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Il libro

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Il libro

Percy Jackson si è risvegliato alla Casa del Lupo, nel Campo dei semidei Romani,

senza alcun ricordo a parte il nome di Annabeth. Proprio mentre sta andando a

salvarlo, la ragazza scopre che tra Greci e Romani sta per scatenarsi la guerra e, a

bordo della nave volante Argo II, cerca di raggiungere il Campo Giove insieme a

Jason e Piper. Certo il natante, che ospita a bordo un enorme drago di bronzo, non

ha un’aria amichevole: i Romani capiranno che la loro è una missione di pace? E la

pace, quanto durerà? Atena, infatti, ha affidato ad Annabeth, sua figlia, un terribile

compito: «Segui il marchio di Atena. Vendicami.»

Per impedire la catastrofe e placare l’ira della dea, il gruppo di eroi dovrà

intraprendere un viaggio per terra e per mare alla volta della splendida e feroce

Roma.

L’autore

Autore di successo per ragazzi e adulti, è stato premiato con i riconoscimenti più

importanti del genere mystery. Dopo aver insegnato inglese per quindici anni, ora

si dedica a tempo pieno alla scrittura e vive a Boston con la moglie e i due figli.

Le saghe ―Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo‖ e ―The Kane Chronicles‖,

entrambe pubblicate da Mondadori, sono un successo mondiale da 35 milioni di

copie.

RICK RIORDAN

IL MARCHIO DI ATENA

traduzione di Loredana Baldinucci e Laura Melosi A Speedy.

Randagi e vagabondi sono spesso un dono degli dei

ANNABETH

Prima di fare la conoscenza della statua esplosiva, Annabeth pensava di essere

pronta a tutto.

Aveva percorso a grandi passi il ponte della nave da guerra volante, l’Argo II,

controllando e ricontrollando le baliste per accertarsi che fossero cariche. Aveva

verificato che la bandiera, bianca simbolo della pace, sventolasse sull’albero

maestro. Aveva rivisto il piano con il resto dell’equipaggio, più il piano di riserva e

il piano di riserva del piano di riserva.

Soprattutto, aveva preso da parte il loro accompagnatore guerrafondaio – il coach

Gleeson Hedge – e lo aveva convinto a prendersi la mattinata libera in cabina per

godersi le repliche dei campionati di arti marziali. L’ultima cosa di cui avevano

bisogno mentre conducevano una magica trireme greca in un campo romano

potenzialmente ostile era un satiro di mezza età in tuta da ginnastica che gridava

―A morte!‖ agitando una mazza.

Sembrava tutto in ordine. Perfino quella misteriosa sensazione di gelo che aveva

avvertito fin dal decollo era sparita, almeno per il momento.

La nave da guerra stava calando tra le nuvole, ma Annabeth non riusciva a

smettere di tormentarsi. E se si fosse rivelata una pessima idea? E se i Romani si

fossero spaventati e li avessero attaccati a vista?

L’Argo II non aveva un aspetto amichevole. Con i suoi sessanta metri di

lunghezza, lo scafo rivestito di bronzo, le balestre montate da prua a poppa, il

drago metallico sputafuoco a mo’ di polena e le due baliste rotanti al centro, armate

di proiettili esplosivi in grado di squarciare il cemento… be’, non era il mezzo più

appropriato per presentarsi amabilmente ai nuovi vicini di casa.

Annabeth aveva cercato di mettere sull’avviso i Romani. Aveva chiesto a Leo di

mandare una delle sue invenzioni speciali – una pergamena olografica – ad

allertare i loro amici all’interno del campo. Si augurava che l’avessero ricevuta.

Leo avrebbe voluto dipingere un messaggio gigante sullo scafo – EHILÀ! con una

faccina sorridente – ma lei si era opposta. Non era certa che i Romani avessero un

gran senso dell’umorismo.

Ormai era troppo tardi per ripensarci.

Le nuvole intorno allo scafo si dispersero, rivelando il tappeto verde e dorato delle

colline di Oakland.

Annabeth si aggrappò a uno degli scudi di bronzo disposti lungo tutto il parapetto

di dritta. I suoi tre compagni presero posizione.

Sul cassero di poppa, Leo si aggirava come un matto, controllando manometri e

leve. La maggior parte dei timonieri si sarebbe accontentata di una barra o di una

ruota del timone. Lui aveva installato anche una tastiera, un monitor, i comandi di

un jet, una console da DJ e i sensori di movimento di una Wii. Poteva invertire la

rotta della nave tirando la cloche, fare fuoco campionando un album o alzare le

vele scuotendo rapidamente il telecomando della Wii. Perfino per gli standard

semidivini, Leo era un iperattivo coi fiocchi.

Piper faceva avanti e indietro tra l’albero maestro e le baliste, ripetendo la sua

parte. — Abbassate le armi — mormorò. — Vogliamo solo parlare.

La sua lingua ammaliatrice era così potente che Annabeth fu assalita dal desiderio

di gettare il pugnale e farsi una bella chiacchierata.

Per essere una figlia di Afrodite, Piper faceva l’impossibile per attenuare la propria

bellezza. Indossava jeans logori, un paio di sneaker consumate e una canottiera

bianca con disegnini rosa di Hello Kitty: forse era una scelta ironica, ma con Piper

non si poteva mai dire. I capelli castani erano pettinati in una treccia sul lato destro

del viso, da cui pendeva anche una penna d’aquila.

Poi c’era il ragazzo di Piper, Jason. Era sulla piattaforma rialzata delle balestre, a

prua, dove i Romani potevano individuarlo facilmente. Stringeva così forte l’elsa

della spada d’oro da avere le nocche sbiancate ma, a parte questo, sembrava calmo

per uno che stava facendo da bersaglio. Sopra i jeans e la maglietta arancione del

Campo Mezzosangue aveva indossato una toga e un mantello viola, simboli del

suo vecchio rango di pretore. Con i capelli biondi arruffati dal vento e gli occhi

azzurro ghiaccio, era bellissimo, austero e autorevole: un vero figlio di Giove.

Era cresciuto al Campo Giove, perciò c’era da augurarsi che il suo volto familiare

convincesse i Romani a non spazzare via la nave dal cielo.

Annabeth cercava di nasconderlo, ma ancora non riusciva a fidarsi del tutto di lui.

Era troppo perfetto, seguiva rigorosamente le regole, agiva sempre con onore;

anche la sua bellezza era troppo perfetta. In un angolino della mente, c’era un

pensiero di cui Annabeth non riusciva a sbarazzarsi: ―E se fosse tutto un trucco e

lui ci tradisse? E se una volta arrivati al Campo Giove dicesse: Ehi, Romani!

Guardate che prigionieri e che bella nave vi ho portato!‖

Annabeth dubitava che sarebbe successo. Eppure non riusciva a guardarlo senza un

po’ di amarezza in bocca. Jason aveva fatto parte del ―programma di scambio‖

organizzato da Era per far conoscere i due campi. Sua Insopportabilissima Maestà,

la Regina dell’Olimpo, aveva convinto gli altri dei che le loro due discendenze – i

Romani e i Greci – dovevano unire le forze per salvare il mondo da Gea, la dea

malvagia che si stava risvegliando dalla terra e che si serviva dei propri orribili

figli, i giganti.

Di punto in bianco, Era aveva prelevato Percy Jackson, il ragazzo di Annabeth, gli

aveva cancellato la memoria e lo aveva spedito nel campo romano. In cambio, i

Greci avevano ricevuto Jason. Niente di tutto questo era colpa di Jason, ma ogni

volta che Annabeth lo guardava pensava a quanto Percy le mancasse.

Percy… che in quel momento era lì da qualche parte, sotto di loro.

―Oh, dei!‖ Sentì montare il panico. Lo ricacciò indietro. Non era il momento di

lasciarsi sopraffare. ―Sono una figlia di Atena‖ si disse. ―Devo attenermi al mio

piano, senza farmi distrarre.‖

Lo avvertì di nuovo, quel brivido familiare, come se un pupazzo di neve

psicopatico si fosse insinuato alle sue spalle e le stesse alitando sul collo. Si voltò,

ma non c’era nessuno.

Forse erano solo i nervi. Perfino in quel mondo fatto di dei e mostri, Annabeth non

poteva credere che una nave da guerra nuova di zecca fosse infestata dai fantasmi.

L’Argo II era protetta bene. Gli scudi di bronzo celeste lungo il parapetto erano

―incantati‖, per tenere alla larga i mostri, e il satiro di bordo, Hedge, avrebbe

fiutato ogni intruso.

Annabeth avrebbe tanto voluto poter pregare Atena e chiedere la sua guida, ma

ormai era impossibile. Non dopo l’ultimo mese, non dopo il loro terribile incontro

e il regalo che la madre le aveva fatto, il peggiore della sua vita…

Il freddo si fece più vicino.

Ad Annabeth sembrò di udire una voce fioca che rideva nel vento. Ogni singolo

muscolo del suo corpo si irrigidì: stava per succedere qualcosa di terribile, lo

sentiva. Per poco non ordinò a Leo di invertire la rotta.

Poi, nella valle sottostante, suonarono dei corni. I Romani li avevano avvistati.

Annabeth pensava di sapere cosa aspettarsi – Jason le aveva descritto il Campo

Giove in ogni minimo particolare –eppure non riuscì a credere ai propri occhi.

Circondata dalle colline di Oakland, la valle era grande almeno il doppio del

Campo Mezzosangue. Un piccolo fiume scorreva lungo il perimetro e si incurvava

verso il centro, formando una sorta di G maiuscola, per poi sfociare in un lago

azzurro e scintillante. Annidata sulla riva, direttamente sotto la nave, la città di

Nuova Roma brillava al sole.

Annabeth riconobbe i punti di riferimento di cui Jason le aveva parlato:

l’ippodromo, l’anfiteatro, i templi e i parchi, il quartiere dei Sette Colli con le sue

strade tortuose, le ville colorate e i giardini fioriti. Vide le tracce recenti della

battaglia che i Romani avevano combattuto contro un esercito di mostri. C’era un

grande squarcio sulla cupola di un edificio che intuiva essere il Senato. L’ampia

piazza del Foro era crivellata di crateri. Alcune statue e fontane erano in macerie.

Dozzine di ragazzi con la toga si stavano riversando fuori dal Senato per guardare

l’Argo II. Altri Romani emersero dalle botteghe e dai caffè, indicando a bocca

aperta la nave che calava dal cielo.

A meno di un chilometro di distanza in direzione ovest, dove suonavano i corni, un

forte romano si ergeva su un’altura. Era tale e quale alle illustrazioni che Annabeth

aveva visto nei libri di storia militare, con una trincea difensiva contornata di

picche, le alte mura e le torri di guardia armate di baliste. Dentro, file perfette di

caserme bianche costeggiavano la Via Principalis.

Una colonna di semidei si riversò fuori dal forte e si diresse di buona lena verso la

città, con le lance e le armature scintillanti. C’era perfino un vero elefante.

Annabeth voleva atterrare prima dell’arrivo di quelle truppe, ma erano ancora a

diverse centinaia di metri di distanza. Perlustrò la folla con lo sguardo, sperando di

intravedere Percy.

Poi qualcosa alle sue spalle fece BUUUM!

Per poco l’esplosione non la scaraventò fuoribordo. Annabeth si voltò di scatto e si

ritrovò faccia a faccia con un inferocito mezzobusto di marmo.

— Inaccettabile! — strillò la statua. L’esplosione era stata provocata dalla sua

comparsa sul ponte. Un fumo giallo sulfureo si levava dalle sue spalle, e qualche

lapillo scoppiettava tra i suoi capelli ricci. Dalla vita in giù, era solo un piedistallo

squadrato. Ma dalla vita in su era il busto muscoloso di un uomo, con una toga

scolpita indosso. — Non tollererò armi all’interno della linea del pomerium! —

annunciò con il tono di un professore pedante. — E di certo non tollererò dei

Greci!

Jason lanciò uno sguardo ad Annabeth, come a dire: ―Ci penso io, tutto sotto

controllo.‖ — Terminus — esordì. — Sono io, Jason Grace.

— Oh, mi ricordo di te, Jason Grace! Non ti facevo così sciocco da allearti con i

nemici di Roma.

— Ma non sono nemici…

— Giusto — intervenne Piper. — Vogliamo solo parlare. Se potessimo…

— Ah! — la interruppe la statua. — Non provare a usare i tuoi trucchetti di

ammaliatrice su di me, signorinella. E metti giù quel pugnale prima che te lo tolga

a suon di schiaffoni!

