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Il libro

Noto per aver «risvegliato» nel 2008 una ventenne, in stato vegetativo permanente da due anni, conl’elettrostimolazione, il neurochirurgo di fama internazionale Sergio Canavero ci conduce in un viaggioaffascinante nei misteri del nostro cervello e di un imminente quanto sconvolgente futuro. Attraverso unappassionante racconto autobiografico, fatto di studi, scoperte e incontri con i pazienti – che lo cercanoda tutto il mondo per le tecniche d’avanguardia che utilizza –, spiega quali sono le nuove frontiere dellamedicina, le nuove terapie allo studio per traumi e malattie ritenute finora incurabili. Ne risulta unalettura che lascia senza fiato per il serrato ritmo narrativo e per le incredibili prospettive che rivela:Canavero ama da sempre spingere il pensiero oltre i confini del conosciuto, alla testarda caccia diuna risposta terapeutica anche quando nessun altro rimedio pare possibile. Ogni volta, però, con irigorosi dati della letteratura medica alla mano. In queste pagine illustra il suo controverso progetto, il«trapianto di testa», una terapia estrema per fornire una risposta ai casi clinici estremi, che ha giàriscosso un concreto e crescente interesse da parte dei chirurghi statunitensi, cinesi e russi. Un libroche apre scenari rivoluzionari per la medicina e pone le basi per allungare la vita umana.

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L’autore

Sergio Canavero (1964), è un neurochirurgo torinese. Abilitato all’esercizio della professione medicanegli Stati Uniti, ha al suo attivo oltre un centinaio di pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali ediversi libri. Ha fondato e dirige il «Tang», il Turin advanced neuromodulation group, un think tank diricercatori che da anni opera nel campo delle tecniche di stimolazione cerebrale. Si è impostoall’attenzione della comunità scientifica mondiale nel 2008, dopo aver risvegliato, grazie aun’elettrostimolazione corticale, una ventenne in stato vegetativo permanente dal 2006 a causa di unincidente stradale. Nel 2013 ha mandato in fibrillazione medici, mass media e opinione pubblica colsuo rivoluzionario progetto: la possibilità sperimentale di effettuare un trapianto di testa. Nel 2014 imedia hanno parlato della sua proposta di modificare con la stimolazione cerebrale l’attività delcervello degli psicopatici criminali.

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L’autore

Edoardo Rosati, laureato in medicina e giornalista medico-scientifico, ha fatto parte della redazione diCorriere Salute ed è responsabile delle pagine dedicate alla scienza medica di Oggi. È autore didiversi libri di saggistica e di narrativa.

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SERGIO CANAVERO CON EDOARDO ROSATI

IL CERVELLO IMMORTALE

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A Marco e Serena, ricordando loro che «chi osa vince»

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Prefazione NEGLI anni Settanta, Robert J. White, neurochirurgo di Cleveland alla Case Western ReserveUniversity, fu un assoluto pioniere nel trapianto di testa: i suoi studi estremamente dettagliati glipermisero di effettuare con successo l’intervento da una scimmia a un’altra. All’epoca White scrisse:«Ciò che è stato realizzato nel modello animale – il trapianto cefalico in condizioni protette grazie allariduzione della temperatura corporea – è totalmente applicabile alla sfera umana. La scelta di questaprocedura drastica potrà avere una sua giustificazione in virtù non solo dei futuri progressi dellascienza medica, ma anche alla luce di appropriate considerazioni etiche e sociali». Nel 1999 predisseche «la materia di cui son fatti i romanzi di fantascienza – prima fra tutti la storia di Frankenstein, in cuiun intero essere umano viene costruito cucendo assieme parti di vari corpi – diverrà una realtà clinicaall’inizio del XXI secolo [...]. Grazie ai grandi passi in avanti compiuti dalle tecnologie chirurgiche e dallagestione post operatoria, è ora possibile pensare di adattare il trapianto di testa (o di corpo, a secondadei punti di vista) all’essere umano». 1

Il più grande ostacolo, in tutta la procedura, è riuscire a congiungere il midollo spinale del donatore aquello del ricevente. Ma i numerosi miglioramenti tecnici che sono stati portati a termine a partire daglianni Settanta rendono fattibile proprio questa riconnessione.

Ebbene, l’autore del presente libro, il dottor Sergio Canavero, ha avanzato la sua proposta: un progettoper concretizzare il trapianto di testa in chi è affetto da una malattia incurabile che ha colpito il corpoma non il cervello, così da offrire al paziente una nuova possibilità di vita. 2

Sono responsabile editoriale della rivista Surgical Neurology International, e ho toccato con manol’accesa controversia scatenata dal dottor Canavero: ma sono convinto che lo scopo delle rivistemedico-scientifiche non sia rifiutare la pubblicazione di lavori come quello del neurochirurgo di Torinobensì, al contrario, diffondere il più possibile le nuove informazioni all’interno della comunità degliscienziati e presso il pubblico, affinché simili idee vengano discusse e non represse. Non sta a megiudicare che cosa i nostri lettori debbano leggere: mi basta sapere che i contenuti che pubblichiamosono sostenuti da un buon ragionamento scientifico e da esperimenti altrettanto validi. Per questomotivo abbiamo pubblicato il lavoro del dottor Canavero, e più di 150.000 lettori, negli ultimi due anni,hanno avuto modo di addentrarsi nei suoi studi. Certo, tutto ciò ha generato un formidabile dibattito – ilche è bene –, sollevando polemiche di carattere scientifico ed etico-sociale. Ma ritengo che questadiscussione globale sia assolutamente importante e ineludibile, proprio perché argomenti del generenecessitano di un confronto forte e vasto: del resto, stiamo parlando del nostro futuro. Canavero ne èconsapevole, ha ribattuto ragionevolmente agli attacchi e, alla fin fine, non possiamo nascondere chela sfida che ha davanti è grande.

Il suo «paziente zero» (il russo Valery Spiridonov, N.d.R.) ha voluto abbracciare la possibilità di viverecon un nuovo corpo, perché il suo è gravemente compromesso (e in preda a una progressivadegenerazione). L’altra opzione è vedersi morire. E queste non sono scelte sindacabili, maappartengono solo e unicamente al paziente. Non ad altri individui che non sono malati come lui.

Il dottor Canavero, come tanti altri pionieri del passato, sta ricevendo nel contempo sostegno e criticheda parte del mondo medico e dell’opinione pubblica. Per certi versi, mi viene da pensare a Galileo,quando fu attaccato per aver proposto la sua concezione della Terra che gira attorno al Sole (all’epocalo scienziato fu persino processato e condannato dal Sant’Uffizio, costretto all’abiura delle sue nozioniastronomiche). Tanti altri personaggi, della scienza, dell’arte e del mondo degli affari, hannoconosciuto lo stesso trattamento, salvo poi tornare sulla cresta dell’onda perché le loro idee eproposte all’avanguardia sono state rivalutate o si sono addirittura avverate.

Nel XXI secolo, Internet e miliardi di telefoni cellulari nel pianeta consentono di comunicare all’istante,uno scenario nemmeno lontanamente immaginabile prima degli anni Novanta, il periodo in cui questenuove tecnologie vennero introdotte. 3 Secondo il celeberrimo inventore e informatico Raymond

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nuove tecnologie vennero introdotte. 3 Secondo il celeberrimo inventore e informatico Raymond

Kurzweil, il tasso di produzione delle informazioni nel XXI secolo risulterà mille volte più veloce chenegli ultimi cinque anni del XX secolo; Kurzweil ipotizza che l’intelligenza artificiale supererà il cervelloumano e potrà sostituire del tutto la nostra materia grigia, che le malattie verranno debellate e che lagente vivrà 150 anni o più. 4

E allora perché un trapianto di testa è ancora così controverso? Perché rappresenta il cambiamento.Ma il punto è questo: il nostro domani, nel corso di questo secolo e oltre, sta già rapidamentecambiando.

Un pianeta simile alla Terra è stato di recente individuato, e altri nuovi corpi celesti verrannoverosimilmente identificati. 5 Che cosa implicherà questa inedita realtà scientifica per la nostra civiltà,se scopriremo che lassù vivono altri popoli più avanzati di noi esseri umani?

La risposta potete darvela da soli, se la vostra mente è aperta alle nuove idee.

Proprio come quella del dottor Canavero.

James I. Ausman, MD, PhD

Professore di Neurochirurgia, UCLA

Editor in chief, Surgical Neurology International

28 giugno 2015

1 Sergio Canavero, «HEAVEN: The head anastomosis venture Project outline for the first human headtransplantation with spinal linkage (GEMINI)», in Surg Neurol Int, 2013; 4:335-42. Consultabile anchein surgicalneurologyint.com/surgicalint_articles/heaven-the-head-anastomosis-venture-project-outline-for-the-first-human-head-transplantation-with-spinal-linkage-gemini/

2 Sergio Canavero, «Editorial. The ‘Gemini’ spinal cord fusion protocol: Reloaded», in Surg Neurol Int,2015 Feb 3; 6:18. Consultabile anche in surgicalneurologyint.com/surgicalint_articles/the-gemini-spinal-cord-fusion-protocol-reloaded/

3 Ramez Naam, «How Innovation Can Save the Planet», in The Futurist, 2013; 47. Consultabile anchein www.wfs.org/futurist/2013-issues-futurist/march-april-2013-vol-47-no-2/how-innovation-could-save-planet/

4 Alexandra Wolfe, «Weekend Confidential: Ray Kurzweil», in Wall Street Journal, 2014 May 30.

5 NASA’s Kepler Discovers First Earth-Size Planet In The «Habitab le Zone» of Another Star, 2014 Apr17. Consultabile in www.nasa.gov/ames/kepler/nasas-kepler-discovers-first-earth-size-planet-in-the-habitable-zone-of-another-star/

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PARTE PRIMA

Le verità nascoste

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Il sogno di un bambino LA chiave di tutto ciò che leggerete in queste pagine può essere riassunta così: ebbene sì, sono untopo di biblioteca. E un accanito bibliofilo.

Sposando l’aforisma del filosofo americano George Santayana, ovvero «Coloro che dimenticano ilpassato sono condannati a ripeterlo», ho trovato le porte giuste in una letteratura medico-scientificasepolta dalla polvere dei decenni, in testi scritti in francese, inglese, tedesco, russo, spagnolo (lingueche in un modo o nell’altro sono in grado di comprendere).

Sì. Come in ogni caccia al tesoro, la mappa con la proverbiale «X» giaceva in fondo a un bauleabbandonato in una soffitta. Bisognava solo scovarla e soffiarvi sopra.

Ecco. La più grande avventura medica di tutti i tempi comincia così.

Ma procediamo con ordine.

Devo confessarvi subito che sin dalle elementari ero un grande appassionato di fantascienza. Daglieterni classici firmati da Jules Verne ai fumetti. Avrò letto non so quante volte Dalla Terra alla Luna. Unmix culturale che innegabilmente mi ha formato, spronato l’immaginazione, allargato la curiosità, espinto a esplorare, come dire, i territori del «fantastico» dal punto di vista dell’attitudine mentale.

In questo mare magnum di stimoli che assorbivo con avidità da bambino, ricordo di aver visto, più omeno all’età di 8 anni, una puntata della serie televisiva Medical Center, in cui il protagonista, il dottorJoe Gannon, rimaneva temporaneamente cieco dopo uno scontro automobilistico. All’epoca (parliamodella prima metà degli anni Settanta) non esistevano la TAC o la risonanza magnetica e l’esamediagnostico cui fu sottoposto il personaggio nell’episodio in questione era (cosa che ovviamente avreiricordato e compreso più tardi) un’angiografia cerebrale.

Quella sequenza, per gli arabeschi del destino, finì per ipnotizzarmi e rimase stampigliata a fuoconella mia testa. Ma ci fu anche un altro spezzone televisivo che mi intrigò in modo particolare:l’intervista a un paziente inglese, il quale, dopo un complesso intervento chirurgico agli occhi, avevariacquistato la capacità di vedere, probabilmente in seguito a un innesto di cornea o all’inserimento diuna lente intraoculare.

L’uomo dichiarò qualcosa di simile: «Puntare lo sguardo lassù e rivedere il cielo azzurro... è la cosapiù bella che esista al mondo». Mi emozionai enormemente. Riassaporo ancora i battiti forti del miocuore bambino, in quell’occasione. Un cuore non felicissimo, peraltro: fanciullezza difficile. Vissuta dasolitario. Il palazzo in cui abitavo a Torino era circondato da altre e alte colate grigie di cemento. Ognivolta, quando mi affacciavo al balcone, mi sentivo come la diligenza attaccata da un circolo di indianigiganteschi, che soffocavano la vista. E allora, ricalcando le orme del paziente inglese, fissavo il blu làin alto e fantasticavo. Le nuvole erano la lavagna su cui scrivevo i miei sogni.

Insomma, lo sapete: bastano pochi, ma cruciali e magici, «tocchi di vita» per influenzare, in unragazzino, la scelta di «quello-che-farò-da-grande». Da lì, quindi – da questa miscela di suggestionitelevisive – nacque ufficialmente la mia smisurata passione per la medicina e, sin da subito, per... ciòche c’è nella nostra testa.

Ma il battesimo ufficiale in virtù del quale la mia esistenza si sarebbe indirizzata verso le neuroscienzefu la lettura, a 15 anni, di un numero speciale delle Scienze (l’edizione italiana di Scientific American).Novembre 1979: un bel giorno vado alla «mia» edicola prediletta, vicino a un grande e verde parcogiochi (dove, potrei dire, ho trascorso tutta l’infanzia, per fuggire dal cemento). Comincio a scorrere,come al solito, l’offerta dei fumetti (che adoravo e tuttora amo) alla ricerca di qualche succulento albo,e a un certo punto nel mare di carta intravedo (per caso? «Nulla succede per caso», dice nel suo libro

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e a un certo punto nel mare di carta intravedo (per caso? «Nulla succede per caso», dice nel suo libro

Robert H. Hopcke) questa rivista scientifica. Restai folgorato sulla via di Damasco, perché FrancisCrick, Premio Nobel per la Medicina nel 1962 (per aver realizzato, con James Watson, il primo precisomodello della struttura del DNA), parlava in quelle pagine del mistero ultimo: la coscienza, cioèl’insondabile consapevolezza che abbiamo di noi stessi e del mondo esterno con cui siamo inrapporto, della nostra identità e del complesso delle attività interiori.

In seguito, un altro momento completò, come la tessera mancante di un puzzle, il mio percorsomentale, poco prima di ultimare il liceo classico – immerso nel greco antico, nel latino e per qualchetempo anche nel sanscrito –, quando cioè venni a conoscenza degli studi di un certo dottor Robert J.White.

Chi era costui? Neurochirurgo statunitense (nato nel 1926 e scomparso nel 2010), autore di oltre10.000 interventi e 900 pubblicazioni, devoto cattolico (era membro della Pontificia Accademia delleScienze), progettò un atto chirurgico no limits con l’intenzione di fornire una terapia per sanare ognipatologia: il trapianto di testa.

In realtà, risalgono al 1908 i pionieristici tentativi di innestare la testa di un organismo su un diversoindividuo: lo storico primo autore delle audaci manovre (su un cane) fu il fisiologo americano CharlesClaude Guthrie. In seguito, il lavoro dello scienziato sovietico Vladimir Demikhov, tra gli anni Quarantae Cinquanta, influenzò profondamente il futuro della trapiantologia.

Il punto di svolta, però, giunse con White: effettuò il primo tentativo sulle scimmie, il 14 marzo del 1970,al MetroHealth Medical Centre a Cleveland, nell’Ohio, con un intervento durato 18 ore, assistito dadecine di persone. L’animale rimase paralizzato. Ma sopravvisse per una settimana circa. White avevatestato la tecnica su 8 esemplari (4 donatori e 4 riceventi), e in nessun caso si verificò un rigettoiperacuto dei tessuti cerebrali. Il chirurgo continuò a dichiarare con caparbietà che un trapianto di testanell’uomo sarebbe stato possibile all’inizio del XXI secolo. Domanda: per quale motivo non aveva piùproseguito i suoi esperimenti, visto che si erano rivelati così promettenti? «Perché hanno avuto,appunto, successo. Sono riuscito a dimostrare quello che volevo dimostrare», ebbe a dire inun’intervista rilasciata al Corriere della Sera nel 1997.

L’impresa di White, quell’obiettivo che sembrava appartenere al regno della fantamedicina, mi stregò.Irrimediabilmente. Avevo deciso: in quel progetto, frontiera estrema della chirurgia, dovevo essercianch’io.

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I primi passi con il camice bianco NEL 1983 iniziai il corso di laurea in Medicina e chirurgia e ben presto divenni allievo internonell’Istituto di Anatomia dell’ateneo di Torino, dove erano sfilate tre menti eccelse, tutte, poi, diventatePremi Nobel: Rita Levi Montalcini (per la scoperta dell’NGF, il Nerve Growth Factor, il fattore di crescitadelle cellule nervose), Salvatore Luria (per le fondamentali ricerche sulla moltiplicazione e mutabilitàdegli agenti virali) e Renato Dulbecco (che ha esplorato il meccanismo d’azione dei virus oncogeninelle cellule animali).

Ricordo due anni di assoluta eccitazione fra vetrini, microscopi e isotopi radioattivi, alle prese con unaserie di ricerche incentrate sulla rigenerazione dei neuroni presenti nell’intestino dei ratti.«Eccitazione» è la parola giusta: il mio cervello galoppava, con frenesia disegnavo ipotesi su ipotesisui lati ancora oscuri e insondati del nostro sistema nervoso. Per esempio, già mi chiedevo all’epoca:i sogni, per manifestarsi, necessitano dell’integrità della retina dell’occhio oppure dipendono dallasola attività cerebrale? Sul tema tutti vi diranno che l’esperienza onirica è frutto dell’operato delcervello. Ma io allora, da studente irrequieto quale ero, sempre a caccia di risposte, intervistai un paiodi non vedenti dalla nascita, con lesione retinica, all’Unione Italiana Ciechi di Torino: mi rivelarono chenon sognavano. Tornai a casa in tram col cuore che pompava a mille! Mai sentito più felice. La miaprima grande scoperta: a soli 19 anni! Scrissi persino alla prestigiosissima Nature (su dei fogliprotocollo), una delle più antiche e blasonate riviste scientifiche esistenti, che però rispedì al mittente il«rivoluzionario» scritto. Per giunta, con un effetto collaterale piuttosto sgradevole: poiché avevoriportato sulla busta l’indirizzo dell’Istituto universitario, il direttore in persona si vide recapitare larisposta negativa di Nature. Risultato: quando si trattò di pubblicare un lavoro a cui avevo partecipato, ilmio nome venne simpaticamente cassato.

Comunque, appresi la lezione. Ventunenne, inviai a Science un altro articolo sulla natura dellacoscienza (l’argomento centrale di tutta la mia ricerca e speculazione) e in quell’occasione mipremurai di scrivere nell’intestazione... l’indirizzo di casa!

Già, la natura della coscienza: sempre protagonista dei miei pensieri, rimaneva il mistero dei misteri.Ricordo ancora le mie giovanili, lunghissime camminate per le vie di Torino, completamente assorbitodall’enigma: come potevano delle cellule nervose produrre uno stato soggettivo, delle emozioni, dellesensazioni così coinvolgenti, così perturbanti? Come riuscivano in questa mirabile impresa di farci...«essere», di farci sentire ciò che siamo?

Credetemi, nella mia testa questo assillo frenetico, sull’orlo dell’insondabile, cominciò a sgomitare atal punto che mi creò uno stress psicologico spaventoso. E volete sapere come decisi di gestire ilcarico d’ansia? Alla mia maniera, cioè nel modo più energico possibile: iniziando a praticarebodybuilding (disciplina, per inciso, che non ho più abbandonato). Da quel grissino che ero miingrossai molto, e nove mesi dopo mi sottoposi pure a un battesimo del fuoco partecipando a unagara. Ovviamente, non assumendo strane miscele di aminoacidi e ormoni, non avevo speranze difarcela, ma lo confesso: mi divertii un mondo! Un po’ meno i miei genitori, che, alla notizia,strabuzzarono gli occhi, senza emettere parola.

Era il 1987, anno che segnò anche l’inizio dell’internato in Neurochirurgia. Da subito mi ero convintoche soltanto concentrandomi sullo studio dell’essere umano avrei collezionato le risposte checercavo. C’era fermento in quegli anni, e io avvertivo sulla pelle tutta l’elettricità delle speranzealimentate dalle innovative possibilità di cura che andavano profilandosi: si diffondevano i primi lavorirelativi ai trapianti di cellule nel tessuto cerebrale dei malati colpiti da patologie neurodegenerative(come la malattia di Parkinson).

