmente estraneo ai peccati dell’uomo. Egli è pieno di «ira» (1,15.18) contro questa società malata; l’ira è un’immagine che esprime efficacemente l’incompati‐bilità tra Dio e il peccato, l’estraneità assoluta di Dio alle colpe d’Israele. Dio stesso infatti dice: «Hanno peccato contro il Signore» (1,17). Il giorno dell’ira del Signore (1,18) è il giorno in cui Dio chiede di rendere conto. In ebraico si usa il verbo pāqad: la Bibbia Cei (2008) lo rende con «punirò» (1,8) e con «farò giustizia» (1,12). È il gior‐no in cui «alla presenza del Signore Dio» (1,7) apparirà la malvagità, l’ingiustizia e la violenza della società israelitica, insieme con la rovina immane che essa ha prodotto. Tale rovina è attribuita a Dio, vista come un «castigo» di Dio per affermare sia che essa è frutto di una condotta ribelle e contraria a Dio sia che Dio non è, in nessun modo, connivente e coinvolto con la società corrotta che «punisce». Il linguaggio di punizione non deve però far pensare a un Dio vendicativo, crudele, a una forza cieca di distruzione. Con tale modo di esprimersi, il profeta fa comprendere che la con‐


versione a Dio potrebbe ancora salvare dalla catastrofe perché Dio vuole far vivere e prosperare il suo popolo.

2.4. La caduta degli dèi (2,1‐3,5)

Questa sezione del libro è incorniciata da due suadenti appelli alla conversione (2,1‐3; 3,1‐5). La conversione è mettersi in cerca (2,3): «Cercate il Signore – cercate la giustizia – cercate l’umiltà». L’invito è rivolto ai «poveri della terra» (2,3), cioè a coloro che credono in Dio ed eseguono i suoi comandi (2,3). Il «cercare Dio» è inseparabile dal «cercare la giustizia»: un atteggiamento corretto verso Dio è connesso con una condotta giusta verso gli uomini. Cercare l’umiltà significa «essere piccoli» davanti a Dio, diventare «poveri davanti a Dio». Ma gli «umili della terra» sono gli oppressi, gli umiliati, coloro che subiscono ingiustizie dai ricchi e dai potenti. Ora, non si dice che questi sono senz’altro, per il fatto di essere «poveri», salvati: anch’essi devono cercare il Signore, la giustizia e l’umiltà davanti a Dio! Ma Gerusalemme non accoglie l’invito alla conversione: è una città ribelle, contaminata, prepoten‐te, sorda alla parola di Dio, incorreggibile, senza fede e incapace di rivolgersi al suo Dio (3,1). Tutti i responsabili sono corrotti: i funzionari‐capi, i giudici, i profeti, i sacerdoti (3,3s), sebbene il Signore risplenda in mezzo ad essa come sole di giustizia (3,5). Che Gerusalemme non voglia convertirsi e «non accetti la correzione» (3,2) dei fatti che già stanno verificandosi nel mondo è un indizio della sua ostinazione che le impedisce di vedere i segni del giudizio divino già attuatosi sui popoli, li profeta infatti cita casi esemplari del giudizio divino già compiutosi, menzionando quattro regioni del mondo: la Filistea (2,2.4‐6), Moab e Ammon (2,8‐9a), l’Etiopia (2,12) e l’Assiria (2,13‐15). Al centro di tale enumerazione pone «tutti i continenti» (alla lettera: «tutte le isole delle nazioni»), cioè la totalità dei popoli. «Terribile sarà il Signore con loro, poiché annienterà tutti gli dèi della terra» (2,11). La caduta di tutti gli imperi del mondo è associata alla distruzione degli idoli dei vari popoli. Da ciò Israele dovrebbe imparare da ciò che solo il Signo‐re è il Dio Salvatore e in nessun altro c’è salvezza. Al tempo di Sofonia, un secolo di dominazione assira aveva introdotto in Israele svariati culti idola‐trici, come è ricordato nella prima parte del libro. Quei falsi dèi legittimavano ogni forma di malco‐stume, di ingiustizia e di immoralità. Essi – dice il profeta – portano i popoli alla rovina. Soltanto l’adorazione sincera ed effettiva del Signore può salvare.

2.5. Israele sarà liberato dai suoi peccati (3,6‐15)

Dopo aver illustrato e denunciato la corruzione di Gerusalemme (prima parte) e aver proclamato il giudizio divino sui popoli e sulla città santa non convertita (seconda parte), ora il profeta sviluppa ciò cui aveva appena accennato nella finale della seconda parte: il Signore è l’unico sole di giustizia che sta in mezzo a Gerusalemme. Infatti la terza parte termina con l’affermazione: «Re d’Israele è il Signore in mezzo a te, tu non temerai più alcuna sventura» (3,15). Dapprima il Signore ricorda ciò che ha fatto contro gli altri popoli per indurre Israele a capire e con‐vertirsi (3,6s). Infatti dice il Signore: «lo pensavo: Almeno ora mi temerà! Accoglierà la correzione!» (3,7). Ma Israele non ha cambiato la sua condotta. Allora il Signore progetta un futuro diverso: «Perciò aspettatemi» (3,8). Quale sarà questo nuovo futuro? Dice il Signore: «Ho decretato di ra‐dunare le nazioni, di convocare i regni, per riversare su di loro (cioè gli uomini di Gerusalemme) la mia collera, tutta la mia ira ardente» (3,8). Israele non si meriterebbe, infatti, se non una punizione esemplare e Dio avrebbe tutto il diritto di infliggerla. Ma il Signore non attua quel progetto, anzi lo cambia radicalmente, «lo darò ai popoli – dice il Si‐gnore – un labbro puro perché invochino tutti il nome del Signore e lo servano tutti sotto lo stesso giogo... Coloro che mi pregano, tutti quelli che ho disperso, mi porteranno offerte» (3,9). I popoli, per l’azione di Dio, si convertiranno e saliranno in pellegrinaggio, con offerte, a Gerusalemme. Anche in Gerusalemme il Signore opererà una purificazione: «Allontanerò da te tutti i superbi gau‐denti e tu cesserai di inorgoglirti sopra il mio santo monte» (3.11). Purificato e convertito, resterà


in Gerusalemme un «popolo umile e povero che confiderà nel nome del Signore» (3.12); sarà un popolo che non commetterà più iniquità, menzogna, frodi, violenze, ma vivrà in pace (3,13). Un in‐no di gioia per la «Gerusalemme nuova» chiude questa sezione (3,14s). Il Signore rinuncia al diritto di castigare, ma trasforma, anzi converte l’umanità intera. L’aggiunta postesilica (3,16‐20) è promessa che Dio «ristabilirà le sorti», radunerà gli israeliti di‐spersi, allontanerà il male, sterminerà gli oppressori. In una parola: «Dio ti rinnoverà con il suo amore» (3,17). Il giorno dell’ira si è mutato nel giorno di festa (3,16.18; cf. 3,11), nel giorno della salvezza che Dio darà al suo popolo umile e povero.

2.6. Il nuovo popolo di Dio

Il popolo che Dio si costruisce con la sua azione salvifica è costituito da popoli – non israeliti – che «invocano il nome del Signore» (3,9) e da israeliti – o dal «resto d’Israele» che «confida nel nome del Signore» (3,11) – Gerusalemme sarà il centro di tale nuovo popolo di Dio; al centro sarà anche un «popolo umile e povero». È dunque la fede nel Signore il criterio dell’appartenenza al popolo di Dio. Al centro del mondo, quale luce e modello per tutti, Sofonia vede un popolo umile e povero, che ha rinunciato alla violenza e all’oppressione, all’iniquità e all’ingiustizia e che ha eliminato «i gau‐denti e gli inorgogliti» (3,11), cioè le differenze e le stratificazioni di potere. Sarà un popolo dove non ci sarà la miseria e la fame, non ci sarà la guerra e il terrore: «Non commetteranno più iniqui‐tà... Potranno pascolare e riposare senza che alcuno li molesti» (3,13). Se ci sarà questo «popolo umile e povero», da tutti i confini della terra «mi porteranno offerte» (3,10), cioè ci sarà una ricchezza che si riverserà su questo popolo. Ma non sarà la ricchezza che è frutto di iniquità e di oppressione, bensì un prodotto della fraternità e della solidarietà. Ovviamen‐te questo popolo non cesserà mai di cercare il Signore e la giustizia ed esso crescerà sempre più perché il Signore darà a uomini sempre più numerosi un labbro puro (3,9). Il profeta qui sogna una «Chiesa» che sia luce del mondo e sale della terra, punto luminoso di at‐trazione per tutto il mondo. Ma il sogno di Dio si scontra continuamente con la ostinata volontà umana di far valere i propri progetti e i propri piani. Tuttavia Dio non rinuncia a sognare la sua «Chiesa» quale popolo umile e povero, città posta sul monte che sia faro e modello di una società nuova, di un mondo rinnovato. La volontà di Dio è di crearsi un popolo che confida in lui, che cerca la giustizia e l’eguaglianza, la non‐violenza e la pace. In tempi tribolati e guastati dalla diffusa depravazione dei costumi morali e religiosi, il profeta è sì una voce critica nei confronti della società del suo tempo, ma anche la sen‐tinella che annuncia la possibilità di un futuro nuovo, a condizione però che si ritorni al Signore con tutto il cuore.

Bibliografia scelta su Sofonia

BIČ M., Trois prophètes dans un temps de ténèbres: Sophonie‐Nahum‐Habaquc (LD 48), Paris 1968. RINALDI G – LUCIANI F., Sofonia, in I profeti minori, vol. 3, Marietti, Torino 1969, 99‐122. VUILLEUMIER R. – KELLER C. A., Michée, Nahoum, Habacuc, Sophonie (CAT 11b), Neuchâtel 1971. BERNINI G., Sofonia, Gioele, Abdia, Giona (NVB 31), Paoline, Roma 1972, 5‐85. PETER A., I libri di Sofonia, Nahum e Abacuc (Comm. Spirituale AT), Città Nuova, Roma 1974. RUDOLPH W., Micha, Nahum, Habakuk, Zephania (KAT 13/3), Gütersloh 1975, 253‐303. SPREAFICO A., Sofonia (CSANT), Marietti, Genova 1991. SAVOCA G., Abdia, Naum, Abacuc, Sofonia (I libri biblici. Primo Testamento 18), Paoline, Milano 2006, 141‐185. ACHTEMEIER E., I dodici profeti. Parte seconda: Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia, Claudiana, Torino


109‐160.


3. ABACUC*

3.1. Un profeta, un simbolo

Abacuc è un profeta di cui non sappiamo nulla, né il nome della sua famiglia né il periodo esatto della sua predicazione. Egli si presenta semplicemente come una «sentinella in piedi sulla fortezza» (Ab 2,1), pronto ad ascoltare e annunciare il messaggio del suo Signore. In questo sta la missione del profeta: parlare in nome di un altro, di Dio stesso. E poiché si tratta di una parola non contin‐gente, il libro profetico che pure è legato a un preciso momento storico si eleva a messaggio pe‐rennemente valido e attuale. Di conseguenza, i riferimenti alle situazioni storiche dell’epoca sono sfumati e appena accennati. Si fa menzione dei caldei (1,6), di sfuggita, per ricordare il nemico sto‐rico d’Israele, l’impero neobabilonese che sta affermandosi e imponendosi verso la fine del sec. VII a.C. È quello il tempo in cui si colloca l’attività profetica di Abacuc. Ma la vicenda e il messaggio del profeta acquistano un valore simbolico più esteso, fino a diventare una meditazione sulla storia in quanto tale nel suo segreto rapporto con l’attività salvatrice di Dio. Sono stati toiti i nomi dei per‐sonaggi storici implicati nella profezia di Abacuc perché ogni epoca, rileggendo quel testo, potesse mettere i nomi della sua epoca: quella profezia assume così valore di paradigma o schema inter‐pretativo della storia. Nei tre brevi capitoli di quest’operetta si contrappongono continuamente il colpevole e l’innocente, ma chi è il colpevole e chi l’innocente? E oggi ancora per noi ritorna la domanda: chi sono gli oppressori e chi gli oppressi? È la dialettica e il dramma stesso della storia come tale che risalta mirabilmente in questo splendido e profondo libretto profetico.

3.2. Un dialogo, una minaccia, una preghiera

L’articolazione del discorso profetico è abbastanza limpida e ordinata. La prima parte è costituita da un dialogo drammatico tra il profeta e Dio: il profeta interroga e supplica (1,2‐4 e 1,12‐17); Dio dà risposta a ciascuno degli interrogativi tormentosi (1,5‐11 e 2,2‐19). La seconda risposta di Dio for‐ma la seconda parte del libro con la successione terrificante di cinque implacabili «Guai»! (2,6b‐l 9). Alla fine, terza parte, un salmo che è una «preghiera del profeta Abacuc, in tono di lamentazio‐ne» (3,1), conclude il rotolo supplicando e lodando il Signore, unico salvatore (c. 3). C’è una logica in questa successione. Il profeta, di fronte alle ingiustizie e oppressioni interne del regno di Giuda, si chiede: «Fino a quando, Signore...? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spetta‐tore dell’oppressione?» (1,2s). Dio sembra assistere impassibile e inerte a quel che succede. Ma Dio risponde che manderà il castigo, farà sorgere i caldei, che, popolo feroce qual è, semineranno rovina e compiranno conquiste (1,5‐11). Il profeta riprende a chiedersi: «Perché, vedendo i perfidi, taci, mentre il malvagio ingoia chi è più giusto di lui?» (1,13). Come può Dio volere che l’empio, fe‐roce e terribile, trionfi proprio in forza della sua iniqua potenza? Dio ancora risponde: «Soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede.... Il superbo non sussisterà» (2,4s). E il coro delle nazioni canterà una minacciosa canzone con la quale derideranno le pretese e i sogni di grandezza del feroce nemico (2,6‐20). Infine il profeta, compreso il piano di Dio sulla sto‐ria, potrà intonare il suo magnifico poema di fiducia e di lode (c. 3). L’ultima parola è un invito alla gioia e all’ottimismo: «lo gioirò nel Signore, esulterò in Dio, mio salvatore. Il Signore Dio è la mia forza» (3,18s). Come nel cantico del Magnificat di Maria, la vittoria e la gioia stanno nel confessare la propria impotenza e la forza vincitrice di Dio. La fiducia in Dio è l’arma vittoriosa! La coerenza logica dell’evolversi dei pensieri ci fa supporre che il libro debba essere ritenuto un’unità letteraria compiuta e non la somma di parti di diversi autori. Anche il salmo del c. 3, sul quale molto si è discusso, sembra dover essere attribuito al profeta come il resto del rotolo. Ciò non esclude naturalmente che il nostro testo attuale sia il risultato di riletture e attualizzazioni va‐rie, perché la parola profetica era conservata in Israele come parola viva e sempre attuale e non come tesoro mummificato da custodire in scrigni sigillati.

* A. BONORA, Abacuc, in G. BARBAGLIO (a cura di), Schede bibliche pastorali, 1‐5.


3.3. «Il giusto vivrà per la sua fede»

Questo testo è famoso perché ripreso in passi importanti del NT (cf. Rm 1,17; Gal 3,11; Eb 10,38). Esso merita una breve riflessione e spiegazione. Infatti in questo verso è condensata la teologia della storia del profeta Abacuc. Ma purtroppo esso si presta a qualche ambiguità per la difficoltà di traduzione. La Bibbia Cei (2008) traduce così: «Soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede» (2,4). Due sono le idee espresse in questo verso: 1) un animo ambizio‐so fallirà; 2) il giusto che ha fiducia salverà la vita. L’ambizioso è colui che confida nelle sue capacità e risorse umane; il giusto è colui che confida in Dio. Nei cinque terribili «Guai» (2,6b‐19) è annunciata la rovina dell’ambi‐zioso; nel salmo finale è cantata la vittoria del giusto. Il profeta è convinto che, anche se nella storia un oppressore libera da un altro, imponendo poi di nuovo il suo dominio opprimente, alla fine i giusti che confidano in Dio avranno la vittoria. Dio è colui che, alla fine, imporrà la sua suprema giustizia, eserciterà la sua in‐sondabile giustizia nella storia umana. San Paolo riprenderà questo verso per affermare che la salvezza non proviene dall’osservanza della Legge, ma dalla fede. La Lettera agli Ebrei interpreta il passo come un’esortazione alla fiducia in Dio.

3.4. Un antichissimo poema?

Il salmo del c. 3 è una composizione stupenda. Secondo molti autori, Abacuc avrebbe ripreso un testo che risalirebbe fin verso il sec. X a.C. Ma è molto probabile che il salmo faccia parte dell’opera originale del rotolo profetico di Abacuc. Assistiamo qui a una magnifica presentazione di Dio come guerriero, che monta sopra i suoi cavalli e sopra i carri (v. 8), snuda il suo arco (v. 9) e sdegnato attraversa la terra, adirato calpesta le nazio‐ni (v. 12). La collera bellicosa e la potenza militare di Dio si scaglia contro gli oppressori iniqui e ri‐belli. Le sue stesse frecce ha trafitto il capo dell’esercito nemico (v. 14): Dio sconfigge tutti i suoi nemici. Egli esce per salvare il suo popolo (v. 13), per usare misericordia e clemenza (v. 2) verso co‐loro che confidano soltanto in lui. La fantasia del profeta immagina che Dio sia un guerriero che marcia trionfante contro i suoi nemi‐ci per sconfiggerli e ristabilire la giustizia: così si realizza il sogno del profeta, il desiderio che egli ha espresso nella sua supplica al Signore. Tutta la creazione partecipa a questa drammatica battaglia di proporzioni cosmiche: la terra e il cie‐lo, il mare e i fiumi, il sole e la luna, le montagne e i colli tremano, vibrano, si scuotono, sussultano, erompono alla presenza terribile e minacciosa di Dio. Tutto l’universo partecipa alla lotta gigante‐sca di Dio contro l’ingiustizia e l’oppressione! La vittoria di Dio creerà un mondo nuovo. La vittoria finale di Dio è certa, è già descritta come fatto avvenuto: «Calpesti il mare con i tuoi cavalli, mentre le grandi acque spumeggiano» (v. 15). Si ripete il miracolo dell’esodo.

3.5. Il tunnel della speranza

Abacuc è un profeta tormentato, dubbioso che ricerca un senso e una risposta divina. Domanda, supplica, pone obiezioni, ma alla fine trova la strada giusta, quella dell’abbandono fiducioso in Dio sua forza e salvezza. La contemplazione della storia umana, piena di ingiustizie e assurdità, l’aveva condotto sull’orlo di un abisso di disperazione e di dubbio; ma ora la scoperta di Dio creatore e sal‐vatore, giusto e buono, signore potente e gioia eterna, gli ha ridato speranza. Il tunnel è passato, è tornata la luce radiosa della speranza contro ogni speranza. Ora il profeta si fida del Dio misterioso ed enigmatico, trascendente e immanente, ma pur sempre un Dio difficile.

Bibliografia scelta su Abacuc

HUMBERT P., Problèmes du livre d’Habaquq, Neuchâtel 1944. VISCHER W., Der Prophet Habakuk, Neukirchen 1958. BIČ M., Trois prophètes dans un temps de ténèbres. Sophonie‐Nahum‐Habaquq (LD 48), Paris 1968.


RINALDI G. – LUCIANI F., Abacuc, in I profeti minori, vol. 3, Marietti, Torino‐Roma 1969, 71‐98. VIRGULIN S., La ’emûnāh in Abacuc 2, 4b, in Divus Thomas 72 (1969) 92‐97. BERNINI G., Osea, Michea, Nahum, Abacuc (NVB 30), Paoline, Roma 1970, 397‐437. VUILLEUMIER R. – KELLER C. A., Michée, Nahoum, Habacuc, Sophonie (CAT 11b), Neuchâtel‐Paris 1971. PETER A., I libri di Sofonia, Nahum e Abacuc (Comm. Spirituale AT), Città Nuova, Roma 1974. RUDOLPH W., Micha, Nahum, Habakuk, Zephanja (KAT 13/3), Gütersloh 1975, 191‐251. SAVOCA G., Abdia, Naum, Abacuc, Sofonia (I libri biblici. Primo Testamento 18), Paoline, Milano 2006, 93‐139. ACHTEMEIER E., I dodici profeti. Parte seconda: Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia, Claudiana, Torino


55‐108.

IL PROFETA GEREMIA E IL SUO LIBRO*

1. L’EPOCA

La vita di Geremia comprende due periodi assai diversi tra loro, separati dall’anno 609, data della morte del re Giosia. Gli anni che precedono questo avvenimento sono contrassegnati dall’ot‐timismo: l’indipendenza politica apre la strada a una crescente prosperità e alla riforma religiosa. Gli anni seguenti, invece, costituiscono un periodo di rapida decadenza. Giuda si vedrà dominata prima dall’Egitto, poi da Babilonia. Le tensioni interne e le lotte tra partiti sono accompagnate da ingiustizie sociali e da una nuova corruzione religiosa. Il popolo sta andando verso la fine. L’anno 586 Gerusalemme cade nelle mani dei Babilonesi e il regno di Giuda sparisce definitivamente dalla storia. Per capire l’attività di Geremia, bisogna conoscere più a fondo questi due periodi. Data la difficoltà di ricordare i diversi re che occupano questi anni e la parentela tra essi esistente, ci con‐viene presentarli in un quadro schematico: 1. AMON (642‐640) | 2. GIOSIA (640‐609) | 3. Ioacaz —— 4. IOIAKIM —— 6. SEDECIA (3 mesi) (609‐598) (597‐586) | 5. Iekonìa (tre mesi)

N.B.: I numeri 1,2,3, ecc. indicano l’ordine secondo cui hanno regnato. Ioacaz, Ioiakim e Sedecia erano fratelli. Ioacaz e Iekonìa sono messi in minuscolo per la brevità del loro regno.

1.1. Dal 642 al 609

La morte di Manasse, nell’anno 642, aprì un periodo di crisi nella storia di Giuda. Questo re dispoti‐co, crudele ed empio aveva governato per cinquantacinque anni seguendo una politica assiriofila. Il suo successore, Amon, fu assassinato due anni dopo (640). Allora un settore della popolazione as‐sai difficile da identificare (l’‘am hā’āreṣ, che alcuni considerano dei contadini poveri, altri dei sa‐cerdoti di second’ordine, altri dei proprietari terrieri) salva la monarchia, uccidendo i cospiratori e nominando re Giosia, figlio di Amon, a soli otto anni di età (cfr. 2Re 21,23s). Durante il regno di Giosia la politica interna ed estera cambia completamente. A partire dalla mor‐te di Assurbanipal (avvenuta tra il 633 e il 627 circa), l’Assiria si va indebolendo a grandi passi. Le riesce impossibile tenere il controllo degli immensi territori conquistati; e questo permette a Giosia di consolidare il proprio regno e di tentare l’annessione dei territori del Nord (antico regno di Israe‐le). Il cambiamento più profondo, tuttavia, secondo gli autori biblici, si opera nell’ordine religioso. Gio‐sia si trova in disaccordo con la situazione che gli ha lasciato il nonno Manasse. Verso il 632 inizia una riforma che culminerà dieci anni più tardi con la scoperta del «Libro della Legge». In 2Re 23,4‐24 e 2Cron 34–35 si raccontano le misure prese dal re per la purificazione del culto e la restaura‐zione della Pasqua1.

* ALONSO SCHÖKEL – SICRE DIAZ, I profeti, 453‐478. 1 Secondo 2Re 22,3ss pare che tutta la riforma abbia avuto inizio l’anno 18 di Giosia, cioè nel 622. Più esatta sembra

l’informazione di 2Cron 34,3, che situa i primi passi della riforma nell’anno ottavo (632).

128 Il profeta Geremia e il suo libro

Come frutto dell’indipendenza politica e della crescente prosperità, si sviluppa pure in questi anni un’intensa attività letteraria: viene redatta gran parte del Deuteronomio2 e si ha la prima redazione della storia deuteronomista. Mentre in Giuda le cose sembrano andare di bene in meglio, la situazione internazionale si va ran‐nuvolando. Verso il 626‐625, forse, ha luogo l’invasione degli Sciti, specialmente nella zona nord dell’antico Oriente, ma arrivando anche alle frontiere dell’Egitto3. D’altra parte, i Medi e i Babilone‐si sono decisi a farla finita con l’Assiria. Nel 614 conquistano Assur; nel 612 Ninive; nel 610 Jaran. Con ciò, la grande potenza che aveva deportato Israele e dominato Giuda per un secolo, scompare dalla storia. Ma Giuda non potrà festeggiare l’evento. L’anno 609 Giosia muore nella battaglia di Meghiddo (2Re 23,29s). Una sconfitta che comporta la fine di un breve periodo di splendore. Ha inizio il «viaggio di un lungo giorno verso la notte».

1.2. Dal 609 al 586

Alla morte di Giosia il popolo nomina re suo figlio Ioacaz. Ma il governo durerà solo tre mesi. Il fa‐raone Necao, di ritorno dalla sua spedizione, lo destituisce, impone a Giuda un tributo di mille chili di argento e di trenta d’oro, e nomina quale successore Ioiakim, uomo dispotico e miscredente, che si guadagnerà l’animosità del popolo e, soprattutto, del profeta Geremia. Nabopolasar, ormai in‐fermo, incarica della campagna il figlio Nabucodònosor; e questi conquista la fortezza egiziana di Càrchemis, che sembrava inespugnabile. Con questo fatto, l’equilibrio tra Egitto e Babilonia si rom‐pe in favore dei Babilonesi. Questo stesso anno Nabucodònosor sale al trono e dà inizio a una poli‐tica espansionistica. Ioiakim, vincolato politicamente al faraone, rifiuta di accettare il dominio dei nuovi padroni del mondo. Ciò nonostante, il 603/602 dovrà pagare un tributo. Ma lo fa costretto dalle circostanze e approfitterà della prima occasione per cessare di pagarlo (600). Nabucodònosor, occupato in ben altri problemi, per il momento non lo attacca. Ma nel dicembre del 598 si mette in marcia contro Gerusalemme. In questo stesso mese Ioiakim muore, probabilmente assassinato dai suoi avversari politici, e sale al trono Iekonìa. È all’inizio del suo regno che i Babilonesi assediano Gerusalemme e ha inizio la prima deportazione. Tra gli esiliati si trova lo stesso re, che Nabuco‐dònosor sostituisce con Matania, terzo figlio di Giosia, cambiandogli il nome in quello di Sedecia. I primi anni di Sedecia trascorrono nella calma. Solo il 594/593 registra un tentativo di ribellione, che non arriva in porto. Ma nel 588 egli nega il tributo. Nabucodònosor, allora, gli dichiara guerra all’istante e assedia Gerusalemme (5 gennaio 587). Dopo un anno e mezzo di resistenza, la capitale si arrende il 19 luglio 586. Sedecia e i capi militari fuggono; ma vengono catturati presso Gerico e portati alla presenza di Nabucodònosor. Il quale ordina di giustiziare i figli di Sedecia, che invece fa accecare ed esiliare a Babilonia (2Re 25,1‐7). Un mese più tardi ha luogo l’incendio del tempio, del palazzo reale e delle case. Le mura vengono distrutte e ha luogo la seconda e più famosa deporta‐zione. Gli avvenimenti posteriori (nomina di Godolia a governatore, sua morte, fuga in Egitto, ecc.) è pre‐feribile studiarli in rapporto con la vita di Geremia, per evitare di ripeterci nei dati.

2. VITA E ATTIVITÀ PROFETICA DI GEREMIA

Geremia è senza dubbio il profeta di cui conosciamo meglio la vita. In primo luogo, perché nume‐rosi testi parlano delle vicissitudini che ha attraversato. Poi, perché egli non si è limitato a trasmet‐tere la parola di Dio ma ci ha lasciato anche la sua parola, i suoi dubbi, inquietudini, timori. La sua personalità appare così come una delle più suggestive dell’Antico Testamento. Questo non significa

2 Il «Libro della Legge», scoperto nel tempio nell’anno 622, equivaleva probabilmente a gran parte di Dt 12–26. In

tempi posteriori alla scoperta sarebbe stato completato, fino a formare il blocco di Dt 5–28. 3 L’invasione degli Sciti ci è nota soltanto tramite la notizia che ce ne dà ERODOTO, Storie, I, 105s. Alcuni ne accettano

il dato come degno di fede; altri lo rifiutano basandosi sull’impossibilità che gli Sciti governassero in Asia per ven‐tott’anni.

Il profeta Geremia e il suo libro 129

che ne possiamo ricostruire la vita passo dopo passo. Basta ordinare cronologicamente i testi data‐ti (o databili con discreta probabilità) per notare numerose lacune:

627/626 vocazione (1,4‐10) 627‐609 predicazione a Israele (3,6‐13) 609 oracolo su Ioacaz (22,10‐12) 609‐608 discorso del tempio (7,1‐15; c. 26) 605 oracolo contro l’Egitto (46,2‐12) discorso sulla conversione (25,1‐11) redazione e lettura del volume (c. 36) parole a Baruc (c. 45) 598 parole su Iekonìa (22,24‐30) i due cesti di fichi (c. 24) lettera agli esiliati (c. 29) oracolo contro Elam (49,34‐39) 594/593 contro la ribellione (cc. 27–28) maledizione di Babilonia (51,59‐64) 587/586 durante l’assedio (21,1‐10; 34; 37–38) preso nell’atrio (32–33; 39,15‐18) 586 dopo la caduta di Gerusalemme (cc. 39–44)

Questa panoramica conferma quanto abbiamo detto. Anche se possediamo numerosi dati sulla vi‐ta di Geremia, non possiamo ricostruirla nei particolari. Alcuni momenti sembrano di particolare rilievo (l’anno 605, segnato dalla vittoria dei Babilonesi a Càrchemis; il 598/7, con il tremendo pro‐blema della prima deportazione; il 594/3, con il tentativo di ribellione contro Nabucodònosor; l’anno e mezzo dell’assedio). Ma tra questi anni troviamo lacune, a volte assai vaste, e soprattutto quella che va dal 627 al 609, dove solo possiamo datare con certezza un breve testo. Se ai testi sicuri aggiungiamo quelli che si possono datare con discreta probabilità, è possibile rico‐struire in modo abbastanza completo la vita e l’attività di Geremia, anche se certi punti restano ipotetici, soggetti a critiche e modifiche. Geremia nacque verso il 650 ad Anatòt, villaggio a circa sei chilometri da Gerusalemme, e apparte‐neva alla tribù di Beniamino. Questo dato è importante, perché Beniamino, unita politicamente a Giuda, mantenne uno stretto legame con le tribù del Nord. Si comprende allora come Geremia desse tanta importanza alle tradizioni di detta zona: egli ci parla di Rachele e di Efraim (31,15‐18), del santuario di Silo (7,14; 26,6) e, soprattutto, dà molta importanza all’esodo, quale cammino at‐traverso il deserto ed entrata nella terra promessa (2,1‐7; 7,22‐25; 16,14; 23,7; 31,31). Al contrario, le tradizioni tipicamente giudaiche (come l’elezione divina di Gerusalemme e la dinastia davidica) non hanno in questo profeta un rilievo particolare. Il titolo del libro (1,1) ci indica che Geremia era figlio di Chelkia, uno «dei sacerdoti che dimoravano in Anatòt». È possibile che la sua ascendenza risalisse ad Abiatar, il sacerdote esiliato da Salomone ad Anatòt (1Re 2,26). Ma questo non supera la semplice congettura. D’altra parte, Geremia non esercitò mai come sacerdote. Alcuni commentatori hanno cercato di basare su questa origine sa‐cerdotale di Geremia una sua possibile formazione rigida e stretta, soprattutto di lotta contro l’idolatria. Ma anche questa è una supposizione non dimostrabile. L’unica cosa certa è che egli, ancora assai giovane, ricevette la vocazione profetica (1,4‐10). L’anno ce lo indica 1,2 con tutta esattezza: il 13° del regno di Giosia, cioè il 627/626 a. C. A volte si è messa in dubbio l’esattezza di questa data. C’è chi pensa che la vocazione ebbe luogo l’anno 23 di Giosia (617 a. C.); altri situano l’inizio della sua attività profetica nella primavera‐autunno del 609 oppure nel 605, dopo la battaglia di Càrchemis. Senza dubbio, possiamo affermare e con la maggior parte dei commentatori che non ci sono motivi seri per dubitare dell’esattezza della data indicata in 1,2. Quello che è certo è che Geremia non si sente attratto per questa missione. Come Mosè, prova ti‐


more davanti ad essa, e si considera incapace e impreparato. Ma Dio non ammette scuse e affida al suo araldo il compito più difficile, che è di trasmettere la sua parola in alcuni anni tra i più cruciali e tragici della storia di Giuda.

LA VOCAZIONE DI GEREMIA: GER 1,4‐19*

Il racconto della vocazione di Geremia (Ger 1,4‐19) è ritmato da tre «formule dell’avvenimento del‐la parola» («Mi fu rivolta la parola di YHWH», vv. 4.11 e 13), che dividono il racconto in tre parti: vv. 4‐10; 11‐12 e 13‐19. I due ultimi brani sono accomunati dal fatto di essere due visioni simboliche. Effettivamente, al v. 13 si dice: «Per la seconda volta mi fu rivolta la parola di YHWH», supponendo la prima al v. 11. Sicché possiamo dividere il racconto in due parti: la vocazione vera e propria (vv. 4‐10) e due visioni che la spiegano (vv. 11‐19). Le due parti sono, a ogni modo, intimamente unite.

I. GER 1,4‐10: LA VOCAZIONE VERA E PROPRIA DI GEREMIA

14Ora venne a me la parola di Yhwh, in questi termini: 5«Prima di plasmarti nel ventre ti ho conosciuto e prima che uscissi dall’utero ti ho consacrato: profeta delle nazioni ti ho stabilito». 6Allora dissi: «Ahimè, Yhwh mio si‐gnore, ecco, io non so parlare, perché sono un ragazzo». 7Ma Yhwh mi disse: «Non dire: sono un ragazzo. Invece andrai da tutti quelli a cui io ti manderò, e dirai tutto ciò che io ti comanderò. 8Non avere paura davanti a loro, perché io sono con te per liberarti – oracolo di Yhwh». 9Allora Yhwh tese la sua mano e toccò la mia bocca, e Yhwh mi disse: «Ecco, ho posto le mie parole nella tua bocca. 10Vedi, ti do autorità, oggi stesso, sulle nazioni e sui regni, per sradicare e per demolire, per far perire e per eliminare, per costruire e per piantare».

Il brano appartiene al genere letterario della «vocazione profetica». Ciò vuol dire che l’autore si serve di un cliché letterario comune per descrivere la sua convinzione di essere stato chiamato da Dio a compiere questa missione. Probabilmente il brano fu composto a più riprese. La parte più an‐tica risale forse al profeta stesso (lo fa pensare lo stile autobiografico, l’uso della prima persona singolare), ma ci sono parti più recenti, che suppongono l’intero libro profetico, scritte dunque, più tardi, dai suoi discepoli. Il brano ci presenta una visione ideale del profeta. I «racconti di vocazione profetica» sono di diversi tipi.4 Alcuni presentano il rapporto di Dio con il suo profeta come quello di un ufficiale con un suo soldato. Dio comanda e il profeta obbedisce senza fiatare, senza avanzare obiezioni (così viene presentata la vocazione di Abramo [Gen 12,1.4], di Amos [Am 7,15], di Osea [Os 1,2‐3] o quella di Elia [1Re 19,15.19]). Altre volte Dio viene presen‐tato come un re, e il profeta come un privilegiato, che viene ammesso al «consiglio celeste del re», dove il re prende le sue decisioni (così viene presentata, ad esempio, la vocazione di Isaia [Is 6], di Ezechiele [Ez 1,27‐28], di Michea figlio di Imla [1Re 22,19‐22]). Altre volte ancora il rapporto è quel‐lo di un maestro con il suo discepolo: si pensi alla vocazione di Samuele (1Sam 3). Nel nostro caso, il tipo di rapporto è quello di un padrone con il suo servo plenipotenziario. Per ca‐pire questo tipo di rapporto occorre ricordare Gen 24, dove Abramo manda il suo servo a trovare una sposa per il suo figlio Isacco. Il servo qui ha la funzione di un ambasciatore: riferisce gli ordini del suo padrone. Non parla a nome suo, ma di colui che lo ha mandato. A questo tipo di vocazione appartengono sia la vocazione di Mosè (Es 3–4) sia quella di Gedeone (Gdc 6,11‐24). Come si vede, si tratta non solo di vocazione di profeti, ma anche di «liberatori», cioè di capi politici del popolo. È tipica di questo genere di racconto l’obiezione da parte del chiamato, che cerca di scusarsi, di non accettare questo incarico (cfr. Gen 24,39; Ger 1,6; Es 3,11; Gdc 6,15). Si dà molta importanza al dia‐logo tra Dio e il suo inviato: si sottolinea la libertà di quest’ultimo. Gli elementi di questo tipo di vocazione sono quattro in Ger 1,4‐10:

* G. BARBIERO, Le confessioni di Geremia. Storia di una vocazione profetica, Paoline, Milano 2012, 9‐34. 4 Cfr. W. VOGELS, Les récits de vocation des prophètes, in NRTh 105 (1973) 3‐24.


‐ l’incarico profetico dato da Dio (vv. 4‐5); ‐ un’obiezione da parte del chiamato (v. 6); ‐ Dio respinge l’obiezione (vv. 7‐8); ‐ Dio dà un segno esterno a garanzia della sua vocazione (vv. 9‐10).

Questo schema lo ritroveremo anche nell’Annunciazione a Maria (Lc 1,26‐38): anche questo è un «racconto di vocazione». La struttura della vocazione di Geremia è tipicamente dialogica: le varie tappe del racconto sono introdotte dal verbo dire. Esse sono disposte in forma chiastica: in aa’ ab‐biamo la vocazione propriamente detta; in bb’ l’obiezione e il rigetto della stessa:

a) «La parola di YHWH fu a me, e disse» (incarico profetico, v. 4). b) «lo dissi» (obiezione del chiamato, v. 6). b’) «E disse YHWH a me» (Dio respinge l’obiezione, v. 7). a’) «E mi disse YHWH» (segno sacramentale, v. 9).

a) Incarico profetico (1,4‐5)

La formula di introduzione: «La parola di YHWH fu a me», nel linguaggio esegetico, si chiama «for‐mula di avvenimento della parola». Con essa il profeta esprime la sua convinzione di aver ricevuto una parola efficace di Dio. A differenza delle parole umane, la parola di Dio è una parola efficace, che fa quello che dice. Di questo Geremia è profondamente convinto. In 23,29 egli dice: «La mia parola non è forse come il fuoco – oracolo del Signore – e come un martello che spacca la roccia?». Nel nostro testo, la parola di Dio mostra la sua efficacia con il fatto di «sradicare e demolire, di‐struggere e abbattere, costruire e piantare» (v. 10). Il tema della Parola è centrale nel racconto della vocazione. Il profeta è l’uomo della Parola. Dio parla a lui, ma il destinatario della comunicazione di Dio non è il profeta, è il popolo. Ecco dunque la missione del profeta: da una parte, ricevere la parola di Dio, essere l’uomo di Dio, ammesso alla sua intimità; dall’altra, trasmettere questa parola all’uomo, essere solidale con l’uomo. Questo è anche il dramma di Geremia, perché la lealtà con Dio lo porta a entrare in conflitto con l’uomo, con il suo popolo che non ascolta la parola di Dio. Geremia è preso e lacerato da questa duplice solida‐rietà, che sembra incompatibile e non lo è. Conciliare questa doppia solidarietà ha un prezzo: è la vita del profeta. Le «confessioni» sono testimonianza della fedeltà del profeta, nonostante tutto, a questa doppia, conflittuale solidarietà. «Prima di formarti nel ventre ti ho conosciuto, e prima che uscissi dall’utero ti ho consacrato. Ho fatto di te un profeta per le nazioni». Le tre frasi che compongono il v. 5 vanno considerate insie‐me. Sono i due momenti fondamentali della vocazione profetica: la consacrazione e la missione. Le prime due («ti ho conosciuto», «ti ho consacrato») esprimono il legame del profeta con il suo Dio, la sua «consacrazione». La terza («Ho fatto di te un profeta») è la «missione». Geremia è consacra‐to per essere inviato. Anzitutto, dunque, la «consacrazione». Con le due frasi «prima di formarti nel ventre» e «prima che uscissi dall’utero» si intende la concezione e il parto di un bambino. Sono il momento iniziale e finale della vita intrauterina. Nella concezione antica è Dio a formare l’embrione umano e a dargli forma nel ventre materno, come fa il vasaio con l’argilla (cfr. Gen 2,7; Sal 139,13‐16; Gb 10,10‐12). Ed è ancora lui a trarre il bambino dall’utero (cfr. Sal 22,10‐11). Se con la seconda espressione la consacrazione è posta prima del parto, ancora nel ventre materno, con la seconda essa è posta an‐cor prima della concezione, cioè prima ancora dell’esistenza. Geremia ancora non esisteva, e Dio già lo conosceva. Come i paralleli citati mostrano, questo pensiero, che l’uomo non viene al mondo per caso, ma è scelto da Dio per uno scopo ben preciso, è diffuso nella Bibbia e nel mondo antico. Si tratta non di vocazioni straordinarie, ma della vita di ogni essere umano. È l’uomo moderno, che, staccando l’uomo da Dio, perde il senso della vita. Ogni vita umana è una vocazione. L’uomo non si chiama da sé, è chiamato da Dio. Anche se Dio si serve del concorso umano, in realtà è lui che chiama ogni singolo uomo all’essere e gli affida una missione.


«Conoscere» ha nella Bibbia un senso molto forte, che va al di là di una percezione razionale. Co‐noscere vuol dire entrare in contatto in maniera intima con una persona: tanto che in Gen 4,1s. si dice: «Adamo conobbe Eva, la sua donna, la quale concepì e partorì Caino». Conoscere perciò è si‐nonimo di «amare». Prima ancora di esistere, Geremia è stato amato da Dio. «In principio era la Parola» (Gv 1,1), una parola d’amore. Il secondo verbo consacrare significa «mettere da parte, separare dagli altri per un particolare ser‐vizio alla divinità». Qui c’è il concetto della «scelta» o «elezione». Dio non ama tutti gli uomini allo stesso modo: egli ama ciascuno in senso unico. Geremia è stato scelto da Dio come uno sposo sceglie la sua sposa fra le tante donne. Egli è stato separato dagli altri uomini per appartenere in modo particolare, unico, a Dio. Il profeta è l’uomo che possiede una straordinaria unione con Dio, egli è «l’uomo di Dio». Mentre nel profetismo dei popoli vicini si mette l’accento sui miracoli e le previsioni del futuro, nel profetismo biblico classico il profeta è l’uomo della comunione con Dio. Geremia troverà in questa unione con Dio la risposta alle sue crisi: «Io sono con te» (Ger 1,8.19; 15,20). È interessante notare che questa idea della scelta fin dal grembo materno non è legata alla figura del profeta. Generalmente, nella concezione orientale, sia in Mesopotamia sia in Egitto, è il re che è presentato così, come predestinato fin dal grembo materno.5 Ciò fa capire che nella vocazione di Geremia ci sono tratti anche regali, che ritroveremo ad esempio al v. 10 («Ti ho costituito oggi sulle nazioni e sui regni...»). Nell’AT viene presentato così Sansone (Gdc 13,5). Però la somiglianza più straordinaria è con la figura del Servo sofferente di Isaia (cfr. Is 44,2.24; 49,1.5). L’espressione: «Ti ha formato fin dal seno materno» appare soltanto in Ger 1,5 e in questi brani di Isaia. Sappiamo che il «servo» ha due dimensioni: quella di un individuo particolare e quella collettiva del popolo di Israele, presentato come servo di Dio disprezzato dalle nazioni. Anche nel nostro caso, dietro all’elezione di Geremia si intravede l’elezione del popolo di Israele, popolo profetico e regale (cfr. Dt 7,6‐8). Dopo la consacrazione, viene espressa la missione di Geremia: «Ho fatto di te un profeta per le na‐zioni». Letteralmente il testo suona: «Io ti ho dato, consegnato». Il profeta è un «donato». Non ri‐mane con Dio. Dio lo dona al mondo, lo regala, lo consegna al mondo. Il termine profeta (nābî’) indicava originariamente il profeta estatico, che profetizzava in trance. Ma nel libro di Geremia, il profeta è l’uomo di Dio e, soprattutto, l’uomo della parola, come il termine greco esprime: profeta è colui che «parla in nome di un altro». Così verrà presentato Geremia nei vv. 7 e 9: egli è l’ambasciatore di Dio, colui che porta il messaggio di Dio agli uomini. I destinatari dell’annunzio di Geremia stranamente sono indicati come «le nazioni». Stranamente, perché Geremia parlerà soprattutto al suo popolo, al popolo di Israele. Ed effettivamente poi al v. 7, quando si parla dei suoi nemici, si suppone che lui parli agli israeliti. Probabilmente qui abbiamo la mano di un redattore posteriore, che ha voluto tratteggiare la figura di Geremia sulla falsariga di quella del servo di Isaia, che viene presentato come «luce delle nazioni» (cfr. Is 42,6; 49,6; cfr. an‐che 42,4). Effettivamente, il libro di Geremia contiene una serie di oracoli sulle nazioni (cfr. Ger 25; 46‐52). La figura di Geremia, nel racconto di vocazione, acquista dunque un carattere emblemati‐co: essa riassume in sé la vocazione del popolo di Israele, come è presentata in Es 19,5‐6 («Se dare‐te ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia, infatti, è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa»). «Prima di formarti nel grembo materno ti ho conosciuto». Con questa espressione, Geremia esprime la sua convinzione che la vocazione profetica non è qualcosa di aggiunto in lui, ma appar‐tiene al suo stesso essere. Geremia non può smettere di essere profeta senza smettere di essere Geremia. Un giorno egli sarà tentato di abbandonare la sua vocazione, ma non riuscirà a farlo: «Nel

5 Per la Mesopotamia si veda la leggenda di Sargon di Akkad e quella di Assurbanipal, per l’Egitto si veda quella di

Pianki (cfr. S. HERRMANN, Jeremia [BK 12], Neukirchener, Neukirchen‐Vluyn 1986, 57).


mio cuore c’era come un fuoco ardente... mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (Ger 20,9). Non solo le parole di Geremia sono profetiche, tutto il suo essere lo è. Tutta la sua vita è profetica. La consacrazione di Geremia è il lato positivo della sua vocazione. Quello negativo è la sua separa‐zione dagli uomini. Geremia, persona molto sensibile, soffrirà profondamente della solitudine a cui la vocazione profetica lo porterà (cfr. Ger 15,17: «Spinto dalla tua mano sedevo solitario poiché mi avevi riempito di sdegno»). Egli giungerà a maledire il giorno della sua nascita (Ger 20,14‐18). Le promesse di felicità fatte qui, nel giorno della sua vocazione, sembreranno una falsità. Eppure no, anche attraverso la sua sofferenza si manifesterà che esse erano vere. Come nel caso di Gesù, che ha salvato il mondo con la croce.

b) Obiezione del chiamato (1,6)

Abbiamo visto che l’obiezione da parte del chiamato appartiene al genere letterario della vocazio‐ne profetica. La troviamo nella vocazione di Gedeone (Gdc 6,15) e soprattutto in quella di Mosè (cfr. Es 3,11; 4,10‐12). Dal momento che il profeta deve dire le parole di Dio, l’obiezione di non sa‐per parlare è conseguente. D’altra parte un impegno così gravoso come quello di essere «profeta dei popoli» è naturale che susciti obiezioni. L’obiezione ha il compito di mostrare che questo compito non viene dall’uomo. Geremia non si sa‐rebbe mai sognato di essere profeta. Non è stato qualcosa che lui ha cercato, che lui ha voluto. Egli si è opposto con tutte le sue forze a questo incarico. Nell’ultima o «quinta» confessione egli giun‐gerà ad accusare Dio di averlo sedotto, approfittando della sua età giovanile (cfr. Ger 20,7). «Io sono giovane». Il termine usato indica un «ragazzo non sposato», e, dato che il matrimonio av‐veniva presto in Israele, un adolescente. Il giovane non ancora sposato non aveva diritto di sedere nel tribunale alle porte. Egli godeva poca reputazione nella società per avere poca esperienza della vita. La sua parola era disprezzata. Ciò valeva ancora di più per Geremia, che proveniva dalla cam‐pagna, dal piccolo villaggio di Anatòt (cfr. Ger 1,1). A differenza di Isaia, che era uomo di corte, Ge‐remia era un timido ragazzo di campagna, molto sensibile. Controindicato per essere «profeta per le nazioni». Ciò che Geremia dice non è dunque una scusa: corrisponde alla verità. Egli è cosciente dei suoi limiti.

c) Dio respinge l’obiezione (1,7‐8)

Dio prende sul serio l’obiezione del suo profeta, come sempre, anche nel caso di Mosè e di Maria. Qui egli non dice: «Non è vero che sei giovane», ma: «Non dire: Io sono giovane». Cioè, è vero che tu sei giovane, ma questo non è importante. Geremia, infatti, non deve dire parole sue: egli è il messaggero di Dio. La risposta di Dio sottolinea questo aspetto della missione di Geremia, sia per ciò che riguarda il messaggio sia per ciò che riguarda i destinatari della missione. «Dirai tutto ciò che io ti ordinerò» (Ger 1,7). Come ambasciatore, Geremia non dovrà dire parole sue, egli dovrà riferire le parole di colui che l’ha mandato. Ed è chiaro, nei racconti di vocazione, che Dio spesso si serve di strumenti inadeguati, per mostrare che a operare non è l’accortezza umana, ma la potenza di Dio. Così è nel caso di Gedeone (cfr. Gdc 6,15), di Maria (cfr. Lc 1,34‐37), di Paolo (cfr. 2Cor 12,9). Per ciò che riguarda i destinatari del messaggio, è lo stesso: «Andrai a tutti coloro a cui io ti mande‐rò» (v. 7). Geremia non andrà da coloro che gli sono simpatici, che la pensano come lui, che posso‐no accogliere la sua parola, ma da coloro «a cui Dio lo manderà». Il termine usato, mandare, è il verbo tipico della missione. Geremia è un «inviato» di Dio. Per questo egli è stato «consacrato». Egli è dato agli uomini con un «valore aggiunto», che viene da Dio. La preposizione che noi abbiamo tradotto con «a» suona in ebraico ‘al, un termine che può signifi‐care anche «contro». Cioè Dio fa intravedere che il messaggio che Geremia proclamerà gli procure‐rà inimicizia. Così sarà realmente, e di questo Geremia spesso si lamenterà nelle sue «confessioni» (cfr. Ger 15,10). Anche questo è un segno profetico: egli non si sceglie i destinatari, ma è Dio a indi‐carglieli.


È da notare la «totalità» della missione: Geremia deve andare da «tutti» quelli che Dio gli indica e deve dire «tutte» le parole che lui gli consegna. Non deve escludere niente, anche se a lui non pia‐ce, o non è gradito ai suoi ascoltatori, e non deve escludere nessuno, neanche i suoi nemici. Che il messaggio di Geremia troverà opposizione viene dato per scontato. Dio lo mette in guardia al v. 8: «Non aver paura di fronte a loro». Il tema della paura verrà ripreso al v. 17 («Non spaventar‐ti di fronte a loro»). Non si tratta di un modo di dire. Geremia è un ragazzo sensibile, timido, che deve affrontare l’ostilità di tutto un popolo, della gente comune, non solo, ma delle autorità politi‐che e religiose, come il re e i sacerdoti, e ciò durante tutta la sua vita. D’altra parte, questo destino è tipico dei profeti, come Gesù di Nazaret ha messo in evidenza con la propria vita. Il profeta partecipa della sorte della Parola che gli è stata affidata. La parola di Dio è un appello alla libertà, e perciò si presenta in forma debole, disarmata. Essa è una parola di amore e non può costringere, non vuole costringere l’uomo ad accoglierla. L’uomo l’accoglie solo se vuole. Di fronte al rifiuto dell’uomo, la parola è impotente. E così è il profeta. Egli è povero e non violento. In Ger 36 il re Ioiakim distrugge il rotolo con le parole di Geremia. L’uomo che distrugge la parola di Dio! Allo stesso modo essi cercheranno di uccidere il profeta in tutti i modi, per far tacere la Parola. «lo sono con te per liberarti». L’unica certezza che rimane al profeta è l’assistenza del suo Dio, che Dio è con lui, dalla sua parte. Si tratta qui di un elemento tipico dei racconti di vocazione (cfr. Es 3,12 [Mosè]; Gdc 6,16 [Gedeone]; Lc 1,28 [Maria]). L’unica certezza che Dio dà ai suoi chiamati è la sua assistenza. Cioè il profeta non dovrà porre la sua fiducia nei mezzi umani, né sull’appoggio degli uomini, ma unicamente su quello di Dio. In un momento decisivo della sua vita, Geremia dirà: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo», e invece: «Benedetto l’uomo che confida in YHWH» (Ger 17,5.7). Dio promette di salvare Geremia dai suoi nemici. Ha mantenuto la sua promessa? Geremia ne ha passate di tutti i colori: è stato imprigionato, torturato, condotto in esilio. Nel libro non si racconta che egli sia stato ucciso. Questo si racconta, a ogni modo, di Gesù di Nazaret, in cui si compie il de‐stino di ogni profeta. Gesù non è stato salvato dai suoi nemici. O, meglio, sì, ma in un modo diver‐so, forse, da quello che si aspettava (cfr. Mc 15,34). Così è stato anche di Geremia: la sua storia non conosce una happy end. Egli viene condotto in esilio in Egitto e lì si perdono le sue notizie. Anche per lui, la «salvezza» è stata diversa da quella che si aspettava.

d) Segno sacramentale (1,9‐10)

La quarta parte del racconto non si limita alle parole, ma menziona anche un gesto concreto (v. 8). In altri racconti si tratta di un segno miracoloso, come ad esempio nel caso del vello di Gedeone (Gdc 6,17‐24), del bastone di Mosè (Es 4,1‐9), della maternità di Elisabetta nel caso di Maria (Lc 1,36). Nel nostro caso non si tratta tanto di un miracolo ma di un «gesto sacramentale», come nella vocazione di Isaia (Is 6,6‐7) e di Ezechiele (Ez 3,1‐3), una sorta di «ordinazione profetica». «E YHWH stese la sua mano e toccò la mia bocca» (v. 9a). Il gesto riguarda l’organo della parola, la bocca. Nel caso di Isaia, il gesto divino aveva la funzione di «purificare» la bocca impura di Isaia. Nel caso di Geremia il senso è diverso: è quello di mettere le parole di Dio nella bocca del suo pro‐feta, come accade anche con Ezechiele. Per annunziare agli altri la parola di Dio, il profeta deve prima accogliere questa parola, ascoltarla. Geremia esprimerà spesso questa esperienza dell’acco‐glienza della parola di Dio («Farò delle mie parole come un fuoco nella tua bocca», Ger 5,14; «Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la leti‐zia del mio cuore», 15,16; «Tu sarai come la mia bocca», 15,19). Il testo suona letteralmente: «lo do le mie parole». È lo stesso verbo che Dio aveva usato per il pro‐feta: «lo ti ho dato come profeta». Come il profeta, così la parola è «data», donata, messa nelle mani degli uomini. Il destino del profeta è lo stesso della parola di Dio. Ciò diviene chiaro nella Pa‐rola fatta carne, nel verbo di Dio (cfr. Gv 1).


L’immagine fa riferimento a Dt 18,18, in cui Dio annunzia che «susciterà un profeta come Mosè». Perciò, il testo fa un parallelo tra la figura di Mosè e quella di Geremia. Come Mosè, Geremia ha il compito di trasmettere al popolo la parola di Dio e di condurlo dall’esilio di Babilonia nella terra promessa. C’è una tensione tra il v. 5 («Prima di formarti nel seno materno») e il v. 10 («oggi»). Quando è sta‐to fatto profeta Geremia, nel ventre materno o da giovane? Ambedue le cose sono vere. In un av‐venimento concreto della sua giovinezza Geremia ha preso coscienza della vocazione che era in lui da sempre, fin dalla nascita. L’«oggi» è il momento dell’investitura da parte di Dio (cfr. Sal 2,7). Al‐cuni autori pensano a un solenne atto liturgico, come avviene nell’ordinazione sacerdotale.6 Ma forse non è necessario pensare a questo. Non abbiamo notizia di un’ordinazione profetica. Il profe‐ta non appartiene alla gerarchia, ma è legato al carisma, al dono dello Spirito. Paolo di Tarso si è sentito chiamare in un giorno preciso, sulla via di Damasco, anche se riconosce di essere stato scel‐to da Dio fin dal seno materno (cfr. Gal 1,15). Ogni vocazione, in fondo, è il riconoscimento di qual‐cosa che c’era da sempre. Così anche per Geremia può essersi trattato di un’esperienza interiore, mistica. A ogni modo, egli ha la certezza che questa missione non viene da lui, ma da Dio, e questo fatto è caratteristico per la vocazione di un profeta. È stato così per Mosè, il suo modello. Mosè ha ricevuto la missione profetica nell’ambito di una teofania al monte di Dio (cfr. Es 3,2: il roveto ar‐dente). Gesù riceverà la sua missione nel momento del battesimo. Il verbo costituire (pāqad) appartiene al linguaggio politico. Con questo verbo Geremia viene no‐minato luogotenente di Dio e insediato «sopra le nazioni e i regni». Poiché la parola di Dio ha auto‐rità su tutti i popoli della terra (cfr. Is 40,6‐8), Geremia, ricevendo la parola di Dio, riceve potere sul‐la storia del mondo. Stranamente, il più timido e riservato dei profeti è anche il più «politicizzato», profondamente inserito nella politica del suo tempo. La vocazione profetica non è una fuga nel pri‐vato, ma un inserimento nei problemi e nei drammi della storia universale. «... Per sradicare e per demolire, per distruggere e per abbattere, per costruire e per piantare». Queste parole formano come un ritornello nel libro di Geremia (cfr. ancora 18,7‐10; 24,6; 31,28; 42,10; 45,4): esse sono come un concentrato del suo annunzio profetico. Il primo binomio corri‐sponde chiasticamente all’ultimo: viene usata la metafora vegetale («sradicare» e «piantare») e quella di un edificio («demolire» e «costruire») prima in senso negativo («sradicare» e «demoli‐re»), poi in senso positivo (piantare e costruire):

a) sradicare b) demolire b’) costruire a’) piantare.

Il secondo binomio («per distruggere e per abbattere») forse è stato aggiunto in un secondo mo‐mento. A ogni modo, esso sottolinea che la parte «distruttiva» è preponderante nella missione di Geremia. Geremia è chiamato fondamentalmente a distruggere la falsa sicurezza su cui il popolo si culla. Il popolo di Israele pensava che essere il popolo di Dio lo mettesse al sicuro da ogni pericolo. Poteva vivere nel peccato e nell’ingiustizia: tanto Dio era dalla sua parte e aveva l’obbligo di difen‐derlo dai suoi nemici. A questo popolo egli deve annunziare la distruzione della capitale e la depor‐tazione in esilio. Ma la predicazione di Geremia non si limita a questo aspetto negativo. Al di là della distruzione, egli annunzia la speranza di un nuovo inizio, di una nuova storia che Dio vuole iniziare con il suo popolo, purificato dalla tragedia dell’esilio. È il tema della nuova alleanza, che Dio stabilirà sulle ro‐vine dell’antica: «Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (Ger 31,31‐33).

6 Così H.G. REVENTLOW, Liturgie und prophetisches Ich bei ]eremia, J.C.B. Mohr, Gütersloh 1963.


II. GER 1,11‐19: LE DUE VISIONI CHE SPIEGANO LA VOCAZIONE

111E la parola di YHWH venne a me in questi termini: «Che cosa vedi, Geremia?». Risposi: «Io vedo un ramo di mandorlo». 12Allora YHWH mi disse: «Hai visto bene, perché io veglio sulla mia parola per compierla».

13E una seconda volta la parola di YHWH venne a me, in questi termini: «Che cosa vedi?». Risposi: «Io vedo una pentola che bolle, e la sua parte anteriore è inclinata da Nord». 14Allora YHWH mi disse: «Da Nord si aprirà la sciagura su tutti gli abitanti del paese. 15Perché ecco, io sto per chiamare tutte le tribù dei regni del Nord, oraco‐lo di YHWH, e verranno e porranno ciascuno il proprio trono di fronte alle porte di Gerusalemme e contro tutte le sue mura all’intorno, e contro tutte le città di Giuda, 16e io proclamerò loro i miei giudizi per tutta la loro ini‐quità, perché mi hanno abbandonato e hanno sacrificato ad altri dèi e si sono prostrati davanti alle opere delle loro mani».

17«Quanto a te, poi, tu cingiti i fianchi, alzati e pronunzia contro di loro tutto ciò che io ti comanderò. Non la‐sciarti prendere dal terrore di fronte a loro, affinché io non ti faccia terrorizzare di fronte a loro». 18«E io, ecco, faccio di te oggi una città fortificata e una colonna di ferro e mura di bronzo contro tutto il paese, per i re di Giuda, per i suoi capi, per i suoi sacerdoti e per la gente del paese. 19Combatteranno contro di te, ma non riusciranno a sopraffatti, perché io sono con te, oracolo di YHWH, per liberarti».

La seconda parte del racconto di vocazione si compone di due visioni, che sono esposte ai vv. 11‐12 e ai vv. 13‐16 di Ger 1. La seconda visione, più estesa, porta i segni di aggiunte redazionali. Si tratta, nei vv. 15‐16, di una profezia ex eventu scritta dopo la distruzione di Gerusalemme a opera di Na‐bucodonosor, che mostra questo avvenimento come un giudizio di Dio sulle infedeltà della città peccatrice. Con il v. 16 termina l’esposizione delle visioni. I vv. 17‐19 riprendono il racconto di voca‐zione dei vv. 4‐10 e vanno considerati a parte. Allo stesso tempo, però, essi sono anche lo sviluppo della seconda visione: continua infatti, come vedremo, il discorso divino iniziato al v. 14. La visione profetica costituisce un genere letterario particolare, diverso dal racconto di vocazione. L’accostamento dei vv. 11‐16 ai vv. 4‐10 perciò non è originale. È stato il redattore del libro che ha messo insieme due brani originariamente separati. A ogni modo, essi continuano la tematica della «parola», fondamentale nel racconto di vocazione (si veda il legame tra «le mie parole» [v. 9] e «la mia parola» [v. 12]). Più che di «visioni», cioè di apparizioni straordinarie, o di «sogni», i due brani parlano di quadri di vita quotidiana: un ramo di mandorlo, una pentola sul fuoco. Sono oggetti della vita di ogni giorno, che, guardati alla luce della parola di Dio, diventano simboli di una realtà più profonda. È da notare la straordinaria intimità che questi brani rivelano tra Dio e Geremia.

a) Il ramo di mandorlo (1,11‐12)

La prima visione si fonda su un gioco di parole. In ebraico, il mandorlo si chiama šāqēd. Il termine deriva dal verbo šāqad, che significa «vigilare». Perciò šāqēd si tradurrebbe come «il vigilante». Il mandorlo deve questo nome al fatto che esso è la prima pianta a fiorire in primavera. Quando an‐cora le altre piante sono brulle, senza foglie, appaiono in Palestina le nuvole bianche dei mandorli in fiore. È uno spettacolo che si vede anche in Sicilia, dove a febbraio si celebra la festa del mandor‐lo in fiore. «Vigilante», perché sta all’erta ad annunziare l’arrivo della bella stagione. Sembra che le piante siano morte nel lungo inverno. Ma non è così, e il mandorlo, il vigilante, è lì a ricordare che esse non sono morte. C’è in esse una linfa nascosta che presto esploderà in rigoglio di vita, fiori, foglie, frutti. Dal «mandorlo» (šāqēd) il v. 12 passa al verbo šāqad (vigilare): «lo veglio sulla mia parola per com‐pierla». Come la vegetazione, così la parola di Dio ha le sue stagioni. C’è la stagione della gestazio‐ne, dell’inverno, in cui la Parola è nascosta e sembra morta, ma non è così. Dio «veglia» sulla sua parola per attuarla. Si tratta, per il profeta, di aspettare con fiducia che arrivi la stagione del com‐pimento, dei mandorli in fiore. La parola di Dio non è mai vuota, essa compie ciò che promette (cfr. Is 55,10‐11). Certo, al profeta non viene risparmiato l’inverno della Parola, il tempo in cui essa sembra vuota, smentita dai fatti. Si tratta di credere oltre l’evidenza: «La fede è essere convinti di cose che non si vedono» (Eb 11,1).


Il mandorlo in fiore è uno spettacolo affascinante, pieno di vita. Uno, perciò, si aspetterebbe che la parola di Dio fosse una parola di gioia, di salvezza. In realtà, si trattava di una parola di giudizio. La parola che Geremia aveva annunziato e che non si realizzava, tanto che egli veniva preso in giro dai suoi connazionali, era la distruzione di Gerusalemme. Una parola ambivalente. Per Geremia, il fatto che questa parola si realizzasse voleva dire che egli non diceva bugie, era il riconoscimento che la sua parola era parola di Dio. Però, allo stesso tempo, questa parola voleva dire la fine del suo popo‐lo e la distruzione delle cose più care. E dunque lo spettacolo affascinante del mandorlo in fiore è ingannevole: dietro a un’immagine di vita c’è un significato di morte. Forse questo stridente contrasto vuole alludere anche al benessere in cui si trovava Gerusalemme, ignara della sua sorte imminente.

b) La pentola sul fuoco (1,13‐16)

Come il ramo di mandorlo, così anche la pentola sul fuoco è uno spettacolo allettante: promette cibo saporito, fa venire l’acquolina in bocca. In realtà, il significato è terribile, perché la pentola sta per capovolgersi rovesciando il suo contenuto, il brodo bollente. L’interpretazione che viene data al v. 14 riprende le ultime parole della visione («La sua parte ante‐riore è inclinata da Nord») per collegarsi a ciò che Geremia tante volte aveva profetizzato, cioè una misteriosa sciagura che sarebbe venuta dal Nord, profezia che si compirà con l’invasione delle truppe babilonesi di Nabucodonosor (cfr. Ger 4,5‐8.11‐17.19‐21.23‐26.29‐31; 6,1‐5.22‐26; 8,14.17, 10,19‐22 e altri). Evidentemente perciò la visione, come la precedente, suppone che Geremia già abbia profetizzato, non si pone all’inizio della sua missione Come il ramo di mandorlo, così anche la pentola bollente vuole rassicurare Geremia che la Parola che egli ha pronunziato da parte di YHWH, cioè la distruzione della città santa, si compirà inesorabilmente: «Da Nord si aprirà la sciagura su tutti gli abitanti del paese». I vv. 15‐16 non appartengono propriamente alla visione, ma sono un commento ad essa, scritto probabilmente dai discepoli di Geremia, dopo la distruzione di Gerusalemme. Essi concretizzano la «sciagura» di cui parlava il profeta nelle truppe babilonesi che pongono l’assedio a Gerusalemme. Singolarmente questo assedio viene presentato non in termini militari, ma come un giudizio, un tribunale. I «troni» di cui si parla al v. 15 sono i seggi del giudizio. Le truppe babilonesi sono lo strumento del giudizio di Dio contro Gerusalemme. Isaia, in occasione della guerra siro‐efraimita, aveva rassicurato il popolo sull’assistenza divina con la profezia dell’Emmanuele, «Dio con noi» (Is 7,1‐17). Ciò aveva ingenerato nel popolo la falsa sicu‐rezza che Dio avrebbe sempre e in ogni caso difeso la sua città dagli attacchi dei nemici. In nume‐rosi altri testi dell’AT si parla di un attacco dei popoli alla città santa (cfr. Is 17,12‐14; 2Re 18–19; i Sall 46 e 48): sempre si dice che Dio avrebbe disperso i popoli pagani liberando la città santa, dimo‐ra del tempio del Signore. La falsa sicurezza in cui il popolo si cullava lo rendeva impermeabile agli appelli alla conversione rivolti da Geremia. Ora il profeta rovescia questa rappresentazione. I popoli pagani qui non sono oggetto del giudizio punitivo di Dio, ma essi stessi sono i giudici: sul banco de‐gli imputati siede Gerusalemme e tutto il regno di Giuda. Ciò che più conta è che non si tratta solo di un giudizio umano. Le truppe babilonesi sono solo strumento del giudizio divino: «lo pronunzierò i miei giudizi su di loro» (v. 16). Questo giudizio di condanna si concretizzerà nella distruzione della città peccatrice. Dio non può rendersi «complice» del peccato, anche se a peccare è il suo popolo. Essere popolo di Dio non è un privilegio, ma una maggiore responsabilità. È interessante notare che l’autore usa la stessa parola, in ebraico rā‘āh, per indicare da una parte la «sciagura» (v. 14) e dall’altra la «malvagità» (v. 16). Così è chiaro il legame profondo che c’è tra il male morale e quello fisico, tra il peccato e la disgrazia. La «sciagura» è l’altro volto della «malvagi‐


tà». Giustamente, Pietro Bovati osserva che la storia di Israele non è una successione di avveni‐menti felici o sfortunati: essa è la manifestazione della giustizia divina.7 Il peccato di Gerusalemme viene presentato come un peccato di infedeltà. Non si tratta di una tra‐sgressione qualsiasi, è il peccato contro il fondamento dell’alleanza, il primo dei comandamenti: «Non avrai altro dio di fronte a me» (Es 20,3). L’alleanza tra YHWH e Israele è come l’alleanza ma‐trimoniale: per comprendere l’amore di Dio bisogna guardare all’amore umano. Così hanno fatto sempre anche i profeti. Non per niente è detto che Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e somi‐glianza. Come il cuore di un uomo non può appartenere realmente che a una sola donna, e vice‐versa, così è del rapporto con Dio. Il Dio dell’Antico Testamento è un Dio «geloso» (Es 20,5; 34,14), che non tollera accanto a sé rivali. «Mi hanno abbandonato e hanno bruciato incenso ad altri dèi» (2Re 22,17). La descrizione del peccato di Israele ricalca la predicazione di Geremia. «Quale ingiustizia trovarono in me i vostri pa‐dri per allontanarsi da me e correre dietro al nulla, diventando loro stessi nullità?» (Ger 2,5). «Due sono le colpe che ha commesso il mio popolo: ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne, cisterne piene di crepe, che non trattengono l’acqua» (Ger 2,13). È il linguaggio di un amante tradito. Dio ha scelto Israele con amore unico, di predilezione, ne ha fatto il suo popolo. E Israele ha preferito altri amori, si è innamorato di altri dèi. Il peccato di Israele è il peccato di ognuno di noi. Noi siamo molto abili a fabbricarci idoli, a mettere le creature al posto del Creatore. «Si sono prostrati di fronte all’opera delle loro mani» (Ger 1,16). In realtà, quello che Israele ha adorato non è un dio, ma il prodotto delle mani dell’uomo. Il peccato originale di Israele è l’adora‐zione del vitello d’oro, un idolo costruito da Aronne per soddisfare i desideri del popolo (cfr. Es 32). Un dio fatto a loro somiglianza. Esso è la cifra di ogni peccato del popolo di Dio. Invece di adorare il Creatore, ci facciamo un dio a nostra immagine e somiglianza, a nostro piacimento, che soddisfi i desideri del nostro cuore (cfr. Sal 106,19‐20). Questo è il nostro peccato. Così uno non adora Dio, ma se stesso. Con ciò, Geremia (o, più verosimilmente, i suoi discepoli) intende spiegare teologicamente la di‐struzione della città santa. Non era stato un atto di debolezza di YHWH, quasi che il Dio di Israele fosse stato più debole degli dèi dei babilonesi. Al contrario, era stato un giudizio di Dio sul suo po‐polo infedele. La causa della sciagura di Israele era stato il suo peccato, l’infedeltà di Israele al suo Dio.

c) Geremia contro e per Gerusalemme (1,17‐19)

Dopo le due visioni, l’autore ritorna al racconto della vocazione, interrotto al v. 10. Il segno che i vv. 17‐19 si riferiscono alla vocazione del profeta è dato dall’avverbio «oggi» (v. 18), che riprende il v. 10. È l’«oggi» in cui Geremia è stato costituito profeta delle nazioni. Allo stesso tempo, dicevamo, i vv. 17‐19 continuano il discorso di YHWH iniziato al v. 14: dopo il giudizio dei popoli del settentrione (v. 15), dopo quello di Dio (v. 16), ora viene presentato il giudizio di Geremia contro la città infede‐le. «E tu cingiti i fianchi» (Ger 1,17). Gli ebrei maschi portavano una lunga tunica, come le donne. Essa era piuttosto comoda, non aderente al corpo. «Cingere i fianchi» è stringere la tunica al corpo per‐ché non sia di impedimento. Così, ad esempio, la Pasqua dev’essere mangiata «con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano» (Es 12,11), cioè pronti per il cammino. Potrebbe trattarsi di questo: si tratterebbe dell’invio di Geremia («Alzati e va’»). Ma il «cingere i fianchi» era anche il ge‐sto di chi si preparava al combattimento (cfr. Gb 40,7), e il contesto raccomanda questo significato (cfr. v. 19). Anche se, in Geremia come in Giobbe, il combattimento avviene attraverso la parola: «Alzati e di’ loro tutto ciò che io ti ordinerò». Qui l’autore riprende il v. 7 («Andrai a tutti coloro a cui io ti man‐derò e dirai tutto ciò che io ti ordinerò»). L’«attacco» di Geremia fa seguito a quello dei regni del

7 P. BOVATI, Perché il Signore li ha rigettati. Ger 1‐6 (Dispensa), PIB, Roma 1983, 57.


settentrione e a quello di Dio stesso. Sono tre facce di un unico avvenimento, la fine di Gerusa‐lemme. Al v. 15 si mette in campo l’esecutore materiale, al v. 16 il giudice e al v. 17 il suo ambascia‐tore. Geremia dovrà riferire al popolo il giudizio punitivo di Dio. Che si tratti di una lotta, viene messo in evidenza dalla frase seguente: «Non lasciarti prendere dal terrore di fronte a loro, affinché io non ti faccia terrorizzare di fronte a loro». Anche qui è evidente il richiamo al v. 8 («Non avere paura di fronte a loro»). Ma la seconda parte della frase è nuova, ed è paradossale. Sembra una tautologia. Che cosa vuol dire? Anzitutto, l’invito a non spaventarsi fa capire che da accusatore Geremia diviene accusato, da at‐taccante egli diviene attaccato. Il problema della paura è un problema reale nella vita di Geremia. Gesù metteva in guardia i suoi discepoli: «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,21). E, nel discorso della montagna, si poneva in compagnia dei profeti: «Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi» (Mt 5,12). La persecuzione dei cristiani, di cui purtroppo parla‐no anche le cronache dei nostri giorni, ricorda l’attualità di questa parola di Gesù. Da un punto di vista umano Geremia ha buone ragioni per avere paura. I suoi nemici non scherza‐no: vogliono farlo fuori, e ne hanno i mezzi. Che cosa può fare lui, timido ragazzino della campagna contro i sacerdoti e i re? Dio non usa ragionamenti umani. Non gli dice che lui sopravvaluta i suoi avversari o sottovaluta le sue capacità. Dai tetti in giù Geremia è inesorabilmente perdente. Ma Dio appunto gli proibisce di vedere le cose dai tetti in giù. Se Geremia non mette la sua fiducia in Dio, allora è sconfitto. In altri termini, è quanto dice Is 8,13: «YHWH degli eserciti, lui solo ritenete santo. Egli sia l’oggetto del vostro timore, della vostra paura». E Gesù: «Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo» (Mt 10,28). Dio vuole condurre il suo profe‐ta a fare il salto, dal piano umano a quello soprannaturale. Finché Geremia non farà questo salto, sarà vittima della paura. Se nel v. 17 si dice quello che Geremia dovrà fare per il suo Dio, ai vv. 18‐19 si dice quello che Dio fa per il suo profeta. Facendolo suo profeta («oggi»), Dio ha fatto di lui «una città fortificata, una co‐lonna di ferro e mura di bronzo». Questi tre termini fanno pensare al v. 15, dove si parlava di Geru‐salemme, delle sue mura e delle città di Giuda, destinate a crollare sotto l’assedio dei re del setten‐trione. La difesa di Gerusalemme era fondata su mezzi umani e si dimostrerà inefficace. Dio farà del profe‐ta una nuova Gerusalemme, una nuova comunità dopo il crollo della precedente, una città che nessuna forza umana potrà sopraffare. Il Signore predice al suo profeta che avrà contro di sé tutte le classi sociali: «Tutto il paese, i re di Giuda e i suoi capi, i sacerdoti e il popolo del paese». Gere‐mia non avrà certo vita facile, però Dio sarà per lui una difesa invincibile («città fortificata», «mura di bronzo»). L’espressione «colonna di ferro» è diversa. Con essa l’autore fa probabilmente riferimento alle due colonne di bronzo, che erano poste all’ingresso del tempio e che erano state portate via come bot‐tino da Nabucodonosor (cfr. Ger 27,19 e 52,21‐27). Uno dei punti fondamentali della predicazione di Geremia era stato la critica al tempio e alla falsa sicurezza che esso ispirava: «Non confidate nel‐le parole menzognere di coloro che dicono: Tempio di YHWH, tempio di YHWH, tempio di YHWH è questo» (Ger 7,4). Geremia predisse la distruzione del tempio additando, allo stesso tempo, nell’ obbedienza alla parola di Dio la vera sicurezza di Israele. Dopo la distruzione del tempio, così insi‐nua il nostro brano, il profeta costituirà un nuovo tempio per il popolo di Dio, un tempio fondato non tanto sui sacrifici, quanto piuttosto sull’ascolto della sua parola.8 La vicenda di Geremia antici‐pa quella di Gesù. Anche Gesù predisse la distruzione del tempio e la sostituzione del tempio ma‐teriale con quello spirituale del proprio corpo (cfr. Gv 2,19‐21). Così si verifica la parola del v. 10: «Per sradicare e demolire..., per costruire e per piantare». Gere‐mia è mandato non solo per annunziare la fine di Gerusalemme («sradicare e demolire»), ma an‐

8 Cfr. G. FISCHER, «Ich mache dich... zur eisernen Säule» (Jer 1,18). Der Prophet als besserer Ersatz für den unterge‐

gangenen Tempel, in ZThK 116 (1994) 447‐450.


che un nuovo inizio («costruire e piantare»). Dalle rovine della vecchia Gerusalemme, che ormai fondava la sua esistenza non sulla parola di Dio ma su cose umane (potenza, ingiustizia, falsa sicu‐rezza), sorgerà una nuova Gerusalemme, fondata sulla parola di Dio. Di questa nuova comunità il profeta Geremia sarà il fondamento. Ma prima il profeta dovrà passare per ogni sorta di persecuzioni: «Ti muoveranno guerra, ma non prevarranno su di te, perché io sono con te – oracolo di YHWH – per salvarti». Qui Dio riprende la promessa di assistenza già espressa al v. 8. Ribadendo che l’unica sicurezza di Geremia è Dio: «lo sono con te». Tutte le volte che Geremia cercherà la sua sicurezza in qualcosa d’altro, gli andrà ma‐le. Dio un po’ alla volta toglierà al suo profeta le cose in cui lui confidava: i suoi amici, i suoi familia‐ri, per mostrargli che Lui, e Lui solo, è la sua salvezza, e Lui basta.

d) Alcune osservazioni conclusive

Come è tipico della salvezza biblica, il salvatore stesso ha bisogno di essere salvato. È stato così per Mosè, il cui nome viene interpretato come «salvato dalle acque» (Es 2,10). Sarà così per Gesù, che non volle salvare se stesso, ma volle essere salvato dal Padre (cfr. Lc 23,35‐36.39). Ed è così per Ge‐remia: «Io sono con te per liberarti» (Ger 1,8); «Io sono con te per salvarti» (1,19). Perché sia chia‐ro che la salvezza non viene dall’uomo, ma soltanto da Dio. Da una parte, Geremia dovrà prendere le distanze dal suo popolo che si è allontanato da Dio. Per fedeltà al suo Signore, egli dovrà sostenere l’isolamento e l’inimicizia dei suoi connazionali. Sarà so‐lo contro tutti, un isolamento che peserà in modo terribile sul suo animo sensibile. Dall’altra, Dio renderà feconda la sua solitudine. Egli sarà padre di un nuovo popolo, che nascerà dalle rovine del precedente. La situazione disastrosa di Gerusalemme al tempo di Geremia fa pensare un po’ alla situazione at‐tuale della Chiesa. Non sono tempi facili per la Chiesa. Scandali all’interno, mancanza di vocazioni, masse che disertano le chiese. Persecuzioni all’esterno. Campagna denigratoria dei giornali. Il Papa sollecita a vedere in tutto questo un invito alla conversione, alla purificazione, un momento di gra‐zia. Geremia può orientare il nostro cammino di conversione, lontano dalle false sicurezze, fondan‐do realmente la nostra vita sulla parola di Dio.