Piper abbassò lo sguardo sul pugnale. Si era dimenticata di averlo in mano. —

Ehm… va bene. Ma come potresti togliermelo a schiaffi? Non hai le braccia.

— Impertinente! — Ci fu un pop acuto, subito seguito da un lampo giallo.

Piper levò uno strillo e lasciò cadere il pugnale, che fumava e mandava scintille.

— Per vostra fortuna, sono reduce da una battaglia — annunciò Terminus. — Se

fossi nel pieno delle forze, avrei già spazzato via questa mostruosità volante dal

cielo!

— Aspetta un attimo. — Leo si fece avanti, agitando il telecomando della Wii. —

Hai appena dato della mostruosità alla mia nave?

L’idea che Leo potesse attaccare con quel telecomando la statua aiutò Annabeth a

risvegliarsi dallo shock. — Calmiamoci, tutti quanti. — Alzò le mani per far

vedere che era disarmata. — Suppongo che lei sia Terminus, il dio dei confini.

Jason mi ha spiegato che protegge la città di Nuova Roma, giusto? Io sono

Annabeth Chase, figlia di…

— Oh, lo so bene chi sei! — Terminus la fulminò con un’occhiataccia delle sue

pupille bianche. — Una figlia di Atena, la forma greca di Minerva. Che scandalo!

Voi Greci non avete il minimo senso del pudore. Noi Romani sì che conosciamo il

posto che spetta a quella dea.

Annabeth strinse la mascella. Quella statua stava mettendo a dura prova la sua

diplomazia. — Come sarebbe a dire, ―quella dea‖? E cosa c’è di così scandaloso

nell’essere figlia di…?

— Giusto! — la interruppe Jason. — A ogni modo, Terminus, siamo qui in

missione di pace. Vorremmo tanto che ci concedessi il permesso di atterrare per…

— Impossibile! — starnazzò la statua. — Giù le armi e arrendetevi! Lasciate

subito la mia città!

— Quale delle due? — chiese Leo. — Ci arrendiamo o ce ne andiamo?

— Entrambe! — replicò Terminus. — Prima vi arrendete, e poi ve ne andate. Ti

meriti uno schiaffo per una domanda così stupida, razza di buffone. Prendi questo!

Sentito?

— Cavolo… — Leo studiò Terminus con interesse professionale. — Certo che ti

agiti parecchio. Non è che ti serve una regolata a qualche rotella? Potrei dare

un’occhiata. — Sostituì il telecomando della Wii con un cacciavite preso dalla

magica cintura degli attrezzi e diede qualche colpetto al piedistallo della statua.

— Smettila! — protestò Terminus. Un’altra piccola esplosione fece cadere il

cacciavite di Leo. — Le armi non sono ammesse sul suolo romano, all’interno

della linea del pomerium.

— La che? — domandò Piper.

— I confini della città — tradusse Jason.

— E tutta questa nave è un’arma! — continuò Terminus. — Non potete atterrare!

Giù nella valle, i rinforzi della legione erano a metà strada. La folla riunita nel Foro

contava un centinaio di persone, ormai.

Annabeth perlustrò i volti e… ―Oh, santi numi!‖

Percy camminava verso la nave, con le braccia sulle spalle di altri due ragazzi,

come se fossero i suoi migliori amici: un ragazzone robusto con i capelli neri rasati

come un militare e una ragazza con un elmo della cavalleria romana. Percy

sembrava così rilassato, così felice. Indossava un mantello viola identico a quello

di Jason: il simbolo di un pretore.

Il cuore di Annabeth si esibì in un numero di ginnastica artistica. — Leo, ferma la

nave — ordinò.

— Cosa?

— Mi hai sentito. Mantienici qui dove stiamo.

Leo tirò fuori il telecomando e diede uno strattone verso l’alto. Tutti e novanta i

remi si bloccarono all’istante. La nave smise di scendere.

— Terminus, non esiste nessuna regola che vieti di stazionare sopra Nuova Roma,

giusto? — chiese Annabeth.

La statua si accigliò. — Be’, no.

— Possiamo mantenere la nave in aria — continuò Annabeth. — Useremo una

scaletta di corda per calarci nel Foro. In questo modo, la nave non sarà sul suolo

romano. Tecnicamente.

La statua sembrò rifletterci su.

Annabeth si chiese se non si stesse grattando il mento con mani immaginarie.

— Apprezzo i tecnicismi — ammise Terminus. — Però…

— Tutte le nostre armi resteranno a bordo — promise Annabeth. — Presumo che

pure i Romani – inclusi i rinforzi che stanno marciando verso di noi – debbano

attenersi alle sue regole all’interno della linea del pomerium, se lei glielo ordina.

Giusto?

— Certo! — confermò Terminus. — Ti sembra che io possa tollerare chi infrange

le regole?

— Ehm, Annabeth… — intervenne Leo. — Sicura che sia una buona idea?

La figlia di Atena serrò i pugni per impedirsi di tremare. La sensazione di gelo era

ancora lì. Quella strana presenza fluttuava proprio alle sue spalle e, ora che

Terminus aveva smesso di strillare e provocare esplosioni, le sembrò di sentirla

ridere, come se esultasse per quelle pessime decisioni.

Ma Percy era laggiù… era così vicino. Doveva andare da lui.

— Andrà tutto bene — disse Annabeth. — Nessuno si farà male. Possiamo parlare

in pace. Terminus farà in modo che entrambe le parti si attengano alle regole. —

Guardò la statua di marmo. — Abbiamo un accordo?

— Suppongo di sì. Per ora. — Terminus tirò su col naso. — Hai il permesso di

scendere a Nuova Roma sulla tua scaletta di corda, figlia di Atena. Sei pregata di

non distruggere la mia città.

ANNABETH

Un mare di semidei adunati in fretta e furia si aprì per consentire ad Annabeth di

attraversare il Foro. Alcuni sembravano tesi, altri nervosi. Qualcuno portava le

bende della recente battaglia contro i giganti, ma nessuno era armato. Nessuno

attaccò.

Intere famiglie erano corse a vedere i nuovi arrivati. Annabeth scorse coppie con

neonati, bambini aggrappati alle gambe dei genitori e perfino anziani, in una

mescolanza di vesti romane e abiti moderni. Erano tutti semidei? Credeva di sì, pur

non avendo mai visto un posto del genere. Al Campo Mezzosangue, quasi tutti i

semidei erano ragazzi. Se vivevano abbastanza da diplomarsi alle superiori,

rimanevano al campo come capigruppo oppure se ne andavano a vivere come

meglio potevano nel mondo mortale. Quella invece era un’intera comunità

multigenerazionale.

Ai margini della folla, Annabeth riconobbe il ciclope Tyson e la signora O’Leary,

il segugio infernale di Percy: erano stati loro i primi esploratori del Campo

Mezzosangue a raggiungere il Campo Giove. Sembravano di ottimo umore. Tyson

la salutò con la mano e sorrise; indossava uno stendardo con su scritto SPQR a mo’

di bavaglino gigante.

Una parte della mente di Annabeth registrò quanto fosse bella la città: il profumo

dei forni, le fontane gorgoglianti, i fiori che sbocciavano nei giardini… e

l’architettura. Colonne di marmo dorato, mosaici meravigliosi, archi monumentali,

ville e giardini pensili…

―Santi numi, che splendore!‖

Di fronte a lei, i semidei fecero largo a una ragazza in armatura romana e mantello

viola. I capelli scuri le ricadevano come una cascata sulle spalle. Gli occhi erano

neri come ossidiana.

Reyna.

Jason l’aveva descritta bene. E, anche se non l’avesse fatto, Annabeth avrebbe

capito comunque che era lei a comandare. Aveva un’armatura decorata di

medaglie, e incedeva con una sicurezza tale che gli altri semidei arretravano ed

evitavano il suo sguardo.

Annabeth riconobbe anche altro sul suo viso, nella piega dura della bocca e nel

modo deciso con cui teneva sollevato il mento, come se fosse pronta a qualsiasi

sfida. Reyna si stava sforzando di apparire coraggiosa, ma nascondeva un misto di

speranza, preoccupazione e paura che non poteva mostrare in pubblico. Annabeth

conosceva quell’espressione: la vedeva ogni volta che si guardava allo specchio.

Le due ragazze si soppesarono a vicenda. Gli amici di Annabeth si disposero a

ventaglio ai suoi fianchi. I Romani mormorarono il nome di Jason, fissandolo

sbigottiti.

Poi qualcun altro comparve tra la folla, e il campo visivo di Annabeth si restrinse.

Percy le sorrise, con quel suo sorriso sarcastico, da piantagrane, che l’aveva irritata

per anni ma che alla fine le era diventato così caro. I suoi occhi verde mare erano

splendidi come li ricordava. I capelli scuri sembravano spazzati dal vento, come se

fosse appena tornato da una passeggiata sulla spiaggia. Era perfino più in forma di

sei mesi prima, più alto e più abbronzato, più asciutto e muscoloso.

Annabeth era troppo scombussolata per muoversi; aveva la sensazione che, se gli si

fosse avvicinata anche di un solo passo, tutte le molecole del proprio corpo

avrebbero preso fuoco. Aveva avuto una cotta segreta per lui fin dai dodici anni.

L’estate prima, si era innamorata sul serio. Erano stati una coppia felice per quattro

mesi, e poi lui era scomparso.

Durante la loro separazione, era successo qualcosa ai sentimenti di Annabeth. Si

erano fatti dolorosamente intensi, come se qualcuno l’avesse costretta a rinunciare

a una medicina salvavita. Ormai non sapeva più quale fosse la tortura peggiore: se

vivere con quell’assenza tremenda, o stare di nuovo con lui.

Reyna drizzò la schiena. Con evidente riluttanza, si rivolse a Jason. — Jason

Grace, mio ex collega pretore… — Pronunciò la parola ―collega‖ come se fosse

una cosa pericolosa. — Ti do il mio benvenuto a casa. A te e a questi tuoi amici…

Annabeth non aveva intenzione di farlo, ma si lanciò in avanti. Percy corse da lei

nello stesso istante. La folla si irrigidì. Qualcuno cercò istintivamente le spade che

non aveva con sé.

Percy strinse Annabeth tra le braccia. Si baciarono, e per un momento nient’altro

ebbe importanza. Un asteroide avrebbe potuto colpire la Terra e annientare ogni

forma di vita, e ad Annabeth non sarebbe importato un fico secco.

Percy profumava di brezza dell’oceano, aveva le labbra salate.

―Testa d’Alghe‖ pensò lei su di giri.

Percy la scrutò in viso. — Dei del cielo! Non avrei mai pensato di…

Annabeth lo afferrò per il polso e con una sola mossa lo mandò prima per aria e poi

a terra, sul lastricato.

I Romani gridarono. Qualcuno si fece avanti, ma Reyna ordinò: — Fermi!

Annabeth piazzò un ginocchio contro il petto di Percy e gli piantò un braccio sulla

gola. Non le importava di come l’avrebbero presa i Romani. Un grumo di rabbia

incandescente le si allargò nel petto, un macigno di preoccupazione e amarezza che

si portava dietro dall’autunno. — Se osi lasciarmi di nuovo… — cominciò, con gli

occhi che le bruciavano. — Giuro sugli dei che…

Percy ebbe la faccia tosta di scoppiare a ridere.

Annabeth sentì che il coagulo di emozioni rabbiose si scioglieva di botto.

— Considerami avvisato — replicò Percy. — Anche tu mi sei mancata.

Annabeth si alzò e lo aiutò a rimettersi in piedi. Avrebbe tanto voluto baciarlo

ancora, ma riuscì a trattenersi.

Jason si fece avanti, schiarendosi la voce. — Allora, sì… è bello essere tornato. —

Presentò Reyna prima a Piper, che sembrava un po’ seccata di non aver potuto

pronunciare le battute che aveva preparato, poi a Leo, che rispose con un sorriso e

un rapido segno della pace.

— E questa è Annabeth — disse Jason. — Ehm… di solito non scaraventa la gente

a terra con le mosse di karate.

Gli occhi di Reyna scintillarono. — Sicura di non essere romana, Annabeth? O di

non essere un’amazzone?

Annabeth non sapeva se prenderlo come un complimento, ma le porse la mano. —

Tratto così soltanto il mio ragazzo — garantì. — Lieta di conoscerti.