Ero totalmente galvanizzato per gli scenari pazzeschi che stavano schiudendosi. Nel frattempo, la

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Ero totalmente galvanizzato per gli scenari pazzeschi che stavano schiudendosi. Nel frattempo, la

fascinazione liceale per gli esperimenti di White mi portò a esaminare nel dettaglio gli articoli delprofessore americano. Inizialmente il mio intento era quello di vagliare la fattibilità di un trapianto dicervello (non di testa in toto). Cominciai quindi a considerare la tecnologia allora disponibile.Tralasciando per un momento il fatto che la legge italiana vieta questo atto chirurgico, come il trapiantodelle gonadi, cioè dei testicoli e delle ovaie, il dilemma tecnico nel trapianto di cervello sta nelriconnettere non solo il midollo spinale ma anche tutti i nervi cranici, per non parlare delle strutturearteriose e venose.

Le mie riflessioni sugli scogli che questa impresa comportava mi portarono a elaborare persino unprogetto per la rigenerazione del nervo ottico, come primo passo per un trapianto totale di occhio (latestimonianza toccante di quel paziente inglese, alla TV, era sempre viva nei miei ricordi). Quello otticoè infatti il più voluminoso e «maneggevole» di tutti i nervi cranici: fu quindi il primo su cui mi concentrai(anche con l’intento parallelo di trovare una soluzione chirurgica contro la cecità). L’idea era indurre ilnervo ottico sezionato a ricostituirsi all’interno di una speciale guida tubulare, con l’ausilio di fattori dicrescita infusi mediante una micropompa, il tutto corroborato da una corrente elettrica prodotta da unabatteria esterna per l’intera durata della rigenerazione nervosa.

Avevo 27 anni quando l’articolo venne pubblicato: l’interesse suscitato fra gli studiosi fu sorprendente.Alcuni colleghi oftalmologi osservarono che ristabilire le connessioni oculari vascolari (di arterie evene) sarebbe stato assai difficoltoso, ma venni anche raggiunto da un’emozionante telefonata dalCanada: mi chiedevano quando avrei iniziato materialmente a lavorare al progetto. Dissi che il pianod’azione c’era, ma non i fondi. Con la giusta dose di sfrontatezza, giunsi a chiederli ai signori del LionsClub.

Mi risposero picche.

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Il più atroce dei dolori IN medicina si chiama «dolore centrale». È l’espressione di una lesione o di una disfunzione delsistema nervoso centrale (encefalo e midollo spinale) e rappresenta una condizione dolorosa assaidifficile da trattare. Parliamo di un dolore cronico, continuo, spontaneo, localizzato in una regionecorporea più o meno ampia, spesso accompagnato da altre sensazioni spiacevolissime, lecosiddette «disestesie», e anche da prurito. In altre parole, succede che il cervello o il midollodanneggiato (per un accidente cerebrovascolare come un ictus, per un trauma o per le lesioni dellasclerosi multipla) generi delle sensazioni dolorifiche pure. Non ci sono, per capirsi, cause nocive«periferiche», stimoli che agendo dall’esterno facciano soffrire.

Il dolore centrale è un supplizio lancinante. Una spada nella roccia: è lì, conficcata nelle profonditàdella carne, ed estrarla è un’impresa. Ne sa qualcosa, purtroppo, l’attrice Dalila Di Lazzaro, soggetta auna forma di dolore cronico retaggio di un brutto incidente in moto subito nel 1997. Come dicosempre, la sofferenza che si sperimenta in questa situazione non è augurabile nemmeno al peggiornemico.

Il dolore centrale calamitò presto i miei sforzi, soprattutto perché ebbi l’occasione di lavorare propriocon lo scienziato che aveva individuato gli «ingranaggi» anatomici alla base di questa patologia, ilprofessor Carlo Alberto Pagni. Si trattava di un problema che si pose sul mio cammino come unmacigno insormontabile: la famosa scimmia di White (la cui testa era stata trapiantata sul corpo di unaltro primate) accusava infatti dolore, e verosimilmente proprio di questo tipo. Cominciai a raccoglieretutta la letteratura medico-scientifica sul tema. Una bella faticaccia. Finché, nel 1992, mi ritrovai aesaminare una pubblicazione: il caso di un paziente il cui dolore centrale era incredibilmentescomparso all’improvviso, dopo una lesione poco al di sotto della corteccia cerebrale parietale (quellache si trova subito dietro la porzione frontale, anteriore, del cervello ed elabora le sensazioni corporee).Gli autori americani non erano stati in grado di giustificare un simile fenomeno. Anzi, brancolavano nelbuio più fitto. Ma d’altra parte era comprensibile. Tutta questa faccenda, l’eventualità cioè che il cervellopotesse elaborare dopo un ictus una sensazione dolorosa in assenza di stimoli, così,autonomamente, era stata dapprima accolta con forte scetticismo nel 1891, quando il grandeneurologo tedesco Ludwig Edinger per primo aveva preconizzato tale possibilità; poi, dinanzi almistero della sua genesi, si finì per ignorarla quasi del tutto (e ancora oggi sono pochissimi i cultoridella materia). Peraltro gli studiosi che avevano comunicato quel caso di «guarigione» non erano ingrado di spiegarne il motivo, anche perché le teorie di allora, relative al dolore centrale, proprio nonprevedevano che la corteccia cerebrale potesse essere uno degli attori del meccanismo.

L’esperienza mi ha insegnato che nella scienza le cose funzionano in questa maniera: o uno inventadi sana pianta qualcosa di assolutamente inedito oppure qualcuno fa due più due e d’un tratto collegatrasversalmente fatti in apparenza scollegati. Io sono di questa parrocchia. E il precedente che accesela lampadina fu la lettura casuale di un articolo, avvenuta nel 1991, durante il mio periodo di internatoal reparto di Neurochirurgia dell’ospedale Pierre Wertheimer di Lione, dove il professor Pagni miaveva indirizzato pur di non... perdermi. Già: infatti avevo superato il tostissimo FMGEMS, ovvero ilForeign Medical Graduate Examination in the Medical Sciences, praticamente l’esame perl’ammissione alla professione medica all’estero, che ora equivale all’USMLE, la United States MedicalLicensing Examination, una serie di prove che testano la capacità e maturità per entrare nel sistemasanitario americano. Con questo prestigioso attestato in mano, avevo iniziato a spedire a destra e amanca domande su domande alle varie scuole di specializzazione statunitensi. Alla fine,strategicamente, si optò per la Francia, pregevole «palestra» senz’altro più a tiro. Mi tuffai nella riccabiblioteca locale e qui fui colpito da un articolo che parlava di un possibile meccanismo dellacoscienza, basato su una specie di incessante «ping pong» (riverberazione, in termini scientifici) diimpulsi elettrici fra la corteccia e i talami, quelle due grosse formazioni grigiastre, collocate al centrodell’encefalo, che costituiscono il punto di raccolta e di smistamento verso la corteccia cerebrale diquasi tutti gli impulsi esterni e interni (esercitando allo stesso tempo una fondamentale azione di

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quasi tutti gli impulsi esterni e interni (esercitando allo stesso tempo una fondamentale azione di

controllo sull’attività corticale stessa).

Il dato più rilevante di questo studio era che il flusso di sollecitazioni da parte della corteccia verso iltalamo risultava dieci volte maggiore rispetto al percorso inverso. Incamerai l’informazione. E il mioinconscio non smise mai di elaborarla. Si dice proprio questo: che il nostro cervello continua aelucubrare e congetturare un problema che ci assilla, alla ricerca di una soluzione, anche quandosiamo in altre faccende affaccendati. E io, allora nemmeno trentenne, adoravo dedicare alla biciclettaore e ore del pomeriggio al Parco del Valentino, il più famoso e antico giardino pubblico di Torino,anche con lo scopo non così recondito di intercettare qualche bella jogger.

Scrivo questa frase e ripenso con nostalgia a quel periodo... Eh, già: in quella suggestiva cornicecittadina il sottoscritto ebbe modo di costruirsi una bella esperienza sull’«altra metà del cielo». A talpunto che parecchi anni dopo, nel 2005, sfornai persino un libro sul tema, Donne scoperte, in cuiesponevo le mie idee su come «accelerare» la fase della seduzione, in una sorta di rivisitazione dellagrande Ars amatoria del poeta latino Ovidio. In pratica, ripercorrevo le tappe ovidiane alla luce delleattuali conoscenze neuropsicologiche sul cervello (sessuale) femminile.

Quando Piero Chiambretti ricevette una copia omaggio del saggio, si entusiasmò e mi chiamò perpartecipare al suo varietà televisivo Markette – Tutto fa brodo in TV: avrei dovuto intervistare una star diturno (in programma figurava pure Alba Parietti), con tre domande a sfondo psicologico, per poiconfezionare l’approccio migliore a uso e consumo dei telespettatori maschi. Meno male che non sene fece nulla, altrimenti oggi non avreste dinanzi a voi il «nuovo dottor Frankenstein» (l’appellativoattualmente più utilizzato nei miei riguardi) ma – come mi aveva battezzato lo stesso Chiambretti – il«Dottor Sottile». Comunque, per par condicio, ci tengo ad aggiungere che nel 2007 scrissi un analogolibro su... noi maschi: Uomini a nudo. Addentrandomi nella psiche maschile, tracciavo un quadro delleangosce e dei desideri più nascosti dell’uomo, suggerendo approcci e tecniche di seduzione efficacida parte femminile. Perché, come scrissi, il cervello delle donne è nella posizione di sapere qualcosache gli uomini non riescono ad articolare in discorsi sensati...

Chiudo la parentesi e torniamo al Parco del Valentino. Mentre pedalavo, una fetta dei miei neuronifantasticava, arzigogolava, tramava, architettava... Finché: bingo! L’illuminazione.

Vedete, io penso che ciascuno di noi debba impegnarsi per ritagliarsi ogni giorno una fettina di tempoe... pensare. Sì, pensare. Non lo facciamo. Ci preoccupa di più l’«agire». Ma tutto questo «fare»,confessiamolo, è il più delle volte un coacervo di azioni meccaniche, che proseguono nel loro motoper forza di inerzia. E invece dovremmo tutti recuperare un legittimo spazio per ragionare, riflettere,considerare, meditare, ponderare, rimuginare, scervellarci, speculare. Gli antichi romani parlavano diotium , termine che oggi ha assunto un significato negativo, di cui allora comprendevano il valore.Bertrand Russell, il famoso filosofo inglese, scrisse persino una raccolta di saggi, Elogio dell’ozio, eAlbert Einstein affermò che l’immaginazione è più importante della conoscenza. Ma un esempioeclatante e recente ci arriva dal grande Kary Mullis, il biochimico statunitense vincitore del PremioNobel per la Chimica nel 1993. In un fine settimana ha rivoluzionato il corso delle scienze medicheconcependo la PCR, la Polymerase Chain Reaction, la tecnica della reazione a catena dellapolimerasi, che consente di ottenere un numero strabiliante di copie di un preciso filamento di DNAcon una reazione semplice. Mullis stesso racconta che il colpo di genio scaturì... staccando la spinadalla routine, un venerdì sera della primavera del 1983, mentre guidava verso le montagne diMendocino County, in California, per un weekend di relax. In uno schiocco di dita afferrò con nitidezzache poteva produrre un’enorme quantità di copie di una sequenza di acido desossiribonucleico, invirtù di un processo per il quale erano già noti tutti gli ingredienti. «Era tutto così banale che nonriuscivo a credere che nessuno lo avesse già pensato e realizzato prima», ha raccontato Mullis. «AMendocino non avevo telefono, il lunedì mattina, prestissimo, mi precipitai in biblioteca. Scoprii chenessuno aveva mai amplificato il DNA, né la cosa, per la verità, parve interessare granché i mieicolleghi. C’è voluto tempo prima che fosse intuita la portata della scoperta e perfino Nature e Science,le riviste scientifiche più accreditate, rifiutarono il mio primo lavoro sulla PCR comunicandomi chepoteva essere utile solo a una ristretta cerchia di specialisti.»

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È la mela di Isaac Newton. Quando sulla testa dello scienziato inglese – così narra la leggenda –seduto sotto un melo nella sua tenuta a Woolsthorpe, cadde un pomo, gli balenò un pensiero, unflash mentale che d’un botto lo indusse a pensare alla gravitazione e al perché la Luna non cadessesulla Terra come la mela. Ecco. La scienza cammina spesso grazie a queste intuizioni-lampo(l’elenco degli esempi, in verità, sarebbe lunghissimo).

Quale fu la mia? Dunque, io mi chiesi – a proposito di quel famoso paziente che aveva vistodissolversi repentinamente il suo atroce dolore centrale in seguito a un ictus poco sotto la cortecciacerebrale – se questo danno «provvidenziale» avesse in qualche modo interrotto il fitto dialogo tracorteccia e talamo, scombussolando l’autostrada cruciale che collega la prima alle regioni delsecondo, raggiunte a loro volta dalle fibre nervose della sensibilità corporea.

Insomma, la genesi del dolore centrale mi parve di colpo chiarissima. Scrissi un dettagliato articoloscientifico in cui teorizzavo il meccanismo neurologico in questione e la rivista Neurosurgery, ilgiornale ufficiale del Congress of Neurological Surgeons, nel febbraio del 1992 lo accettò senzarevisioni, nel giro di 24 giorni! In seguito, ulteriori ricerche e studi d’avanguardia con sofisticatetecniche di neuroimaging corroborarono e confermarono la teoria, consentendo una correttaimpostazione della terapia, al fine di individuare il farmaco (o i farmaci) e il dosaggio più efficaci in undeterminato paziente alle prese col dolore centrale.

Uno dei casi clinici che più mi hanno emozionato, in tal senso, riguarda una paziente che avevasviluppato un dolore tremendo in una metà del corpo: si era manifestato, rendendole la vita un inferno,dopo un intervento malfatto sul tratto cervicale della colonna vertebrale. Il neurochirurgo, in pratica, leaveva accidentalmente lesionato il midollo spinale sottostante. Dopo i primi test, decisi di sottoporla auna stimolazione elettrica della corteccia cerebrale (ci soffermeremo su questo grande e affascinantecampo d’azione nelle pagine successive): nel corso dell’intervento inserii un minuscolo catetere incorrispondenza dell’area cerebrale deputata a ricevere gli stimoli sensoriali di pertinenza del braccio.Questo piccolo catetere aveva lo scopo di studiare la neurochimica del dolore della signora per meglioguidare la terapia a base di farmaci (si parla di «microdialisi cerebrale», una delle metodiche piùsfruttate negli ultimi anni, nei laboratori mondiali di neuroscienze, per lo studio in vivo dell’azione difarmaci, in definite aree cerebrali).

Una sera, mentre ero di guardia in ospedale, visitando la paziente, le chiesi come andava e lei:«Dottore, senta, io non capisco però il braccio... Sì, il braccio non mi fa più male!» Trasalii. E poicompresi l’arcano. Che cosa era accaduto? La cannula da microdialisi aveva finito per creare un ictusartificiale transitorio. Dopo una ventina di giorni, quando la microscopica lesione si fu riassorbita, ilfastidio doloroso all’arto superiore tornò a farsi sentire. Ma l’evento mi confermò che anche il dolorecentrale spinale seguiva gli stessi meccanismi di quello cerebrale. Alla fisiopatologia, alla diagnosi ealla gestione del dolore centrale ho dedicato persino una ponderosa monografia internazionalepubblicata dalla Cambridge University Press.

Un traguardo decisivo era stato tagliato. Perché se un giorno il mio lavoro di neurochirurgo funzionalesi fosse indirizzato, com’era mia intenzione, alla realizzazione di un «trapianto di testa», be’, sapevocome avrei potuto prendere di petto il dolore centrale che si sarebbe generato dal «taglio» dellestrutture nervose del midollo spinale.

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I misteri del midollo spinale LA medicina è un edificio labirintico composto di innumerevoli mattoni, piccoli e grandi. Alcuni sonostati posati in tempi così remoti che ormai giacciono sotterrati dall’oblio. E restano lì, dimenticati nellepolverose e umide cantine della conoscenza scientifica, ignorati per sempre dagli stessi camicibianchi. Ignorati, purtroppo, con tutte le verità che racchiudono e le storie illuminanti di antichi pazienti.Come quella di una cameriera di 26 anni, agli inizi del secolo scorso.

Venne ricoverata al Pennsylvania Hospital il 21 gennaio del 1901, raggiunta da due proiettili sputati dauna calibro 32. Uno di loro andò a frantumare la settima vertebra toracica, spappolando la porzionecorrispondente di midollo spinale. La donna perse all’istante la capacità di comandare il movimento edi avvertire sensazioni nella metà inferiore del corpo. I medici intervennero dopo tre ore: sezionarono lacute e i piani muscolari del dorso interessati dal trauma, raggiunsero la vertebra toracica danneggiata,videro le schegge ossee conficcate nel tessuto midollare e quella maledetta pallottola di piombo... Aquel punto, resecarono via il midollo spinale lesionato. Sì, ne asportarono del tutto la parte rovinata,lasciando uno spazio tra i due monconi midollari di circa tre quarti di pollice: 1,9 centimetri.

E come «riempirono» quel buco?

Semplice: avvicinarono e attaccarono i due segmenti di midollo spinale con tre suture. Tre suture concatgut (un tipo di filo chirurgico che viene assorbito dai tessuti) trattato con sali di cromo. Stop.

Dopo due mesi, la donna sedeva su una carrozzina: poteva muovere l’alluce destro e piegareleggermente il ginocchio. Da quei timidi segnali motori in poi, i progressi furono costanti. Tornarono apalpitare le funzioni viscerali e l’attività della vescica, e 480 giorni dopo l’operazione la paziente era ingrado di flettere ed estendere volontariamente gli arti inferiori e ruotare le cosce, e persino di restare inposizione eretta, sorreggendo il peso del corpo con le mani poggiate sul bordo superiore delloschienale della sedia a rotelle. La sensibilità generale (tattile, dolorifica, termica e posizionale)riemerse con fermezza: solo la differenza tra caldo e freddo non veniva percepita con precisione cosìnetta. La maggior parte dei riflessi nervosi, però, si riattivò, rinforzata col tempo dalla fisioterapia.

Questo straordinario caso clinico, che all’epoca non si esitò a definire un «landmark in spinalsurgery», ovvero un punto di riferimento nella chirurgia del midollo spinale, si concretizzò in un articolofirmato dai dottori Francis T. Stewart e Richard H. Harte e pubblicato il 7 giugno del 1902 sulPhiladelphia Medical Journal. Titolo: «A Case of Severed Spinal Cord in Which Myelorrhaphy wasfollowed by Partial Return of Function». Suona così: un caso di sezione del midollo spinale nel qualela sutura del tessuto nervoso è stata seguita da una parziale ripresa delle funzioni.

Venni a conoscenza di tutto ciò nel 1992, traducendo dall’inglese un compendio annuale dineurologia. Rimasi frastornato. No, dico: tutto qui? Ma è mai possibile? Cioè: basta davvero«riaccostare» le due estremità tagliate del midollo spinale per consentire a un organismo cosìseriamente compromesso di... risorgere? E tutta quella storia dell’impossibile rigenerazionespontanea nella paralisi, per il fatto che le fibre nervose danneggiate non possono più ricrescere?

D’altra parte, leggendo la discussione di quell’articolo risultava chiaro che già alla fine dell’Ottocento iricercatori avevano capito che una sezione chirurgica, calcolata, del midollo era cosa ben diversa daun grossolano danno traumatico (mostrando una prognosi migliore nella sperimentazione animale).

Iniziò allora a farsi strada nella mia testa una pazza idea: riconnettere due monconi separati di midollospinale era una missione possibile e poteva funzionare se il danno non fosse stato così massiccio.

Ma era un embrione di ipotesi. La strada era lunga.

Occorrevano altri dati, altre prove. Che arrivarono, grazie alla solita, incessante, certosina caccia di

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Occorrevano altri dati, altre prove. Che arrivarono, grazie alla solita, incessante, certosina caccia di

letture scientifiche.

Mi capitò tra le mani un tomo con gli atti di un convegno di neurologia del 1963. In genere, questivolumi finiscono miseramente rinchiusi negli armadi dei vari istituti universitari o ospedalieri, tenuti lì ainvecchiare per decenni (neanche fossero botti di pregiato rum), senza che nessuno si prenda la brigadi andare a consultarli.