A partire dal momento della vocazione, possiamo dividere la vita di Geremia in quattro grandi pe‐riodi. I primi tre coincidono con il regno di Giosia, Ioiakim e Sedecia. Il quarto corrisponde agli anni che seguono la caduta di Gerusalemme.

2.1. Durante il regno di Giosia (627‐609)

Come dicevamo sopra, abbiamo dati assai scarsi sulla vita e attività del profeta durante questi anni. Per questo non meraviglia che i commentatori facciano le ipotesi più diverse. Per alcuni, Geremia rimane in Anatòt dopo la vocazione. Altri pensano invece che egli sia andato subito a Gerusalem‐me, per compiervi la missione profetica. C’è chi ritiene che si sia diretto al Nord. Tenendo conto che si tratta di un lungo periodo (diciott’anni), è più probabile che tutto questo sia avvenuto, senza che un’ipotesi escluda l’altra. Nel ricostruire l’attività del profeta in quest’epoca, conviene ricordare come la sua vocazione abbia luogo durante la riforma religiosa e politica di Giosia, iniziata timidamente nell’anno 632 e culmina‐ta nel 622 con la scoperta del libro della Legge. Di conseguenza, possiamo distinguere una tappa in cui bisognava continuare a fomentare la riforma (627/622), seguita da un periodo di euforia (622 e seguenti) e forse da alcuni anni finali di raffreddamento. Si è molto discusso sull’atteggiamento di Geremia davanti alla riforma. Secondo commentatori il profeta si sarebbe opposto decisamente ad essa, in tutto ciò che aveva di superficiale e di inganne‐vole. Così si capirebbe la dura critica di 8,8: «Perché dite: “siamo saggi, abbiamo la legge del Signo‐re?” A menzogna l’ha ridotta la penna menzognera degli scribi». Si comprenderebbe anche perché,


alla scoperta del libro della Legge, Giosia non abbia comandato di consultare Geremia, ma la profe‐tessa Culda (2Re 22,13s). Ovviamente, sono di più quelli che pensano che il profeta abbia visto la riforma di buon occhio. Una serie di dati conferma questa seconda interpretazione. Geremia fu contemporaneo di cinque re e parlò bene solo di uno di essi, Giosia (cfr. 22,15s). La famiglia di Safàn, uno dei maggiori pro‐motori della riforma (cfr. 2Re 22,8‐14), mantenne relazioni assai buone con Geremia e lo liberò an‐che dalla morte (26,24; 29,3; 36,11‐19; 39,14; 40,5.6). Il profeta dovette vedere nella lotta contro l’idolatria e il sincretismo il compimento dei suoi desideri più profondi. Di conseguenza, sembra giusto affermare che Geremia non si sia opposto alla riforma; ed è anche assai probabile che vi ab‐bia collaborato, benché anni più tardi la considerasse insufficiente. È assai difficile decidere quali testi raccolgano la predicazione di questo periodo. Basandoci sul contenuto, potremmo datare nella prima tappa, di possibile collaborazione con la riforma, 11,1‐17; 17,19‐27; 12,1‐5. Questi oracoli, centrati sull’alleanza, sull’osservanza del sabato e sul problema delle ingiustizie, potrebbero riflettere una situazione antecedente alla riforma definitiva. Più suggestiva è la prospettiva aperta da 3,6‐13, unico testo datato al tempo di Giosia. Qui il profe‐ta riceve l’incarico di predicare alle tribù del Nord un messaggio di conversione e di perdono. E questo lo rapporta con altri passi, diretti originariamente all’antico regno di Israele (cc. 2–3 e 30–31). Pertanto, è assai probabile che si debba ammettere un’attività alquanto prolungata di Geremia in questa zona, alla quale si sentiva tanto vincolato. Per capire il messaggio di questi capitoli, dobbiamo ricordare la problematica religiosa e umana delle persone cui sono diretti. Dal punto di vista religioso, il regno del Nord fu sempre molto pro‐penso ai culti cananei, come dimostrano i riferimenti di Elia (1Re 18ss) e il libro di Osea. D’altra par‐te, dal 720 vi abitarono numerosi stranieri; il che provocò un diffondersi del sincretismo (cfr. 2Re 17,24‐41). Tutto questo implicava un abbandono di Dio, uno scambiare le fonti d’acqua viva con le cisterne incrinate (2,13). Dal punto di vista umano, la situazione era di profondo scoramento. Al ri‐cordo dei deportati facevano eco le città spopolate, un’economia assai precaria e la mancanza di coesione politica. Il problema religioso viene trattato da Geremia specialmente nei capitoli 2–3, dove parla del pecca‐to e della conversione. In 30–31 predomina l’aspetto umano e il messaggio della salvezza. La soffe‐renza del popolo si trasformerà in gioia, gli esiliati ritorneranno e ci sarà abbondanza di beni. È impossibile sapere se questa attività nel Nord abbia preceduto o seguito il culmine della riforma (622). Più probabile pare la seconda ipotesi, quale tentativo di estenderne al Nord l’afflato religio‐so. Ma a partire da allora, e fino all’anno 609, ci muoviamo sul terreno delle pure ipotesi. Molti au‐tori pensano che Geremia, contento del successo ottenuto da Giosia, abbia conservato il silenzio per un periodo di tempo abbastanza lungo. Bright, basandosi su 25,3 e 36,2, considera tale ipotesi assai poco probabile; e colma la lacuna parlando di alcuni anni finali di raffreddamento religioso, nei quali Geremia interviene per denunciare le ingiustizie, la bramosia di lucro, la mancanza di preoccupazione religiosa verniciata di semplice ritualismo, ecc. (cfr. 5,1‐9.26‐29; 6,13‐21; 7,21‐28; 8,4‐12).9 Benché si tratti di congettura, penso che Bright abbia ragione quando afferma che la cor‐ruzione sociale e religiosa denunciata da Geremia all’inizio del regno di Ioiakim (7,1‐15) non poté essere frutto dei pochi mesi che seguirono alla morte di Giosia, ma presuppone una tappa più lun‐ga di raffreddamento e di mancanza di preoccupazione per tali questioni. Per chiudere questo primo periodo, ricordiamo che l’anno 609, dopo che Giosia morì nella batta‐glia di Meghiddo, viene eletto re Ioacaz (Salùn). Necao lo deporterà in Egitto tre mesi dopo. Gere‐mia pronuncia a tal motivo alcune tragiche parole, che si conservano in 22,10‐12.

9 J. BRIGHT, Jeremiah (AncB 21), New York 1965.


2.2. Durante il regno di Ioiakim (609‐598)

Questi anni, anche se abbiamo a che fare con alcune lacune, ci risultano abbastanza noti. All’inizio del regno di Ioiakim (609), Geremia pronuncia il suo famoso discorso del tempio, in cui attacca la fiducia feticistica dei gerosolomitani per questo luogo sacro, che hanno trasformato in una spelon‐ca di ladri. Il discorso si è conservato in due versioni. La prima dà maggior importanza al contenuto (7,1‐15), la seconda alle circostanze (c. 26). Il profeta, con le sue parole, scatena la collera degli ascoltatori e a stento riesce a sfuggire alla morte.

IL DISCORSO NEL TEMPIO: GER 7,1‐15*

Il c. 7 è annoverato tra i testi cosiddetti «deuteronomistici», cioè quelli classificati nel «gruppo C» dalla maggior parte degli autori. Si tratta di testi che contengono un nucleo di «parole» o meglio di insegnamenti autentici, ma che in epoca esilica o postesilica hanno subìto un rifacimento e una formulazione in termini diversi da quelli usati dal profeta. L’occasione che spinse a questa riformu‐lazione del messaggio può essere indicata, generalmente, in una preoccupazione di carattere omi‐letico, che nel caso specifico del c. 7 è in piena consonanza con il contesto nel quale è collocato. Nel c. 7 abbiamo un messaggio piuttosto sviluppato, ma senza una cornice narrativa che lo inqua‐dra. Nel c. 26 troviamo invece una narrazione diffusa, mentre il messaggio è ridotto al nucleo cen‐trale, sufficiente però a farci dire che si tratta della stessa occasione del c. 7. Il c. 26 appartiene al gruppo di testi narrativi (B) alla cui origine si pensa ci sia l’opera di Baruc.

a) Occasione storica

La data dell’intervento di Geremia è dedotta da 26,1: «All’inizio del regno di Ioiakim», cioè nel 609‐60810. Dopo la morte di Giosia si ebbe una successione laboriosa e tragica. Suo figlio Ioacaz pagò l’errore del padre che si era opposto invano alla marcia del faraone Necao. Questi, di ritorno dalla battaglia di Carchemis, depose il nuovo re dopo appena tre mesi di regno e lo portò prigioniero in Egitto (cfr. Ger 22,10‐12 dove il re è chiamato Sallum). Al suo posto proclamò re il fratello Eliakim, cambian‐dogli il nome in Ioiakim e imponendogli un pesante tributo (cfr. 2Re 23,31‐35; 2Cron 36,1‐4). Se la situazione politico‐economica non era florida, anche quella religiosa doveva essere piuttosto precaria, almeno dal punto di vista dello yahwismo. Non è pensabile che ci sia stato un passaggio repentino da un ipotetico fervore religioso (attribuito alla riforma di Giosia) a quanto presupposto dalla denuncia di Geremia in 7,1‐15. Si deve supporre che, almeno negli ultimi anni della vita di Giosia, gli effetti positivi della sua riforma si siano notevolmente affievoliti. Si lasciava così nuova‐mente spazio all’idolatria, che poteva affiancarsi al culto yahwista in quel sincretismo che veniva rimproverato al regno del Nord. Delle idee che avevano guidato la riforma giosiana erano rimaste quelle più esterne, di facciata: la celebrazione della Pasqua a Gerusalemme, il culto a YHWH centralizzato, la fiducia feticistica nel tempio. Forse gli ambienti sacerdotali avevano interesse a sostenere queste convinzioni senza preoccuparsi di evidenziarne i motivi ispiratori, ma accontentandosi di ricavarne vantaggi concreti.

b) Contesto letterario

Dopo i primi sei cc. che riportano sostanzialmente gli interventi di Geremia in forma «autentica» (anche se accostati tra di loro da una attività redazionale), ci troviamo di fronte al primo dei testi indicati come «deuteronomistici» (7,1–8,3). Il tema che unifica questi brani sembra essere l’atten‐zione per il vero culto.

* G. BOGGIO, Il discorso nel tempio (Ger 7,1‐15), in MARCONCINI (a cura di), Profeti e apocalittici, 335‐345. 10 L’espressione ebraica berē’šît mamlekût non va intesa in senso generico (nei primi anni...), ma indica il primo anno

di regno.


Dopo il discorso nel tempio, che sembra concluso in 7,15, segue un rimprovero contro il culto pra‐ticato a livello familiare, riservato alla «Regina del cielo», cioè Astarte11. II castigo minacciato da Dio si abbatterà inesorabilmente sugli idolatri ed è quindi inutile che Geremia si presenti come in‐tercessore (7,16‐20; cfr. 11,14; 14,11). Il brano che segue (7,21‐28) si ricollega al culto del tempio e contiene un duro attacco contro i sa‐crifici che vi erano offerti, richiamandosi proprio alla tradizione dell’alleanza sinaitica, «riscoperta» dalla riforma di Giosia. L’alleanza è fatta consistere «nell’ascolto della voce del Signore», nel «camminare nella strada che lui prescrive» (7,23), – secondo l’impegno assunto dal popolo ai piedi del Sinai (Es 19,8) – e non tanto nell’offerta di vittime. Geremia si colloca in modo esplicito nella tradizione profetica che esortava da sempre a dare maggior valore alla vita che non al culto (cfr. Am 5,21‐25; Is 1,11‐17; ecc.). Ma purtroppo, come era avvenuto con tutti gli altri profeti, anche la sua voce e le sue esortazioni erano destinate a cadere nel vuoto (vv. 24‐28). La parte conclusiva del c. 7 aggiunge altri particolari al quadro derivante dall’abbandono di YHWH. Il profeta accusa gli abitanti della Giudea di aver profanato il tempio del Signore e di essersi lasciati condurre a offrire alla divinità (allo stesso YHWH?) sacrifici umani (vv. 30‐31). Questa usanza barbara, attribuita dai testi biblici alle popolazioni cananee e sempre condannata aspramente (Lev 18,21; 20,2‐5; Dt 12,31; 18,10) dalla legge, era stata praticata anche dal popolo ebraico (2Re 16,3; 21,6; 23,10) nonostante i rimproveri dei profeti (Ez 16,21), ai quali si uniscono quelli di Geremia (19,5; 32,35). Il luogo nel quale venivano praticati questi sacrifici era chiamato Tōfet12, cioè «forno» (cfr. Is 30,33), e a Gerusalemme sorgeva nella gê’ ben hinnōm, «valle del figlio di Hinnom» (divenuta poi la Geenna). Dio minaccia di trasformare tutta la valle in un Tōfet, cioè in un luogo dove si compie un massacro. Tutta la città sarà contaminata dai cadaveri che saranno tanto numerosi da non poter venire sepolti e saranno così esposti alla profanazione più temuta: diventare pasto di uccelli e animali selvatici (vv. 32‐34). La minaccia continua in 8,1‐3 con la profanazione delle tombe e il ricordo del culto astrale praticato da tutte le categorie di persone, qui elencate in cinque gruppi: re, capi, sacerdoti, profeti, abitanti di Gerusalemme. I pochi sopravvissuti a questa strage immane riterranno preferibile la stessa mor‐te a una vita in quelle condizioni. Da 8,4 alla fine del c. 9 abbiamo una serie di interventi, generalmente in forma poetica, che svilup‐pano temi diversi senza un ordine apparente. Anche il c. 10 viene inglobato, redazionalmente, ai precedenti, in quanto troviamo all’inizio del c. 11 la stessa introduzione del c. 7, segnalando il passaggio a una nuova unità letteraria.

c) Struttura e genere letterario

La struttura è piuttosto lineare e sviluppa il discorso in modo armonico coerente: a) Introduzione – Esposizione generale del tema (7,1‐4); b) Descrizione del comportamento e accusa (7,5‐11); c) L’esempio di Silo (7,12); d) Minaccia di castigo (7,13‐15).

Nel c. 26 lo schema è semplificato: a) (26,1‐3) Corrisponde all’introduzione di 7,1‐3; b) (26,4‐5) Riassume le accuse di 7,5‐11; c) (26,6) Nell’esempio di Silo è racchiusa anche la minaccia di castigo di 7,13‐15.

Il nostro testo presenta la forma letteraria di un discorso o, se si vuole, di un’omelia. Non si tratta, però, di semplice prosa. Infatti è possibile rilevare un certo ritmo, una ripetizione di elementi (v. 4:

11 Cfr. M. DAHOOD, «La regina del cielo» in Geremia, in RivBib 8 (1960) 166‐168. 12 Probabile deformazione spregiativa sul tipo di mōlek, ottenuta applicando a nomi diversi le vocali della parola

ebraica bōšet che significa «vergogna».


«tempio del Signore...»; vv. 5‐6: «se... se...» che introducono infiniti assoluti seguiti da verbi al mo‐do finito), un certo parallelismo dei membri (v. 12: «la mia dimora... dove avevo posto il mio no‐me»; v. 13: «quando vi ho parlato... quando vi ho chiamato...»). Si può pensare che l’intervento originario di Geremia sia stato sovraccaricato di elementi esplicativi (come ad es. potrebbero essere i vv. 5‐7) desunti da altri testi (cfr. Dt 10,18; 27,19; Es 20,5.13‐16).

d) Testo e commento 1Questa parola fu rivolta dal Signore a Geremia: 2«Férmati alla porta del tempio del Signore e là pronun‐cia questo discorso: Ascoltate la parola del Signore, voi tutti di Giuda che varcate queste porte per pro‐strarvi al Signore. 3Così dice il Signore degli eserciti, Dio d’Israele: Rendete buone la vostra condotta e le vostre azioni, e io vi farò abitare in questo luogo. 4Non confidate in parole menzognere ripetendo: “Que‐sto è il tempio del Signore, il tempio del Signore, il tempio del Signore!”. 5Se davvero renderete buone la vostra condotta e le vostre azioni, se praticherete la giustizia gli uni verso gli altri, 6se non opprimerete lo straniero, l’orfano e la vedova, se non spargerete sangue innocente in questo luogo e se non seguirete per vostra disgrazia dèi stranieri, 7io vi farò abitare in questo luogo, nella terra che diedi ai vostri padri da sempre e per sempre. 8Ma voi confidate in parole false, che non giovano: 9rubare, uccidere, commettere adulterio, giurare il falso, bruciare incenso a Baal, seguire altri dèi che non conoscevate. 10Poi venite e vi presentate davanti a me in questo tempio, sul quale è invocato il mio nome, e dite: “Siamo salvi!”, e poi continuate a compie‐re tutti questi abomini. 11Forse per voi è un covo di ladri questo tempio sul quale è invocato il mio nome? Anch’io però vedo tutto questo! Oracolo del Signore. 12Andate, dunque, nella mia dimora di Silo, dove avevo da principio posto il mio nome; considerate che cosa io ne ho fatto a causa della malvagità d’Israele, mio popolo. 13Ora, poiché avete compiuto tutte queste azioni – oracolo del Signore – e, quando vi ho parlato con premura e insistenza, non mi avete ascoltato e quando vi ho chiamato non mi avete ri‐sposto, 14io tratterò questo tempio sul quale è invocato il mio nome e in cui confidate, e questo luogo che ho concesso a voi e ai vostri padri, come ho trattato Silo. 15Vi scaccerò dalla mia presenza, come ho scacciato tutti i vostri fratelli, tutta la discendenza di Èfraim.

v. 1: Questo inizio si ritrova, identico o con lievi differenze, anche in altri testi che presentano le stesse caratteristiche letterarie (11,1; 18,1; 21,1; 25,1; 34,8; 35,1). Si parla di Geremia in terza per‐sona e si introduce un discorso che procede poi con espressioni che richiamano da vicino il Deute‐ronomio. v. 2: In 26,2 si parla di «atrio» del tempio, ma non si specifica di quale atrio o porta si tratta. In 26,10 si parla di una «porta nuova», ma viene collegata al luogo dove si svolge il giudizio sommario contro il profeta. Si parla ancora di questa porta in 36,10 dove si dice che Baruc lesse il libro fattogli scrivere da Geremia «nel cortile superiore presso l’ingresso della porta nuova del tempio del Signo‐re». Doveva quindi trattarsi di un luogo particolarmente frequentato. L’occasione scelta per parlare alla folla in 36,6.9 è un giorno di digiuno. Possiamo immaginare che, anche nella circostanza in cui si colloca il discorso del c. 7, Geremia abbia scelto una manifestazio‐ne religiosa che portava al tempio una folla numerosa. Un giorno dedicato a una liturgia peniten‐ziale poteva essere anche un’occasione propizia per trovare gli animi meglio disposti ad accogliere la parola del Signore. «Voi tutti di Giuda»: il profeta si rivolge solo agli abitanti di questa regione, a differenza di quanto avveniva nei cc. precedenti, dove i destinatari erano indicati come «Israele». v. 3: «Così dice...»: è la formula di presentazione usata dai messaggeri, dagli ambasciatori, dai pro‐feti che si richiamano all’autorità loro conferita da chi li invia (cfr. Es 5,10; Nm 20,14; 22,16; Gdc 11,15). La formula è particolarmente frequente nel linguaggio profetico con riferimento a YHWH che affida un messaggio da comunicare fedelmente (Es 4,22; 5,1; 1Sam 10,18; 2Sam 7,8; Is 10,24; 22,15; Ger 7,21; 9,14; 19,3; ecc.). «Migliorate la vostra condotta»: sembra ispirarsi alla cosiddetta «liturgia delle porte». Secondo questo rituale, all’ingresso del tempio i pellegrini venivano interrogati ed esaminati dai sacerdoti


per verificare se erano degni di entrare nella casa di Dio (cfr. Sal 15; 24,3‐6)13. Geremia si sostitui‐sce ai sacerdoti e propone quasi un nuovo formulario che viene presentato nei vv. seguenti. «Vi permetterò di abitare»: così secondo il TM14. v. 4: «Parole che ingannano, ripetendo»: è preferibile riferire queste «parole di menzogna» diret‐tamente alla frase che segue. La traduzione della Cei attutisce la forza provocatoria della frase, at‐tribuendo «parole menzognere» generiche a quelli che dicono «tempio del Signore». La ripetizione della frase sottolinea la fiducia, definita dal profeta «ingannevole», che il popolo di Gerusalemme riponeva nel tempio. Tale fiducia nasceva dalla convinzione che la presenza di YHWH nel «palazzo» che gli era stato costruito avrebbe garantito l’incolumità della città e dei suoi abitan‐ti. Questo atteggiamento poteva sembrare un atto di fede profonda nella potenza di Dio, che non si sarebbe mai lasciato vincere dai suoi nemici e quindi avrebbe protetto quelli che stavano con lui. Era questo un risultato della riforma religiosa intrapresa da Giosia con ben altri intenti. Geremia non ironizza sulla sicurezza in Dio ma, come dimostra il seguito del discorso, sull’abuso al quale questa fiducia malintesa può portare. v. 5: «Solo se...»: rendiamo in questo modo un’espressione caratteristica ebraica, che usa un infini‐to assoluto in unione con una forma finita dello stesso verbo per esprimere il rafforzamento dell’idea indicata dal verbo. In questo modo il profeta esprime la sua convinzione che non è sufficiente una religiosità fatta di atteggiamenti esteriori o anche di atti di culto. Dio esige dall’uomo una vita conforme alla sua vo‐lontà, espressa in alcuni precetti fondamentali che hanno come oggetto principale, in questo testo, il rapporto con gli altri uomini. Infatti la proibizione di adorare gli idoli viene ricordata all’ultimo po‐sto tanto al v. 6 che al v. 9. v. 6: «Lo straniero, l’orfano e la vedova»: sono le categorie di persone più esposte ai soprusi perché prive di difesa. La legge si prendeva cura di loro esigendo rispetto dei diritti e cura attenta nei loro confronti (Es 22,21‐22; Dt 10,18; 14,29; 27,19). Il trinomio ritorna con le stesse parole nel discorso che Geremia rivolge ai re di Giuda (22,3). Anche l’espressione «spargere sangue innocente» si ritrova in 22,3 nel contesto del discorso pro‐nunciato nel palazzo reale, dove il re emanava le sentenze, anche capitali, ed esisteva quindi la possibilità di condannare persone innocenti. Invece in 7,6 sembra difficilmente spiegabile la preci‐sazione «in questo luogo» che si riferisce al tempio. «Vi porteranno disgrazia»: seguire gli idoli, cioè prestare loro culto, è non soltanto qualcosa di inu‐tile (cfr. 2,5.28; 10,2‐5) ma addirittura dannoso. Non si ottiene l’aiuto sperato e si va incontro a un insuccesso disastroso (cfr. 2,13.19). v. 7: «Vi permetterò di abitare»: la forma verbale causativa (piel) del TM nel nostro contesto assu‐me valore permissivo. Per «luogo» qui non si deve intendere il tempio, ma la terra che Dio aveva assegnato da molto tempo ai patriarchi (cfr. v. 14). Al c. 26 nel riassunto del discorso di Geremia si fa solo riferimento al tempio e alla città (vv. 6.9.[11].12) senza nominare affatto la «terra». Ciò fa supporre che al c. 7 questo riferimento sia se‐condario, introdotto in epoca esilica, anche se ben inserito, come abbiamo visto, nell’attuale conte‐sto letterario. v. 8: L’inserimento secondario dei vv. 5‐7 è abbastanza evidente se si prova a unire il v. 8 diretta‐mente al v. 4. Abbiamo continuità tra le parole che esprimono la fiducia nel tempio, definite come «ingannatrici». Qui si precisa ulteriormente: sono parole che non procurano nessun vantaggio a chi le segue.

13 Cfr. G. RAVASI, Il libro dei Salmi, 3 voll., EDB, Bologna 1981‐1984, vol. 1, 59‐60; 272 (con bibliografia scelta). 14 Alcuni autori preferiscono però leggere il verbo alla forma qal (seguendo Aquila, la Volgata e 8 mss. ebraici che

invece del piel del TM leggono la forma qal anche al v. 7) e interpretano, come la Volgata, «abiterò con voi», lettura che ripetono al v. 7. Con questa lettura, il «luogo» di cui si parla indica il tempio, mentre, secondo il TM, si riferirebbe alla «terra», senso più coerente con il v. 7.


v. 9: Il TM con una domanda retorica introduce sei infiniti assoluti che rendono le accuse incalzanti e vivaci. Il riferimento è ad alcuni precetti contenuti nelle «dieci parole» (cfr. Es 20,3‐5a.13‐16)15. v. 10: Con tre perfetti inversi (continuate a venire... vi fermate... ripetete...), che dipendono dagli infiniti del v. precedente, il profeta denuncia il sincretismo: si brucia incenso a Baal e si rende culto agli dèi stranieri, ma si va anche al tempio di YHWH, «sul quale è stato invocato il [suo] nome». Questa espressione significa che il tempio è stato consacrato a YHWH e gli appartiene, è la sua casa (cfr. Ger 15,16: il profeta appartiene al Signore; 14,9: il popolo chiede protezione al Signore perché gli appartiene, è cosa sua). «Presentarvi davanti»: l’espressione ebraica suona: «stare in piedi davanti», sia nel senso letterale della frase sia nel senso pregnante di «servire qualcuno» (Dt 1,38; 1Re 1,2; 10,8; 18,1). In riferi‐mento a Dio significa stare alla sua presenza per adorarlo o per supplicarlo (1Re 17,1; 18,5; 2Re 3,14; Ger 15,1.19; 18,20). «Siamo salvi!»: la frase dimostra, di per sé, una grande fiducia in Dio. Nel suo tempio, sotto la sua protezione, non può accadere niente di male. Ma il profeta vede in questa sicurezza solo un atteg‐giamento ambiguo, perché si considera il tempio come un rifugio momentaneo: è come concedersi una tregua per poter riprendere fiato e quindi continuare a commettere il male. v. 11: «L’avete scambiato (in ebraico ‘è diventato agli occhi vostri’) per un covo di banditi»: il profe‐ta raggiunge qui il punto più drammatico della sua accusa. Il popolo di Gerusalemme va al tempio a offrire sacrifici a YHWH per ingraziarselo e garantirsi così la sua protezione. In realtà si comporta come una banda di malviventi che corre dal capo banda a portargli parte del bottino, frutto dei so‐prusi e delle violenze elencate nei vv. precedenti, in cambio della protezione. È come voler coinvol‐gere Dio stesso nelle proprie azioni disoneste, tenendoselo buono con i sacrifici che gli si offrono. Dio è ridotto al ruolo di complice di azioni che vanno contro la sua stessa legge, addirittura do‐vrebbe proteggere chi lo tradisce con il proprio comportamento malvagio. Dio reagisce a questo comportamento equivoco: «Attenti! Me ne sono accorto!» (il gam del TM è rafforzato da hinnēh): si è reso conto perfettamente di come stanno le cose e non si lascia inganna‐re da atteggiamenti di falsa religiosità. Pare di sentire un’eco del Sal 94,6‐11: «Uccidono la vedova e il forestiero, danno la morte agli orfani. Dicono: Il Signore non vede, il Dio di Giacobbe non se ne cura» (cfr. Ger 11,15). Lo sdegno del profeta di fronte a tale bestemmia è confermato dall’espressione conclusiva: è YHWH stesso che ha comunicato la sua parola solenne. v. 12: «Silo»: località situata a circa 37 km a nord di Gerusalemme, tra Betel e Sichem. Il libro di Gio‐suè colloca in questa località la spartizione delle terre tra le ultime sette tribù (Gs 18,1.8‐10), moti‐vando la scelta con il fatto che vi era stata eretta «la tenda del convegno». In seguito Silo diventa uno dei santuari più importanti (Gs 21,2; 22,9.12; Gdc 21,19) soprattutto al tempo di Samuele (1Sam 1,3)16. A Silo sembra legata l’origine del titolo, diventato poi frequente, «Signore degli eserciti» (1,3) che in 4,4 si completa con la frase «che siede sui cherubini». Dopo la sconfitta narrata in 1Sam 4,3‐18 non si parla più di Silo. L’unico cenno all’abbandono di quel santuario da parte di Dio è nel Sal 78,60.67‐69, dove si contrappone la scelta di Sion al rigetto di Silo. Anche se non narrata nei testi in nostro possesso oggi, la distruzione di Silo doveva essere ben nota al tempo di Geremia. Il profeta poteva quindi invitare i suoi ascoltatori ad andare a verificare con i propri occhi quanto era avvenuto a quel luogo di culto tanto importante e caro alla tradizione religiosa di Israele. La scomparsa del santuario di Silo dimostra che Dio può abbandonare anche i luoghi che si crede gli siano più cari, non è legato alle realtà materiali di cui può fare a meno (cfr. Sal 50,7‐15). Se l’uomo ha bisogno anche di un luogo nel quale manifestare la propria fedeltà a Dio, non è così per il Signore. Egli può distruggere il luogo che gli uomini hanno costruito come sua dimora e che lui

15 Cfr. A. PENNA, Il Decalogo nell’interpretazione profetica, in Fondamenti biblici della Teologia Morale (Atti della XXII

Settimana biblica), Brescia 1973, 83‐116. 16 Qui è usata l’espressione «casa del Signore» per indicare il santuario (1,7), da intendersi già come edificio vero e

proprio e non più come una semplice tenda (cfr. 1,9; 3,2.3.15; ma cfr. Sal 78,67: la tenda di Giuseppe; 78,60).


stesso ha accettato («ho fatto abitare il mio nome», cioè «ho scelto di abitare in esso» poiché il «nome» indica la persona stessa), senza venire intaccato nella sua realtà e senza che venga meno la sua potenza. Ciò che è avvenuto a Silo, «a causa della malvagità di Israele», può accadere anche a Gerusalemme, se i suoi abitanti continueranno ad essere infedeli a Dio con la loro vita. v. 13: Sono esposti i motivi che devono giustificare la sentenza che sarà pronunciata al v. 14: a) il popolo ha commesso azioni malvagie; b) Dio ha sempre esortato a cambiare condotta, ma il popo‐lo non ha accolto i suoi inviti17. v. 14: Il profeta pronuncia la condanna a nome di Dio. Il tempio di Gerusalemme seguirà la stessa sorte di quello di Silo, nonostante che appartenga effettivamente a Dio e che il popolo riponga in esso tanta fiducia. «Il luogo» indica qui non solo il tempio, ma anche la terra. v. 15: «Vi caccerò dalla mia presenza»: il verbo šālak, qui nella forma hifîl, significa «allontanare» sia in senso locale che in senso morale. Nel nostro testo, se si intende in senso locale, avremmo la minaccia dell’esilio; se lo si prende in senso morale, significa che Dio ripudia Giuda come ha fatto con i discendenti di Israele. In questa seconda interpretazione, che sembra più consona al contesto proprio per il riferimento a Israele, l’esilio è presentato come una conseguenza del rigetto del po‐polo da parte di Dio (cfr. 2Re 17,20.23: «finché non li scacciò dalla sua presenza... allontanò Israele dalla sua presenza... fece deportare Israele dal suo paese in Assiria»). Nel c. 26 sono narrate le conseguenze dell’intervento di Geremia. Alla reazione violenta ed emoti‐va degli ambienti religiosi e del popolo (26,7‐9) si contrappone il giudizio più ragionato dei capi e degli anziani (vv. 10.16‐19.24) che salvano il profeta da un sicuro linciaggio. L’esempio di Michea, portato a sostegno del giudizio di assoluzione nei confronti di Geremia, è bilanciato dall’altro esempio del profeta sfortunato di nome Uria. Questi diceva le stesse cose di Geremia, ma venne fatto uccidere dal re, nonostante che avesse cercato asilo politico in Egitto (vv. 20‐23).

e) Messaggio teologico

Il discorso nel tempio è una delle riflessioni più profonde di tutto il libro e prepara il tema della «nuova alleanza» (31,31‐34). Il rapporto con Dio viene presentato nella sua dimensione di interiorità e di concretezza. Ma l’inte‐riorità non è vista in senso intimistico, privato, avulso dalla vita. Al contrario, si tratta di collocare la fede in Dio alla radice del comportamento umano, in quella che noi chiameremmo «la coscienza»: non abbandonata al soggettivismo, ma confrontata con la volontà di Dio che si è manifestata in qualche modo. Di qui nasce la scelta concreta di vita conforme a quanto Dio si attende dall’uomo. Nel libro di Geremia si insiste spesso sul legame tra conoscenza, volontà e azione (anche se questo «trinomio» può sembrare troppo filosofico o addirittura «scolastico»). Ad esempio, troviamo già questo movimento ideale fra i tre termini. Il profeta è sconvolto di fronte al comportamento dei suoi contemporanei (5,1‐2). È convinto che la cattiva volontà che impedisce loro di convertirsi (5,3) è dovuta alla non conoscenza della volontà di Dio, in quanto sono «di bassa condizione» (5,4). Per‐ciò si rivolge «ai grandi», cioè alle guide del popolo, ma anch’essi si comportano allo stesso modo (5,5). Il profeta accusa il popolo di essere «privo di senno» (5,21), di avere un «cuore indocile e ri‐belle» (5,23), di non voler ascoltare gli inviti che Dio gli rivolge (6,16‐17) e di rifiutare la sua legge (6,19). Perciò la punizione che colpirà i ribelli sarà «il frutto dei loro pensieri» (6,19). Queste accuse sono ripetute con variazioni di tono e con accenti accorati anche in altri passi (cfr. 9,2‐5.12‐13). Un altro insegnamento fondamentale riguarda il rapporto tra Dio e il tempio. L’insistenza posta dal‐la riforma di Giosia sulla centralità e quindi sulla sacralità del tempio, abitazione unica del Dio uni‐co, aveva portato alle conseguenze denunciate dal profeta. Da luogo dove si onorava Dio, il tempio

17 L’espressione ebraica wā’ădabbēr haškēm wedabbēr è caratteristica del libro di Geremia (cfr. JOÜON, Grammaire

de l’hébreu biblique, 123r, nota 2) e sottolinea la premura, la sollecitudine e la continuita con cui Dio ha cercato di av‐vicinare a sé il suo popolo.


era diventato il luogo dove si sfruttava Dio, contando su di un suo presunto bisogno di avere una propria casa e di ricevere doni da parte dell’uomo. La fede in Dio, tanto potente che avrebbe certamente difeso la sua proprietà e quindi tutti quelli che vi si trovavano, era troppo legata a una concezione della divinità comune ai popoli antichi. Se‐condo questa convinzione, ogni dio era padrone nel proprio territorio, ma poteva anche venirne cacciato da un altro dio che si dimostrasse più forte di lui attraverso il proprio esercito vittorioso. Questa idea era estremamente pericolosa. Poteva segnare la fine della fede in YHWH. Quale fiducia si poteva avere in un Dio che non fosse stato capace di difendere la propria casa (cfr. Ger 8,19)? Po‐teva aiutare gli altri, se non era in grado di difendere se stesso (cfr. Mt 27,39‐43)? Geremia capovolge i punti di riferimento comuni ai suoi contemporanei. Dio non ha bisogno delle case costruite per lui dagli uomini. Come già ha distrutto la casa che gli era stata costruita a Silo, così potrà fare anche con quella di Gerusalemme. Se ciò avverrà, non sarà segno di debolezza da parte di Dio, sarà anzi una manifestazione della sua potenza. Questa convinzione è ripresa nel resto del libro, là dove si afferma che è Dio stesso ad affidare a Nabucodonosor il governo di tutti i popoli e che quindi sarà inutile tentare di resistergli (Ger 27,5‐8). La sconfitta del popolo non è sconfitta di Dio ma la realizzazione di un suo piano (5,15‐17.19; 15,6; 18,5‐12) e quindi, in ultima analisi, una sua vittoria. L’interpretazione degli eventi proposta da Geremia permetterà agli esuli di superare lo scandalo della distruzione del tempio e della perdita della terra, che per sé avrebbero potuto distruggere la fede nella capacità di Dio di mantenere le promesse e di salvare il suo popolo. L’aver slegato la presenza di Dio dal tempio ha portato con sé anche un’altra conseguenza di grande importanza: si può incontrare il Signore ovunque, anche in Babilonia. Nella lettera agli esuli (c. 29) il profeta esorta, tra l’altro, a «pregare il Signore» per il paese considerato nemico (v. 7). Il Dio di Israele è dunque capace di intervenire anche fuori della propria terra, sia per salvare il proprio po‐polo (29,10‐14) sia per punire chi gli si ribella (29,20‐21). Non occorre un tempio per potersi rivol‐gere a lui. Questo convincimento darà forza agli esuli, manterrà la loro unione con il Signore e ani‐merà la spiritualità giudaica della diaspora di ogni tempo.

f) Riletture nel NT

I Vangeli sinottici riportano una frase di Gesù che riferisce alla lettera Ger 7,11 combinato con Is 56,7 (cfr. Mt 21,13; Mc 11,17; Lc 19,45). Gesù caccia i venditori dal tempio citando il testo di Gere‐mia, ma attribuendogli un significato diverso: il rimprovero riguarda lo sfruttamento del tempio a proprio vantaggio materiale, anche se ciò avviene attraverso un commercio che di per sé era lecito. Potremmo dire che i Vangeli richiedono che non si confonda il proprio interesse con quello di Dio, gli affari con la religione. In Geremia invece si denuncia, come abbiamo visto, l’asservimento di una religiosità solo esterna a comportamenti contrari al volere divino, quasi rendendo Dio complice del male. La convinzione, espressa in Ger 7, che Dio può fare a meno del tempio materiale, dopo essere pas‐sata attraverso la rilettura del tempo dell’esilio è giunta fino al NT. Nel dialogo con la donna samari‐tana (Gv 4,20‐24) Gesù esprime la stessa idea di fondo, anche se la supera con il riferimento alla nuova realtà rappresentata dalla sua persona, vero tempio di Dio (cfr. Gv 2,19‐22).

In seguito a questo discorso cominciano per Geremia le tribolazioni. È possibile che abbia avuto luogo allora il complotto dei suoi compaesani di Anatòt (11,18ss). È forse nei primi anni del suo regno che Ioiakim decide di costruirsi un nuovo palazzo; con ingiusti‐zie, per mancanza di denaro. Geremia denuncia il fatto duramente (22,13‐19). Possiamo anche da‐tare a quest’epoca i riferimenti a un castigo procedente dal Nord, senza specificare di quale popolo si tratti: sono la visione della caldaia bollente (1,13‐14) e i capitoli 4–6, in cui si descrive e giustifica l’invasione.


Arrivando al 605, poggiamo i piedi su un terreno più solido. È allora che Nabucodònosor, contro ogni previsione, sconfigge gli Egiziani a Càrchemis (cfr. 46,2‐12) e realizza una campagna vittoriosa contro la Siria. Geremia identifica ora i nemici del Nord con i Babilonesi (20,4‐6; 25,11). L’azione simbolica della brocca di terracotta (19,1‐2a.10‐11) e il discorso che segue (19,14‐15; più ampio in 25,1‐11) gli sono occasione di un nuovo pericolo: il commissario del tempio lo fa frustare e incarce‐rare (20,1‐6). Sebbene la minaccia sia molto seria, il re Ioiakim non è disposto a sottomettersi ai Babilonesi. La sua resistenza è favorita dal fatto che Nabucodònosor abbandona la campagna contro la Siria e ri‐torna a Babilonia nel 604. Geremia, che aveva annunciato l’invasione, passa per falso profeta da‐vanti a larga parte del popolo. Ma il suo messaggio non cambia: il Signore consegnerà la città nelle mani dei nemici, se non si cambierà condotta. Per esortare alla conversione, questo stesso anno 605 egli detta al suo segretario Baruc le antiche profezie e le ultime parole ricevute dal Signore, perché le legga nel tempio. Questo stesso anno, o forse nel 604, durante il mese di dicembre, Ba‐ruc legge il volume davanti al popolo e, più tardi, in presenza delle autorità. Le quali lo fanno arri‐vare al re. Ma Ioiakim, man mano che lo ascolta, va rompendo lo scritto e lo getta nel fuoco. Poi ordina di arrestare il profeta e il suo segretario, che però riescono a fuggire e a restare nascosti (si veda il c. 36). Questo cambiamento di circostanze, tanto profondo rispetto all’epoca precedente, e le numerose persecuzioni influirono su Geremia. È assai probabile che appartengano a questi anni le «confes‐sioni», testi nei quali egli si sfoga davanti a Dio con una sincerità e ribellione simili a quelle di Giob‐be (15,10‐11.15‐21; 17,14‐18; 18,18‐23; 20,7‐11.13.14‐18). Al regno di Ioiakim si possono assegnare con certezza anche altri testi: le parole a Baruc durante la redazione del volume (c. 45) e la visita ai Recabiti (c. 35). È possibile che anche molti altri passi ap‐partengano a quest’epoca. Per esempio, la visita al vasaio (18,1‐17), l’azione simbolica della cintura (13,1‐11), gli attacchi contro i falsi profeti (23,9‐32), l’intervento durante un anno di siccità (14,1–15,9), gli oracoli contro i paesi stranieri (25,15‐38; 46–49), ecc. Ma per questi casi non abbiamo la stessa certezza e, soprattutto, è difficile fissare la data con precisione. Data la diversità di opinioni tra i commentatori, sembra preferibile rinunciare a una ricostruzione particolareggiata. È probabile che Geremia sia intervenuto nell’anno 603, quando Nabucodònosor fece pagare il tributo a Giuda, e nel 600, quando Ioiakim si ribellò contro Babilonia. Più importante, tuttavia, è riassumere la predicazione del profeta di questi anni. Dio è scontento di Giuda e di Gerusalemme. Si tratta di un popolo peccatore (9,1‐10). Se si guarda a fondo, nessuno rimane fedele al Signore (cc. 5 e 6). Per questo Geremia invita incessantemente alla conversione (7,3; 25,3‐6; 36,7). Altrimenti avrà luogo un castigo terribile: ci sarà un’invasione nemica (c. 4) e il tempio e la città ne resteranno distrutti (7,1‐15). Gerusalemme sarà come un vaso che si frantuma (c. 19). In questi anni, Geremia denuncia con forza particolare la dimenticanza di Dio, che si manifesta nel rigetto dei profeti (5,12‐13; 6,16‐17) e della sua parola (6,10); nel falso culto (6,20; 7,21‐28) e nella falsa sicurezza religiosa (7,1‐15); nell’idolatria, concretizzata nel culto alla Regina del Cielo (7,16‐20), a Baal e a Moloc (7,29‐34; 19,3‐5); nelle ingiustizie sociali (5,26‐28; 12,1‐5), delle quali è spe‐cialmente responsabile il re (22,13‐19); nelle false sicurezze umane, il potere e il denaro (17,5‐13). Per il profeta, i principali colpevoli di questa situazione sono le persone importanti (5,5), il re (21,11‐12; 22,13‐19), i falsi profeti (14,13‐16; 23,9‐32) e i sacerdoti (6,13; 23,11; cfr. 2,8). Geremia lo aveva ripetuto con insistenza. Questa, per Dio, è una situazione intollerabile che attrae inevitabilmente il suo castigo. Ed è quanto avviene nel 597, quando Nabucodònosor deporta un gruppo considerevole di Giudei, e tra essi Iekonìa, succeduto per breve tempo a Ioiakim. In questo momento si collocano le parole del profeta contenute in 22,24‐30; e forse anche 13,15‐19.


2.3. Durante il regno di Sedecia (597‐586)

I primi anni di questo re sono relativamente tranquilli, dal punto di vista politico. Ciononostante, vi si dibatte un grave problema religioso, quello degli esiliati. La deportazione del 597 ha causato un profondo impatto nel popolo. È evidente che Dio non difende il suo popolo in maniera incondizio‐nata. Ma questa verità, tanto dura per un giudeo, si cerca di ammorbidirla con una scappatoia: gli esiliati non costituiscono il vero popolo di Dio; anzi, sono i responsabili della situazione presente, gli increduli ed empi, quelli che il Signore ha rigettato. Al contrario, quelli che restano a Gerusa‐lemme e in Giudea sono i buoni, quelli in cui Dio si compiace. Geremia si contrappone a questa in‐terpretazione, tanto semplicista quanto ingiusta, nella visione dei due cesti di fichi (c. 24; cfr. 29,16‐20). Allo stesso tempo egli indirizza una lettera agli esiliati (c. 29), per avvertirli, contro i falsi profeti, che l’esilio sarà lungo. Essi non devono alimentare false speranze, ma condurre la vita più normale possibile, accettando il proprio destino.18 Ciò provoca l’opposizione di Semaià, che lo denuncia al sommo sacerdote; anche se, a quanto pare, questo fatto non porta ulteriori conseguenze a Gere‐mia (29,24‐32). Ai primi anni di Sedecia non possiamo assegnare con certezza altri testi. Bisogna arrivare al 593, quando i re di Edom, Moab, Amon, Tiro e Sidone inviano messaggeri a Gerusalemme per fomenta‐re una ribellione contro Babilonia (27,3). Geremia vi si oppone. Egli è convinto che è il Signore ad aver consegnato tutti questi territori a Nabucodònosor e considera inutile e suicida ribellarsi ai piani divini (c. 27). È di nuovo un profeta, di nome Anania, a opporsi a Geremia, in uno dei confron‐ti più drammatici di tutta la storia del profetismo (c. 28). Geremia, apparentemente sconfitto in un primo momento, viene confermato da Dio nel suo messaggio sul giogo di Babilonia. Non sappiamo se per motivi religiosi o se per prudenza politica, Sedecia rigetta l’idea di ribellarsi. Il suo viaggio a Babilonia dovette finire, in questo momento, con un atto di sottomissione e fedeltà a Nabucodònosor. Approfittando del viaggio, Geremia incarica Seraià di eseguire in suo nome un’azione simbolica (51,59‐64). Cinque anni dopo (588), forse premuto dal partito favorevole agli Egiziani, Sedecia nega il tributo a Babilonia, provocando l’assedio immediato di Gerusalemme da parte di Nabucodònosor. Gli avve‐nimenti che vanno dal 5 gennaio 587 al 19 luglio 586 ci sono noti. A grandi linee si svolgono nel modo seguente. All’inizio dell’assedio Geremia annuncia al re che Gerusalemme cadrà nelle mani dei Caldei (34,1‐7). Poco dopo, gli Egiziani corrono in aiuto di Giuda con un piccolo esercito e Nabucodònosor deve interrompere l’assedio (37,5). Fiduciosi in questo aiuto, le persone importanti di Gerusalemme re‐vocano la decisione di manomettere gli schiavi e Geremia interviene contro di esse (34,8‐20). Allo stesso tempo annuncia a Sedecia che il re di Babilonia tornerà vittorioso (37,3‐10). Approfittando di questi momenti di tranquillità, Geremia cerca di andare ad Anatòt per spartire un’eredità, ma lo accusano di diserzione e lo mettono in carcere (37,11‐16). Di lì a poco tornano i Babilonesi, dopo aver sconfitto gli Egiziani. Sedecia parla in segreto con Ge‐remia. Ma il profeta gli ripete il messaggio di sempre, approfittando dell’occasione per chiedergli maggior libertà. Passa così dal carcere all’atrio della guardia (37,11‐21; 38,24‐28a). Da lì invita alla resa e alla fuga. I principi decidono allora di ucciderlo e lo mettono in una cisterna. Ma Ebed‐Mèlech ottiene di liberarlo (38,1‐13; in 39,15‐18 troviamo un oracolo in favore di questo personag‐gio). In questi momenti tanto difficili, quando tutto pare destinato al fallimento assoluto, Geremia fa una delle esperienze più importanti della sua vita. Il suo cugino Canamèl si presenta nell’atrio della prigione chiedendogli di comprare il campo di Anatòt. È la cosa più assurda, per un uomo che per anni ha annunciato la catastrofe e l’esilio, ed è la peggiore inversione di marcia in un momento di

18 Cf. G. DE CARLO, La salvezza dentro la sventura: Ger 29, in Parola Spirito e Vita 59 (2009) 59‐76 [= G. DE CARLO, Il

bagliore delle luci antiche. Una lettura sapienziale della Bibbia ebraica (Biblica), EDB, Bologna 2015, 125‐140].


crisi. E tuttavia Geremia vedrà in ciò un messaggio di Dio pieno di speranza: «si compreranno cam‐pi in questa terra... perché io cambierò la loro sorte» (si veda il c. 32; il c. 33, che l’editore del libro colloca in questo stesso momento storico, è dovuto in parte preponderante ai discepoli del profe‐ta). Giungiamo così al momento finale dell’assedio. Sedecia parla in segreto con Geremia vicino alla terza porta del tempio. Il profeta insiste che solo la resa lo potrà salvare (38,14‐23). Ma il re non ci fa caso. D’altra parte, è ormai troppo tardi. Per gli avvenimenti del giorno della caduta di Gerusa‐lemme si veda 39,1‐10. Riassumendo il messaggio di Geremia di questi anni, possiamo dire che esso si polarizza su due fuochi: gli esiliati e quelli che restano a Gerusalemme. Geremia non cade nel semplicismo. Non li classifica in buoni e cattivi, per il semplice fatto della diversa collocazione geografica. Entrambi i gruppi, invece, devono accettare una realtà assai dura: Dio ha consegnato il potere a un re pagano e straniero. Per gli esiliati ciò significa rinunciare alla speranza di un pronto ritorno. E per gli abitan‐ti di Giuda e di Gerusalemme significa la rinuncia all’indipendenza politica. Per questo l’alternativa della seconda epoca (conversione o castigo) si concretizza ora in sottomissione a Babilonia o casti‐go. Questo è il modo di accettare la volontà di Dio (cfr. 27,5‐11). Questa predicazione tanto dura ha valso a Geremia, da parte di alcuni commentatori recenti, la fama di venduto all’oro di Babilonia. Anche molti suoi contemporanei la pensarono così (37,13). Ma tale interpretazione è assurda, come dimostra la decisione posteriore del profeta di restare tra i suoi concittadini, rifiutando l’offerta di vivere a Babilonia (40,2‐6). Altri autori difendono il profeta, alludendo alla sua chiaroveggenza politica. Non c’è dubbio che Geremia fu più sensato dei politici del suo tempo. Ma non era l’avvedutezza a guidare la sua condotta, bensì la volontà di Dio e la sot‐tomissione ai suoi piani.

2.4. Dopo la caduta di Gerusalemme (586‐?)

Il 19 luglio del 586, dopo aver aperto una breccia nelle mura, i capi Babilonesi entrano in città e di‐vidono il popolo in tre gruppi: quelli che resteranno liberi, quelli che verranno deportati e quelli che dovranno essere giudicati personalmente da Nabucodònosor. Sanno che Geremia è stato par‐tigiano della resa e si mostrano benevoli verso di lui, lasciandolo in libertà (38,28b–39,14, testo pieno di aggiunte; l’originale sembra limitarsi a 38,28b; 39,3.14). Tuttavia, nella confusione di quei giorni, sembra che il profeta sia stato fatto prigioniero e condotto a Rama con i deportati. È allora che arriva Nabusardan, con l’ordine di incendiare il tempio, il palaz‐zo e le case e di radere al suolo le mura (52,12‐14). Reca pure l’ordine di liberare Geremia (39,11‐12). Dopo aver compiuto la sua missione principale, il 17 agosto del 586 egli cerca il profeta e lo in‐contra a Rama (40,1‐6). Gli offre tre possibilità: andare a Babilonia, marciare con Godolia, risiedere dove preferisce. Geremia sceglie la seconda. Si limita a vivere con il nuovo governatore, Godolia, insieme ai contadini che si sono rifugiati nei territori vicini e ai soldati che hanno disertato. La vita ricomincia di nuovo, e quest’anno si fa un abbondante raccolto. Ma nell’ottobre del 586 Ismaele uccide Godolia. La comunità, temendo la rappresaglia di Nabucodònosor, fugge provvisoriamente a Belèn. Geremia consiglia di restare in Giuda. Ma non lo si ascolta e lo si obbliga a seguirli in Egitto. Il gruppo si stabilisce nella città di Tafnis, dove il profeta annuncia l’invasione dell’Egitto e accusa il popolo di ricaduta nell’idolatria. Tutti questi avvenimenti sono narrati in 40,7–44,30. Solo una volta manca l’ordine cronologico: 43,1‐3 è da leggersi dopo 42,1‐18. A partire da allora, il profeta, la cui vita conosciamo tanto dettagliatamente, scompare dalla storia. Si può solo dire di lui, con una canzone riferita ad Antonio Machado: «Morì il poeta lontano dal fo‐colare, lo copre la polvere di un paese vicino». Questo silenzio non deve meravigliarci. La Bibbia ci insegna continuamente che l’importante non è l’uomo, neppure i più grandi, ma Dio e la sua paro‐la. Ora questa parola, trasmessa dal profeta, ha continuato a germinare in Egitto, in Giuda e a Babi‐lonia, crescendo e sviluppandosi fino a costituire il libro di Geremia.


Nel corso delle pagine precedenti abbiamo esposto sinteticamente il messaggio di Geremia nelle diverse epoche. È chiaro che la sua predicazione è troppo ricca per poterla riassumere in poche ri‐ghe. Egli ha vissuto situazioni molto diverse, è entrato in contatto con persone assai differenti, ha attraversato momenti di entusiasmo e momenti di abbattimento. Può insegnarci molto sulla voca‐zione, sulle sue crisi, sullo sconcerto davanti ai falsi profeti, sull’idolatria, il falso culto a Dio, le in‐giustizie. Tuttavia, a voler riassumere in una sola parola il suo messaggio, dovremmo parlare di conversione. Geremia, seguendo Osea, concepisce le relazioni tra Dio e il popolo in chiave matrimoniale. Il po‐polo, come una moglie infedele, ha abbandonato Dio. Per questo deve convertirsi, tornare. Ha im‐boccato una strada cattiva, mentre deve seguire quella che porta al Signore. Se è certo che Gere‐mia non usa più l’immagine negli ultimi anni, il suo contenuto continua tuttavia a restare vivo nel messaggio. La conversione, per Geremia, abbraccia aspetti assai diversi: cultuali, sociali, di cambiamento di mentalità e di atteggiamento. Ma non dobbiamo dimenticare il punto più duro, che gli procurò le maggiori persecuzioni: quello politico. Accettare il giogo di Nabucodònosor fu per il profeta il se‐gno più evidente del ritorno al Signore e del riconoscimento della sua volontà. Come per tutti i profeti preesilici, la chiamata alla conversione si trova congiunta, anche in Gere‐mia, con l’annuncio del castigo nel caso che il popolo non cambi. Ma, arrivato il momento cruciale, quando la catastrofe è ormai imminente, Geremia apre il varco alla speranza. Dio non ha rotto col suo popolo. Egli «ne cambierà le sorti». Trasformerà Giuda interiormente ed esteriormente. Ve‐diamo in tal modo come il suo messaggio porti a termine, per tappe assai diverse, quella missione che gli era stata affidata di «sradicare e demolire, edificare e piantare» (1,10). Geremia, che ha an‐nunciato e vissuto la tragedia più grande della storia del suo popolo, non è solo un profeta di mi‐nacce e castighi. È anche il profeta della consolazione e della speranza.

LA «NUOVA ALLEANZA» (GER 31,31‐34)*

Il breve oracolo di Ger 31,31‐34 è certamente uno dei più noti dell’AT, ed è quello che viene spon‐taneamente alla mente ogni volta che si parla di «nuova alleanza», non solo perché questa precisa espressione, unica nella Bibbia ebraica, introduce il nostro oracolo, ma anche per la chiara opposi‐zione alla prima alleanza che qui è esplicitata.19

* P. BOVATI, «Così parla il Signore». Studi sul profetismo biblico (Biblica), Bologna 2008, 185‐210. 19 Quest’oracolo non godeva i favori di B. Duhm, che lo ritiene un prodotto convenzionale (in nulla innovativo ri‐

spetto a Dt 30,11ss e 6,6‐8), redatto con «uno stile brutto, pesante, impreciso», con formule care al compilatore, ma prive di originalità [B. DUHM, Das Buch Jeremia, (KHC 11), Tübingen‐Leipzig 1901, 255; cf. anche 256]; pure R. Carroll smorza gli entusiastici apprezzamenti dei commentatori che vi vedono un condensato del vangelo, criticando «this Christian appreciation of a minor and prosaic hope for the future» [R. CARROLL, Jeremiah. A Commentary (OTL), London 1986, 612]. La maggior parte degli esegeti lo considera invece un testo particolarmente rilevante per la teologia vete‐rotestamentaria; per questa ragione è stato oggetto di molti contributi, fra cui segnaliamo quelli di: M. WEINFELD, «Je‐remiah and the Spiritual Metamorphosis of Israel», in ZAW 88 (1976) 17‐56; H. WEIPPERT, «Das Wort vom neuen Bund in Jer XXXI 31‐34», in VT 29 (1979) 336‐351; A. SCHENKER, «Unwiderrufliche Umkehr und neuer Bund. Vergleich zwischen der Wiederherstellung Israels in Dt 4,25‐31; 30,1‐14 und dem neuen Bund in Jer 31,31‐34», in FZPhTh 27 (1980) 93‐106; J. MEJIA, «La problématique de l’Ancienne et de la Nouvelle Alliance dans Jérémie XXXI 31‐34 et quelques autres textes», in Congress Volume. Vienna 1980 (VT.S 32), Leiden 1981, 263‐277; C. FOCANT – A. WENIN, «L’Alliance ancienne et nouvelle», in NRTh 110 (1988) 850‐866; G. COUTURIER, «Alliance nouvelle et homme nouveau en Jérémie 31,31‐34», in Loi et autonomie dans la Bible et la tradition chrétienne, a cura di O. MAINVILLE – J. DUHAIME – P. LETOURNEAU, (CTHP 53), Montréal 1994, 79‐116; W. GROSS, «Erneuerter oder Neuer Bund? Wortlaut und Aussageinten‐tion in Jer 31,31‐34», in Bund und Tora. Zur theologischen Begriffsgeschichte in alttestamentlicher, frühjüdischer und urchristlicher Tradition, a cura di E AVEMARIE – H. LICHTENBERGER, (WUNT 92), Tübingen 1996, 41‐66; J. VERMEYLEN, «L’alliance renouvelée (Jr 31,31‐34). L’histoire littéraire d’un texte célèbre», in Lectures et relectures de la Bible, Fs. P.‐M. BOGAERT, (BEThL 144), Leuven 1909, 57‐83; B.P. ROBINSON, «Jeremiah’s New Covenant: Jer 31,31‐34», in SJOT 15


Il nostro testo viene citato due volte nella Lettera agli Ebrei, in 8,8‐12 (per intero) e in 10,16‐17 (parzialmente), allo scopo di comprovare – su base profetica la prospettiva tipica di questo scritto, che è quella di contrapporre la novità cristologica al sistema religioso dell’antico Israele. Il fatto che la nostra pericope venga «citata» conferma l’opinione degli esegeti moderni che ritengono, in mo‐do unanime, che Ger 31,31‐34 costituisca un’unità letteraria sui generis, isolata e separata dal con‐testo immediato in cui è stata inserita.20 Per interpretare adeguatamente l’oracolo di Ger 31,31‐34, la nostra esegesi dovrebbe comunque essere completata dalla lettura interpretativa dell’insieme dei cc. 30‐31, che costituiscono il conte‐sto pertinente della nostra pericope. Questo per evitare di trarre delle conclusioni teologiche che risultino parziali e persino errate quando siano dedotte da un solo breve brano profetico. Manca in particolare, al testo che andiamo a commentare, un esplicito accenno alla libera partecipazione dell’uomo al processo salvifico, che è invece tematizzata in molti altri passi (come in Ger 31,17‐19): la partecipazione libera e amorosa dell’uomo è infatti indispensabile per comprendere il concetto di alleanza, in ogni sua forma. L’«alleanza» (berît) annunciata da Geremia (v. 31) è detta «nuova» (ḥadāšāh), aggettivo che rinvia a Ger 31,22, dove il profeta parla del rinnovarsi della creazione.21 Mentre in 31,22 il «rinnovamento» non sembra opposto a ciò che Dio aveva operato «in principio», in 31,31‐34 il nuovo si contrappo‐ne drasticamente all’economia antica (l’alleanza dei padri).22

I. L’ALLEANZA CON I PADRI (GER 31,31‐32)

Ecco, vengono giorni, oracolo del Signore, in cui stipulerò con la casa d’Israele e con la casa di Giuda un’alleanza nuova: non come l’alleanza che stipulai con i loro padri, nel giorno in cui li presi per mono per farli uscire dal paese d’Egitto: la mia alleanza essi l’hanno rotta, e io allora esercitai il mio dominio su di loro (Ger 31,31‐32).

Il tipo di «novità» prospettato23 è spiegato dal profeta proprio mediante la contrapposizione con l’al‐leanza stipulata con i padri; possiamo ritenere che venga qui usato un meccanismo definitorio simile a quello di Dt 28,69 dove si fa una distinzione tra l’alleanza del monte Horeb e quella della pianura di Moab. Anche se, per plausibili motivi teologici o ideologici, si vuole sostenere che l’alleanza del Sinai non è stata abolita, ma solo modificata o meglio portata a pieno compimento, resta che il passo di Geremia presenta un vistoso contrasto oppositivo tra la prima e la seconda alleanza.24

(2001) 181‐204; A. SCHENKER. Das Neue am neuen Bund und das Alte am alten. Jer 31 in der hebräischen und griechi‐schen Bibel von der Textgeschichte Theologie, Synagoge und Kirche (FRLANT 212). Göttingen 2006.

20 Da diversi studiosi tale unità letteraria è messa al centro di un insieme, così da conferirle ulteriore prestigio: cf. P.J. SCALISE, Jeremiah 26‐52, (WBC 27). Dallas 1995. 126; la nostra analisi retorica non conferma tuttavia questa pro‐spettiva.

21 La radice ḥādaš – per indicare l’evento escatologico – è usata da Geremia solo in questi due oracoli; ricorre inve‐ce piuttosto frequentemente nel Deutero, Trito‐Isaia (Is 41,15: 42,9.10; 43,19; 48,6; 62,2; 65,17; 66,22) e anche in Eze‐chiele (Ez 11,19; 18,31; 36,26). Pertinenti sono anche le occorrenze di Sal 51,12; 103,5; 104,30; e Lam 3,23.

22 Non concordiamo quindi con coloro che, come DUHM (Das Buch Jeremia, 255‐256), ritengono che Ger 31,33‐34 prospetti un semplice rinnovamento del patto tra YHWH e Israele.

23 Naturalmente è oggetto di grande discussione quale sia il carattere di novità annunciato da Geremia (e dai profe‐ti in genere): cf. in particolare J. SWETNAM, «Why was Jeremiah’s New Covenant New?», in Studies on Prophecy, (VT.S 26), Leiden 1974, 111‐115; H.W. WOLFF, «Was ist das Neue im neuen Bund? Zum jüdisch‐christlichen Dialog nach Jer 31,31‐34», in Prophetische Alternativen. Entdeckungen des Neuen im Alten Testament, München 1982, 55‐69; N. LOH‐FINK, Der niemals gekündigte Bund. Exegegische Gedanken zum christlich‐jüdischen Dialog, Freiburg 1989; B. MARCON‐

CINI, «La novità nell’“alleanza” secondo Geremia 31,31‐34», in Vivens Homo 4 (1993) 207‐224. 24 I cristiani tendono, forse inconsciamente, ad accentuare il contrasto tra le due alleanze, proprio sulla base del te‐

sto di Ger 31,31‐32, che però è piuttosto un’eccezione nel panorama dell’AT; cf. ad es. Lv 26,45 che parla della novità


Nella sua storia, Israele ha conosciuto molte riforme religiose, contrassegnate dal rinnovamento dell’alleanza: la prima di tutte, inscritta negli stessi racconti fondatori, fu quella conseguente al peccato del vitello d’oro (Es 34).25 Ma, dal primo all’ultimo, tutti questi «rinnovamenti» lasciarono l’alleanza esposta alle sue proprie fragilità, e non fecero altro che ribadire che la storia di Israele costituisce un susseguirsi di tradimenti, di castighi e di infruttuosi (perché menzogneri) tentativi di cambiamento.26 La «nuova alleanza», così come l’annunciano Geremia e similmente anche gli altri profeti, non è una riforma religiosa, ma una trasformazione radicale della relazione tra il Signore e il suo popolo: essa è nuova ed eterna, un’alleanza diversa dalla prima per qualità e quindi durata.27 Per far apparire i caratteri specifici della nuova alleanza, Geremia descrive dunque quella antica, stipulata con i «padri»; con quest’ultimo termine non si intendono i patriarchi (Abramo, Isacco e Giacobbe), ma piuttosto il popolo degli israeliti della prima generazione, quelli che furono testimo‐ni dell’uscita dall’Egitto (cf. Ger 11,7.10). È chiaro comunque che tale patto era destinato a durare nel tempo: stipulato con i «padri», valeva per i figli e per i figli dei figli che si riconoscevano in quel‐la origine carnale consacrata dal rapporto con il Signore (cf. Es 20,6). Per evocare quest’alleanza, Geremia adotta lo schema letterario del rîb, particolarmente usato dai profeti proprio per narrare sinteticamente le vicende storiche dell’alleanza.28 Il rîb si sviluppa spes‐so in tre momenti, che si susseguono secondo una certa logica consequenziale: 1) Il tempo iniziale o tempo delle origini, è quello nel quale YHWH agisce da solo e in modo potente, rendendo Israele capace di entrare in relazione di obbedienza e amore con il suo Signore. È il mo‐mento della «stipulazione» dell’alleanza.29 Il tempo della storia è il periodo del passato in cui Israele rivela la sua natura ribelle; il peccato di idolatria (trasgressione della legge basilare del patto sinaitico) esprime la «rottura» dell’alleanza. Il tempo presente, quello minacciato dai profeti pre‐esilici (e supposto dai profeti post‐esilici), non è altro che l’epoca della maledizione, spesso presentata come la «fine» dell’alleanza stessa. Vediamo come Ger 31,32 riprende sinteticamente questi tre momenti.

a) Il momento fondatore (Ger 31,32a)

Va notato, in primo luogo, che nel nostro testo l’alleanza ha il suo momento inaugurale non nell’esperienza sinaitica (Dt 5,2‐5),30 né in qualche altro evento occorso nel deserto (cf. Dt 32,10‐14; Ger 2,2‐3; Os 9,10), ma «nel giorno» della liberazione dalla schiavitù del paese d’Egitto.31 Tale

post‐esilica come ricordo dell’alleanza con i padri e come riattualizzazione dell’uscita dall’Egitto (vedi, per contrasto, Ger 16,14‐15 e 23,7‐8).

25 Tale episodio evoca anticipatamente il peccato di Geroboamo che ha introdotto nel regno del Nord il culto idola‐trico del vitello d’oro (1Re 12,26‐33), protrattosi fino all’esilio di Samaria (2Re 17,22‐23).

26 L’ultimo tentativo di ritorno al Signore senza adeguata sincerità coinciderebbe con la riforma religiosa di Giosia, evocata da Ger 3,10: «La perfida Giuda [...] non è ritornata a me con tutto il cuore, ma soltanto con menzogna».

27 Dissentiamo dunque dal parere di D. Garrone, che scrive: «La novità non è l’apparire di una realtà totalmente inedita, ma il ripristino di una relazione spezzata» (D. GARRONE, «L’alleanza rinnovata [Lettura di Geremia 31,31‐34]», in Leggere la Bibbia oggi. Dal testo alla vita, a cura di E. BORGHI, Milano 2001, 46). Nella nostra linea si sono invece espressi diversi autori, fra cui: G. FISCHER, Das Trostbüchlein. Text, Komposition und Theologie von Jer 30‐31, (SBB 26), Stuttgart 1993, 262; C. MAIER, Jeremia als Lehrer der Tora. Soziale Gebote des Deuteronomiums in Fortschreibungen des Jeremiasbuches, (FRLANT 196), Göttingen 2002, 339.

28 L’alleanza non è solo un fatto giuridico, ma piuttosto una struttura relazionale, sancita dal diritto, che crea una storia, nella quale tale relazione si dispiega e si invera.

29 L’espressione kārat berît è una delle locuzioni tecniche per definire la stipulazione di un patto (cf. Gen 15,18; 21,27.32; Es 24,8; ecc.); in Geremia si trova in testi di influenza deuteronomistica: Ger 11,10; 31,31.32.33; 32,40; 34,8.13.15.18.

30 W. RUDOLPH [Jeremia, (HAT 12), Tübingen 31968, 201] e MEJÍA («La problématique», 270) fanno notare che nel te‐sto di Ger 31,32 è comunque evocata l’alleanza sinaitica che ha il suo essenziale fondamento nell’Esodo dall’Egitto. Concordiamo con quest’affermazione; ma intendiamo sottolineare che nella presentazione fatta dal profeta si esplicita la sola azione originaria di Dio piuttosto che evocare l’accordo fra i due partner dell’alleanza (cf. Es 19,8; 24,3.7).

31 La liberazione dalla schiavitù è implicitamente suggerita dall’uso del verbo «uscire» (yāzā’, Hi.), come è confer‐mato dal prologo del Decalogo (Es 20,2; Dt 5,6) e in molti altri testi paralleli, dove si parla della «casa degli schiavi».


evento non è menzionato esplicitamente in nessun altro brano dei cc. 30‐31. Un’affermazione ana‐loga, con terminologia pressoché identica a quella di Ger 31,32, si trova invece in altri passi di mar‐ca deuteronomistica, come Dt 29,24; 1Re 8,9.21; Ger 11,3‐4; e soprattutto Ger 3432 dove, nel con‐testo dell’evocazione della legge della liberazione settennale dello schiavo ebreo, leggiamo:

Io ho stipulato un’alleanza con i vostri padri nel giorno in cui li feci uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù (Ger 34,13).

Secondo il racconto biblico, «nel giorno» dell’uscita dall’Egitto non avvenne nessuna stipulazione. Eppure fu quello il momento «fondatore» del patto, come afferma anche il Decalogo, documento originario dell’alleanza sinaitica, nella sua formula introduttiva:

Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù (Es 20,2; Dt 5,6).

Caratteristico di Ger 31,32 è il descrivere l’azione divina della liberazione mediante l’espressione: «nel giorno in cui [li] presi per la loro mano per farli uscire dal paese d’Egitto».33 Il sintagma «pren‐dere per mano»,34 con complemento oggetto personale, può avere un senso concreto, come in Gdc 16,26, dove si parla di un servo che prende per la mano Sansone, il quale, accecato, ha biso‐gno di essere accompagnato (cf. anche Gen 19,16). In altri passi, però, la medesima espressione ha un significato traslato, e significa «dare una mano a qualcuno», «prestare mano a qualcuno», e quindi «sostenere», «guidare», «aiutare» (cf. Is 41,13; 51,18; Sal 73,23; Gb 8,20). In certi contesti, infine, il medesimo sintagma – come altri sintagmi simili – assume il valore tecnico (quale atto giu‐ridico) di riconoscimento o elezione, che in campo politico sembra equivalere al gesto di investitura di un vassallo da parte del grande sovrano (Is 42,6; 45,1). Secondo qualche commentatore, per Ger 31,32 si tratterebbe di una formula che avrebbe la sua collocazione nel linguaggio dell’intronizzazione o della conferma di un sovrano nella sua regalità. Alcuni testi mediorientali antichi appoggerebbero questa linea interpretativa.35 Si può immaginare, concretamente, che l’atto del prendere per la mano il re vassallo costituisse, nella cerimonia inau‐gurale, il gesto simbolico che consacrava un legame di dipendenza nei confronti del grande re. Si può ritenere dunque che la frase «li ho presi per mano per farli uscire dall’Egitto» esprima l’elezione di Israele a «servo» del Signore; l’alleanza tra loro suppone – anche se questo è suggerito solo indirettamente dal testo – che il vassallo rimanga fedele agli obblighi del suo stato, in primo luogo quello del riconoscere YHWH come Signore. Questo «vassallaggio» (definito dai termini nor‐mativi del patto) è paragonato perciò a un «giogo» (cf. Sal 2,3; Sof 3,9; Lam 3,27; Sir 6,24‐25.29; 51,26) che Israele riceve su di sé proprio nel momento della sua liberazione dalla schiavitù d’Egitto. Si intuisce come ciò possa apparire insoddisfacente, e come il soggiogato aspiri a una totale eman‐cipazione:36

32 Cf. anche Ger 7,22; 11,7; Ez 20,5 («Quando io scelsi Israele e alzai la mano e giurai per la stirpe della casa di Gia‐

cobbe, apparvi loro nel paese d’Egitto e giurai per loro dicendo: “Io, il Signore, sono vostro Dio”»); Os 11,3; 13,4; Ag 2,5 (qui troviamo una formula equivalente a quelle riportate nel testo, ma il termine «alleanza» è sostituito da «paro‐la»).

33 Si tratta di una formulazione unica in tutta la Bibbia: cf. W.L. HOLLADAY, Jeremiah 2. A Commentary on the Book of the Prophet Jeremiah. Chapters 26‐52, (Hermeneia), Philadelphia 1989, 197.

34 L’espressione ḥāzaq beyād (Hi.) potrebbe anche alludere alla formula «con mano forte» (beyād ḥazāqāh), appar‐tenente alle tradizioni dell’Esodo (cf. Es 3,19; 6,1; 13,9; 32,11; Dt 4,34; 5,15; ecc.); la connotazione di «forza» sarebbe comune alle due locuzioni.

35 Al proposito viene solitamente citato il Cilindro di Ciro: cf. P.R. BERGER, «Der Kyros‐Zylinder mit dem Zusatzfrag‐ment BIN II Nr. 32 und die akkadischen Personennamen im Danielbuch», in ZA 64 (1975) 192‐234, spec. 197. Il gesto della divinità di prendere per mano colui che è chiamato alla regalità si ritrova anche nei rituali di intronizzazione egi‐ziani: cf. O. KEEL, The Symbolism of the Biblical World. Ancient Near Eastern Iconography and the Book of the Psalms, New York 1978, 256‐268.

36 È indubbio che l’alleanza, come qualsiasi vincolo di tipo istituzionale, rivela il suo carattere normativo, e si pre‐senta dunque come esigenza, obbligo, imposizione. Sarebbe tuttavia errato vedervi esclusivamente quest’aspetto, sen‐za considerare i doni che in tale relazione si attuano, e senza rilevare gli obblighi che anche il rispettivo partner ha libe‐


Sì, da tempo hai spezzato il tuo giogo, hai spezzato i tuoi legami, e hai detto: «Non servirò». Infatti sopra ogni colle elevato e sotto ogni albero verde ti sei prostituita (Ger 2,20; cf. anche 5,5).

Se invece – com’è legittimo – si attribuisce al gesto del «prendere per la mano» il significato con‐creto di sostenere, guidare, sorreggere, il momento fondatore dell’alleanza è contrassegnato, in Dio, dalla paterna sollecitudine, e, nell’uomo, dalla strutturale debolezza. Nelle diverse tradizioni si utilizzano vari tipi di metafora: Osea dice che Israele era un bambino, che necessitava di essere guidato (Os 11,1.3), ed Ezechiele evoca la scena di un neonato abbandonato in piena campagna (Ez 16,4‐5); il Deuteronomio ricorda che il Signore «ha portato» Israele durante il cammino nel deserto «come un uomo porta il proprio figlio» (Dt 1,31), mentre altrove si ricorre alla metafora del «tra‐sportare con ali di aquila» (Es 19,4; Dt 32,11). Dio ha fatto tutto, Israele è stato un semplice benefi‐ciario, come lo sono il bambino o il bisognoso. Questa condizione «iniziale» porta in sé un’ambi‐guità grave: per Israele, infatti, il diventare «grande», cioè autonomo e autosufficiente, coinciderà immaginariamente con il rifiuto della dipendenza dal Signore, arrivando persino a farsi artefice – mediante l’idolatria – del proprio dio.

b) Il patto infranto (Ger 31,32b)

In una frase lapidaria, anche se sintatticamente contorta, viene riassunta tutta la storia di Israele: «Ma essi hanno spezzato la mia alleanza». In poche e semplici parole, viene espresso tutto il dramma del tradimento, come fa Isaia all’inizio del suo libro:

Ho allevato e innalzato dei figli, ma essi si sono ribellati contro di me (Is 1,2).37

Il sintagma «rompere l’alleanza» è frequentemente attestato (20 occorrenze, a cui va aggiunta quella di Ger 33,21).38 Nel libro di Geremia, oltre al nostro versetto, appare in altri tre passi: 11,10 (la rottura dell’alleanza è identificata con l’idolatria); 14,21 (si chiede a Dio di non rompere la sua alleanza) e 33,20‐21 (impossibilità di infrangere l’alleanza cosmica). Come risulta chiaramente da 1Re 15,19 (parallelo a 2Cr 16,3) la rottura del patto è una decisione che può essere unilaterale,39 attuata cioè da uno solo dei due partner. Nella Scrittura, tale formula viene utilizzata prevalente‐mente in riferimento all’alleanza tra il Signore e il suo popolo, e specificamente serve per definire l’atto formale, da parte di Israele, della rottura del vincolo contratto sotto giuramento40 (Gen

ramente assunto (queste ultime considerazioni valgono in riferimento a ciò che i profeti dicono di Israele, ma valgono anche come critica a certe letture esegetiche che, parlando dell’alleanza sinaitica, ne esplicitano esclusivamente la di‐mensione di disciplina legale, unilateralmente vincolante il popolo).

37 L’inspiegabile contrasto tra a) la disciplina amorosa di Dio nei confronti del suo popolo e b) l’insorgere della ribel‐lione costituisce un motivo letterario frequentemente ribadito dalla letteratura profetica. Cf. ad es. Os 7,15: a) «Io ho rafforzato le loro braccia», b) «ma essi hanno tramato il male contro di me»; e 11,3: a) «A Efraim insegnavo a cammi‐nare tenendolo per il braccio», b) «ma essi non compresero che avevo cura di loro» (si noti che l’azione divina si di‐spiega nel prendere per mano, analogamente a quanto detto in Ger 31,31).