Reyna le strinse la mano con fermezza. — Sembra che abbiamo molto di cui

discutere. Centurioni!

Un gruppetto di Romani si fece subito avanti – erano chiaramente gli ufficiali

anziani – e due ragazzi comparvero al fianco di Percy, gli stessi che Annabeth

aveva visto insieme a lui poco prima. Il ragazzone asiatico con il taglio militare

aveva più o meno quindici anni; era carino, somigliava a un cucciolo di panda in

sovrappeso. La ragazza era più piccola, forse sui tredici anni, con gli occhi

d’ambra, la pelle color cioccolato e i capelli lunghi e ricci; portava sotto il braccio

l’elmo da cavalleria.

Annabeth intuì dal loro linguaggio corporeo che si sentivano vicini a Percy. Gli

stavano accanto con fare protettivo, come se avessero già condiviso molte

avventure. Ricacciò indietro una punta di gelosia. Possibile che Percy e quella

ragazza…? No, non c’era quel tipo di chimica tra loro. Annabeth aveva passato la

vita a imparare a leggere le persone. Era una capacità necessaria per la

sopravvivenza. Dovendo indovinare, avrebbe detto piuttosto che il ragazzone

asiatico e la ragazza stavano insieme, anche se forse non da molto.

C’era una sola cosa che Annabeth non capiva: cosa stava fissando la ragazza?

Continuava a guardare con la fronte aggrottata in direzione di Piper e Leo, come se

riconoscesse uno dei due e il ricordo fosse doloroso.

Nel frattempo, Reyna stava impartendo ordini agli ufficiali. — … Dite alla legione

di abbassare la guardia. Dakota, avverti gli spiriti in cucina. Di’ loro di preparare

un banchetto d’accoglienza. E Ottaviano…

— Hai intenzione di permettere a questi intrusi di entrare nel campo? — Un

ragazzo alto, con i capelli lunghi e radi, si fece largo a gomitate. — Reyna, i rischi

per la sicurezza…

— Non li porteremo al campo, Ottaviano. — Reyna lo fulminò con un’occhiata

severa. — Mangeremo qui, nel Foro.

— Oh, molto meglio allora — brontolò lui. Sembrava l’unico a non rivolgersi a

Reyna con il rispetto dovuto al suo grado, sebbene fosse pallido e mingherlino e

per motivi imperscrutabili avesse tre orsacchiotti di peluche appesi alla cintura. —

Vuoi che ci rilassiamo all’ombra della loro nave da guerra.

— Sono nostri ospiti. — Reyna scandì con precisione ogni parola. — Li

accoglieremo e parleremo con loro. In qualità di augure, dovresti bruciare

un’offerta per ringraziare gli dei di averci riportato Jason sano e salvo.

— Buona idea — commentò Percy. — Vai a bruciare i tuoi orsacchiotti, Ottaviano.

Reyna sembrò sforzarsi di non sorridere. — Questi sono gli ordini. Andate.

Gli ufficiali si dispersero. Ottaviano lanciò a Percy un’occhiata di puro odio, diede

una squadrata sospettosa ad Annabeth e si allontanò impettito.

Percy fece scivolare la mano in quella di Annabeth. — Non preoccuparti di

Ottaviano. La maggior parte dei Romani è brava gente… come Frank e Hazel, e

Reyna. Andrà tutto bene.

Annabeth si sentì come se qualcuno le avesse avvolto un asciugamano freddo

intorno al collo. Udì di nuovo quella risata sussurrata, come se la strana presenza

gelida che aveva avvertito sulla nave l’avesse seguita a terra.

Alzò lo sguardo verso l’Argo II. L’enorme scafo di bronzo scintillava al sole. Una

parte di lei avrebbe voluto rapire Percy seduta stante, salire a bordo e levarsi di

torno finché era possibile. Non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che

qualcosa stesse per andare storto. E non era assolutamente disposta a correre il

rischio di perdere di nuovo Percy.

— Andrà tutto bene — ripeté, sforzandosi di crederci.

— Ottimo! — esclamò Reyna. Si voltò verso Jason, e Annabeth credette di

scorgere una sorta di luccichio famelico nei suoi occhi. — Andiamo. Parleremo

meglio durante il banchetto.

ANNABETH

Annabeth rimpianse di non avere appetito, perché, quanto al cibo, i Romani

sapevano decisamente il fatto loro.

Divanetti e tavolini furono disseminati nel Foro fino a farlo assomigliare al salone

di un mobilificio. I Romani vi si sistemarono a gruppi di dieci o venti, parlando e

ridendo, mentre gli spiriti del vento – le aurae – sfrecciavano nel cielo e servivano

una varietà infinita di pizze, sandwich, patatine, bibite e biscotti appena sfornati.

Tra la folla si muovevano fantasmi violacei – i Lari – vestiti con la toga o con

l’armatura da legionari. Ai margini del banchetto, i satiri – ―No, i fauni‖ si disse

Annabeth – trotterellavano di tavolo in tavolo, mendicando cibo e spiccioli. Nei

prati vicini, l’elefante da guerra giocava allegramente con la signora O’Leary,

mentre i bambini si inseguivano intorno ai busti di Terminus che segnavano i

confini della città. L’intera scena era così familiare e tuttavia così aliena agli occhi

di Annabeth da farle venire le vertigini.

Non avrebbe voluto altro che stare con Percy, possibilmente da sola. Ma sapeva di

dover aspettare. Per il successo di quell’impresa avevano bisogno dei Romani, e

questo significava conoscerli e costruirci un buon rapporto.

Reyna e qualche altro ufficiale – incluso Ottaviano, reduce dal sacrificio di un

orsacchiotto – si sedettero con Annabeth e il resto dell’equipaggio. Percy li

raggiunse con i suoi due nuovi amici, Frank e Hazel.

Mentre un tornado di vassoi si posava sulla tavola, Percy si sporse a bisbigliare: —

Voglio portarti a fare un giro per Nuova Roma. Solo io e te. Questo posto è

incredibile.

Annabeth avrebbe dovuto essere felicissima. ―Solo io e te‖ era proprio quello che

desiderava. Eppure una fitta di risentimento le serrò la gola. Come poteva parlare

con tanto entusiasmo di quel posto? E il Campo Mezzosangue, allora? Il loro

campo, casa loro?

Si sforzò di non fissare i nuovi segni sul braccio di Percy: il tatuaggio con le lettere

SPQR, come quello di Jason. Al Campo Mezzosangue, i semidei ricevevano una

collana di perline per commemorare gli anni di addestramento. Lì invece i Romani

ti marchiavano a fuoco, come a dire: ―Tu appartieni a noi. Per sempre.‖

Annabeth soffocò un commento pungente. — Va bene.

— È da un po’ che ci penso e… — continuò Percy, un po’ imbarazzato. — Mi è

venuta questa idea e…

Fu interrotto dal brindisi di Reyna dedicato all’amicizia.

Dopo le presentazioni, i Romani e l’equipaggio di Annabeth cominciarono a

raccontarsi le rispettive avventure. Jason spiegò come era arrivato al Campo

Mezzosangue dopo aver perduto la memoria, e riferì della missione che aveva

affrontato con Piper e Leo per salvare la dea Era, o Giunone – tanto, greca o

romana che fosse, era irritante lo stesso – dalla sua prigione alla Casa del Lupo.

— Impossibile! — intervenne Ottaviano. — È il nostro luogo più sacro. Se i

giganti vi avessero imprigionato una dea…

— L’avrebbero distrutta — continuò Piper al posto suo. — E poi avrebbero dato la

colpa ai Greci, facendo scoppiare la guerra tra i due campi. Ora lascia finire Jason.

Ottaviano aprì la bocca per replicare, poi la richiuse.

Annabeth adorava la lingua ammaliatrice dell’amica. Notò che Reyna lanciava

molte occhiate a Jason e Piper, con la fronte aggrottata, come se avesse appena

cominciato a rendersi conto che i due stavano insieme.

— È stato in questo modo che abbiamo saputo di Gea, la dea della terra — riprese

Jason. — È ancora mezzo addormentata, ma è lei a liberare i mostri dal Tartaro e a

far risorgere i giganti. Il loro re Porfirio, contro cui ci siamo battuti alla Casa del

Lupo, ha detto che si stava ritirando nelle antiche terre, in Grecia. Conta di

risvegliare Gea e distruggere gli dei… Com’è che ha detto? Estirpandoli alle radici.

Percy annuì, serio in viso. — Gea si è data da fare anche qui. Anche noi abbiamo

avuto il nostro incontro con lei. — Riferì la sua parte della storia. Raccontò di

essersi svegliato nella Casa del Lupo senza ricordi, fatta eccezione per un solo

nome: Annabeth.

A quelle parole, la figlia di Atena dovette sforzarsi per non piangere.

Percy raccontò del viaggio in Alaska con Frank e Hazel, di come avevano sconfitto

il gigante Alcione e liberato Thanatos, per poi tornare con l’aquila d’oro simbolo

della legione e respingere l’assalto dell’esercito dei giganti.

Quando ebbe finito, Jason fece un fischio di ammirazione. — Non c’è da stupirsi

che ti abbiano nominato pretore.

Ottaviano sbuffò. — E adesso abbiamo tre pretori! Le regole stabiliscono

chiaramente che possiamo averne soltanto due.

— Considera il lato positivo — replicò Percy. — Io e Jason adesso siamo entrambi

tuoi superiori. Perciò possiamo ordinarti in due di chiudere il becco.

Ottaviano diventò viola come la maglietta, mentre Jason e Percy si scambiavano un

cinque.

Perfino Reyna sorrise, anche se i suoi occhi erano inquieti. — Dovremo affrontare

in un altro momento la questione del pretore in esubero — suggerì. — Adesso

abbiamo problemi più importanti.

— Io mi faccio tranquillamente da parte — disse Percy, rilassato. — Non è tutto

questo che.

— Non è tutto questo che? — Ottaviano sembrava sconvolto. — La carica di

pretore di Roma ―non è tutto questo che‖?

Percy lo ignorò e si rivolse a Jason. — Tu sei il fratello di Talia Grace, eh? Cavolo,

non vi somigliate per niente.

— Sì, l’ho notato — confermò lui. — Comunque, grazie di avere aiutato il mio

campo mentre non c’ero. Hai fatto un ottimo lavoro.

— E tu lo stesso — ribatté Percy.

Annabeth gli mollò un calcio in uno stinco. Non voleva interrompere quell’idillio

di amicizia virile, ma Reyna aveva ragione: c’erano delle questioni serie di cui

discutere. — Dovremmo parlare della Grande Profezia. Anche i Romani la

conoscono, vero?

Reyna annuì. — Noi la chiamiamo ―Profezia dei Sette‖. Ottaviano, la conosci a

memoria?

— Naturalmente. Ma Reyna…

— Recitala, per favore. Ed evita il latino.

Ottaviano sospirò. — Sette mezzosangue alla chiamata risponderanno. Fuoco o

tempesta il mondo cader faranno…

— Con l’ultimo fiato un giuramento si dovrà mantenere — continuò Annabeth. —

E alle Porte della Morte i nemici armati si dovran temere.

Tutti la fissarono con gli occhi sgranati. Tutti tranne Leo, che aveva costruito una

girandola con i fogli d’alluminio dei tacos e cercava di farla girare infilandola tra le

aurae di passaggio.

Annabeth non sapeva perché avesse tirato fuori così all’improvviso i versi della

profezia. Le era venuto spontaneo.

Frank si sporse un po’ in avanti. La guardava affascinato, come se le fosse spuntato

un terzo occhio in fronte. — È vero che sei una figlia di Miner… cioè, di Atena?

— Sì — confermò lei, sulla difensiva. — Che c’è da sorprendersi tanto?

Ottaviano fece un verso di scherno. — Se sei davvero figlia della dea della

saggezza…

— Basta — tagliò corto Reyna. — Annabeth è quello che dice di essere. È venuta

qui in pace. E poi… — La squadrò con un’espressione di burbero rispetto. —

Percy mi ha detto grandi cose di te.

Percy abbassò lo sguardo, mostrando un improvviso interesse per il proprio

cheeseburger.