Il sottoscritto lo scovò, individuando in quelle pagine un piccolo gioiello: un sommario dei lavori delgrande L.W. Freeman, dell’Indiana University School of Medicine, celebre neurochirurgo statunitense(che peraltro avevo già incrociato studiando la genesi del dolore centrale). Anche Freeman, allastrenua ricerca del Santo Graal della cura delle paralisi, ebbe modo di constatare come ci fosse unabasilare differenza fra la sezione precisa, pulita, controllata, del midollo, e un danno spinale grezzo. Lesue osservazioni non lasciano dubbi:

Occasionalmente, un ratto paraplegico recupera (in maniera spontanea!) la marciadopo qualche mese da una sezione netta del midollo spinale [...] Nell’area dove èavvenuta la recisione, si osservano numerosi assoni [i prolungamenti principali dellacellule nervose, N.d.A.] in crescita [...] Il lavoro condotto sin qui in realtà non è nulla piùche un’estensione dell’operato del professor Santiago Ramón y Cajal [il padre dellaneuroanatomia moderna, N.d.A.], cioè la dimostrazione della capacità degli assoni diricrescere dopo una sezione. La differenza principale è che noi siamo riusciti a teneregli animali in buona salute [...] Dai 70 ai 100 giorni sono necessari perché ciò avvenga[...] Gli esemplari testati da Cajal apparivano, invece, malaticci [...] Anche i cani adulti,quando si riesce a mantenerli in buone condizioni per un adeguato lasso di tempo,mostrano un recupero funzionale [...] In questi animali è possibile evidenziare unaprofusa ricrescita degli assoni dei neuroni attraverso l’area della sezione, con ritornodella mobilità [...] e con tanto di conduzione degli impulsi elettrici nervosi.

Le scimmie si rivelarono piuttosto difficili da gestire, e così Freeman e i suoi collaboratori si limitaronoin tal caso a effettuare delle emisezioni spinali, separando, cioè, soltanto una metà del midollospinale. E anche qui fu possibile registrare una chiara ricrescita degli assoni. Infine, le parole che ungiorno andranno scolpite su una stele: «...Il trauma che tipicamente subisce il midollo spinale non èuna sezione chirurgica ‘pulita’ [come quella ottenibile col bisturi, N.d.A.], ma si tratta di una lesionelunga ed estesa. Abbiamo allora messo a punto una serie di procedure operatorie per simularequesta condizione. L’area danneggiata è stata di conseguenza rimossa e si è provveduto a resecareun corpo vertebrale per accorciare la colonna. Suturando la dura madre [la parte più esterna e piùspessa delle meningi, N.d.A.] siamo riusciti a riaccostare le due estremità sezionate e ‘fresche’ delmidollo. Gli animali hanno potuto recuperare il movimento, in seguito a questo procedimento,mostrando una ricrescita assonale nella zona operata».

E dinanzi a questi innegabili dati sperimentali, le domande politicamente scorrette frullavano nella miamente: perché io continuavo a vedere attorno a me tanta povera gente paraplegica quando invece laricerca scientifica (sui ratti e – in maniera assai più rilevante per la clinica umana – sui cani) mimostrava che l’animale poteva riconquistare il movimento dopo una lesione midollarechirurgicamente netta?

Io proprio non capivo.

E, cosa ancora più misteriosa, non capivo perché mai tutto ciò restasse confinato nei meandri buidella scienza medica. E non emergesse con prepotenza alla luce del sole.

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Un rebus appassionante BREVE parentesi di neuroanatomia: è arrivato il momento di scrutare da vicino la struttura del nostromidollo spinale.

Sezione dell’encefalo condotta lungo la linea mediana.

L’encefalo e il midollo spinale costituiscono il sistema nervoso centrale, l’uno contenuto nella scatolacranica, l’altro nel canale vertebrale. Il midollo spinale è uno stelo cilindrico, lungo all’incirca 45centimetri, di colore bianco opaco, che percorre il tunnel formato dalla sovrapposizione delle vertebre.Nelle aule universitarie a qualunque studente di medicina viene spiegato che il midollo è costituito dadue porzioni: una sostanza grigia interna, disposta a disegnare una sorta di «H», come la silhouette diuna farfalla, e una bianca esterna. La prima risulta composta dal complesso dei corpi dei neuroni; laparte candida periferica raccoglie invece la massa delle fibre nervose, i prolungamenti («assoni», sidice tecnicamente) che si staccano dalle cellule neuronali.

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Il midollo spinale all’interno del canale vertebrale.

La sostanza grigia è formata da una varia popolazione di neuroni: ci sono quelli deputati a governare ilmovimento, le cellule che ricevono gli stimoli corporei della sensibilità e, infine, un enorme numero dielementi cellulari chiamati «interneuroni», il cui ruolo rimane ancora, agli occhi di studenti e clinici,vago e aspecifico. Potremmo dire che sono attori che coordinano, modulano e integrano leinformazioni tra il sistema motorio e quello sensoriale.

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Sezione trasversale del midollo spinale.

Tutt’attorno, come dicevamo, scorrono come «spaghetti» i fasci di assoni, i «mazzi» di fibre cheveicolano la sensibilità somatica al cervello e quelli motori che dal cervello raggiungono la periferia.Se distruggiamo queste bianche autostrade – se spezziamo gli «spaghetti», per capirci – la sensibilitàsi azzera. Il movimento si spegne.

Tutte queste nozioni sono ciò che l’accademia insegna: non potreste mai superare l’esame dineurologia se non sapete sciorinarle come un mantra! Ma la verità è che le cose non stanno propriocosì. Dunque, con calma.

A cominciare dagli anni Cinquanta, assecondando l’istinto umano di semplificare il più possibilequello che di primo acchito lascia tramortiti (la complessità del cervello, nella fattispecie), i neurologihanno «cristallizzato» la seguente nozione: l’attività motoria è dovuta al fatto che la parte di cortecciacerebrale che controlla il movimento invia i comandi al corpo proprio attraverso una parte di quei cavi –gli «spaghetti» – che percorrono il midollo spinale. Il concetto è diventato dogma con due articoli moltoinfluenti pubblicati nel 1968 su Brain, quotata rivista di neurologia inglese. Partendo dalla cortecciacerebrale, questa massa di fibre (sono circa un milione, nello spessore del cordone midollare) sidirige verso il basso stringendo contatti con i neuroni motori all’interno della sostanza grigia midollare:da qui gli stimoli vengono convogliati alla periferia, e i muscoli si animano. Un po’ come un direttored’orchestra dall’alto del suo podio, la corteccia cerebrale indirizza i musicisti (i neuroni motori delmidollo spinale) nella creazione della sinfonia del movimento. Parliamo, insomma, di un controllodiretto e perentorio: la corteccia cerebrale comanda, gli «spaghetti» recapitano l’ordine, le cellulemotorie spinali obbediscono e i muscoli si contraggono.

Un ragionamento che... fa più di una grinza! Perché il quadro è molto più sfaccettato di quanto fin quidescritto. Infatti, sin dalla prima metà del XX secolo, i neurofisiologi hanno cominciato a rendersi contoche la parte grigia e cellulare del midollo spinale non se ne sta lì a crogiolarsi al sole, attendendopigramente gli ordini dall’alto. Tutt’altro: nella trama delle ali di quella farfalla cenerina si nasconde unmeccanismo neurologico mirabile, capace di grandi cose.

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Ricorderete che mi stavo occupando di risolvere il problema del dolore centrale. In medicina si chiama«cordotomia» la resezione chirurgica di alcuni fasci di fibre nervose sensitive del midollo spinale: sitratta di una manovra che punta a ottenere la perdita del dolore. In pratica, si taglia un fascio di«spaghetti» chiamato «tratto spino-talamico», il quale veicola gli impulsi dolorosi verso il cervello:questa procedura viene comunemente eseguita sui pazienti oncologici con dolore severo e riottoso aqualsiasi trattamento. In particolare, questo fascio di «spaghetti» nel midollo come le altre vie dellasensibilità, anziché fluire dall’alto verso il basso (il senso di marcia degli stimoli del movimento),viaggia dal basso verso l’alto. Meglio: dalla periferia corporea al cervello.

Alcuni attenti osservatori hanno notato che, sì, con questa operazione il sintomo del dolore venivaarginato, ma qualcosa strideva con le nozioni apprese all’università: sul corpo dei pazienti la perditadella sensibilità dolorifica non seguiva esattamente la «mappa», la distribuzione che ci si sarebbedovuti aspettare in seguito alla cordotomia. Un dilemma. Che faceva a pugni con le conoscenzetradizionali di neurofisiologia. Ebbene, cercando la soluzione al rebus e seguendo le indicazioni deiricercatori, cominciai a collezionare una serie di lavori vecchi di oltre mezzo secolo (all’epoca eravamonegli anni Novanta), che raccontavano una storia assai diversa. Una storia in cui i protagonisti sononon i neuroni motori o quelli sensoriali, ma gli insospettabili interneuroni «propriospinali», per definirlicon nome e cognome scientifici.

Adesso sedetevi comodi e con la fantasia proiettatevi in una fattoria del Far West. All’improvvisoscoppia un incendio nel fienile. Allarme generale. Le persone si fiondano sul posto per domare lefiamme, qualche minuto di smarrimento, ma poi scatta, provvidenziale, la... bucket brigade! Così sichiama quella catena umana che provvede a passarsi un secchio d’acqua dopo l’altro da una fontefino al luogo dell’incendio. Avete presente la scena, vista mille volte nei film western? Bene, gliinterneuroni propriospinali, dislocati nella sostanza grigia, lungo tutto l’asse midollare, sonoesattamente come gli individui che formano quella bucket brigade: si scambiano messaggi, «sms»nervosi da una cellula all’altra, dalla periferia al cervello e dal cervello alla periferia. Certo, latrasmissione del segnale non è così immediata e spedita, rispetto alle vie neurologiche primarie.Immaginate di recarvi al mare, ma di essere costretti a imboccare la provinciale anziché l’autostrada...insomma, ci siamo capiti. Il punto critico di tutta la faccenda è che i dati relativi alle performance degliinterneuroni erano ignoti ai più.

Ma non è finita qui. Nello stesso periodo, mentre mi stavo occupando di sviluppare una procedura dineurostimolazione della corteccia motoria nel trattamento della malattia di Parkinson, scoprii chequarant’anni prima una delle tecniche impiegate in quest’ambito era il taglio selettivo dei famosi«spaghetti» motori nel tronco cerebrale. Il risultato era che il tremore (ma anche i disturbi motoriosservati in diverse altre malattie del cosiddetto «sistema extrapiramidale», come le distonie – lecontrazioni muscolari involontarie – o la coreoatetosi, l’associazione di movimenti patologici rapidi elenti) si dissolveva, però l’arto superiore restava paralizzato. Ma, attenzione! Solo per poco. Propriocosì: nel giro di un lasso variabile di tempo – giorni o settimane – il paziente finiva per recuperare inmodo pressoché totale la mobilità del braccio. E quindi?

I neurochirurghi inizialmente furono spiazzati. Studiando i malati in questione, scoprirono con sorpresache i movimenti riaffioravano anche quando oltre l’80% delle fibre bianche era stato totalmentedistrutto.

Finalmente ci si rese conto che il cuore di questi «miracoli» erano gli interneuroni, quella formidabilebucket brigade cellulare che si dipana dal tronco encefalico (la struttura allungata alla base delcervello, dove affluiscono fibre direttamente dalla corteccia motoria) fino al midollo spinale. Una fittarete di cellule nervose capaci di elaborare il segnale del movimento e di trasmetterlo a loro volta lungotutto il midollo ai vari motoneuroni spinali, indipendentemente dai famosi «spaghetti». Erano loro gliocculti registi che orchestravano il ripristino delle funzioni motorie interrotte quando gli «spaghetti»venivano spezzati. Poi, però, si smise di praticare l’intervento di resezione dei fasci motori, perchécontro il Parkinson si impose un farmaco, la «levodopa», e così la stragrande maggioranza deineurochirurghi attuali non conosce affatto quei dati e quelle esperienze. Perle di conoscenza sepolte e

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neurochirurghi attuali non conosce affatto quei dati e quelle esperienze. Perle di conoscenza sepolte e

perdute...

In ogni modo, il puzzle per me si stava rivelando sempre più definito e chiaro: grazie al cielo, alcuniilluminati neurofisiologi hanno continuato a studiare l’argomento, e le acquisizioni in merito adessosono davvero tante. Perché la verità, signore e signori, è questa: se si recide con un preciso tagliochirurgico l’intera massa degli «spaghetti» motori – tutte, dico tutte, le fibre nervose midollari incaricatedi condurre gli stimoli del moto –, l’animale in laboratorio (dal ratto alla scimmia) recupera imovimenti, anche quelli fini.

Ulteriore non secondario aspetto: se è vero che questa mirabile filiera interneuronale riesce in taleimpresa in piena autonomia, praticamente infischiandosene dell’intervento delle fibre lunghe, significache – una volta sezionata la catena di interneuroni – il percorso delle fibre rigeneranti è brevissimo. Gliinterneuroni sono paragonabili a un paio di individui che si tengono per mano: se con un colpo dikarate si scioglie il contatto, le dita, per la distanza assai ravvicinata, possono immediatamentetornare a toccarsi e intrecciarsi. Faccenda ben diversa se si taglia una corda tesa fra due personedistanti, come nel tiro alla fune: è questo il caso del lunghissimo «spaghetto» interposto tra lacorteccia cerebrale motoria e il motoneurone nel midollo spinale. Una distanza che può arrivare atoccare il metro, mentre lo spazio fra due interneuroni misura meno di un millimetro!

Per un neurochirurgo deciso a rendere possibile un giorno il trapianto di testa, sapere che questoginepraio di interneuroni poteva comunque garantire al corpo una ripresa del movimento aprescindere dalla riconnessione degli «spaghetti» significava avere il proverbiale asso nella manica.

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Un tassello dopo l’altro STUDIANDO i meccanismi alla base del dolore centrale, finii per addentrarmi nel magico mondo dellaneuroplasticità.

Il termine indica fondamentalmente la capacità del sistema nervoso di adattarsi, di modificare lapropria struttura in risposta a un ampio ventaglio di fattori interni o ambientali. In altre parole: dinanzi auna circostanza patologica, come un ictus o un trauma, la «macchina neurologica» che ci governa nonrimane a leccarsi le ferite inerme e rassegnata, ma reagisce. Per esempio modificando i rapportisinaptici. Si chiamano «sinapsi» i punti di contatto fra due cellule nervose: attraverso queste giunzionispecializzate, l’impulso nervoso può viaggiare da un neurone all’altro.

All’indomani di un incidente di percorso, nel tessuto neuronale si creano nuove connessioni ocollegamenti prima inattivi. È il fenomeno dello sprouting, vocabolo inglese traducibile in italiano con«gemmazione». Se si mozza il prolungamento di un neurone, questo lo rigenera (è quel che accadecon la coda di una lucertola) o ne emette un altro per cercare di ripristinare il contatto perso. Glispecialisti parlano di «principio di conservazione dell’albero assonale» (l’assone, lo ricordo, è il nometecnico del famoso «spaghetto»).

Questa era la chiave. Se fossi riuscito a sezionare il midollo spinale in maniera minimamentetraumatica, avrei permesso a questi interneuroni di ristabilire rapidamente un contatto attraverso ilmeccanismo poc’anzi illustrato: del resto, come dicevamo, la distanza da coprire sarebbe statabrevissima.

Ma sul mio cammino un altro fronte di ricerca cominciò a profilarsi: la stimolazione elettrica dellacorteccia cerebrale. Contro il perfido dolore centrale è possibile schierare una batteria di farmaci(alcuni dei quali identificati dal sottoscritto), ma le pillole non sempre riescono a contenere ilproblema. Dinanzi a un dolore disabilitante, resistente anche alle multiterapie farmacologiche protrattenel tempo, che compromette gravemente la qualità della vita, una chance di cura ulteriore è offerta, perl’appunto, dalla stimolazione della corteccia sensoriale e motoria. Si praticano due minuti fori nellascatola cranica e si infilano attraverso queste piccole aperture due elettrodi tra la superficie internadell’osso e la dura madre, il robusto involucro che abbraccia e protegge l’encefalo. Il tutto si svolge inanestesia locale o generale, a seconda dei casi.

Su un paziente devastato da questo «inferno sulla Terra» chiamato dolore centrale, praticai consuccesso nel 1994, primo nel mondo, la stimolazione della corteccia somato-sensoriale. E propriolavorando in tale campo inciampai in un’inattesa scoperta. Un giorno mi capitò di trattare, conl’elettrostimolazione corticale, una donna. Con immensa soddisfazione constatò che la sua sofferenzaandava scemando. Dopo un mese si ripresentò, per un controllo, e a un certo punto mi disse: «Sa,dottore, da qualche giorno avverto una sensazione stranissima: è come se avessi un terzo braccio!»Sono un medico, lo avrete capito, apertissimo a tutte le novità che mettono in discussione le miecertezze, ma ammetto che in quell’occasione mi trovai spiazzato. Certo, la cosiddetta «sindromedell’arto fantasma» è un quadro ben codificato: la percezione fisica, assai spesso fastidiosa edolorosa, riferita a un arto chirurgicamente asportato o a una parte di esso, che può manifestarsiimmediatamente dopo l’amputazione o a distanza di mesi o anni. Sì, ma... un terzo arto? Tornai asondare la mia fonte primaria di stimoli e conoscenze, ovvero la letteratura medico-scientificainternazionale, e scoprii l’esistenza di casi di pazienti (peraltro rari) che avevano riportato lasensazione di arti fantasma multipli in seguito a una lesione a carico del sistema nervoso centrale,ma mai in maniera, come dire, «artificiale», cioè stimolando elettricamente il sistema nervosocentrale. Ai miei occhi si trattava di un luminoso (seppur bizzarro) esempio di quanto fossestraordinariamente plastico il nostro cervello: significava che il «senso di se stessi», la percezione delproprio essere, è un elemento modulabile, modificabile.

Il pensiero tornò spedito al mio progetto (perché ormai ogni conquista conoscitiva finiva

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Il pensiero tornò spedito al mio progetto (perché ormai ogni conquista conoscitiva finiva

inevitabilmente lì, a comporre il grande disegno del «trapianto di testa»): se un domani avessiinnestato la testa del soggetto ricevente sul corpo del donatore, il «senso del sé» avrebbe subito unostravolgimento? Alla luce dell’enorme plasticità neuronale, mi risposi che il cervello si sarebbeadattato alla nuova corporalità.

La neuroplasticità era un fattore determinante per tutta la mia futura impresa. D’altronde, fior di studi,anche grazie a evolute tecniche di neuroimmagine come la risonanza magnetica funzionale (fMRI),stavano dimostrando che nel caso di pazienti che recuperavano le funzioni motorie anche pienamentedopo un danno spinale, il cervello in toto subiva un rewiring, un «ricablaggio», una sorta diriprogrammazione compensativa.

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Precauzioni IN questi trent’anni, i miei rimuginamenti sulla fattibilità del trapianto di testa finivano sempre perdipingere qualche scenario disastroso: «E se durante l’operazione dovesse capitarmi questa cosa? Ese invece succede quest’altra iattura?»

Avvertivo ovviamente la necessità di individuare una soluzione soddisfacente per ogni minimo scogliotecnico che avvistavo lungo il cammino.

Per esempio: nel momento in cui la testa del ricevente verrà sezionata, il drastico abbassamento dellatemperatura corporea risulterà essenziale. Anche se per pochi minuti soltanto, la testa sarà priva disangue. L’unico modo per proteggerla prima che i chirurghi vascolari ristabiliscano il flussosanguigno sarà raffreddarla. Dunque, l’intervento avverrà in ipotermia profonda (a 12-15 °C). Il motivoè noto: quando raffreddiamo l’organismo umano, tutte le reazioni biochimiche che comportanoconsumo di ossigeno, e in special modo quelle nel cervello, si riducono parallelamente. White avevagià considerato questi aspetti negli anni Settanta, introducendo varie procedure di ipotermia cerebrale.Tuttavia, non ero tranquillo: e se durante queste cruciali manovre si fosse malauguratamente verificatoun ictus, cioè la morte di zone del cervello per mancanza di flusso arterioso vitale, di ossigeno eglucosio essenziali per la sopravvivenza dei neuroni? Bisognava premunirsi, accerchiando il dilemmasu due versanti: prevenzione e terapia.