38 Si veda, al proposito, W. Thiel, «Hēfēr berît. Zum Bundbrechen im Alten Testament», in VT 20 (1970) 214‐229: questo studio intende rintracciare la storia letteraria dell’espressione, partendo dall’attestazione più antica (1Re 15,19) fino ai passi post‐esilici (come Ger 33,20‐21; Ez 16,59; Zc 11,10‐11).

39 Scrive Asa, re di Giuda, a Ben‐Hadad, re di Aram: «Ci sia un’alleanza fra me e te, come ci fu fra mio padre e tuo padre. Ecco, ti mando un dono d’argento e d’oro. Su, rompi la tua alleanza con Baasa, re di Israele, sì che egli si ritiri da me» (1Re 15,19).

40 Secondo E.W. Nicholson, l’espressione non indica solo la trasgressione delle clausole dell’alleanza, ma la sua defi‐nitiva abrogazione (E.W. NICHOLSON, God and his People. Covenant and Theology in the Old Testament, Oxford 1986, 183‐184, 211‐212).


17,14; Lv 26,15; Dt 31,16.20; Is 24,5; ecc.).41 Non si parla di un’occasionale trasgressione; si usa in‐vece una formula che definisce la definitiva cessazione di un rapporto (cf. Ger 11,9‐10).42 Dio dice: «La mia alleanza» (berîtî); il suffisso pronominale di prima persona sottolinea il fatto che Dio concepisce l’alleanza come frutto della sua iniziativa (di amore), e come tale la difende, con ge‐losia (che si manifesta come collera, quando vi è di mezzo il male) e con tenacia (che si manifesta nella volontà ripetuta di ricuperare il rapporto, alterato dal peccato). Nello stesso tempo è reperibi‐le un certo limite in questa medesima qualifica «possessiva», in quanto sottolinea l’unilateralità di questa prima alleanza, alla quale Israele sembra rimanere quasi estraneo.

c) La sanzione divina (Ger 31,32a)

È naturale attendersi, dopo la dichiarazione della rottura dell’alleanza, una frase che accenni alle conseguenze di tale atto, previste dalla struttura stessa del patto. Ciò corrisponde alla logica artico‐lazione degli elementi in un rîb profetico, di cui il v. 32 ricalca l’andamento; ed è tra l’altro presup‐posto dall’espressione «rompere l’alleanza», che normalmente è seguita dall’indicazione della pu‐nizione ad opera del Signore. Si veda, ad esempio:

La casa di Israele e la casa di Giuda infransero la mia alleanza, che avevo stipulato con i loro padri; perciò – così dice il Signore – ecco io farò venire su di loro una sventura alla quale non potranno sottrarsi (Ger 11,10‐11).

La risposta divina all’infrazione del patto da parte di Israele assume, nella tradizione dei testi di al‐leanza, diverse modulazioni; a volte viene accentuato l’aspetto di punizione, e si usano qui spesso termini o immagini simmetriche al crimine perpetrato (in conformità alla regola del taglione); in al‐tri casi invece si mette in luce l’aspetto sapienziale dell’intervento divino (rivelazione del male, pro‐cedimento correttivo). Nel nostro testo sembra ragionevole supporre che, di fronte a una valuta‐zione globalmente negativa dell’agire di Israele, sia prospettata un’azione sanzionatoria ugualmen‐te globale e definitiva.43 Riteniamo che la frase ebraica we’ānokî bā‘altî bām debba essere tradotta con «e io ho esercitato la mia autorità su di loro»,44 intendendo con ciò un’azione punitiva, concre‐tamente attuata nell’evento dell’esilio.45 L’antica alleanza ha così un andamento tragico, perché mostra il volto del Dio che punisce. In quan‐to azione di giustizia, ragionevole e necessaria, la sanzione non costituisce un problema teologico; tutta la predicazione profetica, ivi compresa quella di Geremia, ne è una ripetuta attestazione. Tut‐tavia, se ciò fosse l’ultima manifestazione della presenza di YHWH nella storia, la rivelazione di Dio sarebbe lungi dall’essere perfetta; il fallimento e la morte non possono esaltare il Creatore della vi‐ta. Era certamente necessaria la collera, dice Geremia, ma su questa si innesta, in modo inatteso e mirabile, la promessa del perdono, nel quale il Signore porta a perfetto compimento la sua relazio‐ne con Israele e la sua rivelazione come origine della vita.

41 Di Dio si dice che egli non rompe la sua alleanza (Lv 26,44; Gdc 2,1); tuttavia in Ger 14,21 tale fatto viene presen‐

tato come una possibilità, e in Zc 11,10 come una realtà. 42 Il rapporto tra Ger 31,31‐34 e Ger 11 è sottolineato in particolare da SCALISE, Jeremiah 26‐52,131‐132. 43 In altri testi, la sanzione è espressa come atto di abrogazione del vincolo originario: come il «divorzio» (che segna

la fine del matrimonio) in Ger 3,8, oppure come il «rigetto» (che è il contrario dell’elezione) in Ger 6,30. 44 Proprio perché il sintagma bā‘al be è unico, riteniamo che debba essere accordato un valore specifico alla prepo‐

sizione be, e riteniamo che tale preposizione sottolinei il carattere aggressivo della dominazione («feci sentire il mio impero su di loro» o «contro di loro»), intendendo con ciò un’azione punitiva.

45 Si veda il testo, in qualche modo parallelo, di Ez 20,33: di fronte al peccato di idolatria (vv. 30‐32) Dio afferma: «Io regnerò su di voi con mano forte, con braccio possente e con ira traboccante» (il verbo mālak ‘al usato da Ez pare un equivalente del verbo bā‘al be di Ger 31,32).


II. L’ALLEANZA NUOVA (GER 31,33‐34)

Ma questa è l’alleanza che stipulerò con la casa di Israele dopo questi giorni, oracolo del Signore: porrò la mia legge nel loro intimo e sul loro cuore la scriverò, e sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. E non dovranno più istruirsi, ciascuno il suo vicino, ciascuno il suo fratello, dicendo: «Riconoscete il Signore», perché tutti mi riconosceranno, dal più piccolo al più grande, oracolo del Signore. Poiché perdonerò la loro colpa, e del loro peccato non mi ricorderò più (Ger 31,33‐34).

Questa parte (vv. 33‐34) presenta gli elementi definitori della nuova alleanza, in opposizione alla prima di cui parla il v. 32. È opportuno, al proposito, fare subito qualche precisazione.

a) Considerazioni previe

1) Gli elementi che qui vengono dettagliati sono certamente importanti, anzi decisivi per la nuova alleanza, ma essi non dicono tutto; vanno integrati con altri elementi disseminati nei cc. 30‐31 di Geremia. In particolare non va mai dimenticata la dimensione esteriore, cioè la visibilità simbolica dell’evento, nella quale la nuova alleanza si sostanzia; e, come già detto, non va nemmeno trascu‐rato il ruolo dell’uomo che consente liberamente all’evento salvifico. 2) Per altro verso, ognuno degli elementi (scrittura divina nel cuore dell’israelita, conoscenza del Signore, perdono dei peccati) risulta in sé sufficiente per alludere alla nuova alleanza, per dirla in totalità sotto un certo punto di vista. Non è propriamente l’accumulo di caratteristiche, ma la verità e la perfetta realizzazione di ognuna di esse a costituire l’evento definitivo, che noi chiamiamo nuova alleanza. Per questa ragione vi sono talvolta oracoli brevi e isolati, che evocano l’unico e medesimo realizzarsi della promessa escatologica mediante il semplice accenno a un solo elemen‐to (torneranno in patria, mi conosceranno, perdonerò i loro peccati, ecc.). 3) La teologia della nuova alleanza non è allora espressa mediante l’accumulo di concetti (ci vuole questo e questo e questo...); essa si esplicita invece come variegata articolazione di vari aspetti, co‐sì da far capire l’importanza di ognuno, in rapporto a una realtà unica, a un evento nel quale tutti gli elementi si realizzano contemporaneamente. Questa realtà unica è alleanza, cioè mistero gran‐de del rapporto fra due persone, e alleanza nuova ed eterna quando questa comunione personale è perfetta (essa raggiunge la sua perfezione nel momento in cui vengono rispettati e valorizzati pienamente i due partner).

b) Continuità con il passato

Abbiamo già detto che la caratteristica del nostro testo è di presentare la nuova alleanza sotto forma di contrapposizione all’antica, così da illustrarne i tratti di novità; si noti al proposito la di‐sposizione chiastica del testo:

v. 31: Stipulerò [...] un’alleanza nuova v. 32: non come l’alleanza che stipulai con i loro padri.

Il concetto stesso di novità, tuttavia, implica un rapporto intrinseco al vecchio, altrimenti i termini non sarebbero nemmeno confrontabili. Vecchio e nuovo sono due termini contrari, ma si situano su un medesimo asse semantico, quello appunto della storia. La continuità tra le due alleanze (l’alleanza dei padri e la nuova alleanza) viene assicurata dal nostro testo mediante diversi fattori.


1. Rapporto di vocabolario

Per parlare della nuova alleanza si riprendono di fatto espressioni che appartengono all’universo terminologico della prima alleanza, con il pericolo quindi di pensare che si tratti di una mera conti‐nuità, di un ripristino del passato, di un ritorno alle condizioni precedenti. Geremia usa il sintagma «stipulare un patto» (cf. Dt 5,2‐3), parla di «Torah» nel cuore (cf. Dt 6,6), usa la formula «sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (cf. Dt 26,17‐18), parla di «conoscenza del Signore» (cf. Dt 4,39; 7,9) e di «perdono» (cf. Es 34,9), che – come risulta dalle citazioni addotte – non sono nozioni estranee alla prima alleanza, alla quale essenzialmente competono i caratteri del dono gratuito e della misericordia. Più a fondo si deve anzi dire che la nuova alleanza non può esprimersi che mediante le figure anti‐che (eventi dal carattere simbolico, concretamente realizzati nella storia): come la fecondità mira‐colosa, l’abitare pacifico dopo la prodigiosa vittoria sui nemici, l’unione sponsale che dà gioia, la messa per iscritto del patto, e così via. In sostanza, abbiamo la stessa cosa di prima, eppure diver‐sa; detto in termini più precisi: è l’alleanza originaria che si realizza perfettamente.

2. Rapporto nel tempo

La nuova alleanza avviene «dopo quei giorni» (v. 33). «Quei giorni» non possono essere che quelli della prima alleanza, e in particolare i giorni della maledizione, il tempo dell’esilio; nei testi di nuo‐va alleanza, in effetti, il periodo della maledizione viene interpretato come una transizione tra le due alleanze (cf. ad es. Lv 26,39‐43; Dt 30,1‐3; Ez 36,1‐7; ecc.). Le due alleanze non sono dunque presentate come un’alternativa, ma come una successione. La nuova alleanza non può prescindere dall’esperienza della sofferenza (cf. Ger 30,5‐7.12‐15; 31,15‐17), nella quale si rivela un giusto rapportarsi di Dio nei confronti del peccatore ostinato; senza dolore non c’è cuore spezzato, non ci sono quindi conversione al Signore e possibilità della grazia. Ma, più generalmente, dobbiamo dire che la nuova alleanza è una seconda alleanza, che non può avvenire se non dopo la prima, non può realizzarsi cioè senza l’esperienza storica del rifiuto di Dio che porta alla morte, simbolicamente rappresentata dall’esilio: perché è solo quest’esperienza di vissuta e dolorosa debolezza che consente di riconoscere la potenza creatrice di Dio, che fa all’uomo la grazia di diventare capace di bene. C’è la prima e c’è la seconda alleanza; entrambe so‐no necessarie nel loro rapporto di successione. Il rischio è di credere che sia possibile una nuova alleanza senza esperienza del peccato e quindi senza rivelazione del perdono.

3 Rapporto al destinatario

«Questa è l’alleanza che concluderò con la casa di Israele» (v. 33): Dio non fa alleanza con altri (si ricordi la proposta provocatoria del Signore di sostituire Israele con un popolo diverso, quello di‐scendente da Mosè in Es 32,10 e Dt 9,14), ma con gli stessi peccatori, con il «popolo di dura cervi‐ce» (cf. Es 33,3.5; 34,9; Dt 9,6.13; ecc.), con coloro che «non possono servire il Signore» (Gs 24,19). Anche questo deve essere sottolineato, specie in ambiente cristiano, perché spesso si sostituisce inconsciamente l’espressione «casa di Israele» con la Chiesa, come se la nuova alleanza fosse l’alleanza del Signore con i giusti, dopo il fallimento dell’alleanza antica con l’Israele peccatore. In realtà, i cristiani devono inserirsi in Israele, innestarsi nel tronco della loro storia, riconoscendo che la comunione nel peccato è mediazione necessaria per il riconoscimento dell’universale misericor‐dia (Rm 11,32).

c) La novità della nuova alleanza

Dopo queste riflessioni introduttive, desunte praticamente dal titolo del v. 33a, veniamo al com‐mento dell’oracolo che definisce la nuova alleanza nei suoi tratti specifici. Distinguiamo tre ele‐menti, in simmetria con la presentazione del patto antico, stipulato con i padri. Diciamo subito co‐


munque che i tre elementi non rappresentano propriamente tre momenti storici distinti (come per la prima alleanza), ma tre aspetti di un unico evento.

1. La scrittura della Torah sul cuore (Ger 31,33)

Volendo fare un raffronto con la prima alleanza, si potrebbe dire che questa frase rappresenta l’evento fondatore, opposto a quello del «prendere per mano per far uscire dal paese d’Egitto». Nella prima alleanza c’è qualcosa di esteriore (sono presi per la «loro mano», la liberazione è di na‐tura politica) e si fa uso di una certa violenza (connotata dalla radice ḥzq, «esercitare la forza», che allude forse al motivo letterario della «mano forte e braccio disteso», artefice di segni «grandi e terribili»). Nella nuova alleanza abbiamo invece un evento interiore, perché l’azione di Dio riguarda «il loro intimo», «il loro cuore»; la modalità con cui Dio interviene («porre» e «scrivere») mette implicitamente in gioco la sua mano (o il suo dito), senza tuttavia evocare l’aspetto di forza. Spesso, nella Bibbia, le contrapposizioni sono sghembe, per cui si deve evitare un’esegesi che forzi i rapporti, là dove essi non sono né esplicitati, né chiaramente sottintesi. È così interessante consta‐tare che, mentre la prima alleanza è descritta nel momento fondatore dell’Esodo (uscita dall’Egit‐to), non si parla di nuova alleanza come nuovo Esodo (cf. invece in Ger 16,14‐15; 23,7‐8; ecc.), ma come di un nuovo Sinai. È chiaro infatti l’evento evocato: il riferimento alla Torah (chiamata «mia Torah») e i due verbi, usati in forma chiastica, ne sono la prova («porrò la mia Legge nel tuo intimo – e sul tuo cuore la scriverò»). Infatti il verbo nātan («donare», qui con il significato di «porre») appartiene ai verbi di trasmissione della legge sinaitica (cf. Lv 26,46; Dt 4,8; Ger 9,12; Ne 9,13; 10,30; ecc.), in correlazione con il verbo kātab («scrivere»); cf., ad esempio, Dt 5,22; 31,9; e soprattutto Es 24,12, dove abbiamo un paralle‐lismo di forma chiastica simile a quello di Ger 31,33 («ti darò [nātattî] le due tavole di pietra – e la Legge [wehattôrāh] e il comando che ho scritto [kātabtî] per istruirli»). In Ger 31,33, il verbo nātan, a motivo del complemento («nel loro intimo») va tradotto con «collo‐care», «porre», significato, questo, assai frequente in ebraico; ma, sia per la generale significazione del verbo (che abitualmente vuol dire «dare»), sia per il globale riferimento alla tradizione sinaiti‐ca, non si può non vedere qui l’atto del dono, della comunicazione della Legge, che ha la particola‐rità di essere intima. La Torah infatti non è fatta udire agli orecchi, non è posta nelle mani o colloca‐ta nell’arca, ma è deposta all’interno del cuore. Il verbo nātan, specie con oggetto o complemento il termine «cuore», è caratteristico d’altronde dei testi di nuova alleanza; nelle citazioni seguenti, si noti anche la finalità del dono:

Dt 29,3: vi ho dato un cuore per conoscere

Ger 24,7: darò [...] un cuore per conoscermi

Ger 32,39: porrò [...] nel cuore il mio timore

Ez 11,19s: darò loro un altro cuore e porrò [...] uno spirito nuovo per [...] camminare

Ez 36,26s: darò loro un cuore nuovo e porrò [...] uno spirito nuovo [...]; vi darò un cuore di carne, porrò [...] il mio spirito [...], camminare

L’altro verbo parallelo, «scrivere» (kātab), è ancor più evidentemente evocatore delle tradizioni si‐naitiche, che concordemente riportano le parole pronunciate da Dio sul monte, ma narrano anche della loro scrittura su tavole di pietra (cf. Es 24,12; Dt 4,13; 5,22; ecc.). La messa per iscritto è una prassi tipica nelle stipulazioni di alleanza, uno dei modi per conferirle valore giuridico, a garanzia per entrambi i partner, essendo il segno certo della norma e prova dell’impegno di osservarne le clausole. Si noti, tra l’altro, che è Dio a scrivere; si rivela così il carat‐tere essenzialmente «eteronomo» della Legge, cioè il fatto che l’uomo non è principio della norma morale e religiosa, ma la riceve da un Altro. E si rivela anche che è Dio a impegnarsi nel rapporto, anche se evidentemente impegna anche il partner umano in un’alleanza bilaterale.


Al Sinai Dio scrisse su «tavole di pietra» (Es 31,18; 32,15‐16; 34,1‐4; Dt 4,13; 5,22; 9,9‐11; 10,1‐4; 1Re 8,9; 2Cr 5,10).46 Fra i vari supporti di scrittura la pietra evidenziava la durata dell’impegno as‐sunto; la roccia, infatti, aveva una durezza maggiore di tutti gli altri materiali (come la terracotta, il legno, il papiro). Chiara è allora la contrapposizione con la scrittura della Legge del Signore «sul cuore» come ele‐mento caratteristico della nuova alleanza. Le tavole di pietra erano un simbolo esteriore di ciò che adesso si realizza. Erano una «figura», imperfetta, perché: a) le tavole si possono «rompere»;47 b) vengono messe nell’arca, e quindi, tolte dalla vista, con il rischio di essere dimenticate; c) suppon‐gono la lettura, operazione certamente non universale, a causa del diffuso analfabetismo, oltre che dell’oggettiva difficoltà di decifrazione della grafia, e a motivo infine della scarsità delle copie di‐sponibili. Inoltre, le tavole della legge non appartengono alla struttura essenziale dell’uomo, sono infatti a lui esterne, poste davanti; da qui il problema della difficile interiorizzazione di una parola scritta su tavole di pietra. La scrittura sul cuore – tatuaggio indelebile – è un’operazione definitiva. L’israelita quindi non sarà più costretto a scrivere la legge sugli stipiti delle porte, oppure a legarsi sulla mano la Torah scritta o a collocarla tra gli occhi (Dt 6,8‐9; 11,18‐20), perché l’avrà sempre presente: il «cuore» infatti è la sede della memoria,48 dell’intelligenza, della decisione d’amore. Inoltre non ci sarà più bisogno dell’arca (Ger 3,16), perché sarà il cuore a custodire fedelmente la legge (cf. Ger 3,17; 24,7; 29,13; cf. anche Dt 6,6; 11,18; Is 51,7;49 Sal 37,31; 40,8‐9; 119,11). Geremia si serve dunque di una metafora, desunta dalle tradizioni sinaitiche, per evocare un nuovo inizio; si tratta di una modalità letteraria analoga a quella usata in altri testi, in cui per dire la novità si utilizzano però altre metafore. In Dt 30,6 viene detto che Dio «circonciderà il cuore»: la circoncisione, secondo la tradizione abra‐mitica (Gen 17,10‐14), è l’«iscrizione» dell’alleanza nella carne; nella nuova alleanza, la medesima iscrizione – che rimane un’esigenza richiesta all’uomo, anche se non rivolta al medesimo organo corporeo (Dt 10,16; Ger 4,4) – viene promessa e attuata dal Signore nel cuore, con il felice risultato che l’uomo può finalmente obbedire in modo perfetto.50 Il profeta Ezechiele, dal canto suo, sceglie l’immagine ardita del trapianto di cuore per suggerire la radicale trasformazione della struttura profonda dell’essere umano:51 in Ez 18,31 si domanda che sia l’uomo a farlo, per essere salvo; in 11,19‐20 e 36,26‐27 tale realizzazione è invece opera di Dio, e in essa si esprime la novità radicale della nuova alleanza. In Dt 30,11‐14 si parla della Legge «sul cuore e sulla bocca» così che sia possibile praticarla;52 ciò avviene in verità nella nuova alleanza quando è Dio a collocare la Torah nell’intimo così da renderla

46 La menzione delle tavole di pietra è esplicitata anche per le tavole riscritte dopo il peccato del vitello d’oro. 47 Risulta così il paradosso che la durezza della pietra non impedisce il rivelarsi della sua fragilità; Mosè stesso farà a

pezzi le tavole per indicare la rottura del patto (Es 32,19; Dt 9,17). 48 In alcuni testi si parla della «tavola del cuore» (Ger 17,1; Pr 3,3; 7,3); cf., in rapporto alla nuova alleanza, B.

COUROYER, «La tablette du coeur», in RB 90 (1983) 416‐434; A. SCHENKER, «Die Tafel des Herzens. Eine Studie tiber An‐thropologie und Gnade im Denken des Propheten Jeremia im Zusammenhang mit Jer 31,31‐34», in Text und Sinn im Alten Testament. Textgeschichtliche und bibeltheologische Studien, (OBO 103), Freiburg‐Göttingen 1991, 68‐81.

49 Il testo di Is 51,7 è di particolare rilevanza, in quanto definisce Israele come «coloro che conoscono la giustizia, il popolo che ha la Legge nel cuore»; come in Ger 31,33‐34, la «Legge nel cuore» è articolata alla capacità di «conosce‐re».

50 Sulla tematica, specie per le tradizioni interpretative antiche, cf. R. LE DEAUT, «Le thème de la circoncision du coeur (Dt XXX 6; Jér IV 4) dans les versions anciennes (LXX et Targum) et à Qumràn», in Congress Volume Vienna 1980, (VT.S 32), Leiden 1981,178‐205.

51 In Ezechiele, la metafora del trapianto di cuore si coniuga con quella dell’infusione di uno «spirito» nuovo (cf. an‐che Sal 51,12); quest’ultima immagine serve per veicolare l’idea di una vitalità rinnovata (Ez 37,14), conforme alle esi‐genze di una perfetta relazione con il Signore (11,19; 18,31), perché il soffio donato all’uomo è ora l’alito stesso di Dio (36,26‐27; 39,29). Il profeta Gioele interpreterà poi il dono dello spirito come conferimento della qualità profetica, estesa alla totalità del popolo (Gl 3,1‐2).

52 Cf. il parallelo di Is 59,21 che identifica l’alleanza con l’effusione dello spirito divino e la collocazione delle sue pa‐role sulla bocca degli israeliti.


possibile all’uomo (cf. per opposizione Gs 24,19‐20). È questa la finalità dell’operazione divina sul cuore, come risulterà dal commento del versetto seguente, e com’è esplicitato da diversi testi pa‐ralleli al nostro (come ad es. Ger 24,7; 29,13; 32,39.40; Ez 36,26‐27; Sof 3,9.13; ecc.); l’agire buono di Dio (il suo «fare bene»: Ger 31,28) rende l’uomo capace di fare il bene. Un’ultima notazione. In Ger 17,1 il profeta diceva:

Il peccato di Giuda è scritto [ketûbāh] con uno stilo di ferro, con una punta di diamante è inciso sulla ta‐vola del loro cuore [‘al lûaḥ libbām] e sui corni dei loro altari.53

Con quest’immagine il profeta esprimeva il dramma di un cuore straordinariamente duro, ostinato nel male, che rendeva inevitabile la tragedia. In Ger 31,33 abbiamo una radicale trasformazione di questa figura negativa: dicendo che il Signore scriverà la sua Legge sul cuore degli israeliti, il profe‐ta annuncia che Dio li renderà capaci di bene, atti alla conoscenza del Signore; di conseguenza la storia dell’alleanza si dispiegherà in benedizione. In conclusione, diciamo che, mediante quest’allu‐sivo linguaggio metaforico, viene qui indicata una trasformazione della persona, nel suo fondo sor‐givo di libertà. La nuova alleanza si realizza quando l’uomo consente pienamente alla legge dell’amore, e quando ciò avviene è perché Dio lo ha donato. Nel nostro testo, la finalità dell’operazione del Signore nel cuore dell’uomo è essenzialmente la stessa relazione di alleanza, espressa dalla formula di recipro‐cità: «Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (Ger 31,33b). La relazione con YHWH defini‐sce Israele nella sua verità più intima; è di questo che parla il versetto seguente.

2. La conoscenza del Signore (Ger 31,34a)

«Tutti mi riconosceranno». Questo secondo aspetto della nuova alleanza sarebbe da collegarsi strutturalmente con il secondo momento storico della prima alleanza (e cioè con il fatto che «la mia alleanza essi l’hanno infranta»). La prima alleanza si realizza perché il Signore conosce Israele e si fa conoscere a lui (elemento di «rivelazione», il cui momento topico è la comunicazione del nome YHWH: Es 3,13‐15). Il verbo yādā‘ non esprime solo l’esperienza gnoseologica, quella del conoscere e del sapere; è stata infatti riconosciuta la sua appartenenza al linguaggio tecnico dell’alleanza, di cui esprime la dimensione del mutuo riconoscimento.54 In altre parole, l’alleanza si sostanzia nel fatto che i due partner si ri‐spettano, riconoscono cioè l’altro nella sua natura e nel suo ruolo; e questo è particolarmente si‐gnificativo nelle alleanze asimmetriche. «Io, YHWH, sono il tuo Dio [questo è ciò che Israele ricono‐sce], e tu Israele, sei il mio popolo [e questo è quello che il Signore riconosce]»; ciò significa che Israele ha solo YHWH come Dio (e non altre divinità) e che il Signore tratta Israele come sua proprie‐tà particolare fra tutte le genti (lo elegge, gli comunica la via del bene, lo difende, ecc.). Amos fa di‐re al Signore, in una frase che sembra riprodurre un tradizionale assunto di fede: «Solo voi ho co‐nosciuto [yāda‘tî] fra tutte le famiglie della terra» (Am 3,1). In maniera complementare, Davide raccomanda al figlio che si accinge a costruire il tempio:

Tu Salomone, figlio mio, riconosci [da‘] il Dio di tuo padre, servilo con cuore perfetto e con animo volon‐teroso (1Cr 28,9).55

Questa prima alleanza, nel suo concreto svolgersi storico, è però la rivelazione del contrario, e cioè che Israele non riconosce il suo Signore, non ha quel rispetto (timore di Dio) e quell’amore che so‐no equivalenti al «conoscere YHWH». Come emblematicamente dice Isaia:

53 Il profeta dice che sono necessari strumenti particolari per incidere su un cuore duro come pietra; il peccato ha

avuto quest’efficacia, lasciando tracce indelebili. Sul rapporto tra Ger 17,1‐4 e Ger 31,33, cf. in particolare MAIER, Jere‐mia als Lehrer, 347‐348.

54 Cf. H.B. HUFFMON, «The Treaty Background of Hebrew yd‘», in BASOR 181 (1966) 31‐37; H.B. HUFFMON – S.B. PAR‐KER, «A Further Note on the Treaty Background of Hebrew Yāda’», in BASOR 184 (1966) 36‐38.

55 Si noti la differenza tra l’indicativo divino (Am 3,1) e l’imperativo per l’uomo (1Cr 28,9).


Il bue conosce [yāda‘] il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, Israele non conosce [lo’ yāda‘] (Is 1,2).56

Nasce o si modula così la tradizione che rilegge i rapporti fra Israele e il suo Dio in termini di stol‐tezza, di insipienza, di non conoscenza (Os 5,4; per il libro di Geremia, cf. in particolare 2,8; 4,22; 5,15; 8,7; 9,3‐5.7.23, dov’è particolarmente sottolineato il rapporto tra la non conoscenza di Dio e la stoltezza). Questo è tanto più strano e inatteso se si considera che la prima alleanza, specie con la corrente deuteronomistica (grandemente influente al tempo di Geremia), aveva dispiegato in modo sistematico e capillare la mediazione conoscitiva, rappresentata dalla centralità della Torah (che è istruzione) e dall’organica configurazione dei responsabili dell’insegnamento di questa stes‐sa Legge: da Mosè, che ha in prima persona il compito di «insegnare» (cf. Es 13,8; e soprattutto Dt 4,1.5.14; 5,31; 6,1), ai suoi successori o sostituti, che, secondo il principio della divisione dei poteri, esercitano un’analoga funzione, in diversi ambiti, nella vita quotidiana di Israele. I sacerdoti hanno il compito di istruire nella Torah (cf. Dt 17,11; 33,10; Ger 2,8; Os 4,6; Ml 2,6‐8); i profeti devono tra‐smetterla (cf. Ger 5,4‐5) e i rappresentanti della tradizione sapienziale, in specie i genitori, hanno il dovere di curare l’insegnamento delle norme del Signore (cf. Dt 4,10; 6,7; 11,19; si ricordi anche tutta la tradizione dei Proverbi, specie nei cc. 1‐9). Si può dire dunque che la prima alleanza costituisce un sistema nel quale l’importanza della cono‐scenza si traduce nella legge dell’istruzione (Sal 19,12). La conoscenza di Dio – valore supremo dell’alleanza – è mediata dalla conoscenza della Legge, e per conoscere la Legge si rendono neces‐sari i mediatori, gli insegnanti. Ebbene, tutto questo sistema è dichiarato finito nella prospettiva della nuova alleanza: «Non do‐vranno più istruirsi l’un l’altro». Va notato che la formula usata da Geremia per parlare dell’insegnamento non presenta il «docen‐te» con una qualifica specifica di autorevolezza istituzionale, come potrebbe essere quella del «pa‐dre», del «sacerdote» o del «sapiente».57 Il nostro testo prospetta infatti una relazione per così di‐re paritetica e reciproca, quella che intercorre tra «compagni» e «fratelli»,58 poiché alla lettera di‐ce:

Non dovranno più istruirsi ciascuno il suo compagno e ciascuno il suo fratello.59

Questa precisazione non va comunque maggiorata, poiché subito dopo, seppur in una formula ste‐reotipa (Gen 19,11; 1Sam 5,9; 2Re 23,2; ecc.), si introduce la categoria del «piccolo» e del «gran‐de» («tutti mi conosceranno, dal piccolo al grande»). Ciò che il testo vuol quindi sottolineare è il passaggio da un sistema di insegnamento mediato da uomini, nell’esteriorità quindi della relazio‐ne, a una realtà nella quale Dio stesso si fa conoscere, direttamente e perfettamente.60

56 Cf. anche Ger 2,8; 9,5; Os 2,10; ecc. 57 La cosa è rimarcata da B.P. Robinson, il quale pensa che, avendo i padri fallito nel loro compito di educatori, il lo‐

ro posto venne assunto da «vicini» e «fratelli» [B.P. ROBINSON, «Jeremiah’s New Covenant: Jer 31,31‐34», in SJOT 15 (2001) 181‐204, spec. 199]. A noi sembra invece che la terminologia usata da Geremia, da una parte, può ricalcare la tradizione deuteronomica, che, proprio parlando delle autorità (del re, del sacerdote e del profeta), sottolinea la loro condizione di «fratello» tra fratelli (Dt 17,15.20; 18,2.15.18); d’altra parte, evidenzia piuttosto il contrasto tra la dimen‐sione umana dell’atto educativo, propria della prima alleanza, che rimane comunque nell’ambito paritetico e sociologi‐co, dalla realtà divina che si dispiega nella nuova alleanza, quando è il Signore stesso a comunicarsi direttamente a ognuno (cf. Is 54,13: «Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore»).

58 Cf. le identiche espressioni di reciprocità in Gen 26,31; 37,19; 42,21.28; ecc. 59 La locuzione «ciascuno il suo compagno e ciascuno il suo fratello» è attestata anche in Ger 23,35; appare anche

in Is 19,2 e Ger 34,17 (con inversione dei termini «compagno» e «fratello»); inoltre, in Es 32,27 l’espressione è amplia‐ta, e comporta la menzione del «fratello», del «compagno» e del «vicino».

60 Qualcosa di analogo è espresso in Is 30,20‐21, un passo molto originale, che, nel contesto di un intervento mise‐ricordioso di Dio nei confronti del suo popolo (cf. v. 18), recita: «Non si terrà più nascosto il tuo Maestro; i tuoi occhi vedranno il tuo Maestro, i tuoi orecchi sentiranno questa parola dietro di te: “Questa è la strada, percorretela”, se do‐vete andare a destra o a sinistra».


La fine dell’insegnamento è determinata dal fatto che la finalità dell’insegnare è perfettamente conseguita: «Tutti mi riconosceranno»; è quindi del tutto superfluo, anzi incongruo, il continuare a farlo. Qualcuno ha detto che l’oracolo della nuova alleanza annuncia la sparizione della mediazione umana, perché infedele alla sua missione:61 verrebbero così indirettamente denunciati il pessimo insegnamento dei sacerdoti, colpevoli di «non conoscere» il Signore (Ger 2,8), o la sapienza perver‐tita degli scribi, rei di aver falsificato la parola di Dio (Ger 8,8‐9). A nostro avviso, però, il testo non promette il rimedio a una cattiva mediazione storica nell’ambito dell’insegnamento, ma annuncia un «compimento» dello stesso processo, di tale natura da rendere ormai impertinente il compito didascalico da parte di qualsiasi uomo. Come capire questa novità? Dal punto di vista descrittivo si devono notare due cose. 1) Nell’«insegnamento» (lāmad, Pi.), è evidente che la cosa insegnata (Torah) è sempre esteriore rispetto al recettore; il maestro, con la sua stessa presenza, dice che il discepolo non conosce.62 Finché c’è un maestro, esteriore, siamo nella struttura della prima alleanza. La nuova alleanza avviene invece quando il maestro se ne va, quando simbolicamente muore. Essa si realizza quando al maestro esteriore si sostituisce – con transizione di continuità – l’esperienza personale,63 il possesso intimo della verità (alcuni parlano in questo caso di «maestro interiore», che è da identificarsi con la verità a cui liberamente si acconsente). Questa è la linea della nuova alleanza che si sviluppa tematicamente mediante il simbolo del cuore che conosce o dello Spirito del Signore che diventa principio di intelligenza e di azione buona.64 2) L’insegnamento esteriore si presenta sempre sotto forma di imperativo: «Conosci il Signore». Forse non si nota abbastanza quest’aspetto caratteristico della trasmissione cognitiva: si crede che insegnare sia semplicemente mettere davanti al discepolo i dati e/o le soluzioni, quando invece il vero insegnamento è un appello a vivere, e quindi a scegliere, ad aderire al vero. Non si tratta solo dell’insegnamento proprio alla tradizione etica,65 ma di ogni insegnamento che è rivelazione di ve‐rità, per la quale si impone una scelta di vita che equivale ad abbandonare l’opinione propria o l’errore per appropriarsi dell’autentico bene. Il maestro dice in sostanza: «Seguimi». Ora, nella nuova alleanza, questa dimensione «imperativa» lascia il posto all’indicativo; cessa il comando, non perché adesso si possa fare ciò che si vuole, ma perché si realizza la finalità dell’insegnamento, il quale non ha più ragione di perdurare, perché ha ottenuto il suo scopo. Inve‐ce di «conoscete il Signore», si attua il «mi conosceranno» (cf. Is 30,20; 54,13; Ger 24,7; 32,39‐40; Os 2,22; Sal 51,8; ecc.). In altre parole, l’esortazione lascia il posto alla pratica consolidata e sicura. In conclusione, la nuova alleanza non è uno stato che si produce abolendo la mediazione (non è nella soppressione del maestro che si giunge alla vera conoscenza); essa è piuttosto il sistema che

61 Cf. B. RENAUD, Nouvelle ou éternelle alliance? Le message des prophètes (LeDiv 189), Paris 2002, 60. 62 Il docente può inconsciamente intrattenere e coltivare questa situazione riservandosi una parte del sapere. Cf., al

contrario, l’autentico maestro di Sap 7,13, che dice: «Senza frode imparai e senza invidia io dono, non nascondo le sue [della sapienza] ricchezze»; ed anche Gv 15,15: «Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi»; Mt 10,27: «Non vi è nulla di nascosto che non debba essere svelato [...]; quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti».

63 Ciò non si identifica con la situazione dell’autodidatta, che non ha potuto avere un maestro o l’ha inconsciamente rifiutato, non volendo «ricevere» la verità, non volendo cioè accoglierla come rivelazione e come dono.

64 Questa tematica è particolarmente importante nella tradizione neotestamentaria: la sparizione del Gesù storico, maestro esteriore, e l’avvento dello Spirito che insegna interiormente (Gv 16,7), facendo ricordare tutte le parole del Maestro (Gv 14,26) così che il discepolo ne viva, è il culmine della storia salvifica. Scriveva infatti s. Agostino: «Cosa so‐no dunque le leggi di Dio, da Dio stesso scritte nel cuore, se non la presenza stessa dello Spirito Santo, che è il dito di Dio, per la cui presenza è riversato nei nostri cuori l’amore che è la pienezza della Legge e il compimento del precet‐to?» [S. AGOSTINO, De spiritu et littera 21,36, citato da D. MARAFIOTI, S. Agostino e la nuova alleanza. L’interpretazione agostiniana di Geremia 31,31‐34 nell’ambito dell’esegesi patristica (Aloisiana 26), Roma‐Brescia 1994, 215].

65 Questo è probabilmente il nucleo più importante dell’insegnamento in Israele e in tutto il vicino oriente antico: la sapienza è saper agire bene; ma anche ai nostri tempi i consigli dati dai genitori rappresentano il bagaglio fondatore della sapienza di ogni uomo.


si realizza quando la mediazione viene meno, quando il maestro «può morire», lasciando il disce‐polo (non orfano, perché confortato dallo Spirito) nella perfetta autonomia del conoscere, in rap‐porto diretto (faccia a faccia) con la Verità, cioè con Dio stesso. Terminiamo con la notazione sull’universalità di questa prospettiva: «Tutti [...] dal più piccolo al più grande».66 L’estensione universale della nuova alleanza (non solo alla casa di Israele, ma anche alle genti) è un tratto relativamente poco sottolineato nei testi veterotestamentari (cf. tuttavia Is 19,19‐25; 56,3.6‐7; 66,19‐21; Ger 3,17‐18; Ez 16,52‐63; ecc.); lo sarà invece nell’interpretazione evangeli‐ca. Nella tradizione profetica si insiste piuttosto sul fatto che ognuno (senza distinzioni) può acce‐dere al nuovo patto.67 Questo motivo può essere illustrato facendo riferimento, in modo oppositivo, alla prima alleanza. 1) È chiarissima la tradizione letteraria attestante che la rivelazione di Dio fu riservata solo a pochi eletti, ai quali fu concesso di salire sulla montagna e intrattenersi con Dio (naturalmente Mosè, ma anche altri, fra cui gli anziani: cf. Es 24,9); viene così stabilita una specie di distinzione fondante tra la classe docente e quella discente (tra coloro che stanno in cattedra, la cattedra di Mosè, e chi sta ai piedi del maestro). Questo stesso schema vale anche nella versione propriamente profetica: se‐condo il Deuteronomio (18,15‐19) è il profeta a continuare nella storia l’opera di Mosè (è lui che riceve le parole di Dio e le comunica agli uomini). Analogamente, nel racconto di Nm 11,24‐30, lo spirito profetico di Mosè fu comunicato ai settanta anziani; ed è da rimarcare la constatazione ad‐dolorata di Mosè alle rimostranze del discepolo Giosuè:

Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito (Nm 11,29).

Questo desiderio di Mosè si attua proprio con la nuova alleanza, in conformità esplicita con la pro‐fezia di Ezechiele (dono dello spirito del Signore: Ez 36,26), ma soprattutto di Gl 3,1‐2:

Dopo questo, effonderò il mio spirito sopra ogni carne, e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie, i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sopra gli schiavi e le schiave, in quei giorni, effonderò il mio spirito (Gl 3,1‐2).

A tutti noi è familiare l’interpretazione di questa profezia fatta da Pietro nel giorno della penteco‐ste (dove l’universalismo consiste nella capacità di tutte le genti di comprendere il medesimo di‐scorso), ma è soprattutto da sottolineare, nel testo di Gioele, il fatto dell’abolizione della distinzio‐ne tra «anziani» e «giovani» (non è una questione di età, ma di conoscenza, competenza e autori‐tà), tra maschi e femmine, tra liberi e schiavi; l’uguaglianza è data dall’unica esperienza di cono‐scenza e libertà che è l’esperienza dello spirito. 2) Piccoli e grandi: Geremia usa una formula consueta per dire la totalità, ma è certo che egli fa ri‐ferimento alla gerarchia (cf. Dt 29,9‐10), che è mediazione della trasmissione autorevole della Leg‐ge, ed è anche il segno di un popolo che obbedisce. Si sa che comunque questo sistema gerarchico non ha funzionato (cf. Ger 5,45: i «piccoli» non sanno, ma i «grandi» ignorano). Ora, questa distin‐zione di autorevolezza «esteriore» è abolita, perché tutti conoscono, e quindi la stessa funzione di colui che è chiamato «grande» è finita. Non si tratta di una democratizzazione sociologica, rivendicata in nome del diritto, ma di una per‐fetta eguaglianza spirituale, conseguita per dono divino.

66 Quest’espressione è un «merismo» usato dunque per indicare la totalità di un insieme molteplice (cf. Sal 104,25

per i pesci, e 2Cr 38,18 per gli oggetti cultuali); essa serve soprattutto per definire la comunità di persone (cf. Ger 6,13; Gn 3,5; Sal 115,13; Est 1,5.20; 2Cr 34,30). Da notare che in Ger 6,30 la locuzione idiomatica serve per definire l’estensione universale del peccato, mentre in Ger 31,34 l’opposto, e cioè l’obbedienza perfetta.

67 RENAUD, Nouvelle ou éternelle alliance?, 63, interpreta la frase insistendo piuttosto sulla responsabilità personale conferita ai singoli individui, quale caratteristica della nuova alleanza (in rapporto quindi con i vv. 29‐30), in opposizio‐ne all’automatico coinvolgimento collettivo, tipico del primo patto.


3. Il perdono (Ger 31,34b)

L’ultima frase del nostro testo («poiché perdonerò la loro colpa e del loro peccato non mi ricorderò più»)68 non appare logicamente inserita fra le componenti essenziali della nuova alleanza: il perdo‐no sembra infatti un elemento previo al dono della Legge nel cuore e a quello della conoscenza del Signore.69 Una prima osservazione da fare al proposito è che i testi profetici di nuova alleanza giustappongo‐no spesso i diversi elementi, senza curare una transizione logica dall’uno all’altro. Geremia, ad esempio, annuncia l’uscita dalla paura (Ger 30,5‐11) e in seguito parla di guarigione (cioè di perdo‐no: 30,12‐17); è chiaro che non vi è un rapporto di successione tra le due promesse. Questo feno‐meno, più volte riscontrato, che consiste nell’accostare gli elementi senza uno stretto legame di consequenzialità, ha la funzione di manifestare che nella nuova alleanza tutto è dato assieme, non una cosa dopo l’altra, ma ogni cosa con l’altra.70 Una seconda osservazione: a volte, nei testi profetici, il motivo del perdono viene presentato come l’ultima affermazione di Dio (cf. ad es. Ger 50,20; Ez 16,63 o Mic 7,18‐20). In Ger 31,34, tuttavia, questa collocazione finale ha una motivazione più specifica. Il testo infatti è introdotto da un mor‐fema (kî) interpretato da alcuni come enfatico («davvero», «certo»), da altri in rapporto con una delle frasi precedenti: a) mi conosceranno «perché» perdonerò (o «quando» perdonerò), dunque per il fatto o nel fatto del perdono si rivela YHWH come il Dio della nuova alleanza; b) non è un’alleanza come quella dei padri, «poiché» io perdonerò. In quest’ultimo senso – che è quello che noi condividiamo – lo schema geremiano di nuova alleanza si contrappone allo schema del rîb della prima alleanza, riassunto dal v. 32.

1. Dono della Legge nel cuore (IO) 1. Uscita dall’Egitto (IO) 2. Conoscenza di Dio (ESSI) 2. Rottura del patto (ESSI) 3. Perdono (IO) 3. Punizione (IO)

Se la prima alleanza aveva la sua terribile conclusione storica nella manifestazione della collera di‐vina, la nuova alleanza ha invece il suo culmine escatologico nella rivelazione del perdono di Dio nei confronti del peccatore.71 Il perdono è un elemento fondamentale della nuova alleanza; può da solo dire la totalità del dono. Anche se il perdono mette in gioco esclusivamente l’azione divina, esso evoca nondimeno la ricon‐ciliazione come perfetto incontro tra i due soggetti; da qui il carattere permanente della relazione tra il Signore e il suo popolo».72

68 La frase esprime, con un chiaro parallelismo (prima in forma positiva, poi in forma negativa) un identico concet‐

to; la ripetizione ha funzione retorica (rafforzamento dell’idea), e forse indica la natura definitiva del provvedimento: cf. B.A. BOZAK, Life «Anew». A Literary‐Theological Study of Jer. 30‐31 (AnBib 122), Roma 1991, 123.

69 Così RENAUD, Nouvelle ou éternelle alliance?, 38, che definisce il perdono un «préalable théologique», e ritiene quindi che il v. 34 (che nel Testo Masoretico è «hors série») sia da rapportarsi al v. 31 (il testo avrebbe dovuto dire subi‐to: io concludo una nuova alleanza, perché perdono). Così anche COUTURIER («Alliance nouvelle», 103), il quale afferma addirittura che il perdono dei peccati «non entra nella definizione» di nuova alleanza.

70 In modo analogo, in Ger 50,19‐20 si annuncia dapprima il ritorno dall’esilio («ricondurrò Israele nel suo pascolo, pascolerà sul Carmelo e sul Basan; sulle montagne di Efraim e di Galaad si sazierà»), e poi il perdono («in quei giorni e in quel tempo – dice il Signore – si cercherà l’iniquità di Israele, ma essa non sarà più, si cercheranno i peccati di Giuda, ma non si troveranno, perché io perdonerò a quanti lascerò superstiti»); ovviamente è impensabile un rapporto di suc‐cessione tra i due fatti: nello stesso «tempo», negli stessi «giorni» si realizza un felice rimpatrio di Israele che testimo‐nia del perdono accordato dal Signore.

71 Si noti la diversità rispetto alla prima alleanza: in Ger 5,1 il perdono era condizionato alla presenza nella città (di Gerusalemme) di almeno un uomo giusto; essendo il peccato una realtà universale, mancando un attivo principio di conversione all’interno della società israelitica, il perdono risultava così improponibile (Ger 5,7; 36,3; cf. anche Dt 29,19).

72 Cf. H.‐D. NEEF, «Aspekte alttestamentlicher Bundestheologie», in Bund und Tora. Zur theologischen Begriffsge‐schichte in alttestamentlicher, frühjüdischer und urchristlicher Tradition, a cura di F. AVEMARIE — H. LICHTENBERGER, (WUNT 92), Tübingen 1996, 16.


Il perdono è «offerto» da Dio e può essere richiesto da Israele peccatore (cf. le tradizioni delle pre‐ghiere penitenziali, che i profeti stessi mettono in bocca al peccatore: Ger 3,21‐25; 31,18‐19; Os 14,2ss). Ma il perdono ha un aspetto unilaterale, poiché può essere «concesso» solo dall’offeso, quindi, nella storia dell’alleanza, solo da Dio; non è un atto dovuto, è invece decisione libera di co‐lui che si rivela come origine della relazione proprio perché «giustifica» colui che non lo merita.73 I profeti annunciano l’evento del perdono per «quel giorno»; è una promessa (non solo una possibi‐lità), una realtà che si avvererà quando il profeta dirà: «Questo è il momento del perdono, questo è il giorno della redenzione» (cf. 2Cor 6,2). La terminologia usata da Geremia per qualificare il peccato e il perdono deve essere ritenuta sino‐nimica. Il verbo sālaḥ («perdonare») è per così dire il termine tecnico del mondo religioso (ha sempre per soggetto Dio); l’espressione «non ricordare più» appartiene invece al linguaggio meta‐forico, che esprime la medesima realtà del perdono mediante l’immagine dell’amnistia (cioè della non considerazione della colpa; cf. anche Ger 50,20).74 Questi verbi, a loro volta, sono equivalenti alla terminologia della misericordia (verso il peccatore), che si trova in altri testi di nuova allean‐za.75 Qui si rivela una sorta di paradosso, si manifesta cioè come sia estremo l’atto del perdono: il Dio della perfetta giustizia compie un gesto di gratuita compassione, il Dio che tutto ricorda (cf. Ger 31,20; 50,5) dimentica per sempre le colpe, il Dio che aveva minacciato al popolo le conseguenze inevitabili del loro peccato annuncia la definitiva speranza. È da notare che, secondo l’AT, il perdono viene ritenuto un atto divino, nel senso che viene ascritto unicamente al Signore; solo nella storia di Giuseppe (che si riconcilia con i fratelli che lo hanno venduto) e solo in qualche episodio della storia di Mosè (cf. Nm 12) e di Davide (che fa amnistia ai ribelli) viene attestato che degli uomini sono capaci di perdonare le offese. Questo dovrebbe aiuta‐re a comprendere come il perdono sia un gesto «creativo», che suppone un amore sublime; e se, nella nuova alleanza (realizzata nel Cristo), ciò è concesso (e quindi richiesto) a ogni credente, vi si deve riconoscere il prodigio di un «potere» inaudito dato da Dio agli uomini (Mt 9,8), quando ciò che è sciolto sulla terra viene sciolto anche nel cielo (Mt 16,19; 18,18), come segno della perfetta e universale riconciliazione, nella quale si compie davvero la «nuova alleanza».

3. IL LIBRO DI GEREMIA: TRE ORDINI DI TESTI

Come tutti i libri profetici, quello di Geremia pone numerosi problemi di contenuto, formazione e struttura. Benché non si sia ancora arrivati a una soluzione soddisfacente, sembra chiaro che essa è da cercare nell’analisi di tre diverse classi di testi contenute nel libro. Questo lavoro, già cominciato da Duhm nel 1901, fu sviluppato ampiamente da Mowinckel nel 1914. Le sue conclusioni furono poi sfumate e completate da Rudolph nel commentario del 194776. Da allora non hanno cessato di apparire nuovi apporti e nuovi punti di vista. Cercheremo di presentare a grandi linee lo stato at‐tuale della ricerca. Leggendo il libro di Geremia, avvertiamo subito l’esistenza di diversi ordini di testi. Nei capitoli 1–23; 30–31 e 46–51 predominano gli oracoli in forma poetica. Disseminati lungo il libro troviamo poi discorsi in prosa, dallo stile assai diverso da quello degli oracoli. L’elemento comune a questi due primi gruppi di testi è che si tratta di discorsi del profeta. Assieme ad essi troviamo varie narrazioni, anch’esse di carattere diverso: alcune sono autobiografiche e Geremia vi parla in prima persona;

73 Cf. P. BOVATI, Ristabilire la giustizia. Procedure, vocabolario, orientamenti (AnBib 110), Roma 1986, 138‐141. 74 BOVATI, Ristabilire la giustizia, 131. 75 Cf. BOVATI, Ristabilire la giustizia,136‐138. Il perdono viene evocato attraverso una ricca serie di espressioni meta‐

foriche (ivi, 127‐131); si fa ricorso, in particolare al lessico del «purificare» (thr) o «lavare» (kbs): cf. Ger 33,8; e anche Ez 36,25.33; 37,23; Sal 51,4.9; ecc. Suggestive sono le metafore usate in Ger 50,20 e Mic 7,18‐20 per indicare il supe‐ramento definitivo del peccato.

76 B. DUHM, Das Buch Jeremia (KHKAT), Tübingen 1901; S. MOWINCKEL, Zur Komposition des Buches Jeremia, Kristia‐nia 1914; RUDOLPH, Jeremia.


altre, numerosissime, parlano del profeta in terza persona. È normale che questi quattro gruppi di testi siano stati studiati separatamente:

1. Discorsi in forma poetica 2. Discorsi in prosa 3. Racconti autobiografici 4. Racconti biografici.

Tuttavia, il problema letterario restò vincolato a quello dell’autenticità. Come conseguenza di que‐sta impostazione, i racconti autobiografici vengono a formare un solo gruppo con i discorsi in for‐ma poetica, dal momento che entrambi vengono attribuiti unanimemente a Geremia. A tal punto che i commentatori non distinguono generalmente quattro classi di testi, ma tre. Mowinckel li ha classificati con le lettere A, B e C. Sebbene oggi quasi nessuno segua alla lettera la sua teoria, con‐viene usarne la terminologia. Cercando di presentare un bilancio generale della ricerca, possiamo dire quanto segue:

I testi A sono parole originali del profeta e conservano fondamentalmente la forma in cui egli le ha pronunciate. La maggior parte di questi oracoli è in versi. Alcuni iniziano con la formula del mes‐saggero («Così dice il Signore»), ma molti mancano di introduzione. Sono i testi più adatti per co‐noscere lo stile e la personalità di Geremia. In essi notiamo una mentalità poetica, che è al di là delle regole di una logica rigorosa (si veda la descrizione dell’attacco nemico in 4,5‐31). Il profeta usa il dialogo senza introdurre i personaggi (6,4‐6; 9,16‐18; 10,17‐20); inserisce affetti personali (4,10.19‐21.23‐26; 8,18; 14,17) o sentimenti altrui (3,21‐25; 6,4b‐5a; 31,15). L’abbondanza e varietà delle metafore (cfr. 2,20‐28: animale, pro‐stituta, vigna, cammella, asina selvaggia, ladrone) danno a certi testi un carattere barocco. Altri, tuttavia, sono di una concisione e forza meravigliose (15,2‐3; 17,1; 20,8b‐9; 22,10; 23,33). In questi testi A dovremmo includere:

– le «confessioni» – delle piccole collezioni che formano un’unità (2; 4,5‐6,26; 30–31) e a volte hanno un titolo: «sulla siccità» (14,1–15,3); «alla casa reale di Giuda» (21,11–23,8); «sui profeti» (23,9‐40); «alle nazioni» (46–49); – i racconti in prima persona, come la vocazione (c. 1), la cintura di lino (c. 13), le ceste di fi‐

chi (c. 24), la coppa dell’ira (25,15ss) l’azione simbolica del giogo (c. 27), la compera del campo (c. 32).

I testi B sono racconti abbastanza lunghi (quasi la metà del libro), che parlano del profeta in terza persona. Con una certa frequenza seguono questo schema: a) introduzione, con indicazione di da‐ta, luogo e situazione; b) sezione principale, con esposizione di un dialogo e sue conseguenze; c) nota finale: «Geremia restò in ...». Gran parte di queste narrazioni seguono un ordine cronologico, è possibile, benché alcuni autori lo neghino, che originariamente si trovassero in tale ordine, perdutosi più tardi. Possiamo ristabilirlo nel modo seguente:

609: discorso del tempio (c. 26) 605: la giara di terracotta (19,1–20,6) redazione e lettura del volume (c. 36) parole a Baruc (c. 45) 594: azione simbolica nell’Eufrate (51,59‐64) 593: Geremia e Anania (c. 28) lettera ai deportati (c. 29) 587: l’assedio (34,1‐7) 586: diversi avvenimenti (cc. 37–44)


Molti commentatori pensano che questi racconti siano stati scritti da Baruc, segretario di Geremia e testimone visivo di molti avvenimenti. Ma altri lo negano, affermando che questi racconti non sono frutto di un’attività letteraria che abbia avuto Baruc come autore, bensì di un’attività pastora‐le ed omiletica svolta in Babilonia. Da alcuni poi viene negata l’unità di stile e di teologia di questi capitoli, e ne dividono i racconti in tre gruppi diversamente caratterizzati. Altri infine distinguono in 37–44 un nucleo originale, una rielaborazione in favore degli esiliati di Babilonia e alcune aggiunte posteriori. Si discute pure sulla finalità di questi testi. Per molto tempo questi capitoli furono considerati come una biografia del profeta, centrata specialmente sulle sue sofferenze («la passione di Geremia»). Tuttavia, essi omettono troppi dati, per poter essere considerati una biografia. Né pretendono di compatire il profeta, come neppure di glorificarlo. Il centro è occupato dalla parola di Dio e dalla reazione che davanti ad essa hanno i diversi gruppi di persone. Alcuni l’accolgono, altri tacciono, altri la rigettano. Può darsi che all’interno di questa concezione globale si diano varie focalizzazioni e preoccupazioni teologiche. Ma il punto fondamentale resta sempre la parola di Dio.

I testi C sono i più discussi nella ricerca attuale. Secondo l’opinione di Rudolph, sarebbero parole di Geremia rielaborate dai deuteronomisti (gruppo di autori con chiara preoccupazione pastorale e influenzati dal Deuteronomio). A volte conservano le parole di Geremia quasi alla lettera. Molte al‐tre volte, invece, le cambiano o amplificano secondo i loro scopi specifici di dimostrare che i pecca‐ti di Giuda hanno provocato l’esilio e che il popolo deve convertirsi perché Dio lo perdoni e salvi. Secondo Rudolph appartengono a questo gruppo dieci testi, otto sotto forma omiletica e due come racconti con discorsi:

7,1–8,3: discorso del tempio e altri oracoli sul culto 11,1‐14: discorso sull’alleanza 16,1‐13: discorso del Signore a Geremia con tre proibizioni 17,19‐27: discorso sulla santificazione del sabato 18,1‐12: visita al vasaio e discorso 21,1‐10: risposta ai legati di Sedecia 22,1‐5: discorso al re Ioiakim 25,1‐14: discorso sull’invasione dei Babilonesi 34,8‐22: discorso sulla liberazione degli schiavi 35,1‐19: visita ai Recabiti e discorso

Molti di questi discorsi presentano la stessa struttura dei discorsi deuteronomisti: a) introduzione; b) esortazione all’ubbidienza; c) descrizione della disubbidienza; d) annuncio del castigo. D’altra parte, lo stile risulta assai diverso da quello dei testi A. È monotono, ripetitivo, con frequenti enu‐merazioni (si veda 7,5‐6; 7,13.34; 8,2; 21,7.9) e frasi fatte: «irritare Dio» (7,18.19; 8,19; 11,17; 25,6.7; 32,29.32), «durezza di cuore» (16,12; 18,12; 7,24 11,8), «spada, fame e peste» (21,7.9; 34,17), «pasto degli uccelli del cielo e degli animali del campo» (7,33; 16,4), ecc. Queste espressio‐ni, oltre che nei testi precedenti, si trovano anche in molti altri passi del libro e rifletterebbero que‐sta stessa rielaborazione deuteronomista. Appunto questo contrasto tanto forte tra lo stile dei testi A e C ha spinto Mowinckel e Rudolph, se‐guiti da numerosi autori, a negare la paternità a Geremia dei discorsi in prosa. Ma la questione non è affatto chiara. Vari autori rifiutano di dedurre dalla differenza di stile delle conseguenze troppo rigide circa l’autenticità. Le differenze di opinione tra questi ultimi autori sono innegabili ed è im‐possibile riassumerle qui. Però, a grandi linee, possiamo dire che concedono a Geremia la possibili‐tà di aver usato stili diversi, come quello poetico e quello oratorio. L’analisi letteraria deve prescin‐dere dalla questione dell’autenticità. Non è la forma utilizzata (poesia o prosa) a dover decidere il problema, bensì lo studio dei contenuti, delle circostanze storiche, dei presupposti teologici, ecc. È il problema che tratteremo in seguito.


4. LA FORMAZIONE DEL LIBRO DI GEREMIA

Queste affermazioni, tanto vaghe, sono le uniche che possiamo fare sull’origine dei vari materiali del libro. Come si sia arrivati, a partire da qui, all’opera attuale, con il suo disordine sia cronologico che tematico, è impossibile saperlo. Forse, come nel caso di Ezechiele, si cercò di organizzare la materia in blocchi diversi: 1) oracoli contro il popolo; 2) oracoli contro le nazioni straniere; 3) ora‐coli di salvezza; 4) sezione narrativa. Tuttavia, supponendo che il criterio sia stato questo, il risulta‐to non è stato molto felice; in parte, per la stessa difficoltà di amalgamare un materiale tanto di‐verso. Per esempio, il capitolo 32 potrebbe venir incluso nella sezione narrativa o nel blocco delle promesse; la lettera di Geremia agli esiliati (c. 29), che termina parlando di un avvenire migliore, si tirò dietro le promesse dei capitoli 30–31, interrompendo in tal modo la narrazione. Tuttavia, an‐che se possiamo chiarire varie questioni, sono molti i problemi che restano senza risposta. Una vi‐sione sintetica del libro offre la panoramica seguente:

I. Vocazione del profeta (1,4‐19)

II. Oracoli diretti al popolo di Dio (2,1–25,14)

a) Causa di Dio e conversione (2,1–4,4) b) La guerra e le sue cause (4,5–6,30) c) Corruzione religiosa e morale (7,1–10,25) d) Discorso sull’alleanza e denuncia (11,1‐17) e) Geremia perseguitato dai suoi compaesani e Dio perseguitato dal suo popolo (11,18–12,17) f) La cintura di lino e altri oracoli (13) g) La siccità (14,1–15,9) h) Crisi di Geremia e ordini di Dio (15,10–16,20) i) False fiducie (17,1‐13) l) Terza confessione di Geremia (17,14‐18) m) Discorso sul sabato (17,19‐27) n) Visita al vasaio (18,1‐17) o) Quarta confessione (18,18‐23) p) La brocca di terracotta; discorso e conseguenze (19,1–20,6) q) Quinta confessione (20,7‐18) r) Oracoli a Sedecia, al popolo e alla casa reale (21,1–23,8) s) Sui falsi profeti (23,9‐40) t) Le due ceste di fichi (24) u) Nabucodònosor, flagello di Dio (25,1‐14)

III. Oracoli contro le nazioni straniere77

a) Introduzione (25,15‐38) b) Contro l’Egitto (46,1‐28) c) Contro Filistea (47) d) Contro Moab (48) e) Contro Amon (49,1‐6) f) Contro Edom (49,7‐22) g) Contro Damasco (49,23‐27) h) Contro Kedàr e i regni di Kazor (49,28‐33) i) Contro Elam (49,34‐39) l) Contro Babilonia (50–51)

IV. Sezione narrativa (con oracoli di salvezza)

a) Discorso del tempio (26) b) Il giogo di Babilonia (27) c) Conflitti con i falsi profeti (28–29) d) La speranza del futuro (30–33)

77 Come vedremo in seguito, l’ordine dei LXX è diverso.


e) Oracolo a Sedecia (34,1‐7) f) Manomissione di schiavi (34,8‐22) g) Visita ai Recabiti (35) h) Redazione e lettura del volume (36) i) Dalla ribellione fino alla caduta di Gerusalemme (37–39) l) Dalla caduta di Gerusalemme in poi (40–44) m) Parole a Baruc (45)

V. Appendice storica (c. 52)

5. IL TESTO

Il libro di Geremia presenta un problema particolare, quello delle notevoli differenze esistenti tra il testo ebraico e la traduzione greca dei LXX. Possiamo riassumerle in due punti:

a) Il testo greco è più breve di un ottavo rispetto al testo ebraico, vale a dire che contiene circa 2.700 parole in meno. A volte mancano semplici versetti, mentre in altri casi si tratta di intere se‐zioni, come 33,14‐26; 39,4‐13; 51,44b‐49a; 52,27b‐30.

b) L’ordine varia in alcuni punti. Gli oracoli contro le nazioni straniere si trovano nei LXX a metà li‐bro. E, dentro questo blocco, è diverso anche l’ordine degli oracoli:

Ebraico: Egitto, Filistea, Moab, Ammon, Edom, Damasco, Kedàr, Elam, Babilonia. LXX: Elam, Egitto, Babilonia, Filistea, Edom, Ammon, Kedàr, Damasco, Moab.

Questo fenomeno si spiega generalmente nel modo seguente: un originale di Geremia, che andò perduto assai presto, diede luogo a due recensioni indipendenti. La più antica, di vita breve, man‐tenne l’ordine originario degli oracoli, ignorando i duplicati e possedendo un numero minore di brani. Su di essa lavorarono i traduttori dei LXX. La seconda recensione ebbe una storia testuale più lunga, raccogliendo nuovi passi, glosse e aggiunte, specialmente nei testi C. Cambiò inoltre l’ordine degli oracoli contro le nazioni e la loro collocazione nel libro. Su tale recensione lavorarono i maso‐reti, trasmettendoci il testo ebraico attuale. In ogni modo, quando si tratta di decidere quale versione sia più fedele, conviene analizzare i sin‐goli testi. I frammenti trovati a Qumrân (2Q 13; 4Q Gerb) alcune volte seguono la recensione breve e altre volte la lunga. La Vulgata e la Peshita sono più vicine al testo masoretico. La Vetus Latina, in‐vece, dipende dai LXX. Ordinariamente le versioni nelle lingue moderne seguono il testo masoreti‐co.

BIBLIOGRAFIA SCELTA SU GEREMIA

DUHM B., Das Buch Jeremia, Tübingen 1901. VOLZ P., Der Prophet Jeremia (KAT), Leipzig 1922. NÖTSCHER F., Jeremia (BBB), Bonn 1934. PENNA A., Geremia, Marietti, Torino‐Roma 1952. BRIGHT J., Jeremiah (AncB 21), New York 1965. RUDOLPH W., Jeremia (HAT), Tübingen 31968. WESTERMANN C., Geremia, profeta a prezzo della vita, Marietti, Torino 1971. LOMBARDI L., Geremia, Baruc (NVB 25), Paoline, Roma 1979. MELLO A., Geremia (Bibbia‐oggi. Strumenti per vivere la parola 19), Gribaudi, Torino 1981. BRIEND J., Le livre de Jérémie (Cahiers Evangiles 40), Paris 1982. BOGGIO G., Geremia (LoB 1.20), Queriniana, Brescia 1984. WEISER A., Geremia. 2 voll. (Antico Testamento 20‐21), Paideia, Brescia 1987. FISCHER G., Il libro di Geremia (Guide Spirituali all’Antico Testamento), Città Nuova, Roma 1995. NEHER A., Geremia, Giuntina, Firenze 2005. CUCCA M., Il Corpo e la Città. Studio del rapporto di significazione paradigmatica tra la vicenda di Geremia e il destino

di Gerusalemme (Studi e ricerche. Sezione biblica), Cittadella, Assisi 2010. MANFREDI S., Geremia in dialogo (Facoltà Teologica di Sicilia. Studi 6), Salvatore Sciascia, Caltanissetta ‐ Roma 2010.


LOPASSO V., Geremia (Vuova versione della Bibbia dai testi antichi 11), San Paolo, Cinisello Balsamo 2013. ROSSI B., L’intercessione nel tempo della fine. Studio dell’intercessione profetica nel libro di Geremia (AnBib 204), Gre‐

gorian & Biblical Press, Roma 2013. BRUEGGEMANN W., Geremia: esilio e ritorno (Commentari. Strumenti 68), Claudiana 2015. FAVALE A., Dio d’Israele e dei popoli. Anti‐idolatria e universalismo nella prospettiva di Ger 10,1‐16 (An Bib 121), Grego‐

rian and Biblical Press, Roma 2016.

IL PROFETA EZECHIELE E IL SUO LIBRO*

1. IL PROFETA

Il nome Yeḥezqē’l deriva dalla radice ḥzq «essere forte» e può significare «Dio è forte, Dio prevale» (in questo caso si pensi al racconto della vocazione dove il profeta è afferrato dalla mano di Dio e riempito del senso della presenza divina), oppure «Dio rende forte» (e in questo caso si può pensa‐re alla forza con cui egli riempie il profeta e lo rende capace di opporsi agli avversari).1 Della vita del profeta possiamo ricavare solo poche notizie dal suo libro. Impariamo che egli è figlio di Buzi, di famiglia sacerdotale (Ez 1,3). Si suppone che sia stato deportato in Babilonia con la prima deportazione (del 597 a.C.), perché nel paese dei Caldei egli ricevette la sua missione profetica nell’anno quinto della deportazione del re Ioiachin (quindi nel 593 a.C.). Possiamo ipotizzare che nella sua giovinezza a Gerusalemme Ezechiele sia vissuto nel clima della riforma deuteronomista (621 a.C.) e delle crisi che seguirono alla morte tragica di Giosia (609 a.C.). La tradizione sacerdota‐le sembra avere influito profondamente sul suo modo di pensare e di esprimersi,2 anche se non sappiamo nulla di un eventuale esercizio del sacerdozio da parte sua. Nel c. 24 veniamo a sapere della moglie del profeta, «delizia dei suoi occhi»; la morte di lei acqui‐sta un rilievo grande anche nella missione del profeta, assurgendo a preannuncio simbolico della distruzione di Gerusalemme. Quanto al ministero profetico, possiamo dire con una certa sicurezza che questo si sviluppa in due periodi ben distinti: prima e dopo la distruzione di Gerusalemme. Prima, Ezechiele opera come annunciatore del giudizio imminente; quando poi questo giudizio è avvenuto, il profeta assume il compito di vigilare sulla vita religiosa del popolo esortandolo e am‐monendolo a una fedeltà piena a Dio. Caratteristici del libro di Ezechiele sono una serie di oracoli datati (ben quattordici) che conferisco‐no al libro l’aspetto di un diario. Le date che troviamo nel libro vanno fino all’anno 571 a.C.3 Che cosa sia successo in seguito non lo sappiamo. Sulla fine di Ezechiele esistono solo notizie tardive e leggendarie. Sulla personalità del profeta sono state avanzate diverse teorie. Alcuni autori hanno visto in Eze‐chiele una personalità psicotica: la stranezza delle azioni simboliche da lui compiute sono state in‐tese come segno di non pieno equilibrio mentale. Alcune diagnosi pretendono di essere ancor più precise: schizofrenia catatonica paranoica;4 epilessia;5 isterismo.6 Preferiamo riportare, approvan‐dole, le affermazioni di W.F. Albright: «Ezechiele fu una delle più grandi figure di tutti i tempi, a di‐spetto della sua tendenza all’anormalità psichica, tendenza che egli ha in comune con molti altri leaders dell’umanità. Una certa “anormalità” è richiesta per strappare i pensieri e le esperienze emotive di un uomo dalla routine comune del pensiero e del sentire umano. Mentre l’individuo è senza dubbio più felice quando la sua personalità è perfettamente integrata, il motto tradizionale “mens sana in corpore sano” non è molto adatto al progresso, perché conduce piuttosto alla sta‐gnazione».7

* L. MONARI, Ezechiele, in MARCONCINI (a cura di), Profeti e Apocalittici, 157‐170. 1 Cf. W.S. LESOR, ISBE, II, 250. Secondo O.A. COOKE (op. cit., 6) nomi propri di questo tipo, formati da un imperfetto

che precede il nome divino El sono relativamente tardivi e molto rari. 2 Si nota, ad esempio, la frequenza di liste, enumerazioni, riferimenti al vocabolario della santità e dell’impurità, ai

problemi giuridici... 3 Ez 29,17: anno ventisettesimo. 4 È l’opinione di E.C. BROOME, Ezekiel’s Abnormal Personality, in JBL 65 (1946) 277‐292. 5 Così molti autori al seguito di A. KLOSTERMANN, Ezekiel: ein Beitrag zur besserer Würdigung seiner Person und seiner

Schrift, in ThStKr 50 (1877) 391‐439. 6 A. BÄNTSCH, Pathologische Züge in Israels Prophetentum, in ZWTh 50 (1908) 52‐81. 7 W.F. ALBRIGHT, From the Stone Age to Christianity, New York 21957, 325.

174 Il profeta Ezechiele e il suo libro

2. IL LIBRO

Il libro di Ezechiele offre al lettore una prima impressione di ordine perfetto, tanto più sorprenden‐te se lo si confronta con la relativa confusione di altri libri profetici. Non è un caso che quando già la critica letteraria aveva cominciato a sezionare Isaia, il libro di Ezechiele apparisse ancora un tutto coerente.8

2.1. Struttura complessiva

Cc. 1‐24: Oracoli di giudizio contro Giuda e Gerusalemme. Cc. 25‐32: Oracoli di giudizio contro le nazioni. Cc. 33‐48: Oracoli di salvezza per Israele.

Una struttura simile è riconoscibile anche in altri libri profetici, mai però con la stessa chiarezza e consistenza. Anche all’interno delle singole sezioni si può riconoscere un piano editoriale coerente. Il libro inizia con una grande visione inaugurale della gloria di Dio, visione alla quale si collega la vo‐cazione‐missione del profeta nei cc. 1–3. Segue la serie organizzata con cura degli oracoli contro Giuda e Gerusalemme. Troviamo anzitutto tre azioni simboliche chiaramente coordinate tra loro (cc. 4–5) perché rappresentano l’inizio di un assedio, la sua durata e la sua conclusione. Il significa‐to delle azioni è svelato in Ez 5,5: «Questa è Gerusalemme». Alle azioni simboliche nelle quali il giudizio è espresso come sotto un velo, seguono oracoli espliciti di giudizio «contro i monti d’Israele» (cc. 6–7);9 ciò che viene annunciato si riassume in una parofa inquietante: «la fine!» (7,2). Siamo ora in grado di seguire una seconda visione che porta il profeta a Gerusalemme (cc. 8–11). Qui assistiamo agli abomini che hanno invaso la città santa, anzi i recinti stessi del Tempio (c. 8); viene perciò annunciato (c. 9) ed eseguito (c. 10) il giudizio di distruzione, mentre la gloria di Dio abbandona il Tempio e la città (c. 11). La posizione del c. 12 è perfetta: dopo la visione del giudizio il profeta compie un’azione simbolica che annuncia la partenza per l’esilio. Tutto sarebbe pronto perché la visione diventi realtà; invece l’annuncio dell’esecuzione del giudizio giunge solo nel c. 24. I capitoli intermedi, dal punto di vista cronologico, abbracciano quattro an‐ni.10 Li possiamo interpretare come gli anni della pazienza di Dio. Dio non esegue subito le sue mi‐nacce; guarda invece se esse abbiano un effetto positivo sul popolo provocandone la conversione. Per il profeta sono anni di meditazione, nei quali la visione acquista un significato sempre più chia‐ro. Al centro stanno tre capitoli straordinari nei quali il profeta ripercorre la storia di Israele (cc. 16.20.23), vedendo in essa solo peccato e contaminazione: i profeti sono venuti meno al loro com‐pito (c. 13), i re hanno violato l’alleanza (c. 17), Gerusalemme si è mutata in scoria (c. 22). Né vale appellarsi alla solidarietà con singole persone o con le generazioni fedeli del passato (cc. 14.18); il popolo dovrà pagare per il suo peccato. Questo destino può venire descritto in modi diversi: con una allegoria‐enigma (c. 17) o un lamento (c. 19) o capovolgendo il senso di immagini tradizionali (c. 15). Nel c. 24 seguiamo la tragedia di Gerusalemme assistendo alla sofferenza personale del profeta che perde la moglie e deve rimanere muto.

2.2. Oracoli contro le nazioni e verso Israele

La parte centrale del libro (i cc. 25–32) contiene oracoli contro nazioni pagane (Ammon, Moab, Edom, Filistea, Tiro, Sidone, Egitto). Essi sono notevolmente diversi per contenuto e importanza ma è evidente l’intento di offrire una visione complessiva (sette nazioni!) del giudizio di Dio.

8 R. SMEND: «Tutto il libro è lo sviluppo logico di un corso di pensieri secondo un piano ben soppesato e in parte

schematico. Nessun pezzo potrebbe essere tolto senza disturbare tutto l’insieme» (Der Prophet Ezechiel [KeH], Leipzig 1880, xxi).

9 Cfr. G. DE CARLO, Il giudizio di Dio su tutto Israele (Ez 6–7), in Parole di Vita 58 (4/2013) 28‐33. 10 La visione di Ez 8–11 è datata al 592 a.C.

Il profeta Ezechiele e il suo libro 175

La terza parte, che contiene oracoli di salvezza, riprende per molti aspetti la prima. Il c. 33 presenta la funzione del profeta dopo la distruzione del Tempio; se all’inizio Ezechiele era stato soprattutto annunciatore di giudizio, ora egli sarà sentinella per impedire a Israele di ricadere sotto l’ira di Dio.11 Se nella prima parte (cc. 13.17) erano stati giudicati i pastori d’Israele (profeti, re), ora viene annunciato che Dio stesso si farà pastore del suo popolo (c. 34); al giudizio contro i monti d’Israele (c. 6) si contrappone ora il giudizio contro i monti di Edom (c. 35); alla storia negativa del passato (c. 16) si contrappone l’annuncio di una nuova storia che, per il dono dello Spirito, si presenta ricca di speranza (c. 36); alla visione che annunciava la morte del popolo di Dio corrisponde ora una vi‐sione (c. 37: la terza del libro) che descrive la risurrezione delle ossa aride; finalmente i cc. 38–39 annunciano l’intervento escatologico di Dio che opera il giudizio definitivo sul mondo. Un posto a parte spetta ai cc. 40–48, nei quali leggiamo un progetto per il futuro: il Tempio, Geru‐salemme, Israele vengono presentati secondo un sogno di rinnovamento culminante nel nuovo nome dato a Gerusalemme: «Il Signore è là». Anche in questa sezione sono presenti legami con la prima parte: la visione della gloria di Dio che rientra nel Tempio rinnovato (c. 43) è chiaramente la continuazione dei cc. 8–11.12

2.3. Le datazioni

I precedenti rilievi dimostrano che il libro è stato edito con estrema cura. Ne è conferma una serie di datazioni che permettono di collocare cronologicamente le varie fasi della predicazione del pro‐feta: g. m. a. 1,2 Visione inaugurale 5 4 5 31 luglio 593 8,1 Visione nel tempio 5 6 6 17 settembre 592 20,1 Messaggio agli anziani 10 5 7 14 agosto 591 24,1 Narrazione dell’assedio di Ger. 10 10 9 15 gennaio 588 26,1 Profezia contro Tiro 1 (1) 11 (23 aprile) 587 29,1 Profezia contro il Faraone 12 10 10 7 gennaio 587 29,17 Profezia contro l’Egitto 1 1 27 26 aprile 571 30,20 Profezia contro il Faraone 7 1 11 29 aprile 587 31,1 Profezia contro il Faraone 1 3 11 21 giugno 587 32,1 Lamentazione sul Faraone 1 12 12 3 marzo 585 33,21 Relazione della caduta di Gerus. 5 10 12 8 gennaio 585 40,1 Visione del tempio ricostruito 10 1 25 28 aprile 573

Il fatto che alcune date non rientrino in una corretta sequenza ha fatto discutere gli autori. O. Eissfeldt ritiene probabile che in origine si avessero due liste diverse, una che ordinava oracoli del profeta riguardanti Gerusalemme e Israele, l’altra che ordinava oracoli contro le nazioni.13 L’attività editoriale pare dunque aver lasciato segni evidenti nel libro. Ma si può attribuire questo lavoro a Ezechiele stesso? E quanto del materiale nella stesura attuale può risalire a lui?