Annabeth ci mise qualche attimo a decifrare fino in fondo quel gesto e il tono della

voce di Reyna. Si sentì il volto in fiamme. ―Oh, dei… Reyna ci ha provato con

Percy.‖ Ecco cos’era quella punta di amarezza, forse perfino di invidia nelle sue

parole: Percy l’aveva rifiutata per lei. In quell’istante Annabeth perdonò a quel

buffone del suo ragazzo qualunque cosa avesse mai fatto di storto. Avrebbe voluto

gettargli le braccia al collo, ma si impose di mantenere la calma. — Ehm… grazie

— disse a Reyna. — Comunque, una parte della profezia si sta facendo più chiara.

I nemici armati alle Porte della Morte… be’, sono i Greci e i Romani. Dobbiamo

unire le forze per trovare le porte.

Hazel raccolse qualcosa accanto al suo piatto. Somigliava a un grosso rubino; ma

prima che gli altri potessero esserne certi, lo fece sparire nella tasca della camicia

di jeans. — Mio fratello Nico è andato a cercarle.

— Nico Di Angelo? — domandò Annabeth, stupita. — È tuo fratello?

Hazel annuì come se fosse ovvio.

Mille domande affollarono la mente di Annabeth, che però già turbinava come la

girandola di Leo. Decise di non approfondire. — Okay. Stavi dicendo?

— È scomparso. — Hazel si inumidì le labbra. — Ho paura che… Non ne sono

sicura, ma credo che gli sia successo qualcosa.

— Lo cercheremo — promise Percy. — In ogni caso, dobbiamo trovare le Porte

della Morte. Thanatos ci ha detto che avremmo avuto entrambe le risposte a Roma,

quella vera. Così ci avviciniamo anche alla Grecia, no?

— Ve l’ha detto Thanatos? — Annabeth cercò di metabolizzare il concetto. — Il

dio della morte? — Aveva conosciuto molti dei. Era perfino stata negli Inferi; ma il

fatto che Percy e gli altri avessero liberato l’incarnazione stessa della morte le dava

molto più che i brividi.

Percy addentò il cheeseburger. — Ora che è di nuovo libero, i mostri si

disintegreranno e ritorneranno nel Tartaro come prima. Ma finché le Porte della

Morte restano aperte, continueranno a tornare.

Piper giocherellò con la penna d’aquila che aveva tra i capelli. — Come se le porte

fossero una diga, e ci fossero delle falle…

— Esatto. Il punto è che dobbiamo trovare le porte e chiuderle prima di puntare

verso la Grecia. Solo così possiamo avere almeno una possibilità di sconfiggere i

giganti e fare in modo che restino sconfitti.

Reyna prese al volo una mela da un vassoio di passaggio. Se la rigirò tra le dita,

studiandone la superficie rossa. — State proponendo una spedizione in Grecia a

bordo della vostra nave da guerra? Vi rendete conto che le antiche terre e il Mare

Nostrum sono pericolosi?

— Il Mare che? — domandò Leo.

— Il Mare Nostrum — ripeté Jason. — È così che gli antichi Romani chiamavano

il Mediterraneo.

Reyna annuì. — Il territorio che un tempo era l’impero romano non è soltanto il

luogo di nascita degli dei. È anche la dimora ancestrale di mostri, giganti… e di

cose peggiori. Per quanto sia pericoloso per i semidei viaggiare qui in America, là

lo è dieci volte di più.

— Avevi detto che pure l’Alaska sarebbe stata molto pericolosa — le fece notare

Percy. — Ma siamo sopravvissuti.

Reyna scosse la testa. Si girò la mela tra le mani, lasciando con le unghie piccole

mezzelune nella buccia. — Viaggiare nel Mediterraneo rappresenta un livello di

pericolo totalmente diverso. Sono secoli che è territorio proibito per i semidei

romani. Nessun eroe sano di mente vi metterebbe piede.

— Allora noi siamo perfetti! — Leo sorrise da sopra la girandola. — Siamo tutti

pazzi, giusto? E poi l’Argo II è una nave da guerra di ultimissima generazione.

Riusciremo a passare.

— Dobbiamo sbrigarci — aggiunse Jason. — Non so cosa stiano architettando di

preciso i giganti, ma Gea si fa ogni istante più cosciente. Invade i sogni, compare

nei posti più assurdi, rievoca mostri sempre più potenti. Dobbiamo fermare i

giganti prima che riescano a svegliarla del tutto.

Annabeth rabbrividì. Anche lei aveva avuto la propria buona dose di incubi, negli

ultimi tempi. — Sette mezzosangue alla chiamata risponderanno — recitò. —

Deve per forza essere un gruppo misto di entrambi i campi. Io, Jason, Piper e Leo.

Siamo a quattro.

— Poi ci sono io — continuò Percy. — Insieme a Hazel e a Frank. E siamo a sette.

— Cosa?! — Ottaviano scattò in piedi. — E noi dovremmo accettarlo così, come

se niente fosse? Senza il voto del Senato? Senza un adeguato dibattimento?

Senza…?

— Percy! — Il ciclope Tyson corse da loro, con la signora O’Leary alle calcagna.

Sulla groppa del segugio infernale era appollaiata l’arpia più scheletrica che

Annabeth avesse mai visto: una ragazzina dall’aria malaticcia, con i capelli rossi e

radi, un vestito fatto di tela da sacchi e le ali dal piumaggio rosso. Annabeth non

sapeva da dove saltasse fuori quella creatura, ma le si scaldò il cuore alla vista di

Tyson con la sua felpa e i jeans malconci e il bavaglino SPQR sul petto. Aveva

avuto qualche brutta esperienza con i ciclopi, ma Tyson era un tesoro. Ed era anche

il fratellastro di Percy (lunga storia…) perciò in pratica erano quasi parenti.

Tyson si fermò accanto al divanetto e intrecciò le grosse mani. — Ella ha paura! —

esclamò.

— Ba… ba… basta barche — borbottò l’arpia, becchettandosi freneticamente le

piume. — Titanic, Lusitania, Pax… le barche non vanno bene per le arpie.

Leo socchiuse gli occhi. Guardò Hazel, che era seduta accanto a lui. — Sbaglio o

questa specie di pollo ha appena paragonato la mia nave al Titanic?

— Non è un pollo. — Hazel distolse lo sguardo, come se Leo la rendesse nervosa.

— È un’arpia. È solo… ipersensibile.

— Ella è carina, e ha paura — aggiunse Tyson. — Dobbiamo portarla via, ma non

vuole prendere la nave.

— Niente navi — ripeté Ella. Guardò Annabeth dritto negli occhi. — Sfortuna.

Eccola qui. La figlia della Saggezza da sola camminerà…

— Ella! — Frank si alzò di scatto. — Forse non è il momento di…

— Il marchio di Atena su Roma brucerà — continuò Ella, tappandosi le orecchie

con le mani e alzando la voce. — Il respiro dell’angelo che ha la chiave

dell’eterna morte, i gemelli soffocheranno, se lo vorrà la sorte. La rovina dei

giganti si erge pallida e dorata, e sarà vinta col dolore in una prigione intricata.

Fu come se qualcuno avesse lanciato una bomba a mano sul tavolo. Tutti fissavano

a occhi sgranati l’arpia. Nessuno apriva bocca.

Il cuore di Annabeth batteva all’impazzata. ―Il marchio di Atena…‖ Resistette

all’istinto di infilarsi la mano in tasca, ma percepì lo stesso la moneta d’argento che

si scaldava… il dono maledetto di sua madre: «Segui il marchio di Atena.

Vendicami.»

Intorno a loro, tutti i rumori del banchetto c’erano ancora, ma ovattati e distanti,

come se quel gruppetto di divani fosse scivolato in una dimensione più quieta.

Percy fu il primo a riscuotersi. Si alzò e prese Tyson per il braccio. — So io cosa

fare! — esclamò, fingendo entusiasmo. — Perché non porti Ella a prendere un po’

di aria fresca? Portati la signora O’Leary e…

— Aspetta un attimo… — Ottaviano afferrò uno degli orsacchiotti, strangolandolo

con le mani tremanti. Puntò gli occhi su Ella. — Cos’è che ha detto? Sembrava

quasi…

— Ella legge moltissimo — si affrettò a dire Frank. — L’abbiamo trovata in una

biblioteca.

— Sì! — confermò Hazel. — Probabilmente era solo qualcosa che ha letto in un

libro.

— Libri — borbottò Ella, in tono servizievole. — A Ella piacciono i libri. — Ora

che aveva recitato la sua parte, l’arpia sembrava più rilassata. Si sedette a gambe

incrociate sulla groppa della signora O’Leary e cominciò a lisciarsi le penne.

Annabeth lanciò a Percy un’occhiata incuriosita: quei tre stavano nascondendo

qualcosa, era chiaro. Così come era chiaro che Ella aveva appena recitato una

profezia che la riguardava.

L’espressione di Percy diceva: ―Aiuto!‖

— Quella era una profezia — insistette Ottaviano. — Sembrava proprio una

profezia.

Nessuno fiatò.

Annabeth non sapeva di preciso cosa stesse accadendo, ma capì che Percy stava

per ritrovarsi nei guai. Scoppiò a ridere. — Davvero, Ottaviano? Forse le arpie

sono diverse, qui da voi Romani. Le nostre hanno un cervello appena sufficiente

per fare le pulizie e cucinare. Le vostre predicono il futuro? Le consulti per i tuoi

auguri?

Quelle parole ebbero l’effetto desiderato. Gli ufficiali romani risero nervosamente.

Qualcuno scrutò Ella, poi guardò Ottaviano e fece un verso di scherno. A quanto

pareva, l’idea che una specie di grosso pollo annunciasse le profezie era ridicola

per i Romani come per i Greci.

— Io… ehm… — Ottaviano lasciò cadere l’orsacchiotto. — No, ma…

— Come ha detto Hazel, non fa altro che ripetere a casaccio quello che ha letto in

chissà quale libro — continuò Annabeth. — E poi abbiamo già una profezia di cui

preoccuparci. — Si voltò verso Tyson. — Percy ha ragione. Perché non porti Ella

da qualche parte attraversando le tenebre con la signora O’Leary? Ella che dice?

— I cani grossi sono bravi cagnoni — mormorò l’arpia. — Zanna Gialla, 1957,

sceneggiatura di Fred Gipson e William Tunberg.

Annabeth non sapeva come prendere la risposta, ma Percy sorrise come se il

problema fosse risolto ed esclamò: — Fantastico! Vi manderemo un messaggio-

Iride quando avremo finito. Ci vediamo dopo!

I Romani guardarono Reyna, in attesa dei suoi ordini.

Annabeth trattenne il fiato.

— Va bene — disse infine il pretore. — Andate.

— Evviva! — Tyson fece il giro dei divanetti e abbracciò tutti i presenti, incluso

Ottaviano, che non sembrò molto felice del gesto. Poi salì in groppa al segugio

infernale con Ella, e insieme corsero via dal Foro a grandi balzi. Si tuffarono

direttamente in un’ombra del muro del Senato e scomparvero.

— Bene. — Reyna posò la mela sul tavolo. — Ottaviano però ha ragione su un

punto. Dobbiamo avere l’approvazione del Senato per inviare dei nostri legionari

in missione, soprattutto per una missione pericolosa come quella che suggerite voi.

— Tutta questa faccenda puzza di inganno — brontolò Ottaviano. — Quella

trireme non è certo una nave pacifica.

— Allora vieni a bordo, amico — propose Leo. — Ti faccio fare il giro. Puoi

anche guidarla. E, se sarai bravo, ti regalerò un cappellino da capitano.

Ottaviano dilatò le narici, sdegnato. — Come osi…?

— Buona idea — approvò Reyna. — Ottaviano, va’ con lui. Vai a vedere la nave.

Convocheremo una seduta del Senato tra un’ora.

— Ma… — Ottaviano aggrottò la fronte: l’espressione di Reyna suggeriva

chiaramente che era meglio non mettersi a discutere, per il suo bene. — D’accordo.

Leo si alzò. Si voltò verso Annabeth, e il suo sorriso cambiò.

Fu una cosa così rapida che Annabeth pensò di averlo solo immaginato; ma per un

attimo fu come se qualcun altro avesse preso il posto di Leo, qualcuno che le

sorrideva freddamente con una luce crudele negli occhi. Poi Annabeth strizzò le

palpebre, e Leo era il solito vecchio Leo, con il suo sorriso da folletto.

— Torniamo subito — promise il figlio di Efesto. — Sarà un mito, vedrai.