Nel 1998, dopo una riflessione generale su quanto era stato pubblicato in merito, decisi di provareuna combinazione di due farmaci, il magnesio ad alte dosi e la lidocaina, un anestetico oltre che unagente impiegato nel trattamento delle aritmie cardiache. Entrambi risultavano dotati di specificheazioni neuroprotettive. Chiesi quindi a un amico, Paolo Narcisi, specialista in anestesia erianimazione, di darmi una mano. Elaborammo il relativo protocollo di trattamento e all’ospedaleMolinette di Torino cominciammo a somministrare l’associazione farmacologica per tre giorni a ungruppo di pazienti con trauma cranico grave. Al termine dello studio, riscontrammo che i nostri risultaticlinici erano migliori di quelli generalmente ottenuti nel mondo con le procedure standard.

Bene: un successo che mi confortò. Addirittura un altro collega anestesista, il dottor VincenzoBonicalzi, neurorianimatore e già mio «compagno di viaggio» nello studio del dolore centrale, adottò lostesso mix di farmaci per prevenire i potenziali danni che comportavano gli interventi chirurgici suglianeurismi (in cui si usa fermare il flusso cerebrale per molti minuti): anche in tal caso la «miscela»messa a punto si rivelò in grado di tutelare le strutture del cervello.

Sul fronte della «neuroprevenzione» avevo perciò in qualche modo individuato una strada. Restava daidentificare l’eventuale terapia da attuare qualora, nel corso del trapianto di testa, si fosse verificata latemuta complicazione vascolare. Come ne sarei uscito? Per i provvidenziali incastri del destino, scovaianche qui una soluzione.

Nel 1998, sulla base di una intuizione suggerita dalla sempre preziosa letteratura medico-scientificadel passato (di venti anni prima, nel caso specifico), decisi di impiantare uno stimolatore elettrico sullearee motorie della corteccia cerebrale di una paziente affetta dalla malattia di Parkinson, i cui sintominon potevano essere adeguatamente tenuti a bada con i farmaci. Lo scopo: contrastare i tremori, larigidità e la perdita dell’iniziativa motoria – che impediscono al paziente di mangiare, camminare evestirsi normalmente – ma con un mezzo di controllo superficiale, il meno invasivo possibile, che cioènon prevedesse l’inserimento di un elettrocatetere in profondità, all’interno della massa encefalica,manovra che comporta sempre un rischio chirurgico (leggi: emorragie intracraniche, infezioni,convulsioni).

Mi mossi con estrema cautela: la sintomatologia del Parkinson in genere è bilaterale, interessaentrambe le metà corporee, ma io preferii per prudenza procedere con la stimolazione elettrica di unacorteccia motoria soltanto. Se poi avessi evidenziato un beneficio importante, avrei provveduto a

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corteccia motoria soltanto. Se poi avessi evidenziato un beneficio importante, avrei provveduto a

trattare l’altro emisfero del cervello.

L’intenzione rimase tale, perché – era l’estate del 1998 e avevo 33 anni – rimasi basito: la malatamanifestò un miglioramento netto in tutte e due le metà del corpo, anche se avevo elettrostimolato unasola parte del cervello! Fino a quel momento bloccata sulla carrozzina, la paziente si alzò e riprese acamminare simmetricamente. Avevo aiutato qualcuno e stravolto le conoscenze anatomiche allostesso tempo, attribuendo alla corteccia cerebrale un preciso ruolo nelle malattie cosiddette«extrapiramidali» (qual è la malattia di Parkinson), che fino ad allora era stato assegnato soltanto acerte strutture profonde del cervello. Ma avrei toccato con mano altre sorprese. La scoperta piùstraordinaria sarebbe capitata di lì a poco: mi resi conto presto che, dopo qualche mese distimolazione, potevo anche spegnere la batteria e l’effetto benefico perdurava per settimane! Che cosastava succedendo? Ebbene, la stimolazione elettrica era in grado di attivare l’intrinseca plasticitàcerebrale (come abbiamo già visto a proposito dell’arto fantasma «in sovrappiù») e questa sidimostrava capace da sola di sostenere nel tempo l’effetto terapeutico.

Anche nel dolore centrale, dopo periodi estesi di stimolazione, alcuni pazienti non lamentavano piùdolore anche quando veniva spento il generatore di impulsi: un segno palese che il cervello si eramodificato. Oggi è un’acquisizione nota, ma allora si trattava di un’autentica rivelazione.

E ciò mi indusse a siglare il passo successivo. Era incredibile: la stimolazione della corteccia rivelavavirtù sconosciute. Se la stimolazione corticale produceva effetti così vasti, forse avrebbe potuto aiutarminei miei propositi.

Afferravo sempre più l’immensità del nostro sistema nervoso: il più grande mistero di questo pianeta.

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Progetto Lazzaro DOPO una lunghissima gestazione, nel 2002 operai un ragazzo colpito da un gravissimo ictus,elettrostimolando (fu una prima mondiale) la corteccia sana di entrambi gli emisferi. Il beneficio fumodesto – del resto, il paziente aveva riportato un danno enorme al cervello – ma i dati della risonanzamagnetica funzionale dimostrarono un effetto a tutto campo della stimolazione sulla plasticitàcorticale. La sua efficacia nella riabilitazione all’indomani di un ictus cerebrale si confermò in manierachiarissima in una serie di studi condotti in collaborazione con gruppi di colleghi stranieri.

Ci fu un caso eclatante (lo cito nel mio libro Textbook of Therapeutic Cortical Stimulation): quello diuna signora di 67 anni colpita da un infarto cerebrale massivo, con amplissima distruzione dellacorteccia nell’emisfero destro, che le aveva procurato un’emiplegia. La paziente non era in grado distare in piedi, a dispetto del lungo percorso riabilitativo. Le vennero impiantati due elettrodi, in certearee cerebrali, sempre «appoggiati» sulla dura madre. Dopo sei mesi di stimolazione, e parallelariabilitazione, la donna fu in grado di rialzarsi volontariamente e percorrere in autonomia ancheduecento metri!

Ma non bastava. Questi dati mi spinsero ad avventurarmi nell’ignoto. Volevo capire fino a che puntol’elettrostimolazione mi avrebbe consentito di agire in caso di danno cerebrale. Cominciavaun’avventura nell’avventura.

Nell’agosto del 2007 tagliai un traguardo importante: con l’aiuto dell’unica tesista che ebbi in carico inquegli anni, applicai la metodica su due giovani pazienti, fra cui una ragazza ventenne di nome Greta,entrambi in stato vegetativo permanente dal 2006 a causa di un incidente stradale. Alla comunitàscientifica e ai mass media riferimmo solo di Greta, perché i genitori del ragazzo non compilarono itabulati giornalieri con cui avrebbero dovuto controllare una serie di semplici parametri neurologici.

Fu un filone di ricerca che battezzai «Progetto Lazzaro».

Non sono uno spericolato sperimentatore, ma la medicina non è una scienza «finita», nel senso di«compiuta». Inoltre, io non sono il tipo che se ne sta lì a guardare senza muovere un dito.

So perfettamente che nel mondo giacciono sul letto, cristallizzati in quell’incantesimo che si chiama«stato vegetativo», migliaia di Eluana Englaro o Terry Schiavo o Tony Bland. E purtroppo sono pureconsapevole di un fatto: le fila di quell’esercito di pazienti mai si assottiglieranno, perché incidentistradali e ictus continueranno a frantumare vertebre e cervelli.

E allora? Vogliamo continuare a piangerci addosso? Davvero vogliamo che alimentazione eidratazione artificiali restino le uniche risorse offerte oggi dalla medicina a chi versa in uno statovegetativo? I dati scientifici più recenti e all’avanguardia stanno lì a indicarci che non tutto è perduto inquesti malati. Lo affermo in virtù della forza dei fatti, perché la stimolazione corticale («extraduralebifocale» è l’etichetta per esteso) finì per «risvegliare» la ragazza (e anche il ragazzo): nel giro di pochimesi dal trattamento, Greta poteva rispondere a degli ordini semplici, come alzare un braccio, e stareanche seduta, a tratti, su una normale sedia mantenendo il tono del corpo. Un successo scientifico,pubblicato sul Journal of Neurology (e contestualmente, per la parte neuroradiologica, sul Journal ofNeurology, Neurosurgery and Psychiatry), che ha riclassificato l’identikit della paziente: da statovegetativo permanente a stato minimamente conscio.

Quell’intervento fu reso possibile impiegando per la prima volta al mondo una tecnica chiamataresting-state (o default state) fMRI, che esamina come le parti del cervello – le reti neurali – «parlino»fra loro a riposo (cioè senza la necessità di impartire stimoli esterni artificiali). Mesi dopo l’intervento,le aree che si ritengono maggiormente associate alla presenza di autocoscienza risultavano più attivee intercollegate.

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Oggi, purtroppo, Greta ci ha lasciati (per una severa infezione polmonare), ma credo fermamente chesia stato un inizio, l’incipit di un capitolo della neurologia che stiamo finalmente scrivendo: oggisappiamo che almeno il 20% di questi pazienti è perfettamente cosciente – anche se non è in grado direplicare ai comandi in nessun modo o di comunicare – e un altro 60% circa evidenzia contenuti dicoscienza. E tutto ciò nonostante una certa atrofia del cervello (che, benché accertata sul tavoloautoptico, nulla ci dice sul reale stato di coscienza del soggetto).

Sono riscontri che stiamo apprezzando grazie alla disponibilità delle nuove macchine diagnostiche,dalle performance sofisticatissime, come la risonanza magnetica funzionale, ma anche le versioni«maggiorate» della vecchia elettroencefalografia: apparecchiature che si stanno rivelando un mezzofondamentale per visualizzare l’attività cerebrale nell’uomo e le alterazioni del suo stato di coscienza.In pratica, constatano come variano il flusso sanguigno e l’ossigenazione nei territori dell’encefalo, ol’attività elettrica in assenza o in seguito a certi stimoli. Ci offrono, dunque, un contributo preziosoquando si tratta di soppesare finemente le condizioni di un cervello in un paziente «incosciente», chenon ha apparentemente alcuna consapevolezza di sé e dell’ambiente, né la capacità di interagire congli altri.

Sto dicendo che tentare un risveglio si può e si deve. Tant’è che il professor Ralf Claus, uno studiosodel Dipartimento di Medicina nucleare del Royal Surrey County Hospital, in Inghilterra, parla di«neurodormienza».

In altre parole, i neuroni della corteccia cerebrale riducono del 50% le proprie prestazioni, in seguito aun trauma o a un ictus, ma non vanno considerati definitivamente perduti. Un cervello in statovegetativo non andrebbe mai considerato un caso senza speranza. La visione scientifica più modernaè che nel cervello in stato vegetativo si verifica col tempo una serie di rimodellamenti, come scosse diassestamento dopo un terremoto. È la plasticità neuronale di cui si è tanto parlato nelle pagineprecedenti. Ecco: questo è un processo biologico che va senz’altro incoraggiato. È verissimo che,purtroppo, non si sono mai verificati risvegli naturali dopo cinque e più anni di stato vegetativo, maforse ciò è avvenuto proprio perché mai si è fatto qualcosa per incoraggiare gli spontanei tentativi delnostro cervello di riattivarsi (eccola di nuovo, l’incommensurabile plasticità cerebrale).

Il nodo centrale del problema è che bisogna agire quanto prima per consentire questo recupero. Latempestività è tutto. Per cui io dico: dopo un anno di stato vegetativo, il paziente non ha riacquistatospontaneamente la coscienza? Procediamo allora con un’elettrostimolazione. Questa procedura(come dimostrano ormai diversi casi citati nella letteratura medico-scientifica) può risincronizzare ilcervello dei pazienti in questione. Ricompattarne l’attività elettrica cerebrale, frammentata in seguitoall’incidente. Tanto per capirci, è come riportare sul giusto canale la frequenza di una radio chesfrigola.

Dopo quel nostro primo lavoro, altri pazienti hanno sperimentato un oggettivo miglioramentoimpiegando tecniche di stimolazione corticale non invasiva, quali la TMS, cioè la stimolazionemagnetica transcranica, e la tDCS, ovvero la stimolazione transcranica a corrente diretta, come spiegoprofusamente nel mio libro Textbook of Cortical Brain Stimulation.

Io continuerò sempre a sperare in un domani «vivo» per tutti gli stati vegetativi. Purtroppo, per questamia caparbia convinzione, ho pagato un prezzo molto alto. Bisogna sempre aspettarselo, quando ci sitrova a fronteggiare un intero apparato politico e culturale, materialista in questo caso, assolutamenteimperante all’interno dell’accademia. Non me ne stupii più di tanto, anche perché già portavo sullapelle qualche precedente «ferita»: nel 1999 tentai l’accesso alla carriera universitaria e mi resi contodi essere finito in quella sublime invenzione tutta nostrana che si chiama «concorso pilotato», cometanti – troppi – cervelli italiani, poi fuggiti all’estero, hanno sperimentato e patito.

Per segnalare la vicenda scrissi inviperito persino a Nature, forse in assoluto la tribuna di maggiorprestigio nell’ambito delle riviste scientifiche, e mi sentii rispondere che erano perfettamente aconoscenza di come le cose marciassero in Italia, aggiungendo che il mio episodio, tutto sommato,

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conoscenza di come le cose marciassero in Italia, aggiungendo che il mio episodio, tutto sommato,

non era neanche fra i più gravi. Conservo ancora quella e-mail come una reliquia religiosa.

In effetti, un percorso analogo ha vissuto, ahinoi, anche il professor Marco Lanzetta, che nel 1998eseguì a Lione, per la prima volta al mondo, un trapianto di mano. Si è ritrovato al centro di un lungo epenoso iter giudiziario: aveva deciso nel 2002 di concorrere per una cattedra di professore di ruolo.Pareva un bando fatto apposta per lui. Sbagliato: era destinato ad altri. Un articolo sul Corriere dellaSera, scritto da Gian Antonio Stella, riportava che i chirurghi ritenuti idonei dalla commissioneesaminatrice sembravano meno qualificati rispetto a Lanzetta. Nel 2012 cala il sipario: il Consiglio diStato scrive la parola «fine» sull’intricata telenovela processuale. Respingendo integralmente lerichieste di Lanzetta.

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L’anello mancante AL mio puzzle mancava ancora una tessera. La identificai in una sostanza «magica», descritta per laprima volta in ambito neurologico nel 1986, ma poi ignorata dalla comunità scientifica mondiale. Solodal 1999 una ristrettissima cerchia di ricercatori ha iniziato a occuparsene. Eppure, le prestazioni che ilcomposto in questione pareva garantire erano di tutto rispetto. Di più: sconcertanti. Perché stoparlando di un «materiale» capace di ripristinare la continuità degli assoni del midollo spinale. Ecco lagrande risorsa: la disponibilità oggigiorno di sostanze capaci di fondere fra loro i monconi deiprolungamenti recisi delle cellule nervose. Esistono cioè dei prodotti biochimici (che chiamiamo«fusogeni» o «sigillanti di membrana») in grado di ricostituire l’integrità di una fibra nervosa tagliata.

La più celebre di queste molecole è il PEG, sigla che sta per polietilene glicole, un polimero stranoto,di vasto impiego nell’industria manifatturiera e in medicina (come eccipiente dei farmaci). Altrocomposto analogo e diffusissimo è il chitosano, estratto dalla corazza delle aragoste! Questesostanze «tappano» le interruzioni, le «falle» che si creano nelle membrane delle nostre celluledanneggiate da una lesione meccanica, assicurandone di nuovo l’interezza (e ciò indipendentementedai meccanismi di riparazione spontanea). O ricomponendo un prolungamento nervoso amputato unavolta accostate le sue due estremità.

Il PEG, nella fattispecie, è un composto non tossico nell’uomo, facile da gestire, solubile in acqua, chepuò anche «sigillare» l’endotelio vascolare, ovvero il tappeto di cellule che riveste la superficie internadei vasi sanguigni. Una serie di esperimenti ha evidenziato fortemente la capacità riparatrice del PEG,sia in vitro, cioè in laboratorio, sulle fibre nervose sezionate e ricongiunte della sostanza biancamidollare della cavia, sia in vivo, con la somministrazione topica (cioè locale) o per via endovenosa.

Il PEG si è dimostrato altresì in grado di ripristinare la trasmissione degli impulsi nervosi,aumentando drasticamente il numero delle fibre sopravvissute (ossia la quantità complessiva disostanza bianca risparmiata). Nelle sezioni complete effettuate sul midollo spinale dei cani, si èpotuto assistere a un significativo e rapido recupero della conduzione nervosa, della deambulazione edella sensibilità, funzioni che migliorano con il passare del tempo. Sono dati che indicanochiaramente come il ricorso a questi «bioriparatori» costituisca una risorsa capitale per ristabilire lacontinuità delle fibre nervose sezionate.

Il potere «miracoloso» del PEG è stato dimostrato da uno studio recente: nel 2014, un team diricercatori tedeschi, capitanato dal professor Hans Werner Müller del Dipartimento di Neurologia allaHeinrich Heine Universität di Düsseldorf, ha sezionato completamente il midollo spinale in alcuni ratti,provvedendo a riempire il gap, il «vuoto» prodotto dal taglio, con il PEG. Ebbene, è stato possibileregistrare negli animali testati un massiccio allungamento delle fibre nervose di tutte le celluleneuronali (inclusi i neuroni che intervengono nella gestione delle autostrade del movimento). Le fibre– ricresciute nello spessore del PEG – hanno riacquistato il proprio fisiologico rivestimento di mielina(la guaina biancastra che avvolge gli «spaghetti») e sono tornate a interconnettersi con la normale retenervosa.

La ricrescita della fibra, per la cronaca, risultava già visibile una settimana dopo il trattamento: unaripresa avvenuta con velocità costante e rivelatasi duratura, tant’è che i roditori hanno potutorecuperare la fisiologica locomozione otto mesi dopo.

Il mio progetto cavalca, per l’appunto, le odierne possibilità tecniche offerte dalla fusione biologicaattraverso queste portentose sostanze.

Diciamo, insomma, che il bioriparatore molecolare in questione – e ancor più efficacemente ilchitosano – avrebbe potuto consentirmi di rivitalizzare un maggior numero di prolungamenti nervosidopo il taglio midollare (anche se, torno a ribadirlo, per la ripresa motoria potrebbe bastare soltanto il10-20% delle fibre che dal cervello discendono nel midollo. O persino nessuna!).

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Naturalmente il lavoro di White era rimasto snobbato e congelato per decenni, nessuno più se n’eraoccupato e di conseguenza mai agli occhi di qualcuno era balzata l’equazione: resezione precisa delmidollo spinale + PEG = recupero della funzione motoria. La comunità scientifica semplicemente nonaveva compreso affatto le potenzialità di ciò che aveva tra le mani. Il PEG, inoltre, sembrava possederela capacità di svolgere un’azione neuroprotettiva, il che era un indiscutibile bonus, un beneficioaggiuntivo.

Pennellata dopo pennellata, prendeva sempre più corpo il disegno finale: a quel punto, l’idea allabase del trapianto di testa consisteva nel sezionare il midollo spinale in maniera assolutamenteatraumatica, con una lama ingegnerizzata, affilata in modo perfetto ed estremamente sottile, assai piùdi un normale bisturi, e ricongiungere i due monconi midollari, del ricevente e del donatore, irrigando ilpunto di fusione con il PEG (o con una «miscela» di PEG e chitosano).

Sapevo – come ormai anche voi sapete – che potevo fare a meno delle lunghe fibre bianche, anche sediverse si sarebbero comunque «rifuse». Va da sé che, trattandosi di due corpi differenti, sarebbestato impossibile riconnettere con precisione gli «spaghetti» spezzati di un midollo con le lororispettive metà nell’altro segmento. Voglio dire: prendete un mazzo di bucatini, spezzatelo in due, e poicon un fascio in ciascuna mano accostateli. Dubito che riuscirete a rimettere in contatto un bucatinocon l’altro alla perfezione. Ma ero dell’avviso che questo sfasamento sarebbe stato compensato dallafamosa plasticità cerebrale e spinale, come si cominciava a evincere dagli studi di neuroimaging(così si chiamano le tecniche di neurovisualizzazione, che permettono di rilevare e di riprodurregraficamente anatomia e attività cerebrali): in presenza di lesioni spinali anche gravissime chemostrano un recupero funzionale nel tempo, si è visto che tutto il cervello si «riaggiusta», dallacorteccia in giù. Come detto, però, il cardine del processo di rifusione si sarebbe giocato quasiesclusivamente sulla popolazione degli interneuroni.

Aggiungo qui un dato anatomico: questi «fasci di spaghetti», all’interno dello stelo midollare, sipresentano in tutti gli individui con la medesima, precisa distribuzione, sono cioè localizzati in ciascunessere umano sempre negli stessi quadranti di sostanza bianca; in altre parole, il riallineamento deimonconi midollari tagliati, benché imperfetto, non sarebbe stato mai così estremo e difettoso. E inogni modo quella mirabile performance biologica che si chiama «plasticità neuronale» (cerebrale espinale) avrebbe fatto il resto, ritoccando, come lo scalpello dello scultore, le imprecisioni e ledifformità.