11 R. RENDTORFF nota i legami del capitolo con la prima parte del libro: 33,1‐9 va collegato con 3,16‐21; 33,10‐20 col

c. 18; 33,21‐22 con 3,25‐27 e 24,25‐27; 33,23‐29 con 11,14‐21; 33,30‐33 con 2,3‐5 e 24,24 (Introduzione all’Antico Te‐stamento, Claudiana, Torino 1990, 281). In questo modo il capitolo assume un’importanza decisiva nella struttura del libro.

12 «La visione che io vidi era simile a quella che avevo visto quando andai per distruggere la città e simile a quella che avevo visto presso il canale Chebar» (Ez 43,3; cf. anche il v. 4 con 10,19).

13 Introduzione all’Antico Testamento. III: Analisi dei libri dell’Antico Testamento. 2, Paideia, Brescia 1982, 131 (orig. Tedesco 31964). Le altre alterazioni dell’ordine sono spiegabili facilmente col desiderio di mettere insieme tutti gli ora‐coli riguardanti l’Egitto (ivi).


3. LA CRITICA

Dalla fine del secolo XIX il libro di Ezechiele è stato oggetto di analisi puntigliose e talora spregiudi‐cate, le quali hanno condotto a diverse ipotesi. Tra i problemi che hanno occupato gli studiosi il primo riguarda il ministero di Ezechiele. Secondo i dati del libro, il profeta sarebbe stato deportato in Babilonia nel 597 e avrebbe ricevuto la vocazione cinque anni dopo. Ma questi dati non convin‐cono tutti. Non è difficile, infatti, rendersi conto che l’interesse di Ezechiele è centrato fin dall’inizio sugli eventi che riguardano Gerusalemme e il Tempio. È mai possibile che Ezechiele, vivendo in Ba‐bilonia, s’interessasse così tanto di Gerusalemme e così poco della sua situazione propria? Non è maggiormente verosimile che il profeta abbia iniziato il suo ministero in Palestina e sia giunto in Babilonia solo con la seconda deportazione? In tal caso la visione del rotolo (2,3–3,9) costituirebbe la prima vocazione di Ezechiele, da collocare in Palestina, mentre la grande visione della gloria di‐vina (1,4–2,2) sarebbe una seconda vocazione, ricevuta in Babilonia, che darebbe inizio a una fase del tutto nuova di predicazione. Nella redazione del libro questa seconda relazione sarebbe stata spostata all’inizio e unita all’altra in modo da costituire un unico grande racconto di vocazione. Questa ricostruzione degli avvenimenti, di A. Bertholet,14 ha avuto l’adesione, se pure con sfuma‐ture diverse, di S. Spiegel, P. Auvray,15 H.W. Robinson, C. Kuhl, J. Steinmann; tuttavia nella ricerca contemporanea questa opinione sembra perdere credito. Il secondo problema riguarda il rapporto tra il libro e la persona del profeta. Già L. Zunz (1873) e L. Seinecke (1884) ipotizzarono che il libro di Ezechiele sarebbe un testo pseudoepigrafico. Questa opinione è stata ampiamente elaborata da C.C. Torrey: il materiale che compone il nostro libro non risalirebbe a prima del 230 a.C. circa; esso sarebbe stato attribuito originariamente a un profeta dell’anno XXX di Manasse.16 Una revisione editoriale avrebbe in seguito spostato l’attribuzione (sempre fittizia, naturalmente) al profeta Ezechiele vissuto in esilio. L’opinione appare stravagante, eppure ha ottenuto consensi.17 Il terzo problema riguarda l’autenticità dei singoli testi. Supposto un nucleo originario, si tratta di definire l’ampiezza di questo nucleo. Ad es., G. Hoelscher18 attribuisce la creazione del libro in quanto tale a un redattore del V secolo a.C. Pochi passi risalirebbero a Ezechiele stesso, circa 170 versetti, quasi tutti in poesia. W.A. Irwin arriva ad assegnarne a Ezechiele 251, notando però che «la proporzione della loro originalità varia dalla genuinità completa a un resto striminzito di una parola o due».19 La ricerca contemporanea è più prudente: pur riconoscendo certamente aggiunte, anche notevoli, al testo, mantiene tuttavia l’essenziale riferimento del libro a Ezechiele. Così, il commentario di M. Greenberg20 che, dopo aver aspramente criticato la critica, sceglie di commen‐tare il testo masoretico così come si presenta.21

14 Nel suo commentario del 1936 (HAT), da distinguersi dal suo primo commento del 1897 (KHC). 15 Questi, nell’introduzione al volumetto Ezéchiel (La Sainte Bible, Paris 1957), dice che una tale soluzione non può

imporsi come necessaria e tuttavia «il serait imprudent de la rejeter a priori. Au moins à titre d’hypothèse elle pourra aider à mieux comprendre certains oracles» (ivi, 15s).

16 Così si spiegherebbe la misteriosa datazione di Ez 1,1; l’anno 30° di Manasse è il 666 a.C. 17 O. Eissfeldt elenca tra i sostenitori della pseudoepigrafia Messel (Ezekielfragen [SNVAO], 1945), Browne (Ezekiel

and Alexander,1952) e A. van den Bom. 18 Hezekiel. Der Dichter und das Buch (BZAW 39), Berlin 1924. È discutibile il criterio utilizzato dall’autore per di‐

scemere i testi originali: Ezechiele avrebbe prodotto unicamente testi poetici. 19 In VT 3 (1953) 64, nota. 20 M. GREENBERG, Ezekiel 1‐20 (AncB 22), New York 1983. 21 Si veda il cap. III dell’Introduzione: The Method of this Commentary: Holistic Interpretation, o.c., 18‐27. Ecco la

conclusione: «Le varie operazioni intraprese in questo commentario verificano l’ipotesi di lavoro secondo cui l’attuale libro di Ezechiele è il prodotto di un lavoro abile e di un disegno intelligente. I risultati ottenuti finora tendono a indica‐re che i dettagli di questo lavoro artistico e la struttura interna rivelatrice di questo disegno si schiudono a un lettore paziente e ricettivo che si svesta di preconcetti a proposito di ciò che un antico profeta dovrebbe aver detto e del mo‐do in cui dovrebbe averlo detto. È emerso un filo consistente di pensiero espresso in uno stile originale che dà l’impressione di una mente individuale di inclinazioni potenti e appassionate. La cronologia degli oracoli e le circostan‐


4. FORME LETTERARIE

Nel suo grande commentario W. Zimmerli analizza con attenzione il vocabolario, le formule, i gene‐ri letterari caratteristici del libro di Ezechiele. Prendiamo da lui alcune delle osservazioni più inte‐ressanti.22 Una prima caratteristica del libro è il discorso in prima persona (Ich‐Stil).23 Questo tratto stilistico «conferisce al libro di Ezechiele il carattere di una narrazione continuata su se stesso». Alcune formule ricorrono con maggior frequenza nel libro: – «(E tu) figlio dell’uomo»: è il modo caratteristico e costante con cui Dio si rivolge al profeta (cir‐

ca 100 volte); l’origine di questa formula va cercata nella contrapposizione «Dio‐uomo» che è propria della teologia profetica (già Is 31,3, ad esempio);

– la «formula del messaggero» («Così ha detto il Signore»), che introduce gli oracoli manifestando la consapevolezza del profeta di essere un mandato (cf. 2,4ss);

– la «formula di oracolo divino» (Gottesspruchformel), «oracolo del Signore», che si trova 85 vol‐te;

– la «formula di giuramento», 16 volte sulla bocca di YHWH;24 – l’espressione «eccomi contro» (hinnenî ’el/‘al), che introduce normalmente una minaccia: 14

volte in Ezechiele;25 – la formula di conclusione della parola di Dio: «Io, YHWH, ho parlato» (così o con piccole modifi‐

che): in tutto 14 volte; – particolare importanza va data alla «formula di riconoscimento» (Erkenntnisformel), che appare

caratteristica del libro di Ezechiele, alla quale Zimmerli ha dedicato uno studio attento.26 Altre espressioni caratteristiche di Ezechiele: «Signore YHWH»27 (più di 200 volte); «casa di ribellio‐ne»; «le terre» (in tutto 27 volte; questo plurale è raro negli scritti più antichi); «compiere il giudi‐zio»; «disperdere a ogni vento»; «(il mio) occhio non risparmierà»; «far riposare (= soddisfare) la mia ira su...»; «compiere la mia ira su...»; «poni la tua faccia verso/contro»; «i monti d’Israele»; «i corsi d’acqua»;28 «idoli»; «disperdere tra le terre»; «stendere la mia mano su...»; «riversare la mia ira su...»; «pietra d’inciampo (= causa) d’iniquità»; «principe»; «porre la via di una persona sul suo capo»;29 «disperdere tra le nazioni»; «portare la vergogna»; «disprezzare»; «essere santificato»; «nel tempo dell’iniquità della fine»; «il fuoco della mia indignazione».30 Sulla base di indizi letterari (le diverse date; la formula «mi fu rivolta la parola del Signore») lo Zimmerli giunge a identificare con chiarezza 52 unità letterarie,31 che ora esaminiamo dal punto di vista formale.

ze storiche che in essi si riflettono li assegnano a un ristretto lasso di tempo ben inferiore a quello di una singola vita. Man mano che un brano dopo l’altro entrano nelle strutture e nelle idee stabilite, ci si persuade sempre più che emer‐ge un mondo di concezioni coerente, contemporaneo al profeta del sec. VI e decisamente delineato da lui, se non le parole proprie di Ezechiele stesso» (ivi, 26s).

22 (BKAT XIII, 1), 31 *‐62*. 23 «L’unico testo che si oppone a questa affermazione (1,3) si fa riconoscere facilmente come soprascritta del libro

aggiunta in un secondo tempo» (ivi, 35*). 24 Due volte in Geremia; una volta sola in Isaia e Sofonia. 25 Sei volte in Geremia, due in Naum. È interessante notare che P. Humbert l’interpreta come «formula di sfida a un

duello»; von Rabenau è più cauto e parla semplicemente di «formula d’incontro». 26 «Un genere profetico: il detto dell’autodimostrazione divina (detto di dimostrazione)», in Rivelazione di Dio, 109‐

119. 27 Le traduzioni italiane rendono generalmente con «il Signore Dio» ma questo non corrisponde esattamente al te‐

sto originale: ’adonāy YHWH. 28 Spesso nominati insieme a montagne, colline e valli come designazione retorica di un paese. 29 Cioè «contraccambiare», restituire il male che qualcuno ha fatto. 30 Elenco completo delle ricorrenze in S.R. DRIVER, An Introduction to the Literature of the Old Testament, Edinburgh

91913, 297‐298. 31 Più precisamente 50 unità alle quali, però, vanno aggiunte 11,1‐13 e 11,14‐21; queste fanno ora parte della gran‐

de visione del tempio, ma appaiono chiaramente come unità a sé stanti.


a. Il primo genere caratteristico di Ezechiele è la visione. Non c’è dubbio che le quattro visioni (1,1–3,15; 8–11; 37,1‐14; 40–48) hanno un’importanza decisiva nella composizione. Esse sono introdot‐te con un vocabolario stereotipato che fa riferimento alla «mano di YHWH» e allo «spirito»: si tratta quindi di un’esperienza estatica che il profeta sperimenta come forza che s’impone su di lui e pren‐de possesso delle sue facoltà. Caratteristico di tutte le visioni è il movimento (3,14; 8,3; 37,1s; 40,1). Vi troviamo anche una figura umana che sembra rappresentare l’angelo interprete, quale ri‐troveremo nell’apocalittica; si noti, però, che Ezechiele deve comunicare agli esuli quello che vede, mentre nell’apocalittica il contenuto delle visioni deve rimanere segreto. b. Le azioni simboliche (dodici, secondo il computo di Fohrer).32 Colpisce il fatto che quasi sempre viene menzionato solo il comando di Dio e omessa invece l’esecuzione da parte del profeta, men‐tre nella forma tradizionale dell’azione simbolica l’accento è posto sull’esecuzione dell’azione stes‐sa. Se Ezechiele può dare tanta importanza all’ordine di eseguire l’azione, ciò significa che essa stessa costituisce l’inizio dell’azione divina: la comunicazione divina contiene già l’essenziale. Accanto alle azioni simboliche vanno collocate azioni che hanno valore espressivo, ossia gesti che non hanno una loro autonomia, ma accompagnano semplicemente le parole del profeta per dare ad esse maggior forza. Così, non solo Ezechiele profetizza contro i monti d’Israele, ma «volta la fac‐cia contro i monti d’Israele» per dare maggior peso alla profezia (6,2ss).33 Ezechiele batte le mani e pesta i piedi per terra manifestando in questo modo l’ira appassionata di Dio (cf. 6,11; 21,19.22). c. Discorsi metaforici. L’uso di immagini per trasmettere il messaggio profetico è del tutto tradizio‐nale. Caratteristica di Ezechiele è la coerenza con cui un’immagine viene sviluppata in quadri lunghi e complessi. Si veda, ad esempio, il c. 15, dove la sorte d’Israele è descritta attraverso l’immagine del legno di vite; oppure il c. 16, che si presenta come un discorso di accusa rivolto a Gerusalemme per i suoi tradimenti; Gerusalemme è personificata come un’orfana esposta al momento della na‐scita e sulla quale Dio solo si è chinato con affetto; all’amore premuroso di Dio, però, essa ha rispo‐sto con un’infedeltà arrogante. A partire dal v. 44 del c. 16 viene introdotto un tema nuovo: quello della madre e delle sorelle di Gerusalemme (Sodoma e Samaria); l’attenzione non è quindi ristretta al comportamento di Gerusalemme, ma si cerca di spiegare questo atteggiamento collocandolo in un contesto storico più ampio.34 Accanto al c. 16 va collocato il c. 23, la storia delle due sorelle Oola e Ooliba (ossia Israele e Giuda). Di solito per definire il genere letterario di questi due testi si parla di “allegoria”. Zimmerli preferisce parlare di “personificazione”, che spiega appellandosi al tema della “personali‐tà corporativa”.35 L’allegoria è presente invece nel c. 17, che utilizza elementi sapienziali della favola: dietro le figure di animali si nascondono i re delle grandi potenze rivali (Babilonia, Egitto); dietro alle figure di pian‐te, i due re di Giuda: Ioiachin e Sedecìa. In realtà il capitolo usa anche il termine «enigma», proprio del linguaggio sapienziale. Sempre tra i discorsi figurati va collocato il c. 19, una lamentazione sul morto (qînāh) nella quale vengono usate figure proprie della favola sapienziale.36 Interessante il contrasto «un tempo» – «ora», che serve ottimamente a presentare l’inizio della disgrazia. Questa forma letteraria è usata anche altrove: c. 27 (lamento su Tiro rappresentato sotto forma di una stupenda nave che fa nau‐fragio); 28,11‐19 (sul re di Tiro; originale in questo testo è l’uso di un materiale mitologico antico: il tema del primo uomo cacciato dal paradiso di Dio); ancora: 26,17s; 27,32ss; 32,2‐16.

32 Si tratta di Ez 3,16a + 4,1‐3; 3,4‐8; 3,9‐17; 5,1‐17; 12,1‐11; 12,17‐20; 21,11‐12; 21,23‐29; 24,1‐14; 24,15‐24; 3,22‐

27 + 24,25‐27 + 33,21‐22; 37,15‐28: cf. G. FOHRER, Die symbolischen Handlungen der Propheten (AThANT 25), Zürich 1953, 35‐47.

33 Cf. 21,2; 25,2; 28,21; 35,2 (contro luoghi geografici); 13,17; 29,2 (contro persone). 34 Zimmerli collega questo tipo di estensione del tema a un lavoro di scuola (Ezechiel 1, 46*). 35 Op. cit., 46*. 36 Si narra di una leonessa e due suoi cuccioli (favole di animali), poi di una vite (favole di piante).


Nel c. 32 il profeta è invitato a intonare una lamentazione. Con ripetizioni ossessive si descrive la discesa agli inferi dei potenti: Assur, Elam, Mesech, Tubai, Edom (32,17‐32). Viene così capovolta la prospettiva epica: i grandi popoli, gli eserciti che incutevano paura marciano impotenti verso la morte. Troviamo lo stesso tema in 26,19‐21; 28,1‐10; 31,14‐18: il giudizio sulle grandi nazioni stra‐niere termina, quando è possibile, col motivo della discesa agli inferi. Si veda anche Ez 31 dove l’Egitto è paragonato a un cedro.37 d. È pure frequente, nel libro di Ezechiele, il ricorso all’ambito del diritto. In 22,1‐16 troviamo una lista di proposizioni apodittiche; nel c. 18 una serie di comandamenti propri del diritto sacro che derivano dalla liturgia della porta; lo stile è quello casuistico, preciso e pedante. Altri testi dello stesso genere: 14,1‐11; 33,1‐9; 33,14‐15; 3,17‐21. e. Altra forma caratteristica del libro di Ezechiele è la disputa (Disputationswort – Streitgespräch). Saltano agli occhi citazioni delle parole del popolo (spesso lamenti),38 alle quali il profeta risponde con un suo oracolo, spesso sotto forma di un giuramento appassionato (ḥay‐’anî).39 Il profeta non è chiuso in un circolo ristretto e isolato di discepoli, ma attento a tutto ciò che si dice attorno a lui, sia da parte degli esuli che da parte dei rimasti in Palestina e da parte delle nazioni. «Le dispute conferiscono una sensibile vivacità alla parola del profeta, che, in quanto parola di Dio, ha subito una decisa e continua stilizzazione. Questa forma di discorso garantisce che nel messaggio profeti‐co non si tratta solo di un maestoso monologo divino, ma del verificarsi di un vero incontro coi membri del popolo d’Israele ai quali il profeta è mandato».40 f. La “parola di autodimostrazione” – frequente nel libro di Ezechiele – serve a chiarire che «scopo di tutti questi incontri di YHWH col suo popolo non può essere altro che l’autodimostrazione del Si‐gnore d’Israele di fronte al suo popolo e inoltre di fronte al grande mondo delle nazioni».41 La for‐mula si compone di due elementi: un elemento verbale («così conoscerai che...») e una proposi‐zione oggettiva («che io sono YHWH»), La prima parte della formula deriva dall’ambito della dimo‐strazione giudiziaria, nel corso della quale può venire richiesto un segno di credibilità.42 La seconda parte è invece una formula di autopresentazione quale si trova, ad esempio, nel prologo del deca‐logo. «Nella formula combinata si tratterà... del riconoscimento di questo “IO” che si presenta così nella sua libertà».43 Nel libro di Ezechiele la formula si trova complessivamente 72 volte.44 Non è difficile intuirne l’importanza teologica: attraverso di essa viene assegnato un intento preciso a tut‐to l’intervento di Dio nella storia del suo popolo e a tutto l’impegno del profeta nell’annuncio della parola. Scopo di tutto è il riconoscimento (la «conoscenza» secondo il suo valore biblico) di quel Dio che si manifesta nella libera sovranità della sua persona.

5. IL MESSAGGIO

Il problema fondamentale posto dall’interpretazione del libro di Ezechiele si riassume in una coppia di termini: sacerdote‐profeta. L’accostamento delle due esperienze (già sottolineato da Cooke) po‐ne un interrogativo: fino a che punto la personalità e il messaggio di Ezechiele sono determinati dalla sua origine sacerdotale? e fino a che punto la chiamata profetica gli ha aperto prospettive nuove? Ha ragione O. Procksch45 quando afferma che in Ezechiele il sacerdote oscura del tutto il

37 Il testo ricorre ancora a temi mitologici: il Faraone è paragonato al possente «albero del mondo» le cui radici rag‐

giungono le profondità del mare primordiale. 38 11,3.15; 12,22.27; 18,2; 20,32; 25,3; 26,2; 28,2; 29,3.9; 33,10.24; 36,2.13; 37,11. 39 18,3; 20,33; 33,11; 35,11. 40 W. ZIMMERLI, Ezechiel 1, 55*. 41 Ivi, 55*‐56*. 42 Un esempio significativo è Gen 42,34. 43 W. ZIMMERLI, op. cit., 57*. 44 54 volte nella forma pura; altre 18 volte con ampliamenti. Per tutto il problema cf. W. ZIMMERLI, Un genere profe‐

tico: il detto dell’autodimostrazione divina (detto di dimostrazione), in ID., Rivelazione di Dio, 109‐119. 45 Theologie des Alten Testaments, Gütersloh 1950, 305ss.


profeta? La tensione tra i due termini è facilmente definibile: il sacerdote è tale per nascita e s’innesta in una lunga tradizione della quale diventa custode e interprete; è l’uomo della legge e del culto, uomo della fedeltà al passato e ai suoi ordinamenti sacri. Profeti, invece, si diventa per vocazione: il profeta riceve una parola nuova del Signore, la quale interpreta il presente e lo dirige verso il compimento di un progetto di Dio; la fedeltà del profeta consiste nel porre davanti all’uomo le esigenze attuali di Dio e nel chiedere una risposta positiva a queste esigenze.

5.1. L’origine sacerdotale

All’origine sacerdotale Ezechiele deve anzitutto il suo patrimonio culturale: egli conosce molto be‐ne le tradizioni di Israele, ha un interesse notevolissimo per la sua storia passata ed è in grado di interpretarla di nuovo con grande sicurezza. Ezechiele mostra di conoscere bene anche tradizioni non israelite, comprese quelle mitologiche.46 Anche il modo di esprimersi di Ezechiele risente dell’influsso della cultura sacerdotale: esattezza nelle affermazioni, predilezione per gli elenchi e le ripetizioni, esame di “casi” giuridici (cf. 14,12‐23; 18,5‐18; 32,17‐32; ...). Il temperamento stesso del profeta può sembrare plasmato o perlome‐no influenzato dall’ambiente sacerdotale: Ezechiele appare freddo, duro come la selce (3,9), appa‐rentemente insensibile, soprattutto se lo si confronta con una persona passionale come Geremia. Infine dobbiamo notare la presenza in Ezechiele di temi della teologia sacerdotale. Si pensi alla ri‐velazione della «gloria di YHWH», all’accento posto sulla trascendenza di Dio, al richiamo frequente alla sua santità. Il fatto che Ezechiele vede il peccato anzitutto come una “profanazione” sembra derivare dall’interesse tipicamente sacerdotale verso il sacro. Mentre per Amos il peccato è l’ingiustizia sociale, per Osea l’infedeltà religiosa, per Isaia l’orgoglio e l’autosufficienza, per Eze‐chiele esso è soprattutto la profanazione di ciò che dovrebbe essere santo.47 Dunque l’origine sacerdotale ha segnato Ezechiele e il suo messaggio. Non è errato perciò vedere in lui – per certi aspetti – il “padre del Giudaismo”, cioè di quell’ordinamento che, dopo l’esilio, rac‐coglie Israele attorno al sacerdozio e alla legge. Ma occorre sottolineare anche l’altra faccia della medaglia: Ezechiele è pienamente entrato nella logica del profeta. La visione della gloria di Dio in Babilonia ha segnato una frattura importante nel‐la sua vita. «Secondo la visione tradizionale, Dio e la sua terra sono strettamente legati e perciò Dio può essere servito e adorato solo nella sua terra; nonostante ciò, Ezechiele impara che la presenza di Dio non è ristretta a un solo luogo, che il credente la può sperimentare dovunque gli accada di vivere. Questo rappresenta una frattura fondamentale con la tradizione. Non è più vero che l’incontro con Dio e la vera vita sono possibili in patria, mentre abitare in una terra straniera è co‐me morte; ora la vita e la morte abitano entrambe nella condotta interna ed esterna dell’uomo, ovunque egli possa abitare e in tutte le circostanze in cui egli viva».48

5.2. Originalità del profeta

Come tutti i profeti, Ezechiele annuncia il giudizio di Dio; ma presso di lui il giudizio di Dio assume i lineamenti della fine di un’epoca: il santuario, la città santa, la terra santa... tutto appare nella sua radicale impurità e nella conseguente irricuperabilità. Nei tragici cc. 8–11 veniamo guidati per ma‐

46 «Oltre a materiale cananeo e fenicio (16; 23; 28; 29,lss), Ezechiele fa uso particolarmente di materiale, immagini,

pratiche cultuali mesopotamiche (1,1‐3,9; 9,lss; 14,21; 16,23‐24; 17,3‐4; 21,26‐27; 28; 29; 31; 32; 34; 44,1‐3; 47). Oltre a questo egli si basa frequentemente su materiale popolare antico per concetti, narrazioni, canzoni e poemi (14,12ss; 16; 17; 19; 21,13ss; 23; 26,19‐21; 28; 31; 32,17‐32)» (E. SELLIN – G. FOHRER, Introduction to the Old Testament, New York 1968, 416).

47 Cf. già in Geremia: «Voi avete contaminato la mia terra e avete reso il mio possesso un abominio» (Ger 2,7). Quello che in Geremia è un tema teologico, in Ezechiele diventa il tema centrale attorno al quale ruota tutto il resto; cfr. G. DE CARLO, «Santificherò il mio Nome da voi profanato fra le nazioni» (Ez 36), in Parola Spirito e Vita 73 (2016) 85‐102.

48 E. SELLIN – G. FOHRER, op. cit., 417.


no nello spazio sacro d’Israele fino al cuore del Tempio, ove troviamo l’idolatria che ha contamina‐to il luogo stesso in cui abita Dio, il Santo. Il peccato non contamina solo lo spazio geografico del sacro; ha contaminato anche il tempo della storia d’Israele. Questa dovrebbe essere storia della salvezza, iniziata dall’opera redentrice di Dio. Ezechiele invece la rilegge come storia di peccato fin dalle sue origini. Se Osea o Geremia pensava‐no con nostalgia agli inizi d’Israele come a una luna di miele, per Ezechiele un periodo di fedeltà d’Israele non c’è mai stato. Le grandi sintesi storiche dei cc. 16.20 e 23 non lasciano dubbio: non nel passato può nascondersi un germe di speranza, ma solo in un intervento futuro di Dio che rin‐novi profondamente il suo popolo e crei qualcosa di diverso. La visione delle ossa aride (c. 37) esprime l’originale fisionomia della speranza di Ezechiele. La po‐tenza di Dio non è limitata nemmeno dalla radicale peccaminosità dell’uomo. Per questo il libro di Ezechiele contiene alcuni stupendi oracoli di salvezza che prefigurano un Israele del tutto nuovo, creato dal nulla dalla potenza e dalla misericordia di Dio, dalla Parola e dallo Spirito (cf. 36,16ss). L’importanza dell’opera di Ezechiele è difficilmente sopravvalutabile: «Proprio nel tempo in cui Israele andava verso la sua rovina finale, venivano alla luce gl’inizi di una comunità in Babilonia sot‐to l’influsso della predicazione del profeta. Qui l’appello che Ezechiele pronunciò come sentinella su Israele, esortando e ammonendo, fu trasformato nell’azione profetica corrispondente... Il mes‐saggio stimolante del profeta poteva dare origine a nuove prospettive di vita. Senza dubbio questo sviluppo ebbe luogo prima di tutto nella casa stessa del profeta dove si radunavano gli anziani... e altri membri della colonia in Babilonia... Incominciò a sorgere un movimento nel quale la speranza profetica divenne una scintilla che fece nascere nuove attese e risoluzioni. Tra questa gente Eze‐chiele giunse a essere riconosciuto sempre più come un maestro mandato da Dio».49 Il sogno di un mondo nuovo attorno a una nuova Gerusalemme prende corpo negli ultimi capitoli del libro (40‐48). È probabile che il testo attuale abbia subito numerose aggiunte da parte della “scuola” di Ezechiele; ma il messaggio che proviene da questi capitoli rimane straordinariamente vivo: la gloria di Dio ritorna nel Tempio e questa volta «per sempre». L’espressione era stata usata in 37,25‐27 e rappresenta un contributo importante alla speranza di una nuova ed eterna alleanza che culmini nel riconoscimento gioioso del nuovo nome della città di Dio: YHWH šammāh, «Il Signo‐re è là» (48,35).

5.3. Il libro di Ezechiele e il Nuovo Testamento

Uno dei titoli più caratteristici con cui Gesù si è designato è quello di «figlio dell’uomo». È vero che questo titolo si spiega probabilmente col riferimento a Dn 7; ma è pure vero che spesso Gesù usa questa espressione per indicare la sua condizione di umanità fragile e debole: «Il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). In questo senso il parallelo più vicino è la designazione usuale del profeta nel nostro libro: «E tu, figlio dell’uomo...» (Ez 2,8 e passim), con la quale Eze‐chiele esprimeva il senso della sua piccolezza di uomo davanti alla sovranità potente di Dio. Non è difficile vedere nell’espressione di Gesù il senso vivo della sua solidarietà con gli uomini: proprio perché è figlio dell’uomo può sentire «giusta compassione» per noi: «Egli doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele» (Eb 2,17). Non è difficile scorgere nella missione di Ezechiele un segno di quella infinita misericordia di Dio che Gesù rivelerà. Ezechiele ha annunciato che «Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva» (Ez 33,11); la sua missione ha come scopo quello di rendere efficace questa volon‐tà di salvezza. La missione di Gesù, il buon pastore che va in cerca della pecora smarrita, si può col‐locare nel prolungamento della missione profetica di Ezechiele. Sotto questo profilo si possono ac‐costare il c. 34 di Ezechiele (sui pastori d’Israele e su Dio che viene a pascere il suo popolo) e Gv 10 (su Gesù come buon pastore); benché il vangelo superi immensamente il profeta: Ezechiele non giunse ad annunciare che il pastore avrebbe donato la vita per le sue pecore.

49 W. EICHRODT, Der Prophet Ezekiel (ATD 22/1‐2), Göttingen 1965‐1966 (trad. ingl., 1970, pp. 40‐41).


Nell’Apocalisse la successione degli eventi finali (Ap 20–22) corrisponde alla sequenza di Ez 37–48.50 «Come Ezechiele in 40,2, Giovanni in Ap 21,10 fu “trasportato su di un monte grande e alto” dove egli vide “la città santa, Gerusalemme”, ma con una notevole differenza: Ezechiele vide in es‐sa il nuovo tempio (Ez 40–47), mentre la “nuova Gerusalemme” di Giovanni non aveva tempio “perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio” (Ap 21,22). Sotto questo aspetto, comunque, la “città santa” di Giovanni è esattamente come la futura capitale d’Israele, la città dove regna il “principe” (Ez 45,7; 48,15‐22). Se pure essa non avrà tempio, sarà però chiamata YHWH šammāh, “Il Signore è là” (48,30‐35). Come questa futura capitale, la nuova Gerusalemme dell’Apocalisse sarà quadrata (Ap 21,16) e avrà dodici porte coi nomi delle dodici tribù d’Israele (v. 12)».51

6. LETTURA DI TESTI SCELTI

6.1. La visione della gloria del Signore (Ez 1,1‐28)*

Con due notazioni precise, una storica («nell’anno trentesimo, nel quarto mese, il cinque del me‐se», Ez 1,1a), e una geografica («sulle rive del fiume Chebar», Ez 1,1b), inizia il libro del profeta Ezechiele. Da subito comprendiamo che in questo libro troveremo non una teoria astratta, ma una parola di Dio diretta a un popolo che vive in un territorio concreto e in un momento determinato della sua storia. Si tratta di un gruppo di giudei deportati dal re Nabucodonosor, formato dalla casa reale con il giovane re Ioiachìn, dai notabili e dagli artigiani di Gerusalemme. Vivono da cinque anni, dal 597 a.C., sulle sponde del fiume Chebar, un affluente dell’Eufrate in Babilonia, lontano dalla patria. So‐no senza terra, senza tempio, senza possibilità concrete di comunicare con i parenti e gli amici. Si stanno forse domandando: siamo ancora dei veri ebrei? Ritorneremo ancora in patria? A Gerusa‐lemme rimaneva per il momento il tempio e il re, ma soprattutto un profeta, Geremia, il quale sa‐peva interpretare i fatti che stavano per accadere. Ma lì, in Babilonia, nessuno aveva una parola il‐luminante. I deportati si sentivano un gregge senza pastore, abbandonati da tutti.

6.1.1. La parola del Signore

Ma proprio nella terra del loro esilio e nel momento del massimo scoraggiamento, si aprono i cieli e la parola di Dio scende come un fuoco divorante su un piccolo uomo tra i deportati: è un sacer‐dote, Ezechiele, figlio di Buzi. Solo lui ha visto cose che occhio non vide e ascoltò parole che orec‐chio mai udì. Solo lui quindi potrà tentare di rivelare il suo incontro con il Dio d’Israele. E quando egli incomincia a raccontare ciò che ha visto e ciò che ha udito dall’alto, il cuore dei de‐portati si apre subito alla speranza. Proprio in quell’anno 593 a.C. si compiva, secondo il Targum, il trentesimo anno dalla grande celebrazione dell’alleanza ordinata dal re Giosia, in seguito al ritro‐vamento del libro della Torah, un’alleanza non rispettata dal popolo, il quale perciò si trova in esi‐lio. Certamente essi pensavano: se il Signore ci parla fuori dalla nostra terra santa, vuol dire che pure qui possiamo rispondere a lui e compiere un culto spirituale facendo la sua volontà, accettan‐do la nostra situazione finché egli vorrà. La parola di Dio ha il potere di cambiare le sorti dei depor‐tati. Ne è una conferma l’ultima data registrata nel libro al c. 40,1, data che secondo alcuni studiosi deve essere interpretata alla luce dell’anno giubilare: «Nell’anno venticinquesimo della nostra de‐portazione». L’irruzione della parola di Dio tra i deportati, mette dentro la comunità un germe di speranza che si concretizzerà con l’anno del deror («liberazione») (cf. Lv 25,10).

50 Lo mostra chiaramente J. LUST, The Order and Final Events in Revelation and in Ezekiel, in L’Apocalypse johannique

et l’Apocalyptique dans le Nouveau Testament (BEThL 53), Leuven 1980, 179‐183. 51 W.H. BROWNLEE, ISBE, II, 261. * T. LORENZIN, La visione della gloria del Signore, in Parole di Vita 58 (4/2013) 16‐21.


6.1.2. Il sacerdote Ezechiele

Il profeta appartiene a una famiglia sacerdotale: è figlio di Buzi, sacerdote (1,3). È naturale che an‐che tra i deportati egli, con gli altri suoi colleghi, fosse un punto di riferimento nella cura della vita religiosa. Suo compito era quello di insegnare la Torah, in particolare le leggi del puro e dell’impuro, diventate ancora più difficili fuori della terra santa. Ma non bastavano le parole del passato per sostenere il popolo. Dio dona a un uomo scrupoloso come Ezechiele, che ha l’orrore per le impurità legali, una parola nuova capace di interpretare i nuovi tempi. Riesce a mettere nel suo linguaggio liturgico uno spirito che risveglia la vita in una terra di morte.

6.1.3. «Si aprirono i cieli ed ebbi visioni divine»

Solo lui vede aprirsi i cieli e può scorgere qualcosa del mistero di Dio. Si realizza in Ezechiele il desi‐derio espresso nel libro di Isaia: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (Is 63,19b). Il cielo sopra la testa dei deportati da alcuni anni è chiuso. La loro vita scorre monotona priva di vera speranza: «Siamo diventati da tempo gente su cui non comandi più, su cui il tuo nome non è stato mai invo‐cato» (Is 63,19a). In una tale situazione, ognuno tenta di salvarsi come può, ma la morte continua ad accerchiarlo consumandone la carne, e il popolo diventa un ammasso di ossa aride (cf. Ez 37). Ezechiele da quel momento diventa un’antenna lanciata verso il cielo che può ascoltare parole fi‐nora mai ascoltate dal mondo di Dio. Per ora sente solo un rumore assordante. Ma dal cielo aperto Ezechiele vede soprattutto avvicinarsi a lui una luce vertiginosa e travolgente: è la gloria di YHWH. Durante il cammino nel deserto dell’antico popolo, Mosè aveva implorato il Signore di mostragli la sua gloria e il Signore rispose alle sue insistenze: «Farò passare davanti a te tutta la mia bontà [...]. Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,19‐20). E Mosè vedrà il Signore solo di spalle. Nella tradizione ebraica, le spalle di Dio sono simbolo della sua misericordia. Ezechiele vede la gloria del Signore rischiando la vita. La sua esperienza di‐venta una fonte di speranza per tutta la sua comunità. Dio si conferma come l’Emanuele, il Dio con noi. Ezechiele può scorgere attraverso i cieli qualcosa del mistero di Dio. La sua esperienza diventa una fonte di speranza per tutta la sua comunità.

6.1.4. «Fu sopra di lui la mano del Signore»

Non solo Ezechiele ha potuto ascoltare la parola del Signore, ma ha anche sentito poggiarsi sulla sua testa la mano del Signore (Ez 1,3). È una mano che spinge il profeta all’azione e all’annuncio come aveva spinto Geremia («spinto dalla tua mano sedevo solitario», Ger 15,17). È una mano che accompagna il profeta nel suo cammino come fu. per Isaia: «Mi aveva preso per mano e mi aveva proibito di camminare per la via di questo popolo» (Is 8,11). Il profeta si sente attratto e accompa‐gnato dal suo Signore in una missione molto impegnativa. La mano però dà forza anche alla parola. Questa non può essere udita da chi si trova con le orecchie tappate. In tal caso è necessario il se‐gno della mano per attirare l’attenzione. I segni del Signore aprono all’ascolto della parola e la con‐fermano.

6.1.5. Il «turbinio di fuoco»

Mosè nel deserto si trovò improvvisamente davanti a un roveto che bruciava e non si consumava (Es 3,1‐6). La stessa meraviglia coglie Ezechiele di fronte alla visione del fuoco. Egli ascolta le parole di Dio in mezzo al fuoco. Anzi, le parole di Dio stesse sono come lava incandescente che si riversa su di lui. Un’esperienza analoga l’aveva fatta anche Geremia: «Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa, mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (Ger 20,9b). La pa‐rola del Signore non lascia indifferenti: purifica e trasforma chi viene in contatto con essa.


6.1.6. «Ecco un vento tempestoso avanzare dal settentrione: una grande nube»

Durante il cammino dell’esodo, la grande nube indicava la presenza misteriosa di Dio, che si lascia‐va intravedere e allo stesso tempo in essa si nascondeva. Quando Dio strinse l’alleanza con Mosè e il popolo, si dice che «vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno» (Es 19,16). È la stessa nube divina che protesse Davide nella sua battaglia contro i Filistei: «Abbassò i cieli e discese, una nube oscura sotto i suoi piedi» (2Sam 22,10). E una nube che viene da Safon, da settentrione. Nel Sal 48,4 si dice che il monte Sion è la vetta del Safon, capitale del Gran Re. Sion viene cantata come il centro di tutta la terra, nel cuore del Nord. E la sommità del Sa‐fon, la montagna cananea da dove Baal rallegrava il mondo donando la pioggia. Sion non è localiz‐zata in Giudea ma sulla vetta di questa montagna, vertice del cielo, dalla quale il Signore ha spode‐stato le divinità cananee. Egli agisce nella storia di tutti i re della terra. Dio è solidale con il popolo che si trova a Gerusalemme, ma ora anche con il popolo lontano in esilio. Egli viene con potere. E lui il vero gran re, non il sovrano di Babilonia. Il Signore viene da Sion a riprendersi il suo popolo di‐sperso dai nemici.

6.1.7. I quattro esseri viventi

«Al centro, una figura composta di quattro esseri animati, di sembianza umana» (Ez 1,5).

Ezechiele sta guardando verso il cielo dal quale sta scendendo qualcosa di splendente e misterioso, e comincia a descriverla come può, partendo dal basso. Si tratta di quattro esseri che portano un trono gestatorio. Il Sal 104,3 canta: «Fai delle nubi il tuo carro, cammini sulle ali del vento». Sono i quattro venti cosmici che trasportano Dio. I portatori visti da Ezechiele hanno forma umana alata. Nel testo che leggiamo però, questi portatori sono trasformati dalla continua meditazione dei di‐scepoli di Ezechiele in esseri fantastici. Essi sono identificati con i cherubini di cui parla Ez 10. A immagine dei cherubini mitologici che custodivano le porte dei templi orientali, hanno volto d’uomo, ali di aquila, corpo di leone, zampe di toro. E poiché si dice che i quattro esseri avanzano nelle quattro direzioni, i discepoli specificano che ciascun cherubino ha quattro volti, che gli per‐mettono di camminare sempre di fronte. Nel mondo mesopotamico il numero quattro era un segno di universalità. I quattro esseri viventi possono indicare i quattro punti cardinali, quindi rappresentano la signoria mondiale di colui che siede in trono su di loro, signoria espressa anche dalle quattro facce e quattro ali.

6.1.8. Le quattro ruote del trono

Per Ezechiele, Dio non si muove solo in alto sulle nuvole nei cieli che gli impediscono di vedere i problemi dell’uomo sulla terra, come si lamentava Giobbe: «Le nubi gli fanno velo e non vede quando passeggia sulla volta dei cieli» (Gb 22,14). Il suo trono scende anche qui sulla terra ed è munito di ruote sofisticate che gli permettono di muoversi in direzione dei quattro punti cardinali senza bisogno di girarsi. I movimenti dei quattro portatori erano sincronizzati con quelli delle ruote perché lo spirito degli esseri viventi era nelle ruote: «Dovunque lo spirito le avesse sospinte, le ruo‐te andavano e ugualmente si alzavano, perché lo spirito degli esseri viventi era nelle ruote» (Ez 1,20). Ezechiele sta annunciando la novità della fede d’Israele. Non è l’uomo che deve con i suoi sforzi salire sulla vetta di una montagna sacra dove Dio ha il suo tempio santo a chiedergli miseri‐cordia e aiuto. E Dio stesso che si muove e cammina vicino a lui e con lui, per trasformagli la vita e donargli la pace.

6.1.9. La figura dalle sembianze umane

«Sopra il firmamento che era sulle loro teste degli esseri viventi apparve qualcosa come una pietra di zaf‐firo in forma di trono e su questa specie di trono, in alto, una figura dalle sembianze umane. Da ciò che sembravano i suoi fianchi in su, mi apparve splendido come metallo incandescente e, dai suoi fianchi in giù, mi apparve come di fuoco. Era circondato da uno splendore simile a quello dell’arcobaleno fra le nu‐bi in un giorno di pioggia» (Ez 1,26‐28a).


Non è stato facile per Ezechiele descrivere ciò che ha visto scendere dal cielo e ancora più difficile è stato per i suoi discepoli spiegare la sua visione. Anche san Paolo rapito in cielo udì parole indicibili (cf. 2Cor 12,4). Il profeta perciò usa spesso la parola «sembianze», quasi volesse dire che cercherà di esprimere qualcosa che ha visto, ma che non era proprio così. Afferma di aver contemplato una figura dalle sembianze umane, cioè qualche cosa che può essere descritta solo in modo approssimativo in forme (demùt), colori umani. In Gen 1,26 si dice che Dio volle creare l’uomo a sua immagine e somiglianza (demùt), una copia conforme all’originale, ma non coincidente in tutto e per tutto. Anche se è difficile capire come Dio assomigli all’uomo, una cosa mi sembra aveva intuito Ezechiele: Dio gli stava davanti e poteva ascoltarlo co‐me un uomo ascolta un altro uomo, faccia a faccia. La figura misteriosa stava sopra una specie di trono che assomigliava a una pietra di zaffiro. Per il profeta quello era la stessa pietra di zaffiro che Mosè vide sotto i piedi di YHWH durante la conclusione dell’alleanza sul Sinai: «Essi videro il Dio d’Israele: sotto i suoi piedi vi era come un pavimento in lastre di zaffiro, limpido come il cielo» (Es 24,10). L’alleanza del Sinai era stata violata dal popolo, che perciò si trovava ora in esilio, ma questa nuova visione in Babilonia non voleva forse far capire al profeta e alla sua comunità che Dio voleva riprendere in modo nuovo le relazioni con il popolo? Un segno ancora più chiaro che annunciava una nuova e indefettibile alleanza era lo splendido arcobaleno che circondava la figura dalle sem‐bianze umana. Il Signore stava per fare delle promesse che sarebbero state incise nel cielo e sareb‐bero state certamente parole di pace come quelle dette a Noè: «L’arco sarà sulle nubi e io lo guar‐derò per ricordare l’alleanza eterna» (Gen 9,16).

6.1.10. La gloria del Signore

«Così percepii in visione la gloria del Signore. Quando la vidi, caddi con la faccia a terra e udii la voce di uno che parlava» (Ez 1,28b).

Ezechiele percepisce che tutta quella visione che si stava avvicinando a lui non era altro che la glo‐ria (kebôd) del Signore. Il temine ebraico significa «peso», «gravità», «importanza». Indica magnifi‐cenza e autorità. Esso si applica soprattutto a Dio che è la suprema autorità. E usato nelle religioni del vicino Oriente antico per indicare la maestà, la potenza, la trascendenza della divinità. Ezechie‐le usa questa parola come la usavano i suoi fratelli sacerdoti quando ricordavano le tradizioni stori‐che e le leggi date a Israele. Il kebôd, immaginato come fuoco splendente avvolto di una nube, è in relazione con il santuario mobile del deserto dove il Signore si fa presente quando vuole incontrare Mosè, e con il tempio di Gerusalemme dove invece il Signore stabilisce la sua dimora permanente. Il fatto che la gloria divina ora si allontani dal tempio di Gerusalemme per recarsi a Babilonia è sor‐prendente e sta a indicare una volontà di Dio di mettere in moto un nuovo esodo in favore del suo popolo ritornato schiavo. YHWH regge l’universo e non è costretto da qualsiasi limitazione terrena. In apparenza sembra il dio Marduk ad avere la signoria sul popolo dei deportati. La visione della gloria convince Ezechiele e in seguito, mediante lui, il popolo, che il vero signore del mondo è ancora YHWH. Una conferma di questa volontà di signoria divina è quando il piccolo uomo prostrato davanti alla visione di fuoco può ascoltare la voce del Signore.

6.1.11. Chi è Dio per Ezechiele?

È un fuoco irresistibile che brucia e non si consuma e mette in movimento per strade nuove un sa‐cerdote abituato alle tradizioni del passato. È il trascendente che non rimane, però, seduto sopra le nuvole su un trono di gloria, ma vuole incontrare il suo popolo in esilio, abbandonato da tutti. È un Dio che sale ancora una volta su un carro,52 come un tempo sopra l’arca santa, per guidare i depor‐tati verso la terra promessa.

52 Nella tradizione rabbinica (cf. Mishnah Hagigah 2,1), il primo capitolo di Ezechiele veniva chiamato Ma’aseh mer‐

kavah. Con tale termine si designava il complesso di speculazioni, omelie e visioni connesse con il trono di gloria e il carro (merkavah) che lo trasportava e anche tutto il mondo divino. Il termine non appare in Ezechiele e deriva da 1 Cr 28,18; nel senso di misticismo si trova usato per la prima volta in Sir 49,8: «Ezechiele contemplò una visione di gloria,


6.2. La sentinella muta. Vocazione e missione del profeta (Ez 2,1‐3,27)*

Il racconto della vocazione di Ezechiele è uno dei più suggestivi tra quelli che introducono e legit‐timano la missione dei profeti, specialmente per la grandiosa visione che lo apre (Ez 1). Gli occhi del profeta sono rapiti dalla complessità delle forme e dei colori che gli appare dinanzi e la sua mente assorbita a decodificare i simboli che veicolano la parola di Dio a lui rivolta.

6.2.1. Vedere, ascoltare, mangiare

Lo splendido e inquietante film in 3D di Ez 1 – non potrebbe essere altrimenti, considerando che gli «esseri animati» avanzano simultaneamente: «Dritto davanti a sé, senza voltarsi indietro»! (1,9) – non è che la prima parte del racconto di vocazione, che si sviluppa nei successivi cc. 2‐3. Nell’insieme, ciò che «la mano del Signore» (1,3) fa esperire a Ezechiele, nel suo ingresso al compi‐to profetico, si può modulare con tre verbi: vedere, ascoltare, mangiare. Tre azioni che aprono i tre capitoli:

Io guardavo ed ecco un vento tempestoso... (1,4); Mi disse: «Figlio dell’uomo, alzati, ti voglio parlare» (2,1); Mi disse: «Figlio dell’uomo mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo» (3,1).

Nel rapporto di Dio con un uomo che dovrà diventare la sua stessa bocca, il contatto si realizza in un crescendo: da una dimensione più superficiale a un’altra più intima, dal semplice guardare qualcosa all’esterno, aU’ingerire il cibo solido e concreto del rotolo. Il Dio di Ezechiele usa le vie di accesso più umane, le porte dei sensi – la vista, l’udito, il gusto – per mettersi in perfetta sintonia col suo profeta. Solo dopo questa propedeutica, questi potrà ricevere da Dio la sua missione (2,4).

6.2.2. «Ti voglio parlare»

Il discorso che inizia in 2,1 non ha un soggetto, semplicemente è scritto: «Mi disse». Tornando al capitolo precedente, possiamo verosimilmente pensare che si tratti della «figura dalle sembianze umane» assisa sul trono, il cui aspetto era quello «dell’arcobaleno nelle nubi nei giorni di pioggia [...] della gloria del Signore» (1,28). Tutto fa pensare al Dio dell5alleanza: il Dio di Noè e quello di Mosè. L’arcobaleno è memoria del segno della prima alleanza universale scolpita nella Bibbia, quella con il patriarca di tutta le razze umane (Gen 9,12‐16). La gloria rimanda, invece, al Dio del Sinai che, dopo aver sottoscritto un pat‐to con gli anziani d’Israele, riuniti da Mosè alle falde di quel monte, camminava con loro, nella via dell’esodo, come una punta di diamante sulla sabbia del deserto, verso la terra promessa. A parlare a Ezechiele deve essere l’eco di una Voce di tali alleanze, una parola carica di memoria e di promessa. Con la solennità della Voce, contrasta la fragilità dell’orecchio: quello di un «figlio dell’uomo». Tanto è debole che per essere in grado di ascoltare deve essere aiutato dalla forza del‐lo spirito. Il retroterra semantico è quello di Genesi: il profeta è ben adam e senza la ruaḥ, cioè il soffio di Dio, non può diventare neppure una creatura umana, cioè un essere capace di ascolto.

che Dio gli mostrò sul carro dei cherubini». Qualche frammento trovato a Qumran testimonia che anche la comunità del Mar Morto si era impegnata nell’esegesi del testo di Ez 1. Per i circoli farisaici e tannaitici, la mistica della merkavah era una tradizione esoterica e la si permetteva come materia di studio solo ad alcuni uomini spiritualmente dotati (cf., per esempio, Johanan ben Zakkai e più tardi Akiva). Era infatti uno studio pericoloso. Si racconta che un ragazzo fu ful‐minato e consumato dal fuoco mentre stava leggendo un passo di Ez 1 nella casa del suo maestro. I mistici parlano di studio della gloria e di comprensione della gloria, soprattutto di ascesa alla merkavah. Tali esperienze mistiche, prece‐dute da pratiche ascetiche, conducevano davanti al trono della gloria di Dio attraversando i cieli e i sette palazzi celesti. Ma coloro che intraprendevano questi viaggi visionari verso i cieli venivano chiamati «discendenti alla merkavah» (Yor‐de merkavah). Scendere alla merkavah significava un calarsi nel profondo del proprio cuore, un perlustrare in silenzio le acque che celano la conoscenza divina, acque in cui immergersi per poter poi risalire alla vita con l’intervento di Dio. Nella tradizione cristiana, la merkavah simboleggia il carro che trasporta gli annunciatori del vangelo ai quattro angoli del mondo. È un carro sempre in movimento perché le ruote sono mosse dal fuoco dello Spirito Santo.

* R. VIRGILI, La sentinella muta. Vocazione e missione del profeta (Ez 2,1‐3,27), in Parole di Vita 58(4/2013) 22‐27.


Questa immagine di partenza costituisce una sorta di prolessi di tutto il libro: la profezia di Ezechie‐le sarà un atto di nuova creazione.

6.2.3. Un popolo di ribelli

Figlio dell’uomo, io ti mando agli israeliti, a un popolo di ribelli che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri hanno peccato contro di me fino ad oggi (2,3).

Così dice Dio a Ezechiele. La parola ascoltata deve essere detta a Israele. Il popolo che gli viene as‐segnato è ben noto a chi, in questo arduo compito, lo ha preceduto: a Isaia e a Geremia. «Ho alle‐vato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me» (Is 1,3), tuonava il Dio che, nel grande portale del libro di Isaia, citava in giudizio gli abitanti di Gerusalemme. Essi erano un popolo disubbediente che spezzava il giogo dell’alleanza con suo Padre – Dio – e lo faceva, addirittura nel suo tempio, con atti di culto falsi e corrotti (Is 1,10‐15). Il cuore duro e testardo d’Israele si è mostrato fin dai primordi della sua storia, dal tempo dell’esodo, come fosse un dato genetico ineliminabile.

Così dice il Signore: Quale ingiustizia trovarono in me i vostri padri per allontanarsi da me e correre die‐tro al nulla, diventando loro stessi nullità? (Ger 2,5).

La domanda è riferita proprio agli israeliti del tempo dell’esodo. Fin da allora essi mostrarono la tendenza a ribellarsi e ad abbandonare il Signore del Sinai. «Già da tempo hai infranto il giogo hai spezzato i legami e hai detto: Non voglio essere serva!» (Ger 2,20). Con tale «genìa di ribelli», con gente di questa indole ha a che fare anche Ezechiele! Non si tratta di un DNA di famiglia o di razza, non si tratta di una questione etnica, ma di un DNA del cuore. Non è nella natura della carne, ma nella natura dell’anima che sono ribelli. Il loro Dio, il loro alleato, li co‐nosce bene. Ora non dicano che Dio si è stancato di loro ed è stato lui a infrangere il giogo. Per questo Dio manda Ezechiele: «Ascoltino, o non ascoltino, sappiano che un profeta si trova in mezzo a loro» (2,5). Un profeta, cioè, la voce della sua Presenza per la casa d’Israele. Un segno tangibile che Dio non se n’è andato da loro, neppure dopo averli condotti in esilio, nonostante le loro croni‐che ribellioni. Il profeta è un segno di contraddizione in mezzo a un popolo di ribelli. Uno che deve rendere evi‐dente la «differenza» di Dio. Uno che deve mangiare il rotolo che Dio gli dà, scritto all’interno e al’esterno, di note di pianto, di lamento, di guai (2,8‐9) e metabolizzarlo in schizzi di ritorno, di rico‐struzione, di rinascita, dopo una lunga liturgia di conversione (Ez 40–48).

6.2.4. «Mangia questo rotolo»

Dopo aver ascoltato, ora deve mangiare. Deve coinvolgersi integralmente con il proprio corpo e con la propria persona. Il figlio dell’uomo incarna non solo il volere di Dio verso il suo popolo, ma anche la pregnanza del suo legame con esso. Diventa un consacrato, uno stigma di Amore inciso nella dolorosa chirurgia dell’esilio. Sorprendentemente tenero è il modo in cui il mangiare avviene: Dio (= la figura dalle sembianze umane di 1,26!) gli dice: Mangia! E il profeta apre la bocca. Mentre il profeta mangia, Dio gli parla (3,2). L’immagine è simile a quella di una madre che nutre un figlio piccolo, imboccandolo e since‐randosi che il cibo venga inghiottito e non gettato via. Fa ripensare alle parole di Osea, riferite al popolo dell’esodo:

Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio [...] ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare (Os 11,1.4).

La tenerezza di Dio verso il suo popolo si fa presente oggi verso Ezechiele. Lo stile divino non cam‐bia. Il cibo che contiene quel rotolo passa per la bocca e scende non solo nel ventre, ma anche nelle vi‐scere. Il figlio dell’uomo subisce un’autentica trasformazione a cominciare dalla natura umana. Le sue parole cambieranno il suo gusto, il suo corpo, il suo sentimento. Nella sua bocca esse faranno


sentire il loro sapore «dolce come il miele». Scese nel ventre verranno con cura recepite e lavorate fino a essere metabolizzate, nell’impegno profetico. Anche le viscere saranno informate dal rotolo. Nel luogo che è una metafora classica dell’amore e della compassione di Dio, anche il profeta sarà toccato e le sue viscere diventeranno sensibili e feconde come quelle di Dio.

6.2.5. Con gli orecchi e con il cuore

Mi disse ancora: «Figlio dell’uomo, tutte le parole che io ti dico ascoltale con gli orecchi e accoglile nel cuore» (3,10).

Non bastano neppure le cavità delle viscere, ci vuole la cavità dell’orecchio ad accogliere sino in fondo le sue parole, e, specialmente la cavità del cuore. Le parole sono spirituali così come il figlio dell’uomo è corpo, sì, ma anche spirito. Il cuore deve uscire mutato per sempre dall’ascolto delle parole che oggi il Signore gli consegna. In questo atto di vocazione il profeta anticipa ciò che, poi, sarà di tutto il popolo: l’acquisizione di un cuore nuovo. Ezechiele lo avrà ascoltando e accogliendo le parole di Dio, mentre, per Israele, sarà necessario un vero e proprio trapianto (Ez 36,26). Grande e irriducibile è, infatti, l’ostinazione della casa d’Israele. Perciò la missione di Ezechiele sarà complessa e difficile. La Voce che parla al profeta gli illustra il carattere di quel popolo tanto specia‐le. Non si tratta di stranieri, di gente che viene da regioni sconosciute e distanti «dal linguaggio astruso e di lingua oscura, di cui tu non comprendi le parole» (3,5‐6), ma si tratta della famiglia d’Israele, della sua stessa famiglia. La loro caparbietà non dipende dalla lingua che parlano, «ma dalla loro fronte dura e dal loro cuore ostinato» (3,7). Il problema non è la carne, ma ancora il cuo‐re e la mente e la decisione d’Israele. Si tratta di un popolo sordo alla parola di Dio, non per ragioni di udito o di lessico, ma perché non vuol sentire. C’è un’esplicita volontà di non ascolto, da sempre c’è stata e ora ha raggiunto il culmi‐ne. Ezechiele non deve temere vedendo la sua impermeabilità alla Parola, Dio gli sta spiegando tut‐to su quel popolo cui lo sta, contemporaneamente, consacrando. Esso ha avuto da sempre un comportamento assurdo e si è sempre ribellato al suo Dio. Un Dio che, per contro, da sempre, per farsi comprendere e per trasmettere la sua Parola, ha imparato e parlato la loro lingua. Ma non c’è stato nulla da fare! Paradossalmente se un popolo straniero avesse sentito le parole di Dio le avrebbe certamente ascoltate: «Se ti avessi inviato a popoli simili, ti avrebbero ascoltato, ma la casa d’Israele non vuole ascoltare te, perché non vuole ascoltare me» (3,7), così dice il Signore. Il destino del profeta è radi‐calmente legato a quello di Dio, in mezzo al suo popolo in esilio, così come a quello della sua paro‐la. Completamente esposta all’ostinazione d’Israele, la fortuna della parola profetica si annuncia molto travagliata. Ma il Signore promette una medicina omeopatica: alla durezza dell’orecchio del suo popolo, contrappone la durezza della fronte di Ezechiele. Alla pietra del cuore d’Israele, il dia‐mante duro e scintillante della sua profezia.

6.2.6. «Uno spirito mi sollevò»

Da 3,12 riprende la narrazione drammatica interrotta in 1,28. Dopo essere stato in ascolto, ad occhi chiusi, di tante parole che uscivano dalla «voce di uno che parlava» (1,28), mentre giaceva con la faccia a terra, ecco che Ezechiele viene sollevato da uno spirito. Il testo riprende la descrizione del movimento di quella «macchina» fatta di ali e di ruote, sul cui trono era collocata la gloria del Si‐gnore (3,12). Le parole scritte davanti e dietro sui dorsali del rotolo avevano cambiato la sua vita: adesso il figlio dell’uomo era diventato, a tutti gli effetti, un profeta e doveva iniziare la sua missione.

Uno spirito mi sollevò e mi portò via; io me ne andai triste e con l’animo sconvolto, mentre la mano del Signore pesava su di me (1,14).

Quanto ha avuto sinora in visione diventa realtà: Ezechiele si ritrova dai deportati ebrei sulle rive del torrente Chebàr, un affluente dell’Eufrate in Babilonia. Per sette giorni resta lì, stordito e smar‐rito. Un numero e un gesto simbolici per indicare il passaggio che fa di un uomo un profeta, un bat‐


tesimo all’ impatto diretto con la gloria. I sette giorni di perdita dei sensi stanno a descrivere la sua reazione dinanzi alla vocazione di Dio. Mentre Mosè vi oppose ben cinque obiezioni (Es 3‐4) e Ge‐remia cercò di giustificarsi con la giovane età (Ger 1,6), Ezechiele non dice nulla. Dio fa cose del tutto nuove e difficilissime da capire e assecondare. L’ubbidienza del profeta non passa attraverso una sua risposta, perché egli non ha la forza per opporla. Nell’effetto così forte della parola di Dio sul corpo del profeta si evoca, in sottofondo, anche l’effetto che tale parola avrà sulla casa di Israele: essa sarà distrutta e la gloria lascerà il tempio (Ez 10).

6.2.7. Profeta sentinella

Figlio dell’uomo ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele (Ez 3,17).

Con queste parole il Signore spiega, ora, il tipo di ministero particolare che dovrà svolgere il suo profeta. Se per caso questi avesse avuto un’idea della sua missione, come di una semplice funzione di legato, adesso la cosa viene chiarita. Mentre per quest’ultimo, infatti, si dice che: «Ambasciator non porta pena», tutt’altro per un profeta. Il tono della parola di Dio che il testo riferisce è molto didattico: il profeta deve avvisare il malvagio di quanto Dio ha deciso. Se lui ha detto che il malvagio morirà, il profeta dovrà alacremente non solo avvisarlo, ma esortarlo a non fare più il male. Chissà che anche Dio non torni indietro dalla sua decisione! In questo caso, se il malvagio non cambia la sua condotta, sarà anche responsabile della propria morte. Ma se il profeta non l’ha avvertito, e il malvagio non si è convertito, egli morirà, sì, ma Dio chiederà conto al profeta della sua vita. Il profeta, insomma, ha un grande potere sulla salvezza sia del malvagio, sia del giusto, quasi più di quanta non ne abbia Dio stesso! La sua azione può cambiare sia il giudizio di Dio, sia la sorte dell’empio. Il suo compito è, infatti, quello di invocare la salvezza su ciascuno. Salvando la vita di costoro, il profeta salverà anche la propria. Ed è proprio in lui che si intrecciano i destini di tre «po‐li»: dei malvagi e i giusti, del profeta e di Dio. Grande è la responsabilità della missione di un profeta e plastica è la metafora con cui viene de‐scritta: egli sarà come la sentinella che veglierà sulla salvezza di tutti.

6.2.8. «Resterai muto»

A completare e concludere l’annuncio della missione viene un gesto che non ci si aspetterebbe: la mano del Signore chiede a Ezechiele di portarsi nella valle. Là si trovava la gloria, quella che lui ave‐va già visto sulle rive del Chebàr. Ezechiele cade di nuovo con la faccia a terra e solo l’intervento di uno spirito gli dà la forza di alzarsi e di ascoltare la parola del Signore (3,24; cf. 2,2). Questi chiede a Ezechiele una cosa del tutto sorprendente:

Va’ e chiuditi in casa. E subito ti saranno messe addosso delle funi, figlio dell’uomo, sarai legato e non potrai più uscire in mezzo a loro. Farò aderire la tua lingua al palato e resterai muto (3,25).

Sembra una contraddizione: come mai, dopo aver chiesto al profeta di essere «sentinella», ora gli chiede di essere muto? Come può un profeta, il cui ministero è proprio quello della parola, svolge‐re la sua missione se è muto? Non si può non ricordare la discussione con Dio di profeti come Mosè o Geremia, proprio su questo aspetto. Le loro obiezioni alla chiamata si appoggiavano proprio su questo argomento: «Non sono un buon parlatore» (Es 4,10), obiettava Mosè; «Non so parlare», diceva Geremia. Per far fronte a queste resistenze, Dio rispondeva munendo i profeti di mezzi idonei a parlare. Come mai, al con‐trario, Ezechiele deve profetizzare il silenzio e l’impotenza di qualsiasi gesto? L’unica ragione può essere data a livello teologico: la paralisi del corpo di Ezechiele si fa metafora della paralisi che col‐pirà Israele con l’esilio. Il silenzio del profeta si fa profezia nell’attualità d’Israele. Un modo che non durerà per sempre:

Ma quando, poi, ti parlerò, ti aprirò la bocca e tu riferirai loro: Chi vuole ascoltare ascolti (3,27).


6.3. Un cuore nuovo. Il vangelo secondo Ezechiele (Ez 36,16‐38)*

Il processo di restaurazione, che il libro di Ezechiele prospetta sin dalla visione iniziale nei primi tre capitoli, arriva a concretizzarsi all’interno dell’ampia sezione che comprende i cc. 34‐37. Il cammino descritto in questi capitoli parte dall’annuncio di nuove guide (i pastori in Ez 34), che seguendo l’esempio del re Davide, condurranno il popolo fuori dall’anarchia riportandolo all’interno della ter‐ra (35‐36,15). Questo darà vita a un profondo rinnovamento all’interno dell’uomo, che verrà inizia‐to e portato a compimento solo grazie all’intervento diretto e gratuito della divinità (36,16‐38). Il culmine di questa nuova dimensione sarà la rinascita collettiva (37,1‐14), momento decisivo al fine di arrivare all’unificazione finale di tutto il popolo in una sola terra adorando e seguendo un solo Dio (37,15‐28). Uno dei momenti centrali di questa dinamica è costituita dall’oracolo presentato nella seconda par‐te del c. 36. Dopo aver descritto la possibilità di avere nuove guide, la prospettiva cambia e il testo si concentra a descrivere il ruolo della divinità nel processo di rinnovamento del popolo. L’introduzione (36,16) con la «formula profetica dell’arrivo della parola»: «E la parola di YHWH ac‐cadde a me...», mostra chiaramente come il libro di Ezechiele intenda affrontare una nuova tema‐tica: il popolo, che ha nuove guide e una nuova terra, deve necessariamente rinnovarsi a partire dal suo interno. La descrizione della forza e della motivazione intrinseca che genera questo rinno‐vamento è l’argomento centrale di Ez 36,16‐38. Questa presentazione viene inserita all’interno di un oracolo rivolto al profeta e pronunciato in prima persona dalla divinità stessa. La sezione è – aspetto tipico della letteratura profetica – estremamente densa e ricca di contenuti, ma anche or‐ganizzata secondo una struttura logica e lineare, all’interno della quale a partire da determinate premesse seguono, in maniera quasi necessaria, precise conseguenze. L’organizzazione statica dell’oracolo è facilmente riconoscibile grazie a segnali strutturali che la or‐dinano. La prima parte (w. 17‐21), che segue la formula profetica introduttiva di v. 16, presenta brevemente la situazione ancora irrisolta del popolo e il desiderio di misericordia da parte di YHWH. Come conseguenza delle sue azioni turpi e impure – l’espressione «i suoi cammini e le sue opere» viene ripetuta come sottolineatura per due volte – Israele è stato privato della sua terra e disperso all’interno delle nazioni (vv. 17‐19). Il giudizio e la punizione delle azioni non porta però al penti‐mento, ma peggiora ancor di più la situazione: il nome di YHWH viene dissacrato (v. 20). Il riferimen‐to alla «casa d’Israele» all’inizio e alla fine del passo lo delimita incorniciandolo. Una duplice particella causale introduce, quindi, la descrizione della decisione di YHWH, che vuole risolvere la situazione del popolo (vv. 22‐32) e mostra allo stesso tempo come l’azione divina non sia un fulmine a ciel sereno, ma frutto di un’accurata riflessione e conseguenza necessaria della si‐tuazione descritta in precedenza. In maniera totalmente inaspettata, al termine della prima parte si introduce il tema centrale dell’intera sezione: il cambiamento della situazione concreta del popo‐lo ha origine unicamente nella volontà salvifica e misericordiosa della divinità, che interviene per preservare il valore del suo nome (v. 21). Questa azione divina – incorniciata dai vv. 22 e 32 con l’espressione: «Non a motivo di voi sto agendo io» – inizia con un’espressione programmatica (vv. 22‐23), che ripete all’inizio e alla fine «Dio, YHWH», cui fanno seguito una serie di momenti che de‐scrivono in dettaglio il rinnovamento del popolo. In primo piano è sempre e solo l’iniziativa divina (vv. 24‐30). Il risultato dell’attività di YHWH capovolge completamente le visioni della prima parte. Il culmine di questo oracolo coincide, da un lato, con la dichiarazione singolare all’interno dell’intera Bibbia, che YHWH metterà Israele nella condizione di non poter far altro che agire in obbedienza (v. 27) e, dall’altro, nel far sì che Israele riconosca come la propria salvezza sia stata totalmente non guadagnata, ma unicamente frutto dell’iniziativa divina (v. 32), che stringe nuovamente un’alleanza con il popolo. Anche in questo caso l’espressione «casa d’Israele» introduce e conclude il passo formando una cornice.

* S. PAGANINI, Un cuore nuovo. Il vangelo secondo Ezechiele (Ez 36,16‐38), in Parole di Vita 58 (6/2013) 17‐23. Cfr. G.

DE CARLO, «Santificherò il mio Nome da voi profanato fra le nazioni» (Ez 36), in Parola Spirito e Vita 73 (2016) 85‐102.


L’attività divina si sviluppa concretamente in due momenti – vv. 33‐36 e vv. 37‐38 – che vengono rispettivamente introdotti dall’espressione: «Così dice Dio, YHWH». La prima conseguenza consiste nel riconoscimento di YHWH da parte delle nazioni straniere, che ammirano la ritrovata fecondità della terra e la grandezza delle città ricostruite (vv. 33‐36). La seconda conseguenza rassicura Israe‐le, che a sua volta riconoscerà YHWH, prospettando che le città verranno ripopolate (vv. 37‐38). Il fine ultimo del rinnovamento è che tutto il mondo – nazioni straniere e Israele – riconosca YHWH e la sua azione nella storia.

6.3.1. La situazione di sconforto (Ez 36,16‐21)

Dopo la formula profetica che introduce l’intera sezione come «parola di YHWH» non segue – come invece normalmente accade – il comando di annunciare rivolto al profeta. Questo verrà esplicita‐mente formulato solo nel v. 22. Il contenuto della «parola di YHWH» è una specie di riflessione della divinità stessa che riassume al profeta la lunga storia di colpe e di mancamenti del popolo. Il titolo mediante il quale YHWH si rivolge al profeta – «figlio d’uomo» – non è in primo luogo un titolo ono‐rifico, ma assolve la funzione di inserire il profeta, senza ombra di dubbio, nella sua sfera d’influenza, che non è quella divina, ma quella umana. In questo modo si sottolinea sin dal princi‐pio della pericope come l’iniziativa in vista della salvezza e del rinnovamento sia unicamente divi‐na. Il profeta infatti è semplicemente un uomo. La conseguenza dei cammini sbagliati e delle azioni improprie del popolo è tragicamente presente sin dalle prime battute del discorso divino: la casa d’Israele non si trovi più nella «sua terra» (v. 17). La tragedia somma non è però che il popolo abbia perso la terra, ma che le azioni del popolo l’abbiano resa impura. Il parallelo letterario con Lev 3,18‐25‐28 è chiarissimo. In questo testo l’espressione: «Rende impura la terra», ha come soggetto i popoli cananei. La conseguenza delle loro azioni fu la loro espulsione – il termine ebraico può es‐sere tradotto con l’espressione «vomitare fuori» – dalla terra. Il medesimo destino, per la medesi‐ma colpa, è stato sperimentato anche da Israele, che si trova a confrontarsi con la tragedia nazio‐nale dell’esilio. Il paragone con l’impurità rituale dovuto al flusso mestruale, non vuole certo essere discriminante nei confronti del ruolo della donna. Il senso dell’espressione, nella seconda parte del v. 17, fa da un lato riferimento alla natura della colpa del popolo, che, come l’impurità dovuta al flusso mestruale, è di ordine cultuale e, dall’altro, vuole mostrare l’ineluttabilità di questo fatto. Come il flusso me‐struale è una cosa naturale, che non si può condizionare, così il peccato del popolo è insito, intrin‐seco alla sua natura. La reazione divina viene descritta mediante la categoria dell’ira e del conseguente castigo (vv. 18‐21). Entrambi questi aspetti – oggi considerati negativamente – erano nell’antichità doti e valori: le virtù proprie del re giusto e competente. La reazione di fronte all’ingiustizia deve necessariamente essere irata e il castigo nei confronti di coloro che l’hanno commessa è l’unica reazione adeguata, se il re vuole proteggere gli oppressi. YHWH, nella sua funzione regale, punisce perché è giusto. Ma il popolo invece di riconoscere la sua colpa e pentirsi, pur disperso tra i popoli, infrange uno dei più importanti co‐mandamenti (Es 20,7) e dissacra il suo nome. Il momento che scatena la reazione di YHWH non è però diretta conseguenza del peccato del popo‐lo, ma è collegato alla reazione delle nazioni. Queste si prendono gioco di YHWH che ai loro occhi non ha saputo proteggere la terra del suo popolo (v. 20). YHWH non può permettere che il suo no‐me sia fatto oggetto di scherno e derisione e deve quindi reagire per salvaguardare il suo ruolo come Dio. Questo è il risultato cui giunge la riflessione di YHWH. La reazione contro le nazioni, comporterà come «effetto collaterale», la salvezza e il rinnovamento del popolo.

6.3.2. Il rinnovamento del popolo ad opera di YHWH (Ez 36,22‐32)

Con una forte doppia preposizione causale – «per questo motivo» – il discorso di YHWH prosegue, rivolgendosi finalmente al profeta e invitandolo ad annunciare a Israele. Il frutto della riflessione


divina espressa nella prima parte viene riassunta per Israele in maniera non fraintendibile: l’azione di YHWH non dipende in alcun modo e non è assolutamente in relazione con un eventuale merito o con una positiva condotta da parte del popolo, ma si fonda unicamente nella sua volontà, nel suo volere sovrano e inconfutabile. L’espressione: «Non per voi, ma per il mio nome», incornicia questo secondo passo sottolineando‐ne il contenuto centrale (vv. 22 e 32). Il medesimo concetto viene ripetuto in senso positivo – «per la santificazione del mio nome» (v. 23) – nel versetto seguente. Secondo questo principio, che vede nella santificazione del nome di YHWH lo scopo ultimo dell’intervento della divinità, è anche eviden‐te che il destino del popolo non ne rappresenti la preoccupazione primaria. I primi destinatari dell’attività di YHWH non sono infatti gli israeliti, ma le nazioni, che devono cosi correggere la loro posizione di dileggio presentata in v. 20. Ma la santificazione del nome di YHWH ha conseguenze estremamente concrete anche per il popo‐lo. L’iniziativa parte anche in questo caso solo da YHWH. Lui «prende, raduna, riporta», ovvero pone una conclusione alla dispersione d’Israele (v. 24) risolvendo in questo modo la problematica de‐scritta nel v. 19: il popolo riavrà la sua terra. Il ritorno dall’esilio viene quindi collegato a tre ulteriori aspetti, che spostano l’attenzione dal piano esteriore a quello interiore dell’uomo. L’importanza di questo passaggio (vv. 25‐28) viene decisamente sottolineata dagli autori del testo, che passano da un discorso in prosa a un’artistica composizione poetica caratterizzata a più livelli – singoli termini, espressioni, versi singoli, composizioni di più versi – da strutture simmetriche, con‐centriche e chiastiche. L’occorrenza di ben 15 verbi o pronomi di prima persona singolare genera un ritmo movimentato e veloce che sottolinea chiaramente l’attività in prima persona di YHWH. La poesia ebraica raggiunge in questi quattro versetti uno dei suoi apici più alti. Lo stile e la forma non sono fini a se stessi, ma hanno la funzione di sottolineare gli aspetti essenziali del messaggio tra‐smesso. Il primo di questi aspetti consiste nella purificazione (v. 25). Il soggetto è sempre YHWH, cui viene attribuita un’azione dal carattere prettamente culturale, di competenza del sacerdote: l’aspersione con acqua. Il significato è indiscutibile: YHWH è il sacerdote supremo. Il secondo aspetto presenta un duplice dono molto particolare: «Un cuore nuovo e uno spirito nuovo» (vv. 26‐27). Anche in questo caso il soggetto è YHWH, che per poter impiantare il cuore nuovo di carne deve, tuttavia, prima eliminare il cuore di pietra. Il «cuore» nel contesto dell’antropologia dell’Antico Testamento non è tuttavia la sede del sentimento, ma piuttosto della volontà, della razionalità, dell’intelligenza, del pensiero, della capacità di pianificare e compiere azioni: con il cuore si pensa, si decide, si esprime la propria risolutezza. Lo «spirito» può invece es‐sere considerato il centro deU’emozione, anche in questo caso, non con una connotazione senti‐mentalistica, ma piuttosto come espressione delle aspirazioni, tendenze e motivazioni, che spingo‐no a fare scelte concrete. Il cuore nuovo e lo spirito nuovo mettono l’uomo e la donna in condizio‐ne di pensare, volere, pianificare e agire in maniera nuova, diversa da come si è sempre fatto. Il messaggio è rivoluzionario: YHWH stesso metterà il popolo nella condizione, donando un nuovo cuore e uno spirito nuovo, di evitare in futuro i cammini e la azioni negative che hanno condotto all’ira e alla punizione descritte in v. 17. Il terzo aspetto (v. 28) riprende questa idea e la sviluppa ulteriormente rendendola definitivamente chiara: il nuovo spirito è spirito di YHWH – l’identificazione con un pronome possessivo («mio spiri‐to») non lascia adito a dubbi, dato che è YHWH che sta parlando – e lui farà sì, che il cammino del popolo sia da ora in poi conforme ai suoi precetti. Il cambiamento del cuore e dello spirito ha da subito conseguenze concrete e queste conseguenze condizionano il comportamento del popolo! Non è un caso che questo passaggio abbia influenzato e sia stato ripetutamente recepito sia all’interno della bibbia ebraica – ad esempio dal libro di Ge‐remia (31,33; 32,39‐40) di Isaia (44,3), Gioele (3,1‐2) o Zaccaria (12,10) – ma anche del Nuovo Te‐stamento – ad esempio il concetto giovanneo di rinascita dall’acqua e dallo spirito, che riprende la stessa terminologia e lo stesso ordine di Ez 36,25‐26.