Un’orribile sensazione di gelo assalì Annabeth. Mentre Leo e Ottaviano si

allontanavano verso la scaletta di corda, ebbe quasi la tentazione di richiamarli. Ma

come l’avrebbe spiegato? Dicendo a tutti che stava impazzendo, che vedeva le cose

e aveva freddo?

Gli spiriti del vento cominciarono a sparecchiare.

— Ehm… Reyna. Se non ti dispiace, prima della seduta vorrei portare Piper a fare

un giro — disse Jason. — Non ha mai visto Nuova Roma.

L’espressione di Reyna si indurì.

Annabeth si chiese come facesse Jason a essere così stupido. Possibile che non

capisse quello che Reyna provava per lui? Era talmente ovvio. E invece spargeva

sale sulla ferita, chiedendole il permesso di portare la sua nuova ragazza a fare un

giro.

— Ma certo — rispose lei freddamente.

Percy prese la mano di Annabeth. — Be’, anch’io vorrei…

— No — disse Reyna.

Percy si accigliò. — Come dici, scusa?

— Vorrei scambiare due parole con Annabeth — chiarì Reyna. — Da sola. Se non

ti dispiace, pretore. — Ma dal tono era evidente che non stava davvero chiedendo

il suo permesso.

Il gelo risalì la schiena di Annabeth. Si chiese cosa Reyna avesse in mente. Forse

non le piaceva l’idea che ben due ragazzi che l’avevano rifiutata se ne andassero in

giro per la città con le fidanzate. O forse aveva davvero bisogno di dirle qualcosa

in privato. In ogni caso, Annabeth era un po’ riluttante all’idea di restare sola e

disarmata con il comandante dei Romani.

— Vieni, figlia di Atena. — Reyna si alzò. — Facciamo due passi.

ANNABETH

Annabeth avrebbe voluto odiare Nuova Roma. Ma come aspirante architetto non

poteva fare a meno di ammirare i giardini pensili, le fontane e i templi, le sinuose

strade di ciottoli e le candide ville. Dopo la Guerra dei Titani, l’estate prima, aveva

ottenuto il lavoro dei suoi sogni: riprogettare i palazzi del Monte Olimpo.

Attraversando quella città in miniatura, continuava a pensare: ―Avrei dovuto fare

una cupola come quella. Adoro il modo in cui quelle colonne ti accompagnano nel

cortile.‖ Chiunque avesse progettato Nuova Roma, lo aveva chiaramente fatto

spendendoci molto tempo e dedizione.

— Abbiamo i migliori architetti e costruttori del mondo — disse Reyna, come

leggendole nel pensiero. — È sempre stato così a Roma, anche nell’antichità. Molti

semidei restano a vivere qui dopo il servizio nella legione: vanno all’università,

mettono su famiglia. Percy sembrava interessato.

Annabeth si chiese cosa intendesse dire. Forse si era accigliata più di quanto si

fosse resa conto, perché Reyna rise.

— Sei una guerriera, questo è certo. Hai il fuoco negli occhi.

— Scusa. — Annabeth cercò di addolcire il viso.

— Non scusarti. Io sono figlia di Bellona.

— La dea romana della guerra?

Reyna annuì. Poi si voltò e fischiò come per chiamare un taxi.

Un attimo dopo, due cani di metallo corsero da loro: levrieri meccanici, uno

d’argento e uno d’oro. Si strofinarono sulle sue gambe e scrutarono Annabeth con

occhi rossi e luccicanti.

— Aurum e Argentum, i miei cuccioli — spiegò Reyna. — Non ti dispiace se

vengono con noi, vero?

Ancora una volta, Annabeth ebbe la sensazione che non fosse una vera domanda.

Notò che i denti dei levrieri erano come frecce acuminate. Forse le armi non erano

ammesse all’interno della città, ma quei ―cuccioli‖ avrebbero potuto farla a pezzi

in qualunque momento.

Reyna la portò in un caffè all’aperto.

Il cameriere la conosceva e le diede subito un bicchiere da portare via. Ne offrì uno

anche ad Annabeth.

— Vuoi? — le chiese Reyna. — Fanno un’ottima cioccolata calda. Non è

esattamente una bevanda romana, ma…

— La cioccolata è universale — concluse Annabeth.

— Esatto.

Sebbene fosse un pomeriggio di giugno, Annabeth accettò e ringraziò il cameriere.

Le due ragazze continuarono a camminare, con i cani d’oro e d’argento che

gironzolavano nei paraggi.

— Nel nostro campo, Atena è Minerva — spiegò Reyna. — Conosci le differenze

rispetto alla forma greca?

Annabeth non ci aveva mai riflettuto prima. Ripensò a come Terminus aveva

definito Minerva – ―quella dea‖ – come se ci fosse qualcosa di scandaloso. E

Ottaviano si era comportato come se la sua stessa esistenza fosse un insulto.

— Presumo che Minerva non sia… ehm… altrettanto rispettata.

Reyna soffiò sulla cioccolata calda. — Rispettiamo Minerva. È la dea dei mestieri

e della saggezza… ma non è una dea della guerra. Non per i Romani. E poi è una

dea vergine, come Diana… quella che voi chiamate Artemide. Non troverai figli di

Minerva, qui. E l’idea che Minerva possa avere dei figli… be’, francamente per noi

è un po’ sconcertante.

— Oh… — Annabeth si accorse di stare arrossendo. Non aveva nessuna voglia di

entrare nel dettaglio in merito ai figli di Atena, considerato che nascevano dalla

mente della dea, proprio come Atena era sorta dalla testa di Zeus. Parlare di quelle

cose la metteva sempre in imbarazzo, la faceva sentire una specie di fenomeno da

baraccone. A quel punto, di solito, le domandavano se avesse l’ombelico, vista la

nascita magica. Certo che ce l’aveva. Ma non sapeva spiegare perché. E non voleva

neanche saperlo.

— Capisco che voi Greci non vediate le cose allo stesso modo, ma i Romani

prendono i voti di castità molto seriamente — continuò Reyna. — Le Vestali, per

esempio… se rompevano i voti e si innamoravano di qualcuno, venivano sepolte

vive. Per questo, il pensiero che una dea vergine possa avere dei figli…

— Concetto afferrato. — La cioccolata calda all’improvviso sapeva di polvere.

C’era poco da stupirsi che i Romani l’avessero guardata tutto il tempo con quelle

facce strane, si disse Annabeth. — Io non dovrei esistere. E perfino se il vostro

campo avesse dei figli di Minerva…

— … non sarebbero come te — concluse Reyna. — Probabilmente sarebbero

artigiani, artisti, forse consiglieri, ma non guerrieri. Non li troveresti mai a capo di

pericolose missioni.

Annabeth stava per obiettare che lei non era a capo di nulla. Non ufficialmente. Ma

si chiese se i suoi amici dell’Argo II sarebbero stati d’accordo. Negli ultimi giorni

si erano sempre rivolti a lei per ricevere ordini; perfino Jason, che avrebbe potuto

fare leva sul proprio rango di figlio di Giove, o Hedge, che non prendeva ordini da

nessuno.

— C’è dell’altro. — Reyna schioccò le dita e, quando Aurum le si avvicinò, gli

accarezzò le orecchie. — Quell’arpia, Ella… ha davvero pronunciato una profezia.

Lo sappiamo tutte e due, vero?

Annabeth deglutì. Qualcosa negli occhi rubino di Aurum la metteva a disagio.

Aveva sentito dire che i cani riescono a percepire l’odore della paura e perfino a

cogliere i cambiamenti nel respiro e nelle pulsazioni degli esseri umani. Non aveva

idea se la cosa valesse anche per i cani di metallo, ma decise che era meglio dire la

verità. — Suonava come una profezia, sì — ammise. — Ma non avevo mai visto

Ella prima di oggi, e non avevo mai sentito quei versi.

— Io sì — mormorò Reyna. — Una parte, almeno.

A pochi metri di distanza, Argentum abbaiò. Un gruppo di bambini si riversò fuori

da un vicolo e si assiepò intorno a lui, accarezzandolo e ridendo, per niente turbati

dai suoi affilatissimi denti.

— Meglio proseguire — disse Reyna.

Cominciarono a risalire la collina. I levrieri le seguirono, lasciandosi i bambini alle

spalle.

Annabeth continuava a lanciare occhiate al volto di Reyna. Un vago ricordo iniziò

a emergere: il modo in cui lei si portava i capelli dietro un orecchio, il suo anello

d’argento con i simboli della torcia e della spada… — Noi ci siamo già incontrate,

vero? — arrischiò. — Ma tu eri più piccola, credo.

— Bravissima. Percy non si ricordava di me. — Reyna le rivolse un sorriso

asciutto. — Di certo avrai parlato di più con mia sorella maggiore, Hylla, che ora è

la regina delle amazzoni. Se n’è andata proprio stamattina, prima del vostro arrivo.

Ad ogni modo, l’ultima volta che ci siamo incontrate, io ero una delle ancelle della

casa di Circe.

— Circe… — Annabeth ricordava bene il viaggio sull’isola della maga. Aveva

tredici anni, allora.

Lei e Percy erano approdati lì navigando nel Mare dei Mostri. Hylla li aveva

accolti e aveva aiutato Annabeth a darsi una ripulita, rivestendola, truccandola e

acconciandole i capelli. Poi Circe le aveva fatto la sua offerta migliore: se

Annabeth fosse rimasta sull’isola, lei l’avrebbe istruita nelle arti magiche,

garantendole un grande potere. Annabeth era stata tentata, almeno un po’, finché

non si era resa conto che quel posto era una trappola, e che Percy era stato

trasformato in un roditore. Quest’ultima parte sembrava divertente a ripensarci, ma

all’epoca era stato terrorizzante. Quanto a Reyna… era stata una delle ancelle che

le avevano pettinato i capelli.

Annabeth scosse il capo, stupita. — Hylla è la regina delle amazzoni? Ma come

avete…?

— È una lunga storia — tagliò corto Reyna. — Ma mi ricordo bene di te. Fosti

molto coraggiosa. Non avevo mai visto nessuno rifiutare l’ospitalità di Circe, né

tantomeno vincerla in astuzia. Non mi stupisce che Percy ti voglia bene. — C’era

una nota di rimpianto nella sua voce.

Annabeth pensò che fosse più saggio non replicare.

Arrivarono in cima alla collina, dove una terrazza panoramica si affacciava

sull’intera vallata.

— Questo è il mio angolo preferito — disse Reyna. — Il giardino di Bacco.

Tralci di vite formavano una tettoia ombrosa. Le api ronzavano tra i caprifogli e i

gelsomini, che riempivano l’aria del pomeriggio con i loro profumi inebrianti. Al

centro della terrazza c’era una statua di Bacco, in una posa che sembrava di danza

classica. Il dio indossava solo un perizoma, aveva le guance gonfie e dalla

boccuccia imbronciata spruzzava acqua in una fontana.

Nonostante le preoccupazioni, Annabeth per poco non scoppiò a ridere. Conosceva

il dio nella sua forma greca, Dioniso, o meglio il signor D., come lo chiamavano al

Campo Mezzosangue. Vedere il loro vecchio e bisbetico direttore immortalato

nella pietra, vestito soltanto di un pezzo di stoffa e con l’acqua che gli sprizzava

dalla bocca, le tirò su il morale.

Reyna si fermò sul bordo della terrazza. La vista ricompensava ampiamente la

fatica della salita. L’intera città si estendeva sotto di loro, come un mosaico in tre

dimensioni. A sud, oltre il lago, si scorgevano i templi appollaiati su una collina. A

nord, un solido acquedotto si allungava verso le colline di Berkeley; c’erano degli

operai che stavano riparando una sezione interrotta, probabilmente danneggiata

durante la recente battaglia.

— Volevo saperla da te — disse Reyna.

Annabeth si voltò. — Sapere cosa?

— La verità. Convincimi che non sto facendo un errore a fidarmi di voi. Parlami di

te, del Campo Mezzosangue. Le parole della tua amica Piper sono intrise di

stregoneria. Ho trascorso abbastanza tempo con Circe per riconoscere la lingua

ammaliatrice, quando la sento. E Jason… be’, è cambiato. Sembra distante, come

se non fosse più tanto romano. — Il dolore che si percepiva nella sua voce era

come una scheggia di vetro tagliente.

Annabeth si chiese se anche lei avesse avuto quel tono, durante i lunghi mesi

trascorsi alla ricerca di Percy. Almeno alla fine aveva ritrovato il proprio ragazzo.