Domanda legittima: ma nel recidere la sostanza bianca del midollo, la lama non avrebbe poi distrutto,addentrandosi nella parte grigia, anche lo strato cellulare degli interneuroni? Certamente, ma sisarebbe trattato, appunto, di una sezione ultramicrotomica (cioè dello spessore di nanometri o meno:parliamo di misure pari a un miliardesimo di metro, l’equivalente di un milionesimo di millimetro).Avrebbe intaccato una singola filiera di elementi cellulari. Una volta giustapposti i monconi midollarirecisi e «bagnati» col PEG (o nel chitosano), gli interneuroni sui due versanti avrebberospontaneamente avviato il processo di sprouting rigenerativo (ovvero la ricrescita di nuove connessioninervose, dita di una mano che si intrecciano con quelle dell’altra, rami potati che rinascono erifioriscono). In virtù di questo fenomeno i due tratti di midollo sarebbero tornati a saldarsi assieme.

Non era più la «pazza idea» di un neurochirurgo esuberante: la ricerca scientifica stessa mi stavafornendo tutti gli elementi necessari per concretizzare quest’incredibile impresa.

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Un’idea elettrizzante ARRIVIAMO a cavalcare le cronache recenti. All’inizio del 2012 George D. Bittner, professore diNeurobiologia e Farmacologia alla University of Texas di Austin, ovvero il ricercatore americano che perprimo ha scoperto l’azione del PEG, pubblica due lavori contemporaneamente, in cui dimostra un fattoche non è di poco conto: il PEG è in grado di consentire sin da subito la conduzione degli impulsielettrici lungo i nervi periferici sezionati, pur in presenza del 10-15% appena delle fibre originaliricostituite e anche se i tronchi nervosi «ricuciti» non sono perfettamente allineati. Un’acquisizionecruciale, perché ciò avrebbe fra l’altro consentito di riattivare da subito «cavi» vitali, come il nervofrenico e il nervo vago: il primo, per capirsi, è quello che anima il diaframma, la grande cupolamuscolare posta tra la cavità toracica e quella addominale che ci permette di respirare; il vago, invece,è una sorta di factotum che regola attività cardiaca e digestiva (ma non solo).

Bittner dichiara di ottenere i suoi risultati lavorando sui nervi periferici, ovvero sui «fasci di spaghetti»che fuoriescono dal midollo spinale (o dal tronco encefalico) per condurre gli stimoli dal sistemanervoso alla periferia e viceversa. Ma ovviamente lo stesso ragionamento si estende anche aglianaloghi «fasci di spaghetti» che decorrono come autostrade nello spessore del midollo spinale.

Gli elementi del rebus si stavano dipanando, ma rimaneva ancora un ostacolo. Le sperimentazionianimali tradotte in termini umani indicavano che senza fare nulla, e cioè limitandosi soltanto adaccostare i monconi midollari sezionati (senza l’ausilio del PEG), si sarebbero dovuti attendere due-treanni prima di osservare un certo recupero funzionale... Inoltre, benché «miracoloso» nel riconnetterele fibre nervose recise, il PEG da solo non è in grado di riattivare celermente i neuroni scioccati dallasezione del midollo. Si affaccia, allora, un’esigenza pressante: bisogna in qualche modo accelerare ilprocesso di fusione dei due tratti di midollo spinale ricongiunti. A quale mezzo avrei potuto affidarmiper riuscire nell’intento?

Qui entra in scena la storia della medicina.

Il nome di Giovanni Aldini vi dice qualcosa? Era il nipote del grande medico bolognese Luigi Galvani,l’uomo che nel Settecento lavorò all’idea che le funzioni vitali fossero sotto il controllo di un principio dinatura elettrica, e che oggi viene appunto ricordato come lo «scopritore dell’elettricità biologica». Aldini,fiero sostenitore dello zio, pure lui professore di Fisica, condusse una serie di esperimentigalvanizzanti (è proprio il caso di dirlo) e per giunta con un senso dello spettacolo che avrebbe fatto lagioia dei docu-reality di oggi. Orchestrava pubbliche rappresentazioni – piuttosto macabre, per la verità– in cui, con l’applicazione della corrente elettrica, otteneva contrazioni di arti umani amputati, maanche convulsioni facciali e aperture di occhi nelle teste dei ghigliottinati. E tutto ciò per diverse oredopo il supposto decesso. Ecco che cosa scriveva Aldini:

Piazzai dunque orizzontalmente su un tavolo le due teste dei giustiziati, in modo che ledue sezioni comunicassero insieme con la sola umidità animale. Così disposte, feciarco con la pila dall’orecchio destro di una testa al sinistro dell’altra: fu meraviglioso, einsieme sconvolgente, vedere queste due teste farsi una alla volta delle orribili smorfiereciproche, tanto che qualcuno degli astanti che non si aspettava simili risultati, ne fuveramente scosso (Aldini, 1804).

Celeberrima restò la sua performance in terra inglese. A Londra, nel gennaio del 1803, Aldini potédisporre di un cadavere «fresco», quello di un certo George Forster, 26 anni, giustiziato per l’uccisionedella moglie e del figlio. Riuscì a intervenire su questo corpo subito dopo l’impiccagione:un’opportunità unica. Collegò allora i poli di una pila alla testa e al tronco del corpo, generando raffichedi convulsioni ma anche contrazioni intense di muscoli persino lontani dai punti di contatto degli archiconduttori. Insomma, agli occhi degli astanti, scioccati dallo spettacolo, quel cadavere pareva sulpunto di rianimarsi.

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E per Aldini la conclusione fu chiara: «Il galvanismo offre gli strumenti più potenti per rianimare le forzevitali nei casi in cui, per diverse circostanze, sono sospese».

Attenzione, Giovanni Aldini non era un re-animator, alla stregua dell’Herbert West cinematografico chesi diletta a resuscitare i morti col suo fosforescente siero verde: lo scienziato bolognese non intendevariportare in vita chi era stato dichiarato morto. Semplicemente, sosteneva la galvanizzazione come unvalido strumento di rianimazione quando la scintilla della vita non fosse del tutto spenta.

Certo è che, assieme allo zio Luigi Galvani, la figura di Aldini costituì un formidabile spunto creativo perla fantasia di Mary Wollstonecraft Shelley, il cui Frankenstein, ovvero il Prometeo moderno, pubblicatonel 1818, è diventato un mito letterario e cinematografico giocando proprio sulla fascinazionedell’«elettricità animale» e sul suo potere vivificante.

Mi sono permesso questa breve parentesi storica per rimarcare che l’elettricità svolge un ruolo chiaveanche nel processo di fusione dei due tronconi midollari giustapposti. L’elettricità, infatti, ha lastrabiliante capacità di accelerare i processi di rigenerazione neurale.

E allora come avrei potuto concretizzare questo passaggio chiave? Mediante uno stimolatoremidollare, una placchetta di elettrodi applicata proprio a cavallo della linea di unione fra i due monconidi midollo spinale. Se somministriamo un’ora di stimolazione continua a 20 Hertz subito dopo aversuturato un nervo periferico sezionato, possiamo ridurre i tempi di rigenerazione nervosa da otto-diecisettimane a tre soltanto.

È un dato assodato e verificato.

Ma questa stimolazione è in grado di ottenere molto, molto di più.

Sin dagli anni Novanta, il lavoro di un medico sloveno, naturalizzato americano, Milan R. Dimitrijevic(Dipartimento di Medicina fisica e Riabilitazione presso il Baylor College di Medicina, a Houston,Texas) aveva dimostrato che stimolando certe zone del midollo spinale era possibile sollecitare ilmovimento negli arti inferiori di un soggetto paraplegico, consentendogli di reggersi nuovamente suipropri piedi. Dopo anni di perfezionamento, questo risultato di straordinaria importanza raggiunse gliallori della cronaca mondiale nel 2011, quando un giovane sportivo americano, il campione dibaseball Rob Summers, travolto da un’auto e costretto alla sedia a rotelle, tornò ad alzarsi e amuovere qualche passo con l’ausilio di un deambulatore grazie soltanto alla stimolazione midollare ealla fisioterapia (risultati riprodotti su altri individui nel 2014).

Per spiegare questi «miracolosi» recuperi basterebbero poche, semplici ma illuminanti parole, lestesse pronunciate dal professor V. Reggie Edgerton, della University of California, Los Angeles, tra imassimi esperti in fatto di plasticità neuromuscolare: «Il midollo spinale è furbo». Dice proprio così:smart. Accorto, scaltro, astuto, sveglio, intelligente.

Insomma, non è un passivo cavo coassiale, un mezzo trasmissivo dei segnali informativi cheprovengono dalla regia cerebrale: il midollo spinale accoglie in sé tutto il macchinario essenziale perconsentire il movimento.

È vero: i neuroni del cervello sono il grande direttore d’orchestra, ma i musicisti nella buca (leggi: iltessuto nervoso midollare) non sono da meno. Sono tutti illustri professionisti capaci di interagirereciprocamente e di elaborare una sinfonia anche in assenza del Maestro che dirige. In seno almidollo spinale accade qualcosa di analogo: anche se questo dovesse risultare «staccato» dalcervello, esiste comunque nel suo contesto un’organizzazione, un hardware, capace di farci muovere.

Avete indovinato di cosa stiamo parlando? Bravi: gli interneuroni.

E allora lo scopo è riattivare con un’adeguata stimolazione elettrica i movimenti latenti nei meandrimidollari. Perché quando viene «reciso» da un trauma, lo stelo midollare tende ad «appassire», ad

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midollari. Perché quando viene «reciso» da un trauma, lo stelo midollare tende ad «appassire», ad

addormentarsi, non più eccitato dai vivaci ordini bioelettrici impartiti dal cervello. Si tratta, in definitiva, dinon perdere di vista l’esistenza di una plasticità midollare delle funzioni motorie.

Dunque, l’elettrostimolazione «rienergizza» i motoneuroni e, soprattutto, gli interneuroni spinali (e iloro contatti), infondendo nuova vita.

Non è finita. Quando il midollo subisce un trauma, insorge uno stato chiamato «shock spinale», i cuimeccanismi, per la verità, non sono ancora così chiari.

Ma esiste un dato estremamente suggestivo: come ha potuto dimostrare il dottor Robert Otto Becker,chirurgo ortopedico e ricercatore in Elettrofisiologia (scomparso nel 2008 a 85 anni), l’area midollareferita si rivela fortemente positiva dal punto di vista elettrico. Dice Becker (nel suo libro del 1985 TheBody Electric – Electromagnetism and the Foundation of Life): «Sembra che la prolungata positivitàelettrica da shock spinale sia il principale ostacolo per la riparazione del midollo spinale umano».

Dinanzi a simili considerazioni, la mia idea di elettrostimolare i due monconi di midollo incarnavasempre di più il detto: prendere due piccioni con una fava. Da un lato, infatti, avrei potuto imprimereuna «scossa» rivitalizzante ai tessuti nervosi sezionati, e dall’altro mi sarei ritrovato tra le mani ancheun espediente per contrastare la polarizzazione elettrica positiva del midollo (diffondendo carichenegative capaci di riattivare il processo di rigenerazione).

Tassello dopo tassello, avevo completato il disegno di insieme. E il quadro risultante sconfessava nonpoche verità scritte, come Comandamenti, sulle pagine dei sacri libri di medicina. Mi ero reso contoche si continuano a coltivare grossolani errori concettuali, anche quando la scienza ci spiattella infaccia l’esatto contrario.

Esempio clamoroso: gli spinaci. Cento grammi di questi ortaggi crudi contengono non più di tremilligrammi di ferro (per giunta in una forma che possiamo assorbire limitatamente e impiegaresoltanto in parte). Eppure, non c’è verso: il cibo di Braccio di Ferro rappresenta un caposaldo dellenostre convinzioni salutistiche. L’abbaglio – riporta una versione dei fatti – è figlio di un errore distampa commesso nella seconda metà del XIX secolo, quando, per un banalissimo refuso (unavirgola al posto sbagliato), si finì per attribuire agli spinaci un contenuto di ferro dieci volte superiore alreale. Si dice pure che un fisiologo svizzero, Gustav von Bunge, nel 1890, misurando la quantità delminerale nell’ortaggio, riportò un valore esorbitante perché aveva preso in considerazione spinaci nonfreschi ma secchi. Tanto per intenderci, le cozze sono una fonte di ferro indiscutibilmente superiore:cento grammi di parte edibile ne contengono non meno di sei milligrammi. E poi, anche dal punto divista fumettistico si prese un vistoso granchio: in una vignetta del 3 luglio 1932, Popeye ingurgitaavidamente la sua prediletta verdura dinanzi all’attonita Olivia ed esclama: «Gli spinaci sono pieni divitamina A!»

E a proposito di vitamine, che dire della vitamina C?

Per anni e anni tutti i principali testi di medicina hanno riferito che la vitamina C ad alte dosi favoriscela formazione dei calcoli renali. Un dogma assoluto. Finché nel 1998, due ricercatori, i dottori JamesGoodwin e Michael Tangum, decidono di verificare la fonte di tale credenza. Cominciano dunque acontrollare le bibliografie più recenti relative all’argomento: spulciano con pazienza lavoro dopo lavoro,quasi seguendo le briciole di Pollicino, per scoprire alla fine che... nessuno aveva provato il nesso dicausalità, ma ognuno citava pedissequamente l’opinione dell’autore precedente! Milioni di personeterrorizzate da una leggenda urbana medicale, riportata come assoluta verità persino dal celeberrimotrattato statunitense Harrison – Principi di medicina interna, che solo nelle ultime edizioni di questosecolo ha aggiustato il tiro e corretto l’errore.

Ma tant’è: le convinzioni sono dure a morire. Anche quelle scientifiche.

Al sottoscritto, il bookworm , il topo di biblioteca, non restava che comunicare al mondo la sua verità.

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Il trapianto di testa? Si può fare.

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PARTE SECONDA

Le verità rivelate

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Donatore e ricevente IL «trapianto di testa» è in realtà uno «scambio di corpi»: si tratta di riconnettere due monconi dimidollo spinale, quello di un corpo donato col segmento midollare che resta nel collo del soggettoricevente. Insomma, non è un fegato, non è un cuore o un rene l’organo trapiantato, ma un corpo nellasua interezza.

Le critiche feroci sono piovute da subito, già a partire dalla scelta di quell’etichetta: «trapianto di testa».Replico all’obiezione. Il termine scientifico corretto è anastomosi cefalo-somatica (dal greco ana estoma che traduciamo come «abboccamento», nonché kefalè, «testa», e soma, «corpo»). Significasemplicemente: attaccare una testa a un corpo. Già White aveva rimarcato come si trattasse – intermini popolari – di un trapianto di testa o di corpo a seconda del punto di vista. Peccato che i criticinon leggano. D’altra parte, anche trapianto deriva dal latino trans plantare, e cioè «levar piante da unluogo e trasportarle in un altro».

Mi chiederete: ma dottor Canavero, perché mai tutto ciò? A quale scopo concertare questa mega-avventura chirurgica che ha il sapore, direte voi, del «proibito», il gusto eccentrico di chi eccede?

Vi rispondo illustrandovi l’identikit del potenziale ricevente: potrà essere un paziente alle prese conqualche seria malattia neuromuscolare degenerativa (come le distrofie muscolari e le amiotrofiespinali, e forse anche la SLA, ovvero la sclerosi laterale amiotrofica, nelle fasi iniziali). Ma anche untetraplegico potrebbe candidarsi.

Il donatore? Un individuo che ha purtroppo perso la vita per un trauma cranico puro, senza lesionisostanziali a carico degli altri organi. O chi ha subito un ictus fatale (per esempio, un’emorragiacerebrale gravissima). Ricordo che il neurochirurgo Robert White pensò al trapianto di testa dopo averperso un amico fraterno a causa di un cancro metastatico, che però non aveva intaccato il cervello.

Adesso che vi ho delineato i potenziali scenari, siete ancora sconcertati? Pensate ancora che questoprogetto sia pura follia? In effetti, si schiude un territorio radicalmente inedito per la scienza medica.Perché se la vita ci sbatte in faccia un caso clinico estremo, io penso che bisogna anche essere prontiad affrontarlo con un rimedio estremo.

So che il mio progetto comporta rischi, non sono affatto cieco. E nemmeno Christiaan Barnard lo era,quando al Groote Schuur Hospital di Città del Capo, in Sudafrica, siglò il primo trapianto di cuore su unessere umano. Era il 3 dicembre 1967. Il paziente, ci dice la storia della medicina, morì dopo 18 giorniper una polmonite dovuta al regime immunosoppressivo dell’epoca, ma il secondo visse un anno emezzo. Barnard fu sepolto dalle critiche. Oggi, grazie anche all’evoluzione delle terapie messe a puntoper scongiurare il rigetto, il suo intervento è routine.

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L’annuncio shock I RICERCATORI mettono nero su bianco metodi e risultati delle personali indagini con lapubblicazione di un paper, la principale forma di comunicazione ufficiale alla collettività scientifica.Dovevo quindi scrivere un articolo che fornisse una dettagliata fotografia del mio progetto. Aspetto nonsecondario: avrei dovuto pure premurarmi di individuare una sigla «mediatica», un’etichetta cheidentificasse con efficacia la natura e le finalità dell’intervento (come per il mio precedente «ProgettoLazzaro», quando impiegai l’elettrostimolazione per ridestare il cervello dei pazienti in stato vegetativo).

Cominciai a spremermi le meningi per sfornare un acronimo capace di racchiudere le iniziali di unaserie di parole chiave, in grado anche di colpire in qualche modo la fantasia. Era la tarda estate del2012. Mentre sguazzavo nelle acque marine, le parole si affollavano nella mente, dal nome degli eroidei miti greci (Prometeo fu il primo pensiero) a quelli tratti dal più assortito campionario di divinità.Iniziai a ragionare: Head, Transplantation, Grafting, Plan, Project... Le sillabe non si incastravano adovere... Poi mi soffermai sul termine inglese che indica un’impresa ad alto rischio (perché la mia,innegabilmente, lo era): Venture. E anche sul fatto che la riconnessione, l’abboccamento di duestrutture anatomiche (come i monconi midollari) in modo da renderle comunicanti, in «medichese» sichiama «anastomosi». Per cui: HEAd (testa), Anastomosis e VENture (azzardo). Corrisponde alnostro: «l’impresa della riconnessione della testa».

Ma HEAVEN significa cielo, paradiso. Era perfetto. Sì. HEAVEN.

Pensai, però, che la parte di ricongiunzione spinale meritasse una propria designazione. E qui nonesitai: GEMINI. GEMINI rappresenta, infatti, il secondo programma spaziale americano che ha resopossibile la spedizione dell’uomo sulla Luna con l’Apollo 11. In particolare, GEMINI ha testato lapossibilità di attuare il rendezvous di due navicelle spaziali e il docking, cioè l’aggancio reciproco inorbita (tant’è che la traduzione in italiano del vocabolo latino gemini corrisponde a «gemelli», propriocome i due segmenti di midollo spinale riconnessi).

Inviai il paper, in cui illustravo il mio progetto esecutivo, alla rivista di neurochirurgia SurgicalNeurology International, che lo pubblicò nel giugno del 2013 (sul sito www.surgicalneurologyint.com ).

Apriti cielo!

Come un virus pandemico, la notizia contagiò il globo in una manciata di ore.

Stampa e TV (nazionali ed estere), ma anche blog e giornali internazionali on line immediatamentediffusero e amplificarono il clamoroso annuncio (per la cronaca, a rilanciarlo per primo in Italia e nelmondo fu il settimanale Oggi, che piazzò l’annuncio shock persino in copertina). E chi puòdimenticarsi quel giorno? I miei due figli tornarono da scuola frastornati: avevano appreso la notiziadagli insegnanti, che ne avevano parlato dinanzi alla classe con un misto di stupore e speranza per ifuturibili orizzonti terapeutici prospettati dall’intervento.

Il mio progetto – la possibilità sperimentale di effettuare un trapianto di testa (o, per meglio dire, «dicorpo») – mandò in fibrillazione comunità scientifica, mass media e opinione pubblica. Precisai:«Saremo in grado di siglare quest’impresa in un paio di anni, una volta ricevuto il ‘sì’ da un comitatoetico». Ventiquattro mesi è il tempo necessario per consentire all’équipe di chirurghi e a tutto ilpersonale sanitario coinvolto (che nei miei calcoli dovrebbe essere composto da circa 150professionisti, provenienti da discipline mediche e chirurgiche disparate) di prepararsi con tutti icrismi: dapprima sui cadaveri, poi sui pazienti cerebralmente morti.