Questo triplice rinnovamento interiore coincide con un movimento esteriore. Il popolo ritornerà ad abitare nella terra dei padri (v. 28). Questa assicurazione ritorna nel libro di Ezechiele solo in que‐sto passo. Ci troviamo di fronte al centro teologico dell’intera composizione del libro: il vangelo, la buona novella trasmessa dal profeta si riassume in questa promessa di salvezza. Si tratta di una vi‐sione così radicalmente nuova ed inaspettata che coincide di fatto con la prospettiva di un rappor‐to totalmente nuovo tra Dio e il suo popolo. Per questo motivo la si sottolinea con la formula dell’alleanza: «...voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio» (v. 29). La terra – il dono di YHWH per eccellenza, promesso ai padri e alle madri del popolo, ricevuto grazie a Giosuè e perso al segui‐to della conquista babilonese – ritornerà in possesso di Israele. Mediante il dono della terra, ri‐prendendo il motivo centrale della teologia del libro del Deuteronomio, YHWH rinnova il suo patto d’alleanza. Questo messaggio di salvezza inserito all’interno del libro di Ezechiele nel contesto letterario della situazione dell’esilio assume caratteristiche concrete per il momento presente. Le affermazioni e la speranza cui si fa riferimento sono tuttavia universali e non legati a un avvenimento storico concre‐to. Valgono per ogni uomo e ogni donna in ogni tempo. La salvezza dalle impurità coincide, infine, con la nuova fecondità che viene donata alla terra appe‐na recuperata. Questo è un chiaro segnale della benedizione di YHWH per il suo popolo (v. 29). La conclusione di questo passo riporta l’attenzione nuovamente alla dimensione interiore del po‐polo. Da un lato, YHWH ripete l’imperativo a considerare con pentimento le azioni negative del pas‐sato (v. 31), dall’altro sotto‐linea ancora una volta – per ammonire il popolo che, nonostante il suo peccato, è ritornato a cogliere i frutti della terra feconda – come il motivo delle sue azioni non sia assolutamente da ricercare in un’attività meritoria da parte d’Israele. Il popolo deve solo provare vergogna per le sue azioni passate per evitare di commettere nuovamente i medesimi errori. Israe‐le deve riconoscere in YHWH il suo Dio. La vergogna non è quindi una punizione, ma la condizione necessaria che permette di entrare in una comunità rinnovata con la divinità.

6.3.3. Il concretizzarsi del rinnovamento (Ez 36,33‐38)

L’opera di rinnovamento messa in atto da YHWH persegue fondamentalmente un duplice scopo. Da un lato, un’apertura universalizzante affinché anche le nazioni riconoscano YHWH (vv. 33‐36) e, dall’altro, il riconoscimento definitivo di YHWH come Dio anche da parte d’Israele (vv. 37‐38). Il po‐polo ritorna anche a essere numeroso, venendo così a cogliere immediatamente uno dei frutti dell’alleanza. Con la formula del nunzio: «Così dice YHWH», inizia la descrizione della prima concretizzazione del rinnovamento del popolo. Questo avviene a partire dalla purificazione – il v. 33 riprende l’idea già trasmessa nel v. 25 –, che si realizza nella ricostruzione delle rovine e nella ripopolazione della ter‐ra deserta. Già il vocabolario utilizzato ricorda l’inizio della creazione in Gen 1,2, ma di seguito – all’interno di un discorso diretto di esponenti membri delle nazioni che, colmi di stupore, contem‐plano la ricostruzione – il riferimento al giardino primordiale, l’Eden, diviene diretto. L’atmosfera di una nuova creazione giunge al suo compimento nella prospettiva di ricostruzione delle città di‐strutte e abbandonate, che ritornano a essere luoghi fortificati e sicuri. Il fine del processo di rinnovamento non ha tuttavia a che vedere con la salvezza del popolo. YHWH non era, infatti, intervenuto per proteggere Israele, ma per difendere l’onore del suo nome (v. 22). E così la prima conseguenza dell’azione concreta di YHWH per il suo popolo provoca una reazione tra le nazioni straniere. Queste lo riconoscono come l’autore della restaurazione (v. 36). L’affermazione finale definisce quindi, senza ombra di dubbio, l’affidabilità di YHWH. L’espressione: «Io sono YHWH, ciò che ho parlato, lo farò», ha un duplice significato: in senso positivo, annuncia la sicurezza che l’oracolo di salvezza e di rinnovamento si realizzerà concretamente; in senso negati‐vo, è però anche una minaccia: la salvezza è ora realizzata, ma la promessa di YHWH, Dio giusto, va‐le anche nel caso dell’annuncio di disgrazia. Questo si è già avverato una volta e il popolo non deve cullarsi nella sicurezza che non si possa realizzare ancora. Fin quando si seguirà il «nuovo cuore di


carne» non vi saranno problemi, ma le conseguenze derivanti dal ritorno al «cuore di pietra» sa‐ranno allo stesso modo devastanti. Anche il secondo risultato concreto del rinnovamento (vv. 37‐38) viene introdotto – in maniera pa‐rallela al primo – dalla formula del nunzio. Se finora tutte le azioni di salvezza avevano avuto YHWH come unico soggetto, al termine dell’oracolo – ancora una volta in stile poetico per sottolinearne il significato – YHWH richiede un’attività concreta del popolo. YHWH vuole, prima di realizzare il suo piano di salvezza, farsi cercare e pregare. Le città ricostruite non resteranno vuote, ma saranno po‐polate da folle immense di persone. Dal punto di vista del vocabolario si viene così a creare un’artistica e significativa inclusione con l’inizio della pericope. All’inizio YHWH si rivolgeva al «figlio dell’uomo», ora si fa riferimento alle «greggi dell’uomo», l’annuncio non è più per un singolo, ma coinvolge l’umanità intera. L’immagine delle «greggi» – termine che ricorre ben quattro volte negli ultimi due versetti del passo – si ricollega all’annuncio dei nuovi pastori in Ez 34. Il riferimento ai giorni di festa inserisce, infine, anche questa immagine in una dimensione cultuale. La duplice benedizione, che si concretizzerà in «città fortificate ricostruite e abitate» ha un unico scopo: condurre il popolo a riconoscere YHWH come il suo Dio (v. 38).

6.3.4. Il messaggio di Ez 36,16‐38

In tutta la pericope il soggetto delle azioni di salvezza è sempre e solo YHWH. Il popolo non solo non ha mai un ruolo attivo, ma non si trova nemmeno mai in una posizione a partire dalla quale può in qualche maniera influenzare o motivare positivamente l’attività della di‐vinità. La salvezza proposta e attuata da YHWH ha l’unico fondamento nella sua natura misericor‐diosa, ma giusta – quindi capace anche di ira e di castigo –, e nel desiderio di difendere il suo nome dagli affronti dileggiami delle nazioni. Così il centro teologico di questo passo non consiste in primo luogo nell’oracolo che annuncia la realizzazione della salvezza d’Israele, ma in un inno alla potenza di YHWH, che rinnova la sua allean‐za nella storia. Questa potenza è libera, sovrana e universale. Anche se YHWH vuole vendicare l’insulto sommo portato al suo nome, lo fa convogliando energie positive che danno al popolo d’Israele – e di conseguenza poi a tutte le nazioni – una seconda possibilità all’interno di un’alleanza dalle caratteristiche totalmente nuove. La logica divina è sorprendente e inaspettata: proprio perché il popolo anche in seguito alla sua di‐spersione non ha imparato nulla, non sarà definitivamente distrutto, ma verrà restaurato. Perché la cosa fondamentale non è l’esistenza del popolo in sé, ma il valore dell’alleanza, che non può venir meno. Così il rapporto di appartenenza tra YHWH e il popolo – «voi ritornerete a essere il mio popolo e io sarò per voi Dio» (v. 28) – può verificarsi solo grazie al dono, totalmente gratuito, di un «cuore nuovo» (vv. 26‐27).

6.4. Il profeta mediatore della Parola di Dio che dona vita (Ez 37,1‐14)*

Il racconto di Ez 37,1‐14 è molto conosciuto, sia per il suo contenuto sia per le numerose riletture di tipo artistico che fin dall’antichità da esso sono state ispirate. Pur essendo il brano probabilmen‐te più famoso del libro di Ezechiele, esso non va letto in maniera isolata, ma va piuttosto collocato nel contesto prossimo in cui è inserito. Se inquadrato su uno sfondo più ampio, emerge con chia‐rezza il rapporto che lo lega sia a quanto precede (la pericope di 36,16‐38) che a quanto segue (37,15‐28). I tre brani, infatti, possono essere ricondotti a un’unica tematica, quella della ri‐creazione del popolo d’Israele. Il testo di cui più direttamente ci occupiamo, 37,1‐14, è chiaramente introdotto al v. 1 da una frase narrativa che si distingue nettamente da ciò che precede (in 36,16‐38 vengono riportati varie paro‐le di YHWH), e si conclude con un’espressione, «oracolo del Signore», che si stacca dal successivo

* D. SCAIOLA, Il profeta mediatore della Parola di Dio che dona vita (Ez 37,1‐14), in Parole di Vita 58 (6/2013) 24‐28.


discorso di YHWH che inizia al v. 15. Il brano presenta, inoltre, un’articolazione lineare, in cui si rico‐noscono chiaramente due parti: la descrizione della visione di Ezechiele (vv. 1‐10) e la sua spiega‐zione da parte del Signore (vv. 11‐14). All’interno del brano, infine, ricorrono con frequenza una se‐rie di parole chiave che costituiscono l’ossatura teologica del discorso. Menzioniamo solo i termini più evidenti e ricorrenti: «spirito/vento/respiro» (10 volte); ossa (8 volte); i verbi «profetizzare» (6 volte) e «vivere/tornare a vivere» (5 volte). Tenendo conto di queste osservazioni preliminari, leggeremo in primo luogo il testo seguendone l’articolazione fondamentale e proporremo in seguito alcune considerazioni di carattere teologico.

6.4.1. La visione di Ezechiele (1‐10)

Il racconto si apre con una descrizione paradossale:

«La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; mi fece passare accanto a esse da ogni parte. Vidi che erano in grandissima quantità nella distesa della valle e tutte inaridite» (1‐2).

La visione delle ossa aride chiama direttamente in causa il profeta che è invitato a mettersi in gioco in prima persona, diventando lo strumento del miracolo che la parola di Dio sta per compiere. Il termine «valle» è normalmente associato a un luogo verde, umido; è un immagine che evoca la vita. Qui, al contrario, domina invece la morte, descritta in tutto il suo silenzioso orrore. In questo tetro scenario il profeta si aggira («mi fece passare accanto a esse da ogni parte»), contraendo l’impurità che deriva dal contatto con la morte; Ezechiele, un sacerdote, si contamina toccando la morte. E si ricordi che è lo Spirito che lo spinge in questo luogo impuro, imponendogli in qualche modo di andare contro la sua natura. Le parole profetiche che Ezechiele pronuncerà per ordine di Dio sgorgheranno, quindi, dal suo personale coinvolgimento con la situazione di morte descritta fin dall’inizio del brano e che in seguito si preciserà sempre meglio. La profezia non nasce da un luogo protetto, messo al riparo dal mondo e dalle sue brutture, bensì dal suo centro più misterioso, la morte come conseguenza di un peccato. Perché queste ossa non sono state seppellite? Le risposte degli autori sono diverse, e non mancano coloro che si richiamano a paralleli extrabiblici. Senza en‐trare nel merito di tali ipotesi, ci limitiamo a ricordare che la pratica di lasciare i cadaveri in aperta campagna perché siano divorati dagli animali selvatici è ben attestata nelle fonti del vicino Oriente antico ed era una punizione riservata specialmente a coloro che avevano infranto contratti o giu‐ramenti.53 La metafora iniziale sembra far riferimento a un campo di battaglia, e dunque potrebbe rimandare a vari episodi bellici, tra i quali la distruzione di Gerusalemme o altre gesta legate a Nabucodono‐sor. Come però avviene in altri casi, anche qui Ezechiele potrebbe riprendere una parola di Gere‐mia, il quale aveva profetizzato quanto segue a proposito dei capi e del popolo d’Israele:

«Moriranno di malattie strazianti, non saranno rimpianti né sepolti, ma diverranno come letame del suo‐lo. Periranno di spada e di fame; i loro cadaveri saranno pasto agli uccelli del cielo e alle bestie della ter‐ra» (Ger 16,4).

Proprio come aveva annunciato Geremia, ora queste ossa giacciono nella valle, manifestando e denunciando in tal modo il peccato commesso dal popolo di Giuda. La domanda rivolta dal Signore a Ezechiele può apparire retorica: «Figlio dell’uomo, potranno que‐ste ossa rivivere?» (37,3). Il profeta non si sbilancia («Signore mio, tu lo sai»), perché, da una parte, nella storia d’Israele cerano già stati profeti, come Elia ed Eliseo, che avevano fatto risorgere dei morti (cf. 1Re 17,17‐24; 2Re 4,18‐37), ma, dall’altra, non era stata prospettata una risurrezione di tutto il popolo.54

53 Anche nell’Antico Testamento si trovano echi di questa prassi, come si legge, ad es., in 2Sam 21,1‐14. 54 Si potrebbero, a parziale correzione di quanto affermato, citare due esempi profetici, che sembrano prospettare

una visione di risurrezione nazionale simile a quella descritta da Ezechiele: Is 26,19 («Ma di nuovo vivranno i tuoi mor‐ti. I miei cadaveri risorgeranno! Svegliatevi ed esultate voi che giacete nella polvere. Sì, la tua rugiada è luminosa, la


Dio mette allora alla prova il profeta rivolgendogli un ordine a prima vista assurdo: «Profetizza su queste ossa e annuncia loro: “Ossa inaridite, udite la parola del Signore”» (v. 4). La vita verrà dal Signore e dalla sua parola, ma il profeta è chiamato a essere mediatore del miracolo. Dio non si comporta come un mago, ma agisce sempre nella storia servendosi di intermediari, di persone come Abramo, Mosè e molti altri, tra cui Ezechiele, che condividono il modo di vedere le cose di cui Dio si fa principio e garante e lo incarnano nella loro esistenza, mettendosi in gioco in prima persona. Ezechiele obbedisce all’ordine che gli viene dato e, mentre ancora sta profetizzando, le ossa cominciano a mettersi in movimento:

«Io profetizzai come mi era stato ordinato; mentre profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente. Guardai, ed ecco apparire sopra di esse i nervi; la carne cresceva e la pelle le ricopriva, ma non c’era spirito in loro» (7‐8).

A questo punto Ezechiele è nuovamente invitato a profetizzare, non più però alle ossa come se fos‐sero un uditorio vivente, bensì, in maniera ancora più audace, allo Spirito:

«Profetizza allo spirito, profetizza, figlio dell’uomo, e annuncia allo spirito: “Così dice il Signore Dio: Spiri‐to, viene dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano”» (9).

Come praticamente tutti gli autori fanno notare, Ezechiele rilegge il testo di Gen 2,7 in cui l’uomo viene prima plasmato con polvere del suolo mentre in un secondo momento riceve da Dio l’alito di vita che lo rende un essere vivente. La parola del profeta si realizza, come racconta il v. 10: i morti ritornano in vita, si alzano in piedi e diventano un grande esercito. Il testo suggerisce l’idea di un dinamismo che rimanda in avanti, prospettando un nuovo inizio. In vista di cosa, però, questi morti si alzano in piedi? A prima vista, il racconto non lo dice, e ci lascia con un punto di domanda.

6.4.2. L’interpretazione della visione (11‐14)

Il testo prosegue con la citazione delle parole del popolo: «Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti» (11). La prima frase («Le nostre ossa sono inaridite») ha ispirato la visione precedente, mentre ciò che segue si riferisce piuttosto alla situazione del popolo che vive l’esperienza dell’esilio. Si comprende allora il prosieguo dell’oracolo in cui si passa dalla metafora del campo di battaglia pieno di ossa aride, a quella dei cimiteri nei quali la speranza è seppellita sotto qualche metro di terra. Ancora una volta lo Spirito, attivato dalla predicazione pro‐fetica, si mostrerà principio di vita:

«Così dice il Signore Dio: ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio» (12‐13).

La questione rimasta irrisolta al termine della visione (per che cosa sia pronto l’esercito sterminato descritto nel v. 10), riceve adesso una risposta: la restaurazione del popolo nella sua terra e il rico‐noscimento del Signore sono infatti il punto di arrivo del processo di rinnovamento prospettato fin dall’inizio del racconto. È degno di nota il fatto che la vita di cui si parla nei versetti finali (12‐14) sia proclamata in maniera incondizionata, senza precondizioni. Nel testo non c’è alcun riferimento a eventuali meriti, ma si sottolinea, al contrario, che è la libera volontà di Dio che dà vita a chi era, e sarebbe stato giustamente, condannato a morte a motivo della sua infedeltà all’alleanza. Il brano insiste sul dono gratuito della vita che deriva dalla fedeltà di Dio alle sue promesse, attraverso le quali egli è in grado di rinnovare l’essere umano.

6.4.3. Conclusione

Avviandoci verso la conclusione del percorso di lettura intrapreso, vorremmo innanzitutto sintetiz‐zare quanto emerso dall’analisi, seppur rapida, condotta sul testo di Ez 37,1‐14, e offrire anche al‐cune considerazioni di carattere teologico a partire dal brano profetico.

terra darà alla luce le ombre») e Os 6,1‐3. Si tratta però di due testi controversi, sia dal punto di vista testuale che teo‐logico, che vanno comunque menzionati, senza poter qui approfondire in modo esauriente il discorso.


In primo luogo, vorremmo sottolineare la relazione che esiste fra le due parti del testo, cioè tra la visione di cui il profeta è stato destinatario, e la sua interpretazione, a opera del Signore stesso. Come spesso avviene nei testi profetici, è significativo il fatto che Dio riveli se stesso, o qualcosa del suo mistero, attraverso una visione, ma è ancora più importante che l’evento venga seguito dalla sua decifrazione, cioè dall’interpretazione di quanto emerso. L’intelligenza del fenomeno, nel testo che abbiamo preso in esame, viene offerta da Dio stesso, e dunque è particolarmente autorevole. Per quel che riguarda la visione, poi, gli autori si sono chiesti se si tratta di una narrazione autobio‐grafica o di un racconto che descrive un’esperienza estatica. Probabilmente né l’una né l’altra ri‐sposta sono pienamente condivisibili, a nostro avviso, dal momento che l’autore sta descrivendo un’esperienza di carattere spirituale, e lo fa utilizzando le forme e i materiali a sua disposizione. Il riferimento allo Spirito, inoltre, ci consente di riprendere le parole chiave elencate in precedenza, quelle a partire dalle quali si può ipotizzare o individuare un itinerario di tipo teologico all’interno del brano considerato. La parola che più frequentemente si ripete è «spirito», un termine che indi‐ca sia il respiro umano che lo Spirito in senso stretto. Ezechiele viene afferrato dalla mano del Si‐gnore e trasportato in spirito nella valle piena di ossa; inoltre grazie al medesimo Spirito egli può compiere il suo ministero profetico,55 e lo spirito entra nelle ossa una volta aride che ora invece ri‐prendono forma e vita. Questo multiforme riferimento allo Spirito è interessante e caratterizza il brano in senso specifico. Dobbiamo resistere alla tentazione di ritenere che questo discorso valga solo per il passato, che si tratti cioè un’esperienza a noi preclusa, perché va sottolineato che lo Spirito invocato dal profeta viene dai quattro venti, cioè dai quattro punti cardinali, un modo per indicare la sua presenza tota‐le, pervasiva e attuale. Questo Spirito, inoltre, rimanda alla creazione dell’uomo descritta in Gen 2,7, un altro testo di carattere universale, al quale, in una lettura cristiana dell’Antico Testamento, si potrebbe accostare anche 2Cor 5,17: «Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove». Lo Spirito che anche oggi viene dato alla Chiesa è connesso a un atto profetico, nel testo in que‐stione, cioè è un dono finalizzato al compimento di una missione, non un regalo che qualcuno pos‐sa tenere per sé. Ogni dono spirituale, ogni carisma, è dato a qualcuno affinché egli lo metta a ser‐vizio della comunità, e il ministero profetico appare nel testo come un dono particolarmente ne‐cessario al discernimento della realtà. Vorremmo ribadire ancora una volta, a questo proposito, che Ezechiele mette in gioco se stesso sia nel momento in cui lo Spirito lo depone nella valle piena di ossa sia nel prosieguo del discorso. Il Signore prende cioè un’iniziativa nei confronti del profeta, che però assume il suo ministero in modo attivo, lasciandosi coinvolgere, compromettere dalla sua missione fino al punto di contrarre l’impurità che viene dal contatto con la morte, un’esperienza sconvolgente per un sacerdote. L’impurità connessa alla morte si specifica nel testo in riferimento alle ossa aride;56 si tratta di un’immagine che sottolinea la realtà irreversibile, almeno apparente‐mente, della morte descritta. Nel caso degli uomini uccisi nella valle, infatti, ci si trova davanti a una morte che ha caratteristiche peculiari rispetto all’esperienza vissuta, ad esempio, dal figlio del‐la vedova di Sarepta di Sidone, cui Elia ha ridato vita (cf. 1Re 17,7‐24). Nel caso delle ossa sparse nella valle e calcinate dal Sole sembra infatti che non ci si possa proprio immaginare nessuna forma di risurrezione, nemmeno in via ipotetica. La fede del profeta, però, traspare dalla risposta che egli dà alla domanda del Signore: «Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?». Dicendo: «Signo‐re Dio, tu lo sai», Ezechiele attesta la sua fede nel Dio della vita, l’unico che può far tornare in vi‐ta.57

55 Si ricordi che il verbo «profetizzare» compare sei volte nel testo. 56 Il termine «osso» si ripete otto volte. 57 Questo è l’ultimo termine chiave, il quale si ripete cinque volte.


BIBLIOGRAFIA SCELTA SU EZECHIELE

SPADAFORA F., Ezechiele (LaSacBib), Torino‐Roma 1948. CORTESE E., Ezechiele (NVB 27), Roma 1973. SAVOCA G., Un profeta interroga la storia. Ezechiele e la teologia della storia, Roma 1976. ZIMMERLI W., Ezechiel, 2 voll. (BKAT 12/1‐2), Neukirchen‐Vluyn 21979. SAVOCA G., Il Libro di Ezechiele (Guide spirituali all’Antico Testamento), Città Nuova, Roma 1991. EICHRODT W., Ezechiele. Cc. 1–24. Cc. 25‐48 (Antico Testamento, 22/1‐2), Paideia, Brescia 2001. PIKOR W., La comunicazione profetica alla luce di Ez 2–3 (Tesi Gregoriana. Serie Teologia 88), Editrice Pontificia Universi‐

tà Gregoriana, Roma 2002. BLENKINSOPP J., Ezechiele (Strumenti. Commentari 25), Claudiana, Torino 2006. NOBILE M., Saggi su Ezechiele (Spicilegium 40), Antonianum, Roma 2009. PETTIGIANI O., «Ma io ricorderò la mia alleanza con te». La procedura del rîb come chiave interpretativa di Ez 16 (AnBib

207) Gregorian & Biblical Press, Roma 2015.

CENNI STORICI PER I PROFETI POST‐ESILICI (DAL 538 AL III SECOLO A.C.)*

1. L’impero persiano

Nel secolo VII a.C. la Persia era un regno vassallo del confinante regno di Media; ma dopo la con‐quista dell’Elam i Persiani trasportarono la loro capitale a Susa e divennero sempre più potenti. Nel 552 a.C. il re persiano Ciro II (559‐529) della dinastia achemenide occupò Ecbatana, la capitale del‐la Media, che fu annessa al territorio della Persia. Ciro continuò nelle sue conquiste verso occiden‐te giungendo ad annettere al nascente impero il regno di Lidia governato da Creso, e quindi tutta l’Anatolia. Ciro rivolse allora la sua attenzione verso la Mesopotamia, dove l’impero babilonese attraversava un momento delicato a causa di ribellioni interne e dell’incapacità dell’ultimo imperatore Naboni‐de, che si era associato al trono il figlio Belshassar. Dopo aver sconfitto l’esercito babilonese a Opi sul fiume Tigri, nel 539 Ciro occupò Babilonia, praticamente senza incontrare resistenza ed anzi ac‐colto come un liberatore. La politica seguita da Ciro e dai suoi successori nel governare le popolazioni sottomesse, fu molto liberale: verosimilmente era dettata da motivi pratici di organizzazione del vasto impero che si sta‐va formando rapidamente. I Persiani non seguirono l’uso secolare di deportare le popolazioni scon‐fitte, al contrario permisero a tutti i gruppi di esiliati il ritorno nella propria patria. Nel 538 Ciro promulgò un editto che concedeva a quanti erano stati deportati in Babilonia la facoltà di rientrare nelle terre d’origine e di ricostruire i templi delle divinità nazionali. Fu anche introdotto nelle iscrizioni ufficiali l’uso delle lingue elamita e babilonese accanto al per‐siano. Lo stesso uso fu accolto nella corrispondenza tra la corte persiana e i governatori delle diver‐se province, che ricevevano i documenti imperiali redatti nella propria lingua. In quella che più tar‐di diventerà la satrapia di Abarnahara (la provincia dell’Oltrefiume, che comprendeva la Siria, la Pa‐lestina e l’Egitto) già da tempo si era diffusa la lingua aramaica, che divenne la lingua ufficiale dei rapporti con la capitale dell’impero. La magnificenza della corte, l’organizzazione dell’impero e la religione persiana esercitarono un fa‐scino notevole nel mondo antico e, a quanto sembra, ebbero un certo influsso sullo sviluppo della religione ebraica. A Ciro succedette Cambise II (529‐522), che nel 525 conquistò l’Egitto. Alla sua morte divenne im‐peratore Dario I (522‐486) dopo aver sedato una serie di sommosse che avevano fatto pensare a un crollo del giovane impero. Dario divise l’impero in venti satrapie e costruì la favolosa città di Persepoli. Intraprese anche la conquista della Grecia, ma fu sconfitto a Maratona nel 490 a.C. Gli succedette Serse I (486‐465), che ritentò la conquista della Grecia. Dopo la vittoria alle Termopi‐li (480) occupò l’Attica e distrusse Atene, ma fu sconfitto poco tempo dopo nella battaglia di Sala‐mina. I testi biblici lo ricordano con il nome di Assuero. Artaserse I (465‐423) firmò con i Greci la cosiddetta «pace di Callia» (449), ma lasciò un impero in‐quieto, nel quale si succedevano rivolte e congiure. Questa situazione di lotte interne si protrasse sotto Serse II (423) e Dario II (423‐404). Artaserse II (404‐358) affrontò il fratello Ciro il giovane, che lo sconfisse ma morì nella battaglia di Cunassa (401), legata al ritorno dei 10.000 mercenari greci descritto nell’Anabasi di Senofonte. Gli ultimi imperatori persiani furono Artaserse III (358‐338), Arsete (338‐336) e infine Dario III Co‐domano (336‐330), sconfitto da Alessandro Magno.

2. La Giudea sotto l’impero persiano

I libri di Aggeo e di Zaccaria, la terza parte di Isaia, Malachia, i libri di Esdra e Neemia si riferiscono a personaggi e avvenimenti di questo periodo storico. La vicenda raccontata nel libro di Ester è


200 Cenni storici per i profeti post‐esilici (dal 538 al III secolo a.C.)

ambientata alla corte persiana di Assuero (Serse I). Altri libri biblici furono forse composti in questo periodo, verso la fine dell’impero persiano o all’inizio dell’epoca successiva. Da questi libri si pos‐sono ricavare le date di avvenimenti che hanno riguardato la Giudea sotto la dominazione persia‐na. Nel 538, in seguito all’editto di Ciro, un primo gruppo di deportati Giudei rientra a Gerusalemme sotto la guida di Sesbassar e incomincia l’opera di ricostruzione della città (Esd 1,1‐2,70). Nel 520 (secondo anno di Dario, un momento difficile per l’impero persiano), grazie all’intervento dei profeti Aggeo e Zaccaria riprendono i lavori di ri‐costruzione del tempio, per opera di Zorobabe‐le e Giosuè. Nel 515 (sesto anno di Dario I) la ricostruzione del tempio è ultimata (Esd 4,24‐6,15). Sotto gli im‐peratori Serse e Artaserse I la ricostruzione di Gerusalemme incontra difficoltà e viene sospesa per alcuni anni (Esd 4,6‐7.23s). Nel 458 (settimo anno di Artaserse I) giunge a Gerusalemme un nuovo gruppo di Giudei ritornati da Babilonia sotto la guida di Esdra, che impone come legge dello stato quella contenuta nel Penta‐teuco (Esd 7‐10). Nel 446 (ventesimo anno di Artaserse I) giunge dalla Persia il governatore Neemia, che ricostruisce le mura di Gerusalemme (Ne 3), ristabilisce l’ordine sociale (Ne 5) e costringe le famiglie estratte a sorte a ripopolare la città (Ne 11). Nel 433 (trentaduesimo anno di Artaserse I) termina la missione di Neemia (Ne 5,14; 13,6), il quale ritorna qualche tempo dopo a Gerusalemme per una nuova missione. Sono state rilevate numerose incongruenze nella successione dei fatti e delle date come sono ri‐portate nei libri di Esdra e Neemia. Aggeo, Zaccaria e il Terzo Isaia svolsero la loro attività nei primi decenni dopo il ritorno dall’esilio; Abdia e Malachia si possono collocare agli inizi del secolo V; il li‐bro di Giona sembra attribuibile alla fine dell’impero persiano, mentre Baruc e la Lettera di Gere‐mia sono più recenti, ma non offrono elementi sicuri per una datazione più precisa. Nemmeno è facile ricostruire con buona approssimazione quanto accadde nel territorio della Giu‐dea dalla occupazione di Gerusalemme fino alla fine dell’impero persiano. Le fonti bibliche a nostra disposizione si riferiscono a pochi momenti particolari e fanno menzione di nomi e situazioni dai profili piuttosto vaghi. Alcuni dati considerati sicuri dagli storici in passato, oggi sono rimessi in di‐scussione, sulla base di una documentazione prima sconosciuta che permette di leggere il dato bi‐blico sotto nuova luce. La deportazione compiuta da Nabucodonosor nel 587 lasciò la Giudea e Gerusalemme in condizio‐ni tragiche, ma la vita continuò, sia quella politica e sociale sia quella religiosa, anche se con molti disagi. Probabilmente la Giudea fu governata in qualche modo dagli ultimi discendenti di Davide, in qualità di principi vassalli di Babilonia, e lo stesso culto a YHWH nel tempio distrutto dovette conti‐nuare, benché in forma ridotta. Il dato più rilevante di questo periodo è il formarsi di due mentalità diverse nei due gruppi di Giu‐dei sopravvissuti alle stragi del 587. Tra i deportati si elaborò la riflessione religiosa indicata dagli studiosi come tradizione sacerdotale, ispirata agli scritti dei profeti precedenti e alimentata dai pro‐feti che vissero in esilio (Ezechiele e Secondo Isaia). Mancò invece tra i rimasti in Giudea, o per lo meno non è giunta a noi, una riflessione analoga volta a interpretare dal punto di vista religioso quanto era avvenuto. Si spiegano così i contrasti e le incomprensioni tra i reduci da Babilonia e i Giudei rimasti in patria. La fede era la stessa, ma diverso era lo spirito con il quale era vissuta. Era inevitabile lo scontro tra il dinamismo degli idealisti rimpatriati e la negligenza di cui questi rimproveravano gli scampati dall’esilio. Un’altra causa di contrasto doveva essere legata al possesso delle terre che i rimpatriati rivendicavano per diritto ereditario, mentre i rimasti le occupavano per usucapione, o diritto acqui‐sito. Resta problematica la figura e la missione dei protagonisti del ritorno dall’esilio, Sesbassar, Zoroba‐bele e Giosuè. Nei primi due, la cui scomparsa rimane avvolta nel mistero, alcuni studiosi sono in‐

Cenni storici per i profeti post‐esilici (dal 538 al III secolo a.C.) 201

clini a vedere un’unica persona. Non è chiaro, inoltre, il rapporto tra il sacerdote Giosuè e il princi‐pe davidico Zorobabele. I testi biblici, piuttosto reticenti su questo periodo e rielaborati in revisioni successive, possono suggerire che la fine della monarchia davidica sia avvenuta in modo tragico proprio con la morte violenta di Zorobabele. I contrasti tra i sacerdoti ritornati dall’esilio e quelli rimasti a Gerusalemme, la lotta per la supre‐mazia tra sacerdozio e monarchia, le difficoltà economiche e la rivalità tra ambiente cittadino (Ge‐rusalemme) e la campagna, avrebbero fatto scoppiare una guerra civile tra i sostenitori dell’istitu‐zione monarchica e i fautori di un nuovo ordinamento politico. Zorobabele sarebbe stato la vittima illustre di queste lotte (si accennerebbe a questi fatti in Zc 12) e con lui sarebbero tramontati i so‐gni di ripresa della monarchia davidica. Il fatto certo è che in questo periodo il sacerdozio legato al‐la famiglia di Sadok (i Sadokiti o Sadociti) si afferma come l’unico punto di riferimento e di guida per gli abitanti della Giudea, mentre la monarchia scompare. L’affermarsi del sacerdozio sadocita non portò a un miglioramento della vita religiosa. Il culto era celebrato con trascuratezza, i sacerdoti sembravano preoccupati solo degli interessi personali, tra il popolo erano frequenti i matrimoni con donne non ebree. Quest’ultimo fatto era dovuto anche a motivi di opportunità politica, cioè alla tendenza di costruire una società integrata con le popola‐zioni vicine. Da una parte ciò rispondeva a un’apertura universalistica, sulla linea di quanto predica‐to dal Terzo Isaia e da Zaccaria, ma dall’altra era sentito come pericoloso per la purezza della fede iahvista. Il libro di Neemia testimonia questa preoccupazione molto sentita e manifestata con for‐me di intolleranza e di violenza (Ne 13). Il periodo della ricostruzione postesilica si presenta pertanto molto complesso, ricco di fermenti nuovi ma anche di contrasti profondi che troviamo espressi nei libri composti in questo tempo.

I PROFETI AGGEO, ZACCARIA E ABDIA E I LORO LIBRI

1. AGGEO*

1.1. Nel dopo‐esilio

Il profeta Aggeo, il cui nome ebraico Ḥaggai («mia festa») suggerisce un’atmosfera di festoso entu‐siasmo religioso, predica nel periodo dell’immediato postesilio. Anzi, stando alle indicazioni del suo libretto, parrebbe che abbia svolto il suo ministero soltanto dal 27 agosto al 18 dicembre del 520 a.C. Ma forse quello è stato soltanto il momento più critico e decisivo. Come altri profeti, Aggeo non si è preoccupato di lasciarci notizie sulla sua persona. Sappiamo che nell’anno 538 a.C. un editto del re persiano Ciro permise agli ebrei esiliati a Babilonia di tornare in patria. Un gruppo entusiasta prese immediatamente la via del ritorno nella terra promessa, rivi‐vendo l’esperienza dei padri antichi che provenivano dal deserto e dall’esodo. Erano guidati da un certo Sesbassàr (Esd 1,8.11). Quando giunsero in Palestina, trovarono desolazione e rovine, città distrutte e campi abbandonati. C’era da rifare tutto. E Aggeo esorta Zorobabele, governatore di Giuda, e il sommo sacerdote Giosuè a ricostruire anche il tempio di Gerusalemme. Il profeta addu‐ce due motivi per giustificare il suo invito: 1) non è conveniente che il popolo ricostruisca e restauri le proprie case e dimentichi di ricostruire la casa di Dio (Ag 1,4); 2) finché non sarà ricostruito il tempio, non ci sarà abbondanza di raccolti: voi aspettavate molto e invece c’è stato poco. Perché? «Perché la mia casa è in rovina, mentre ognuno di voi si dà premura per la propria casa» (1,9). Un altro elemento di politica interna al regno persiano serve a incorniciare e a far comprendere il messaggio di Aggeo. Nell’anno 529 morì Ciro e gli successe sul trono persiano il crudele e capric‐cioso Cambise, contro il quale tentò un’insurrezione il mago Gaumata che riuscì ad attrarre alla sua causa molta gente. A Cambise succede Dario I che nel 522 riesce a liquidare il mago e intraprende l’opera di «spegnimento» dei focolai di rivolta accesi in diverse parti dell’im‐menso impero. In Pale‐stina regnava la calma, ma anche la siccità e la fame, la delusione e lo scoramento. Forse è proprio agli sconvolgimenti di quei tempi che Aggeo fa allusione per annunciare un intervento divino libe‐ratore per il suo popolo: «Scuoterò il cielo e la terra, abbatterò il trono dei regni e distruggerò la potenza dei regni delle nazioni, rovescerò i carri e i loro cavalieri: cadranno cavalli e cavalieri» (2,21 s). Aggeo non aspetta la salvezza dalla politica, ma invita a confidare in Dio che opera anche attraver‐so gli sconvolgimenti politici umani!

1.2. Cinque frustate

Aggeo è «messaggero del Signore», dal quale ha ricevuto una «missione» o un mandato, ossia di proclamare al popolo d’Israele la volontà di Dio (1,13). Egli è l’annunciatore della presenza di un al‐tro, del Signore che dice: «lo sono con voi» (1,13). Attraverso di lui si manifesta e si comunica la pa‐rola del Signore: «Per mezzo del profeta Aggeo fu rivolta questa parola del Signore...» (2,1). Le pa‐role del profeta si fanno portatrici della parola di Dio come appare da 1,12: «... ascoltarono la paro‐la del Signore, loro Dio, e le parole del profeta Aggeo, secondo la volontà del Signore che lo aveva loro inviato». In questi cenni traspare chiaramente una lucida consapevolezza della missione del profeta. I due capitoletti della profezia di Aggeo possono essere distinti in cinque parti, cinque energiche e vigorose frustate del profeta contro una popolazione scoraggiata e ripiegata su se stessa perché ri‐trovi fiducia, coraggio e iniziativa. I cinque oracoli del profeta sono presenti in questi brani: 1) 1,1‐

* A. BONORA, Aggeo, in G. BARBAGLIO (a cura di), Schede bibliche pastorali, 66‐71.

I profeti Aggeo, Zaccaria e Abdia e i loro libri 203

15a; 2) l,15b‐2,9; 3) 2,10‐14; 4) 2,15‐19; 5) 2,20‐23. Tutto il rotolo profetico ag‐geano è redatto se‐condo una struttura semplice, ma ben organizzata e compatta. L’ese‐geta francese Théophane Cha‐ry ha individuato una struttura con due blocchi che si ripetono, come appare dallo schema che qui riproduciamo:

I II Critica al popolo 1,1‐5 2,10‐14 Descrizione della miseria 1,6‐11 2,15‐17 La benedizione ritorna 1,12‐14 2,18‐19 Oracolo messianico 2,2‐9 2,20‐23

È probabile che la stesura finale di questo testo profetico sia dovuta a un discepolo di Aggeo, per‐ché si parla sempre di lui in terza persona, definendolo «il profeta Aggeo» (1,1.3.12; 2,1.10). Aggeo è un profeta attento a fare un dialogo con il popolo (cf. 1,2: «Questo popolo dice...») e i sacerdoti (cf. 2,11: «... Domanda ai sacerdoti quello che dice la legge»). Il suo messaggio è lanciato come ri‐sposta a problemi e interrogativi veri e concreti, non è una predicazione disincarnata e atemporale.

1.3. Perché ricostruire il tempio?

Il lettore che ha sotto gli occhi le pagine ardenti e incisive dei profeti preesilici contro la corruzione morale, l’ingiustizia sociale, le varie forme di divinizzazione del potere e della ricchezza, con le loro pressanti esortazioni alla conversione, si chiederà: come mai Aggeo non dimostra molto interesse per i problemi morali e si occupa invece della ricostruzione del tempio? Il grande esegeta tedesco G. von Rad ha dato questa azzeccata spiegazione: «Il tempio era il luogo in cui il Signore parlava a Israele, in cui gli perdonava i peccati e in cui si rendeva ad esso presente. Prendere posizione ri‐guardo al tempio era prendere posizione prò o contro il Signore. La gente però si dimostrava abba‐stanza disinteressata alla ricostruzione; dovendo fronteggiare una grave situazione economica essa riteneva che il tempio potesse e dovesse aspettare (Ag 1,2). Aggeo ribalta quest’ordine di doveri: Israele non è più Israele se il regno di Dio non è la prima delle preoccupazioni; il resto, la benedi‐zione di YHWH, gli verrà accordato di conseguenza (Ag 1,2‐11; 2,14‐19)».1 La ricostruzione del tempio sarebbe stata per Israele un banco di prova sia della sua fedeltà al Si‐gnore sia della comune solidarietà e collaborazione così compromessa in quei tempi. Dal Libro di Esdra sappiamo che l’ostacolo principale alla ricostruzione del tempio era l’opposizione dei samari‐tani e anche dei popoli vicini. Ricostruire il tempio, allora, significava anche riaffermare la propria identità di popolo di Dio, in mezzo al quale il Signore è presente. Infatti – dice il Signore – nel tem‐pio «io manifesterò la mia gloria» (1,8), anzi «io riempirò questa casa della mia gloria» (2,7) e «in questo luogo porrò la pace» (2,9). Aggeo sviluppa qui una teologia della presenza di Dio nel suo popolo. Possiamo dire che la ricostruzione del tempio doveva mettere alla prova la fede d’Israele. Dice molto efficacemente J.A. Soggin: «La ricostruzione del tempio nella situazione economico‐politica e religiosa intorno agli anni 520 a.C. era uno schiaffo dato alla realtà presente in vista di quella avvenire». Aggeo non vede nel tempio una grazia materiale né un talismano dagli effetti magici, ma il segno della presenza di Dio.

1.4. Maledizione e benedizione

Aggeo mette il popolo dinanzi a una scelta: maledizione o benedizione. Se il popolo non ascolta l’invito del profeta e non si adopera per ricostruire il tempio, assume un atteggiamento che equiva‐le a una colpa mortale che attira la maledizione (2,10‐14): tutto diventa «impuro», contaminato e sconsacrato e tale sarebbe anche «questo popolo, tale è questa nazione davanti a me e tale è ogni lavoro delle loro mani» (2,14). Ma Israele è un popolo consacrato al Signore e santo (Es 19,6; Lv 19,2); esso deve convertirsi dalla sua condotta sbagliata e «ritornare» (2,17) al Signore esprimendo la propria conversione mediante l’impegno per la casa di Dio: soltanto allora il popolo potrà godere

1 G. VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, II, Brescia 1974, 330.

204 I profeti Aggeo, Zaccaria e Abdia e i loro libri

la benedizione (2,15‐19). L’alternativa di fronte a cui è messo il popolo sta dunque nella scelta tra vita e morte, tra peccato e conversione, tra disobbedienza e obbedienza. La vita del popolo è lega‐ta all’accettazione della presenza di Dio espressa con tre formule equivalenti: «lo sono con voi» (2,4); «la parola dell’alleanza che ho stipulato con voi» (2,5); «il mio spirito sarà con voi» (2,5). An‐che il tema del tempio va visto in questa prospettiva: non si tratta soltanto di edificare una casa di pietre, bensì di edificare una comunità dove Dio possa essere presente. Per questo il profeta invita alla conversione: egli sa che il tempio non è, per sé, una garanzia automatica e magica di fedeltà a Dio.

1.5. La profezia messianica

Zorobabele, governatore della Giudea al tempo di Aggeo, era un discendente di Davide perché era figlio di Sealtièl, il quale a sua volta era figlio di loiachìn, penultimo re di Giuda. Con Zorobabele sembrava dunque ancora possibile che rinascesse la stirpe regale davidica e fosse restaurato il re‐gno. A questo ultimo discendente davidico è rivolta la parola del profeta: «“lo ti prenderò, Zoroba‐bele, figlio di Sealtièl, mio servo – oracolo del Signore –, e ti porrò come un sigillo, perché io ti ho eletto”. Oracolo del Signore degli eserciti» (2,23). Aggeo prevede così il ristabilimento della dinastia davidica mediante un legittimo discendente: tutti i termini qui usati sono caratteristici per indicare il messia, il re unto del Signore (servo, prendere, sigillo, eleggere). Zorobabele diventa, agli occhi del profeta, il concreto punto di condensazione di tutte le attese messianiche: egli rappresenta la figura messianica su cui sono puntate le speranze d’Israele. La parola di Aggeo era rivolta anzitutto a Zorobabele, perché fosse all’altezza del suo compito in quei momenti drammatici per il popolo; ma era anche un invito per tutti a mantenere fiducia nelle promesse divine. Di fatto, Zorobabele non restaurò la monarchia israelitica e non si realizzarono le promesse di Aggeo. E allora si capì che si doveva aspettare un futuro messianico diverso: quando venne Gesù Cristo, i cristiani compresero che lui era il vero messia che adempiva tutte le attese e le speranze rimaste incompiute nel passato, ma le adempiva in maniera inattesa.

Bibliografia scelta su Aggeo

CHARY TH., Aggée, Zacharie, Malachie, Paris 1969. RINALDI G. – LUCIANI F., Aggeo, in I profeti minori, vol. 3, Marietti, Torino‐Roma 1969, 123‐141. BERNINI G., Aggeo, Zaccaria, Malachia (NVB 32), Paoline, Roma 1974, 5‐50. RUDOLPH W., Haggai, Sacharja 1‐8, Sacharja 9‐14, Maleachi, Gütersloh 1976, 19‐58. AMSLER S. – LACOQUE A. – VUILLEUMIER R., Aggée, Zacharie, Malachie, Neuchâtel‐Paris 1981. ACHTEMEIER E., I dodici profeti. Parte seconda: Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia, Claudiana, Torino

2007, 137‐156. CODY A., Aggeo, in R. E. BROWN ‐ J. A. FITZMYER ‐ R. E. MURPHY (a cura di) Nuovo Grande Commentario Biblico, Queriniana,

Brescia 32014, 454‐457.

2. ZACCARIA*

È un dato ammesso dalla immensa maggioranza dei commentatori che l’intero libro di Zaccaria non appartiene allo stesso autore. I primi otto capitoli vengono generalmente attribuiti al profeta. Ma dal capitolo nove al quattordici le differenze di contenuto, di stile, di intenzione, spingono gli ese‐geti ad attribuire tali pagine a uno o più profeti diversi da Zaccaria. Attualmente è in atto la tendenza a scoprire rapporti profondi tra entrambe le parti, senza tuttavia negare la diversa origine delle medesime. Rispetto al contenuto vengono addotte le seguenti differenze: Zc 1–8 dà grande importanza alla ri‐costruzione e organizzazione del tempio, mentre 9–14 non si occupa della problematica; 1–8 con‐cede un ruolo importante, all’interno dei piani divini, all’attività umana, rappresentata dal compito

* ALONSO SCHÖKEL – SICRE DIAZ, I profeti, 1303‐1309.


svolto da Giosuè e Zorobabele, mentre 9–14 confidano solo nell’azione di Dio; in 1–8 si fa mostra di una grande stima della profezia, mentre in 9–14 se ne suppone come ideale la sparizione. Quanto allo stile, Zc 1–8 è in gran parte un libro di visioni, mentre 9–14 contiene soltanto oracoli; in 1–8 abbondano i brani autobiografici, assai scarsi in 9–14; in 1–8 abbondano le formule profetiche, in 9–14 quelle apocalittiche. Quanto all’intenzione, 1–8 si focalizza sulla restaurazione postesilica, mentre 9–14 pensa al futuro escatologico. Molti di questi argomenti sono discutibili, o almeno non hanno grande valore. Tuttavia, nell’insieme, rendono molto plausibile la distinzione abituale tra Protozaccaria (Zc 1–8) e Deuterozaccaria (Zc 9–14).

2.1. Zaccaria 1–8

2.1.1. Autore ed epoca

Zaccaria pare ricordato in Esd 5,1 e 6,14, insieme con Aggeo, come uno dei principali artefici della ricostruzione del tempio. Le date del suo libro coincidono con questa indicazione. La sua attività ha inizio pochi giorni prima che abbia fine quella di Aggeo e si prolunga fino al quarto giorno del nono mese del quarto anno di Dario, cioè fino al 7 dicembre del 518 a.C. (cfr. 7,1). Comprende dunque circa due anni. Del profeta sappiamo ben poco. In 1,1.7 si dice che era figlio di Barachia, figlio di Iddò. Tuttavia, in Esd 5,1 e 6,14 si afferma che era figlio di Iddò. Anche Ne 12,16 ci parla di un figlio di Iddò di nome Zaccaria. È difficile sapere quale tradizione sia quella giusta. Non sappiamo nulla circa la sua età al tempo della vocazione. Chi lo identifica con il giovane che compare in 2,8, afferma che egli era ancora un ragazzo. L’unico dato probabile è che la sua attività profetica fosse finita nel dicembre del 518. Quanto all’epoca, due grandi tematiche occupano in questo tempo i Giudei: la ricostruzione del tempio e la restaurazione escatologica. Se Aggeo aveva accordato più importanza alla prima e solo una breve appendice alla seconda, Zaccaria si comporta nel modo contrario. Senza dimenticare il tema del tempio, egli concentra l’attenzione sulla scoper‐ta dell’èra escatologica che prevede vicina. Zaccaria si inserisce nella linea degli antichi profeti. Li ricorda all’inizio della sua opera (1,4). E come loro esorta alla conversione, sottolineando l’importanza della giustizia e della misericordia (7,8ss). Ne ha pure la continuità letteraria, soprattutto rispetto al II Isaia, di cui si sente l’influsso in 2,10‐17, e di Ezechiele, che è il suo evidente predecessore in vari procedimenti letterari. Ma tutto que‐sto non fa di Zaccaria un semplice epigono. I suoi capitoli hanno una loro marcata originalità, aven‐do egli sviluppato uno stile visionario che in certi momenti assume forme quasi surrealistiche. Per questo Zaccaria fa da anello tra i profeti e la letteratura apocalittica.

2.1.2. Il libro. Divisione e contenuto

Come in Aggeo, manca il titolo. La presentazione del profeta viene fatta nell’introduzione al primo oracolo (1,1‐6), pronunciato nell’ottobre‐novembre del 520 a. C. Si tratta di un’esortazione alla conversione, perché non capiti ai contemporanei quanto già incolse ai loro predecessori. In 1,7 ha inizio la sessione principale del libro, che si estende fino a 6,15. È datata al 15 febbraio del 519, ed è possibile che questo dato valga per tutto il blocco, e non solo per la prima visione. Questi capitoli contengono attualmente otto visioni e una serie di piccoli ora‐coli in esse inseriti. Molti commentatori ritengono che originariamente le visioni fossero sette; è assai probabile, visto che la struttura di 3,1‐7 non corrisponde a quella delle altre. Prescindendo per il momento da essa, e dagli altri oracoli aggiunti più tardi, il contenuto è il seguente:

1ª visione: i cavalli di colore; castigo delle nazioni e benedizione di Gerusalemme (1,8‐16) 2ª visione: le quattro corna e i quattro operai; castigo dei pagani (2,1‐4) 3ª visione: l’uomo con la corda; gloria di Gerusalemme (2,5‐9) 4ª visione: il candelabro d’oro, le sette lampade e i due olivi; esaltazione di Zorobabele e di

Giosuè, rispettivamente governatore e sommo sacerdote (4,6aa.10b‐14)


5ª visione: il rotolo volante; castigo dei malvagi (5,1‐4) 6ª visione: la donna nel recipiente; la malvagità abita in Babilonia, dove è ben accolta (5,5‐

11) 7ª visione: i quattro carri; castigo del Nord (6,1‐8)

Dal punto di vista letterario, le visioni seguono generalmente uno schema a tre membri: 1) descri‐zione di ciò che il profeta ha visto; 2) sua domanda; 3) risposta dell’angelo interprete. Questo schema può ripetersi anche all’interno di una stessa visione, o acquisire modalità particolari, ma resta fondamentalmente valido. Molto più interessante è cogliere le relazioni tra le visioni. Le prime e le ultime due hanno per og‐getto i paesi stranieri che maltrattarono Giuda. Le tre centrali si preoccupano della restaurazione giudaica. Tutto confluisce nella quarta visione, che parla dei due grandi capi, quello politico e quel‐lo religioso, e del nuovo popolo di Dio. Tutte le illusioni alimentate dai Giudei, da quando andarono in esilio, si trovano qui modellate: Dio vi si fa condiscendente verso il suo popolo, ne castiga gli av‐versari, riempie di gloria Gerusalemme, sopprime i malfattori, le concede alcuni governanti degni della nuova situazione. Questa struttura così perfetta è stata alterata da varie aggiunte posteriori, alcune delle quali possono anche provenire dallo stesso profeta. Alla prima visione fu aggiunto 1,17, assai rapportato con detto tema; 2,10‐17 è un’esortazione a fuggire dal Nord, mentre allo stesso tempo annuncia il castigo dei pagani e la salvezza di Giuda; probabilmente si devono distin‐guere in questi versetti due oracoli (2,10‐13 e 2,14‐17), benché entrambi possano provenire da Zaccaria. Tra le aggiunte ha importanza particolare 3,1‐7 – la visione di Giosuè, sommo sacerdote – cui segue un oracolo a lui diretto (3,8‐9) e una promessa di pace (3,10). Come abbiamo già detto, la struttura di questo brano non è la stessa delle altre sette visioni, e questo fa pensare che non appartenesse al ciclo originario. Mette però in rilievo l’importanza sempre maggiore acquistata dal sacerdozio nel periodo postesilico. All’interno della quarta visione sono stati inseriti alcuni versetti (4.6ab.10a), contenenti due oracoli rivolti a Zorobabele, e riferiti entrambi alla ricostruzione del tempio. Non c’è dubbio che questi ver‐setti interrompono la visione e si differenziano da essa per il loro stile oracolare; inoltre, mentre la visione parla di Giosuè e di Zorobabele, essi si riferiscono soltanto al governatore. Si tratta certa‐mente di un’aggiunta; e, anche se i versetti possono provenire da Zaccaria (com’è più probabile), non sappiamo perché essi abbiano occupato il posto attuale. Infine, il ciclo delle visioni è stato completato con un’azione simbolica, riferita alla corona di Zoro‐babele (6,9‐15). Nell’insieme, queste inserzioni posteriori non hanno modificato il contenuto dei capitoli. Le idee fondamentali – castigo dei nemici, gloria di Giuda, governo di Giosuè e di Zoroba‐bele – ne restano rinforzate. Ma la struttura iniziale viene oscurata e resa confusa.

La terza sezione (capp. 7–8) è formata da una serie di oracoli in apparente disordine. Il punto di partenza (7,1‐3) è un consulto con i sacerdoti e i profeti per vedere se si debba continuare a cele‐brare il giorno di lutto e di digiuno del quinto mese. La risposta di Zaccaria si trova in 8,18‐19: non solo il digiuno del quinto mese, ma anche gli altri si tramuteranno in piacere, gioia e festività. At‐tualmente tra la domanda e la risposta troviamo testi di carattere diverso:

7,4‐7 È una critica del digiuno, sullo stile di Is 58,1‐2. 7,8‐14 Partendo da un’esortazione alla giustizia, giustifica la catastrofe di Gerusalemme e

l’esilio a causa dei peccati di ingiustizia. 8,1‐17 Contiene una serie di promesse introdotte con la formula del messaggero (vv.

2.3.4.6.7.9.14). Fondamentalmente, si riferiscono alla prosperità di Gerusalemme. 8,20‐23 Contiene due promesse, che pure cominciano con la formula del messaggero. Parla‐

no del pellegrinaggio dei popoli a Gerusalemme, per placare il Signore e fargli visita. Notevole l’assenza di nazionalismo politico in questi oracoli. Le nazioni non finiscono col rendere omaggio ai Giudei né col portargli le loro ricchezze. L’unica cosa impor‐tante è il Signore.


Nonostante il disordine di questa terza sezione, la maggior parte degli oracoli proviene da Zaccaria. A volte si nega l’autenticità di 8,9‐13 e di 8,20‐23, ma senza che si dia unanimità tra i commentato‐ri. Quanto al disordine, ha una sua spiegazione. Il consulto sul digiuno (7,1‐3) ha provocato l’inserimento della critica del medesimo (7,4‐7) e dell’esortazione alla giustizia, con la condanna dell’ingiustizia (7,8‐14). Allo stesso tempo, il castigo di Gerusalemme ha trascinato dietro a sé l’annuncio della sua restaurazione in 8,1‐17.

2.2.3. Messaggio di Zaccaria 1–8

Gli otto capitoli di Zaccaria, con il loro cambiamento frequente dallo stile visionario a quello oraco‐lare e le loro immagini surrealiste, possono produrre nel lettore un senso di sconcerto. Tuttavia, il messaggio di questo profeta è chiaro e facile da riassumere. Prima di tutto, benché questo non sia forse l’aspetto più importante, egli si riferisce alla ricostru‐zione del tempio (1,16), promettendo a Zorobabele che avrebbe terminato l’opera «non per la propria forza o ricchezza, ma per l’aiuto dello spirito di Dio» (cfr. 4,6b‐10a). Questa ricostruzione apre il varco a una nuova èra di prosperità e di benedizione (8,9‐13). Di fatto, ciò che più sta a cuore a Zaccaria è questo nuovo mondo futuro. È questo il tema fonda‐mentale delle visioni. Al castigo dei nemici, come passaggio previo, segue la restaurazione gloriosa di Gerusalemme governata da Giosuè e Zorobabele. Ma la gloria deriva soprattutto dalla presenza del Signore, alla quale il profeta si riferisce con frequenza (2,9b.14‐16; 8,3.23). Con lui la capitale resterà aperta non solo ai Giudei, ma a tutti i popoli che desiderano visitare il Signore. Di conseguenza, il messaggio di Zaccaria si ispira a quello di Ezechiele e sviluppa più pienamente quello di Aggeo. Ma Zaccaria non si preoccupa solo del futuro. Per lui conta molto il presente. E il compito del suo momento storico non consiste soltanto nel mettere pietra su pietra. C’è qualcosa di assai più importante che si chiama convertirsi (1,14). E nella conversione occupa un posto fon‐damentale l’aspetto etico (7,9‐10; 8,16‐17): il culto da solo non basta (7,4‐7). Tenendo presenti tutti questi particolari, osserviamo come Zaccaria costituisca il punto d’incrocio di varie linee profetiche. A volte ci ricorda la predicazione di Amos, Isaia o Michea (ai quali allude, senza nominarli espressamente), con il suo marcato accento sociale. Altre volte ci pare di trovarci davanti a un eccellente discepolo di Ezechiele, con il suo ideale di restaurazione politica e cultuale. In altri casi ci sentiamo alle porte dell’apocalittica. Questo intersecarsi di strade è ciò che rende più interessante la persona e il messaggio del profeta. La sua apertura a tutte le correnti, la sua capacità di unificarle e sintetizzarle senza semplicismi, ne fanno un modello per un’interpretazione non unilaterale della tradizione profetica.

2.2. Il Secondo Zaccaria (Zc 9–14)*

Criticamente certa è la separazione dai precedenti dei cc. 9–14, anonimi, convenzionalmente attri‐buiti a un Secondo Zaccaria per motivi storici, letterari e teologici. Infatti alle indicazioni cronologi‐che precise dei cc. 1–8, che ci riportano al 520‐518 (Zc 1,1.7; 7,1), si contrappongono incerte allu‐sioni a eventi del IV‐III secolo nei capitoli seguenti; la problematica sul tempio da ricostruire e del culto da organizzare è assente dal Secondo Zaccaria, come pure i riferimenti a Zorobabele e a Gio‐suè. L’elemento letterario principale del Primo Zaccaria, la visione in prima persona, in prosa (1,8–6,15), è sostituito dall’oracolo, in terza persona, ampio, ora in prosa (specialmente cc. 9–10.14), ora in poesia (specialmente cc. 12–13), senza formula introduttiva. Occorrono varie forme letterarie, dall’annuncio dell’intervento divino (Zc 9,1‐8), all’invito alla gioia (9,9‐10), all’apostrofe (cf. 10,1‐3), alla lamentazione (11,17), all’allegoria (11,4‐16), alla menzione del giorno del Signore; il frequente appellativo «Signore degli eserciti» (YHWH ṣeva’ôt) del Primo si ritrova solo tre volte nel Secondo Zaccaria (14,16.17.21).

* B. MARCONCINI, Il Secondo Zaccaria (Zc 9–14), in ID., Profetici e Apocalittici, 246‐251.


Si passa infine da un apprezzamento del profetismo nel Primo al disprezzo di ogni velleità di fare il profeta (13,3‐6); dalla valorizzazione del tempo presente, da vivere in pace nella propria terra, alla proiezione in un futuro indeterminato in una terra trasformata; da un messianismo regale‐davidico, alimentato dalla figura di Zorobabele, a uno paziente, rappresentato dal trafitto (12,10). Il partico‐larismo fondato su una ristretta visione geografico‐politica si apre a un universalismo che si esten‐de ai popoli pagani, i quali riconosceranno il Signore re di tutta la terra (14,9.16); l’escatologia del Secondo Zaccaria è di chiara impronta apocalittica.

2.2.1. Il contenuto

Una prima unità (9,1‐8) annuncia il passaggio della parola del Signore, come un esercito vittorioso, sui regni di Siria, sulle città della Fenicia e della Filistea, per renderle «sua dimora e suo popolo» (v. 1) e, purificate dall’idolatria, considerarle parte della famiglia di Giuda (v. 7), per sempre. «Il Signo‐re si porrà infatti come sentinella che... sorveglia con i suoi occhi» (v. 8). La seguente breve perico‐pe (9,9‐10), nuova per ritmo poetico e per contenuto, si concentra su Gerusalemme, dove sta per venire, cavalcando un giumento, un re mansueto che dominerà pacificamente tutta la terra. In un testo corrotto e di difficile interpretazione risalta grandiosa la figura del Signore protettore del suo popolo in due scene parallele: l’una (9,11‐17) con l’invito finale (10,1‐2) a ritenerlo unico dispensatore di benessere, l’altra (10,3‐13) con la poetica illustrazione della distruzione degli op‐pressori di Israele mediante la desolazione della rigogliosa montagna del Libano e delle impene‐trabili boscaglie di Basan dopo un incendio o un uragano (11,1‐3). Si discute circa il senso del racconto dei due pastori (11,4‐17) e il suo collegamento con il passo del pastore ucciso dalla spada (13,7‐9).2 Il buon pastore, rappresentato dal profeta stesso (cf. invece Ez 34,11‐16; Ger 23,1‐6), sostituisce i falsi pastori, «compratori», «venditori», «mercanti», ma è re‐spinto, nonostante l’intensa cura pastorale. I due bastoni, l’uno più lungo e sottile per guidare il gregge, l’altro più corto e robusto per sorreggersi, acquistano valore simbolico di alleanza tra il Si‐gnore e i popoli («Benevolenza») e di fratellanza tra Giuda e Israele («Unione»): il gesto simbolico della loro rottura indica lo scontro all’interno e all’esterno del popolo eletto. L’irrisorio prezzo stabi‐lito per la cura pastorale (trenta sicli d’argento, il prezzo di uno schiavo, Es 21,32; cf. Mt 27,3.9) è un ulteriore elemento della drammaticità della situazione. Subentra quindi un pastore malvagio che sfrutta in ogni modo le pecore (cf. il continuo riferimento a Ez 34; Ger 23,1‐6; cf. Gv 10,1‐18). Un brano redazionalmente unitario, anche se proveniente da diversa tradizione come quella di Ge‐rusalemme (12,3.5.6b.7b.8) e di Giuda (12,4.6a.7a), è rintracciabile in 12,1–13,6, ulteriormente di‐viso dall’identica formula introduttiva: «E avverrà in quel giorno» (12,3.9; 13,2). È l’annuncio del giudizio divino sui popoli stranieri con forti immagini: Gerusalemme diverrà «coppa inebriante per tutti i popoli vicini», «grosso macigno», «fornace di fuoco sopra la paglia», e i suoi abitanti forti «come Davide, come Dio, come l’angelo del Signore»: spicca un inconsolabile pianto generale per un «trafitto» la cui morte apporterà a Giuda una salvezza perenne in seguito a una sincera conver‐sione (12,9‐13,1). L’ultimo capitolo, un vero mosaico di brani, si stacca dai precedenti per contenuto, perché allarga lo sguardo alle nazioni convertite e pellegrine a Gerusalemme, dopo che una solenne apparizione del Signore avrà annientato i loro inefficaci assalti alla città: trasformazione del paese di Giuda (14,4‐8), riconoscimento della regalità del Signore (14,9.16.17), sacralizzazione di quanto si trova in Gerusalemme (14,20‐21). Anche lo stile è diverso, con alternarsi di parti poetiche (vv. 1‐4a.5b‐9.11b.13‐14.16) e di sezioni in prosa (vv. 4b.5a.10.11a. 12.15.17‐21), che fungono da commento alle precedenti.

2 È oggetto di discussione chi in realtà sia presentato come il buon pastore: il Signore, il Messia, un re passato o fu‐

turo, un profeta, oppure, più generalmente, se esso sia una figura storica o messianica (diretta o tipologica); chi siano i tre pastori di 11,8 e il pastore colpito di 13,8. Per quest’ultimo si danno tre opinioni: il pastore colpito è uguale al trafit‐to di 12,10 (Lagrange); è il buon pastore di 11,4‐14 (Procksch, Sellin); è un pastore “neutro”, potendosi riferire sia al buono che al cattivo (Gelin). Cf. P. LAMARCHE, Zacharie IX‐X1V, Gabalda, Paris 1961, 17‐19.


2.2.2. Problemi critici

Datazione La critica si è orientata attorno a una data postesilica, verso il 485 (van Hoonacker, Knabenbauer, Nötscher, Clamer, Bullough, Klausner), o all’epoca di Alessandro Magno (Nowack, Driver, Lagrange, Gelin, Delcor, Toumay, Chary) o a quella maccabaica (Wellhausen, Marti, Trever, Kenneth).3 Allo stato attuale delle ricerche l’opera è databile tra la fine del IV secolo e i primi decenni del III secolo, prima certamente del 200, dal momento che Sir 49,10 conosce la raccolta dei Dodici profeti. Unità Controverso è il problema dell’autore. Sostiene un unico autore, del sec. VI, P. Lamarche, che ritro‐va quattro temi, chiasticamente disposti: popoli pagani, re e pastore, guerra e vittoria d’Israele, idoli e falsi profeti. Il parallelismo, senza annunciare una successione cronologica, sviluppa e ribadi‐sce uno stesso concetto per cui Zc 12–14 ripete in senso inverso la tematica di Zc 9–11, in dodici parti distinte, facendo ad esempio del re messianico, del pastore respinto, di quello ucciso e del trafitto, figure illustrative del Messia, sulla base di un personaggio contemporaneo del primo do‐poesilio, Zorobabele.4 Più fondata nel testo appare una divisione bipartita, per la ripetizione di maśśā’ (oracolo: 9,1; 12,1; cf. Mc 1,1) che permetterebbe di parlare di un Secondo (cc. 9–11) e di un Terzo Zaccaria (cc. 12–14). Le differenze tra i due gruppi di capitoli sono notevoli. Si nota infatti la prevalenza della poesia nei primi e della prosa nei secondi, allusioni alla storia nei primi e pura escatologia nei secondi, frequente riferimento a Israele, Efraim e Giuseppe nei cc. 9–11 e concentrazione su Gerusalemme nei cc. 12–14. Questi ultimi esprimono «prevalentemente attese generiche di un assalto escatolo‐gico dei popoli e della loro distruzione», mentre i precedenti, «se si eccettua l’allegoria dei pastori di 11,4‐17, che è indecifrabile, [contengono] la previsione concreta anzitutto dell’ascesa, e quindi della scomparsa della potenza mondiale greco‐macedone (9,1–11,3). Bisogna dunque ritenere che i cc. 9–11 e i cc. 12–14 costituiscono due libretti a sé stanti».5 Non priva di fondamento appare una terza teoria che considera l’opera «come un’antologia di testi di origine diversa», teoria che pare la più convincente.6 Fonti e citazioni neotestamentarie Il Secondo Zaccaria tiene presente soprattutto Ezechiele per i grandi temi del buon pastore (Zc 11,4‐13 e Ez 34), dell’effusione dello Spirito (Zc 12,1‐9 e Ez 36) e della sorgente purificante (Zc 13,1‐6 e Ez 47), e ne rilegge gli oracoli contro Tiro (cf. Zc 9,2‐9 e Ez 28,2‐6); dipende da Gioele per la menzione dei Greci (Zc 9,13 e Gl 4,6) e per gli oracoli contro i Fenici e i Filistei (Zc 9,3‐5 e Gl 4,4‐8): riferimenti si hanno anche al libro di Isaia, specialmente al Secondo Isaia, a Geremia e ai libri storici (Re e Cronache). Nell’uso delle fonti si assiste a un processo di semplificazione, per cui una parola richiama un ampio contesto, e soprattutto di libertà, che giunge a dare anche un senso diverso ri‐spetto all’originale (cf. Zc 11,7‐14 ed Ez 37,25‐28). Gli evangelisti fanno un largo uso di Zc 9–14 per illuminare importanti episodi della vita di Cristo: ingresso di Gesù in Gerusalemme (Zc 9,9 e Mt 21,5; Gv 12,14), il prezzo della cattura (Zc 11,12‐14 e Mt 27,9‐10), lo sguardo al crocifisso (Zc 12,10 e Gv 19,37) e il lutto che ne segue (Zc 12,10b‐12 e Mt 24,30), la dispersione del gregge dopo che il pastore è stato percosso (Zc 13,7 e Mc 14,27; Mt

3 LAMARCHE, Zacharie IX‐XIV, 21s. 4 LAMARCHE, Zacharie IX‐XIV, 112s. 5 O. EISSFELDT, Introduzione, III, 237. Tale opinione è difesa da Duhm (1911), Sellin‐Fohrer (1929), Elliger (1964): Bog‐

gio (1991) sembra preferirla (pp. 66.69). 6 L. ALONSO SCHÖKEL, I Profeti, 1345s. Proposta da Flugge (1784), e accettata da Bauer (1794), Gramberg (1829),

Staerk (1891), Wellhausen (1892), Horst (1938), Jepsen (1939), Gelin (1959), Harrington (1965), Hanson (1975), Testa (1977).


26,31), l’espulsione dei venditori dal tempio (Zc 14,21 e Gv 2,16). L’Apocalisse di Giovanni vi fa fre‐quente allusione (cf. specialmente Zc 14,7‐8 e Ap 21,25). Il genere apocalittico È riscontrabile innanzitutto nella varietà di generi letterari: si passa infatti da un oracolo contro le nazioni invase, dettagliatamente enumerate (Zc 9,1‐8; cf. Mic 1,10‐15; Is 10,28‐32), ad acclamazio‐ni regali (Zc 9,9‐10; cf. Is 9,5‐6), a lamentazioni (Zc 11,1‐3; cf. Is 16,7‐12), ad azioni simboliche (11,4‐16; cf. Ger 18,1‐12; Ez 4,1‐2), ai “guai!” (Zc 11,17; cf. Is 5,8‐25), a formule di alleanza (Zc 13,9; cf. Ger 7,23; Ez 37,23‐27). I capitoli contengono soprattutto lo schema del combattimento escatologi‐co7 contro le nazioni che minacciano il regno divino, ma sono vinte da Dio stesso, che appare come guerriero e giudice in una grandiosa manifestazione cosmica che inaugura il regno definitivo di Dio tra gli eletti. Una potente comparsa del Signore è rintracciabile già al c. 9: «Allora il Signore comparirà contro di loro, come fulmine guizzeranno le sue frecce; il Signore darà fiato alla tromba e marcerà fra i turbi‐ni del mezzogiorno. Il Signore degli eserciti li proteggerà...» (9,14‐15a). Il tema del combattimento è ripreso in 10,3b‐12 con la menzione dei nemici attraverso i nomi dei tradizionali oppressori (Assi‐ria ed Egitto), il rinnovamento dei prodigi dell’Esodo e la caratterizzazione di Dio che combatte da solo, oppure rende invincibili i suoi. Zc 12,1‐9 ripresenta gli accenti di una distruzione totale dei nemici operata da Gerusalemme, resa dal Signore «coppa che dà vertigini», «pietra da carico», «braciere acceso in mezzo a una catasta di legna», o come «una torcia ardente tra i covoni»; Dio è definito come colui che «colpisce di terrore cavalli e cavalieri», «distrugge i nemici», mentre «salva le tende di Giuda». La perfezione del genere è nell’assalto delle nazioni contro Gerusalemme respinto dall’arrivo del Signore sul monte degli Ulivi (14,1‐5), con trasformazione della natura (terremoto, mutazione del paese, apparizione di luce e acqua: 14,6‐11) quale segno della regalità del Signore su tutta la terra (14,12.15). La dimensione cosmica degli eventi, la fine dell’inverno e della notte, l’ampliamento dello scorrere del fiume anche verso ovest, mentre in Ezechiele era solo verso est, lo spostamento delle montagne, ad eccezione di quella di Sion, la descrizione quasi gioiosa del massacro delle na‐zioni, l’origine di un tempo qualitativamente diverso, introducono in piena apocalittica, in un’apocalittica quasi pura.

2.2.3. La triplice figura del Messia

Il Secondo Zaccaria sintetizza e supera tematiche precedenti. Fonde la concezione escatologica senza Messia e il messianismo escatologico personale, la teocrazia nazionalistica e il regno spiritua‐le, l’universalismo della salvezza e il particolarismo del tempio, prospettive grandiose con ombre e limitazioni. Accanto all’assoluta signoria di Dio sulla storia che pervade tutti i capitoli, è delineata la figura di un inviato del Signore, il Messia presentato sotto tre aspetti successivi e complementari.

Il re umile e mansueto (9,9‐10) rilegge le antiche promesse sul discendente davidico, apportatore di pace e di giustizia (Is 9,5‐6; 11,3b‐9) attraverso la figura forte e umile del servo del primo canto isaiano (Is 42,1‐7). I due passi infatti si richiamano per la forma letteraria, la presentazione del ser‐vo (Is 42,1) e del re (Zc 9,9b), la pienezza dei doni e la missione universale (Is 42,1b.6‐7 e Zc 9,9b) e il carattere pacifico (Is 42,2‐3 e Zc 9,9b). Il Messia atteso, non identificabile con nessun personaggio storico, è proiettato in un futuro imprecisato. I Vangeli, che seguono i LXX con libertà (Mt 21,5; Gv 12,15), vedono nell’entrata in Gerusalemme il compimento di Zc 9,9, sottolineando ulteriormente con l’omissione di «giusto e salvato» l’umiltà e la dolcezza di Cristo.

7 La struttura dell’inno a Dio guerriero è composta di «minaccia, guerra, teofania, vittoria, regno divino universale,

processione (fertilità restaurata), (banchetto)», con possibili variazioni attorno all’elemento stabile. cioè «che il com‐battimento celebrato è di carattere mitico e di dimesione cosmica» (S. AMSLER, Aggée, 138s).


Il pastore rifiutato (11,12b‐13) che rivendica un salario per l’opera svolta ricevendone trenta sicli d’argento (11,1b‐13), il valore di uno schiavo (Es 21,32), nonostante gravi difficoltà testuali e stori‐che, assume certamente un senso messianico, segnando un progresso rispetto alla figura prece‐dente e ponendosi più vicino al servo del secondo (Is 49,4a) e terzo canto (Is 50,6‐7). Mt 27,9‐10 vede una corrispondenza tra l’offesa fatta al profeta/pastore, e quindi al Signore, e il tradimento al‐lo stesso prezzo di Gesù da parte di Giuda. Al di là di questo accordo di fondo, le differenze tra i due testi, che si accrescono ulteriormente dal confronto con l’altra tradizione popolare di At 1,16‐19, sono notevoli, e i raffronti sorpassano ogni libera interpretazione.8

Il trafitto (12,10‐11), causa di un lutto come la morte di un primogenito o del re Giosia, pur descrit‐to in un testo oscuro,9 è certamente una figura messianica, delineata con un libero riferimento al servo sofferente e con una presa di coscienza della capacità redentiva del dolore, che troverà il “compimento” in Gesù di Nazaret (Gv 19,37; cf. Ap 1,7).

Bibliografia scelta su Zaccaria

CHARY TH., Aggée, Zacharie, Malachie, Paris 1969. RINALDI G. – LUCIANI F., Zaccaria, in I profeti minori, vol. 3, Marietti, Torino‐Roma 1969. BERNINI G., Aggeo, Zaccaria, Malachia (NVB 32), Paoline, Roma 1974. RUDOLPH W., Haggai, Sacharja 1‐8, Sacharja 9‐14, Maleachi, Gütersloh 1976. AMSLER S. – LACOQUE A. – VUILLEUMIER R., Aggée, Zacharie, Malachie, Neuchâtel‐Paris 1981. GORGULHO O., Zaccaria, Borla, Roma 1988. ACHTEMEIER E., I dodici profeti. Parte seconda: Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia, Claudiana, Torino

2007. CODY A., Zaccaria, in R. E. BROWN ‐ J. A. FITZMYER ‐ R. E. MURPHY (a cura di) Nuovo Grande Commentario Biblico, Querinia‐

na, Brescia 32014.

3. ABDIA*

3.1. Il profeta e il suo tempo

Nell’introduzione redazionale al libro di questo profeta ci è detto solo il nome; ogni dato biografico appare assente (v. 1). Possiamo però ricostruire dallo scritto il periodo della sua attività profetica e la situazione storica che ne ha determinato l’intervento a proclamare la parola di Dio. Egli addebita al popolo di Edom l’orrendo crimine di aver pugnalato alle spalle gli israeliti, sconfitti già da un esercito straniero che ne ha espugnato la capitale (vv. 11‐14). Il riferimento, sembra certo, è alla catastrofe del 587, quando Nabucodònosor distrusse Gerusalemme, deportando in Babilonia la classe dirigente e numerosi esponenti dei ceti dominanti del regno di Giuda. Ne fanno fede altri passi biblici che indubbiamente parlano di tale tragedia e in termini simili alla descrizione di Abdia. Per es., anche Ezechiele denuncia l’odio di Edom contro gli israeliti manifestato «al tempo della lo‐ro sventura» (35,5) e rileva il fatto dell’occupazione della terra di Giuda da parte degli edomiti sfruttatori della sconfitta patita dai vicini (35,12; cf. pure Ez 25,12). Più chiaro ancora è il salmo 137,7 in cui si chiede vendetta contro gli edomiti: «Ricordati, Signore, dei figli di Edom, che, nel giorno di Gerusalemme, dicevano: “Spogliatela, spogliatela fino alle sue fondamenta”».

8 Cf. E. TESTA, Il profetismo, 963, che vede in Zc «il tipo Giuda, apostolo e traditore, al di là di ogni accomodazione o

stiracchiamento del testo biblico». Le differenze tra i due testi sono: i trenta denari li riceve Giuda e non il fedele invia‐to di Dio; il denaro è prezzo del tradimento, non dei servizi resi al popolo; la restituzione del denaro non è per ordine di Dio, ma per rimorso; col misero prezzo si valuta Gesù, non l’opera di un profeta; il denaro serve a comprare il campo, non resta nel tempio. Cf. P. BENOIT, La morte di Giuda, in Esegesi e Teologia, Paoline, Roma 1964, 257‐284.

9 M. DELCOR, Un problème de critique textuelle et d’exégèse: Zach XII, 10, in RB 58 (1951) 189‐199. Cf. P. SACCHI, L'esi‐lio e la fine della monarchia davidica, in Henoch 23 (1989) 131‐148, che identifica il trafitto con Zorobabele.

* G. BARBAGLIO, Abdia, in G. BARBAGLIO (a cura di), Schede bibliche pastorali, 5‐9.