Reyna invece non aveva nessuno, e aveva la responsabilità di dirigere un intero

campo tutto da sola. Annabeth intuiva che avrebbe voluto che Jason la amasse. Ma

lui era scomparso e, quando era tornato, c’era una nuova ragazza al suo fianco. Nel

frattempo, Percy era assurto al rango di pretore, ma anche lui l’aveva respinta. E

ora arrivava lei a portarselo via. Reyna sarebbe rimasta di nuovo sola, a portare il

peso di un compito pensato per due.

Mentre viaggiavano verso il Campo Giove, Annabeth si era preparata all’idea di

negoziare con Reyna o anche di affrontarla in uno scontro, se necessario. Ma non

si sarebbe mai aspettata di provare compassione per lei.

Nascose quel sentimento con cura: dubitava che l’altra l’avrebbe apprezzato. Le

parlò invece della propria vita. Raccontò del padre, della matrigna e dei due

fratellastri a San Francisco, e di come si fosse sentita un’estranea nella propria

stessa famiglia. Raccontò di come fosse scappata di casa a soli sette anni, di come

avesse fatto amicizia con Luke e Talia e fosse riuscita ad arrivare al Campo

Mezzosangue, a Long Island. Descrisse il campo e gli anni in cui era cresciuta lì.

Parlò dell’incontro con Percy e delle avventure vissute insieme.

Reyna era una brava ascoltatrice.

Annabeth fu tentata di parlarle dei problemi più recenti: il litigio con la madre, il

dono della moneta d’argento e gli incubi che stava avendo… quella vecchia paura

così paralizzante, che per un attimo l’aveva quasi convinta a non partire. Ma

ancora non riusciva ad aprirsi così tanto.

Reyna lasciò vagare lo sguardo sulla città, mentre i cani di metallo gironzolavano

per il giardino fiutando l’aria e cercando di acchiappare le api tra i caprifogli. Alla

fine indicò un gruppetto di templi su una collina lontana. — Vedi quel tempietto

rosso? Là, verso nord? Quello è il tempio di mia madre, Bellona. — Reyna si voltò

a guardare Annabeth. — A differenza di tua madre, Bellona non ha un equivalente

greco. È totalmente, autenticamente romana. È la dea che protegge la nostra patria.

Annabeth rimase in silenzio. Sapeva molto poco sul conto di quella dea. Rimpianse

di non avere studiato di più, ma il latino non le veniva facile come il greco. Giù in

basso, in lontananza, lo scafo dell’Argo II scintillava fluttuando sopra il Foro,

come un enorme dirigibile di bronzo.

— Quando noi Romani iniziamo una guerra, andiamo per prima cosa al tempio di

Bellona — continuò Reyna. — Al suo interno c’è una piccola porzione di terreno

che rappresenta il suolo nemico. Noi vi conficchiamo una lancia, a indicare che

siamo in guerra. I Romani hanno sempre creduto che la migliore difesa sia

l’attacco. Nell’antichità, ogni volta che i nostri antenati si sentivano minacciati dai

popoli vicini, li invadevano per proteggere se stessi.

— Conquistarono chiunque avessero intorno — osservò Annabeth. — Cartagine, i

Galli…

— E i Greci. — Reyna lasciò che il commento restasse sospeso. — Non è nella

natura di Roma collaborare con altre potenze. Ogni volta che i semidei greci e

romani si sono incontrati, hanno combattuto tra loro. I conflitti tra le nostre due

parti hanno sempre acceso la scintilla delle peggiori guerre nella storia

dell’umanità… soprattutto le guerre civili.

— Non deve per forza essere così — obiettò Annabeth. — Dobbiamo lavorare

insieme, o Gea ci distruggerà entrambi.

— Sono d’accordo. Ma la cooperazione è possibile? E se il piano di Giunone

avesse dei punti deboli? Anche le dee possono commettere errori.

Annabeth si aspettava che Reyna venisse fulminata seduta stante, o fosse almeno

trasformata in pavone, ma non successe nulla. Purtroppo anche lei condivideva

quei dubbi. Era commetteva errori, sì. Lei per prima non aveva avuto altro che guai

da quella dea altezzosa, e non l’avrebbe mai perdonata per essersi portata via

Percy, anche se lo aveva fatto per una nobile causa. — Non mi fido di lei —

ammise. — Ma mi fido dei miei amici. Questo non è un trucco, Reyna. Possiamo

davvero lavorare insieme.

Reyna finì la cioccolata. Posò il bicchiere sul parapetto della terrazza e scrutò la

vallata come se vi immaginasse le linee di una battaglia. — Credo che tu sia

sincera. Ma, se andrete nelle antiche terre, e soprattutto a Roma, devi sapere una

cosa che riguarda tua madre.

Annabeth irrigidì le spalle. — Mia madre?

— Quando vivevo sull’isola di Circe, avevamo molti visitatori — continuò Reyna.

— Una volta, forse un anno prima che arrivaste tu e Percy, approdò un giovane.

Era quasi impazzito dalla sete e dal caldo. Aveva viaggiato in balìa delle correnti

per giorni. Non parlava in modo molto sensato, ma disse di essere figlio di Atena.

Annabeth si aggrappò al parapetto, per paura di cadere.

— Sì — confermò Reyna, notando il suo disagio. — Continuava a farneticare di un

figlio della saggezza, di un marchio di Atena, della rovina dei giganti che si erge

pallida e dorata. Insomma, le stesse cose che poco fa ha detto Ella. Sei sicura di

non averle mai sentite prima di oggi?

— No… non come le ha pronunciate Ella. — Annabeth parlava con un filo di

voce. Non aveva mai sentito quella profezia, ma sua madre le aveva affidato

l’incarico di seguire il marchio di Atena; e quando pensò alla moneta che teneva in

tasca, un orribile sospetto cominciò a mettere radici nella sua mente. Ricordava le

parole aspre di Atena. Ripensò agli strani incubi che aveva avuto negli ultimi

tempi. — Questo semidio… vi spiegò mai i dettagli della sua missione?

Reyna scosse la testa. — All’epoca non capivo di cosa stesse parlando. Molto più

tardi, diventata pretore al Campo Giove, ho cominciato a sospettare.

— A sospettare… cosa?

— C’è una vecchia leggenda che i pretori del Campo Giove si tramandano da

secoli. Se fosse vera, potrebbe spiegare come mai i nostri due gruppi di semidei

non sono mai stati capaci di collaborare. Potrebbe essere la causa della nostra

animosità. Finché l’antico torto non sarà raddrizzato, dice la leggenda, Greci e

Romani non vivranno mai in pace. E la leggenda è incentrata su Atena…

Un suono acuto lacerò l’aria. Con la coda dell’occhio, Annabeth vide un lampo di

luce. Si voltò appena in tempo per vedere un’esplosione che apriva un cratere nel

Foro. Un divanetto in fiamme volò per aria. I semidei si sparpagliarono presi dal

panico. — Giganti? — Annabeth portò subito la mano al pugnale, che

naturalmente non c’era. — Pensavo che il loro esercito fosse stato sconfitto.

— Non sono i giganti. — Gli occhi di Reyna ribollivano di rabbia. — Avete tradito

la nostra fiducia.

— Cosa? No!

Ma non fece in tempo a dirlo, che l’Argo II lanciò un secondo attacco. La balista di

babordo scagliò un arpione incendiario di fuoco greco, che attraversò lo squarcio

sul tetto del Senato ed esplose, illuminando l’intero edificio come una zucca di

Halloween. Chiunque si fosse trovato all’interno…

— Santi numi, no! — Annabeth si sentì quasi piegare le ginocchia dalla nausea. —

Reyna, non è possibile. Non faremmo mai una cosa del genere!

I cani di metallo accorsero al fianco della padrona. Ringhiavano contro Annabeth,

ma si muovevano incerti, come se fossero riluttanti ad attaccare.

— Stai dicendo la verità — stabilì Reyna. — Forse non eri a conoscenza del

tradimento, ma qualcuno dovrà pagare.

Giù, nel Foro, era il caos. La gente scappava in ogni direzione, facendosi largo a

spintoni. Stavano scoppiando delle risse.

— Qui rischiamo il massacro — disse Reyna, allarmata.

— Dobbiamo impedirlo, andiamo! — Annabeth ebbe la terribile sensazione che

quella fosse l’ultima volta che lei e Reyna agivano di comune accordo, ma corsero

insieme giù per la collina.

Se le armi fossero state ammesse in città, gli amici di Annabeth avrebbero già fatto

una brutta fine. I semidei romani presenti nel Foro si erano fusi in un’unica massa

inferocita. Alcuni lanciavano piatti, cibo e sassi contro l’Argo II, pur essendo del

tutto inutile, dato che la maggior parte delle cose non faceva che ricadere giù.

La folla aveva circondato Piper e Jason. La lingua ammaliatrice di Piper era inutile

contro tutti quei semidei che urlavano rabbiosi.

Jason aveva la fronte insanguinata; la folla aveva fatto a brandelli il suo mantello

di pretore. Continuava a dire: — Sono dalla vostra parte! — Ma la maglietta

arancione del Campo Mezzosangue non migliorava di certo le cose, e nemmeno la

nave da guerra che bombardava di lance infuocate la città era di grande aiuto. Un

colpo atterrò in una bottega vicina, riducendola in macerie.

— Per le brache di Plutone! — imprecò Reyna. — Guarda.

Legionari armati stavano accorrendo verso il Foro. Due truppe di artiglieria

avevano montato le catapulte a pochi passi dalla linea del pomerium e si stavano

preparando a fare fuoco sull’Argo II.

— Non faranno altro che peggiorare le cose — disse Annabeth.

— Odio il mio lavoro — ringhiò Reyna. Si allontanò di corsa verso i legionari,

seguita dai cani.

―Percy, dove sei?‖ si chiese Annabeth, perlustrando disperatamente la folla.

Due Romani cercarono di afferrarla. Lei li schivò e si tuffò in mezzo alla calca.

Come se i semidei inferociti, i divanetti in fiamme e gli edifici bombardati non

bastassero, centinaia di spettri violacei svolazzavano per il Foro, attraversando il

corpo dei semidei e urlando cose senza senso. Anche i fauni stavano approfittando

della confusione generale, depredando i tavoli di ogni traccia di cibo e bevande.

Uno superò Annabeth trotterellando con le braccia piene di tacos e un intero

ananas tra i denti.

Una statua di Terminus si materializzò con un’esplosione proprio di fronte alla

figlia di Atena. Le urlò contro qualcosa in latino, dandole senza dubbio della

bugiarda traditrice, ma Annabeth si limitò a rovesciarla e continuò a correre.

Finalmente individuò Percy. Insieme a Hazel e Frank si era piantato al centro di

una fontana e respingeva i Romani a colpi d’acqua. Aveva la toga a brandelli, ma

sembrava illeso.

Nell’istante in cui Annabeth lo chiamò, un’altra esplosione fece tremare il Foro.

Stavolta il lampo di luce era proprio sopra le loro teste. Una delle catapulte romane

aveva fatto fuoco: l’Argo II cigolò e si inclinò di lato, con le fiamme che

ribollivano sopra lo scafo di bronzo.

Annabeth notò una figura che si aggrappava disperatamente alla scaletta di corda,

cercando di scendere. Era Ottaviano, con le vesti fumanti e la faccia nera di

fuliggine.

Nel frattempo, Percy travolse la folla con un’altra raffica di acqua. — Annabeth!

— gridò. — Ma che accidenti sta succedendo?

— Non lo so! — strillò lei di rimando. Corse da lui, schivando un pugno romano e

un vassoio volante.

— Ve lo dico io quello che sta succedendo! — urlò una voce dall’alto. Ottaviano

era arrivato in fondo alla scaletta. — I Greci ci hanno bombardato! Il vostro amico

Leo ha puntato le armi contro Roma!

Il petto di Annabeth si riempì di idrogeno liquido. Si sentiva sul punto di esplodere

in un milione di pezzi di ghiaccio.

— Stai mentendo — ribatté. — Leo non farebbe mai una…

— Ero lì! — strepitò Ottaviano. — L’ho visto con i miei occhi!

L’Argo II rispose al fuoco. Una delle catapulte esplose in mille pezzi; i legionari si

sparpagliarono nei campi.