Il dibattito tecnico ed etico si rivelò all’istante un fiume in piena e senza argini. Non ci fu un singoloPaese che non abbia riportato la notizia: dalla Cina alla Russia, dall’Europa alle Americhe,dall’Australia all’Africa, i siti Internet si sbizzarrirono non soltanto nel rendere virale il mio progetto in un

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dall’Australia all’Africa, i siti Internet si sbizzarrirono non soltanto nel rendere virale il mio progetto in un

adrenalinico tam-tam, ma anche nel dipingere una varia gamma di fanta-situazioni, di ipotetici scenarimedicali e sociali quando una simile avventura si fosse concretizzata.

Perché in effetti, come ho da subito rimarcato, il vero, lacerante e profondo dilemma riguarderebbe lacapacità di HEAVEN/GEMINI di allungare la vita umana (ma ne parleremo diffusamente nelle paginesuccessive).

Nell’editoriale introduttivo, sul fascicolo che includeva il mio progetto, firmato dal professor Michel Kliot,neurochirurgo della UCSF School of Medicine, si affermava in maniera chiara ed esplicita: «[Si tratta] dimetodi e/o terapie per cui c’è già una buona evidenza (almeno a livello concettuale) e un chiaropercorso da seguire, rendendone verosimile, o almeno possibile, l’applicazione clinica entro iprossimi 5 anni».

«Applicazione clinica» uguale «terapia disponibile».

Sconcerto. Sorpresa. Rifiuto.

E poi tante etichette folcloristiche: «il dottor Frankenstein», «un esperimento nazista» e, in Italia, «ilcaso Stamina della neurochirurgia»... Queste sono state le reazioni, comprensibilissime, da parte delpubblico. Anche un’ampia fetta della classe medica nostrana ha commentato la notizia con sentenzesommarie, senza nemmeno premurarsi di andare a leggere e capire che cosa avessi esattamentescritto nel mio articolo scientifico pubblicato su Surgical Neurology International, rivista, come diconogli addetti ai lavori, peer-reviewed, in cui, cioè, la valutazione dei singoli studi viene effettuata daspecialisti del settore per verificarne l’idoneità alla pubblicazione. Io stesso sono referee (cioèresponsabile incaricato di vagliare se un testo meriti o no di essere pubblicato) per decine di rivistemediche mondiali, fra cui il New England Journal of Medicine, Brain e Nature Reviews.

Alcuni camici bianchi hanno tuonato, senza comprendere: «Un trapianto di cervello da un corpo a unaltro? Ma è vietato dalla legge!» Altri si sono a tal punto convinti della mia intenzione di realizzare untrapianto di cervello che in Rete hanno cominciato persino a concionare su questa possibilità. Senzaaver acquisito le giuste notizie, le nozioni corrette per comprendere appieno i contenuti del mioprogetto, si sono lanciati in una serie di elucubrazioni che mi verrebbe da definire risibili: peccato,però, che c’è poco da ridere, perché questi signori indossano un camice bianco e seminano a prioridisinformazione e sospetti che certamente bene non fanno al dibattito scientifico. Non hannocompreso che qui si punta a sostituire un intero corpo gravemente compromesso, rimuovendone latesta per impiantarla su un organismo sano, ma hanno pensato: se nel trapianto degli altri organi ildonatore è la persona deceduta e il ricevente è l’individuo che vivrà con l’organo «nuovo», nel trapiantocerebrale si verificherebbe il contrario, cioè il cervello del donatore (che muore, per esempio, per uninfarto) verrebbe impiantato nel cranio di un ricevente, però a beneficiare di questo scambio nonsarebbe quest’ultimo ma il donatore medesimo... E allora – ecco la domanda che alcuni medicihanno ritenuto credibile porsi – chi mai si farebbe trapiantare un cervello sapendo di non trarne alcunvantaggio, visto che l’espianto significherebbe per lui la morte e non la sopravvivenza, come accadenel trapianto degli altri organi?

Quando mi capita di imbattermi in simili considerazioni a briglia sciolta, sparate senza la minimacoscienza del problema, mi rendo conto di quanto avesse ragione Max Planck, lo storico iniziatoredella Fisica quantisitica, nel dire: «Una nuova verità scientifica non trionfa perché i suoi oppositori siconvincono e vedono la luce, quanto piuttosto perché alla fine muoiono, e al loro posto si forma unanuova generazione a cui i nuovi concetti diventano familiari!»

Ripeto: si tratta di uno «scambio di corpi», la testa del soggetto ricevente su un organismo donato.Una sorta di terapia finale, globale. L’estrema, definitiva, risolutiva performance del bisturi. Pensataper i casi in cui nessun altro rimedio appare possibile. Ma viviamo in un Paese in cui troppi medicipreferiscono pascolare all’ombra dei campanili e tra i guadagni facili nelle case di cura, in cui politici ebaroni della medicina non rispondono agli appelli se non ci sono voti da raccattare (almeno 15.000,

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baroni della medicina non rispondono agli appelli se non ci sono voti da raccattare (almeno 15.000,

mi dicono gli informati...) o poveri malati da spennare.

Fortunatamente mi gonfia il cuore di conforto il «tifo» dei pazienti da tutto il mondo. Malati alle presecon malattie che compromettono gravemente le capacità di movimento, persone che credono inquesto progetto, pur essendo consapevoli che non si tratta di una scampagnata. Pazienti animati dallafiducia nei progressi della scienza, e che certamente non la bollano come fantamedicina.

Mi piace ricordare una frase di Albert Einstein, per tutti un genio assoluto, pronunciata nel 1934: «Nonesiste il benché minimo indizio che faccia pensare che l’energia nucleare diverrà mai accessibile,perché questo comporterebbe essere in grado di spaccare l’atomo a comando». Mi pare che la storia,scientifica e umana, abbia drammaticamente confutato il pensiero del grande fisico, o no?

La grande, caotica onda scatenata dalla diffusione pubblica dei miei propositi chirurgici arrivò infamiglia. Così, nel bel mezzo della gazzarra, mio figlio, con cui condivido da anni la passione per le artimarziali (come via per fortificare lo spirito, prima ancora che il corpo), si presentò da me visibilmentescosso. Non gli erano di certo sfuggite tutte quelle violente prese di posizione da parte di tanti colleghi,che, dinanzi a una nuova proposta medico-scientifica meritevole di ampio e sereno dibattito, anzichécercare di capire e dialogare si sono preoccupati all’istante di sferrare attacchi personali, conl’appoggio del mondo accademico, lanciando anatemi e offese pesanti e innescando la solita,diabolica «macchina del fango».

«Ma non ti dispiace, papà, per come ti stanno trattando?» mi chiese, scuro in viso. Gli ricordai allorache il jiu-jitsu è quell’arte capace di sfruttare la veemenza dell’avversario per neutralizzarlo quandomeno se lo aspetta, dirottando la violenza stessa di chi è ostile contro di lui. E che così sarebbeavvenuto.

Del resto, Mahatma Gandhi diceva: «Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci».Mio figlio (peraltro ben più sveglio di me) afferrò alla grande il senso del discorso e si precipitò ainsegnare alla sorella, anche lei piccolo genio, qualche tecnica di difesa aggiuntiva!

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Il secondo annuncio SMALTITA la prima «sbornia» mediatica, l’argomento non venne affatto spedito in soffitta. Mese dopomese, si susseguirono le richieste di interviste dai magazine del mondo intero, le partecipazioni aireportage televisivi e gli inviti ai convegni, come quelli del circuito TEDx (conferenze internazionali cheabbracciano una vasta gamma di argomenti, dalla scienza all’arte, dalla politica ai temi globali, e la cuimissione è riassunta nella formula «Ideas worth spreading», ovvero «Idee che val la pena sianodiffuse»). Nel luglio del 2014 l’American Academy of Neurological and Orthopaedic Surgeons, incollaborazione con la sezione americana dell’International College of Surgeons, mi invitò a tenere laKeyNote Lecture (praticamente l’evento clou di ogni meeting scientifico) al suo congresso annuale, nelgiugno del 2015.

Nel dicembre del 2014 anche Paris Match, lo storico settimanale parigino, cavalcò l’onda e mi dedicòun servizio, proprio all’apice dell’orrore suscitato dalle... decapitazioni in Medio Oriente!

Casa mia si ritrovò a essere nuovamente meta di inviati, documentaristi e reporter di testategiornalistiche e televisive di ogni nazionalità, e mi accorsi che tutti, immancabilmente, si presentavanocon l’intento di riportare in redazione qualche scatto fotografico «proibito»: le immagini scioccanti dellaboratorio segreto del novello dottor Victor Frankenstein, zeppo di marchingegni orripilanti (e magarianche del mostro nel sottoscala, già che ci siamo...). Dovettero accontentarsi di far vedere ai loro lettorie spettatori una semplice piastra di stimolazione corticale, additandola come «oggetto misterioso»!

Alla fine del mese di febbraio del 2015 riesplose la HEAVEN-mania. Il New Scientist, il più prestigiososettimanale inglese di divulgazione, che rivolge approfondimenti e dibattiti ai mille campi dellascienza, dedicò il servizio di copertina al mio progetto di trapianto di testa. Gli argini si sbriciolarono, ifiumi di inchiostro e parole tracimarono, e il mondo impazzì totalmente, tra polemiche ed entusiasmi,disquisendo e filosofeggiando sulla mia idea. Il punto è che in questi ultimi due anni la ricerca haottenuto risultati che, neanche a farlo apposta, rendono sempre più fattibile questo intervento.

Nel luglio del 2014, come ho già ricordato, un team tedesco dell’Università di Düsseldorf haconsentito ai ratti paraplegici di tornare a camminare grazie alle «magiche» virtù del PEG. Semprenello stesso anno, a ottobre, si è aggiunta la notizia di Darek Fidyka, un paraplegico quarantenne cheha ripreso a deambulare: un’équipe di neurochirurghi polacchi (col contributo di un neurobiologolondinese, che ha messo a punto la tecnica) ha ricollegato i segmenti di midollo a valle e a montedella lesione con l’aiuto di «ponti» di nervi prelevati dalla caviglia; ha poi estratto particolari cellule (diquella popolazione chiamata in medichese «glia») dal tessuto nervoso olfattivo del paziente pertrapiantarle con una serie di microiniezioni nel midollo, in prossimità della parte danneggiata. Inquesto modo si è riusciti a bypassare e a colmare l’interruzione. Nel giro di poco più di un anno, ilpaziente è stato in grado di rialzarsi e muovere passi con l’aiuto di un deambulatore.

È la dimostrazione clamorosa che un midollo spinale reciso si può ricongiungere.

Ma il caso di Darek Fidyka non è stato il primo.

Il professor Harry S. Goldsmith, neurochirurgo del Dipartimento di Neurochirurgia della University ofCalifornia, già nel 2005 era riuscito nella mission impossib le (ma la notizia non è rimbalzata suigiornali di tutto il mondo, come avrebbe dovuto): una paziente affetta da un’interruzione midollare diben quattro centimetri ha ripreso a camminare (sempre con l’ausilio di un deambulatore) grazie a uninnesto di tessuto chiamato «omento», e a una guida di collagene semiliquido entro cui si sonorigenerati gli «spaghetti».

Infine, la notizia bomba.

Sempre nel 2014, il gruppo del professor Xiao-Ping Ren, della Harbin Medical University, in Cina, ha

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Sempre nel 2014, il gruppo del professor Xiao-Ping Ren, della Harbin Medical University, in Cina, ha

raggiunto un traguardo strepitoso: in pratica, attraverso la rete dei vasi sanguigni, teste e corpisezionati di roditori diversi sono stati interconnessi reciprocamente, con una sezione del troncoencefalico effettuata sopra i centri cardiorespiratori.

Gli animali sono riusciti a respirare normalmente. E a sopravvivere per qualche ora nei testsperimentali iniziali.

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Il grande interrogativo QUI scatta ogni volta la domanda delle domande: perché progettare un avveniristico «trapianto dicorpo» e non insistere, invece, per rendere un intervento di routine la riparazione del midollo spezzato?Ovvero: perché, paradossalmente, incaponirsi con un atto chirurgico eccezionale e imponente cheprevede la fusione di due diversi segmenti midollari quando la paraplegia invoca ancora con urgenzaun trattamento risolutivo?

Formuliamo ancora una volta l’interrogativo senza troppi giri di parole: se è possibile riattaccare unmidollo sezionato, come mai i para- e i tetraplegici continuano a vivere su una sedia a rotelle?

La mia risposta potrà lasciarvi basiti, frustrati e tremendamente arrabbiati.

Nel 2012, il professor Leon Sebastian Illis, del Wessex Neurological Centre (Università diSouthampton, Gran Bretagna), medico, neurologo, ricercatore, neuroscienziato nonché editor dellarivista Spinal Cord – insomma, una vera autorità in materia – ebbe a dire: «Un secolo di ricerchededicate ad analizzare il sito della lesione spinale non è approdato praticamente a niente... In realtà,l’autentica promessa [di terapie] risiede là dove il midollo è ancora intatto».

Vediamo di entrare nel merito dell’affermazione (di straordinaria rilevanza per le ripercussioni checomporta) e di tradurla in soldoni. Illis dichiara questo: gli «esperti» hanno fallito perché non sonoriusciti a centrare l’obiettivo delle proprie ricerche!

Torniamo alle parole del professore: cosa significa che il vero traguardo terapeutico sta «là dove ilmidollo è ancora intatto»? Vuol dire che è un dispendio drammaticamente inutile di sforzi e tempoconcentrarsi «là dove il midollo non è più intatto». Ovvero: il luogo della lesione, il punto in cui ilmidollo spinale ha subito il trauma (un incidente stradale o la caduta da un ponteggio) è ground zero.Boom! La zona in cui è avvenuta la deflagrazione. Il teatro del disastro. Che nello spessore del midollospinale si traduce in emorragie, sviluppo di cisti, distruzione meccanica dei tessuti, formazioneirreversibile di cicatrici... un coacervo di lesioni che erige una poderosa barriera biologica escompagina per sempre l’architettura spinale.

Intestarditi fino al fanatismo, fior di ricercatori hanno cercato per anni e anni di sfondare a testa bassaquesto ciclopico macigno. Un’impresa disperata. Il risultato? È sotto gli occhi di tutti: la medicina non èstata ancora in grado di segnare un goal vincente contro la paraplegia.

E allora vorrei sollevare qualche riflessione generale (e opportuna)...

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I veri ostacoli al progresso scientifico L’ASPETTO centrale di tutta la faccenda è che noi essere umani, come specie, siamo piuttosto stupidi.I mutamenti epocali delle conoscenze ci terrorizzano. Ci gettano nello sgomento. E chi lotta per imporlisi ritrova a combattere solitario alle Termopili, contro migliaia e migliaia di Persiani.

La storia delle scienza è punteggiata da infiniti esempi.

Il medico ungherese Ignác Semmelweis fu baciato nel 1847 da un’intuizione rivoluzionaria: capì che latragica febbre puerperale (malattia che decimava le puerpere) veniva trasmessa per contaminazionebatterica, perché medici e studenti visitavano le partorienti subito dopo aver partecipato alle autopsie.L’antidoto? Lavarsi le mani con l’ipoclorito di calcio, un potente disinfettante.

Ma l’immensa scoperta, anziché suscitare plauso e ammirazione, sollevò una marea di velenosirisentimenti da parte dei soloni della medicina. «Che cosa? I medici stessi possono essere degliuntori? Ma questo è un sacrilegio!»

E il geniale dottore, stanco, deluso e depresso, morì miseramente in manicomio.

Ferdinand von Hebra, amico di Semmelweis, sentenziò: «Quando qualcuno scriverà la storia deglierrori umani, ne troverà pochi più gravi di quello commesso dalla scienza nei confronti diSemmelweis».

A Louis Pasteur andò meglio, ma all’inizio anche la sua «teoria dei germi» fu bollata dagli accademicidell’epoca come «un ridicolo parto della fantasia».

Il 17 dicembre 1903 i fratelli Wilbur e Orville Wright orchestrarono il primo volo di una macchinamotorizzata più pesante dell’aria, il Flyer (o Kitty Hawk). «Da qualche anno sono ossessionatodall’idea che l’uomo possa volare. Questo mio malessere è cresciuto e sono convinto che mi costeràparecchi soldi, se non la mia stessa vita», disse Wilbur Wright. Il loro biplano, con Orville ai comandi,si staccò dal suolo della spiaggia di Kitty Hawk, nella Carolina del Nord, in modo duraturo econtrollato, per 12 storici secondi, dimostrando una vera padronanza dell’aria.

Questa è storia risaputa. Ciò che non si ricorda è che tutti gli ingegneri e scienziati di allora (senzaeccezione alcuna) erano intimamente convinti che l’impresa fosse tecnicamente impossibile. SimonNewcomb, matematico e astronomo americano, pluripremiato per meriti scientifici, aveva scritto, pocoprima che i fratelli Wright compissero la loro impresa:

Il volo con macchine più pesanti dell’aria è impraticabile e insignificante, se non deltutto irrealizzabile... La rarefazione dell’atmosfera, che limita la sua capacità disostenere le ali, nonché il peso dell’uomo e della macchina costituiscono un ostacoloche non dovremmo sottostimare. L’esempio dell’uccello non prova affatto che l’uomopossa volare... L’aeroplano deve possedere delle eliche, mosse da un motore. Ma unmotore pesa. E le eliche devono essere fatte di metallo, destinato però a cedere unavolta raggiunta una certa velocità. E ammesso il successo dell’impresa, immaginatel’orgoglioso proprietario che sfreccia nell’aria a centinaia di piedi al secondo! È soltantola velocità che mantiene l’aereo in assetto. E quando questa dovesse diminuire, iniziala caduta. Potrebbe invero aumentare l’inclinazione del velivolo, il che aumenta laresistenza al movimento. Una volta fermo, precipiterebbe come un peso morto. Comepotrà atterrare senza distruggersi? Non è possibile che la combinazione di sostanze,apparecchiature e forze note possa generare una macchina in grado di condurrel’uomo a coprire una lunga distanza attraverso l’aria.

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Insomma, Newcomb asseriva l’impossibilità scientifica del volo umano a motore, che avrebberichiesto, a suo dire, la scoperta di qualche inedita forza della natura! I paradigmi cristallizzano icomportamenti umani in uno schema mentale, in un modello, in una regola asfittica, e alla fine, comeaffermava Goethe, «niente è più difficile da vedere con i propri occhi di quello che si ha sotto il naso».È proprio vero: l’occhio vede solo ciò che la mente «vuole» vedere.

Ma voglio citare anche un esempio risalente a tempi più recenti. Nel 1972, Stanley B. Prusiner lavoravacome neurologo alla School of Medicine della University of California, San Francisco. Tra i malati incura da lui, c’era un uomo in preda a una sindrome clinica eclatante. Prusiner, inerme, lo videprogressivamente consumarsi e spegnersi nel blackout di una travolgente demenza. Il killer sichiamava «malattia di Creutzfeldt-Jakob». Le conoscenze di Prusiner riguardo al morbo in cui si eraimbattuto si limitavano a una manciata di nozioni: desiderava saperne di più. Doveva saperne di più.Così decise di avventurarsi negli anfratti di quell’oscura patologia, determinato a dare un nome a chiaveva divorato il cervello del paziente. Spulciò tutti gli articoli che concernevano il tema delleencefalopatie spongiformi e dopo una serrata indagine giunse a individuare un agente patogenoassolutamente nuovo, diverso dai virus e dai batteri. Lo chiamò prione: un acronimo che sta per«particella infettante di natura proteica». I prioni sembravano proprio costituire un regno a parte inseno alla natura: non erano microrganismi veri e propri, ma figli della follia di un pezzo di DNA.Proteine mutanti, capaci di autoreplicarsi e di trasmettere l’infezione. Ma com’era possibile? Un tipodavvero originale, quel Prusiner – sparlavano i colleghi –, anzi, un eretico. Soltanto un eretico potevaavanzare teorie così assurde sull’identità del colpevole delle encefalopatie spongiformi. Il suopensiero era una pugnalata a tradimento alle leggi delle scienze biologiche.

Eppure... nel 1997 venne consegnato a lui il Premio Nobel per la Medicina, proprio per la scoperta diquesti agenti infettivi non convenzionali (che sono all’origine anche del famigerato «morbo dellamucca pazza»).

Bisognerebbe ricordarsi più spesso che la parola «eresia» ha nobilissime radici. Deriva dalla linguagreca, dal vocabolo airesis, e vuol dire: «fare la propria scelta».