Siamo dunque poco dopo la distruzione di Gerusalemme, quando particolarmente bruciante era il ricordo del dramma e del tradimento del «fratello» regno edomita. È inoltre probabile che Abdia sia stato un profeta cultuale, che ha preso la parola durante una liturgia di lamento, celebrata sulle rovine di Sion dagli scampati al massacro e alla deportazione. Si veda in proposito la somiglianza del testo di Abdia con il canto delle Lamentazioni: «Esulta pure, gioisci, figlia di Edom, che abiti nel‐la terra di Us; anche a te arriverà il calice, ti inebrierai ed esporrai la tua nudità. È completa la tua punizione, figlia di Sion; egli non ti manderà più in esilio; ma punirà la tua iniquità, figlia di Edom, svelerà i tuoi peccati» (Lam 4,21 s). D’altra parte, sappiamo dal Libro di Zaccaria che a Gerusalem‐me, dopo il 587, si celebravano annuali liturgie di lamento nell’anniversario della caduta della città e della distruzione del tempio, cioè nel quinto mese dell’anno (Zc 7,3.5; 8,19). Ora, in tali celebrazioni rituali al lamento per l’immane rovina e alla confessione penitenziale delle proprie colpe era abbinata l’invocazione a Dio perché ai nemici fosse reso pan per focaccia. Non solo: nella certezza di essere esauditi, i partecipanti esprimevano con parole minacciose l’agognato giudizio divino di condanna contro i trionfatori del passato. Ebbene, Abdia appare nel suo scritto come il portavoce della sicurezza degli scampati di vedere un giorno non lontano l’odiato nemico da baldanzoso a umiliato e castigato.

3.2. Lo scritto

È il più breve libro profetico dell’AT, un solo capitolo. Ma non per questo può essere messo da par‐te, perché letterariamente e dal punto di vista contenutistico merita seria attenzione. Il brano portante di tutto lo scritto è senz’altro costituito dai vv. 1‐15, in cui il profeta annuncia il giudizio divino di condanna contro Edom, motivandolo con il peccato di tradimento consumato a danno del popolo «fratello». Più in particolare, Abdia, insieme con altri profeti cultuali, confessa di aver ricevuto anzitutto un messaggio divino che mobilita Israele e i popoli pagani a dare l’assalto alla città capitale del regno edomita (v. 1). Segue un oracolo del Signore che in prima persona an‐nuncia la decimazione della popolazione di Edom e la riduzione del suo territorio nazionale invaso da eserciti nemici (v. 2). Edom non pensi di essere inespugnabile e irraggiungibile, facendo affida‐mento sulla difesa naturale che gli offre il territorio montagnoso e scosceso; si tratterebbe, in real‐tà, di un’illusoria e orgogliosa sicurezza: «La superbia del tuo cuore ti ha ingannato, tu che abiti nel‐le caverne delle rocce, delle alture fai la tua dimora e dici in cuor tuo: “Chi potrà gettarmi a terra?”. Anche se, come l’aquila, ponessi in alto il tuo nido, anche se lo collocassi fra le stelle, di lassù ti farò precipitare. Oracolo del Signore» (vv. 3‐4). Nei vv. 5‐7 poi Abdia esplicita, non senza toni sarcastici, il giudizio del Signore, presentando la sconfitta di Edom, discendente di Esaù, come un fatto già av‐venuto. Ancora un oracolo divino in prima persona annuncia il futuro castigo che questa volta col‐pirà soprattutto l’intellighenzia del nemico e il suo esercito (vv. 8‐9). Castigo duro, certo, ma pienamente meritato, perché Edom si è macchiato di un crimine imperdo‐nabile, avendo tradito il legame di fraternità che lo legava a Israele; infatti i due rispettivi antenati, Esaù e Giacobbe, erano fratelli (vv. 10‐14). In concreto, il giorno della caduta di Gerusalemme gli edomiti si erano comportati da nemici, gioendo della sconfitta degli israeliti, depredandoli e mas‐sacrando i superstiti in fuga precipitosa. In chiusura, Abdia annuncia profeticamente la vicinanza del «giorno del Signore», formula tecnica indicatrice dell’intervento futuro annientatore degli av‐versari d’Israele e vendicatore della loro perfidia: «Perché è vicino il giorno del Signore contro tutte le nazioni. Come hai fatto tu, così a te sarà fatto; ciò che hai fatto agli altri, ricadrà sul tuo capo» (v. 15). Edom però non era l’unico nemico di cui vendicarsi; il profeta allarga dunque l’annuncio del giudi‐zio divino agli altri popoli con cui Israele aveva dei conti in sospeso. Sarà di fatto applicata la legge del taglione, annunciata appena sopra: essi berranno il calice amaro della distruzione, già bevuto da Gerusalemme nel 587, mentre gli israeliti, quelli sopravvissuti al disastro, saranno i loro domina‐tori (vv. 16‐18). Nella rivincita d’Israele comunque sarà lo stesso Signore a mostrarsi re vittorioso:


«Saliranno vittoriosi sul monte di Sion, per governare il monte di Esaù, e il regno sarà del Signore» (v. 21). I vv. 19‐20 sono invece manifestamente un’aggiunta posteriore; suppongono infatti il ritorno degli esuli israeliti da Babilonia, di cui si preannunciano conquiste territoriali strepitose.

3.3. Interpretazione del suo messaggio

Non c’è dubbio che nelle parole di Abdia si esprime un’evidente sete di vendetta contro i traditori edomiti, manifestata secondo la formulazione del codice del taglione: «Come hai fatto tu, così a te sarà fatto, ciò che hai fatto agli altri ricadrà sul tuo capo» (v. 15b). E l’immagine di Dio sottintesa è quella del vendicatore. Nello stesso tempo, vi si nota il desiderio di una piena rivincita, affidata all’iniziativa del Signore capace di far precipitare l’arrogante Edom (vv. 3‐4). Non è tutto: il profeta identifica massimalisticamente la causa d’Israele e la causa di Dio, affermando un’esatta corrispon‐denza tra il dominio del primo e la signoria del secondo: «Saliranno vittoriosi sul monte di Sion, per governare il monte di Esaù, e il regno sarà del Signore» (v. 21). Ora, alla luce di Cristo, ancor più alla luce del suo discorso sul monte e soprattutto della sua morte in croce, la rilettura cristiana di questo scritto non può che essere critica, nel senso di smascherare i processi religiosi ideologici fin troppo evidenti nelle parole di Abdia, vale a dire l’immagine di un Dio bellicoso, l’applicazione del codice della corrispondenza tra colpa e pena, la legge del taglione, lo spirito vendicativo nei confronti dei nemici. Si deve allora concludere che il messaggio di Abdia sia dialetticamente superato dalla croce di Cri‐sto, sia cioè una tesi a cui si contrappone come valida l’antitesi cristiana? Per nulla, perché al di sot‐to dello spessore ideologico religioso risuona la voce di una comunità umiliata che non si rassegna al peggio, ma spera in Dio e nel proprio futuro di vita e si affida alla luce del «giorno del Signore», quando questi istaurerà nel mondo la sua signoria. È un filo rosso che passa attraverso i secoli e ar‐riverà fino a Gesù che, mediante il suo lieto annuncio: «Il regno di Dio è vicino» (Me 1,15), rilancia la speranza dei «poveri»: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio» (Le 6,20); «... ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,5).

Bibliografia scelta su Abdia

RINALDI G., Abdia, in I profeti minori, vol. 2, Marietti, Torino‐Roma 1960, 169‐185. KELLER C. A., Abdias, Neuchâtel‐Paris 1965, 249‐262. RUDOLPH W., Joel, Amos, Obadja, Jona, Gütersloh 1971, 293‐319. BERNINI G., Sofonia, Gioele, Abdia, Giona (NVB 31), Paoline, Roma 1972, 197‐230. WOLFF H. W., Dodekapropheton 3: Obadja und Jona, Neukirchen‐Vluyn 1977, 1‐51. SAVOCA G., Abdia, Naum, Abacuc, Sofonia (I libri biblici. Primo Testamento 18), Paoline, Milano 2006, 13‐49.

LIMBURG J., I dodici profeti. Parte prima: Osea, Gioele, Amos, Giona, Abdia, Michea, Claudiana, Torino 2007, 175‐190. SCAIOLA D., Abdia, Giona, Michea (Nuova versione della Bibbia dai testi antichi 15), San Paolo, Cinisello Balsamo 2012,

9‐37. MALLON E. D., Abdia, in R. E. BROWN ‐ J. A. FITZMYER ‐ R. E. MURPHY (a cura di) Nuovo Grande Commentario Biblico, Queri‐

niana, Brescia 32014, 527‐529.

I PROFETI MALACHIA, GIONA E BARUC E I LORO LIBRI

1. MALACHIA*

1.1. Un messaggero e il suo libro

Malachia significa «mio messaggero» (1,1; 3,1). È un nome appropriato per un profeta, che è por‐tatore del messaggio divino al suo popolo. Non sappiamo se questo fosse un titolo oppure il nome proprio di un profeta sconosciuto, vissuto tra il 500 e il 450 a.C., dopo Aggeo e Zaccaria, i quali ave‐vano svolto il loro ministero tra gli esuli ritornati in patria e impegnati soprattutto a ricostruire il tempio e la città di Gerusalemme. Dopo i primi entusiasmi, la vita dei rimpatriati si rivelò sempre più difficile e irta di difficoltà: abusi nella pratica liturgica ripresa nel nuovo tempio, matrimoni mi‐sti con stranieri, ingiustizie sociali, rilassamento religioso e morale. Il nostro Malachia tenta una violenta sferzata. Egli usa una tecnica oratoria ben nota: interpella e sfida i suoi uditori con una se‐rie di interrogativi, in modo da coinvolgere e scuotere chi è disposto a dargli ascolto. Quali erano i problemi, dunque, dibattuti in quell’epoca? Anzitutto si ritornava a riflettere sull’esilio e a chiedersi se non fosse vero che il Signore aveva abbandonato il suo popolo: «E voi dite: Come ci hai amati?» (Ml 1,2). Come si può dire che Dio ama, se abbandona il suo popolo in mano agli stra‐nieri? Gli israeliti si sentono innocenti e attraverso i sacerdoti si chiedono: «Come lo abbiamo di‐sprezzato il tuo nome?» (1,6). Oppure dicono che Dio cambia i suoi progetti con umore mutevole; ma YHWH replica: «lo sono il Signore, non cambio» (3,6). Altri affermano che è inutile servire Dio, il quale ha fatto trionfare i nemici d’Israele: «È inutile servire Dio: che vantaggio abbiamo ricevuto dall’aver osservato i suoi comanda‐menti o dall’aver camminato in lutto davanti al Signore degli eserciti? Dobbiamo invece proclamare beati i superbi che, pur facendo il male, si moltiplicano e, pur provocando Dio, restano impuniti» (3,14s). Erano le obiezioni che sorgevano negli animi dei rimpatriati dopo l’esilio. Ad esse deve rispondere il profeta Malachia. Il profeta ribatte una ad una le obiezioni su accennate, incentrando tutta la sua predicazione su un’idea semplice ma terribile: tutti gli israeliti hanno violato l’alleanza con il loro Dio. Non Dio ha cambiato atteggiamento, ma Israele è cambiato, diventando infedele e malvagio. C’è una possibili‐tà di ricostruire il futuro, se il popolo si converte e si impegna ad essere fedele. Il libro va letto dunque come una denuncia della violazione dell’alleanza con Dio. La sua struttura è molto semplice, bipartita:

1) la prima parte è rivolta a tutto il popolo: 1,1‐3,12; 2) la seconda parte invece presuppone una distinzione tra giusti ed empi: 3,13‐21.

Infine due aggiunte concludono il libretto profetico: 3,22 e 3,23s. Propongo una breve rilettura del testo di Malachia, suggerendo di dividerlo in paragrafi che articolano le due parti fondamentali.

1.2. Tutto il popolo ha peccato (1,1–3,12)

Nella prima parte gli interlocutori del profeta sono Israele (1,1), i sacerdoti responsabili della co‐munità (1,6; 2,1), Giuda e Gerusalemme (2,11). I sacerdoti e il culto hanno un rilievo particolare perché si tratta della comunità postesilica, guidata dai sacerdoti. Ma è tutto il popolo israelitico che è interpellato, ed è accusato di ribellione nei confronti del suo Signore. a) 7,7‐5: l’amore di alleanza. «Vi ho amati», dice il Signore (1,2). A differenza di Esaù, il Signore ha eletto Giacobbe e gli ha dato la terra promessa. Dio ha dunque mantenuto la sua fedeltà alle pro‐messe. Il suo «amore» non è in discussione, la sua fedeltà all’alleanza è indefettibile. b) 7,6‐74: il popolo ha violato l’alleanza. Mentre nei primi versetti, l’idea di alleanza era espressa dal verbo «amare», ora il profeta si rifa ad altri termini. L’alleanza tra Dio e Israele è concepita co‐me rapporto tra padre e figlio, tra padrone e servo (1,6). Israele è il vassallo e il Signore è il grande

* A. BONORA, Malachia, in G. BARBAGLIO (a cura di), Schede bibliche pastorali, 2267‐2273.

I profeti Malachia, Giona e Baruc e i loro libri 215

re: «Io sono un re grande» (1,14). Un segno della violazione dell’alleanza è la non osservanza delle prescrizioni sui sacrifici (cf. Lv 22,20‐25; Dt 15,21; 17,1). I sacerdoti e il popolo offrono animali im‐puri, difettosi a Dio; non fanno così nemmeno con il governatore persiano (1,8), al quale offrono animali belli, grassi e senza difetto. Dio vuole «offerte pure» (1,11), che possono essere offerte dai pii giudei «in ogni luogo» e non solo nel tempio di Gerusalemme: il vero e autentico sacrificio è l’osservanza della legge. c) 2,1‐9: l’alleanza di Levi. La denuncia profetica prende di mira il clero: «Ora a voi questo monito, o sacerdoti» (2,1). Essi non si danno premura di dar gloria al nome di Dio (2,2); non custodiscono la «scienza» e l’«insegnamento» (eb. tōrāh), si sono allontanati dalla retta via e sono d’inciampo a molti con il loro falso insegnamento (2,8). In una parola, «hanno distrutto l’alleanza di Levi» (2,8). Il patriarca Levi è il fondatore dell’ordine sacerdotale, il capostipite della classe dei sacerdoti. Che co‐sa manca nella condotta dei sacerdoti? Malachia afferma che essi sono infedeli al loro compito perché, invece di moltiplicare i sacrifici di animali impuri e difettosi, dovrebbero conoscere e inse‐gnare la tōrāh, la divina rivelazione. I sacerdoti sono dunque infedeli all’alleanza perché non danno il dovuto primato all’ascolto, alla conoscenza e obbedienza alla parola di Dio. Il loro compito si esaurisce in una pratica cultuale di riti vuoti. Essi «usano parzialità nel loro insegnamento» (2,9), cioè non accolgono tutta la parola del Signore. Di conseguenza, essi attirano su di sé e sul popolo, che guidano, le maledizioni previste per chi viola l’alleanza. d) 2,10‐16: divorzio e alleanza. Ora il profeta si rivolge a tutta la comunità. Gli israeliti agiscono con perfidia l’uno contro l’altro, profanando l’alleanza dei loro padri (2,10), cioè l’alleanza sinaitica. Concretamente la violazione dell’alleanza consiste nella pratica di matrimoni con stranieri che por‐tano all’idolatria: «Giuda ha osato profanare il santuario caro al Signore e ha sposato la figlia di un dio straniero» (2,11); l’altra pratica condannata è il divorzio (2,13‐16), visto come rottura di un’alleanza tra marito e moglie di cui è testimone Dio stesso. Contrariamente a Dt 24,1‐4, Malachia condanna e proibisce il divorzio. Singolare è il legame tra l’alleanza matrimoniale e l’alleanza sinai‐tica: la rottura del legame matrimoniale equivale a violazione dell’alleanza con Dio. e) 2,17–3,5: il messaggero dell’alleanza. Le colpe del popolo d’Israele sono evidenti, eppure la gen‐te si chiede: «Come abbiamo stancato il Signore?» (2,17). Anzi arriva fino a incolpare Dio, dubitan‐do della sua giustizia: «Dov’è il Dio della giustizia?» (2,17). Il profeta risponde che la giustizia di Dio sta per venire, è vicina, ma giungerà per fare un giudizio: «lo mi accosterò a voi per il giudizio» (3,5). Dio viene per condannare tutte le forme di corruzione religiosa, sociale, familiare. Il giudizio di Dio non è soltanto condanna, smascheramento del male, denuncia ma anche purificazione: il Si‐gnore «è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai. Siederà per fondere e purifica‐re; purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia» (3,2‐3). Il Signore verrà attraverso il suo messaggero, «l’angelo dell’alleanza» (3,1), cioè il profeta che annuncia la parola giudicante del Signore. Il giudizio si attua nel confronto con la parola di Dio. f) 3,6‐12: conversione e salvezza. Se il popolo ha capito il messaggio del profeta, allora dovrebbe tornare al Signore per sperimentare la sua salvezza: «Tornate a me e io tornerò a voi» (3,7). Ma i giudei fanno finta di essere innocenti e chiedono con sorniona spregiudicatezza: «Come dobbiamo tornare?» (3,7). Frodano Dio e dicono: «Come ti abbiamo frodato?» (3,8). Il ritorno al Signore signi‐fica ristabilire l’alleanza fatta con i padri (3,7) e riprendere ad osservarne i comandamenti violati con una condotta iniqua (3,7). L’offerta delle decime e delle primizie (3,10) sarà il segno che il po‐polo ritorna a riconoscere il Signore e ad obbedire alla sua parola. La conseguenza sarà l’abbondanza delle benedizioni connesse con la fedeltà all’alleanza, cioè la prosperità e il benesse‐re. L’offerta di decime e primizie è dunque un gesto con il quale il popolo deve proclamare che at‐tende soltanto dal Signore la prosperità economica.

216 I profeti Malachia, Giona e Baruc e i loro libri

1.3. Differenza tra giusto ed empio (3,13‐21)

La seconda parte è differente dalla prima. Non è più tutta la comunità dei giudei che viene inter‐pellata; manca ogni riferimento a Giuda, Gerusalemme, il tempio, i sacerdoti, il culto, il popolo. L’orizzonte si è ristretto al gruppo dei «giusti» che sono «proprietà» (3,17) alleata con Dio, con‐trapposti agli empi. Questi versetti potrebbero essere interpretati come una rilettura della prima parte di Malachia in chiave apocalittica. Le minacciose parole profetiche non mirano più alla purifi‐cazione e alla conversione, ma annunciano soltanto castigo e distruzione: «Quel giorno, venendo, li brucerà fino a non lasciar loro né radice né germoglio» (3,19). Così finiranno gli empi. Ben diversa è la sorte dei giusti: «Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giu‐stizia e voi uscirete saltellanti come vitelli dalla stalla» (3,20). La prospettiva è tipicamente apocalit‐tica, con la distinzione netta tra giusti ed empi e con la promessa di vittoria assoluta dei pii sui ri‐belli. Dio mostrerà, alla fine, di essere veramente il Dio della giustizia (cf. 2,17). La discriminazione avverrà tra «chi serve Dio e chi non lo serve» (3,18), ossia tra chi gli obbedisce e chi gli si ribella. Non contano criteri sociologici!

1.4. Appendici

Gli ultimi versetti sono costituiti da due aggiunte tardive. Esse suonano anche come conclusione degli scritti profetici. In 3,22 il richiamo alla legge di Mosè è un invito a leggere gli scritti profetici come difesa e sviluppo della legge mosaica: non c’è opposizione tra l’alleanza sinaitica e la predica‐zione profetica. In 3,23s il messaggero anonimo di 3,1 è identificato con il profeta Elia, che prepa‐rerà la venuta del Signore restaurando la pace nelle famiglie. L’attesa di Elia diverrà più forte e dif‐fusa nella tarda tradizione giudaica fino al NT (cf. Me 9,10‐13; Mt 11,14; 17,10‐13; Le 1,17): per i vangeli sinottici, Giovanni Battista compie tale attesa svolgendo il ruolo di Elia.

Bibliografia scelta su Malachia

RINALDI G. – LUCIANI F., Malachia, in I profeti minori, vol. 3, Marietti, Torino‐Roma 1969, 217‐244. BERNINI G., Aggeo, Zaccaria, Malachia (NVB 32), Paoline, Roma 1974, 281‐360. RUDOLPH W., Haggai, Sacharja 1‐8, Sacharja 9‐14, Maleachi, Gütersloh 1976, 245‐299. AMSLER S. – LACOQUE A. – VUILLEUMIER R., Aggée, Zacharie, Malachie, Neuchâtel‐Paris 1981. ACHTEMEIER E., I dodici profeti. Parte seconda: Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia, Claudiana, Torino

2007, 241‐280. CODY A., Malachia, in R. E. BROWN ‐ J. A. FITZMYER ‐ R. E. MURPHY (a cura di) Nuovo Grande Commentario Biblico, Queri‐


2. GIONA*

Di un profeta di nome Giona, figlio di Amittài, al tempo di Geroboamo II, parla 2Re 14,25. Si è dun‐que pensato che fosse il protagonista del libro omonimo. L’opinione tradizionale inoltre ha pensato che fosse anche l’autore del libro. Oggi però in maggioranza gli studiosi pensano a un autore e a una data di composizione più tardivi. In base ad argomenti di carattere storico (riguardanti la città di Ninive), letterario (la lingua usata) e teologico (lotta al particolarismo), viene proposto il sec. V, l’epoca postesilica in cui furono scritti anche i libri di Esdra e Neemia. Anche l’unità di composizio‐ne dello scritto è ammessa concordemente, fatta eccezione però del salmo del c. 2, che potrebbe essere stato interpolato successivamente. Quanto al genere letterario, gli esegeti lo definiscono uno scritto didattico, una parabola a scopo pedagogico. Il fatto stesso che il libro, nel canone, sia stato collocato tra i profeti rivela che fin dall’inizio ne era stata capita l’intenzione dottrinale.

* R. TUFARIELLO ‐ G. BARBAGLIO, Giona, in G. BARBAGLIO (a cura di), Schede bibliche pastorali, 1685‐1692.


2.1. La missione profetica di Giona

Il breve libro è semplicemente il racconto di una missione particolare del profeta a Ninive e di ciò che gli accadde in quell’occasione. Giona viene chiamato dal Signore e inviato a predicare la peni‐tenza alla città di Ninive; ma, ribelle alla sua missione, fugge imbarcandosi a Giaffa. Scoppia una tempesta inviata dal Signore; la nave è in pericolo e i marinai, venendo a conoscenza che Giona ne è la causa, dietro sua richiesta lo gettano in mare. Immediatamente torna la calma, e i marinai of‐frono un sacrificio al Signore. Intanto «un grosso pesce» inghiotte il profeta e lo trattiene per tre giorni nel suo ventre, salvando‐lo dalle acque e infine deponendolo all’asciutto, sulla riva. Per la seconda volta, Dio gli ordina di andare a predicare la penitenza a Ninive. Giona obbedisce e annuncia la distruzione della città. Alla sua predicazione, gli abitanti si convertono e Dio li perdona. La misericordia di Dio suscita però il suo risentimento. Ecco allora l’ultima lezione divina: un albero di ricino, sorto miracolosamente a dare ombra e riparo al profeta, si secca improvvisamente. Giona si rattrista, e capisce: se egli è addolorato per la scomparsa di un albero, non ha ragione Dio ad es‐sere in pena per una grande città e ad averne pietà?

2.2. La parola del profeta

Giona è un inviato di Dio, la sua parola è circondata da tutte le garanzie; e tuttavia il suo oracolo sulla distruzione di Ninive non si realizza. Quest’antitesi è il centro del libro, e permette di formula‐re così la «lezione dogmatica fondamentale» che esso contiene: i decreti di distruzione diretti con‐tro le nazioni pagane, anche se portano i segni più certi della loro origine divina, rimangono sem‐pre condizionali, benché pronunciati da Dio in modo assoluto. Quest’insegnamento doveva risultare sconcertante per gli ebrei. Essi credevano nella trascendenza della parola profetica che si confondeva con la parola stessa del Signore e ne aveva la medesima efficacia (cf. Ger 5,14; Os 6,5; 1 Re 17,1; 2Re 2,21). Inoltre, la carta di fondazione del profetismo dava come criterio dell’autenticità di un profeta la realizzazione delle sue predizioni a breve sca‐denza (Dt 18,21 s). Geremia però aveva portato importanti precisazioni alla dottrina deuteronomica. Poiché i falsi pro‐feti in cerca di popolarità non predicevano che tempi felici, mentre gli autentici profeti del Signore avevano più spesso annunciato castighi, si deve credere preferibilmente a un profeta di sventure (cf. Ger 28,8‐9); i suoi oracoli però sono – per Geremia – anche un invito alla conversione (Ger 18,7s); per questo non se ne esige assolutamente la realizzazione come segno della loro origine di‐vina. A questa dottrina di Geremia si collega il pensiero di Giona: Le minacce divine, anche le più catego‐riche..., non sono i decreti di un destino cieco, ma l’espressione della volontà di un Dio misericor‐dioso; esse raggiungono il loro scopo esattamente quando non hanno bisogno di realizzarsi. In questo modo il libro di Giona esprime con forza e universalizza un’idea che era già alla base della predicazione profetica: anche quando annuncia la sventura, il profeta mira essenzialmente a tocca‐re i cuori e convertire (Am 5,4.14; Os 10,12s; 14,2ss; Is 1,16‐20...); e quando il castigo è inevitabile, il profeta guarda, al di là della distruzione, all’èra nuova, al tempo della ricostruzione che non man‐cherà di venire (Is 6,12s; 7; Ger 1,10...). Il fatto che le profezie non si realizzassero, soprattutto se pronunciate verso le nazioni pagane, po‐teva essere motivo di scandalo per gli israeliti; per questo l’autore sacro ha voluto mostrare che la predicazione di Giona, anche se smentita dai fatti, veniva ugualmente dal Signore.

2.3. Superamento dello spirito particolarista

Giona non è solo la figura di un profeta recalcitrante, ma anche l’incarnazione dello spirito partico‐larista degli ebrei. Soprattutto nel c. 4, l’autore sacro, dopo che Giona ha compiuto la sua missione, vuole mostrare la sua mentalità umana, particolarista ed egoista. Questa si rivela nella spiegazione


che lo stesso Giona dà del suo precedente rifiuto di predicare a Ninive: Lo sapevo – dice con disap‐punto al Signore – che avresti finito col perdonare! (leggere 4,1‐4). La misericordia divina suscita in lui un risentimento che ci appare tanto più ingeneroso in quanto egli stesso aveva beneficiato, in circostanze difficili, di questa misericordia. Nel cantico di ringra‐ziamento, egli aveva ammirato e glorificato la bontà che Dio aveva avuto verso di lui (2,2ss); nella preghiera che fa dopo il compimento della sua missione, deplora questa stessa bontà che ha ri‐sparmiato Ninive. Giona quindi è il simbolo del particolarismo giudaico, il rappresentante di tutti coloro che attende‐vano con impazienza dal giorno del Signore lo sterminio dei pagani. Al tempo dell’esilio babilonese, quest’attesa era stata delusa: i popoli pagani erano risultati vincito‐ri; alcuni nemici d’Israele, anche se vinti dagli assiri, avevano evitato la dura punizione che aveva colpito invece il popolo eletto. Anche dopo l’esilio, l’unica speranza per la restaurazione del regno di Dio sembrava riposta nella prossima distruzione di tutti i nemici; eppure questa speranza conti‐nuava ad essere delusa. Nel corso del sec. V, data probabile del Libro di Giona, il conflitto tra particolarismo e universalismo era particolarmente vivo. Neemia, facendosi forte della legislazione deuteronomica (Dt 23,4‐8), vuole l’assoluta separazione tra Israele e i moabiti, gli ammoniti e in generale tutti gli stranieri (Ne 13,1‐3; cf. v. 28); Esdra proibisce le unioni matrimoniali con straniere/i (Esd 9,12). E tuttavia gli stessi libri di Esdra e Neemia ci attestano che la comunità si apre a tutti i prosèliti che vengono dal paganesimo (Ne 10,29ss; Esd 6,21). I profeti Malachia e Zaccaria riflettono sia il punto di vista par‐ticolarista (Ml 2,10‐1 2; Zc 9,3s) sia il punto di vista universalista (Zc 9,6s; 14,16‐21); Malachia – ad esempio – annuncia l’offerta di un sacrificio al Signore da parte del mondo intero (Ml 1,11; cf. Gn 1,16; Is 19,9ss). Da parte sua, il Libro di Giona si collega alla corrente universalista, come il Libro di Rut (che intro‐duce i moabiti nella genealogia di Davide) e quello di Giobbe nel quale il protagonista è un idumeo e gli amici con i quali discute sono pure stranieri. L’autore di Giona insegna che anche i pagani sono chiamati alla conversione dal male e alla conoscenza di Dio: questo è il vero scopo degli oracoli pronunciati contro di essi; il Signore infatti non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cf. Ez 18,23.32; 33,11). In questo modo, l’autore del libro mira anche a far sparire lo sconcerto dei suoi compatrioti particolaristi causato dalla non‐realizzazione degli oracoli rivolti contro le na‐zioni.

2.4. Invito alla conversione

Nel Libro di Giona vengono descritti gli effetti sorprendenti della predicazione del profeta. Tutti i niniviti accolgono l’invito alla penitenza necessaria per evitare la minacciata distruzione. La conver‐sione è sincera e interiore, e si esprime con i segni di una severa penitenza, praticata non solo dagli uomini, ma anche dagli animali. A tale comportamento, Dio desiste dal suo proposito di castigo e perdona (3,5‐10). Proponendo quest’esempio di conversione, il libro vuol essere un pressante invito alla conversione rivolto agli israeliti. In realtà, solo il popolo eletto ha avuto il privilegio di ricevere continui avverti‐menti da parte di uomini di Dio, e tuttavia ha resistito a questi appelli alla conversione (Ger 7,25s; 25,4s; 26,5; 29,19; 44,4). Nel Libro di Geremia si oppone la fedeltà dei recabiti nel seguire le pre‐scrizioni del loro antenato lonadàb alla indifferenza e negligenza degli israeliti per le parole e i co‐mandi di Dio (Ger 35,15s). Nel Libro di Giona c’è un’opposizione manifesta tra il pentimento del re e dei capi di Ninive e l’impenitenza di Ioiakìm e dei suoi ministri (Gn 3,6‐9; Ger 36,22‐26). L’autore di Giona quindi intende rimproverare i suoi compatrioti, proponendo loro l’esempio dei niniviti, sensibili all’avvertimento di un uomo di Dio a loro sconosciuto. Al tempo della riforma di Esdra e Neemia, furono frequenti gli inviti alla conversione rivolti ai redu‐ci dall’esilio; si ricordavano, come ammonimento, la resistenza degli antenati alla voce dei profeti e le funeste conseguenze del loro comportamento (Ne 9,26.30.35; Esd 10,11). Il bisogno di conver‐


sione era ancora più grande perché molti rifiutavano orgogliosamente di riconoscere i propri pec‐cati e preferivano accusare gli altri (Ml 1,6; 2,17; 3,7). A questi orgogliosi si rivolge il libro di Giona, perché aprano gli occhi e si pentano. L’invito è nascosto sotto il velo della parabola, ed è probabil‐mente contemporaneo a quello che il profeta Gioele ha rivolto direttamente, pressappoco negli stessi termini, alla comunità postesilica (Gl 1,13s; 2,12‐16). In conclusione, Giona vuole convincere i particolaristi ebrei a non attendere la punizione dei paga‐ni, ma a temere per se stessi: Guai a voi, ebrei, perché se Dio avesse inviato ai peggiori pagani, qua‐li i niniviti, i profeti che ha inviato a voi, essi avrebbero fatto penitenza! È quanto affermerà poi Gesù quando rimprovererà le città israelite: «Se a Tiro e a Sidone fossero avvenuti i prodigi che ci sono stati in mezzo a voi, già da tempo esse, vestite di sacco e cosparse di cenere, si sarebbero convertite» (Mt 11,21). Gesù si è richiamato espressamente all’esempio di penitenza degli abitanti di Ninive, contrapponendolo alla durezza di cuore dei suoi ascoltatori, alla loro incredulità (Mt 12,41 e Le 11,32).

2.5. Amore universale di Dio

Agli occhi dell’autore sacro, il Signore, Dio d’Israele, è Dio del mondo intero, e questa verità non ha bisogno di essere dimostrata. Inoltre – e l’affermazione è ancora più notevole – Dio, creatore e Si‐gnore di tutti gli uomini, esercita una provvidenza amorevole verso tutti, dai marinai pagani, agli abitanti di Ninive, a Giona. Il Signore ama Ninive, e questa affermazione è del tutto eccezionale per un israelita. Dio è l’autore di Ninive e ha presieduto alla sua crescita; per questo si interessa della città maledet‐ta e vuole sinceramente la sua conversione (4,10s). Soprattutto è misericordioso: ha pietà di Giona inghiottito dai flutti, dei niniviti che fanno penitenza, infine ancora di Giona, quando questi si rat‐trista come un bambino egoista. La misericordia divina è proclamata con una formula non rara nel‐la Bibbia: «tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore e che ti ravvedi ri‐guardo al male minacciato» (Gn 4,2; cf. Es 34,6s; Nm 14,18s; Sal 85,15s; Ger 32,18). Tutto il Libro di Giona appare come il compimento di un’ammirevole teologia del perdono divino, condizionata dal‐la conversione del cuore, che ha la sua sorgente principale negli oracoli di Geremia.

2.6. Il segno di Giona

La raccolta dei detti di Gesù (fonte Q), precedente la stesura dei vangeli e fonte di Matteo e Luca, aveva conservato il ricordo di un esplicito richiamo a Giona. Le due versioni di Matteo (12,38‐42; cf. anche 16,4) e di Luca (11,16.29‐32) che ne dipendono, non concordano in tutto. Alla richiesta di un segno miracoloso, Gesù risponde che non darà alcun segno se non il segno del profeta Giona. (Tra parentesi si noti che secondo Marco [8,11 s] la risposta appare totalmente negativa: nessun se‐gno). Ma nel primo vangelo il segno di Giona consiste non nella predicazione agli abitanti di Ninive, come in Luca, bensì nella drammatica vicenda del profeta. In realtà, nella domanda degli interlocu‐tori Gesù aveva visto incredulità e provocazione e per questo offre soltanto il contrassegno di Gio‐na, cioè la morte e la permanenza del Figlio dell’uomo nel regno dei morti. I due evangelisti al contrario sono concordi nel detto profetico che segue: «Nel giorno del giudizio, quelli di Ninive si alzeranno contro questa generazione e la condanneranno, perché essi alla predi‐cazione di Giona si convertirono. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Giona!» (Mt 12,41 ; cf. Lc 11,32). Viene qui denunciato il peccato d’incredulità del popolo giudaico che troverà condanna nel giudizio ultimo. Il duplice confronto tra gli ascoltatori del Maestro di Galilea e i niniviti e soprattut‐to tra Gesù e Giona evidenzia la responsabilità dei Giudei increduli. Superiore al famoso profeta, Gesù appare rivestito di dignità messianica, eppure lo hanno respinto!

Bibliografia scelta su Giona

RINALDI G., Giona, in I profeti minori, vol. 2, Marietti, Torino‐Roma 1960, 187‐213. RUDOLPH W., Joel, Amos, Obadja, Jona, Gütersloh 1971, 321‐371. BERNINI G., Sofonia, Gioele, Abdia, Giona (NVB 31), Paoline, Roma 1972, 231‐278.


SESSOLO P., La salvezza dei popoli nel libro di Giona, Urbaniana University Press, Roma 1977. WOLFF H. W., Studi sul libro di Giona, Paideia, Brescia 1982.

LIMBURG J., I dodici profeti. Parte prima: Osea, Gioele, Amos, Giona, Abdia, Michea, Claudiana, Torino 2007, 191‐217. SCAIOLA D., Abdia, Giona, Michea (Nuova versione della Bibbia dai testi antichi 15), San Paolo, Cinisello Balsamo 2012,

39‐79. CERESKO R. A., Giona, in R. E. BROWN ‐ J. A. FITZMYER ‐ R. E. MURPHY (a cura di) Nuovo Grande Commentario Biblico, Queri‐


3. BARUC*

3.1. Baruc, un uomo «tipico»

Il nostro libretto è attribuito a Baruc, figlio di Neria, il ben noto e fedele segretario del profeta Ge‐remia (vedi Ger 32,12.16; 36,4.8.32; 43,3.6). A lui è rivolto un misterioso oracolo di Dio: «A te farò dono della tua vita come bottino, in tutti i luoghi dove tu andrai» (Ger 45,5). Baruc avrà salva la vi‐ta, ma dove è andato dopo la morte di Geremia in Egitto? Non abbiamo notizie. E proprio questo silenzio ha fatto sorgere molte leggende tra i giudei. La figura di quest’uomo discreto, poco appariscente e tutto dedito al servizio della parola di Dio, ha acceso la fantasia giudaica che ha attribuito a lui alcuni scritti tardivi: il nostro libretto, uno scritto in greco e un altro in siriaco. Baruc divenne un personaggio «tipico», lo scriba fedele della parola di Dio. La situazione storica, che fa da sfondo al suo libro canonico, è la condizione dell’esilio. Non sap‐piamo se Baruc sia stato veramente a Babilonia. Ma è soprattutto importante chiedersi perché l’autore di questo libro collochi Baruc tra gli esiliati di Babilonia.

3.2. L’esilio, situazione «tipica»

L’inizio del libro descrive la situazione esilica: gli ebrei sono in Babilonia insieme con il loro re loia‐chìn, mentre a Gerusalemme sono rimasti alcuni sacerdoti e la gente lasciata sul luogo dal potente oppressore. Dall’esilio, i deportati mandano a Gerusalemme un tributo per il culto del tempio, che rimane il punto focale di polarizzazione della spiritualità giudaica. Schematicamente, la situazione è questa: il popolo giudaico è diviso in due «gruppi», quelli che so‐no a Gerusalemme e nella Palestina e quelli che vivono lontano dalla terra, ma guardano a Gerusa‐lemme come centro spirituale. Questa è una situazione «tipica», cioè una condizione che si è ripe‐tuta quasi ininterrottamente per tutto il periodo del postesilio. Ora possiamo comprendere perché l’autore del nostro libro colloca Baruc in esilio e lo mette in rapporto con Gerusalemme. L’esilio è paragonabile alla cosiddetta «diaspora», in cui vivrà il popolo giudaico dall’epoca dell’esilio babilonese in poi. Infatti il libro ripete, come un ritornello, che il po‐polo è «disperso»: «Eccoci ancora oggi nel nostro esilio, dove tu ci hai disperso» (3,8; cf. 2,4.29). Chi leggeva questo scritto, difficilmente databile, ma forse collocabile tra il II e il 1 secolo a.C., vive‐va la drammatica realtà della «dispersione» o «diaspora» giudaica, così simile airesilio. Lo scrittore ebreo del secolo XX, premio Nobel, J.B. Singer ha scritto: «Gli ebrei sono in esilio ovunque». L’esilio è il «tipo» della condizione dell’ebreo.

3.3. Un’antologia

Il Libro del profeta Baruc, che a noi è giunto soltanto in lingua greca di stile semi‐tizzante e di cui non conosciamo affatto un ipotetico originale ebraico, non ci fa conoscere il suo o i suoi autori. Si presenta come un’antologia di tre scritti abbastanza diversi tra loro per stile e contenuto, solo va‐gamente connessi dall’analogia delle situazioni che essi rispecchiano. Ecco come si presenta la struttura della raccolta antologica, preceduta da un’introduzione.

* A. BONORA, Baruc, in G. BARBAGLIO (a cura di), Schede bibliche pastorali, 317‐321.


a) Introduzione (1,1‐14). Questo artificioso prologo storico ha la funzione di creare una cornice sto‐rica alle parti successive: Baruc è in esilio, dove legge ai deportati un testo penitenziale durante una cerimonia liturgica commemorativa della caduta di Gerusalemme. Si decide anche di fare una colletta da inviare a Gerusalemme per il culto del tempio. Nel «documento» che Baruc invia a Ge‐rusalemme c’è l’invito a pregare anche per il re deportatore: «Pregate per la vita di Nabucodòno‐sor, re di Babilonia, e per la vita di suo figlio Baldassàr... Allora il Signore ci darà forza e illuminerà i nostri occhi e vivremo all’ombra di Nabucodònosor, re di Babilonia» (1,11 s). Non c’è dunque nes‐suna volontà di ribellione al giogo straniero. Ormai si è imparato a vivere in una condizione di «dia‐spora sottomessa», ad accettare la «dispersione» come frutto del giudizio divino sul suo popolo e a far penitenza per i peccati che hanno condotto a tale situazione di dipendenza politica. Non si at‐tende una liberazione dallo straniero né una restaurazione della propria autonomia politica. b) Preghiera penitenziale (1,15–3,8). È una lunga confessione di peccati. Si esprime la solidarietà del popolo con il suo lungo passato: fin da quando Israele è uscito dall’Egitto, ha cominciato a pec‐care e trasgredire i comandamenti di Dio (2,11). La storia d’Israele è una storia di peccati, che biso‐gna riconoscere e confessare per ottenere la fine dell’ira divina sul popolo: «Allontana da noi la tua collera, perché siamo rimasti pochi in mezzo alle nazioni fra le quali tu ci hai dispersi» (2,13). Il peccato è la ragione per cui il popolo si trova ora politicamente sottomesso e disperso. Dio ha manifestato così la sua giustizia: questa preghiera sottolinea fortemente che Dio è giusto e inno‐cente. Le sofferenze d’Israele sono la conseguenza dei suoi peccati contro la bontà di Dio. Ora il popolo di Dio deve vivere nella penitenza e nell’umile sottomissione al potere politico stra‐niero per scontare i propri peccati: questa è la sola possibilità per continuare a vivere, in attesa che Dio realizzi i suoi insondabili e imprevedibili disegni di salvezza. Confessando i suoi peccati e chie‐dendo perdono, il popolo d’Israele si affida totalmente e unicamente al suo Dio, al quale affida an‐che il proprio futuro e la propria speranza di liberazione. La preghiera è articolata in quattro parti tra loro corrispondenti:

a) invito a confessare i peccati: 1,5‐2,10 b) richiesta di perdono: 2,11‐19 a’) invito a confessare i peccati: 2,20‐35 b’) richiesta di perdono: 3,1‐8

Questa supplica penitenziale, recitata col cuore sia dagli esiliati sia dai giudei che sono in patria, unisce tutti i giudei in un coro orante di fronte al Dio giusto e innocente. Alla «diaspora» politica e geografica si contrappone questa «unità» nella confessione dei peccati e nella volontà di conver‐sione. c) Esortazione sapienziale (3,9–4,4). Un lungo e appassionato invito a seguire le vie della sapienza corona la confessione dei propri peccati. Israele è invitato a seguire un cammino giusto, la via di Dio tracciata dalla sapienza per avere la vita: «Ascolta, Israele, i comandamenti della vita, porgi l’orecchio per conoscere la prudenza» (3,9). La sapienza insegna i sentieri di Dio: «Se tu avessi camminato nella via di Dio, avresti abitato per sempre nella pace» (3,13). La sapienza è la fonte e la garanzia della vita! E la sapienza si trova nell’osservanza dei co‐mandamenti di Dio. Ma soltanto Dio può «dare» la sapienza (3,37). Di singolare importanza è l’identificazione tra sapienza e legge (come in Dt 6,4 e Sir 24,23): «Essa (la sapienza) è il libro dei decreti di Dio e la legge che sussiste in eterno» (4,1). d) Annuncio del ritorno dall’esilio (4,5– 5,9). Dopo la confessione dei peccati e l’invito a seguire la sapienza, ossia a convertirsi seguendo i comandamenti di Dio, questa ultima parte del libro di Ba‐ruc contiene un oracolo di consolazione e di speranza. In esso si sente l’eco del profeta della conso‐lazione, il Secondo‐Isaia. Più volte si ripete: «Coraggio, popolo mio» (4,5; cf. 4,21.30). Dio è il padre che ha allevato il suo popolo; Gerusalemme è la madre che l’ha nutrito (4,8). La città‐madre è invitata a guardare verso oriente per contemplare la riunione di tutti i suoi figli dispersi: «ora Dio te li riconduce in trionfo» (5,6).


L’attesa e la speranza di una liberazione vicina è pressante: «Coraggio, figli miei, gridate a Dio, ed egli vi libererà dall’oppressione e dalle mani dei nemici, io, infatti, ho sperato dall’ Eterno la vostra salvezza» (4,21s). Gerusalemme è la città‐madre, il centro spirituale in cui Dio attuerà e mostrerà la sua salvezza. La città deporrà il vestito di lutto, rivestirà lo splendore della gloria, sarà come una regina con il dia‐dema sul capo e riceverà un nome simbolico: «“Pace di giustizia” e “Gloria di pietà”» (5,1‐4).

3.4. La Lettera di Geremia

In alcune bibbie (come la TOB 2011) al libretto di Baruc fa séguito la cosiddetta «Lettera di Gere‐mia». Il profeta Geremia aveva scritto una lettera (Ger 29) e l’autore di questo scritto ha imitato quel grande profeta, componendo uno scritto satirico contro l’idolatria, probabilmente nel II secolo a.C. In altre bibbie si segue l’uso della Volgata (così anche la traduzione Cei e la BJ), dove questo scritto figura come capitolo 6 di Baruc. Non è un testo particolarmente originale, né molto profondo; è piuttosto una «presa in giro» burlesca del fenomeno dell’idolatria che non ha la ricchezza e pro‐fondità di Sap 13‐15. Un ritornello ricorrente permette di suddividere il testo della «lettera» in die‐ci sezioni: vv. 7‐14; 15‐22; 23‐28; 29‐39; 40‐44; 45‐51; 52‐56; 57‐64; 65‐68; 69‐72. L’introduzione è formata dai vv. 1‐6. Il ritornello suona così: «È evidente che non sono dèi; non temeteli». L’autore denuncia la stoltezza dell’idolatria, il vuoto che sta dietro la rappresentazione dei falsi dèi, l’incapacità degli dèi falsi di salvare e di dare la vita.

Bibliografia scelta su Baruc

PENNA A., Baruch (LaSacBib), Torino‐Roma 1953. LOMBARDI L., Geremia, Baruc (NVB 25), Roma 1979, 453‐492. BOGGIO G., Gioele, Baruc. Abdia, Aggeo, Zaccaria, Malachia, Queriniana, Brescia 1991. FITZGERALD A., Baruc, in R. E. BROWN ‐ J. A. FITZMYER ‐ R. E. MURPHY (a cura di) Nuovo Grande Commentario Biblico, Queri‐


L’APOCALITTICA BIBLICA*

1. CENNI STORICI

Il maggiore scritto apocalittico veterotestamentario, il libro di Daniele, parla della consegna di un regno a «uno simile ad un figlio di uomo» (Dn 7,13‐14). Questa rivelazione finale può essere com‐presa ricostruendo i fatti a partire dalle imprese di Alessandro Magno, dopo il quale si verificò un fluttuante rapporto di incontro/scontro tra il mondo culturale greco e quello giudaico. Infatti la sua morte (323 a.C.; cf. Dn 11,4‐5; Zc 9,1‐8) con la disgregazione del grande impero da lui fondato, vide l’origine di guerre di indipendenza nazionale e l’inizio di un movimento che prima portò a una omogeneizzazione socio‐politica e poi a quell’«assunzione della lingua, cultura e stile di vita greci» (M. Hengel) inclusiva della dimensione religiosa, che è chiamata ellenismo o ellenizzazione. L’opposizione all’ellenismo nel II secolo da parte dei gruppi apocalittici (e dai più decisi Maccabei) che vi intravedevano un contrasto con il dominio universale di Dio, è parte di un problema più ge‐nerale, cioè della penetrazione ellenistica che troverà compimento nell’epoca romana. Dei dieci successori (o diadochi) di Alessandro interessano i Tolomei d’Egitto e i Seleucidi di Siria, i dieci «corni» o potenze (Dn 7,7.20.24) che si alternarono nel governare la Palestina.

1.1. Il periodo tolemaico (323‐200)

All’inizio la Palestina fu invasa cinque volte da Tolomeo I Sotere (323‐283) che deportò anche parte della popolazione. In seguito però i Tolomei (o Lagidi) furono piuttosto tolleranti, paternalistici, oc‐cupandosi solo raramente degli affari interni ed evitando di intromettersi in questioni religiose. Il continuo stato di guerra con i Seleucidi ebbe una breve interruzione nel 253/252 mediante il ma‐trimonio di Antioco II (261‐247) con Berenice figlia di Tolomeo II. Essa, tuttavia, alla morte del pa‐dre fu ripudiata e uccisa, assieme al figlio e al seguito, per istigazione della prima moglie di Antioco, Laodice, ritornata sul trono, ma fu vendicata dal fratello Tolomeo III (246‐221). Questi «condurrà in Egitto i loro dèi con le loro immagini e i loro preziosi oggetti d’oro e d’argento, come preda di guer‐ra, poi per qualche anno si asterrà dal contendere con il re del settentrione» (Dn 11,8). Durante il dominio tolemaico, l’ellenismo fu liberamente accettato da alcuni, e ciò significò l’introduzione dei costumi e del pensiero greco e il sorgere sulla costa di città simili alla polis greca. Eccellono in aper‐tura verso il nuovo pensiero i Tobiadi, che alla fine si schierarono decisamente a favore dell’ellenismo; il sommo sacerdozio era ancora tenuto saldamente dagli Oniadi e sussisteva il colle‐gio degli anziani, anche se svolgeva funzioni limitate.

1.2. Il passaggio al dominio seleucida (200‐175)

I Seleucidi tentarono nuovamente di contrastare la supremazia egiziana al tempo di Antioco III il Grande (223‐187). Questi rimase prima sconfitto (nel 217) da Tolomeo IV (221‐203) penetrato, sembra, addirittura nel tempio «gonfio d’orgoglio e avendo abbattuto decine di migliaia» (Dn 11,12), ma poi riuscì a vincere il giovane Tolomeo V (203‐181) nella battaglia di Panion presso le sorgenti del Giordano, ai piedi dell’Ermon (circa 200), dopo aver espugnato Gaza e aver prima an‐cora occupato la zona orientale dell’attuale Libano detta Celesiria, militarmente e commercialmen‐te decisiva per il controllo delle comunicazioni tra nord e sud. Dopo questi fatti, la Palestina passò sotto l’influenza della Siria, come forti gruppi politici gerosolimitani auspicavano, anche se le sim‐patie dei Palestinesi restavano costantemente rivolte verso la casa reale di Alessandria, come atte‐sta lo storico greco Polibio; Antioco III obbligherà inoltre Tolomeo a sposare la propria figlia Cleopa‐tra nel 194 a Rafia.

* B. MARCONCINI, L’apocalittica biblica, in IDEM (a cura di), Profeti e apocalittici, 217‐246.

224 L’apocalittica biblica

Sicuro al sud, Antioco manifesterà desideri di espansione verso occidente: questo provocherà la comparsa per la prima volta sullo scenario palestinese della potenza romana, uscita vincitrice con la battaglia di Zama del 202 contro Cartagine e il suo eroe Annibaie, imprudentemente accolto da Antioco alla propria reggia contro il bando decretato dal senato romano. Il re seleucida infatti, do‐po aver occupato le città greche dell’Asia Minore, tentava di invadere la Macedonia indebolita dalla sconfitta di Cinocefale del 197. In seguito al rifiuto di lasciare libere le colonie greche, Antioco fu battuto alle Termopili (191 a.C.), quindi fu sbaragliato a Magnesia (190 a.C.) e costretto con il trat‐tato di Apamea (188 a.C.) ad accettare pesanti condizioni, tra le quali l’invio a Roma come ostaggio del figlio Antioco (il futuro Antioco IV Epifane), la consegna degli elefanti e della flotta, il pagamen‐to di una forte indennità. Questi eventi cambiarono l’atteggiamento di Antioco verso il popolo giudaico. Prima infatti si era mostrato tollerante, perfino generoso: aveva favorito Gerusalemme come «città del santuario» e la classe sacerdotale, aveva proibito di introdurvi pelli di animali impuri e offerto mezzi per l’ampliamento del tempio, e aveva permesso di vivere secondo le leggi e le usanze tradizionali. Do‐po la sconfitta, però, impoveritosi talmente da doversi preoccupare soltanto, lui e il figlio Seleuco IV (187‐175 a.C.), del pagamento di debiti e di rimediare al dissesto finanziario, abolì privilegi, im‐pose tasse sempre più pesanti e tentò di impossessarsi dei tesori del tempio (cf. in 2 Mac 3 l’episodio di Eliodoro). Frattanto l’infiltrazione dell’ellenismo si faceva sempre più massiccia (co‐struzione attorno al 180 di un ginnasio, palestra e bagni secondo l’uso greco, assunzione di nomi greci come Giasone, Alessandro, Filippo). Era crescente il favore della classe sacerdotale verso il nuovo modo di pensare, mentre più forte si faceva la reazione dei ḥăsîdîm, legati alla Torah. L’empietà, che raggiunse il colmo (cf. Dn 8,23) in questo primo quarto del II secolo, traboccherà con l’altro figlio di Antioco III, cioè Antioco IV Epifane.

1.3. La reazione all’ellenismo sotto Antioco IV Epifane (175‐164 a.C.)

L’ellenismo, fino ad ora soltanto proposto benché energicamente, venne imposto nel decennio se‐guente caratterizzato da più fasi, non sempre chiare nelle motivazioni. È necessario distinguere i fatti dal giudizio sui principi ispiratori.

1.3.1. I fatti

Semplificando lo svolgersi delle vicende, possiamo ridurre a quattro gli interventi di Antioco, che fu tanto deciso nello sbarazzarsi dei nipoti, quali possibili pretendenti al trono, quanto abile nel gio‐strarsi in situazioni assai difficili da controllare. – Sostituzione nel 173/172 del legittimo sacerdote Onia III, poi assassinato (cf. Dn 9,26 sulla sop‐pressione di un consacrato innocente) a favore del fratello Giasone, più attivo nell’opera di elleniz‐zazione. Nel conflitto tra le famiglie sacerdotali in lotta Antioco preferì in seguito Menelao, non più sadocita e maggiormente disposto a offrire anche denaro, di cui egli aveva estremo bisogno. – Appropriazione degli oggetti sacri e preziosi del tempio, dove osò entrare con arroganza dopo la vittoriosa battaglia contro l’Egitto del 169 (1 Mac 1,17‐28). L’avversione e l’odio verso di lui crebbe‐ro tanto da farlo considerare nemico della fede. – Saccheggio e incendio della città, e riduzione in schiavitù di donne e bambini attorno al 167 (cf. 1 Mac l,29ss) con la costruzione per le proprie truppe dell’“Akra”, una fortezza vicina all’area del tempio. – Proibizione di ogni manifestazione religiosa (offerta dei sacrifici, sabato, circoncisione) e introdu‐zione dell’«abominio della desolazione» (Dn 9,27), ossia di un culto a Zeus Olimpio nel tempio. Erano così direttamente minacciate le basi stesse della fede. Questi atti parvero tanto naturali al dominatore, quanto risultarono ai credenti arroganti e lesivi della maestà dell’unico Dio. Il tempo di questa persecuzione è considerato limitato dalla corrente apocalittica, che parla di tre anni e mezzo (167‐164 circa), la metà del numero perfetto. Quanto ai particolari, i testi non concordano (Dn 7,25; 9,27; 12,7.11.12; cf. Ap 11,2.3; 14,14; 13,5), cosicché si può pensare a un graduale spo‐

L’apocalittica biblica 225

stamento della fine del persecutore, avvenuta nel 164, dopo avere in extremis revocato i provve‐dimenti.

1.3.2. Interpretazione dei fatti

Gli storici sono concordi nell’affermare che questi atti vessatori furono giustificati, se non addirittu‐ra sostenuti, da alcuni dirigenti giudaici. D’altra parte è noto come anche i gruppi più attaccati alla legge mescolassero lotta nazionale e purezza di fede. È sintomatica e paradossale a questo propo‐sito, al tempo di Giovanni Ircano I, l’accettazione senza scrupoli dell’ellenismo, che continuerà fino a Erode il Grande, il quale si comportò come tutti i sovrani delle capitali ellenistiche. La divergenza di interpretazione concerne il ruolo e il grado del coinvolgimento del seleucide. Alcuni studiosi ri‐trovano infatti la causa unica della persecuzione in Antioco stesso, in particolare nel suo disegno di ridonare forza al traballante impero seleucide, unificandolo sulla base della cultura greca, oppure nell’eccentricità e nello squilibrio della sua personalità malata di megalomania, tanto da meritarsi il titolo di epimane (pazzo), al posto di epifane (nel quale Giove si manifesta), del quale egli si fregia‐va. Altri, invece, danno risalto alle mire dei filoellenisti che, timorosi di perdere i loro privilegi, avrebbero provocato una violenta persecuzione contro i fratelli legati alla tradizione: Antioco vi si sarebbe inserito sfruttando la rivalità tra i vari gruppi religiosi e colpendo solo i più restii alle novi‐tà, o addirittura vi avrebbe accondisceso di malavoglia. Tutte e quattro le opinioni hanno una parte di verità, anche se oggi si tende a dare maggior credito alle ultime due. Il libro di Daniele, e l’apocalittica in generale, pongono l’eterno problema del rapporto tra fede e cultura, che storicamente assunse la forma ora del dialogo, ora del contrasto: solo la profonda co‐noscenza dei rispettivi valori, con il contemporaneo abbandono di elementi caduchi e secondari, riuscì a portare alla conciliazione. Gli apocalittici, che giudicarono un «piccolo aiuto» (Dn 11,34) il generoso lottare per l’indipendenza, preferendo attendere un risolutivo intervento divino, e i Mac‐cabei, che invece presero le armi, si trovarono uniti nella condanna senza appello di Antioco, visto come il nemico dichiarato della fede (Dn 7,8.21.25; 8,9‐12; 9,27; 11,21‐45). Prima con Qoelet e Si‐racide, poi per certi aspetti con il libro della Sapienza, si giunse a un equilibrio maggiore, mentre la soluzione piena si avrà con Paolo per il quale «non c’è più giudeo, né greco, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Precedentemente la reciproca intolleranza era significativamente espressa da aforismi di questo genere: «Ringrazio Tyche di essere nato uomo e non animale, uomo e non donna, greco e non barbaro» (detto attribuito a Talete e a Socrate); «Benedetto (sia Dio)... che non mi ha creato donna. Benedetto sia, egli che non mi ha creato ignorante. Benedetto sia che non mi ha creato gôy: poiché tutti i gôyîm sono un nulla davanti a lui» (R. Jehuda b. Elai).

2. ORIGINE E SVILUPPO DELL’APOCALITTICA

Bibliografia

Per la vasta bibliografia rimandiamo a: COLLINS J. J. – CHARLESWORTH J. H. (a cura di), Mysteries and Revelations: Apocalyptic Studies since Uppsala Colloquium

(JSPE.SS 9), Sheffield 1991. MAIER J., Il giudaismo del secondo tempio. Storia e religioni, Brescia 1991, 81‐118. ROSSO UBIGLI L., Gli apocrifi (o pseudoepigrafi) dell’Antico Testamento. Bibliografia 1979‐1989, in Henoch 12 (1990) 256‐

321. SACCHI P., L’apocalittica giudaica e la sua storia (BCR 55), Brescia 1990, 323‐361 (dove elenca 765 opere).

Presentiamo una selezione degli studi: AA.VV., Apocalypses et Théologie de l’Espérance (LD 95), Paris 1977. AA.VV., La littérature intertestamentaire. Colloque de Strasbourg (17‐19 Oct. 1983), Paris 1985. AA.VV., L’Apocalittica, in CredO n. 80 (1994/2). ALTHAUS H. E ALTRI, Apocalittica ed escatologia, Brescia 1992. BOCCACCINI G., Il Medio Giudaismo (Radici), Genova 1993. BULTMANN R., Ist die Apokalyptik die Mutter der urchristlichen Theologie? Eine Auseinandersetzung mit E. Käsemann

(BZNW 30), Berlin 1964, 60‐69.


CARMIGNAC J., Qu’est‐ce que l’apocalyptique? Son emploi à Qumrān, in RdQ 10 (1979) 3‐33. CARROL R. P., Twilight of Prophecy or Dawn of Apocalyptic?, in JSOT 14 (1979) 3‐35. CIMOSA M., La letteratura intertestamentaria (Bibbia nella storia), Bologna 1992. COLLINS J. J., Apocalypse: the Morphology of a Genre (Semeia 14), Missoula 1979. COLLINS J. J., The Place of Apocalypticism in the Religion of Israel, in MILLER P. D. (a cura di), Ancient Israelite Religion,

Philadelphia 1987, 539‐558. COPPENS J., L’Apocalyptique. Son dossier, ses critères, ses éléments constitutives, sa portée néotestamentaire, in EThL 53

(1977) 1‐23. COPPENS J., La relève apocalyptique du Messianisme Royal. I: La Royauté – Le Règne – Le Royaume de Dieu cadre de la

relève apocalyptique (BEThL 50), Louvain 1979. DELCOR M., Studi sull’apocalittica (StBi 77), Brescia 1987. FREY J. B., Apocalyptique, in DBS 1 (1928) 326‐459. GARCÍA MARTÍNEZ F., Encore l’Apocalyptique, in JSJ 17 (1986) 224‐232. GARCÍA MARTÍNEZ F., ¿La Apocalítica Judía como matriz de la teología cristiana?, in PIÑERO A. (a cura di), Orígines del

Cristianismo. Antecedentes y primeros pasos, Córdoba‐Madrid 1991, 177‐199. HANSON P. D., Jewish Apocalyptic against Its Near Eastern Environment, in RB 78 (1971) 31‐58. HANSON P. D., The Dawn of Apocalyptic. The Historical and Sociological Roots of Jewish Apocalyptic, Philadelphia 1975. KÄSEMANN E., Die Anfänge christlicher Theologie, in ZThK 57 (1960) 162‐185. KOCH K., Difficoltà dell’apocalittica, Brescia 1977. KOCH K. – SCHMIDT J. M. (a cura di), Apokalyptik, Darmstadt 1982. MARCONCINI B., Gli scritti apocalittici: la signoria di Dio sulla storia, in CredO n. 15 (1983/3) 70‐80; n. 80 (1994/2) 21‐31. MARCONCINI B., Apocalittica. Origine, sviluppo, caratteristiche di una teologia per tempi difficili, Leumann (Torino) 1985. OSTEN‐SACKEN P. VON DER, Die Apokalyptik in ihrem Verhältnis zu Prophetie und Weisheit, München 1969. PAUL A., Genèse de l’Apocalyptique et signification du canon des Écritures, in La Vie de la Parole. De l’Ancien au

Nouveau Testament. Mélanges P. Grelot, Paris 1987, 420‐433. PAUL A., De l’apocalyptique à la théologie, in RechSR 80 (1992/2) 165‐186. PLÖGER O., Theokratie und Eschatologie (WMANT 11), Neukirchen 1959. ROWLEY H. H., The Relevance of Apocalyptic, London 1944, 31963. RUSSELL D. S., L’apocalittica giudaica, Brescia 1991. SCHMIDT J. M., Die jüdische Apokalyptik. Die Geschichte ihrer Erforschung von den Anfängen bis zu den Textfunden von

Qumrān, Neukirchen‐Vluyn 1969. SCHMITHALS W., L’apocalittica (GdT 95), Brescia 1976. SCHREINER J., Alttestamentlich‐jüdischen Apokalyptik. Eine Einführung (BiH 6), München 1969. SOGGIN J. A., Profezia e Apocalittica nel giudaismo post‐esilico, in RivBib 30 (1982) 161‐173. VANNI U., Apocalittica come teologia, in DTI 1, 388‐401.

Questo capitolo intende collocare nella giusta luce scritti, comunemente chiamati apocalittici, che si distinguono per forma e contenuto dai libri profetici, storici e sapienziali (Gioele; Is 34–35; 63,1‐6; 24–27; Ez 38–39; Zac 9–14; Daniele), iniziando con un accenno alla loro problematicità e attuali‐tà. La problematicità traspare già dai giudizi contrastanti che gli studiosi danno della loro natura. L’apocalittica sfugge infatti a una soddisfacente definizione (G. von Rad), è la madre di ogni teologia cristiana (E. Käsemann), è pura soddisfazione della curiosità umana, priva di un autentico interesse soteriologico (O. Cullmann); è al primo posto della ricerca biblica, se non addirittura dell’attualità teologica (L. Monloubou); ha per padre il profetismo (D. S. Russell); deriva dalla Sapienza (G. von Rad); influisce/non influisce su Cristo e su Paolo; è presente in pochissimi testi (J. Carmignac); coin‐cide invece con gli apocrifi (D. S. Russell) o, più comunemente, si trova in sei libri (K. Koch: Daniele, Enoch Etiopico, 2 Baruc, 4 Esdra, Apocalisse di Abramo, Apocalisse di Giovanni); Daniele è il princi‐pale scritto apocalittico (quasi tutti gli studiosi); non è apocalittico (P. Sacchi, G. Boccaccini). L’attualità consiste, da una parte, nella sua insostituibilità per comprendere diversi passi neotesta‐mentari, come il cosiddetto discorso escatologico di Gesù (Mc 13 par.), i racconti della risurrezione, alcuni testi paolini (per es., 1 e 2 Tessalonicesi), termini dal denso significato teologico (mistero, ri‐velare, volontà, prevedere), le lettere cattoliche e soprattutto l’Apocalisse di Giovanni; dall’altra, nell’alimentare ogni teologia animata dalla speranza (W. Pannenberg, J. Moltmann). Questa lette‐ratura infatti, evidenziando il carattere trascendente di Dio e affermando, insieme, che egli in realtà conduce la storia, ha creato l’attesa di un regno universale, ha illuminato la contingenza degli even‐ti storici, ha riletto in un’ampiezza inconsueta fatti precedenti, ha preparato gli animi all’annuncio


della pura gratuità della salvezza. Ha permesso di scoprire una retribuzione ultraterrena, dando una risposta a questioni irrisolte in Giobbe e Qoelet con la percezione di un’impensabile fedeltà di Dio, e ha fondato una morale altissima. Ha influito sul Battista, su Gesù (il quale pur non essendo un apocalittico, tuttavia ha utilizzato categorie apocalittiche) e sulla primitiva tradizione cristiana (per es., attraverso la figura del Figlio dell’uomo), con riflessi sulla cristologia, sull’ecclesiologia e sull’antropologia. L’apocalittica favorisce tutt’oggi la ripresa di una visione dinamica dell’esistenza cristiana contro ogni tentazione immanentistica e, proclamando la fine dell’oppressione dell’uomo sull’uomo, ali‐menta un’utopia politica, spingendo verso un cambiamento della società e un superamento del male, della schiavità e dell’ingiustizia in favore della speranza, della libertà, della giustizia. La parola «apocalittica» usata per la prima volta nel XIX secolo, indica un insieme di testi biblici e di libri apocrifi (pseudepigrafici per i protestanti che indicano con apocrifi i deuterocanonici)1 simili nella forma e nel contenuto all’Apocalisse di Giovanni. Essa considera gli scritti come delle rivela‐zioni, secondo il termine greco apokálypsis e l’ebraico gālāh (rivelare) ed esclude l’identificazione di apocalittico con oscuro, catastrofico, bizzarro. La dimensione rivelativa di un testo apocalittico è presente nel giudizio sul mondo attuale ritenuto corrotto e luogo di scontro tra il bene e il male, angeli e demoni, materia e spirito, oppressi e oppressori, ma proteso verso un cambiamento che si realizzerà tra breve: queste tre caratteristiche di uno scritto apocalittico: pessimistica, dualistica, escatologica, sono espresse mediante un linguaggio simbolico (simbolismo umano, animale, te‐riomorfico, numerico, cromatico) che sottolinea la viva attesa di giungere alla libertà, in forza di uno straordinario intervento di Dio. Essenziale per l’apocalittica è la dimensione escatologica: l’attesa riguarda il destino della collettivi‐tà e dell’individuo, il momento dell’instaurazione del regno di Dio e, marginalmente, lo svelamento dei segreti della natura e del cosmo. Per una chiarificazione dei concetti è utile conoscere l’ambiente in cui l’apocalittica è nata e si è sviluppata, le correnti di pensiero da cui deriva, le defi‐nizioni fornite a tutt’oggi dagli studiosi.

2.1. Ambiente storico e sociale

L’apocalittica nasce tra il V e il IV secolo come contestazione al pensiero dominante riflesso nell’opera del «Cronista», all’interno della comunità creata da Esdra e Neemia. Nel II secolo a.C., col «maggiore di tutti gli scritti apocalittici giudaici»2, Daniele, l’ideologia acquista una dimensione più politica, portata avanti da gruppi noti come gli Asidei («i pii»). Ricostruiamo qualche aspetto dell’ideologia apocalittica, contestatrice di quella ufficiale rappresentata dal Cronista. Questi vede nella comunità postesilica il compimento di tutta la storia di Israele, il proseguimento dell’opera in‐trapresa da Davide, la possibilità di organizzare la vita del popolo, libero ormai da impegni politici di ogni tipo, attorno alla legge, al tempio, al culto: al vertice di ogni preoccupazione c’è l’ideale di purità e di separazione dagli altri popoli. Al profeta si sostituisce una nuova figura, il sacerdote‐levita, che assume il monopolio della predicazione e della catechesi (cfr. 2Cron 17,7‐9; 20,14).

1 Cfr. J. H. CHARLESWORTH, Gli pseudepigrafi dell’Antico Testamento e il Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1990; P.

SACCHI (a cura di), Apocrifi dell’Antico Testamento, voll. 1‐2, Torino 1981‐1989; voll. 3‐5, Paideia, Brescia 1997‐2000; A. PAUL, Bulletin de Littérature intertestamentaire, in RechSR 62 (1974) 401‐434; 66 (1978) 343‐387; A. PAUL, Che cos’è l’intertestamento? (Bibbia Oggi 3), Gribaudi, Torino 1978; L. ROST, Introduzione agli apocrifi dell’Antico Testamento, Ma‐rietti, Torino 1980.

2 RUSSELL, L’apocalittica giudaica, 33‐58, qui 34; O. Plöger colloca l’origine al V secolo; P. D. Hanson l’anticipa al VI se‐colo identificando, mediante un’efficace immagine, il concepimento in Ezechiele, le prime doglie con la distruzione del tempio, la fine della gestazione con il Secondo Isaia e la nascita nel dopo esilio con il Terzo Isaia: i tre autori appaiono sostanzialmente concordi. Quanto alla terminologia, la triplice distinzione di apocalittica quale linguaggio o genere let‐terario, come contenuto o mentalità teologico/culturale, e corrente/sistema di pensiero legato a gruppi particolari (cioè apocalisse, apocalittica, apocalitticismo) riproposta da P. D. Hanson (Apocalypses and Apocalypticism, in AncBD I, 279‐282 e IDB Suppl. Volume, 27‐34), può avere un’utilità chiarificatrice, ma non appare decisiva.


Tale programma realizzato con drastici interventi (cfr. Ne 13,23‐28) provocò una reazione in Sama‐ria, dove il sommo sacerdote Manasse si rifugiò presso il suocero Sanballat, e dove, sul monte Ga‐rizim, fu eretto un tempio; nelle correnti universalistiche sostenitrici di un’origine non ebrea di Da‐vide (Rut, Giona) o contestatrici della visione tradizionale della sapienza (Giobbe e in seguito Qoe‐let); ma soprattutto in nuovi gruppi di élites che rivendicavano il diritto di pensare diversamente dall’«ufficialità». È possibile delineare qualche caratteristica iniziale di questi circoli che andavano prendendo il posto dei profeti, i cui epigoni sono rappresentati da Aggeo, il Primo Zaccaria e il Ter‐zo Isaia e più recentemente Malachia. Mentre la società di Esdra e Neemia era ancorata al presente, contenta di una normale osservanza della legge, quella apocalittica era aperta al futuro, a uno straordinario intervento di Dio. Se l’acuto problema del male, da una parte, faceva apparire insufficiente l’attenzione a evitare la trasgressio‐ne di un precetto, dall’altra, la difficoltà di una persecuzione che impegnava la fedeltà di Dio alle sue promesse avrebbe condotto all’affermazione di un’esistenza ultraterrena, dell’immortalità dell’uomo e della risurrezione. I fatti dolorosi sono visti nell’apocalittica come sintomi della fine dell’oppressione e dell’inizio del regno di Dio: la nuova letteratura si caratterizza quasi subito come voce degli oppressi e in favore della libertà. «Si tratta essenzialmente di una letteratura di oppressi, che non vedono speranza alcuna per il popolo nell’ambito politico, o sul piano della storia umana. La battaglia che si combatte è uno scontro spirituale, non politico, né economico, un combattimen‐to di “potenze spirituali nelle altezze”. I Giudei erano dunque costretti a spingere lo sguardo al di là della storia, per intravedere il drammatico e miracoloso intervento di Dio, che avrebbe punito le ingiustizie compiute contro il suo popolo, Israele, e proprio l’incalzare degli avvenimenti faceva sì che lo ritenesse imminente»3. Talvolta questa situazione è nota, come al tempo della persecuzione di Antioco IV nel II secolo, al‐tre volte è solo intravista, come alla fine del IV secolo al tempo delle imprese di Alessandro Magno.

2.2. Fonti di ispirazione

È un fatto che l’apocalittica segue cronologicamente il profetismo, anche se lo stacco tra le due cor‐renti di pensiero non è molto marcato. Succedere vuol dire anche dipendere? Sono state avanzate tre soluzioni.

2.2.1. Derivazione profetica (R. H. Charles, H. H. Rowley, D. S. Russell, O. Eissfeldt, P. D. Han‐son)

Una serie di fatti rivelano la scomparsa del profetismo. Il lamento «non ci sono più profeti e tra di noi nessuno sa fino a quando ...» (Sal 74,9), la minaccia di morte per chi osa ancora fare il profeta (Zc 13,3) e, più tardi, la collocazione delle pietre dell’altare profanato «in luogo conveniente finché fosse comparso un profeta a decidere di esse» (1Mac 4,46) con il conferimento del sommo sacer‐dozio a Simone Maccabeo «finché sorgesse un profeta degno di fede» (1Mac 14,41) provano a suf‐ficienza il superamento della profezia. Questa profezia era caduta in discredito per più motivi: la varietà dei messaggi, il mancato adempimento delle promesse, almeno così come erano state inte‐se dai contemporanei, la mancanza di una dialettica con il potere politico passato nelle mani degli stranieri (Persiani, Tolomei, Seleucidi) e l’assenza, in una società tranquilla, dei suoi propri ambiti quali la disparità sociale, l’autenticità della religione, l’intervento divino nella storia. Eredità profetica

Morendo, la profezia trasmette alcune intuizioni che l’apocalittica trasformerà. Il profetismo dell’esilio offre, infatti, l’idea di una divisione bipartita della storia. Nonostante l’ostinazione del cuore (Ger 18,11‐12), Geremia annuncia una salvezza nei termini di una nuova alleanza (Ger 31,31‐34), rafforzata in Ezechiele con la visione delle ossa aride rivivificate (Ez 37), del cuore nuovo e del‐

3 RUSSELL, L’apocalittica giudaica, 36.


lo spirito nuovo (Ez 11,19; 36,26), quale inizio del programma di restaurazione del nuovo Israele (Ez 40–48). Più deciso è il Secondo Isaia: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,18‐19). Alla «coppa della collera», al «calice della vertigine» si sostituirà «il tempo favorevole», il «giorno della salvezza», dell’«amore imperituro» operato dalla potenza creatrice del Signore e dalla sua so‐vranità su tutti i popoli: «Il mio progetto resta valido, io compirò ogni mia volontà» (Is 46,10). La sobria allusione a immagini mitologiche, come il giardino paradisiaco (Is 51,3) o il combattimen‐to vittorioso contro Raab (Is 51,9), sarà largamente utilizzata nel linguaggio apocalittico, non meno della sovranità di YHWH, proiettata nel futuro dai deludenti fatti postesilici. Gli ammassi di macerie invece di un eden, le speranze deluse (cfr. Ag 2,21‐23; Zc 6,12) per la misteriosa scomparsa di Zo‐robabele, le difficoltà per la ricostruzione del tempio assieme a un culto superficiale (Is 66,1‐4) fanno emergere l’idea di una nuova creazione con la punizione dei malvagi (Is 66,22‐24). «Il mito delle origini diviene escatologizzato. La profezia escatologica porterà all’apocalittica»4. Una prima testimonianza di questo passaggio è il libro di Gioele, scritto in uno stile e con un contenuto profe‐tico, ma in cui «l’ampiezza cosmica del giudizio, la descrizione del bene futuro in termini paradisia‐ci, pur ricordando la profezia escatologica, lasciano intravedere il passaggio verso l’apocalittica»5. Siamo tra il V e il IV secolo. All’inizio l’apocalittica non è altro che «il modo assunto dalla profezia escatologica, una volta trasferita nel nuovo e radicalmente diverso ambiente della comunità poste‐silica»6. La differenza tra le due correnti di pensiero è visibile nel terreno dell’escatologia. Quella profetica è «l’annuncio alla nazione dei piani divini per Israele e per il mondo, che il profeta, con la sua pene‐trazione nel consiglio divino di YHWH, ha testimoniato apertamente all’interno del rapporto di al‐leanza tra YHWH e Israele, quei piani che il profeta continua a tradurre in termini di storia comune, di politica reale e di mezzi umani. La profezia interpreta cioè per il re e il suo popolo come i proget‐ti del consiglio divino si realizzeranno all’interno del contesto della loro storia nazionale e della sto‐ria mondiale». L’apocalittica, invece, è «la manifestazione all’eletto della visione profetica della sovranità di YHWH (inclusi i futuri rapporti con il suo popolo, gli intimi segreti del cosmo, ecc.), la quale visione i visio‐nari hanno cessato di tradurre in termini di storia comune, di politica reale, di mezzi umani, a causa della visione pessimistica della realtà, che scaturisce dalle squallide condizioni postesiliche»7. Se l’elemento comune è la visione, la diversità è nella carenza di «effettualità» presso gli apocalittici. «I profeti, affermando il dominio storico come un contesto adatto per l’attività divina, compresero come loro compito il tradurre la visione dell’attività divina dal livello cosmico al livello di dominio storico‐politico della vita di ogni giorno. I visionari, disillusi dal dominio storico, svelarono le loro visioni in una crescente indifferenza e indipendenza dalle contingenze del dominio storico‐politico»8.

4 G. ROCHAIS, Les origines de l’Apocalyptique, in ScEs 25 (1973) 31. 5 ROCHAIS, Les origines, 28. 6 HANSON, Jewish Apocalyptic, 34. 7 HANSON, Jewish Apocalyptic, 35. 8 HANSON, Jewish Apocalyptic, 35. Nell’opera più recente quest’autore sostiene che «la letteratura apocalittica del

secondo secolo e in seguito è il risultato di un lungo sviluppo, che si riallaccia anteriormente ai tempi preesilici e oltre, e non un neonato di genitori stranieri del secondo secolo» (The Dawn of Apocalyptic, 8). Per altri, la formazione è più complessa ed è concomitante ai grandi sconvolgimenti politici, da quello dell’esilio alla persecuzione di Antioco: «La letteratura apocalittica è nata a partire dall’esilio da due ambienti, dalla corrente profetica esilica e dall’ambiente di scribi eruditi, che, interessati alla mitologia sumerica e accadica, hanno formato la leggenda di Enoc... per ricongiun‐gersi nel libro di Daniele e dei Sogni del 64» (ROCHAIS, Les origines, 22).