Annabeth ringhiò per la frustrazione. Nessuno aveva più il tempo di capire quale

fosse la verità. L’equipaggio del Campo Mezzosangue era in netta inferiorità

numerica. Anche se probabilmente era tutta colpa di Ottaviano e dei suoi trucchi,

non sarebbero mai riusciti a convincere i Romani prima di essere travolti e uccisi.

— Dobbiamo andarcene — disse a Percy. — Subito!

Lui annuì cupo. — Hazel, Frank, a voi la scelta. Venite con noi?

Hazel sembrava terrorizzata, ma indossò l’elmo. — Certo. Ma sarà impossibile

raggiungere la nave se non riusciamo a guadagnare un po’ di tempo.

— E come? — chiese Annabeth.

Hazel fischiò.

Un lampo color nocciola attraversò il Foro come una freccia. Un cavallo maestoso

si materializzò accanto alla fontana; si impennò, nitrendo forte e scacciando con gli

zoccoli la folla. Accanto alla sella c’era una lunga spada della cavalleria romana.

Hazel salì in groppa al cavallo come se non avesse fatto altro in vita sua e sguainò

la lama dorata. — Mandatemi un messaggio-Iride quando sarete al sicuro, e vi

raggiungerò. Vai Arion, corri!

Il cavallo sfrecciò in mezzo alla folla a una velocità incredibile, facendo arretrare i

Romani e spargendo il panico.

Annabeth avvertì una scintilla di speranza: forse avrebbero potuto uscirne vivi. Poi,

in mezzo al Foro, udì la voce di Jason.

— Romani, vi prego! — gridava il figlio di Giove.

Lui e Piper erano bersagliati da una vera e propria pioggia di sassi. Jason cercava

di proteggere la ragazza, ma all’improvviso un mattone lo colpì in fronte,

facendolo accasciare a terra.

La folla si fece avanti.

— Indietro! — urlò Piper. La sua lingua ammaliatrice investì i Romani come

un’onda, facendoli esitare.

Ma Annabeth sapeva che l’effetto non sarebbe durato. Lei e Percy non li avrebbero

mai raggiunti in tempo.

— Frank, tocca a te — disse Percy. — Puoi aiutarli?

Annabeth non capiva come avrebbe potuto, ma Frank deglutì nervosamente. —

Oh, dei — mormorò. — Sì, certo. Voi però salite subito a bordo.

Percy e Annabeth si lanciarono verso la scaletta. Ottaviano era ancora aggrappato

all’ultimo nodo, ma Percy lo tirò giù senza tanti complimenti, gettandolo in mezzo

alla folla. Cominciarono ad arrampicarsi mentre i legionari armati entravano nel

Foro.

Le frecce fischiarono a pochi centimetri dalla testa di Annabeth. Un’esplosione

rischiò di farle perdere la presa. Giunta a metà strada, udì un ruggito ai suoi piedi e

guardò in basso.

I Romani strillavano e fuggivano, mentre un enorme drago avanzava nel Foro: una

bestia perfino più spaventosa della polena dell’Argo II, con la pelle ruvida e grigia

come un varano e le ali da pipistrello. Frecce e sassi rimbalzavano sulla sua

corazza. Il mostro raggiunse Piper e Jason, li afferrò con le zampe anteriori e si

librò in aria.

— Ma quello è…? — Annabeth non riusciva nemmeno a trovare le parole per

dirlo.

— Frank — confermò Percy, poco più in alto di lei. — Ha qualche talento

speciale.

— A dir poco… — mormorò Annabeth. — Continua a salire!

Senza il drago e senza il cavallo di Hazel a distrarre gli arcieri, non ce l’avrebbero

mai fatta; ma alla fine, superando una fila di remi spezzati, furono sul ponte. Il

sartiame era in fiamme. La vela di trinchetto era strappata a metà, e la nave

sbandava malamente a dritta.

Non c’era traccia di Hedge, ma Leo era al centro della nave, e stava ricaricando la

balista in tutta calma.

Lo stomaco di Annabeth si strinse per l’orrore. — Leo! — urlò. — Che cosa stai

facendo?

— Li distruggo… — Il figlio di Efesto si voltò a guardarla. Aveva gli occhi velati

di bianco e si muoveva come un robot. — Li distruggo tutti. — Si voltò di nuovo

verso la balista, ma Percy gli fu addosso in un secondo, gettandolo a terra. Leo

picchiò la testa e rovesciò le pupille.

Il drago grigio comparve in aria, volteggiò una volta intorno alla nave e atterrò a

prua, depositando Jason e Piper.

— Vai! — gridò Percy. — Portaci fuori di qui!

Sconvolta, Annabeth si rese conto che stava parlando con lei. Corse al timone.

Fece l’errore di guardare oltre il parapetto e vide una fila di legionari armati che

serrava i ranghi nel Foro, pronti a bersagliarli di frecce infuocate.

Hazel spronò Arion e galoppò via dalla città, seguita da una folla inferocita. Altri

Romani stavano trasportando nuove catapulte. Lungo tutta la linea del pomerium,

le statue di Terminus brillavano di luce viola, come caricandosi di energia per

lanciare chissà quale attacco.

Annabeth guardò i comandi. Maledisse Leo per averli fatti così complicati. Non

c’era tempo per chissà quale manovra complessa, ma almeno un comando di base

lo conosceva: SU. Afferrò la cloche e la tirò forte verso di sé.

La nave emise un gran cigolio. La prua si impennò a un’angolatura terrificante, le

funi degli ormeggi si strapparono, e l’Argo II schizzò versò le nuvole.

LEO

Leo avrebbe tanto voluto inventare una macchina del tempo. Sarebbe tornato

indietro di due ore e avrebbe annullato quello che era successo. In alternativa,

anche una macchina Molla-Schiaffoni-A-Leo sarebbe andata bene, ma dubitava

che gli avrebbe fatto male quanto l’espressione con cui Annabeth lo stava

guardando in quel momento.

— Spiegamelo di nuovo. Che cos’è successo esattamente?

Leo era accasciato contro l’albero maestro, con la testa che pulsava ancora dopo

aver battuto sul ponte. Intorno a lui, la nave era un macello. Le balestre di poppa

erano ridotte a una pila di legna da ardere. La vela di trinchetto era a brandelli. La

rete satellitare che consentiva il collegamento Internet era ridotta in mille pezzi;

Hedge era furioso. Il drago-polena di bronzo, Festus, tossiva fumo come un gatto

che non riesca a sputare un bolo di pelo. Stando ai cigolii che provenivano da

babordo, alcuni dei remi aerei erano disallineati o spezzati, il che spiegava come

mai la nave sbandasse e sobbalzasse in volo, con il motore che ansimava come una

locomotiva asmatica.

Leo soffocò un singhiozzo. — Non lo so. È tutto molto confuso.

Troppe persone lo stavano guardando: Annabeth (Leo detestava farla arrabbiare;

quella ragazza lo spaventava), Hedge, con le sue zampe pelose di capra e la mazza

da baseball (ma doveva proprio portarsela dappertutto?) e il nuovo arrivato, Frank.

Leo non sapeva cosa pensare di lui, e aveva deciso che era più saggio non

sottolineare la sua somiglianza con un baby-lottatore di sumo. Ed era piuttosto

certo di avere visto, quando era ancora semisvenuto, un drago atterrare sulla nave e

poi trasformarsi in Frank.

Annabeth incrociò le braccia. — Non te lo ricordi?

— Io… — Era come cercare di ingoiare una biglia. — Me lo ricordo, sì, ma è stato

come se guardassi me stesso fare le cose. Non avevo io il controllo.

Hedge picchiettò con la mazza sul ponte. Con la felpa della tuta e il berretto calato

sui corni, era tale e quale a quando i ragazzi lo avevano conosciuto alla Scuola

della Natura, dove aveva trascorso un anno sotto copertura come insegnante di

ginnastica. Dal cipiglio con cui si sentiva squadrato, Leo si aspettava quasi che il

coach gli stesse per ordinare una serie di flessioni.

— Senti un po’, ragazzo… — esordì il satiro. — Hai buttato all’aria un po’ di cose,

hai attaccato i Romani… Fantastico! Ma dovevi per forza far saltare i canali

satellitari? Ero nel bel mezzo di un incontro di lotta.

— Coach, perché non va a controllare che i focolai siano tutti spenti? — gli chiese

Annabeth.

— L’ho già fatto.

— Be’, lo faccia di nuovo.

Hedge si allontanò pestando gli zoccoli e borbottando tra i denti, ma nemmeno lui

era così pazzo da sfidare gli ordini della figlia di Atena.

Annabeth si inginocchiò accanto a Leo. I suoi occhi grigi erano duri come due

sfere d’acciaio. Aveva i capelli biondi sciolti sulle spalle, ma era un particolare che

il ragazzo non trovava affatto attraente. Non aveva idea di quale fosse l’origine

dello stereotipo secondo cui tutte le bionde sono delle oche. Da quando aveva

conosciuto Annabeth quell’inverno al Grand Canyon, e lei gli si era presentata con

quell’espressione da ―Tira subito fuori Percy Jackson o sei morto‖, Leo pensava

che le bionde fossero fin troppo sveglie e pericolose.

— Leo, Ottaviano ti ha forse ingannato in qualche modo? — riprese lei in tono

calmo. — Ti ha incastrato o…?

— No. — Avrebbe potuto mentire e incolpare quello stupido romano, ma non

voleva peggiorare le cose. — Quel tipo era un idiota, ma non è stato lui a fare

fuoco sul campo. Sono stato io.

Frank si scurì in viso. — Di proposito?

— No! — Leo strinse forte gli occhi. — Be’, sì… cioè, non volevo. Ma allo stesso

tempo mi sentivo come se lo volessi. Qualcosa mi stava costringendo a farlo.

Avevo questa brutta sensazione di gelo dentro…

— Una sensazione di gelo. — Il tono di Annabeth cambiò. Sembrava quasi…

spaventata.

— Sì. Perché?

Da sottocoperta, Percy chiamò: — Annabeth, abbiamo bisogno di te.

―Oh, dei‖ pensò Leo. ―Vi prego, fate che Jason stia bene.‖

Non appena erano saliti a bordo, Piper lo aveva portato di sotto. Il taglio che Jason

aveva sulla fronte non prometteva niente di buono. Leo lo conosceva da più tempo

di tutti al Campo Mezzosangue: era il suo migliore amico. Se gli fosse successo

qualcosa…

— Se la caverà. — L’espressione di Annabeth si addolcì. — Frank, torno subito.

Tieni d’occhio Leo, per favore.

Frank annuì.

Se mai fosse stato possibile, Leo si sentì ancora peggio. ―Annabeth adesso si fida

più di un semidio romano che conosce da, tipo, tre secondi, che di me.‖

Quando se ne fu andata, i due ragazzi si fissarono. Frank aveva un’aria piuttosto

strampalata con quella specie di toga a lenzuolo, la felpa col cappuccio, i jeans, e

l’arco e la faretra sulle spalle. Leo ripensò a quando aveva incontrato le Cacciatrici

di Artemide, un manipolo di belle e agili ragazze vestite d’argento e armate di

arco. Immaginò Frank saltellare contento in mezzo a loro. L’idea era così ridicola

che riuscì quasi a tirargli su il morale.

— Allora… — disse Frank. — Non ti chiami Sammy?

Leo aggrottò la fronte. — Che razza di domanda è?

— Niente — si affrettò a rispondere il figlio di Marte. — È solo che… Niente.

Quanto al bombardamento del campo… Potrebbe esserci dietro Ottaviano, con la

magia o roba del genere. Non voleva che i Romani andassero d’accordo con voi.

Leo avrebbe tanto voluto crederci, ed era grato che Frank non lo odiasse. Però

sapeva che non era stato Ottaviano. Era stato lui ad avvicinarsi alla balista e a fare

fuoco. Una parte della propria mente sapeva di stare sbagliando. Si era chiesta:

―Che diamine sto facendo?‖ ma lo aveva fatto lo stesso.

―Forse sto impazzendo‖ si disse. Forse lo stress di tutti i mesi trascorsi a lavorare

sull’Argo II alla fine lo aveva fatto crollare. Ma non poteva pensarci. Aveva

bisogno di fare qualcosa di produttivo, di tenere le mani impegnate. — Senti…

Dovrei parlare con Festus e avere un rapporto sui danni. Ti dispiace se…?

Frank lo aiutò ad alzarsi. — Chi è Festus?

— Un mio amico — rispose Leo. — Neppure lui si chiama Sammy, nel caso te lo

stia domandando. Vieni, te lo presento.