Alla resistenza naturale (meglio: all’avversione) che il pensiero ufficiale da sempre schiera neiconfronti di chi canta fuori dal coro, dobbiamo aggiungere un altro dato: l’accademia – l’università –rappresenta oggi il «luogo di culto» cui l’umanità ha affidato il proprio destino, perché nel suo ambitoavviene gran parte della ricerca scientifica. Ma, come scrive Cartesio nel Discorso sul metodo, «lamaggioranza dei consensi non è una prova che valga per stabilire verità piuttosto ardue a scoprire,perché in tal caso è di gran lunga più probabile che sia stato un solo uomo a scoprirle che non unintero popolo» (e potrei cucirmi addosso anche il resto delle considerazioni del filosofo francese, vistoche subito dopo aggiunge: «Io non ero in grado di scegliere nessuno le cui opinioni mi sembrasseroda doversi preferire a quelle degli altri, e quindi mi trovai, per così dire, costretto a far levaesclusivamente su me stesso per ricercare come avrei dovuto condurmi»).

In effetti, le grandi invenzioni sono frutto dell’ingegno, dell’intuizione e del lavoro in proprio di singoliscienziati, e quasi mai di «masse organizzate». Il sistema universitario odierno, costruito sullacompetizione e sui «campanili» per l’accaparramento dei fondi pubblici o privati, spesso impedisce diriconoscere un’innovazione radicale – per un impiego diffuso e utile alla collettività – assai più diquanto già non accadesse in passato. E così operando, gli atenei paradossalmente finiscono perrappresentare un ostacolo formidabile al progresso della conoscenza. L’università, proprio come losport, vive di gare accesissime, di traguardi da tagliare, di primati e premi (fondi, nel suo caso) daconquistare. Saranno pure ingredienti sani dell’agonismo: purtroppo, però, anche nelle stanzedell’accademia circolano parecchi personaggi che non disprezzano il doping. E allora ecco qualcheinformazione falsata, la percentuale «ritoccata», la forzatura di certe conclusioni e il dileggio delle vocicontrocorrente.

Tra i ricercatori universitari circola un eloquentissimo ordine di scuderia: publish or perish! Pubblica omuori! Riuscire a piazzare un lavoro su una rivista medico-scientifica significa, per il gruppo che ha

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muori! Riuscire a piazzare un lavoro su una rivista medico-scientifica significa, per il gruppo che ha

firmato quello studio, prestigio e finanziamenti (risorse, peraltro, che continuano ad alimentare vecchiparadigmi e tralasciano filoni promettenti).

È una tragica «legge della giungla», in nome della quale non si deve però sacrificare l’anima stessadella ricerca: quella di trovare verità solide, anche se inconsuete, che possano un giorno aiutare chisoffre.

Questa logica perversa vige in tutto il mondo senza eccezioni.

La conferma più sorprendente arriva proprio dal fronte che studia il PEG, il polietilene glicole, la«colla» biologica che consente la riparazione delle fibre nervose recise. I due ricercatori statunitensicui dobbiamo i primi lavori sul PEG, George D. Bittner e Richard B. Borgens, di rado si citano fra loronella bibliografia dei propri lavori. E addirittura Bittner, in un paper pubblicato nell’aprile del 2015,ignora serenamente il sottoscritto a dispetto del quarantotto scatenato dalla comunicazione delprogetto HEAVEN/GEMINI. Scrive Bittner, neurobiologo e farmacologo: «È possibile che la fusione[delle fibre nervose] ottenuta in virtù del PEG, eventualmente abbinata all’innesto di segmenti di nervoperiferico o spinale, possa ripristinare la funzione motoria persa, all’indomani del trauma midollare,assai meglio di qualsiasi altra procedura correntemente utilizzata».

Interpreto fra le righe: «Non perdiamo l’occasione di rimarcare questo cruciale aspetto visto che unconcorrente (leggi: il dottor Sergio Canavero) ha già intravisto le prestazioni del mio PEG nellariparazione delle lesioni spinali!»

Chiasso mediatico a parte, io stesso mi ero premurato di inviargli una cortese e-mail, in cui loringraziavo per le sue preziose ricerche sul PEG, sottolineando come queste costituissero unafondamentale piattaforma per concretizzare il mio progetto di fusione spinale. Non si può quindi direche fosse all’oscuro delle indagini che stavo conducendo.

Eh, già: gli scienziati non sono proprio stinchi di santo. Anche negli USA, dove le università sono per lopiù private e la parola d’ordine è «Produrre!» se non riesci a procacciarti fondi sei fuori dai giochi. Ilche significa confrontarsi ogni giorno, col machete tra i denti, nell’arena della concorrenza interna einternazionale. E tutto ciò non può che rallentare e strangolare l’innovazione.

In conclusione, si può essere certi che se qualcuno, da battitore libero ma pur sempre nel rigore deldiscorso scientifico, sviluppa una buona idea, troppe volte dovrà rimboccarsi le maniche per nonvederla soffocata in culla.

Il povero Semmelweis, il «salvatore delle madri», fu una delle grandi vittime dell’accademia:un’esistenza dedicata alla ricerca della verità in campo medico, illuminata da una pionieristicaintuizione e spezzata dalla feroce ottusità dei «colleghi». E se voi non conoscevate tale eroe, vi invitoallora ad approfondirne la storia. Perché la non conoscenza di queste vicende umane fa sì che nullacambi. Personalmente, ho imparato da Pasteur che per affermare le proprie idee preferiva ledimostrazioni pubbliche, da gran comunicatore quale era.

Ma torniamo al grande interrogativo del paragrafo precedente, perché sono in debito di una risposta...

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Un futuro di grandi manovre OGNI anno nel nostro Paese vi sono circa 1.800 nuovi casi di paraplegia (in genere, conseguenza ditraumi derivanti da incidenti stradali e infortuni sul lavoro). Allo stato attuale, in Italia vivono circa 80.000paraplegici. Nel mondo sono circa 2,5 milioni le persone con lesioni spinali, e 130.000 i nuovi pazientiogni anno.

Per tutti loro la moderna tecnologia degli esoscheletri sta disegnando un nuovo orizzonte. Fra i primi araggiungere la commercializzazione spicca il ReWalk : è un’ortesi, un tutore motorizzato, creatodall’ingegnere israeliano (paraplegico) Amit Goffer. Si applica esternamente, sugli indumenti checoprono gli arti inferiori: il movimento è consentito da motori che, alimentati da una batteria collocata inuno zaino sulle spalle, «pilotano» le articolazioni dell’anca e delle ginocchia e sono governati da unsistema computerizzato. Si riesce a camminare autonomamente, con semplicità e naturalezza, perchéil paziente può controllare l’esoscheletro con l’ausilio di un sensore, attraverso calibrati movimenti diinclinazione della parte superiore del corpo.

ReWalk , insomma, non muove la persona alla stregua di un «soldatino», ma è progettato per imitarel’andatura umana, potenziando forza e agilità del paziente, muscolatura e giunture. Approvato nelgiugno del 2014 dalla FDA (l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione deiprodotti alimentari e farmaceutici), questo dispositivo hi-tech viene impiegato assieme a due bastonicanadesi, che assicurano la stabilità della stazione eretta e della deambulazione.

E come non provare ancora un’onda di emozione nel ricordare lo stadio Itaquerao di San Paolo,quando, al fischio di inizio della Fifa World Cup del 2014, un ragazzo paraplegico ha sferrato il calcioinaugurale inguainato nel suo esoscheletro?

Messo a punto dal neuroscienziato brasiliano Miguel Angelo Laporta Nicolelis, il dispositivo (frutto delprogetto Andar de Novo, ovvero «Camminare ancora») è un apparecchio cibernetico che consente dimuovere gli arti inferiori attraverso il pensiero: una serie di elettrodi posizionati sul cranio inviano deisegnali elettrici a un computer piazzato sulla schiena, che provvede poi a trasformarli in comandimotori. Nicolelis nutre giustamente un’ambizione, grazie allo sviluppo di questi «fantatutori»: «spedirein soffitta la sedia a rotelle».

Le incredibili soluzioni sfornate dalla bioingegneria hanno cominciato a cambiare la vita deiparaplegici e la tecnologia degli esoscheletri sta conoscendo una forte espansione.

Ma una cura biologica, a mio avviso, resta un traguardo indispensabile.

Ricordate quando ho citato nelle pagine precedenti l’esperienza del neurochirurgo L. Freeman, chegià aveva ottenuto animali in grado di camminare dopo la sezione chirurgica apportata al midollospinale? Raccontavo in quel paragrafo che assieme ai suoi assistenti resecò via la porzione midollarerovinata dai danni del trauma (riprodotto sperimentalmente), e avvicinò semplicemente i due monconi.Ebbene, ecco qui la mia risposta, che combacia con le già citate parole del professor Leon SebastianIllis («L’autentica promessa [di terapie] risiede là dove il midollo è ancora intatto»): si tratta proprio dirimuovere del tutto il pezzo spinale leso dal trauma, appaiando poi le due metà sezionate e sane, cheandranno trattate, infine, con la somministrazione del PEG e di una elettrostimolazione calibrata. Ilrecupero motorio è possibile.

Per evitare, poi, che con questo accorciamento midollare si debba contestualmente ridurre lalunghezza della spina dorsale (rimuovendo un corpo vertebrale), la strategia può essere quella disanare lo spazio restante dopo l’asportazione del tessuto midollare malato con degli innesti nervosi(anch’essi da trattare con PEG ed elettricità).

Il dato che fortifica questa visione e chiude il cerchio è un articolo pubblicato nel 2009 sul Journal of

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Il dato che fortifica questa visione e chiude il cerchio è un articolo pubblicato nel 2009 sul Journal of

Neuroscience, in cui si legge che gli interneuroni sono in grado con i propri assoni di insinuarsi nellacicatrice che si forma dopo una sezione midollare effettuata col bisturi. All’incapacità degli «spaghetti»motori provenienti dalla corteccia, che si inchiodano dinanzi alle forche caudine della cicatricetraumatica, sopperiscono, insomma, gli interneuroni. Altre evidenze sperimentali mi hanno suggeritoche anche dopo un danno importante molte di queste cellule posseggono la facoltà di sopravvivere,laddove altri tipi di neuroni soccombono.

Alla luce dei casi eclatanti descritti dalla letteratura medico-scientifica e delle nuove nozioni acquisitesul funzionamento del sistema nervoso centrale, è questa la strada da abbracciare per fornire unacura chirurgica alla paraplegia.

E a questo punto anche un trapianto di testa (per un paziente tetraplegico, con una paralisi del torso edi tutti e quattro gli arti, o alle prese con qualche grave malattia neuromuscolare degenerativa) diventarealizzabile.

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Il paziente zero QUANDO il New Scientist mi intervistò chiedendomi se vi fossero pazienti disposti a sottoporsiall’intervento, in effetti la lista dei volontari era già lunga. Ero stato raggiunto, subito dopo quel primoclamoroso annuncio nel 2013, da decine di e-mail di malati disperati da ogni dove. Rifiutai, è ovvio, diesibire nomi e cognomi, ma alla luce del trambusto mediatico che la faccenda aveva sollevato nelmondo, il primo in assoluto che mi aveva contattato decise di farsi avanti.

Valery Spiridonov, di Vladimir (in Russia), 31 anni, occhi celesti e viso solare, è un uomo il cui temposu questa Terra sta finendo: «I medici mi hanno sempre detto che forse non avrei superato laventina», racconta. Valery è affetto da una grave condizione che affonda le radici in un’anarchia delDNA. Nome in codice: malattia di Werdnig-Hoffmann. Una severa forma di atrofia muscolare spinale,caratterizzata da un’imponente e progressiva debolezza muscolare, per una degenerazione deineuroni che governano il movimento.

Ecco che cosa mi scrisse nel 2013:

22/06/2013 ore 10.47

Oggetto – Sono pronto per il suo esperimento!

Caro dottor Sergio!

Sono un disabile di 29 anni, affetto da un’atrofia muscolare.

Mi ha reso straordinariamente felice sapere dai giornali che sta lavorando alla ricercasul trapianto di testa. Per favore, mi dica: di che cosa ha bisogno per far sì chel’operazione abbia successo? Potrei esserle utile? Sono assolutamente disposto aprendere parte a qualsiasi sperimentazione, se lei dovesse richiederlo.

Cordialmente

Val

Da allora è stato un contatto quasi continuo per posta elettronica e via Skype. Insomma, l’onda lungaplanetaria del mio progetto lo aveva raggiunto e stregato. «Inutile nasconderlo, questo sentimentoumano di riuscire finalmente a vivere con un corpo che... funzioni. Così, già prima mi ero avvicinato altema. Sapevo che il neurochirurgo americano Robert White ci stava lavorando negli anni Settanta.Adesso ho appreso che le possibilità tecniche per ottenere una connessione del midollo spinale cisono», ha dichiarato Valery ai giornalisti.

Val ama la vita, nel suo caso da sempre proiettata nel domani e nell’hi-tech. Lavora nella computergrafica tridimensionale, realizzando software per prodotti educativi interattivi. Adora gli effetti specialidei kolossal hollywoodiani, e quando ha avuto il suo primo pc, be’, sapeva già quale mestiere avrebbepraticato. Internet e informatica sono il suo universo, perché Valery può soltanto pigiare tasti. La suamalattia gli consente di sollevare un telefono, nulla di più pesante. Ma oggi si sente all’improvviso ilnuovo Jury Gagarin o il Neil Armstrong del futuro. Val, pronto a planare su un terreno alieno... «Il miopiù grande obiettivo è proprio quello di diventare uno dei primi pazienti per quest’avventura incredibile.Il pensiero di riuscire in una simile impresa mi aiuta ad allontanare il senso di depressione. Sarebbecome... ‘Boom!’, sì, come un viaggio verso Marte!»

Paura? Mi ha confessato: «Ho compreso perfettamente tutti i rischi e le incognite, però io sono fattocosì: l’intenzione di provare a cambiare la mia esistenza è forte. Anche mia madre sostiene conconvinzione ogni mia scelta: certo, è un po’ spaventata. Tra i miei amici, le opinioni sono contrastanti,è ovvio. Ma la maggior parte di loro mi rispetta. La scienza sta rendendo migliori le vite di tutte le

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è ovvio. Ma la maggior parte di loro mi rispetta. La scienza sta rendendo migliori le vite di tutte le

persone. E la tecnologia è qui, per spazzare via i limiti. Anche per le persone come me».

Val conosce bene, e ha saputo valorizzarle nel profondo, le parole accorate pronunciate da JohnFitzgerald Kennedy il 12 settembre del 1962, davanti a 35.000 persone nello stadio della RiceUniversity a Houston, Texas. JFK ebbe a dire in quell’occasione:

Qualcuno si domanda: perché la Luna? Perché sceglierla come nostro traguardo? Ci sipotrebbe chiedere anche: perché scalare la montagna più alta? Perché, 35 anni fa, èstato sorvolato l’Atlantico? [...] Abbiamo deciso di andare sulla Luna in questo decennioe di impegnarci anche in altre imprese, non perché sono semplici, ma perché sonodifficili, perché questo obiettivo ci permetterà di organizzare e di mettere alla prova ilmeglio delle nostre energie e delle nostre capacità. Perché accettiamo di buon gradoquesta sfida, non abbiamo intenzione di rimandarla e siamo determinati a vincerla,insieme a tutte le altre.

A Val piace sempre dire: «Se davvero desideri qualcosa, agisci perché si avveri».

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La trasferta negli USA ANNAPOLIS, giugno del 2015. Il gran giorno è arrivato.

Annapolis, capitale degli USA prima di Washington, ora è il cuore dello Stato del Maryland, fiera delsuo porto, di essere la sede dell’Accademia navale degli Stati Uniti e di ospitare più edifici del XVIIIsecolo di qualsiasi altra città statunitense.

Approdo qui, come ho più sopra scritto, perché raggiunto l’anno scorso da una e-mail dell’AmericanAcademy of Neurological and Orthopaedic Surgeons, invitato a tenere una lettura magistrale sulprogetto HEAVEN/GEMINI. Un’occasione d’oro per illustrare a una platea internazionale di camicibianchi contenuti e modalità operative del trapianto di testa. Il cuore mi balla in gola per l’emozione.Non soltanto per i media che popolano la hall dell’hotel dove ha luogo il convegno, ma perché so cheavrei finalmente incontrato lui, il mio «paziente zero». Valery Spiridonov non poteva mancare. Dopomille chiacchierate via Skype, me lo trovo davanti. Distrutto dal viaggio, visibilmente sofferente. E misuccede qualcosa di strano: anziché lasciarmi travolgere dall’entusiasmo, mi irrigidisco. Diventofreddo nei modi. Quasi distaccato per la rabbia. La rabbia del medico che vorrebbe regalare a questomalato una pronta soluzione, e che invece avverte la sensazione che la nostra medicina è ancoraimpantanata in una barbara arroganza tesa a proteggere lo status quo e l’edificio degli interessieconomici.

Val ha una testa normale e un corpo piccolissimo mangiato dal male. Uno scricciolo su questa grandesedia a rotelle. Bisognoso di tutto.

Lo accarezzo, ci guardiamo, ci capiamo. Pochi minuti, perché i famigliari lo conducono poi nella suastanza. È idratato con una flebo: l’ha aiutato a sostenere il viaggio dalla Russia. Una trasferta a dirpoco massacrante per lui.

Anche qui, come in Italia, mi sembra di respirare sulle prime la stessa strana atmosfera. Colgonell’aria quella certa ostilità tipica della professione medica verso il collega al centro di un clamoremediatico. Mi siedo a un tavolo per consumare un boccone veloce e mi fissano a tratti, per rivolgeresubito gli occhi, con falsa indifferenza, sul proprio piatto. Mi sento «ET l’extraterrestre». Qualchecoraggioso viene a presentarsi, quasi con imbarazzo.

La sala conferenze è vasta, con due grossi schermi ai lati. Sono lì affluiti una moltitudine di reporter etelecamere (l’organizzatrice dell’evento, Maggie Kearney, ha confessato di non aver mai visto – in 15anni di attività congressistica – un giornalista scalpitare così per un convegno medico) e un’ottantinadi chirurghi. E tra costoro, spicca in platea il professor Xiao-Ping Ren, della Harbin Medical University,in Cina, il ricercatore con cui ho stretto una proficua alleanza scientifica, vista la comunione di intenti.Nel 2013, proprio quando HEAVEN/GEMINI salì alla ribalta, Ren aveva dichiarato che il trapianto ditesta era una «missione possibile», e lo dimostrò l’anno successivo, come s’è detto, scambiando fraloro le teste di centinaia di roditori. Arterie e vene di un animale agganciate a quelle della testa di unaltro, e con un taglio del tronco encefalico condotto al di sopra dei centri nervosi che governano respiroe attività cardiaca, cosicché i roditori potessero sopravvivere, con il cuore che pompava e i polmoni chelavoravano tutti in piena autonomia. Ma Ren, fino a quel punto, non era stato in grado di ricostituire lacontinuità dei due tratti di midollo recisi. E i roditori, ovviamente, non potevano espletare movimentivolontari.

Salgo sul podio e con una strizzata d’occhio saluto il professore, dinanzi alle telecamere di tutto ilmondo, additandolo come «l’altro dottor Frankenstein». E poi comincio a scorrere le quasi 90diapositive che punteggiano il mio intervento. Più di 3 ore per spiegare perché il midollo si puòriparare fondendo i monconi spezzati. Sulle facce degli astanti emergono espressioni allibite. Ma restobasito anch’io: nessuno di quei chirurghi di alto rango conosceva la tecnologia né soprattutto leragioni che rendono concreta la possibilità di «incollare» le parti midollari tagliate. Zero

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ragioni che rendono concreta la possibilità di «incollare» le parti midollari tagliate. Zero

consapevolezza di tutto quello che voi avete letto e appreso sin qui!