L’apocalittica come diversa accentuazione di un linguaggio profetico

È utile delineare ulteriormente convergenze e divergenze9 tra profezia e apocalittica nel momento delle loro più chiare espressioni. Ambedue credono al dominio assoluto di Dio sulla storia, più ac‐centuato tra gli apocalittici, all’elezione gratuita di Israele e all’esigenza di una totale fedeltà a Dio. «La più grande importanza dell’apocalittica sta nel comunicare all’occidente la visione teleologica della storia, cioè la concezione di un fine definitivo e di un termine della storia che rende possibile in linea di principio la storia come totalità e come tale interpretarla, oltre che comprendere il sin‐golo momento alla luce di ciò che è storicamente passato»10. Le divergenze riguardano innanzitutto il futuro. I profeti sono intenti a interpretare il presente, mentre gli apocalittici sono proiettati verso la fine dei tempi, spesso ritenuta imminente: l’esistenza umana si apre pian piano all’immortalità e a una vita felice presso Dio. La storia individuale e col‐lettiva è contemplata dal punto di vista della fine di questo mondo. «Invece di una teologia storica, si ha (negli apocalittici) una teologia della storia, e invece di un’escatologia storica compare una contemplazione escatologica della storia»11. Il giudizio di Dio, per i profeti, può essere evitato con una sincera conversione capace di cambiare la storia, che invece per gli apocalittici è ormai irrimediabilmente perduta. Oggetto dell’azione di Dio sono, per i profeti, Israele e le nazioni, per gli apocalittici è il mondo inte‐ro: a questa prospettiva universale si unisce – non senza una qualche contraddizione – il particola‐rismo di gruppi ristretti o segreti, che giunge a quell’esoterismo di cui non esiste traccia nel profeti‐smo. Il male nel mondo trova spiegazione per i profeti nell’uso errato della libertà dell’uomo, men‐tre per gli apocalittici consiste nell’oppressione di un tiranno, come Antioco IV, oppure – negli apo‐crifi – in un peccato di Adamo, esterno all’uomo. Negli apocalittici si passa infine all’abbandono di quel messianismo regale, di quell’interesse per il discendente di Davide che invece nel profetismo rinacque anche dopo l’esilio. Quanto alla forma e al linguaggio, l’apocalittica si distingue per un ampio uso di immagini mitiche, per il passaggio dall’anonimia alla pseudonimia (l’attribuzione di uno scritto a un personaggio anti‐co), per un’accentuazione e un orientamento diversi del simbolo, per il cambiamento da uno stile orale, spontaneo, in favore di uno studiato e scritto. La differenza pertanto consiste in un diverso «dosaggio»12, in una diversa accentuazione di elementi e soprattutto in uno sviluppo delle visioni e del «giorno del Signore» che acquistano una proporzione precedentemente sconosciuta. Si può pertanto concludere: «Non c’è dubbio che la componente principale fosse profondamente radicata nella profezia ebraica, e in particolare negli scritti dei profeti postesilici, il cui pensiero e il cui linguaggio fornirono le fondamenta sulle quali le opere apocalittiche successive si sarebbero sviluppate»13. Quest’ultima frase lascia aperto l’influsso ad altre correnti.

2.2.2. Derivazione sapienziale (G. von Rad)

È indubitabile che la grande apocalittica presenta tratti sapienziali. Daniele è chiamato sapiente (cfr. Dan 2,48), interprete di sogni, di visioni, di enigmi. Alcune caratteristiche hanno suggerito a G. von Rad una derivazione sapienziale per quattro fondamentali motivi14. Gli pseudonimi, con il tito‐lo di scriba, sono dei sapienti (Dan 1,4; 2,48; Enoc 12,3‐4; 15,1; 92,1) e portano i nomi di antichi saggi, Daniele, Enoc, Esdra. È analogo poi in ambedue, il sapiente e l’apocalittico, la passione per la conoscenza di quelle leggi indefettibili che regolano gli uomini e la natura (Assunzione di Mosè 12,4‐5 e Sap 7,17‐20): ambedue si occupano di astronomia, zoologia, demonologia, psicologia, bo‐

9 J. A. SOGGIN, Profezia e Apocalittica nel giudaismo post‐esilico, in RivBib 30 (1982) 161ss. 10 W. SCHMITHALS, L’apocalittica (GdT 95), Brescia 1976, 197. 11 J. MOLTMANN, Teologia della speranza, Brescia 41972, 137. 12 E. JACOB, Aux sources bibliques de l’Apocalyptique, in AA.VV., Apocalypses et Théologie de l’Espérance, 45. 13 RUSSELL, L’apocalittica giudaica, 119s. 14 VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, vol. 2, 356‐364.


tanica, avvicinandosi all’ideale di un sapere enciclopedico. Il messaggio apocalittico non è frutto di un ragionamento umano, ma dono, illuminazione, quasi un’investitura di Dio. Discordante con la concezione profetica della storia, fondata su tradizioni di elezione, è la determinazione apocalittica dei tempi ultimi, i soli salvifici, preceduti dal peccato (Dan 8,23), da «un abisso», da «una grande catastrofe» (En 83,7) che ha la sua causa prima all’interno dell’uomo e degli imperi da lui fondati. Il determinismo storico degli apocalittici, per i quali tutto deve svolgersi secondo regole prestabilite, è inconciliabile con l’idea del nuovo dei profeti, reso possibile dall’intervento divino e dalla conver‐sione umana. Derivazione profetica o derivazione sapienziale? Sembra che il problema non debba porsi in modo così alternativo.

2.2.3. Posizione intermedia (P. von der Osten‐Sacken, U. Vanni)

Senza negare un influsso anche straniero (astrologia, magia), che resta comunque minoritario, si può parlare di una prima e primaria derivazione profetica con l’apertura dell’apocalittica, nel mas‐simo della sua espansione, ad elementi sapienziali. «L’apocalittica è figlia legittima della profezia, anche se tardiva e particolare, la quale, pur non senza istruzione nei suoi anni giovanili, si è aperta alla sapienza col crescere dell’età»15. Resta dunque da chiedersi: che cos’è allora l’apocalittica?

2.3. Verso una definizione dell’apocalittica

2.3.1. Presupposti per una definizione

Per la comprensione di qualsiasi definizione si deve tener presente che l’apocalittica non è una cor‐rente letteraria omogenea, con caratteristiche e contenuti costanti nel tempo, con problematiche identiche per ambienti diversi: evoluzione dei temi, prevalere in un libro di un argomento, che in‐vece è assente in un altro, evoluzione di un linguaggio che nell’arco di mezzo millennio si presenta notevolmente diverso, sono elementi da tenere sempre presenti. Si pensi, ad esempio, come evol‐ve il significato di Gerusalemme all’interno del profetismo e dell’apocalittica: da città dell’ingiustizia e della violenza (Is 5,7), meta ambita degli esuli (Is 40,2; 51,1), simbolo di comunione sponsale de‐finitiva e paritetica con Dio (cfr. Is 62,1‐12), diventa radicalmente «nuova» nell’«Apocalisse Simbo‐lica» degli animali16, per assurgere, come «celeste» Gerusalemme, a modello preesistente di quella terrena che risulta completamente scomparsa nel IV Libro di Esdra e in II Baruc. Questa nuova con‐cezione si inserisce in quella più ampia dei due eoni, forniti di leggi proprie, non più giustapposti, ma che si sostituiscono l’uno all’altro. A motivo della poca attenzione a questa dimensione storica, la risposta all’interrogativo che cosa sia l’apocalittica è spesso data con un elenco più o meno lungo di caratteristiche riprese dalle co‐stanti di quei libri che comunemente sono chiamati apocalittici. Così J. Coppens enumera decine di note formali e contenutistiche17; K. Koch limita a sei le caratteristiche formali (visioni, estasi del

15 P. VON DER OSTEN‐SACKEN, Die Apokalyptik in ihrem Verhältnis zu Prophetie und Weisheit, München 1969, 63. Cfr. U.

VANNI, Apocalittica come teologia, in DTI 1, 388‐401 e F. FESTORAZZI, Riflessione sapienziale, in DTI 3, 91: «Il punto culmi‐nante che apre con chiarezza la sapienza all’apocalittica è l’esperienza tragica delle persecuzioni e il tempo discriminan‐te dei martiri».

16 L. ROSSO UBIGLI, Dalla «nuova Gerusalemme» alla «Gerusalemme celeste». Contributo per la comprensione dell’ apocalittica, in Henoch 3 (1981) 69‐79.

17 Cfr. J. COPPENS, L’Apocalyptique. Son dossier, ses critères, ses éléments constitutives, sa portée néotestamentaire, in EThL 53 (1977) 1ss. Parla di sincretismo letterario o ideologico, pseudonimia, efflorescenza dell’immaginario e del fantastico, simbolismo, specialmente quello animale, esoterismo, inquadrature oniriche visionarie e anche estatiche, carattere sapienziale gnostico o pseudoscientifico, utilizzazione della gematria, appello all’intervento di angeli interpre‐ti per svelare il senso nascosto delle rivelazioni ricevute, presenza dei discorsi di addio. Tra i criteri tematici figurano il predominio dell’escatologia, l’elaborazione d’una nuova concezione dello sviluppo storico, l’introduzione del dualismo e del fatalismo, l’accoglienza delle aspirazioni universalistiche, il miscuglio di ottimismo e di pessimismo, la tendenza al passivismo, l’accentuazione della trascendenza di Dio e l’affidamento del mondo all’intervento di potenze superiori.


veggente, parenesi, pseudonimia, simbolismo, carattere composito degli scritti) e a otto quelle di contenuto (spasmodica attesa della fine del mondo, catastrofe cosmica, divisione del tempo uni‐versale in periodi fissi, angelologia e demonologia, salvezza, glorificazione dei buoni, regno di Dio, mediazione del Figlio di Dio o Eletto)18; D. S. Russell individua il contenuto in numerosi temi (storia umana e potere divino, angeli e demoni, il tempo della fine, il regno messianico, il Messia, il figlio dell’uomo, la vita dopo la morte)19. Altri all’opposto ritrovano nell’apocalittica solo un carattere formale, definendola un «genere letterario»20 o le attribuiscono un generico contenuto storico‐salvifico21. Questa linea di ricerca è utile, ma non individua l’essenza dell’apocalittica, sulla quale recentemente è stata formulata una risposta precisa e originale.

2.3.2. Il peccato come contaminazione

Per individuare l’essenza dell’apocalittica P. Sacchi pone innanzitutto un problema di metodo che implica tre momenti22: – accettazione del Libro dei Vigilanti (LV)23 come apocalittico, tramandato come tale da una lunga tradizione; – riconoscimento che esso, per la sua antichità (può risalire anche fino al V secolo a.C.), possa as‐surgere a misura di apocalitticità degli scritti seguenti in quanto conformi (per continuità o svilup‐po) al suo contenuto, nuovo e innovativo; – confronto di questo contenuto con gli scritti seguenti capaci di ricevere l’«etichetta di apocalitti‐cità». La novità, ritrovata attraverso minuziose analisi dei libri non canonici, consiste nell’individuare l’essenza dell’apocalittica in un evento (mitico) del passato, nella contaminazione cioè di tutta la natura umana, in seguito al peccato degli angeli unitisi sessualmente con donne, dalle quali nac‐quero i giganti. Tale dottrina è variata nel Libro dei Giubilei, intensificata nelle opere (non apocalit‐tiche) del Maestro di Giustizia (Regola della comunità e Hôdayôt), il quale porta alle estreme con‐seguenze «l’idea apocalittica che la natura in genere fu contaminata dal male con una contamina‐zione che dura tuttora. L’uomo è cattivo per sua natura, perché è essere impuro»24. Questo aspetto essenziale dell’apocalittica è presente soprattutto nel Libro dei Sogni, inserito nel pentateuco di Enoch (cc. 83–90) come testimone di una dottrina in sviluppo. E Daniele? Qui il pensiero di P. Sac‐chi, pur con qualche oscillazione intermedia, è chiaro: Daniele non è apocalittico, al pari dell’Apocalisse di Giovanni.

2.3.3. La dimensione escatologica come essenza dell’apocalittica

Pur degna di attenzione, questa nuova linea di ricerca non sembra cogliere l’essenza dell’apoca‐littica, che è invece incentrata su un evento futuro, l’atteso intervento divino liberatorio, come so‐stiene la quasi totalità degli studiosi.

18 K. KOCH, Difficoltà dell’apocalittica, Brescia 1977, 23‐38. 19 RUSSELL, L’apocalittica giudaica, 257‐473. 20 J. CARMIGNAC, Qu’est‐ce que l’apocalyptique? Son emploi à Qumrān, in RdQ 10 (1979) 20. 21 J. J. COLLINS, Apocalypse: the Morphology of a Genre (Semeia 14), Missoula 1979, 9. 22 P. SACCHI, L’apocalittica giudaica e la sua storia, Brescia 1990. In questo volume l’A. raccoglie i suoi studi apparsi

nel decennio 1979‐1989. 23 Secondo il Sacchi, il LV costituisce la prima parte (cc. 1–36) di Enoc etiopico, che comprende il Libro delle Parabo‐

le (LP: cc. 37–71), il Libro dell’Astronomia (LA: cc. 72–82), il Libro dei Sogni (LS: cc. 83–90) e l’Epistola di Enoc (EE: cc. 91–108). Il LV ha una parte più antica (LV1 = cc. 1–11, con una sezione introduttiva nei cc. 1–5), derivata dal Libro di Noè, e una più recente (LV2 = cc. 12–36) che rappresenta uno sviluppo nel senso che la causa del male non risiede più nello svelamento dei misteri celesti, bensì nella contaminazione di tutta la natura in seguito al peccato degli angeli. Per i numerosi problemi critici presenti in Enoc, cfr. J. T. MILIK, The Books of Enoch. Aramaic Fragments of Qumrān, Oxford 1976; SACCHI, Gli apocrifi dell’AT, I, 415‐723; J. COPPENS, Les Fils d’homme vétéro‐ et intertestamentaire. La relève apoca‐lyptique du Messianisme Royal (BEThL 61), Louvain 1983, spec. 19‐185; F. GARCÍA MARTÍNEZ, Qumran and Apocalyptic: Studies on the Aramaic Texts from Qumran (StTDJ 9), Leiden 1992.

24 SACCHI, L’apocalittica giudaica, 76.


Negli scritti canonici – che qui ci interessano direttamente – emerge infatti la certezza del definitivo trionfo di Dio in un’epoca di pericoli e di persecuzioni, atteso spasmodicamente quando il male, cioè l’oppressione, si fa più intensa. È il giorno di YHWH, che «sarà tenebra e non luce» (Am 5,18), presente la prima volta in Gioele (1,15; 2,1.11; 3,1‐5; 4,13‐17.18.21), attestato ulteriormente in passi tra il IV e il II sec. (Is 34–35; 62,1‐6; 24–27; Ez 38–39 e poi in Zc 9–14, Daniele) e quindi nell’Apocalisse di Giovanni. Questa visione teologica si apre a una dimensione antropologica con la risurrezione (Dan 12; Is 26,19; Apocalisse, passim) e morale con la delineazione di un comporta‐mento eroico (Dan 3; 6). Il nucleo centrale pertanto dell’apocalittica consiste nel qualificare gli eventi vissuti dall’autore co‐me segno di ciò che sta per accadere: sembrano eventi immediatamente disastrosi per il popolo eletto, e invece – rivela l’apocalittico – sono segno di un’imminente sconfitta del male e di un pros‐simo instaurarsi del regno di Dio. L’apocalittica cioè insegna a leggere nei fatti una conduzione di Dio che li indirizza a un lieto fine, a vederli collegati con avvenimenti precedenti, a prendere co‐scienza di un compimento delle promesse messianiche, proprio quando sembrava scaduto il tempo della loro realizzazione: a questo carattere di rivelazione è riconducibile la pseudonimia, intesa come continuità con la tradizione. A questo elemento contenutistico è da collegare quel clima di viva attesa che fa sentire imminente il cambiamento: essenziale è pertanto la dimensione escatologica proiettata verso un intervento divino capace di far giungere il regno di Dio. Assieme a questo dato contenutistico, lo scritto apoca‐littico si distingue per l’accentuato simbolismo (animale, umano, dei colori, numerico: Dan 12,7.12; 7,25; 8,14): senza di esso avremmo opere storiche o sapienziali. A questo binomio (viva attesa dell’intervento divino e simbolismo) si aggiungono uno o più elementi descritti dagli autori sopraci‐tati, come ad esempio il male o peccato che giustifica un intervento dall’alto. Si potrebbe pertanto tentare una provvisoria descrizione dell’essenza dell’apocalittica come l’espressione in simboli della viva attesa, suscitata nel tardo giudaismo, dalle «rivelazioni» attribuite a uomini del passato, di un’imminente irruzione del regno di Dio nella storia liberata dalle potenze del male.

3. APOCALITTICA BIBLICA MINORE

3.1. Gioele

Nella prima letteratura apocalittica protagonista è Dio che, apparendo spesso in una teofania co‐smica, con un ruolo sempre più decisivo e personale libera il popolo oppresso da un nemico chia‐mato ora Edom, ora con nome fittizio (Gog) o mitologico (Leviatan), abbattuto con la spada, il fuo‐co, la peste: il popolo purificato vedrà il regno di Dio e riceverà abbondanti benedizioni in una Ge‐rusalemme rinnovata. Questi testi apocalittici si differenziano da quelli escatologici dei profeti, for‐niti degli stessi simboli e relativi a eventi storici (cf. Is 13), per una maggiore universalità d’orizzonte, di interesse e di linguaggio (cf. Is 24–27). Di Gioele (il nome significa «YHWH È Dio»), figlio di Petuel, mancano notizie dirette. L’esame interno del libro lo qualifica come giudeo (2,1.15.23) vicino all’ambiente sacerdotale e del tempio (1,9.13; 2,17), partecipe del momento difficile vissuto dal popolo (1,6.10.20; 2,1), cui annuncia un’imminente liberazione (2,19.25) e un futuro pieno di speranza (3,1).

3.1.1. Contenuto e stile del libro

Tema unificante dei quattro capitoli (o tre per i LXX e la Volgata, che uniscono gli ultimi due del TM) è il «giorno del Signore», imminente (1,15), grande (2,11), terribile (3,4), apportatore del dono del‐lo Spirito in un futuro imprecisato («in quei giorni»: 3,2; 4,1). Esso è annunciato dalle cavallette (1,4) descritte come una nazione potente (1,6), un popolo forte (2,2‐5), un grande esercito (2,25), un fuoco distruttore (2,3ss). L’unico rimedio alla catastrofe risiede in una sincera conversione (2,12‐14), che si esprime in penitenze (1,13‐14), preghiere (1,18), atti comunitari (2,15‐17) e il riconosci‐mento del dominio assoluto di Dio sulla natura e sulla storia (2,3.11‐27). Alla conversione farà se‐


guito il dono universale dello Spirito che è all’origine di prodigi della natura (3,3‐4) e di segni salvi‐fici in tutto Israele (3,5). Il giudizio nella valle di Giosafat (4,1‐2)25 trova una prima attuazione nella condanna di Tiro e Sidone per aver venduto schiavi ai Greci degli Israeliti (4,4‐8), cui si contrappone una Gerusalemme ripiena di beni materiali, vino e latte (cf. Am 9,13‐15), mentre una fonte di ac‐qua zampillante sgorgherà dal tempio (4,18‐29; cf. Ez 47,1‐12; Zc 14,8). Lo stile è efficace, poetico e brillante nella prima parte (cc. 1–2), con scene di ampio respiro che uniscono alla ricchezza della fantasia la purezza di espressioni rese vive dalla variazione di vocabo‐lario. L’invito «udite» (1,2), «raccontate» (1,3), «svegliatevi, piangete e urlate» (1,5), rivolto agli an‐ziani, ai contadini, ai sacerdoti privati del materiale per il sacrificio (1,9), è modulato dall’accorata partecipazione del profeta attraverso quel «mio» paese e «mia» vite (1,7) e con la tenera immagi‐ne di Gerusalemme in lutto per la perdita dell’amato (1,8). Il contrasto tra la durezza di cuore del popolo e la nitida comprensione del profeta, lo scambio delle forme verbali dall’imperativo al per‐fetto (1,4.6.9.12) e delle persone dalla seconda (2,19; 3,11; 4,11) alla più frequente prima e terza, l’uso del parallelismo e delle metafore, le equilibrate ripetizioni, il passaggio dalla descrizione reali‐stica della catastrofe (1,4) a un’interpretazione poetica dell’invasione (1,6), all’accentuazione del male attraverso la potenza evocativa della «vigna» e del «fico» desolati e troncati (cf. Is 5,1‐7; Os 10,1; Mic 4,4; Ger 2,21; 5,10; 6,9; 12,10; Ez 15,1‐8; 17,3‐10; 19,10‐14), elevano la poesia di Gioele talvolta a lirismo. La seconda parte (cc. 3–4) ha uno stile più semplice, capace tuttavia di evocare scene grandiose (4,1‐2) e immagini limpide e familiari (4,13.18).

3.1.2. Problemi critici emergenti

Si discute sull’unità d’autore, la datazione, l’uso della Scrittura e l’inizio di un linguaggio apocalitti‐co.

Autenticità Sull’autore le opinioni dei critici si possono ridurre sostanzialmente a due. Chi accentua la diversità della prima parte, concentrata sul presente, dalla seconda proiettata nel futuro, attribuisce l’opera a due autori diversi e parla di un Primo e Secondo Gioele.26 Questa opinione non spiega tuttavia la funzione del «giorno del Signore» (1,15; 2,1b‐2a.11b), che costituisce un chiaro legame con il c. 3. La maggior parte degli esegeti sostiene invece l’unità d’autore.27 O. Eissfeldt, ad esempio, non tro‐va impossibile che uno stesso profeta abbia parlato del flagello delle cavallette e in un secondo momento del giorno del Signore. Infatti «la piaga delle cavallette e la minaccia dell’imminente giorno di YHWH non si escludono necessariamente a vicenda, anzi è del tutto possibile interpretare tale calamità come premonitrice o prima fase del giorno di YHWH».28 J. Bourke29 rileva ulteriormen‐te la profonda unità organica delle due parti grazie al tema del giorno del Signore, descritto nella sua prossimità e grandezza, con l’immagine di un oscuramento del sole, della luna e delle stelle. L’eliminazione dai cc. 1–2 dei riferimenti al giorno del Signore risulterebbe artificiale: ambedue le parti presentano un’identica articolazione del discorso, riguardante la distruzione dell’oppressore (2,20 e 4,2.16b), il ritorno di Giuda alla gloria (2,21 e 4,18‐20) e il riconoscimento di una presenza salvifica di Dio in mezzo al popolo (2,27 e 4,17). H.W. Wolff rileva una simmetria tra lamentazioni (1,4‐20) e risposta divina (2,21‐27), previsione della catastrofe (2,1‐11) e possibilità del cambiamento (4,1‐3.9‐17), invito alla conversione (2,12‐

25 Significa «YHWH giudica», identica alla «valle della decizione» (4,14) 26 Così Wellhausen, Nowack, Marti, Sellin, Robinson, Weiser (cf. EISSFELDT, Introduzione all’AT, III, 160). 27 La difendono con argomenti complementari Dennefeld (1926), Theis (1937), Bentzen (1940), Ka‐pelrud (1948),

Pautrel (1949), Steinmann (1954), Chary (1955), Rinaldi (1959), Delcor (1961), Keller (1965), Sellin‐Fohrer (1965), Wei‐ser (1966), Wolff (1969), Rudolph (1971), Alonso Schökel (1984), Testa (1985), Boggio (1991).

28 O. EISSFELDT, Introduzione all’AT, III, 161. 29 J. BOURKE, Le jour de Jahvè dans Joël, in RB 66 (1959) 5‐31.191‐212. Cf. in G. BOGGIO, Gioele..., 97ss, la corrispon‐

denza di elementi letterari e tematici.


17) e promessa dello Spirito (3,l‐5).30 Una forte dipendenza dai profeti anteriori in ambedue le par‐ti costituisce inoltre un argomento per l’unità di stile e rivela un organico sviluppo di pensiero tra reale invasione di cavallette – susseguente penitenza e preghiera esaudita – riconoscimento di una presenza salvifica del Signore in mezzo al popolo – sviluppo apocalittico del giorno del Signore.31 Tempo di composizione Dagli argomenti interni è certa una datazione postesilica: sono presupposti infatti l’esilio e la di‐spersione (4,1‐2), un influsso presente o vicino dei Greci (4,6: «i figli di Iavan»), un tempo in cui se il re fosse esistito sarebbe stato nominato per convocare l’assemblea (1,11.14; 2,16; cf. 1Re 8,1; 2Re 10,20). Sono a favore di una datazione tra il V e IV secolo la visione di una comunità sicura nel‐le sue mura (2,7‐9), guidata da anziani e sacerdoti (1,2.13; 2,17), l’uso di aramaismi, il fatto di per‐cepire come drammatica la cessazione del sacrificio quotidiano (1,9; 2,14), i digiuni regolari od oc‐casionali (Zc 7,1‐3; Gio 3,5‐7; Esd 8,21; Ne 9,1; Est 4,3), il passaggio dai tradizionali nemici, Assiria e Babilonia, al nemico escatologico, misteriosamente definito «quello che viene da settentrione» (2,20). Riferimenti biblici Il breve scritto contiene una trentina di citazioni o riferimenti con prevalenza di Ezechiele (cf. Ez 29,9 e Gl 4,19; Ez 30,2 e Gl 1,15; Ez 32,7 e Gl 2,10; 4,15; Ez 36,3.36 e Gl 3,1; Ez 36,5.35 e Gl 2,3; Ez 47,1 e Gl 4,18), di Isaia (cf. Is 2,4 e Gl 4,10; Is 13,6 e Gl 1,15; Is 13,10.13 e Gl 2,10; 4,15; Is 37,32 e Gl 3,5; Is 45,5 e Gl 2,27) e poi di Amos, Michea, Geremia, Naum, Sofonia, Malachia e Giona. Frequen‐te è il contatto con i Salmi e in particolare con il Salmo 65, un ringraziamento dopo l’annata di piogge e abbondanti raccolti che, con il ritorno della fertilità, manifestano la giustizia divina (Sal 65,6; Gl 2,23). Simile è il linguaggio poetico di una campagna in fiore, di pascoli della steppa bene‐detti da Dio (Sal 65,13 e Gl 2,19.20.22; Sal 65,11 e Gl 2,14), giubilanti perché rivestiti di greggi e di biade:32 ne risulta un quadro grandioso ed efficace. Iniziale linguaggio apocalittico Un primo elemento apocalittico è dato dallo sviluppo del «giorno del Signore». Una catastrofe «neutra», improvvisa e incomprensibile (1,2‐12), è interpretata in conformità a un linguaggio pro‐fetico come segno di una pena meritata, annullabile attraverso una sincera conversione (1,13–2,17) che la cambia in evento positivo apportatore di beni materiali e di felicità (2,18‐27). Šadday, l’Onnipotente, apportatore di sterminio (1,15) trasformatosi in «benigno e misericordioso, longa‐nime o indulgente» (2,13), cambia il suo giorno grande e terribile (2,11) in giorno di salvezza per chi lo invoca (3,5), mentre il suo esercito inviato contro il popolo (2,3‐9) difende ora Israele distrug‐gendo le nazioni (4,4‐8) e trasforma il caos primitivo (2,10) in un rinnovato Eden (4,18.20). Il futuro conoscerà un Dio difensore del suo popolo in una guerra santa (4,9) contro le nazioni che saranno giudicate e respinte (4,1‐14): egli si mostra capace di rendere Gerusalemme un fertile giardino, in contrasto con il desolato Egitto (4,19). I toni risentono dell’escatologia profetica, ma l’universalità del giudizio e la descrizione della felicità in termini paradisiaci lasciano intravedere il passaggio all’apocalittica. Questa è comunque già presente nelle immagini della «mietitura» e della «ven‐demmia» (cf. Ap 14,14‐20), nel coinvolgimento del creato mediante terremoti e oscuramento di astri (2,10; 4,15). Questo linguaggio pone l’uomo nell’alternativa di accogliere o respingere la sal‐vezza. La mancanza di una casistica di peccati (vedi invece Am 2,6‐9) concentra l’attenzione sulla conver‐sione (2,11), manifestata attraverso gesti esterni (digiuno, penitenza, supplica, sacrifici) e rivelatrice di un vivo senso comunitario che fa sentire di tutti il disastro di ognuno. Traspare pur in mezzo a

30 H.W. WOLFF, Dodekapropheton 2, 5‐6. 31 G. RINALDI, I profeti minori, II, 128‐129. 32 Cf. G. RINALDI, Gioele e il Salmo 65, in BeO 10 (1968) 113‐122, che ritiene Gioele una meditazione sul Salmo.


lamenti e costernazioni una fiducia in Dio, capace di esaudire la preghiera specialmente quella li‐turgica. Il mondo è diviso in buoni, ossia Israele, il popolo che ha YHWH come proprio Dio (1,13‐14; 2,13‐14.17.23.26‐27), e in cattivi, le nazioni condannate per l’ostilità a Israele (2,17.19), per la divisione della terra (4,2‐3), per oltraggi, furti, ingiurie e oppressioni (4,5‐6). Traspare un vivo senso della provvidenza di Dio sul mondo, cui è concesso di sottrarsi al giudizio mediante il pentimento, come avviene per Israele. La conversione prepara alla salvezza, che a un primo livello consiste in grano, vino nuovo, olio e sa‐zietà (2,19), poi nello Spirito effuso indistintamente su tutti (3,1‐5), annunciato come promessa che trova compimento nel giorno di Pentecoste (At 2,16‐21).

Bibliografia scelta su Gioele

KELLER C.A., Joël (CAT XI), Paris 1965, 99‐155. RINALDI G., Gioele, in I profeti minori, vol. 2, Marietti, Torino‐Roma 1960, 123‐166. BERNINI G., Sofonia, Gioele, Abdia, Giona (NVB 31), Paoline, Roma 1972, 89‐196. PRICE W.K., The Prophet Joel and the Day of the Lord, Chicago 1976. ALLEN L.C., The Books of Joel, Obadiah, Jonah and Micah, London 1978. HUBBARD D.A., Joel and Amos: An Introduction and Commentary (TOTC), Leicester 1989. ROMEROWSKI S., Les livres de Joël et d’Abdias (CEB 9), Vaux sur‐Seine 1989. BOGGIO G., Gioele, Baruc, Abdia, Aggeo, Zaccaria, Malachia. Gli ultimi profeti (LoB 1.26), Queriniana, Brescia 1991, 93‐

106. PAZDAN M.M., I libri di Gioele, Abdia, Aggeo, Zaccaria e Malachia (BT 17), Queriniana, Brescia 1996. LIMBURG J., I dodici profeti. Parte prima: Osea, Gioele, Amos, Giona, Abdia, Michea, Claudiana, Torino 2007, 83‐113. LUCCI L., Gioele (Nuova versione della Bibbia dai testi antichi 14.1), San Paolo, Cinisello Balsamo 2011.

3.2. Testi apocalittici inseriti tra i profeti

L’identificazione nei testi profetici di singoli versetti che si possono qualificare come apocalittici è problematica, poiché, in mancanza di un contesto storico preciso, rischiamo di collocare un passo poco chiaro in un periodo poco conosciuto. Si può considerare apocalittico Is 66,24: «Vedranno i cadaveri degli uomini che si sono ribellati a me; poiché il loro verme non morirà, il loro fuoco non si spegnerà e saranno un abominio per tut‐ti».33 La prospettiva universale della visione che si presentava al pellegrino nella valle di Ben Hin‐non o Geenna (cf. Ger 7,32‐33), l’insistenza compiacente sulla punizione degli apostati (cf. 66,4.15‐16), finiti di morte violenta e lasciati insepolti, quale macabro spettacolo, il contrasto con l’«universalismo cultuale» (P. Volz) del versetto precedente, la perpetuazione di tale spettacolo in quanto il verme che corrode i cadaveri non muore, mentre il fuoco brucia senza consumare, confe‐riscono una dimensione nuova, «apocalittica» appunto, rispetto a descrizioni più contenute (cf. Is 48,22; 57,20‐21). Altre inserzioni apocalittiche sono quelle di Sof 3,8, per il giudizio sulle nazioni quale conseguenza della «collera e ira ardente» che «consuma» col «fuoco» «tutta la terra», e Ml 3,1‐5, per il giudizio tra buoni e cattivi, espresso mediante la simbologia del fuoco e come testo decisivo per la forma‐zione della figura del precursore del giorno escatologico (cf. Mc 9,11‐13 par.). Brani più ampi di possibile interpretazione apocalittica sono gran parte di Is 65–66 che, distinguendo tra un vero e un falso Israele, riserva ai giusti cieli nuovi e terra nuova, la pace e la prosperità dei primordi e «una longevità simile a quella dei patriarchi antidiluviani (Is 65,20). Gli stessi temi ritornano con una certa incoerenza nel c. 66».34

33 Questo versetto non contiene l’eternità di pena dei dannati, quale assumerà nella citazione neotestamentaria (cf.

Mc 9,47‐48): insiste sulla severità della punizione dei colpevoli e sull’orrore suscitato dalla punizione (cfr. A. PENNA, Isaia, 630). Per l’opinione contraria cf. C. WESTERMANN, Isaia, cc. 40‐66, 507‐509.

34 J.L. MCKENZIE, Teologia dell’Antico Testamento, Queriniana, Brescia 1978, 234.


Quattro sono pertanto i brani sicuramente apocalittici databili tra il V‐IV e il II secolo, più precisa‐mente tra la conquista di Alessandro Magno e le guerre di Antioco IV Epifane, senza la possibilità di un’ulteriore determinazione cronologica sicura, anche se più probabile appare, per motivi interni, una successione di Is 34–35; 63,1‐6; 24–27; Ez 38–39.

3.2.1. La piccola Apocalisse di Isaia (Is 34–35)

In un dittico antitetico è presentato il Signore che annienta gli eserciti nemici, soprattutto quelli di Edom, riducendo a deserto i loro territori (c. 34), mentre Gerusalemme è ripiena di tale benedizio‐ne da riacquistare la gloria del passato (35,1‐7); la finale (35,8‐10) con il tema della riunione dei di‐spersi in Sion (cf. Is 11,11‐16; 27,12‐13; 66,20) e con la menzione della via sacra percorsa dai pelle‐grini santi, presupponendo già unite le due parti di Isaia e alludendo forse alle rivalità tra Tolomei e Seleucidi, è un’aggiunta databile anche al III secolo. Il clima dei due capitoli è quello della fine, pre‐sentata come un giudizio (vv. 1‐4) su popoli, nazioni, terra, mondo con il coinvolgimento di uomini, animali, piante, prodotti della terra, quale effetto dell’ira del Signore che tutto ha votato allo ster‐minio:35 cadaveri insepolti manderanno insopportabile fetore, mentre monti e colline gronderanno sangue. La devastazione raggiunge i cieli che saranno arrotolati (cf. Ap 6,14) e lasceranno cadere gli astri (cf. Mt 24,29; 2Pt 3,7‐13; Ap 6,13). Nell’ulteriore sequenza (34,5‐10) l’azione punitiva di Dio («la spada del Signore», cf. 27,1; 31,8; Ger 46,10) si abbatte su Edom che si comportò indegnamente al tempo della caduta di Gerusalemme (Abd 11‐12; Lam 4,21; Sal 137,7; Ez 35,5). La totalità dello sterminio risulta sia dalla menzione delle parti specificatamente nominate nei sacrifici (sangue, grasso, viscere; cf. Lv 1,5‐13), sia dagli anima‐li più in uso, agnelli, capri. Nella capitale Bozra (cf. Gen 36,33; Am 1,12; 1Cr 1,44) «cadono bisonti e vitelli grassi, giovenchi e tori» (v. 7a) con allusione a varie categorie di persone. La «vendetta» o «retribuzione» si estende anche alla regione, in una descrizione dai toni accentuatamente apocalit‐tici, attraverso le immagini di una conflagrazione generale che trasforma l’acqua in pece e la terra in zolfo, con evidente riferimento a Sodoma e Gomorra (Gen 19,24; cf. Ap 14,10‐11). Il testo evi‐denzia l’aspetto duraturo della pena del fuoco, un inceneritore continuo (Tofet, cf. Is 30,33) antici‐patore della descrizione della Geenna (cf. Mt 5,22; 18,9; 23,33; Gc 3,6), e fa della località immonda un rifugio di animali selvatici. I termini già usati per indicare il tohû e bohû (v. 11b), caos primitivo (Gen 1,2; cf. Ger 4,23), si precisano con l’assenza di nobili, re e principi (cf. Ap 18,3), con l’insorgere di vegetazioni selvagge e il pullulare di sciacalli, iene, serpenti e perfino di lîlît (v. 14), un demone femminile, una specie di spettro vagante tra le rovine, come interpretò la fantasia ebraica posterio‐re. Inatteso risuona l’invito alla gioia rivolto a un paesaggio in fiore che avrà la magnificenza del Car‐melo, vedrà la gloria del Signore (35,1‐2), diverrà un giardino ricco di acqua e di utile vegetazione (v. 7), e il festoso annuncio: «Coraggio! Non temete... ecco il vostro Dio viene a salvarvi» (v. 4). Al fiorire della natura fa riscontro il fiorire della salute fisica con il ritorno della vista, dell’udito, dell’agilità delle membra e del linguaggio: con queste espressioni, rispondendo alla delegazione del Battista, Gesù sottolinea che i suoi miracoli sono il compimento della parola profetica (cf. Mt 11,5 par.). Le due parti del dittico, sviluppando dialetticamente lo stesso tema, costituiscono un’unità sostan‐ziale di composizione, richiamandosi in più parti: tema della vendetta e retribuzione (34,8; 35,4), trasformazione radicale del paesaggio da giardino a deserto (34,9‐10) e da deserto a giardino (35,6b‐7a), paesaggio lugubre abitato solo da animali selvaggi compiacentemente nominati, oppo‐sto del paradiso (34,11‐15; cf. 11,6‐7), e luoghi lussureggianti abbandonati da sciacalli (35,7b), gra‐dazioni di immagini in un movimento analogo, ma inverso. È evidente il carattere antologico del dittico, con preponderanza di citazioni dal Secondo Isaia. Se numerosi autori fanno risalire i due capitoli al V sec. (O. Procksch, R.R. Pfeiffer, J. Morgenstem), i

35 Heḥerîmem (v. 2) evidenzia l’aspetto sacro dello sterminio come eliminazione di ogni impurità.


riferimenti letterari tardivi, l’antagonismo viscerale contro Edom, sulla via di diventare un simbolo, ci portano alla fine del periodo persiano.36 Battaglie sanguinose, riduzione a deserto del paese, col‐lezione di bestie demoniache, realistico giudizio sulle nazioni, allusione al «libro del Signore» (34,16), come pure la fioritura del deserto e la pace paradisiaca, segnano un’evoluzione rispetto al‐lo scritto di Gioele, con un linguaggio più marcatamente apocalittico.

3.2.2. Il Signore come pigiatore d’uva (Is 63,1‐6)

Il brano riflette il dialogo, unico nell’AT, tra la sentinella e un uomo dalle vesti splendide, intrise di sangue durante una vittoriosa battaglia. I versetti, con notevoli problemi testuali, contestuali e let‐terari, costituiscono una descrizione del giudizio che, iniziando da Edom, divenuto simbolo del ne‐mico eterno di Israele (cf. Is 34,1‐6), raggiunge i popoli (cf. Gl 4,13) con un realismo drammatico e impressionante (cf. Ap 14,19; 19,15). I termini pigiare (vv. 2.3bis), calpestare (vv. 3.6), stritolare (v. 6), sdegno, ira, sangue (vv. 3.5.6), sprizzare, macchiare (v. 3), da solo (vv. 3.5), insieme con il ripe‐tersi di ritmi binari e ternari, arditezza di immagini e drammaticità nel colloquio conferiscono al brano bellezza poetica. Is 63,1‐6 presenta un carattere apocalittico più accentuato rispetto a Is 34–35 per il quadro mag‐giormente universale, in cui emerge la «solitudine» del Signore nel combattimento, un tema che «annuncia la teologia apocalittica... (riproducendo) il mito del combattimento primordiale. Quest’ultimo tratto richiede una data di composizione assai bassa: siamo verso la fine del periodo persiano, oppure in epoca greca».37

3.2.3. La grande Apocalisse di Isaia (Is 24–27)

I quattro capitoli presentano varietà di temi e di forme espressive e sono tuttora oggetto di contra‐stanti valutazioni sia nell’insieme che per i singoli versetti.

Il contenuto Una prima sezione indugia nel descrivere una catastrofe che risparmia solo un resto (24,1‐6). L’orizzonte si restringe poi alla «città del caos», dove il ricordo del vino, della musica, dell’allegria, dei mercati e delle assemblee sacre fa maggiormente risaltare l’attuale desolazione (24,7‐12). La scena è appena illuminata dai pochi fedeli al Signore, dispersi all’estremità del mondo (24,13‐16a); nuovamente si parla di lamenti, terrori, diluvio e terremoto, che scuotono e fanno vacillare quella terra (24,16b‐20) coinvolta – lo si sottolinea ancora (24,20b) – nel peccato dell’uomo. Alla fine, tut‐ti gli idoli e i falsi dèi, simbolizzati da astri, costellazioni e forze meteorologiche («esercito di las‐sù»), saranno annientati (24,21‐23), mentre lo splendore che emana («gloria») dal Signore regnan‐te in Sion sarà tale che «arrossirà la luna, impallidirà il sole» (v. 23). A partire dal c. 25 emergono toni positivi. L’inno dei salvati (25,1‐5) esalta Dio per il piano meravi‐glioso preparato da tempo in loro favore, mentre il banchetto escatologico (25,6‐8) ne manifesta la liberalità. La «città forte» è abitata da un popolo giusto, fedele e fiducioso (26,1‐6) che formula ac‐centi di speranza (26,7‐13), perfino di risurrezione (26,14‐19); concludono la sezione una canzone d’amore al Signore‐guardiano che riversa sul popolo‐vigna (27,2‐5) le sue tenerezze («la irriga»), ne distrugge l’infedeltà e l’attira a sé, sviluppando positivamente il senso di Is 5,1‐7 e l’attesa riunione dei dispersi in Gerusalemme (27,12‐13). Riecheggiano, distanziati, i toni negativi del giudizio sulla città del caos (25,10), della sventura (25,17‐23), della punizione inflitta al Leviatan (27,1), della de‐solazione (27,10). La problematica dei capitoli

L’indagine su questi capitoli ha evidenziato tre problemi.38

36 J. VERMEYLEN, Du prophète Isaïe à l’apocalyptique (EtB), I, Gabalda, Paris 1977, 445. 37 VERMEYLEN, Du Prophète Isaïe, I, 490s. 38 R.I. GOGGINS, The Problem of Isaiah 24‐27, in ExpTim 90 (1978‐79) 328‐333.


L’unità. Nessuno pone in dubbio la varietà di generi letterari e di temi, come pure quasi tutti am‐mettono una certa unità, sebbene si disputi molto se unirli con ciò che precede o con ciò che se‐gue.39 Elementi unificanti sono la ricorrenza del tema della città (24,10‐12; 25,1‐5; 26,1‐6), la men‐zione della morte (24,17‐23; 25,6‐8; 26,11‐19) e il frequente schema minaccia‐guerra, vittoria‐pace, l’argomento del giudizio contro i cattivi e l’inaugurazione del regno da parte di un resto puri‐ficato e rinnovato. Un po’ forzatamente si è voluto trovare una struttura perfetta del classico schema ABA’, con quattro sottotemi, chiasticamente disposti (abb’a’), per cui il giudizio apocalittico (24,1‐23) si sviluppa nelle sue conseguenze (25,1–26,6) ed è armonicamente riproposto con ele‐menti liturgici (26,7‐27,13).40 Innegabile è invece la sensibilità artistica della composizione redazio‐nale di brani risalenti a epoche diverse.41 Resta incerto se prevalga il rapporto con il Primo Isaia per l’affinità di tematiche (vigna 5,1‐7 e 27,2‐5; resto 1,9; 4,3; 6,13 e 24,12; gli oracoli 13,1‐2 e 24,l‐13.18b‐20), oppure il collegamento con il Secondo Isaia per i toni positivi e di speranza.

La data. La negazione dell’autenticità isaiana42 è ormai da tempo «opinione comune», anche se fondata su motivazioni diverse. A ragioni di ordine teologico (W. Rudolph), come l’estraneità di Isaia a un giudizio universale, l’assenza di un discorso sugli angeli che presiedono ai popoli (24,21) e la risurrezione, altri (A. Penna) aggiungono motivi di ordine storico o letterario. H. Ringgren, pur non precisando una data, ritiene piuttosto antico Is 24–27, considerata «una coerente composizio‐ne» di più sezioni: dopo un’articolata analisi, in cui tra l’altro rifiuta la lettura in 25,10 m’ôyēv (ne‐mico), anziché mô’āv (Moab), egli ritiene enigmatica l’identificazione della città del caos, potendosi solo dire che la caduta di una grande città ha evocato nel profeta la percezione di una catastrofe imminente e universale.43 Per l’identificazione della «città del caos» (24,10) si fanno nomi che ci riportano dal VII al II secolo: Ninive (612), Babilonia distrutta più volte (539, 526, 514, 482, 331), Cartagine (145), Samaria (110).44

La natura apocalittica. Numerosi esegeti riconoscono la natura apocalittica di questi capitoli, poi‐ché il contenuto escatologico è espresso in un linguaggio con chiare note del genere apocalittico. Si parla45 di «primitiva apocalittica» (P.D. Hanson), di «protoapocalittica» (W.R. Millar), di elementi apocalittici «contenutistici» (G.N. Habets) attorno a un tema unificante, l’attesa cioè da parte della comunità di un futuro concepito come nuovo inizio, o di elementi «formali» apocalittici (McKen‐zie)46 quale la dimensione cosmica della catastrofe (terrestre, celeste, sociale) con la vittoria del Si‐gnore, mitologicamente espressa. Si può aggiungere la figura di Dio guerriero che punisce «l’esercito di lassù» (24,21; cf. Dn 8,10; Enoc 90,24‐25; 18,14‐16), l’affermazione della risurrezione (26,19) e soprattutto l’orientamento che questi stessi temi imprimono al resto del materiale, creando un clima diverso e influenzando anche la sezione precedente (Is 12–23). Temi teologici La composizione è il riflesso di un cammino di fede,47 rivolto a un futuro intervento di Dio, capace di ristabilire la giustizia, come al tempo del racconto di Noè (cf. Gen 6,12‐13 e Is 24,5.17‐20) del quale conserva un finale positivo (cf. Gen 8,21‐22 e Is 27,3‐4). «La simbiosi della terra con i suoi

39 Cf. O.N.M. HABETS, Die Grosse Jesaja‐Apokalypse (Jes 24‐27), Bonn 1974. 40 E. TESTA, Il Profetismo, 836. 41 R. LACK, La symbolique du Livre d’Isaïe. Essai sur l’image littéraire comme élément de structuration (AnBib 59),

Roma 1973, 68s. 42 L’autenticità fu difesa da Lagrange, Beek e un’origine preesilica da Anderson e Ginsberg. 43 RINGGREN H., Some Observations on Style and Structure in the Isaiah Apo‐calypse, in ASTI 9 (1974) 107ss. 44 Cf. O. LUDWIG, Die Stadt in der Jesaja‐Apokalypse, Bonn 1961, il quale pensa alla distruzione dell’Akra nel 142. Per

una documentazione bibliografica, cf. VERMEYLEN, Du Prophète Isaïe, I, 379‐381. 45 Cf. GOGGINS, The Problem, 332s; B. MARCONCINI, La grande Apocalisse (Is 24‐27), in PSV 28 (1993/2) 65‐70. 46 J.L. MCKENZIE, Teologia dell’Antico Testamento, Queriniana, Brescia 1978, 235s. 47 M.L. HENRY, Glaubenskrise und Glaubensbewàhrung in den Dictungen der Jesajaapokalypse (BWANT 86), Stuttgart

1967.


abitanti si concretizza nel simbolismo della vigna, sempre presente nei cc. 24–27... Felicità e disgra‐zie del vino simbolizzano la sorte delle città antagoniste».48 Prima che giunga l’atteso intervento liberante, si deve superare la prova e far leva sulla speranza, come suggerisce l’immagine del parto (26,17), simbolo per eccellenza di avvenimenti lenti e dolo‐rosi. Quanto l’uomo non ha saputo fare, cioè donare salvezza alla terra, sarà realizzato dalla rugia‐da divina (26,19): la terra, resa sterile dal peccato, diventa feconda. Gli elementi dello schema giu‐dizio‐sofferenza‐salvezza costituiscono le tappe di ogni cammino spirituale. L’azione positiva di Dio supera il classico raduno dei dispersi (27,12‐13), per diventare una vera ri‐surrezione dei morti (26,19). Nella redazione definitiva l’intera sezione (26,14‐19) presenta un pro‐gresso di contenuto: si parte da una distruzione dei nemici (v. 14), si constata l’aumento prodigioso del popolo (v. 15), si richiamano gli enormi sforzi che portano a un «resto» salvato (vv. 16‐19), si delinea la risurrezione, che supera qui il puro senso morale: ne sono indizio il vocabolario simile a quello di Daniele (12,1‐3) e la «rugiada», figura della potenza vitale divina. Collegato con Is 26,19, ma da interpretare in una prospettiva più ampia e positiva, è il banchetto escatologico di Is 25,6‐8. Per la sua grandiosità e destinazione universale, per l’eliminazione del do‐lore e della morte si avvicina a testi neotestamentari (cf. Mt 22,2; 1Cor 15,54; Ap 21,4). La sontuo‐sità e squisitezza della cornice dei vini sottolineano simbolicamente le supreme gioie del regno di‐vino e includono la cessazione di ogni dolore umano, la distruzione del nemico più funesto dell’umanità, la morte e il possesso dell’immortalità. Una concezione escatologica così grandiosa ed esaltante raramente si riscontra con tale precisione negli altri scritti dell’AT.

3.2.4. Gog e Magog: Ez 38–39

Il redattore finale di Ezechiele, per rendere più credibile la speranza della restaurazione (cc. 34–37; 40–48), ha introdotto due capitoli (38,1–39,20), dove le forze del male sono riassunte e guidate da un individuo, Gog, re di Magog, che assale Israele ritornato in patria dall’esilio. L’urto tra le potenze del male, i cui eserciti vengono dalle quattro parti del mondo (38,5‐6), e il regno di Dio avverrà «sul finire dei giorni» (38,16b). L’attesa drammatica del coalizzarsi di un immenso esercito contro un popolo piccolo e indifeso (38,7‐9) cede il posto alla disfatta finale. Infatti la presenza del Signore mette in movimento le forze della natura, di cui tempesta e terremo‐to sono i segni più frequenti (38,10‐20), e conduce alla sconfitta dell’invasore che troverà la morte proprio nel paese che voleva distruggere (39,2‐6); una macabra e ironica visione finale, in cui ani‐mali di ogni specie sono invitati al banchetto di carni umane (39,15‐20), dà le dimensioni dell’impotenza dell’assalto delle nazioni. I due capitoli unitari e complementari, non anteriori al IV sec. (cf. ad esempio il tardivo 38,17), con‐tengono diversi elementi apocalittici, quali il simbolismo nell’uso di nomi immaginari (se Gog fosse da collegarsi a Gige di Lidia sarebbe un ricordo lontano e sbiadito), la colorazione mitologica degli invasori (cf. 38,6), la dimensione cosmica della guerra e delle distruzioni con l’evocazione di feno‐meni naturali, la morte ignominiosa in terra santa del persecutore: tra tutti emerge il combatti‐mento finale, l’apparizione di Dio come guerriero e giudice che si stabilirà definitivamente tra i suoi eletti.

48 LACK, La symbolique, 67s.

IL PROFETA DANIELE E IL SUO LIBRO *

L’autore, che vive al tempo dei Maccabei, intende incoraggiare i compatrioti durante la persecuzio‐ne di Antioco IV, morto nel 164. A questo scopo si serve di un’apparente biografia riguardante il giudeo Daniele deportato in Babilonia da Nabucodonosor nel 605 ed educato alla corte assieme ai tre amici Anania, Misaele e Azaria (c. 1). Distintosi per sapienza, Daniele è capace di interpretare i sogni (c. 2), di prevedere la temporanea pazzia del re, che una lettera di Nabucodonosor stesso a tutti i sudditi rende noto (c. 4), e di leggere una misteriosa scrittura sulla parete al tempo del figlio Baldassar (c. 5). Non mancano prove sia per gli amici, gettati in una fornace ardente per il loro rifiu‐to di adorare una statua (c. 3), sia per Daniele, rinchiuso nella fossa dei leoni per avere pregato Dio contro il decreto del re (c. 6): la protezione divina sottrae tutti a sicura morte. Il capitolo nomina altri due re, Dario il Medo (6,1) e Ciro il Persiano (6,29): questi ricompare nell’ultima visione (10,1), Dario invece nella visione delle settanta settimane (9,1) e Baldassar nelle prime due (7,1; 8,1). Oggetto delle quattro visioni, narrate in prima persona, sono le bestie e il Figlio dell’uomo (c. 7), il montone e il capro (c. 8), le settanta settimane (c. 9) e un veloce sguardo della storia da Ciro fino ai tempi dell’autore, dettagliatamente descritti (cc. 10–12). I capitoli finali in greco, deuterocanonici, presentano in tre racconti popolari un Daniele amministratore della giustizia (c. 13: Daniele e Su‐sanna) e vincitore degli idoli con la forza derivante dall’osservanza della legge (c. 14: Daniele e i sa‐cerdoti di Bel, Daniele e il drago). La critica moderna, che considera questo libro non più come il quarto profeta maggiore, secondo la collocazione dei LXX (il TM invece lo pone tra gli «Scritti», fra Ester e Esdra, lasciando intuire che la raccolta dei profeti era già completa), ma come apocalittico, è alle prese con quattro problemi. L’enigma ancora non risolto della presenza di una doppia lingua, l’ebraico (l,1–2,4a; 8–12) e l’aramaico (2,4b–7,28), conduce a un interrogativo più ampio concernente l’unità e la struttura let‐teraria. Scene e visioni del libro, infatti, sembrano mal collegate da brevi inserzioni redazionali (2,49; 3,97; 4,33‐34; 5,30–6,1; 6,29; 7,1‐28), mentre racconti simili danno l’impressione di doppio‐ni. Un complicato processo di formazione del libro traspare nella distinzione tra sogni (2,1.3.4.5.6. 7.8.9.26.28.45; 4,2.4.5.15; 7,1) e visioni (2,19; 4,7; 7,2.7.13.15; 8,1.2.15; 9,21; 10,1.7; 12,5); nel di‐verso ruolo di Daniele, ora interprete (2,27ss; 4,16ss), ora destinatario degli interventi divini me‐diati da un angelo (cc. 7–12); nel passaggio dalla terza alla prima persona (7,2.28; 9,2; 10,2; 12,5.8 con la sola eccezione di 10,1); nell’assenza di Daniele al c. 3; nel diverso comportamento di Nabu‐codonosor (cf. Dn 2,46‐49; 4,31‐34 e 3,1‐23) e in aggiunte greche (3,24‐45.52‐90; 13‐14), ebraiche (9,4b‐19) e aramaiche (2,43; 7,1.11a.28). Un particolare aspetto del problema sta nella difficoltà di definire la natura del c. 7, che fa da cer‐niera tra i cc. 1–6 e i cc. 8–12. In favore di un collegamento con i precedenti stanno, infatti, la stes‐sa lingua aramaica, la concezione della storia parallela a quella del c. 2, l’accostamento di sogno e visione; sono invece a favore di una unione con i cc. 8–12 la persona di Daniele quale beneficiario delle visioni, la prevalenza di queste ultime sui sogni, l’uso della prima persona, l’attesa di un impe‐ro universale ed eterno (cf. 7,27 con 8,25; 9,27c; 11,45c). Un terzo problema consiste nella ricerca del Sitz im Leben, che nei racconti (1,1‐2,4a; 3–6) sembra essere il tempo della diaspora, con la difficoltà di osservare la legge (1,8‐16) e di praticare il culto (3,1‐23): Daniele è un saggio, ripieno dello spirito di Dio (5,11) e della sapienza che deriva da un patrimonio comune con i pagani. Le visioni (cc. 7–12), al contrario, collocano un Daniele intento a meditare sui profeti (Dn 9,2.24‐27 e Ger 25,11‐12; 29,10) nel periodo della persecuzione. La discussione sulle dipendenze dell’autore (mondo iraniano, ellenistico, antiche concezioni semiti‐che?) ha un qualche interesse per l’origine della figura del Figlio dell’uomo. Nella complessità del

* B. MARCONCINI, Daniele, in MARCONCINI, Profeti e apocalittici, 253‐269.

242 Il profeta Daniele e il suo libro

problema critico di Daniele, che ha dato luogo a svariatissime soluzioni, cerchiamo di precisare quanto è oggi sicuro, probabile o superato.

1. IL LIBRO A LIVELLO DELLA REDAZIONE

Certa è la redazione del libro nel II secolo, anche se l’autore si è servito di racconti che si possono far risalire fino al IV secolo, verso i quali si è mostrato rispettoso. L’ambiente di formazione è pro‐babilmente quello dei ḥăsîdîm (i pii). Daniele, che non è l’autore del libro, né il protagonista degli episodi che gli sono attribuiti (è uno pseudonimo), unifica le varie parti del libro a servizio dell’idea fondamentale di un Dio che dirige la storia verso il suo regno. Illustriamo per gradi questa conce‐zione. Il libro rivela una forte unità nella successione di introduzione (c. 1), narrazioni (cc. 2–7), visioni (cc. 8–12), narrazioni (cc. 13–14), presentando il frequente schema biblico ABA’. Determinante per ri‐conoscere questa struttura, che sostituisce quella tradizionale bipartita di racconti (cc. 1–6) e visio‐ni (cc. 8–12), è la funzione del c. 7, che si deve collegare ai precedenti.

1.1. La struttura concentrica dei cc. 2–7

Dopo l’introduzione (c. 1), questa parte manifesta una struttura concentrica, ove i cc. 2–7 si ri‐chiamano a vicenda,1 presentando la storia come orientata verso il regno di Dio (cc. 2 e 7), in atte‐sa del quale si richiede fedeltà alla legge (cc. 3 e 6), nella certezza che sui re pagani idolatri pende un severo giudizio divino (cc. 4 e 5). Aprono la sezione un sogno dei quattro regni (c. 2) e un rac‐conto edificante (c. 3), cui corrispondono alla fine in un ordine inverso un racconto edificante (c. 6) e un sogno dei quattro regni (c. 7): il dittico racchiude il giudizio divino condizionato (c. 4) e defini‐tivo (c. 5).

1.1.1. Il sogno dei quattro regni (Dn 2 e 7)

Il duplice sogno, nella cui cornice sono presentati i messaggi, turba ambedue i protagonisti, Nabu‐codonosor (2,1) e Daniele (7,15.28), dev’essere interpretato da un intermediario (2,30; 7,16), si ar‐ticola nella visione e nella sua interpretazione, intende fortificare i contemporanei e attribuisce al solo intervento divino la nascita del regno eterno (2,44; 7,14.18.27). Rispetto al c. 2, il c. 7 costitui‐sce uno sviluppo a motivo di un giudizio più severo sui re (7,11.26) per la loro superbia (7,8.19‐20), di uno stile più efficace e uno scenario cosmico (mare – terra – cielo). Al sogno (2,31‐35; 7,2‐14) corrisponde la sua interpretazione (2,37‐45; 7,17‐18.23‐27). Si succedo‐no due tappe, cioè lo sviluppo storico dei quattro regni (2,31‐33; 7,2‐8) e l’intervento celeste (2,34‐35; 7,9‐14), ove si contrappongono dinamismo e staticità, ma in senso inverso. Mentre infatti nel c. 2 i regni rappresentano qualcosa di statico e incrollabile (2,31‐33), come appunto un monumento gigantesco, e sono seguiti dalla violenza distruttrice dell’intervento celeste (2,34‐35), nel c. 7 inve‐ce all’oceano tumultuoso, sbattuto dagli uragani (7,2‐8), segue la scena serena dell’intronizzazione (7,9‐14). Ambedue le sequenze hanno come culmine narrativo il mondo dell’eternità (2,44; 7,14a.18.27), dell’immutabilità (2,44; 7,14), della libertà (2,35.44‐45; 7,26). All’interno di questo quadro generale, si rilevano cinque somiglianze ulteriori.2

– Una visione della storia in progressivo deterioramento. L’evidente peggioramento della storia espresso dai materiali (2,31‐33: oro, argento, bronzo, ferro, creta) e dalle parti del corpo (testa, petto/braccia, ventre/cosce, gambe, piedi) ha riscontro3 anche nella progressiva cattiveria e malignità (7,2‐8.17) del leone, dell’orso, del leopardo, che raggiungo‐

1 Cf. A. LENGLET, La structure littéraire de Daniel 2‐7, in Bib 53 (1972) 169‐190. 2 LENGLET, La structure, 172‐180. 3 «In Dn 7 l’idea di un declino progressivo è meno apparente; nondimeno crediamo che si avrebbe torto a conte‐

starlo. La decadenza progressiva è sottolineata non più nell’ordine della potenza militare come al c. 2, ma in quello del‐la crudeltà e dell’ostilità a Dio» (J. COPPENS, La vision daniélique du Fils d’homme, VT 19 [1969] 172).

Il profeta Daniele e il suo libro 243

no il vertice nella mostruosità indescrivibile della quarta bestia.

– Il primo regno e il suo re (2,31‐32a.37‐38; 7,4). È chiaramente espressa l’identificazione del primo re con Nabucodonosor: «Tu sei la testa d’oro» (2,32; cf. Ger 27,6‐7; 28,14). A una prima lettura sembra che non esista alcun rapporto con la prima bestia «simile a un leone con ali di aquila... (cui) furono tolte le ali» (7,4a). Se però interpretiamo il «togliere le ali» non come segno della decadenza babilonese, ma come un «diventare uomo»4 – senso del resto suggerito dal parallelismo con «fu fatta stare su due piedi come un uomo e le fu da‐to un cuore d’uomo» (7,4b) – l’identificazione con la testa d’oro del c. 2 è sicura attraverso il rac‐conto dell’umiliante assimilazione a una bestia (4,12‐13) e della conseguente riabilitazione a re (4,31). Nabucodonosor infatti è descritto come un re fornito di ogni potere (2,37‐38), di cui è priva‐to temporaneamente (4,13), poi guarito (4,31) e ristabilito nella sua dignità regale (7,4b).

– Il regno dei Medi e Persiani (2,32b.33a.39; 7,5‐6). Ambedue i testi danno poco risalto a questi regni intermedi, a differenza di quanto accadrà in se‐guito (8,3‐4.20; 9,1; 10,1.20‐11,2).

– Il regno greco e i suoi re, in particolare Antioco IV Epifane (2,33.40‐43; 7,7‐8.19‐25). Le numerose differenze, in primo piano la diversa accentuazione data nel c. 2 ai re greci (e poca ad Antioco) e nel c. 7 ad Antioco (e poca ai re greci), permettono di concludere che quest’ultimo capi‐tolo «respira chiaramente l’atmosfera del periodo maccabaico e antiellenista»,5 mentre il c. 2 ha avuto una esistenza, anche letteraria, precedente.

– L’avvento del regno celeste (2,34‐35.44‐45a; 7,9‐14.26‐27). I due simboli del regno di Dio, la pietra che dal cielo cade sulla terra e il Figlio dell’uomo che dalla terra sale al cielo, sono più complementari che in contrasto tra di loro. La pietra raffigura il regno nel suo aspetto iniziale «negativo», di sovrapposizione cioè alle realtà umane, mentre il Figlio dell’uomo lo esprime nel momento «positivo», escatologico, di realtà nuova realizzatasi sulla terra: si noti però che non è assente dall’immagine della pietra l’aspetto escatologico (2,35b.44), né man‐ca a quella del Figlio dell’uomo l’aspetto iniziale (7,11‐12.26). Più dirette concordanze sono invece rintracciabili nelle caratteristiche del regno: anonimo, diverso da ogni regno esistente, conferito da Dio «non per mano di uomo» (2,34.45) o per decreto di una sentenza divina (7,10.14) a un essere umano, di natura collettiva (2,44b; 7,18.27). «I cc. 2 e 7 sono stati redatti dall’autore sacro in una mutua interdipendenza. In modo sottile, ma innegabile, li ha composti come due “pendants”, strutturandoli parte in parallelo e parte in contrasto. Ora dipinge la situazione e gli avvenimenti in tal maniera che le due ante (del dittico) si completano a vicenda; ora, e talvolta anche all’interno di un contrasto che sta abbozzando, descrive le cose in maniera analoga».6

1.1.2. Gli “atti dei martiri” (Dn 3 e 6)

Questi racconti senza visioni delineano il ritratto del vero fedele secondo il genere proprio della let‐teratura aggadica. Il racconto dei tre fanciulli gettati in una fornace per aver rifiutato di adorare un idolo (c. 3) è riconducibile a Is 43,2b: «Se dovrai passare in mezzo al fuoco non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare» (cf. Sal 66,12). La prova di Daniele nella fossa dei leoni (c. 6) richia‐ma piuttosto Sal 57,5: «Io sono come in mezzo a leoni, che divorano gli uomini; i loro denti sono lance e frecce, la loro lingua spada affilata» (cf. Sal 91,13). I paralleli generalmente ammessi dagli esegeti si possono ricondurre a cinque. Al comando di ado‐rare un essere umano, decisamente disatteso dai Giudei (3,1‐7.12; 6,2‐12), e alla conseguente de‐

4 Cf. A. BENTZEN, Daniel (HAT 19), Tübingen 1952, 60; O. PLÖGER, Das Buch Daniel (KAT 18), Gütersloh 1965, 108:

«L’intero processo tende non a privare l’animale della sua forza, ma ad umanizzarlo». 5 LENGLET, La strutture, 175. 6 LENGLET, La strutture, 180.


nuncia di invidiosi che ricordano al re il decreto promulgato (3,9‐11; 6,13), avanzando l’accusa di insubordinazione (3,12; 6,14), segue l’esecuzione della sentenza (3,19‐23; 6,17‐18), dopo un ritar‐do che tiene sospesi gli animi (3,13‐18; 6,15): ingenue misure sono prese per assicurarsi l’effetto (3,19; 6,18). In seguito alla liberazione miracolosa il re si alza sollecito (3,91; 6,20) e riconosce che i condannati, «servi dell’Altissimo» (3,93), «servi del Dio vivente» (6,21), liberati da un angelo (3,49; 6,23), non hanno riportato danni (3,50.94; 6,24): il sovrano riconosce il Dio di Daniele come salva‐tore (3,95 e 6,28), rende pubblica questa convinzione in tutto il regno (3,96; 6,26‐28) e riabilita i condannati (3,97; 6,29). D’altra parte i due racconti mostrano anche differenze, più nella linea della complementarità che dell’opposizione. Daniele, ad esempio, è assente nel c. 3, dove i tre giovani amici svolgono il suo identico ruolo: si può supporre che la sua assenza è riconducibile al fatto che l’ordine riguardava «satrapi, prefetti, governatori, consiglieri, tesorieri, giudici, questori e tutte le autorità della provin‐cia» (3,2), tra i quali non sarebbe da annoverare Daniele. A un Nabucodonosor fremente di collera (3,13.19), furibondo contro le sue vittime (3,19b.22a.91) e conseguentemente, dopo la conversio‐ne, entusiasta adoratore del Signore, fa riscontro un Dario «addolorato e desideroso di salvare Da‐niele» (6,15), pieno di speranza sull’aiuto divino che invoca con il suo digiuno (6,17.19.20).

1.1.3. Il giudizio sui re (Dn 4–5)

L’umiliazione di Nabucodonosor riabilitato dalla conversione (3,98–4,34) e l’incidente durante il banchetto preparato da Baldassar esprimono il giudizio su un’intera dinastia, con una simmetria progressiva. Un segno dal cielo (4,1‐15; 5,5) impaurisce l’orgoglioso re, aiutato non dai saggi (4,4; 5,6‐8), ma da Daniele, nel quale è «lo spirito degli dèi santi» (4,5.6.15; 5,14) e la cui spiegazione si avvera (4,25‐33; 5,30–6,1). Uno stesso tema, il riconoscimento universale del Dio del cielo, datore dei regni (4,34; 5,22‐23), pervade i due capitoli.

1.2. L’unità di Dn 8–12

Nella prima visione (c. 8) Daniele a Susa, presso il fiume Ulai, vede un montone con due corna di‐seguali (di cui il più lungo è quello spuntato dopo), con le quali cozza verso occidente, mezzogiorno e settentrione, senza che alcuno possa resistergli.7 Appare quindi da occidente un capro che ha tra gli occhi un enorme corno, con il quale assale il montone, spezzandogli le due corna, calpestandolo e ingrandendosi enormemente. Il suo corno alla fine si spezza e al suo posto spuntano quattro cor‐na di inferiore potenza.8 L’interesse si sposta verso un piccolo corno: per la sua politica di aggres‐sione verso i Parti, l’Egitto e la Giudea, per la sua persecuzione religiosa violenta e per la pretesa di onori divini, alla fine sarà abbattuto. Il c. 9 è un’interpretazione (midrash) di un oracolo di Geremia (25,11‐12; 29,10) che poneva la fine dell’esilio dopo settanta anni o dieci cicli sabbatici. La spiegazione considera i settanta anni non nel senso di dieci periodi sabbatici (sette anni), ma in quello di periodi giubilali (quarantanove anni) o di settimane di anni, ponendo il termine dopo quattrocentonovanta anni, che raggiungono il II se‐colo9 (iniziando o dalla caduta di Ninive [612] o dal regno di Nabucodonosor).

7 Si tratta del regno medo‐persiano e delle ultime conquiste della Lidia, della Siria, della Palestina e dell’Egitto. 8 Trattasi di Alessandro Magno, che nel 334 attacca Dario III Codomano, sbaragliando gli eserciti persiani nelle bat‐

taglie di Granico (334), di Isso (333) e di Arbela (331). Alla sua prematura morte succedono, dopo iniziale incertezza, i regni di Macedonia con Cassandro, di Tracia e Asia Minore con Lisimaco, di Siria con Seleuco e d’Egitto con Tolomeo. Cf. M. NOTH, Storia d’Israele, Paideia, Brescia 1975, 421ss.

9 La «fine» – liberazione (9,27) è da far coincidere con la morte di Antioco, di cui sinteticamente si descrivono la persecuzione durata circa sette anni («una settimana») dal 170 (uccisione di Onia III) al 14 dicembre 164 (dedicazione e purificazione del tempio), con la fase acuta della profanazione durata circa tre anni e mezzo («metà settimana»). Gli altri due periodi di sette settimane (v. 25a) e sessantadue settimane (vv. 25b.26a) sono identificabili rispettivamente con la libertà accordata nel 539 da Ciro («principe consacrato») di ricostruire il tempio, e con Onia III («un consacrato soppresso senza colpa in lui»). È pertanto contraria al contesto ogni interpretazione che voglia raggiungere l’era cri‐stiana, come intese la Volgata («fino a Cristo duce»: v. 25, o «dopo 62 settimane sarà ucciso Cristo»: v. 26), oppure da‐


La terza visione (10,1–12,4) è una rilettura della storia, sintetica e allusiva per l’impero persiano, più dettagliata fino a diventare cronaca per il periodo vissuto dall’autore, con due nuovi elementi. A una prima particolareggiata descrizione dell’azione di Antioco IV (11,21‐45), figura losca, uomo abbietto, privo di dignità regale, violento, seduttore e infingardo, e di cui si sottolinea la «fine» (11,24.27.35.36.40.45), segue la rivelazione di una vita eterna con Dio, dopo l’attuale sofferta esi‐stenza (12,1‐3). I capitoli presentano una struttura tripartita10 del tipo ABA’, in cui la persecuzione è fatta risalire ai nemici (c. 8), ai propri peccati (c. 9), all’infuriare della persecuzione di Antioco (10,1–12,4). Esisto‐no tra le parti diversità cronologiche («primo anno del re Dario» in 9,1; terzo anno di Baldassar in 8,1, di Ciro in 10,1), geografiche (Gerusalemme richiamata dalla menzione del sacrificio della sera in 9,21 e rive del fiume in 8,2; 10,4) e linguistiche (dei numeri in 9,24ss e di immagini apocalittiche nei cc. 10–12); diverso è anche il personaggio‐interprete (Gabriele 8,16; 9,21; Michele 10,14). Alla struttura concentrica si unisce uno sviluppo progressivo del significato degli eventi e della parteci‐pazione attiva di Daniele. Il c. 8 è dominato dalla visione dell’ariete e del capro (8,1‐12), mentre la spiegazione si dilunga su Antioco (8,23‐26); Daniele resta «impaurito con la faccia a terra» (8,17.18.27), ma senza capire la spiegazione. Nel c. 9 Daniele prega, digiuna, si veste di sacco e cenere, confessa la fedeltà di Dio e l’infedeltà del popolo, chiede perdono;11 la risposta del mediatore si concentra sulla persecuzione di Antioco e ha come vertice l’anno della morte di costui (9,27c), con evidente sviluppo rispetto alle indicazioni precedenti (7,26; 8,25). Nella terza visione Daniele fa penitenza per tre settimane (10,2‐3) e prende coscienza delle ampie dimensioni della lotta contro il popolo santo che impegna le for‐ze angeliche (10,13.21; 12,1) e dura dal tempo persiano (11,1‐20) fino a quello di Antioco (11,21‐39); l’annuncio di una vita eterna per chi muore costituisce il vertice di tutto il libro.12 C’è pertanto una convergenza quanto al tema di fondo, la fine della persecuzione, la cui durata è resa con cifre diverse: ora in 2300 sere e mattine – ossia 1150 giorni – (8,13), ora in mezza settima‐na – cioè tre anni e mezzo – (9,27), o anche attraverso l’espressione «un tempo, tempi e metà di un tempo» (12,7) equivalente a 1290 giorni (12,11): il senso dei numeri è comunque quello di un pe‐riodo breve della persecuzione e non di indicazioni storiche esatte.

re all’unzione del «santo dei santi» (9,24) un valore di profezia direttamente messianica, mentre invece riguarda il san‐tuario, la restaurazione del culto da parte di Giuda Maccabeo (cf. 1Mac 4,36‐39). Per i vari aspetti del problema cf. P. GRELOT, Soixante‐dix semaines d’années, in Bib 50 (1969) 169‐186; G. LAMBERT, Une exégèse arithmétique du chapitre IX de Daniel, in NRTh 74 (1952) 409‐417; R.J.M. GURNEY, The Seventy Weeks of Daniel 9,24‐27, in EvQ 53 (1981) 29‐36; A. LAATO, The Seventy Yearweeks in the Book of Daniel (9,24‐27), in ZAW 102 (1990) 212‐225.

10 G. BERNINI, Daniele, 28‐34. 11 M. GILBERT, La prière de Daniel, Dn 9,4‐19, in RTL 3 (1972) 284‐310; B.N. WAMBACQ, Les prières de Baruch (1,15‐

2,19) et de Daniel (9,5‐19), in Bib 40 (1959) 463‐475. 12 Il «risveglio alla vita eterna» (12,2) è da intendersi nel senso di «una vera risurrezione, di un ritorno di vita nei

corpi e non come immagine di una nuova condizione politica o come ricordo durevole nella mente dei sopravvissuti» (B. MARCONCINI, Daniele, Queriniana, 98). La risurrezione quale risposta nuova ai saggi (maśkilîm: 11,33.35; 12,3) morti per la fedeltà a Dio, distinta certo da quella neotestamentaria (partecipata a tutti fin da questa vita, è fondata sulla ri‐surrezione di Cristo), è richiesta dal contesto letterario, dallo sviluppo del vocabolario rispetto ai paralleli (cf. Is 53,11s) e come adeguata risposta ai nuovi problemi. Cf. B.J. ALFRINK, L’idée de résurrection d’après Dan 12,2, in Bib 40 (1959) 355‐371. F. FESTORAZZI, che definisce la soluzione del problema della salvezza «analoga» a quella di 2Mac 7 e del Libro della Sapienza (cf. Introduzione alla Storia della Salvezza, Elledici, Leumann [Torino] 1972, 172), afferma: «Dio che promette al martire la vita oltre la morte (Sap 3,1‐9) realizza tale progetto (Sap 3) come una nuova creazione escatolo‐gica» (La dimensione salvifica del binomio morte‐vita [Qohelet e Sapienza], in RivB 30 [1982] 107). Riduttiva pertanto appare l’interpretazione della risurrezione come «una reintegrazione dei giusti nel popolo rinnovato... un senso sem‐pre valido della sua morte sofferta per la fede... una “svolta” che cambi volto alla storia con l’irruzione dell’azione salvi‐fica di Dio» (A. BONORA, Il linguaggio di risurrezione in Dan 12,1‐3, in RivB 30 [1982] 112.125). A. LACOQUE, Le Livre de Daniel (CAT Xb), Genève 1976, 173‐176, critica a sua volta l’altra posizione estrema di chi sostiene che in alcuni salmi antichi, quale riflesso di testi ugaritici risalenti al XIII secolo, si esprime la fede in una vita personale dopo la morte (M. Dahood).


1.3. La redazione del libro

L’innegabile unità postula una redazione nel periodo maccabaico: staccato dallo sfondo della per‐secuzione di Antioco, il libro perde ogni significato. Probabile è anche l’indicazione del 164 come terminus ad quem, poco prima della morte di Antioco, prevista in Palestina (11,45) e avvenuta a Tabae in Persia poco dopo. «È dimostrabile che il nostro libro proviene dal periodo tra il ritorno di Antioco IV dalla sua seconda campagna contro l’Egitto (167) e la sua morte».13

1.3.1. L’ipotesi di una redazione esilica

Insostenibile pertanto risulta la teoria tradizionale che fa risalire al sec. VI il libro già costituito, con aggiunte posteriori di spiegazioni marginali: ipotesi sostenuta già da Knabenbauer (1891) e ripresa da Möller (1934), Linder (1939), Young (1949), Mariani (1958).

1.3.2. L’ipotesi di un graduale accrescimento

Poco difendibile è anche la «teoria media» che si presenta con varie sfumature. Così, E. Testa fa ri‐salire «molto materiale al periodo dell’esilio... a un ḥōzèh che dovette consegnare delle visioni sui regni umani e su quello di Dio, ma in modo alquanto generale... così [che] alla caduta dell’impero babilonese poteva dirsi già completa la collezione degli episodi (cc. 2–6); mentre le visioni seguita‐vano ad arricchirsi durante gli avvenimenti del secondo regno in lotta con quello greco. Alla venuta di Alessandro Magno si chiariva anche la profezia sul terzo regno, sicché il sommo sacerdote pote‐va mostrare al vincitore la collezione delle visioni (± 332)... il libro di Daniele, come è nel canone, fu composto da un ignoto autore verso il 300... subendo ritocchi fin verso l’età maccabaica».14 Una continua attualizzazione per secoli, in riferimento a fatti che si riteneva dessero compimento alla profezia, cozza contro la possibilità di documentare questo frastagliato cammino, male si conci‐lia con l’unità e l’armonia dell’insieme e non spiega le continue allusioni alla situazione bollente creata dalla persecuzione di Antioco; è necessario pertanto cercare altre soluzioni.