Per fortuna, il drago di bronzo non aveva subito danni. Be’, a parte il fatto che

quell’inverno aveva perso tutto tranne la testa, ma quella era un’altra storia.

Quando raggiunsero la prua della nave, la polena si voltò di centottanta gradi e li

guardò.

Frank urlò di spavento e si ritrasse. — È vivo!

Leo avrebbe riso se non fosse stato ancora così giù. — Frank, ti presento Festus.

Una volta era un drago di bronzo dalla testa ai piedi, ma abbiamo avuto un

incidente.

— Ti capita spesso, allora — notò il figlio di Marte.

— Be’… alcuni di noi non sanno trasformarsi in draghi, perciò se li devono

costruire da soli. — Leo sorrise. — Comunque, l’ho recuperato come polena.

Diciamo che è l’interfaccia principale della nave, adesso. Come buttano le cose,

Festus?

Il drago sbuffò una nuvoletta di fumo e produsse una serie di cigolii e ronzii.

Nel corso degli ultimi mesi, Leo aveva imparato a interpretare quel linguaggio

meccanico. Altri semidei capivano il latino e il greco; lui parlava il criiik e lo

squiiii. — Accidenti! — esclamò. — Poteva andarci peggio, ma lo scafo è

compromesso in diversi punti. I remi aerei di babordo vanno aggiustati prima di

andare di nuovo al massimo. Ci servirà del materiale per le riparazioni: bronzo

celeste, catrame, calce…

— Vuoi prendere la nave a calci? — domandò Frank.

— Calce. Si usa per il cemento e per un sacco di altre cose che… Ah, lasciamo

perdere. Il punto è che questa nave non arriverà lontano se non riusciamo ad

aggiustarla.

Festus emise un altro cigolio, che suonava più o meno come ―A-zul‖.

— Oh… Hazel — intuì Leo. — La ragazza con i capelli ricci, giusto?

Frank trasalì. — Sta bene?

— Sì, sta bene. Secondo Festus, il suo cavallo sta correndo qua sotto. Ci sta

seguendo.

— Dobbiamo atterrare, allora.

Leo scrutò Frank. — È la tua ragazza?

Il figlio di Marte si morse il labbro. — Sì.

— Non ne sembri tanto sicuro.

— Sì. Sì, decisamente sì. Sono sicuro.

Leo alzò le mani. — Okay, va bene. Il problema è che possiamo permetterci un

solo atterraggio. Per come sono conciati i remi e lo scafo, non riusciremo a

decollare di nuovo senza le riparazioni, perciò dobbiamo fare in modo di atterrare

in un luogo che abbia tutto ciò che ci serve.

Frank si grattò la testa. — Dove si prende il bronzo celeste? Mica si trova nei

negozi di ferramenta.

— Festus, fai una ricerca.

— È in grado di fare una ricerca del genere? — chiese Frank, stupito. — C’è

qualcosa che non sa fare?

―Avresti dovuto vederlo quando aveva anche un corpo‖ si disse Leo. Gli era

doloroso ripensare a com’era prima. Sbirciò oltre la prua. Stavano sorvolando la

valle della California centrale. Non nutriva molte speranze di riuscire a trovare

tutto ciò di cui avevano bisogno in un posto solo, ma dovevano tentare. E poi

voleva anche allontanarsi il più possibile da Nuova Roma. L’Argo II poteva coprire

vaste distanze molto in fretta, grazie al motore magico, ma Leo sospettava che pure

i Romani avessero mezzi di locomozione magici.

Alle sue spalle, le scale cigolarono. Percy e Annabeth salirono sul ponte, con la

faccia cupa.

Leo ebbe un tuffo al cuore. — Jason è…?

— Sta riposando — disse la figlia di Atena. — Piper lo sta tenendo d’occhio, ma

dovrebbe essere a posto.

Percy gli rivolse uno sguardo duro. — Annabeth dice che sei stato davvero tu a

fare fuoco.

— Senti, amico, io… davvero non capisco come sia successo. Mi dispiace

moltissimo…

— Ti dispiace? — ringhiò Percy.

Annabeth gli mise una mano sul petto. — Ne verremo a capo più tardi. Ora

dobbiamo riorganizzarci e fare un piano. Qual è la situazione della nave?

A Leo tremavano le gambe. Il modo in cui Percy lo guardava lo faceva sentire

come quando Jason evocava i fulmini. Gli formicolava la pelle, e ogni cellula del

corpo urlava: ―Giù!‖

Riferì ad Annabeth dei danni e del materiale di cui avevano bisogno, provando un

po’ di conforto nel parlare di cose che si potevano aggiustare. Stava lamentando la

carenza di bronzo celeste quando Festus cominciò a ronzare e cigolare. — Perfetto.

— Leo tirò un sospiro di sollievo.

— Che c’è? — domandò Annabeth. — Mi farebbe proprio comodo qualcosa di

―perfetto‖ in questo momento.

Leo riuscì a sorridere. — Tutto ciò di cui abbiamo bisogno si trova in un unico

posto. Frank, perché non ti trasformi in un uccello o roba del genere? Vola giù e

di’ alla tua ragazza di venirci incontro al Great Salt Lake, nello Utah.

Quando arrivarono alla meta, non fecero un bell’atterraggio. Con i remi

danneggiati e la vela di trinchetto strappata, Leo riusciva a malapena a controllare

la discesa.

Gli altri si misero al sicuro sottocoperta. Tutti tranne Hedge, che insistette per

aggrapparsi al parapetto di prua urlando: — Sì! Fatti avanti, lago!

Leo invece rimase al timone da solo, a poppa, cercando di manovrare la nave al

meglio delle proprie possibilità.

Festus cigolava e ronzava avvertimenti, che venivano riportati sul cassero grazie a

un interfono.

— Lo so, lo so — brontolava Leo a denti stretti.

Non ebbe molto tempo per godersi il panorama. A sud-est c’era una città, che

sorgeva ai piedi di una catena montuosa, azzurra e viola nelle ombre del

pomeriggio. Un paesaggio piatto e desertico si stendeva invece verso sud. Sotto di

loro, il Great Salt Lake scintillava come un foglio di alluminio, le rive corrose da

paludi di sale bianco. Sembravano foto aeree di Marte.

— Si tenga forte, coach! — gridò Leo. — Stiamo per farci un po’ male!

— Evviva!

VUUUM!

Un’onda di acqua salata investì la prua, bagnando completamente il satiro.

L’Argo II si inclinò pericolosamente a dritta, quindi si raddrizzò e atterrò con un

forte scrollone sulla superficie del lago. Con un potente ronzio meccanico, le eliche

aeree ancora in funzione assunsero la forma nautica. Tre file di remi meccanici si

tuffarono in acqua e cominciarono a spingere in avanti l’imbarcazione.

— Festus, ottimo lavoro! — esclamò Leo. — Portaci verso la riva meridionale.

— Sììì! — Hedge esultò, alzando i pugni in aria. Era fradicio dalla punta dei corni

alla punta degli zoccoli, ma sorrideva come un caprone impazzito. —

Rifacciamolo!

— Ehm… forse dopo — replicò Leo. — L’importante è che resti sul ponte, okay?

Può fare la guardia… ehm… nel caso il lago decidesse di attaccarci.

— Contaci — promise Hedge.

Leo suonò la campana del ―via libera‖ e si diresse alle scale. Prima di arrivarci,

però, un forte clop-clop fece rintronare lo scafo.

Uno stallone comparve sul ponte, con Hazel Levesque in groppa.

— Ma come…? — Leo era sbalordito. — Siamo in mezzo a un lago! Quel… coso

vola?

Il cavallo nitrì arrabbiato.

— Arion non sa volare, ma può correre su qualunque cosa — spiegò Hazel. —

Acqua, superfici verticali, piccole montagne… per lui non sono un problema.

— Oh… — Leo si accorse che Hazel lo stava guardando in modo strano, proprio

come nel Foro, come se cercasse qualcosa sul suo viso. Fu tentato di chiederle se

non si fossero già incontrati, ma era sicuro di no. Si sarebbe ricordato di una

ragazza così carina che gli prestava tanta attenzione. Non gli capitava spesso. ―È la

ragazza di Frank‖ rammentò a se stesso. Il figlio di Marte era ancora sottocoperta,

ma Leo avrebbe quasi voluto che li raggiungesse. Il modo in cui Hazel lo scrutava

lo stava mettendo in imbarazzo; si sentiva a disagio.

Hedge si fece avanti con cautela, scrutando con sospetto il cavallo. — Valdez, dici

che devo considerarlo un invasore?

— No! — rispose Leo. — Ehm… Hazel, è meglio che vieni con me. Ho costruito

una scuderia sottocoperta, se Arion vuole…

— Arion è uno spirito libero. Pascolerà intorno al lago finché non lo chiamo. —

Hazel smontò con grazia. — Io invece voglio vedere la nave. Fammi pure strada.

L’Argo II era concepita come un’antica trireme, solo che era grande il doppio. Il

primo ponte aveva un solo corridoio centrale, con le cabine dell’equipaggio ai lati.

In una trireme normale, la maggior parte dello spazio sarebbe stata occupata da tre

file di panche su cui sedevano centinaia di rematori sudati, ma i remi di Leo erano

automatizzati e retrattili, perciò impegnavano davvero poco spazio all’interno dello

scafo. La potenza della nave proveniva dalla sala motori sul ponte inferiore, che

ospitava anche un’infermeria, una cambusa e una scuderia.

Leo condusse Hazel lungo il corridoio. Aveva costruito la nave con otto cabine:

sette per i semidei della profezia e una per il coach Hedge. ―Ma come fa Chirone a

considerarlo un accompagnatore adulto e responsabile?‖ si chiese una volta di più

mentre si dirigeva verso la grande sala mensa e soggiorno collocata a poppa.

Passarono davanti alla stanza di Jason, la cui porta era aperta. Piper sedeva sul

bordo della brandina e teneva la mano al figlio di Giove, che russava con una borsa

del ghiaccio sulla testa. La ragazza lanciò un’occhiata a Leo; si portò un dito alle

labbra per dirgli di fare piano, ma non sembrava arrabbiata.

Leo cercò di far tacere il senso di colpa, e continuarono a camminare. Quando

raggiunsero la mensa, trovarono Percy, Annabeth e Frank seduti intorno al tavolo,

con l’aria molto abbattuta.

Leo aveva reso quel posto il più accogliente possibile, immaginando che ci

avrebbero trascorso un sacco di tempo. La credenza era piena di piatti e bicchieri

magici del Campo Mezzosangue, che si riempivano di qualunque cibo o bevanda si

desiderasse. C’era anche un minifrigo portatile per le bibite in lattina, perfetto per i

picnic a riva. Le poltrone erano reclinabili, soffici e massaggianti, con cuffie stereo

incorporate, reggibicchieri e reggispade per soddisfare ogni esigenza di relax

semidivino. Non c’erano finestre, ma le pareti incantate mostravano scene del

Campo Mezzosangue: la spiaggia, la foresta, i campi di fragole…

Leo si chiese se fosse stata una buona scelta. Erano rasserenanti o aumentavano

solo la nostalgia?

Percy, per esempio, stava fissando con rimpianto una veduta della Collina

Mezzosangue al tramonto, con il Vello d’Oro che scintillava tra i rami di un alto

pino. — Allora, siamo atterrati — disse. — E adesso?

— Cerchiamo di capire la profezia? — Frank stava giocherellando con la corda del

proprio arco. — Quella che abbiamo sentito dire da Ella era una profezia, giusto?

Dai Libri Sibillini?

— Da che? — domandò Leo.

Frank spiegò che la loro amica arpia era incredibilmente brava a memorizzare i

libri. In un punto imprecisato del suo passato, aveva praticamente ―inalato‖ una

raccolta di profezie considerata distrutta dall’epoca della caduta di Roma.

— Ecco perché non l’avete detto ai Romani — intuì Leo. — Non volevate che la

prendessero.

Percy continuava a fissare l’immagine del Campo Mezzosangue. — Ella è

sensibile. Era tenuta prigioniera quando l’abbiamo trovata. E non volevo che… —

Il figlio di Poseidone strinse un pugno. — Non ha importanza, adesso. Ho inviato

un messaggio-Iride a Tyson, dicendogli di portare Ella al Campo Mezzosangue. Là

saranno al sicuro.

Fine dell'estratto Kindle.

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