1.3.3. Le due ipotesi più probabili

Attualmente è possibile concepire la redazione del II secolo in uno dei seguenti modi: una sola per‐sona ha composto i dodici capitoli, utilizzando e rifondendo tradizioni più antiche e materiali scritti; oppure un autore (o più) avrebbe composto attorno al III secolo i primi capitoli, che un altro scrit‐tore avrebbe unito ai cc. 7–12 composti da lui personalmente nel periodo maccabaico. Né manca‐no tentativi di superare questa alternativa: ad es., per L.F. Hartman ‐ A.A. Di Leila «il traduttore ebraico fu responsabile della pubblicazione dell’opera nella forma attuale come un singolo libro. La data sarebbe attorno al 140 a.C.».15 H.L. Ginsberg difende strenuamente la pluralità di autori, ritenendo già definitiva (salvo l’aggiunta di 2,4b‐48) nei primi decenni del III secolo la raccolta dei racconti e ritrovando quattro apocalissi, composte nel decennio 175‐165, con revisione delle precedenti da parte dell’ultimo autore.16

13 O. EISSFELDT, Introduzione all’AT, III, Brescia 1982, 371. Porta come motivi per tale datazione: la natura diversa del

testo al c. 11, che diventa vera profezia dal v. 40; la non inclusione del libro nel canone dei profeti, con la mancata cita‐zione in Sir 44‐50 e la conoscenza di 1Mac 2,59‐60 datato intorno al 100; il ritrovamento a Qumran; la cronologia pre‐cisa dell’epoca maccabaica e le informazioni incomplete e inesatte per i secoli VI‐IV; i segni di un linguaggio tardivo con parole greche, come i nomi di strumenti musicali (ivi, 372ss). Seguono sostanzialmente questa datazione Hitzig, Nölde‐ke, Baumgartner, Kuenen, Montgomery, Cornill, Sellin, Bernini, Delcor, Alonso Schökel ‐ Sicre Díaz, Festorazzi, Coppens, Lenglet.

14 E. TESTA, Il messaggio della salvezza, 4: Il profetismo e i profeti, Elledici, Leumann (Torino) 41977, 769s.771. 15 L.F. HARTMAN ‐ A.A. DI LELLA, The Book of Daniel (AB, 23), Garden City, NY, 1978, 16. 16 H.L. GINSBERG, Studies in Daniel, New York 1948, spec. 27‐40; ID., The Composition of the Book of Daniel, in VT 4

(1954) 246‐275; ID., Daniel (Book of), in EJ 5, 1277‐1289: Prima apocalisse: c. 7 (eccetto i vv. 8.11a.20b‐22.24b‐25); cir‐colata separatamente fu unita come appendice prima del 168 ai racconti midrashici con cui condivideva la visione tri‐partita della storia. Seconda apocalisse: c. 8, eccetto qualche versetto aggiunto dopo la profanazione del tempio nel dicembre 167. Terza apocalisse: 10,1‐12,4; scritta nell’estate del 165, al tempo della terza campagna contro l’Egitto. Quarta apocalisse: c. 9; scritta (eccetto vv. 4‐20) tra il 165 e 164 da un quarto autore che revisionò tutta l’opera, ag‐


È certo che il redattore‐autore si è servito di materiale preesistente, ma la sua attività redazionale è maggiore di quanto concesso dal frammentarismo di Ginsberg. In questo senso va la ricerca di H.H. Rowley.17 Dottrine recenti sugli angeli e la risurrezione, nuove pratiche religiose sulla preghie‐ra e il digiuno, la presenza di inesattezze storiche in ambedue le parti del libro (6,1; 9,1) e di frasi non secondarie, sono a favore dell’unità d’autore. I due ultimi argomenti, già condivisi da S.R. Dri‐ver e da S.B. Frost, appaiono convincenti anche per O. Eissfeldt. Quest’ultima opinione è più adatta a spiegare la natura del libro.

1.4. Il carattere apocalittico

In tutto lo scritto si respira aria di viva attesa di un imminente cambiamento, di un «finire dei gior‐ni» (2,28), di una «fine» (qēṣ) (8,17.19; 9,26; 11,6.35.40.45; 12,4.9.13) nel senso di compimento (syntéleia).18 Le allusioni del c. 10, il termine delle settanta settimane, l’esito della lotta tra monto‐ne e capro, come pure il senso dei due sogni della statua e delle bestie, inducono a fissare questa «fine» al II secolo. Essa consiste innanzitutto in un giudizio sui regni umani, «stritolati e annientati» (2,44), «privati del loro potere» (7,12). Antioco sarà «sterminato e distrutto completamente» (7,26), «verrà spezzato senza intervento di mano d’uomo» (8,25), fino «al termine segnato sul de‐vastatore» (9,27b) che «giungerà alla fine e nessuno verrà in suo aiuto» (11,45); l’allontanamento temporaneo di Nabucodonosor dal potere (4,22) prepara a quello definitivo di Baldassar (5,25‐28), che anticipa quanto si aspettava per Antioco. Questo giudizio non interrompe la storia, ma la cam‐bia qualitativamente, dal dominio delle forze del male al trionfo del bene, nel regno di Dio. Riconosciuto re da Nabucodonosor, che scompare dopo aver pronunciato questo titolo (4,34), l’Altissimo (4,14.21.22.29.31; 5,18.21), Dio del cielo (2,18. 19.28), Dio degli dèi (3,90), Signore del cielo (5,23), Dio unico e glorioso su tutta la terra (3,45), principe dei principi (8,25), capo della mili‐zia (8,11), YHWH (9,2.4.8.10.13.14bis) dà i regni a chi vuole (2,37; 4,22.29) ed è all’origine della rive‐lazione dei misteri (2,45). Questo regno è un mistero (rāz) (2,19.22.28.29.30.47; 4,6) soprattutto perché si innesta nei fatti che devono accadere (2,29) e li cambierà da eventi tragici in tempi di pa‐ce e di giustizia. È un regno sicuro, poiché la persecuzione è limitata (7,25; 9,27; 12,7; 8,14; 12,11s), universale (2,35; 7,14.27), eterno (2,44; 3,100b; 4,31b; 6,27b); è giustizia e libertà, dopo la elimina‐zione di ogni violenza; è vita (12,2). Questa concezione della storia, diretta da un atteso intervento del Signore che beneficherà il suo popolo, continua nel NT, che conferisce al regno di Gesù personalizzazione (coincide con la sua persona) e gradualità (è in continuo divenire). In Daniele però la dimensione escatologica del regno di Dio diventa apocalittica19 per il clima di viva attesa in cui è riproposta, per l’antichità di questa dottrina, ora rivelata a un saggio e da lui resa nota (pseudonimia), per il vario e complesso simboli‐smo attraverso cui è presentata in una situazione incomparabilmente difficile: il linguaggio simboli‐co assume anche la forma di mito (cf. 7,2s). Se a queste note essenziali aggiungiamo la parenesi (cf. Dn 3,6), il turbamento d’animo (2,1; 3,91; 4,1; 7,15; 8,17.27; 10,8), il carattere composito, le figure degli intermediari, angeli e demoni, in‐sieme con la ricerca dell’origine e della motivazione,20 Daniele apparirà come il libro della più pura apocalittica.21

giungendo i versetti riguardanti Antioco. Due glosse finali (12,11s) e la preghiera di 9,4‐20 furono aggiunte da una o più persone. Questa teoria è seguita nelle linee generali da J.A. Montgomery, A. Bentzen, M. Delcor.

17 H.H. ROWLEY, The Unity of the Book of Daniel, in HUCA 23 (1951) 233‐273 (= The Servant of the Lord and Other Es‐says on the OT, Oxford 21965, 247‐280); ID., The Composition of the Book of Daniel, in VT 5 (1955) 272‐276.

18 Così intendono i LXX e parzialmente Teodozione, che altre volte traducono con l’equivalente vocabolo péras (8,17.19; 11,27.35.40; 12,9).

19 Al c. 7, ad esempio, è facile individuare lo schema apocalittico con la minaccia alle nazioni (7,2‐7), l’apparizione di Dio (vv. 9‐10) per il giudizio dei re delle nazioni (vv. 11‐12), la costituzione del Regno trasmesso al Figlio dell’uomo (v. 13s). Cf. G. ROCHAIS, Les origines de l’Apocalyptique, in ScEs 25 (1973) 46.

20 I. WILLI‐PLEIN, Ursprung und Motivation der Apokalyptik im Danielbuch, in ThZ 35 (1979) 265‐274. 21 M. DELCOR, Le milieu d’origine et le développement de l’apocalyptique juive, in W.C. VAN UNNIK (a cura di), Littéra‐


2. IL LIBRO NELLA STORIA

Questo argomento presenta vari aspetti: la relazione dei cc. 1–6 con gli eventi storici, la persona di Daniele, il bilinguismo, le inesattezze storiche, il testo e l’influsso nel NT. È bene richiamare un importante principio. Poiché la storiografia biblica non va intesa come evoca‐zione puramente oggettiva del passato, ma è in funzione di una teologia finalizzata a trasmettere un insegnamento, è necessario leggere come racconti edificanti i capitoli narrativi che mettono in scena Daniele l’essenziale è di comprendere l’obiettivo a cui tende ogni racconto, la sua “funzione”, sotto il mantello della finzione narrativa.

2.1. Elementi storici in Dn 1–6

Questi capitoli riflettono la situazione della diaspora, situazione di tranquillità con la possibilità di integrarsi nell’immenso impero pagano, di avviarsi anche a brillanti carriere e di ricevere con una formazione culturale (c. 1) gli onori (2,48s; 6,29): «Nel fiducioso lealismo di Daniele e dei suoi amici verso Nabucodonosor si rispecchiano tempi più tranquilli di quelli che videro la rivolta dei Macca‐bei».22

2.1.1. I racconti e la persecuzione del II secolo

Eppure, oltre al richiamo a epoche precedenti, l’insegnamento di questi capitoli è molto attuale ai tempi di Antioco: «Indicazioni linguistiche e altre sembrano denotare che le cose babilonesi sono viste da lontano, durante il periodo persiano o anche dopo».23 Daniele, che si oppone alle prescri‐zioni alimentari dei re e aiutato da Dio supera in sapienza i maghi, costituisce un diretto invito a re‐sistere alle prescrizioni di Antioco sugli alimenti, finalizzate a ellenizzare con forza il popolo (cf. 2Mac 6,18‐25; 7,19s).24 Nabucodonosor è più siriano che babilonese, con la volontà di educare nel‐la scrittura e lingua dei Caldei e con la razione giornaliera di vivande e di vino dalla sua tavola (cf. l,4s). Il timore, per i Giudei, derivava dal fatto che alcuni cibi potevano contenere ancora il sangue degli animali (Dt 12,23‐24) o provenire da specie impure (Lv 11,4‐7), oppure potevano essere stati offerti a divinità (Dt 32,38). Motivo di fedeltà a Dio, l’astensione da certi cibi era considerata via alla sapienza (cf. Dn 10,2‐3). È significativo che Ioiachin, ammesso in esilio alla corte regia, non abbia avuto preoccupazioni alimentari (cf. 2Re 25,25‐30), che diventarono acute solo più tardi (cf. Tb 1,8; Gdt 10,5; Est 4,16; 1 Mac 1,63; 2 Mac 6,18‐31). Il sogno di Nabucodonosor

Con l’impossibile lega di argilla e ferro, cioè matrimoni non riusciti (2,42‐43), il c. 2 ci porta fino al II secolo, dal momento che il primo matrimonio fra Seleucidi e Tolomei è quello di Berenice con An‐tioco verso il 250 a.C., mentre quello di Tolomeo V, che sposò Cleopatra figlia di Antioco III, risale al 194. Il v. 44 («ai giorni di questo re», al tempo cioè del sorgere del regno eterno) ci fa scorgere, alla luce di 7,25‐27 e 11,45–12,2, l’epoca di Antioco IV. In questo racconto, per la prima volta, la storia dall’esilio babilonese al periodo greco viene interpretata come preparazione, attraverso quattro momenti,25 al regno di Dio.

ture juive entre Tenach et Mishna (RechBib IX), Leiden 1974, 101‐105.

22 G. VON RAD, Teologia dell’AT, II, 375; cf. A.R. MILLARD, Dan 1‐6 and History, in EvQ 49 (1977) 67‐73. 23 M. DELCOR, Le livre de Daniel, Paris 1971, 47. 24 Daniele è assimilato alle grandi figure di fedeltà a Dio, quali Mosè, Davide, Samuele e soprattutto Giuseppe.

Quello, prigioniero di guerra, supera la prova della dieta, questo, schiavo in Egitto, vince la seduzione della donna; quello interpretando visioni e sogni aiuta i connazionali, questo spiegando i sogni libera i fratelli dalla fame, avvalendo‐si dell’alta carica raggiunta (cf. L. ALONSO SCHÖKEL ‐ J.L. SICRE DÍAZ, I Profeti, 1413).

25 Comunemente i regni sono così interpretati: Babilonesi (oro), Medi (argento), Persiani (bronzo) e Alessandro Ma‐gno (ferro), il cui impero si divide tra l’Egitto dei Tolomei (o Lagidi) e la Siria dei Seleucidi (ferro e argilla). Per evitare un’armonizzazione con 7,7‐8; 8,5.12.20s; 11,3‐4, altri interpretano l’argento in riferimento a Medi e Persiani assieme; il bronzo raffigurerebbe Alessandro Magno, il ferro i Lagidi e i Seleucidi. La «teoria romana» identifica il quarto regno con


Qualche breve linea interpretativa su questo sogno può orientare anche per i capitoli seguenti. Il sogno non riflette un’esperienza reale, ma ha solo funzione letteraria: se ne afferra il contenuto considerandolo una allegoria da spiegare.26 L’autore vuol comunicare l’idea di una storia divisibile in periodi successivi, di importanza e valore decrescenti. L’idea è trasferita in un’immagine, quella di una statua, quanto mai adatta per la varietà delle parti (testa, piedi) e del materiale a rendere sensibile il peggioramento. L’immagine è quindi introdotta in un sogno che si snoda in una narra‐zione: per capire il testo bisogna ripercorrere a ritroso queste fasi. Tale artificio ha permesso di tra‐sformare in apparente profezia (profezia “ex eventu”) quanto nella mente era solo uno sguardo re‐trospettivo e di descrivere il personaggio contemporaneo con i caratteri di Nabucodonosor. L’effetto maggiore è quello di trasferire il tempo nello spazio, un procedimento dinamico in uno statico, permettendo di osservare simultaneamente l’inizio e la fine di un lungo periodo storico. Mentre nel tempo i regni si susseguono, nella statua coesistono. Si crea un momento di contem‐plazione e di attesa, interrotto dall’improvviso staccarsi dal monte di una pietra che polverizza i metalli, e si produce un linguaggio più eloquente di qualsiasi discorso, con i contrasti che parlano senza gridare: oro e argento, metalli e roccia, statua, pietra e montagna. A questo valore principale è da aggiungere quello di una satira della divinazione pagana, incompatibile con quella saggezza divina che viene riconosciuta alla fine anche dal re (2,47). La statua del re

Il racconto del c. 3 richiama il simulacro del re divinizzato, secondo il costume introdotto da Antio‐co, l’altare eretto sopra quello degli olocausti il 7 dicembre 167, e altre imposizioni (cf. 9,27; 11,31; 12,11; 1Mac 1,43‐63; 2Mac 6,1‐11). La statua, che nel testo aramaico è di un dio (3,3.12.14), nelle versioni greche fa diretto riferimento alla stessa persona del re («non adorano la statua di te»). Il racconto dei giovani che per la fedeltà a Dio affrontano la prova del fuoco, frequente al tempo dei Maccabei (2Mac 7,5), doveva infondere coraggio a quanti si trovavano in un quotidiano pericolo di morte. Da sottolineare, assieme alla fortezza dei giovani, anche il senso ironico del racconto. L’apparato statale, l’oro, la pianura immensa capace di accogliere tutti i sudditi, le autorità al completo, il for‐no alla massima temperatura, le precauzioni verso i giovani, si risolvono in una disfatta per il re. È una logica conseguenza dell’aver posto il confronto su di un terreno esclusivamente religioso, come suggerisce la «fornace», immagine della situazione d’Egitto (Dt 4,20; 1Re 8,51; Ger 11,4). Lettera‐riamente l’effetto ha più risalto nel testo aramaico, dove il «cadere» dei tre giovani nel fuoco (v. 23) è seguito dal «sorgere» stupito di Nabucodonosor (v. 91), rispetto al testo attuale che ha due brani inseriti in greco.27 Il martirio in senso forte può essere stato il motivo della scelta di questi racconti da parte dell’autore del II secolo. La contrapposizione di valori era particolarmente acuta al tempo di Antio‐co. Questi pensa, uccidendo, di togliere il bene maggiore, che invece i giovani vedono nella volontà di Dio.28 Il comportamento degli accusatori di Anania, Misaele e Azaria (3,12) e specialmente degli invidiosi colleghi di Daniele (6,5s) è più comprensibile al tempo maccabaico che nell’esilio, quando non vi furono vere persecuzioni. Dai due episodi edificanti scaturisce una serie di insegnamenti. L’autore condanna innanzitutto l’idolatria sincretista dell’epoca ellenistica. Riconosce sì una certa laicità dello Stato nell’ammini‐

l’impero romano e la pietra che lo abbatte con Gesù Cristo. Questa spiegazione fondata su testi di epoca cristiana (4 Esdra 11,1; 12,10ss; Apoc. Baruc; Ep. Barn. 4), e condivisa da Ippolito e Girolamo, non è oggi sostenibile: rilegge, più che leggere i testi (cf. M. DELCOR, Studi sull’apocalittica, Paideia, Brescia 1987, 261‐281).

26 ALONSO SCHÖKEL ‐ SICRE DÍAZ, I Profeti, 1416ss. 27 Sono il Salmo di Azaria (3,24‐25) – che i LXX fanno recitare anche ai due amici – e l’Inno di lode dei tre giovani

(3,51‐90): essi illustrano la necessità di ricorrere alla preghiera nei momenti difficili (2,18.20ss; 4,31.34; 6,11; 9,3ss.20; 13,42).

28 Ne deriva che la libertà piena è possibile solo come conseguenza di una fede e di una obbedienza a Dio, senza le quali gli uomini diventerebbero meccanici esecutori di ordini dei tiranni di turno.


strazione pubblica e crede possibile una convivenza col paganesimo, purché il potere non esiga l’adorazione di sé, pretendendo di sostituire Dio, anziché rappresentarlo. In tale caso la risposta è chiara: «Sappi, o re, che noi non serviremo i tuoi dèi e non adoreremo la statua d’oro che tu hai eretto» (3,18). Questa fermezza apre gli occhi del re, permettendogli di riconoscere la sovranità di Dio. La prova dei leoni è più toccante. Manifesta un re ancor più schiavo della “struttura”. Costretto ad agire contro sua voglia (6,15.17.19), è liberato da Daniele: è una «esortazione al martirio» più decisa rispetto a quella parallela del c. 3. Il giudizio su Antioco

Il sogno, fatto da Nabucodonosor, di un albero trasformato in bestia colpisce direttamente la su‐perbia di Antioco (4,19; 7,11; 11,37s), ribattezzato dalla gente da Epifane (manifestazione di Giove) a Epimane (pazzo): la «gematria» permetteva di sostituire nella lettura i due nomi. L’orgoglio gli ha impedito di glorificare Dio e beneficare gli altri (4,23‐24). Il sontuoso banchetto, durante il quale si inneggia «agli dèi d’argento, di bronzo, di ferro, di legno e di pietra» (5,4), simile alle orge del mon‐do greco durante le feste di Bacco e dei riti misterici, condanna la profanazione del tempio (11,31‐34) a opera di Antioco, su cui pende imminente il giudizio di Dio.29 L’intenzione del redattore finale di riferire all’Epifane gli episodi attribuiti ai re babilonesi è chiara, anche se rimane ipotetico ogni tentativo di precisare il suo apporto in relazione ai singoli racconti ricevuti dalla tradizione. Oltre a sottolineare l’incapacità da parte di tutti gli indovini pagani di spie‐gare la visione, il racconto verte sul giudizio divino, condizionato per Nabucodonosor e definitivo per Baldassar, che prefigura un’identica fine per Antioco, profanatore del culto ebraico (1Mac 1,46; 2Mac 6,4‐7).

2.1.2. Daniele giudice (cc. 13–14)

I tre episodi finali hanno carattere midrashico: intendono dare insegnamenti attraverso racconti il cui nucleo storico sfugge a ogni ricerca. La storia di Susanna illustra la verità di un Dio che fa giusti‐zia e presenta un esempio di castità matrimoniale, servendosi di Daniele improvvisato giudice. Lo smascheramento dell’imbroglio dei sacerdoti di Bel (14,1‐22) e l’uccisione del drago, ritenuto un dio, sono satire popolari contro l’idolatria pagana, inferiori per capacità espressiva ai testi della Sa‐pienza (13,1–15,19).

2.2. Il problema della storicità del personaggio Daniele

Il nome Daniele («Dio è giudice») esprime bene il potere del Signore che governa i popoli, dirige la storia, attua piani di salvezza, infondendo fiducia e speranza. L’ipotetico personaggio dell’esilio non solo non è l’autore, ma neppure il protagonista dei fatti attribuitigli: non rendendosi conto della pseudonimia in passato si erano presi alla lettera i passi in prima persona (7,2; 8,1; 9,2; 10,2), che ne supponevano l’attività letteraria (7,1). Le tradizioni lo presentano variamente: capo dei maghi (4,5; 5,11), uomo politico o amministratore reale (2,48; 6,3‐4; 8,27), sconosciuto (13,45s), impor‐tante personaggio di Babilonia (14,2), sacerdote (14,2 LXX). Che il personaggio sia in gran parte una costruzione dell’autore risulta da questa semplice osservazione: se Daniele era adolescente nel 606 (cf. 1,1) come avrebbe potuto essere in piena attività nell’anno terzo di Ciro, nel 537/6 (cf. 6,29)?

29 Questo esprimono le parole scritte sulla parete, lontana eco incontrollabile di eventi infausti durante sontuosi

banchetti: Senofonte parla della presa di Babilonia durante i banchetti (Ciropedia 7,5), mentre Erodoto (Storia 1,191) riferisce dell’enorme estensione della città, occupata nei quartieri periferici e ignara di quanto stava accadendo al cen‐tro. Un giudizio è espresso in Teodozione con tre parole: mane, thekel, phares, da interpretare come participi passati: computato, pesato, diviso. Il testo aramaico ha quattro parole: menē’, menē’, tekēl, û‐parsîn che richiamano unità mo‐netarie di valore decrescente, la mina, il siclo, mezze (mine), col senso di «è stato numerato: una mina, un siclo, e mez‐ze (mine)» (5,25), ottenuto dalla sintesi delle radici dei verbi (mn’ = misurare, tql = pesare, prs = spezzare) col valore simbolico delle tre misure.


Anche ammesso che sia esistito un Daniele del periodo esilico,30 col volger degli anni questa figura si è trasformata fino ad assumere ruoli leggendari e contraddittori, e caratteri di personaggi popo‐lari postesilici. È in questo modo che trovano una spiegazione le diverse tradizioni bibliche e i rac‐conti scoperti a Qumran.31

2.3. Il bilinguismo

Questo problema non ha ricevuto finora una soluzione soddisfacente. Non l’ha spiegato infatti l’ipotesi di un originale babilonese (P. Riessler) o ebraico, tradotto e sostituito da una versione aramaica preesistente (Lenormant, Göttsberger, Haupt e Prince), o aramaico tradotto in parte per motivi religiosi (Marti, Charles, Zimmermann, Ginsberg, Hartman‐Di Leila), o originale ebraico an‐che per i brani deuterocanonici (Kuhl), o il desiderio di variare il linguaggio, ponendo all’inizio l’ebraico per il suo carattere sacro (Testa).32 Più probabile è la spiegazione della diversità linguistica in base ai destinatari: il popolo, che amava l’ebraico in un momento di persecuzione, e i re della terra, richiamati nella lingua più diffusa, l’aramaico, a riconoscere nel Dio degli Ebrei colui che dona e toglie il potere:33 questa ipotesi ha la sua forza nell’unità d’autore. La singolarità del libro si estende anche alle due traduzioni greche complete, entrambe utilizzate nel NT. L’antica versione dei LXX, una traduzione libera rispetto all’originale semitico, inverte l’ordine di alcuni capitoli, fa precedere il racconto di Susanna al c. 1, aggiunge episodi al c. 3 (la lun‐ga preghiera di Azaria e il “cantico delle creature” dei tre amici) e conclude il libro con i due episodi di Daniele che smaschera i sacerdoti di Bel e uccide il drago, finendo nella fossa dei leoni. La ver‐sione di Teodozione, più letterale e quindi preziosa per la critica testuale, ha conservato le aggiunte del c. 3, unisce l’episodio di Susanna agli altri due del capitolo finale: il testo è notevolmente diver‐so dalla precedente.

2.4. Dettagli storici e utilizzazione di Daniele

Che prima del II secolo esistessero capitoli separati, non ancora unificati in un «ciclo» di Daniele, trova conferma in alcune contraddizioni del testo. Daniele parla con Nabucodonosor (1,18‐19), ma in seguito ha bisogno di essere presentato da Arioc (2,25); ha contatti col re solo dopo tre anni di formazione (5,18), ma è ricevuto da Nabucodonosor al suo secondo anno di regno (2,1); parla con il re (2,16), ma questi non lo conosce (2,25); procura incarichi agli amici (2,49) che tuttavia li otten‐gono direttamente dal re (3,97); un racconto in terza persona (4,25‐30) mal si concilia con la narra‐zione autobiografica dell’intero capitolo.

2.4.1. Inesattezze storiche

Errori di cronologia sono presenti fin dall’inquadratura dei fatti e dei personaggi, con la datazione al «terzo anno del regno di Ioiakim, re di Giuda» (1,1) dell’assedio di Gerusalemme, avvenuto la prima volta nel 597 senza espugnazione e non nel 606, il terzo anno di Ioiakim (cf. 2Re 20,1‐2). Non è consigliabile il tentativo di armonizzare questi dati con altri testi biblici (cf. Ger 46,2; 2Re 24,1.10‐12; 2Cr 36,5‐7), anche nell’ipotesi che si alluda a bande di Caldei, Aramei, Moabiti, spinti contro Gerusalemme da Nabucodonosor appena eletto (605): è più verosimile ammettere che «l’autore non segua i dati storici né la concezione dei suoi predecessori, il Deuteronomista e il Cronista».34 Questa elasticità storica è palese nella sostituzione di Nabonide, ammalato per sette anni nell’oasi

30 H.H.P. DRESSLER, The Identification of the Ugaritic Dnil with the Daniel of Ezechiel, in VT 29 (1979) 152‐161. 31 J.T. MILIK, «Prière de Nabonide» et autres écrits d’un cycle de Daniel, in RB 63 (1956) 407‐415; P. GRELOT, La prière

de Nabonide (4Q OrNab), in RdQ 9 (1978) 483‐495. 32 Cf. E. TESTA, Il profetismo, 755‐758. 33 LENGLET, La strutture, 177s. 34 Si può leggere più genericamente, sulla base di una tradizione popolare: «in uno dei tre anni», in cui Ioiakim fu

sottomesso (cf. 2Re 24,1); cf. L. F. HARTMAN – A. A. DI LELLA, The Book of Daniel (AncB 23), New York 1978, 128s.


di Teima, col più noto Nabucodonosor dichiarato pazzo (c. 4), per meglio sottolineare il messaggio religioso. Qualcosa di simile si verifica con Baldassar, detto figlio di Nabucodonosor (cf. 5,2; 5,30; 7,1), men‐tre lo era di Nabonide, mai proclamato re, per permettere all’autore di abbracciare, in una genera‐zione, un’intera dinastia. Nessuna identificazione soddisfacente, tra le molte proposte, per «Dario il Medo che ricevette il regno all’età di sessantadue anni» (5,31; cf. 6,29; 9,1). Al contrario l’ultima visione riproduce esattamente la storia delle guerre tra Lagidi e Seleucidi fino al 164 (11,3‐39). A un periodo tardivo ci riporta anche la lingua del TM, presente in manoscritti databili alla fine del II secolo: l’aramaico è classico, evoluto, più vicino al testo di Enoch etiopico che non a quello di Esdra o ai papiri di Elefantina, mentre l’ebraico ha subìto l’influenza dell’aramaico, un fenomeno ignoto nel VI secolo.

2.4.2. L’utilizzazione nel NT

Dal libro di Daniele il Nuovo Testamento attinge la dottrina sugli angeli;35 l’idea di risurrezione (Dn 12,2; cf. 2Mac 7), sviluppata in Mt 25,46; Gv 5,29; At 24,15; il titolo «Figlio dell’uomo» riferito a Gesù una settantina di volte. Altri temi sono «l’abominio della desolazione» (Dn 9,27; 11,31; 12,11 e Mt 24,15; Mc 13,14), la grande angoscia (Dn 12,1 e Mt 24,21; Mc 13,19), il brillare dei giusti co‐me il sole (Dn 12,3 e Mt 14,43) e il giudizio del mondo da parte dei santi (Dn 7,22; 1Cor 6,2).

LA VISIONE DEL FIGLIO DELL’UOMO: DAN 7*

Bibliografia

BLACK M., The Son of Man in the Old Biblical Literature, in ExpTim 60 (1948) 11‐15. BORSCH F. H., The Son of Man in Myth and History, London 1967. COLLINS J. J., Daniel (FOTL 20), Grand Rapids 1984. COLPE C., hyiòs toù anthrópou, in GLNT 14, 273‐472. COLPE C., Neue Untersuchungen zum Menschensohn‐Problem, in ThRv 77 (1981) 353‐371. COPPENS J., Le chapitre VII de Daniel: Lecture et commentaire, in EThL 54 (1978) 301‐322. DELCOR M., Les sources du chapitre VII de Daniel, in VT 18 (1968) 290‐312; trad. it. in DELCOR M., Studi sull’apocalittica,

Brescia 1987, 133‐160. MÜLLER K., Beobachtungen zur Entwicklung des Menschensohn‐vorstellung in der Bilderreden des Henochs und im Bu‐

che Daniel, in Festgabe H. M. Biedermann, Würzburg 1971, 253‐261. NOTH M., Die Heiligen des Höchstens, in Gesammelte Studien, München 1957, 274‐290.

I. ASPETTI LETTERARI

a) Critica letteraria

Il c. 7 di Daniele si presenta fin dall’inizio come un’unità in sé conclusa. Si confronti l’inizio del capi‐tolo con la sua conclusione: «Daniele... ebbe un sogno e visioni... Egli scrisse il sogno e ne fece la relazione che dice: ...» (v. 1). «Qui finisce la relazione. Io Daniele...» (v. 28). Possiamo quindi considerare il capitolo come un’unità letteraria. Questo, naturalmente, non esclu‐de la possibilità di una storia della formazione del testo con l’intervento di mani diverse o la pre‐senza di aggiunte. Tra le ipotesi avanzate a questo proposito vale la pena ricordare quella di E. Sel‐lin36. Questi parte dall’osservare un cambiamento del termine aramaico che viene tradotto con

35 Cf. B. MARCONCINI, Angeli ‐ La testimonianza della S. Scrittura, in AA.VV., Angeli e Demoni. Il dramma della storia

tra il bene e il male, EDB, Bologna 1992, 74ss. * B. MARCONCINI, La visione del Figlio dell’uomo (Dn 7), in MARCONCINI, Profeti e apocalittici, 359‐376. 36 Einleitung in das Alte Testament, Heidelberg 1910, 129ss. L’opinione è ripetuta nelle edizioni seguenti, non però

nell’edizione del 1965 di cui è responsabile G. Fohrer.


«ecco»: ’ălû nel v. 8, ’ărû invece nei vv. 2.5.6.7.13. Questa diversità indicherebbe strati diversi del testo. L’osservazione è confermata da altri elementi: i verbi che seguono il termine ’ălû sono al per‐fetto, non al participio come negli altri casi; infine l’espressione «occhi come occhi d’uomo» (sem‐pre nel v. 8) impiega il simbolismo umano con valore del tutto diverso dal resto del capitolo. Ora, siccome il v. 8 tratta dell’undicesimo corno, il Sellin ritiene posteriore tutto ciò che concerne questa speciale immagine (i vv. 20.24; il v. 7bß). A questa analisi si appoggia H. L. Ginsberg37, che però accetta come originari i riferimenti alle dieci corna della quarta bestia (vv. 7bß.20aa.24a). Questo autore ritrova così nel capitolo due fonti: vv. 1‐7.9‐10.11b‐12. 19.20a.23‐24a.26‐28 (prima fonte, anteriore al 167 a.C.); vv. 8.11a. 20b‐22. 24b‐25 (seconda fonte, in rapporto con i cc. 8–12). Inoltre il Ginsberg corregge il testo in modo da rendere la descrizione delle quattro bestie più armoniosa: – nella descrizione delle prime due bestie, le parole che il TM usa in riferimento al leone («sollevò diritta una estremità in modo da stare su due piedi come un uomo») apparterrebbero in realtà alla descrizione dell’orso; – quanto invece è detto dell’orso («aveva tre zanne nella sua bocca e gli fu dato il comando: Su, di‐vora molta carne!») apparterrebbe in realtà alla descrizione del leone38. Altri studiosi fanno osservare che la differenza nella forma del termine «ecco» non è indizio suffi‐ciente: «La frase introdotta da ’ălû non è necessariamente posteriore. In Dan 2,31 e 4,10 si incon‐tra questo avverbio seguito da un participio, come il suo equivalente ’ărû, e in Dan 4,7 precede una proposizione nominale»39. E ancora: «Non c’è nessuna ragione per supporre che un singolo autore non possa assumere entrambe le forme, l’una accanto all’altra, in un unico capitolo, se egli visse al tempo in cui il passaggio (da una forma all’altra) era in atto»40. In conclusione, riteniamo più plausibile cercare di esaminare il testo così come si presenta. In ogni caso, coglieremo così l’intenzione del redattore ultimo.

b) Struttura

Generalmente i commentatori collocano il c. 7 di Daniele all’inizio della seconda parte del libro. Mentre Dan 1–6 contiene dei racconti, «i capitoli 7–12 sono visioni di cui Daniele è il beneficia‐rio»41. Questo rilievo ci orienta anche nella determinazione del genere letterario che, come ve‐dremo, si può definire «relazione di una visione». Al riguardo, si veda anche l’introduzione genera‐le al libro di Daniele. Un primo elemento per definire la struttura del testo è dato dall’espressione «Io, Daniele» che si ritrova tre volte, nei vv. 2.15 e 28. Ne deriva una prima essenziale suddivisione del capitolo in due parti: i vv. 2‐14 riferiscono una visione simbolica; poi i vv. 15‐27 offrono invece l’interpretazione della visione stessa. Abbiamo così una perfetta articolazione in due parti equivalenti di tredici vv. ciascuna. In realtà, anche nella seconda parte del capitolo troviamo un completamento del raccon‐to della visione (vv. 19‐22), che logicamente ci saremmo aspettati nella prima parte. L’articolazione della prima parte (la visione) è facilmente riconoscibile: le quattro bestie (vv. 2‐8), il vegliardo (vv. 9‐10), il figlio dell’uomo (vv. 13‐14). I vv. 11‐12 parlano ancora delle quattro bestie e della loro sorte: essi suppongono la precedente presentazione del vegliardo e del giudizio che egli istituisce.

37 H. L. GINSBERG, Studies in Daniel, New York 1948, 5‐23.63‐75. 38 Cfr. L. F. HARTMAN – A. A. DI LELLA, The Book of Daniel (AncB 23), New York 1978, 209. Ne risulta «un’immagine de‐

gli animali che è molto più fedele alla loro natura: non è l’orso onnivoro, ma il leone carnivoro che ‘divora molta carne’; e, anche se fin dai tempi antichi sono stati dipinti leoni rampanti, è molto più appropriato parlare dell’orso plantigrado che sta sulle sue zampe (posteriori) come un uomo». Nello stesso tempo si ottiene una numerologia più coerente: la prima bestia ha tre zanne; la seconda solleva un lato; la terza ha quattro teste e infine la quarta ha dieci corna.

39 M. DELCOR, Studi sull’apocalittica (StBi 77), Brescia 1987, 136. 40 H. H. ROWLEY, The Unity of the Book of Daniel, in The Servant of the Lord and Other Essays on the Old Testament,

London 1952, 258. 41 Vedi, ad esempio, BJ, 1535.


L’interpretazione della visione si scompone in due momenti riconoscibili dal doppio intervento del veggente: prima viene interpretata la visione delle bestie nel suo insieme (v. 17); poi ci si concentra sul significato della quarta bestia (vv. 23‐27). Ne risulta la seguente struttura: 1‐2a: INTRODUZIONE; LE CIRCOSTANZE DELLA VISIONE.

2b‐14: RELAZIONE DELLA VISIONE. 2b‐8: Visione delle quattro bestie. 9‐10: Visione del trono e del vegliardo. 11‐12: La sorte delle quattro bestie. 13‐14: Visione del figlio dell’uomo. 15‐27: INTERPRETAZIONE DELLA VISIONE. 15‐18: Prima spiegazione: le quattro bestie e il figlio dell’uomo. 19‐27: Seconda spiegazione: la quarta bestia e il figlio dell’uomo. [Si noti che questa sezione è aperta da un complemento della visione (fino al v. 22)]. 28: CONCLUSIONE. EFFETTI DELLA VISIONE SUL VEGGENTE.

c) Genere letterario

Si tratta di una visione onirica simbolica, genere letterario amato dall’apocalittica, che generalmen‐te si articola come segue42:

1. Indicazione delle circostanze. 2. Descrizione della visione, introdotta da un «ecco», o simili. 3. Richiesta di interpretazione, spesso a causa della paura che la visione ha suscitato. 4. Interpretazione da parte di un angelo. 5. Materiale conclusivo di contenuto vario; ad est la reazione del veggente, istruzioni

dell’angelo, parenesi. Questi elementi si ritrovano chiaramente in Dan 7, ma in un’ottica nuova propria del genere lette‐rario apocalittico. Tutta la tradizione profetica dell’AT, a cominciare da Amos (Am 7–9), presenta delle visioni. Tuttavia l’apocalittica ha prediletto questo genere letterario e lo ha caricato di signifi‐cato nuovo. Nella visione apocalittica la percezione del veggente si apre a una realtà collocata nel futuro oppure a una realtà collocata nel mondo divino. Il veggente apocalittico è in grado di pene‐trare i due ambiti che danno senso alla storia: il futuro, nel quale le incongruenze del presente sa‐ranno sciolte; il divino, che possiede l’integrità e la perfezione nascoste al limite del mondano43. In questa logica si comprende il valore del sogno che sospende le capacità percettive dell’uomo per renderlo disponibile a ricevere una rivelazione del tutto soprannaturale; si comprende anche per‐ché la spiegazione venga data al veggente da un angelo: non ci sono più profeti capaci di interpre‐tare il presente, ma Dio si serve di esseri soprannaturali, i quali rivelano all’uomo il senso nascosto della realtà.

II. COMMENTO

a) Introduzione (vv. 1‐2a) 1Nel primo anno di Baldassàr, re di Babilonia, Daniele, mentre era a letto, ebbe un sogno e visioni nella sua mente. Egli scrisse il sogno e ne fece la seguente relazione. 2aIo, Daniele, guardavo nella mia visione notturna

42 Cfr. J. J. COLLINS, Daniel (FOTL 20), Grand Rapids 1984, 6. 43 Sull’apocalittica e sul genere letterario apocalittico, si veda MARCONCINI, Origine e sviluppo dell’apocalittica, in ID.

(a cura di), Profeti e apocalittici, 223‐233.


Sono indicate le circostanze della visione: – tempo: «il primo anno di Baldassar re di Babilonia»; – protagonista: «Daniele»; – circostanze: «quando era a letto»; – l’evento rivelativo: «sogno, visioni»; – la relazione scritta dell’evento.

La data offre una determinazione cronologica fittizia. Il libro di Daniele infatti non riguarda gli anni di governo di Baldassar che sostituì il padre Nabonide verso gli anni 549‐544 a.C44. L’autore colloca in un passato lontano la visione e la predizione di eventi futuri rispetto al momento fittizio della vi‐sione, eventi che sono invece passati (in parte) rispetto al tempo dell’autore e, soprattutto, dei let‐tori. Questi si trovano così nella fortunata condizione di poter verificare la veracità della visione (per la parte realizzata) e di poter dare credito ad essa per la parte ancora futura. Siamo insomma di fronte all’uso del vaticinium ex eventu, tipico dell’apocalittica. Il protagonista, Daniele, è una figura «tipica», rappresentante di una sapienza che non deriva da studio e applicazione umana (come la sapienza della tradizione), bensì da una rivelazione gratuita da parte di Dio (cfr. Dan 2,27.30), che però ha una destinazione pubblica: Daniele deve comunicare ad altri, gli Ebrei deportati in Babilonia, la sua visione.

b) La visione di Daniele (vv. 2b‐14)

1. La visione delle quattro bestie (vv. 2b‐8) 2bed ecco, i quattro venti del cielo si abbattevano impetuosamente sul Mare Grande 3e quattro grandi bestie, differenti l’una dall’altra, salivano dal mare. 4La prima era simile a un leone e aveva ali di aquila. Mentre io stavo guardando, le furono strappate le ali e fu sollevata da terra e fatta stare su due piedi come un uomo e le fu dato un cuore d’uomo. 5Poi ecco una seconda bestia, simile a un orso, la quale stava alzata da un lato e aveva tre costole in boc‐ca, fra i denti, e le fu detto: «Su, divora molta carne». 6Dopo di questa, mentre stavo guardando, eccone un’altra simile a un leopardo, la quale aveva quattro ali d’uccello sul dorso; quella bestia aveva quattro teste e le fu dato il potere. 7Dopo di questa, stavo ancora guardando nelle visioni notturne, ed ecco una quarta bestia, spaventosa, terribile, d’una forza straordinaria, con grandi denti di ferro; divorava, stritolava e il rimanente se lo met‐teva sotto i piedi e lo calpestava: era diversa da tutte le altre bestie precedenti e aveva dieci corna. 8Stavo osservando queste corna, quand’ecco spuntare in mezzo a quelle un altro corno più piccolo, da‐vanti al quale tre delle prime corna furono divelte: vidi che quel corno aveva occhi simili a quelli di un uomo e una bocca che proferiva parole arroganti.

Il «mare grande» è il Mediterraneo (cfr. Nm 34,6; Gs 1,6); ma più che di una localizzazione geogra‐fica si tratta di un simbolo: esso è collegato al caos primitivo e abitazione di forze ostili all’uomo (cfr. Ap 21,1). Le quattro bestie provengono appunto dal mare dove abitano i mostri. Il senso è evi‐dente: la storia degli uomini sarà sconvolta da questa presenza invadente di forze ostili e letteral‐mente «bestiali». Anche il numero delle bestie, quattro, non sembra casuale. Generalmente si considera Dan 7 come un parallelo stretto a Dan 2 (il sogno di Nabucodonosor: una statua composta di diversi materiali e che viene frantumata da un sasso non mosso da mano d’uomo). Ad es. la BJ spiega: «I quattro re‐gni che scompariranno davanti al Figlio dell’uomo corrispondono ai quattro metalli della statua demolita dalla pietra misteriosa»45. In realtà il parallelismo non è perfetto. La statua di Dan 2 è composta di cinque materiali e non quattro: il ferro, l’argilla, il bronzo, l’argento e l’oro (cfr. 2,35); e soprattutto la successione di questi materiali vuole indicare chiaramente il progressivo decadimen‐to del potere (i materiali sono sempre meno preziosi), tema che appare estraneo all’interesse di Dan 7.

44 Cfr. B. MARCONCINI, Daniele, in ID. (a cura di), Profeti e apocalittici, 234ss; G. BERNINI, Daniele (NVB 28), Roma 1976,

212. 45 BJ, 1931.


Il numero quattro simboleggia l’universalità: quattro sono le parti del cielo (i punti cardinali) se‐condo una percezione antropologica dello spazio; per questo sono quattro i venti che si abbattono sul mare (v. 2). I governanti babilonesi si attribuivano il titolo di «re dei quattro quarti» per indicare la terra in tutte le direzioni possibili. Anche nella Bibbia troviamo i quattro corni della terra (Is 11,12; Ez 7,2; Ap 20,8)46. Dunque, l’ottica della visione sembra più spaziale che temporale, più preoccupata di riempire tutto lo spazio che di cogliere la successione nel tempo. «Le quattro bestie designano i quattro grandi imperi situati nelle quattro parti del mondo: Babilonia a sud, la Media a nord, la Persia a est e l’impero fondato dai Greci a ovest»47. La prima bestia (Babilonia) è simile a un leone (forza), ha ali (capacità di levarsi sopra agli altri) di aquila (nobiltà). Subisce però una trasformazione che la umanizza: privazione delle ali, statura eret‐ta, cuore umano. Questo mutamento è positivo? significa cioè l’assunzione di caratteri meno be‐stiali? O, al contrario, è la privazione della forza e la riduzione a una condizione di debolezza pro‐pria dell’uomo?48 Propendiamo per la prima ipotesi; tutta la visione, infatti, gioca sul contrasto tra immagini bestiali e un’immagine umana: sarebbe strano che l’umanizzazione avesse qui implicanze negative. La seconda bestia (l’impero dei Medi), simile a un orso, è caratterizzata dalla voracità: ha tre costo‐le in bocca; le viene comandato di divorare molta carne. Hartman‐Di Lella informano che l’ursus sy‐riacus era relativamente piccolo di taglia, meno pericoloso del leone e attaccava solo quando veni‐va disturbato. Ma pare piuttosto alludere ai tre regni assoggettati all’impero medo49. La terza bestia (Persia) è simile a un leopardo; ha quattro ali d’uccello (meno nobili, dunque, delle ali d’aquila), quattro teste (quattro detentori di potere?50 ecumenicità?51). Naturalmente l’accento cade sulla quarta bestia (l’impero dei Greci). Le altre presentavano linea‐menti di animali noti; e questo ne ha in qualche modo mitigato l’aspetto orrendo. Della quarta be‐stia, invece, si dice solo che è «spaventosa, terribile, straordinariamente forte». Di fatto essa «divo‐rava, stritolava e il rimanente se lo metteva sotto i piedi e lo calpestava... Era differente da tutte le altre bestie». Può stupire quest’ultima espressione, dal momento che nel v. 3 si leggeva che tutte le bestie erano diverse l’una dall’altra. Ma qui si vuol dire che la quarta bestia non è paragonabile alle altre tre. «Aveva dieci corna», simbolo di una pienezza di forza. A questo punto (v. 8) si introduce qualcosa di inatteso: la storia di un undicesimo corno che spunta in mezzo agli altri e ne svelle tre che erano prima di lui. Cosa ancor più sorprendente, questo corno «aveva occhi simili a quelli di un uomo e una bocca che parlava con alterigia». La dimensione alle‐gorica della visione prevale sull’immagine: un corno con occhi e bocca che pronuncia parole altere sfida ogni immaginazione. Siamo di fronte a una pura e semplice codificazione della realtà che ge‐neralmente è identificata con Antioco IV Epifane. Si tratta infatti di un re particolarmente ostile a Dio: le parole arroganti indicano la volontà di porsi al posto che spetta a Dio solo. La hybris di An‐tioco Epifane è descritta in Dan 11,36 e più ampiamente nel primo libro dei Maccabei. Decodificare in modo più particolareggiato i dieci corni e i tre che vengono divelti è problematico. Il senso generale del testo è comunque chiaro.

46 Sul simbolismo dei numeri, cfr. P. GRELOT, in EncBib 5, 176‐178. 47 DELCOR, Studi sull’apocalittica, 143s. Quest’autore nota che i regni sono enumerati nello stesso ordine (sud, nord,

est, ovest) secondo il quale la cosmologia mesopotamica (Enuma Elish) enumera i quattro venti. 48 La questione è discussa in J. A. MONTGOMERY, The Book of Daniel (ICC), Edinburgh 1927, 287. 49 Cfr. Bibbia TOB, 1636. 50 Così HARTMAN – DI LELLA (The Book of Daniel, 213), i quali ricordano i soli quattro re dell’impero persiano noti al

nostro autore: Ciro, Assuero, Artaserse e Dario il persiano. 51 È l’opinione di T. Kliefoth; cfr. MONTGOMERY, The Book of Daniel, 290.


2. L’insediamento del tribunale (vv. 9‐10) 9Io continuavo a guardare, quand’ecco furono collocati troni e un vegliardo si assise. La sua veste era candida come la neve e i capelli del suo capo erano candidi come la lana; il suo trono era come vampe di fuoco con le ruote come fuoco ardente. 10Un fiume di fuoco scorreva e usciva dinanzi a lui, mille migliaia lo servivano e diecimila miriadi lo assistevano. La corte sedette e i libri furono aperti.

Finora la scena si svolgeva sulla terra. Ma ciò che avviene sulla terra (imperi, guerre e vittorie) non dice l’ultima parola sulla storia. C’è un giudizio, sottratto al controllo dell’uomo, che definisce il va‐lore di ciò che accade nel mondo. È il senso di questa sezione: «Furono collocati troni... La corte sedette e i libri furono aperti»: c’è una sovranità che ancora non s’era manifestata e che tuttavia domina la storia del mondo. «I libri furono aperti»: M. Delcor avverte di distinguere questo libro da altre immagini simili pre‐senti nella Scrittura: il libro della Vita, sul quale sono scritti i nomi dei predestinati alla beatitudine (Lc 10,20; Ap 3,5...); il libro dei sette sigilli che contiene la volontà di Dio sul mondo e sulla storia (Ap 5,1‐8). Nel nostro caso, invece, si tratta del libro del giudizio che determina la sentenza finale52. L’intera sezione, però, è dominata dalla figura del «vegliardo» che si siede sul trono. Vengono de‐scritti la sua veste, i suoi capelli, il trono, le ruote del trono, la scena che si svolge davanti a lui. L’espressione ‘attîq yômîn, «antico di giorni», non ha paralleli nella Bibbia; l’unico riferimento po‐trebbe essere a Is 9,5 dove il re messianico è chiamato ’ăbî‐‘ad, «padre d’eternità». Il contatto però si ha solo nel significato, non nei termini usati (d’altra parte, anche l’interpretazione del testo isaia‐no non è senza contestazioni). In un testo ugaritico il Dio supremo, ’El, viene chiamato mlk ab šnm e cioè «re, padre di anni»53. L’espressione «l’antico di giorni» applicata a Dio non manca comunque di stupire54. San Girolamo spiega: «Senex quoque describitur, ut maturitas comprobetur senten‐tiae»55. La scena presenta Dio come giudice; ora, un giudice deve essere maturo, equilibrato, ricco di esperienza, insomma anziano. Il giudizio sulla storia è lasciato a un Dio ricco di anni, di cono‐scenza e di saggezza. La veste candida del vegliardo simboleggia una maestà non contaminata da macchia alcuna; i ca‐pelli bianchi suscitano rispetto e venerazione. Il trono e le ruote richiamano da vicino la straordina‐ria visione del c. 1 di Ezechiele, sulla quale si eserciterà con predilezione la riflessione teologica e la mistica ebraica. Per tre volte ricorre il simbolo del fuoco: è vampe di fuoco il trono; sono fuoco ardente le ruote; un fiume di fuoco scende davanti al vegliardo. «I due effetti del fuoco – da un lato illuminare e riscal‐dare, dall’altro distruggere – l’hanno fatto divenire simbolo del divino e anche del demoniaco... Nell’AT il fuoco è una delle immagini preferite per l’essere e l’agire di Dio»56; cfr. Es 3,2; 13,21; 19,18; 24,17... «Il fiume di fuoco che scaturiva dalla presenza divina denota l’irresistibilità dell’energia divina. Da accostare a Sal 50,3 ‘davanti a lui un fuoco divorante’... Questo fiume poten‐te esegue anche lo ḥērem divino: c’è un collegamento con la distruzione delle bestie nel fuoco che viene annunciata nel seguito: v. 11»57. Va notata infine la presenza di un numero immenso di ministri che assistono il vegliardo. È un ele‐mento immancabile nella descrizione di una corte, in particolare della corte divina: Dt 33,3; 1Re 22,19... Certo, Dio non ha bisogno di nessuno per esercitare il suo potere: i diversi ministri non so‐

52 DELCOR, Studi sull’apocalittica, 151. 53 In realtà questa lettura dell’ugaritico è contestata. Di solito, infatti, il plurale di sn/snt è snt, non snm. Così C. H.

GORDON, Ugaritic Textbook, Roma 1965, 492, interpreta snm come «nome di un figlio di ’El». Di parere opposto è, inve‐ce, M. DAHOOD, Ugaritic‐Hebrew Philology, Roma 1965, 48.

54 «Ci si aspetterebbe piuttosto che si parlasse della sua eternità... Così (Charles) si domanda se non si debba sup‐porre nel testo primitivo ‘come un Antico di Giorni’» (DELCOR, Studi sull’apocalittica, 149).

55 Comm. in Dan. II, VII, 9b (CChr.SL LXXVA, 845; PL XXV, 532). 56 M. LURKER, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Cinisello B. (Mi) 1990, 89. 57 MONTGOMERY, The Book of Daniel, 298.


no un sostegno alla sua debolezza, ma piuttosto il segno di una forza che dispone di una moltitudi‐ne di creature angeliche.

3. Il giudizio sulle bestie (vv. 11‐12) 11Continuai a guardare a causa delle parole arroganti che quel corno proferiva, e vidi che la bestia fu uc‐cisa e il suo corpo distrutto e gettato a bruciare nel fuoco. 12Alle altre bestie fu tolto il potere e la durata della loro vita fu fissata fino a un termine stabilito.

Insediata la corte, ci aspetteremo la promulgazione della sentenza. In realtà, questa non viene de‐scritta; viene narrata, invece, la sua esecuzione: prima per la quarta bestia, poi per le prime tre. Tutte le bestie debbono sopportare un giudizio e una punizione. Il giudizio, però, ha una gravità particolare per la quarta bestia a motivo dell’empietà di quel corno che sorge da lei: essa viene uc‐cisa, il suo corpo distrutto e totalmente bruciato. La punizione per le altre bestie è minore; non vengono uccise, ma solo private del potere che pre‐sumevano di esercitare. Ricondotte a una dimensione di limite, viene loro concesso un tempo in‐definito di sopravvivenza. L’espressione aramaica ‘ad zeman we‘iddān è di per sé vaga: «si vuole in‐dicare che a ciascuna delle prime tre bestie fu dato un prolungamento di vita non uguale per tutte, ma particolare a ciascuna di loro»58. Questo particolare ci fa riconoscere che non siamo di fronte al giudizio escatologico, bensì a un giudizio storico, dopo il quale la storia continua, anche se è cessa‐to l’esercizio incontrollato di un potere bestiale.

4. L’apparizione di un figlio d’uomo (vv. 13‐14) 13Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. 14Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto.

Il giudizio divino è anzitutto un giudizio di condanna che distrugge tutto ciò che nella storia è por‐tatore di ingiustizia e di empietà; ma è anche giudizio di salvezza che apre la strada a un nuovo or‐dine di cose nel mondo. Sono le due facce degli oracoli profetici, presenti ugualmente nel messag‐gio apocalittico. Rileviamo il parallelismo tra questa parte della visione attuale e quella precedente: – Nella prima visione tutto emerge dal mare, simbolo di caos e di forze ostili all’uomo; ora tutto si muove nel contesto del cielo, simbolo di ordine e sicurezza. – Nella prima visione si parla di quattro bestie; ora vediamo invece una figura umana (bar enāš, un figlio d’uomo). – Le bestie operano sulla terra secondo il proprio istinto e vengono sottomesse a un giudizio che consiste nella privazione del loro potere; il figlio d’uomo viene presentato al vegliardo e da lui rice‐ve il potere. – Alle prime tre bestie viene concessa una provvisoria sopravvivenza («fino a un termine stabilito di tempo»); al figlio d’uomo viene donato un potere «eterno, che non tramonta mai». In sintesi: a una serie di poteri «bestiali» si contrappone un potere finalmente «umano». Questo potere umano è dato dal vegliardo, cioè da Dio stesso. Questa parte della visione corrisponde alla faccia positiva, salvifica, dell’intervento di Dio. L’affermazione che l’umanità intera (popoli, nazioni e lingue) servirà il figlio d’uomo esprime certo una sottomissione, ma una sottomissione libera e liberante: il verbo plḥ = ebr. ‘bd) è spesso usato nel libro di Daniele per esprimere il servizio di Dio (3,12.14.17...).

58 BERNINI, Daniele, 219.


c) L’interpretazione della visione (vv. 15‐27)

L’interpretazione della visione si compone di due parti: la prima (vv. 15‐18) riguarda il complesso delle bestie e il figlio d’uomo; la seconda (vv. 19‐27) si sofferma piuttosto sulla quarta bestia e le sue corna.

1. Spiegazione della visione delle bestie (vv. 15‐18) 15Io, Daniele, mi sentii agitato nell’animo, tanto le visioni della mia mente mi avevano turbato; 16mi acco‐stai a uno dei vicini e gli domandai il vero significato di tutte queste cose ed egli me ne diede questa spiegazione: 17«Le quattro grandi bestie rappresentano quattro re, che sorgeranno dalla terra; 18ma i san‐ti dell’Altissimo riceveranno il regno e lo possederanno per sempre, in eterno».

Rientra nella scena il veggente. Daniele è «turbato», il suo spirito indebolito; la visione sembra ri‐chiedere uno sforzo psichico tremendo, provoca ansia e incertezza. Il veggente si trova in una con‐dizione interiore di tensione fino a che non viene offerta una spiegazione. Questa è richiesta «a uno dei vicini», si intende uno di coloro che assistono il vegliardo e lo servono (v. 10). Daniele quindi non è solo spettatore della visione; vi prende parte dall’interno, tanto da po‐ter interloquire coi personaggi. Secondo la tradizione biblica i profeti prendono parte al consiglio nel quale Dio, insieme alla sua corte, prende le decisioni che riguardano il governo del mondo (1Re 22,19ss; Is 6,8; Ger 23,22). Il veggente ha un’esperienza simile; ma il consiglio di Dio si è tradotto ora in una visione simbolica, misteriosa, che necessita di una spiegazione soprannaturale. Di qui l’importanza nella letteratura apocalittica dell’angelo interprete, figura che permette di unire la mi‐steriosità della rivelazione e la sua comprensione. La parola di Dio appare così sempre più miste‐riosa, la sua comprensione sempre più dono gratuito. Gli inizi di questa figura sono riconoscibili nel libro di Zaccaria e nell’ultima parte di Ezechiele (cc. 40–48), dove il profeta è accompagnato da un angelo nella sua perlustrazione del tempio futuro59. L’interpretazione è di una semplicità lineare: le quattro bestie rappresentano quattro re; il figlio d’uomo rappresenta i santi dell’Altissimo. Si noterà il passaggio dalla figura individuale di un re (v. 17) alla realtà collettiva dei «regni»60. Si può spiegare il passaggio facendo ricorso al concetto di «personalità corporativa» quale è stato elaborato da H. Wheeler Robinson61 e J. de Fraine62. In questa prospettiva non è necessario chiedersi se le bestie e il figlio d’uomo rappresentino dei re o dei regni. La differenza tra le bestie che «sorgono dalla terra» e i santi dell’Altissimo ai quali viene dato il re‐gno equivale al contrasto tra una sovranità che cerca in se stessa il proprio fondamento e una so‐vranità che viene ricevuta da Dio ed è perciò esercitata con un riferimento a lui. Il regno appartiene in linea di principio a Dio che lo consegna ai santi dell’Altissimo. È spontaneo pensare alla regalità che Gesù proclama di avere davanti a Pilato, quando egli parla di un regno che non è di questo mondo, ossia non si fonda su motivazioni mondane ma su una investitura divina. Naturalmente l’origine della sovranità ne determina anche la struttura interna, la qualità, l’esercizio. Nei «santi dell’Altissimo» ai quali viene consegnato il regno M. Noth, riprendendo una spiegazione antica, vede gli angeli63. A sostegno di questa ipotesi si possono citare numerosi testi biblici (Sal 89,6.8; Gb 5,1; 15,15; Prv 9,10...) e di Qumran (1QS 11,7s; 1QH 3,21). Si può obiettare, con M. Del‐

59 Cfr. COLLINS, Daniel, 7s. 60 Così chiaramente il TM: malkûtā’. La Bibbia Cei omette il termine nella sua traduzione. 61 The Hebrew Conception of Corporate Personality, in ZAW 66 (1936) 49‐61. 62 In Adamo e la sua discendenza, Roma 1968. Ecco la definizione che l’autore propone: «Un gruppo può essere

considerato come esercitante la sua attività in un sol membro individuale, il quale rappresenta il gruppo così comple‐tamente da diventare identico ad esso. Grazie a una notevole fluidità di pensiero, si passa facilmente dalla comunità all’individuo che la rappresenta e dall’individuo alla comunità, senza che ci sia coscienza riflessa di una transizione» (ivi, 58).

63 M. NOTH, Die Heiligen des Höchstens, in Gesammelte Studien, München 1957; vedi anche C. COLPE, hyiòs toù an‐thrópou, in GLNT 14, 327‐328.


cor64, che Daniele non ha qui di vista un regno escatologico, ma un regno che si innesta concreta‐mente nella storia, pur essendo eterno e universale; il testo parla del popolo d’Israele considerato nella sua qualità di «nazione santa» (Es 19,6) a motivo dell’elezione e dell’alleanza che ne ha fatto il popolo di un Dio santo (Lev 11,44‐45...). La visione viene spiegata dunque come annuncio di un regno futuro che si contrappone a regni presenti; mentre questi provengono dalla terra e possono essere qualificati come bestiali, il regno futuro sarà dono di Dio e può essere definito «umano».

2. Seconda parte della spiegazione: la quarta bestia (vv. 19‐27) 19Volli poi sapere la verità intorno alla quarta bestia, che era diversa da tutte le altre e molto spaventosa, che aveva denti di ferro e artigli di bronzo, che divorava, stritolava e il rimanente se lo metteva sotto i piedi e lo calpestava, 20e anche intorno alle dieci corna che aveva sulla testa e intorno a quell’ultimo cor‐no che era spuntato e davanti al quale erano cadute tre corna e del perché quel corno aveva occhi e una bocca che proferiva parole arroganti e appariva maggiore delle altre corna. 21Io intanto stavo guardando e quel corno muoveva guerra ai santi e li vinceva, 22finché venne il vegliardo e fu resa giustizia ai santi dell’Altissimo e giunse il tempo in cui i santi dovevano possedere il regno. 23Egli dunque mi disse: «La quarta bestia significa che ci sarà sulla terra un quarto regno diverso da tutti gli altri e divorerà tutta la terra, la schiaccerà e la stritolerà. 24Le dieci corna significano che dieci re sorge‐ranno da quel regno e dopo di loro ne seguirà un altro, diverso dai precedenti: abbatterà tre re 25e profe‐rirà parole contro l’Altissimo e insulterà i santi dell’Altissimo; penserà di mutare i tempi e la legge. I santi gli saranno dati in mano per un tempo, tempi e metà di un tempo. 26Si terrà poi il giudizio e gli sarà tolto il potere, quindi verrà sterminato e distrutto completamente. 27Allora il regno, il potere e la grandezza dei regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo, il cui regno sarà eterno e tutti gli imperi lo serviranno e gli obbediranno».

Il veggente continua a interrogare. Ciò che gli è stato rivelato non scioglie il mistero più grande: quello della quarta bestia e delle sue corna. Nella domanda esplicita vengono ripetuti gli elementi della prima descrizione: i vv. 19‐20 ripetono, infatti, i vv. 7‐8. Uniche differenze: gli artigli di bronzo (di questi non si parlava nel v. 7), nonché l’affermazione che riguarda l’undicesimo corno: «appari‐va maggiore delle altre corna»; al v. 8 questo corno era stato invece definito come «più piccolo»! Il Bernini spiega: la piccolezza del corno «potrebbe essere un’allusione agli inizi del regno dei Seleu‐cidi di Siria, ingranditosi in seguito a scapito degli altri regni greci»65. I vv. 21‐22 completano la visione stessa parlando di una lotta che il quarto corno ingaggia contro i santi, con un primo risultato negativo: «quel corno muoveva guerra ai santi e li vinceva». Ma quando entra in scena il vegliardo avviene un capovolgimento delle sorti: allora «fu resa giustizia ai santi dell’Altissimo e giunse il tempo in cui i santi dovevano possedere il regno». La quarta bestia indica un re/regno diverso dai precedenti66, che divora tutta la terra. Ciò corri‐sponde al modo in cui era stato percepito il regno di Alessandro Magno: «Arrivò sino ai confini del‐la terra e raccolse le spoglie di molti popoli. Tutta la terra si ridusse in silenzio davanti a lui» (1Mac 1,3). Le dieci corna indicano dieci re che nascono dal regno di Alessandro; si tenta di identificarli con i re seleucidi67. È facile comunque riconoscere nell’undicesimo corno il re Antioco IV Epifane. Questo re, con la sua politica intesa a imporre un’unica religione in tutto il regno (cfr. 1Mac 1,41‐42), mise a dura prova la fedeltà di Israele alle leggi e alle tradizioni. Esaminiamone la descrizione:

64 Cfr. M. DELCOR, Le livre de Daniel (SB), Paris 1971, 157. 65 BERNINI, Daniele, 216. 66 Forse perché «mentre i tre primi regni sono all’oriente e la loro cultura è orientale, il quarto, quello greco, viene

dall’occidente e la sua cultura è diversa da quelle orientali» (BERNINI, Daniele, 224). Ma forse la «diversità» è un modo per sottolineare la figura terribile di un regno irriducibile a qualsiasi esperienza precedente. Si noti che nel v. 24 l’undicesimo corno viene definito «diverso dai precedenti».

67 La lista che riscuote più consensi è la seguente: Seleuco I Nicatore, Antioco I Sotere, Antioco II Theós, Seleuco II Callinico, Seleuco III Sotere, Antioco III il Grande, Seleuco IV Filopatore, Demetrio I Sotere, Antioco suo fratello, Tolo‐meo Filometore.


– «Proferirà insulti contro l’Altissimo»; segno di un’empietà che non riconosce la sovranità di Dio e s’illude di poterla combattere e vincere. Cfr. 1Mac 1,21.24: «Entrò con arroganza (en yperfanía) nel santuario... Parlò con grande arroganza». «L’orgoglio di Epifane, che s’identificava a Zeus, aveva colpito i suoi contemporanei che, giocando sul nome, lo chiamavano epimanês, ‘pazzo’»68. – «Distruggerà (forse meglio ‘affliggerà’) i santi dell’Altissimo»; allusione evidente alla persecuzione che Antioco scatenerà contro gli Israeliti fedeli alla legge. Ne parlano i libri dei Maccabei. – «Penserà di mutare i tempi (zimnîn) e la legge (dāt)». «Mutare i tempi» dovrebbe fare riferimen‐to all’introduzione di un nuovo calendario, intesa però come misura strettamente religiosa: un ten‐tativo di sostituire all’anno liturgico ebraico un nuovo calendario di feste. Di fatto Antioco IV volle introdurre nel tempio di Gerusalemme il culto di Baal Shamin (Dan 9,27; 11,31: l’abominio della desolazione!). Il mutamento della legge (del diritto) va riferito al tentativo di ellenizzazione che questo re ha compiuto; cfr. 1Mac 1,41‐64. La durata di questo tempo di persecuzione e di angoscia è fissata in «un tempo, due tempi e la me‐tà di un tempo». Siccome in 4,13 il termine ‘iddan indica un anno, ne viene una durata di tre anni e mezzo. Più che verificare l’esattezza cronologica dell’indicazione, vale la pena coglierne il significa‐to: la lotta sarà lunga e metterà alla prova la perseveranza nella fede; ma sarà pur sempre una pro‐va limitata nel tempo, dalla quale il popolo di Dio uscirà purificato e vittorioso. Per i vv. 26‐27, vedi sopra.

d) Conclusione (v. 28) 28Qui finisce il racconto. Io, Daniele, rimasi molto turbato nei pensieri, il colore del mio volto cambiò e conservai tutto questo nel cuore.

Rimane da sigillare la visione. L’ultimo versetto esprime l’effetto della visione sul veggente: i pen‐sieri sconvolti (i pensieri dell’uomo si sono incontrati col pensiero di Dio e ne escono agitati), il co‐lore mutato (non era mutato il volto di Mosè dopo aver parlato con Dio?), il cuore riempito di un messaggio nuovo. Si noti che il termine tradotto dalla Cei «relazione» è in aram. milleta’, cioè «pa‐rola»; anche la visione entra nella categoria centrale della rivelazione biblica, la parola di Dio.

III. IL FIGLIO DELL’UOMO

Il problema più delicato e discusso di Dan 7 riguarda la figura per certi aspetti misteriosa del «figlio d’uomo». È noto che questa espressione è stata usata frequentemente da Gesù e pone una serie di interrogativi agli esegeti del NT. Non c’è quindi da stupirsi se questi interrogativi ricadono sul testo di Daniele. Qual è il significato preciso dell’espressione «figlio d’uomo» così come si trova in Dan 7? Qual è la sua origine? Si possono cioè indicare fonti dalle quali l’autore può aver attinto questa immagine? Come è stata interpretata la figura del «figlio d’uomo» nell’esegesi ebraica e cristiana? Tentiamo nel seguito di affrontare alcuni di questi problemi69.

a) Qual è il senso preciso dell’espressione «figlio d’uomo»?

J. Wellhausen70 propone la seguente spiegazione: «figlio d’uomo» è espressione semitica del tutto equivalente al semplice termine «uomo». Nell’espressione «figlio di x» la prima parte «figlio di...» indica con chiarezza l’appartenenza a una categoria generale; il termine «x» è invece un collettivo all’interno del quale si vuole evidenziare un individuo. Così, ad esempio «figli d’Israele» vuol dire esattamente «appartenenti alla comunità d’Israele», «figli della deportazione» sono i deportati, «figlio di forza» è un uomo fisicamente valido71. Di conseguenza, l’aramaico «figlio di uomo» non

68 BJ, 938. 69 Essenziale presentazione del problema in B. MARCONCINI, Daniele (LoB 1.22), Brescia 1982, 87‐94, con breve bi‐

bliografia a p. 122s. 70 J. WELLHAUSEN, Einleitung in die drei ersten Evangelien, Berlin 21911, 123‐130. 71 G. FOHRER elenca una serie di esempi in GLNT 14, 136‐139.


dice altro che «uomo»; il greco del NT non è che un calco del semitico. Nell’espressione bar enāš il termine enāš esprime l’idea della specie umana (come l’ebraico ’ādām) e il termine bar, figlio, indi‐ca l’individuo che appartiene alla specie umana. Tuttavia, un semitista come G. Dalman72 ha osservato che l’espressione «figlio d’uomo» non è af‐fatto frequente, anzi è così rara da dover essere considerata curiosa se non straordinaria, per cui non dovrebbe essere intesa come un modo di dire anodino, bensì scelto ed enfatico; sarebbe ridut‐tivo tradurla con «uomo», meglio conservare la stranezza del composto «figlio d’uomo»73.

b) Da dove Daniele ha preso questa espressione?

Tra le numerose ipotesi proposte74 ne richiamiamo solo alcune seguendo M. Delcor75. a) In base all’assioma, secondo il quale tempo delle origini e tempo della fine corrispondono stret‐tamente tra loro, per spiegare la struttura del tempo finale H. Gunkel76 ricorre ai miti delle origini. Nel mito babilonese dell’Enuma Eliš si parla della creazione come di una vittoria sul caos: il dio Marduk ha combattuto e vinto l’oceano primordiale (il dio Tiamat) e da questa vittoria ha avuto origine la creazione. Allo stesso modo, in Dan 7 le bestie che escono dal mare e rappresentano il caos (come Tiamat) vengono sconfitte e private del loro potere. Tuttavia un confronto attento mostra le differenze: il testo di Daniele non presenta affatto quella teomachia che è il centro dell’interesse nel mito babilonese. D’altra parte, mentre Marduk deve combattere aspramente per annientare il caos, del «figlio d’uomo» si dice semplicemente che rice‐ve il potere dall’Antico di giorni; non deve combattere né faticare, né la sovranità assoluta di Dio è mai in forse. b) Un’altra teoria fa invece appello alla mitologia iranica, ove si trova la figura dell’uomo primordia‐le (Gayomart, lett. «vita mortale») il cui seme sta all’origine della prima coppia umana; questo uo‐mo primordiale è un’immagine ridotta del mondo stesso e sembra identificarsi con il Saoshyant (lett.: «colui che prospererà»), termine generico col quale vengono designati i salvatori attesi per il rinnovamento finale. Quindi «uomo‐salvatore», uomo dell’inizio che opera la salvezza della fine. I problemi relativi all’interpretazione di questo mito sono gravi e intricati. Comunque, «agli antichi Israeliti era del tutto sconosciuto l’uomo primordiale. Adamo, il primo uomo, non ha nulla a che vedere con l’uomo primordiale della cosmogonia iranica o con l’Anthropos della mitologia ellenisti‐ca»77. Come nota giustamente A. Feuillet: «Ciò che vi è di comune in tutte queste concezioni è che l’Uomo primordiale ritorna alla fine dei tempi per abbattere le potenze avversarie; insomma, è l’uomo che si salva da sé; nella Bibbia, invece, è Dio solo che salva»78. c) Gli studiosi si rivolgono oggi di preferenza all’AT per trovarvi le radici della visione di Daniele. Chi si appella alla tradizione messianica quale è testimoniata in testi come Is 9,5 o Mic 5,1: il figlio d’uomo sarebbe così una figura di salvatore messianico. Altri preferiscono vedervi un richiamo ai testi di intronizzazione regale, come il salmo 2: il figlio d’uomo riceve da Dio un potere eterno e universale. Altri ancora rimandano alla sapienza, che alcuni testi (per es. Prv 8) presentano come preesistente. È stato notato infine che l’espressione «figlio d’uomo» è usata con una notevole fre‐quenza nel libro di Ezechiele per indicare il profeta stesso79. Nel testo citato M. Delcor conclude: «La nozione di ‘Figlio d’Uomo’ in Dan 7 mi pare piuttosto con‐nettersi alla simbolica che rappresenta gli imperi con gli animali. Se i quattro imperi pagani erano

72 G. DALMAN, Die Worte Jesu, I, Leipzig 1898, 191ss. 73 Cfr. l’aggiornamento di queste affermazioni in DELCOR, Studi sull’apocalittica, 159. 74 Una rassegna con ampia bibliografia in COLPE, hyiòs toù anthrópou, 289‐325. 75 DELCOR, Studi sull’apocalittica, 152‐160. 76 H. GUNKEL, Schöpfung und Chaos in Urzeit und Endzeit, Göttingen 1895. 77 DELCOR, Studi sull’apocalittica, 155. 78 A. FEUILLET, Le Fils de l’Homme de Daniel et la tradition biblique, in RB 60 (1953) 177. L’art. comprende le pp. 170‐

202 e 321‐346. 79 Le diverse opinioni sono accuratamente vagliate da DELCOR, Studi sull’apocalittica, 155ss.


simboleggiati dagli animali più o meno mostruosi, era conveniente che il popolo di Dio e il suo re fossero designati da una realtà più nobile e, in ogni caso, superiore alle bestie. Le convenienze era‐no in tal modo rispettate e, nella misura in cui il regno dei santi implicava la nozione di re, la con‐nessione con il messianismo tradizionale era conservata»80.

c) Si tratta di una figura terrena, ossia di un uomo, oppure di un essere celeste?

L’alternativa tra interpretazione individuale e interpretazione collettiva è sembrata inadeguata, non corrispondendo alla mentalità ebraica. Se in Dan 7 il figlio d’uomo simboleggia «i santi dell’Altissi‐mo» (v. 18), le quattro bestie rappresentano quattro re (v. 17). Si può pensare che l’individualità dell’immagine sia stata suggerita dal tema del potere: questo è consegnato a un gruppo di perso‐ne: i «santi» (ossia il popolo santo di Dio); ma a livello di immagine, la consegna richiedeva una fi‐gura individuale. D’altra parte, a rigore non si dovrebbe parlare di «un figlio d’uomo» per il libro di Daniele, ma solo della figura di uno «come figlio d’uomo». Sia le quattro bestie sia il figlio d’uomo sono all’interno di una visione simbolica. A. Feuillet sostiene che il «figlio d’uomo» è una figura celeste e divina, preesistente. Infatti Daniele è in stretto rapporto con l’Antico di giorni che è certo una figura divina. Inoltre, la nube è un ele‐mento tradizionale delle teofanie (cfr. Es 19,9; 40,34‐38; Sal 18,10; 97,2; ecc.). In conclusione, se‐condo il Feuillet, «il Figlio dell’uomo di Daniele appartiene nettamente alla categoria del divino ed è come una sorta d’incarnazione della gloria divina, allo stesso titolo per cui lo è la figura umana contemplata da Ezechiele (1,26)». Di conseguenza, egli legge Dan 7 come una scena d’intro‐nizzazione, facendo addirittura riferimento alla preesistenza della Sapienza e alla sua funzione dot‐trinale (cfr. Prv 8; Sir 1,1‐10; Bar 3,9–4,4). La maggior parte degli esegeti non vede però in questo testo una teofania. È vero che alcuni manoscritti dei LXX sembrano identificare il figlio d’uomo e l’Antico di giorni, ma questo non è certo il senso del TM. Inoltre – come M. Delcor ha dimostrato – nei testi apocalittici la nube può essere anche solo un mezzo di trasporto e non indicare nessuna provenienza celeste81. Di più, non è certo che il figlio d’uomo rappresenti direttamente un re o un popolo. Secondo C. Colpe, «le quattro bestie rappresentano imperi universali che hanno esercitato un dominio; a colui che è simile a un uomo viene attribuito un eterno potere escatologico. L’elemento comune (ter‐tium comparationis) tra le bestie e l’uomo non è quindi la rappresentanza di un gruppo, ma soltan‐to l’esercizio del potere. Perciò colui che è simile ad un uomo non è il rappresentante di un deter‐minato popolo o di un determinato regno, bensì un simbolo del dominio escatologico conferito da Dio. Come tale egli accenna a rappresentazioni messianiche senza essere egli stesso un messia; so‐lo successivamente ci si chiese chi potesse essere colui al quale era assegnato quel regno messiani‐co a cui faceva pensare un simbolo di dominio»82.

d) L’immagine del «figlio d’uomo» nella letteratura ebraica

L’immagine del «figlio d’uomo» è stata ripresa nella letteratura ebraica, ove ha acquistato un’im‐portanza notevole. Anche queste riletture fanno parte dell’interpretazione di Daniele. «Ci sono al‐cuni elementi che fanno pensare che Dan 7,9‐14 fosse interpretato messianicamente verso la fine del sec. I d.C. (4Esdra 13). In seguito l’interpretazione messianica è attestata solo sporadicamente nella letteratura rabbinica ed è basata sulla menzione dei due troni in Dan 7,9 piuttosto che sulla menzione di ‘uno come figlio d’uomo’ in 7,13»83. Sono soprattutto due i testi che vengono in que‐stione: il libro di Enoc (in particolare la sezione delle parabole) e il Quarto libro di Esdra.

80 DELCOR, Studi sull’apocalittica, 160. 81 DELCOR, Le livre de Daniel, 155. 82 GLNT 14, 328s. 83 D. E. AUNE, Son of Man, in ISBE, 41988, vol. 4, 575.

Introduzione allo studio della letteratura profetica biblica · 2021. 2. 22. · dell’impero...

Documents

Transcript of Introduzione allo studio della letteratura profetica biblica · 2021. 2. 22. · dell’impero...