Mi rendo allora conto, di fronte a quel consesso di medici specializzati, che lo «scandalo» planetariogenerato dal mio progetto deriva soltanto... dall’ignoranza totale di un bagaglio preciso di nozionitecniche, peraltro diffuse dalla letteratura medico-scientifica ma, evidentemente, trascurate,sottovalutate, snobbate dai più. Un illustre dottore prende la parola e inizia a criticare pesantemente lamia «pazza idea». La replica, umana, arriva dallo stesso Val, che lo invita a prendere il suo posto sullasedia a rotelle... Quella scientifica, invece, giunge non solo dal sottoscritto (ho messo a disposizionedegli interessati il piano articolato con tutti i dettagli operativi), ma anche da Xiao-Ping Ren,all’indomani, quando il professore mostra pubblicamente i personali risultati ottenuti con il PEG. Xiao-Ping Ren (la mia liaison scientifica con il ricercatore cinese era andata avanti per mesi, con continuiaggiornamenti via e-mail) si dice assolutamente convinto della fattibilità di questo traguardo,rimarcando, con una punta di divertita ironia, come il trapianto di testa sia un ingrediente popolare delfolclore cinese, oggetto delle novelle fantastiche di Pu Songling, scrittore della Dinastia Qing.Insomma, Mary Shelley per l’Occidente, Pu Songling per l’Oriente! Xiao-Ping Ren esibisce datisconcertanti: nei roditori, con le teste trapiantate e i monconi midollari «bagnati» col PEG, i movimentivolontari riaffiorano dopo sole quattro settimane dall’intervento (ottenendo, nel gergo medicale, 16punti nella cosiddetta BBB Locomotor Scale, ossia la scala di Basso-Beattie-Bresnahan, uno dei piùdiffusi strumenti di valutazione per vagliare la ripresa delle funzioni motorie nei roditori che hannosubito un trauma midollare; giusto per afferrare la differenza, gli animali privi di trattamento, consideratinei test come «controlli», cioè come termini di paragone rispetto ai topi trattati, hanno ricevuto 7 dipunteggio, il che, tutto sommato, significa che anche senza PEG la plasticità midollare agiscecomunque per ripristinare un barlume di movimento).

Tocco con mano, negli incontri successivi vis-à-vis, che l’interesse è enorme. La sensazione generaleè quella di avere a che fare con una nuova corsa alla Luna declinata in chiave biomedica, alla luce delXXI secolo, ma mi viene anche detto che il «sistema America» è oggi profondamente disfunzionale,con problemi legali enormi. L’America, come mi confessa un collega, non è più quella di un tempo,quella che ha alimentato il mito. Peccato.

Probabilmente la Cina e, con grandissimo interesse, la Russia saranno i futuri teatri di HEAVEN,«l’impresa della riconnessione della testa». Ma è assai verosimile, invece, che gli States ospiterannol’altro segmento del mio progetto, ovvero GEMINI, il piano per restaurare il midollo spinale interrotto,troncato da un trauma. Con l’obiettivo di definire una soluzione chirurgica contro la paraplegia.

Rientro in Italia sfinito, ma certo: HEAVEN/GEMINI is coming...

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PARTE TERZA

Le verità future

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Nel giorno di un anno che verrà, nell’ospedale di una grande metropoli.

R., TRENTENNE, ha il respiro concitato.

E anche il ritmo cardiaco è piuttosto acceso.

Ma non si preoccupa. Sa che cosa sta provando: si chiama «emozione».

La lunga attesa, per certi versi estenuante, è giunta finalmente al capolinea. Mesi di training trascorsicon quello strano aggeggio piazzato sulla testa. Però, che esperienza fenomenale... Lui calato in unmondo sintetico, ma così incredibilmente tangibile. E quel tuffo al cuore quando ha provato la nettasensazione di possedere un corpo funzionante. Membra che rispondono ai comandi del cervello. Enon mute e sofferenti, come sono adesso, piegate dai guasti di una severa patologianeurodegenerativa. I sanitari che negli ultimi tempi lo hanno seguito, come tanti coach, si sonopremurati di ricreare in lui i presupposti sensoriali per tornare a gestire un corpo, sfruttando la realtàvirtuale immersiva. Un allenamento grazie al quale la fisicità del soggetto diventa il mezzo principalecon cui manipolare l’ambiente tridimensionale generato dal computer, come se il paziente si trovasserealmente al suo interno. L’utente ha un coinvolgimento senso-motorio e cognitivo massimo, grazieall’impiego di un caschetto provvisto di visore e di speciali sensori di posizione, che registrano imovimenti del paziente e li convogliano all’elaboratore, così che questo possa modificare l’immagine3D in base alle azioni e al punto di vista del soggetto. Una rieducazione preparatoria, propedeutica,benché simulata, al prossimo incontro con un nuovo e reale corpo.

Già: realtà virtuale immersiva.

Una tecnologia straordinaria, capace di forgiare ambienti «simulati» da impiegare a scopo terapeuticoe riabilitativo (nella cura dei disturbi neurologici, motori e psicologici) e nell’ambito del trainingchirurgico e della formazione medica. Una risorsa che ha saputo regalare a R. un rinnovato senso dipresenza e interattività, e che nei prossimi anni cambierà il nostro modo di vivere. L’esperienzaimmersiva produce la sensazione che tutto sia molto simile all’ambiente reale, manipolando – qui stail punto nodale – il cervello stesso. Gli scienziati, infatti, sono riusciti a dimostrare che, contrariamenteal comune sentire (per cui la percezione del nostro corpo ci risulta stabile, inalterabile), è assai facilegenerare l’illusione che la struttura anatomica sia radicalmente mutata.

Calato in questo «mondo» costituito da stimoli che hanno origine nel computer, il soggetto puòassaporare l’illusione di possedere una mano di gomma o il naso di Pinocchio. Così, all’interno didimensioni fittizie, percepite però come tangibili, il corpo reale della persona può essere sostituito conuno virtuale. Il che produce effettivi cambiamenti comportamentali, sensazioni somatiche del tuttoinedite. In altre parole: il senso del sé può essere pilotato a volontà.

Ricorderete come nel kolossal cinematografico Avatar, di James Cameron, l’ex marine paraplegicoJake Sully si interfacci con il corpo creato ad hoc di un Na’vi, uno degli abitanti dalla pelle blu delpianeta Pandora, nuovamente libero di correre a perdifiato.

Ecco: la realtà virtuale immersiva funzionerà per ogni candidato al trapianto di testa allo stesso modo,lavorando sulla capacità intrinseca del cervello di assimilare il flusso delle stimolazioni ambientali econdizionando, ripianificando le strategie comportamentali.

Miguel Angelo Laporta Nicolelis è un neuroscienziato brasiliano che insegna alla Duke UniversitySchool of Medicine, a Durham, nella Carolina del Nord. Incluso dalla rivista Scientific American tra iventi più importanti scienziati della Terra, sta sconcertando il mondo scientifico con i suoi studi aiconfini della realtà, spingendo il limite delle conoscenze neurologiche «là dove nessun uomo è maigiunto prima» (per dirla alla Star Trek). Già da tempo ha dimostrato, per esempio, che l’attività elettricacerebrale è in grado di controllare un dispositivo meccanico attraverso interfacce macchina-cervello. Inaltre parole: la «forza del pensiero» non è un semplice modo di dire, ma esiste e può muovere le

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altre parole: la «forza del pensiero» non è un semplice modo di dire, ma esiste e può muovere le

cose.

La prova? Un esperimento in cui una scimmia impara a governare un analogo animale virtuale, cioèun primate-avatar, e poi un robot attraverso i comandi nervosi impartiti dai suoi neuroni. Nicolelis parladi «principio di plasticità». Recita così: «La rappresentazione del mondo creata dalle popolazioni dineuroni corticali non è fissa, ma è in perpetuo divenire, per tutta la vita, adattandosi incessantementealle nuove esperienze, ai nuovi modelli del sé, alle nuove simulazioni del mondo esterno e ai nuovistrumenti assimilati».

Questa capacità di riorganizzarsi e ristrutturarsi continuamente alla luce delle mutevoli condizioniambientali è nota da tempo: come tentacoli di una piovra, le fibre che scaturiscono dal corpo dellecellule nervose si proiettano nello spazio circostante, ma mai in maniera fissa. A seconda dellesituazioni e delle necessità, possono disegnare nuovi circuiti nel cervello e nel midollo spinale.

In poche parole, il sé (l’unità e la totalità della personalità, nella sua parte conscia e in quellainconscia) muta e si adatta di continuo. Per cui, se in seguito all’irrimediabile compromissione delleprestazioni fisiche per una malattia devastante potessimo un giorno disporre di un nuovo corpo, ilnostro senso del sé cambierebbe, come quello di qualcuno che può finalmente muoversi e interagirecol mondo.

Quindi, nel progetto HEAVEN/GEMINI, la realtà virtuale immersiva consentirà – nei 3-6 mesi cheprecederanno l’intervento – di rimodulare il cervello dei pazienti in attesa di un nuovo corpo.

Sempre a proposito di «plasticità» (non soltanto neurale), la scienza in questo secolo ha scoperto unaltro dato sbalorditivo, che riguarda il microcosmo della flora batterica intestinale, l’«organodimenticato», come qualcuno lo ha definito: etichetta scelta a ragion veduta, perché di certo non lotroverete descritto nei sacri testi d’anatomia. Eppure si tratta di un pezzo integrante del nostro essere,che sa regalarci un bottino di formidabili benefici. I «batteri amici» sono un’invisibile nazione di germi:migliaia di miliardi di individui (almeno dieci volte il numero di tutte le cellule corporee) che pascolanosul manto mucoso del tubo gastrointestinale. Una popolazione immensa a costituire la qualeconcorrono oltre mille specie batteriche, un condominio biologico con cui firmiamo un contratto direciproca assistenza. C’è un’altra più moderna definizione che contraddistingue questo biosistema:«microbioma» (sull’onda dei termini «genoma», «proteoma» e «metaboloma»).

Ebbene, solo di recente si è cominciato a comprendere le incredibili performance di questa massa dimicrobi. Una prima attività del microbioma, si sa, è costituita dalla partecipazione ai processi digestivi,allo smaltimento delle scorie e alla produzione di molte sostanze nutritive, incluse alcune vitamine.Tuttavia, certe acquisizioni scientifiche, accumulate in questi ultimi tempi, lasciano davvero a boccaaperta. Per esempio, gli studi sui ratti, che posseggono una flora batterica per alcuni aspettisovrapponibile a quella residente nell’intestino umano, hanno dimostrato che non soltanto esiste unmicrobioma differente fra topi magri e topi obesi, ma anche che, effettuando «trapianti» incrociati delcontenuto intestinale, i magri tendono ad accumulare chili e gli obesi a perdere peso. Un altrostraordinario fenomeno: lo scambio del microbioma fra ratti giovani e anziani indurrebbe un’inversionedell’invecchiamento.

Ci si sta anche rendendo conto che, forse, in assenza di questi batteri noi umani non avremmo potutoraggiungere il livello di sviluppo cognitivo attuale: siamo infatti basicamente dipendenti da una miriadedi sostanze neurochimiche prodotte dagli «umili» batteri in questione. Per esempio, il sistemaserotoninergico cerebrale – il circuito di neuroni che utilizza la serotonina come neurotrasmettitore,giocando un ruolo fondamentale in numerose funzioni fisiologiche come la regolazione dell’umore,del sonno, della temperatura corporea, della sessualità e dell’appetito – non si sviluppa in manieraappropriata senza l’intervento della microflora intestinale.

In sintesi, il microbioma è un ingranaggio peculiare all’interno del sistema che regola il nostrocomportamento. I rapporti fra microbioma e cervello costituiscono oggi un affascinante campo di

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comportamento. I rapporti fra microbioma e cervello costituiscono oggi un affascinante campo di

indagine: il cervello sembra agire sulle caratteristiche gastrointestinali che consentono laproliferazione di determinate specie microbiche e, per contro, il microbioma produce metaboliti eneurotrasmettitori in grado di condizionare l’attività cerebrale.

Ormai emerge forte e chiaro il dato che ognuno di noi possiede una microflora unica e caratteristica(alla stregua delle impronte digitali) che condiziona la nostra indole, la personalità stessa.

Condizioni metaboliche quale il diabete di tipo 2, e forse anche i disturbi comportamentali comel’autismo e la depressione, possono essere legati agli squilibri del popolo dei microbi nell’intestino.Significa, allora, che la flora batterica nel corpo donato potrebbe modificare cervello e mente del nostroR.? È assai verosimile. Ma proprio la massa degli intriganti e nuovi studi, come quelli citati poc’anzi, cidice che si può manovrare il microbioma in base alle proprie esigenze, anche con l’ausilio deiprobiotici, di ceppi batterici ad hoc. Senza poi contare le rivoluzionarie possibilità offerte dalla biologiacosiddetta «sintetica», che potrebbe consentire di fabbricare nuove specie batteriche ridisegnandocircuiti metabolici e genetici di un microrganismo per crearne uno di pratico utilizzo.

E torniamo al nostro R.

È innegabile: per lui è stata una preparazione «atletica» intensa. Il team di psicologi che gli haapplicato quel caschetto sulla testa, per consentirgli di assaggiare la fisicità del nuovo corpo con larealtà virtuale immersiva, non l’ha mollato un istante in tutti questi mesi. Per non parlare della nutritabatteria di test a cui ha dovuto sottoporsi: innanzitutto, la tipizzazione dell’istocompatibilità (o tissutale),cioè l’accertamento preliminare indispensabile nei trapianti d’organo, per studiare il grado disomiglianza degli antigeni tissutali sulle sue cellule e quelli nel donatore (questi antigeni, sostanze ingrado di essere «fiutate» e riconosciute dal sistema immunitario, sono responsabili di quella serie direazioni che conducono al rigetto); e poi le indagini morfologiche effettuate con la risonanza magneticae la TAC, allo scopo di definire con precisione le misure della testa e del collo e rapportarle con ledimensioni del donatore...

Il tutto condito da ripetute sedute di ipnosi e meditazione, per imparare a gestire lo stress e alleviarel’ansia dell’intervento.

D’altra parte, il mondo intero ha gli occhi puntati su di lui.

Il semaforo verde finalmente è scattato grazie alla disponibilità di un’importante e rinomata strutturaospedaliera, scesa in campo dopo che un celebre tycoon, un magnate dell’economia e dell’industria,ha versato quindici milioni di dollari per finanziare l’impresa. Altri soldi sono arrivati da vari sponsorprivati, e persino da una rete televisiva che ha voluto accaparrarsi l’esclusiva in mondovisionetrasmettendo in diretta l’intervento chirurgico.

La parte organizzativa più delicata e complessa è stata la campagna informativa volta a diffondere nelpubblico la cultura della cessione del corpo nella sua interezza, forma di altruismo civico al pari delledonazioni di organi e di quella del sangue. La delicata opera di sensibilizzazione ha cavalcato lepreesistenti disposizioni in materia di donazione del corpo post mortem per fini di studio e di ricercascientifica, perché non poche persone nel mondo già manifestavano l’intenzione di lasciare il propriocadavere alla scienza, gesto avvertito come un dovere morale implicito nel patto sociale: una sorta digeneroso lascito per scopi cruciali al bene altrui e al progresso delle scienze biologiche, di cui cisiamo serviti quando eravamo in vita. Il battage dei mass media, fortunatamente, ha compiuto ilmiracolo. Del resto, si stava intravedendo la possibilità di mettere la propria firma su un passo senzaprecedenti nella storia della medicina.

Un «balzo da gigante», avrebbe detto Neil Armstrong, il comandante della missione Apollo 11...

I chirurghi nel frattempo hanno dedicato ore e ore alla messa a punto della procedura finale,studiando con maniacale attenzione muscolo dopo muscolo, arteria dopo arteria, vertebra dopo

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studiando con maniacale attenzione muscolo dopo muscolo, arteria dopo arteria, vertebra dopo

vertebra.

Per sperimentare il protocollo di neurofusione dei due tronconi midollari si è dovuto ricorrere a pazienticerebralmente morti, ma vivi nel resto del corpo e soprattutto nel contesto del midollo spinale. Inparticolare, si è trattato di vedere quale delle sostanze sigillanti – il PEG, o il chitosano, oppure unaggregato ingegnerizzato dei due composti – producesse la migliore risposta neurofisiologica: qualefosse il più rapido ed efficace, in altre parole, nel riattivare la scintilla elettrica, nel permettere, cioè, ilripristino della conduzione del segnale nervoso (dato ottenibile stimolando elettricamente il midollo amonte del punto di fusione e registrando gli impulsi a valle). Tutti i potenziali ostacoli tecnici hannotrovato una soluzione soddisfacente.

Il gigantesco team finalmente è pronto e collaudato.

Una sera i cellulari di queste decine di esseri umani hanno squillato all’unisono: nelle case, neicinema, nei centri commerciali, per strada, alla guida delle auto... il segnale. Il D-Day era giunto: c’è ildonatore. È il Signor D., coetaneo di R., immunologicamente compatibile, non affetto da malattie note.Morte cerebrale per un trauma cranico puro, cioè senza danni al fisico in seguito allo scontro. Unincidente d’auto. Uno di quei maledetti eventi che rubano giovani vite annebbiate dall’alcol o dalladroga. O per mero destino. Sì. Il destino. Ma questa volta la morte si onorava di servire la vita.

I genitori di D., avvicinati da un team di psicologi adeguatamente preparati, hanno manifestato ilconsenso al trapianto. In mezzo al dolore e alle lacrime, una madre e un padre, privati del propriopersonale futuro, hanno visto accendersene un altro: un giorno R., in cambio della nuova vita, avrebberegalato a questi due genitori il nipote... «impossibile».

Proprio così: è uno degli scenari emotivamente più coinvolgenti disegnati dal trapianto di testa. Ilprogetto HEAVEN/GEMINI, fondendo due individui, genera infatti una chimera, una creatura chepossiede l’attività cerebrale della persona ricevente e il patrimonio biologico e genetico del donatore.Significa, cioè, che il corpo donato si porta appresso, nei testicoli o nelle ovaie (a seconda che sia unlui o una lei), un DNA diverso. Quindi, un ipotetico futuro figlio nascerebbe con i geni dell’originarioorganismo maschile o femminile (a meno che il ricevente non provveda, prima dello scambiooperatorio, a congelare il proprio seme o le cellule uovo, in vista di una successiva procreazioneassistita; una chance, peraltro, già offerta dalla medicina odierna).

I genitori di D. sarebbero, insomma, diventati nonni. La vita e la speranza, per loro, avrebberoconosciuto un diverso domani. Nulla finisce per davvero. Già, il trapianto di testa non è la meccanicasutura fra due parti anatomiche, un mero atto chirurgico, benché fuori dell’ordinario: significa riscrivereconvinzioni e conoscenze universali. Sapersi aprire a una concezione dell’esistenza totalmente nuova.

Perché nulla sarà più come prima.

La scelta del personale medico e paramedico è stata laboriosa.

Quando il progetto HEAVEN/GEMINI ha cominciato a concretizzarsi, dai più disparati ospedali delglobo sono giunte centinaia di richieste: camici bianchi di ogni specialità hanno offerto la propriadisponibilità. Desideravano «esserci», in quella avventura. Ci credevano.

E naturalmente è stata avviata una certosina selezione, per allestire una solida squadra di circa 150persone provenienti dalle variegate discipline mediche: neurochirurghi, chirurghi vascolari,otorinolaringoiatri, anestesisti, ortopedici, immunologi, strumentisti di sala operatoria, fisioterapisti,psicologi, professionisti della riabilitazione... Per affrontare il prima, il durante e il dopo. Tutti insiemeappassionatamente sotto i riflettori dell’attenzione planetaria.

E ora il fatidico momento è arrivato.

L’adrenalina è alle stelle. Soprattutto nelle vene di R. che, prima di varcare la soglia della sala

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L’adrenalina è alle stelle. Soprattutto nelle vene di R. che, prima di varcare la soglia della sala

chirurgica, si intrattiene ancora mezz’ora con i suoi psicologi, ormai amici: un’ultima seduta di ipnosicontribuirà a placare ansia, stress e paura.

L’uomo viene adagiato sulla barella e condotto verso la sala.

I tubi al neon, dal soffitto del lungo corridoio, illuminano il suo viso... R. viene introdotto all’interno dellocale, e i suoi occhi colgono all’istante la fisionomia del donatore, inizialmente disteso su un lettino.Un’ondata di emozione lo ammutolisce. Mille pensieri impazziti si affollano, ma nessuno è nitido.L’orizzonte di una nuova esistenza... quel corpo supino che tornerà ad animarsi pilotato dal suocervello...

E poi la meraviglia per la vastità della stanza: l’aveva immaginata assai più contenuta, e invecesembra immensa.

In effetti, si tratta di una vera e propria suite chirurgica ultra-attrezzata, allestita ex novo, progettataproprio per gestire la complessità di quell’intervento, ospitare il frenetico via vai dei sanitari che siavvicenderanno sui lettini e garantire di conseguenza la massima libertà di movimento.

C’è gran fermento, tutt’attorno: tecnici di sala, anestesisti indaffarati a posizionare monitor, ferristi cheordinano con certosina perizia gli strumenti... Spiccano sulle superfici dei carrelli, coperti dagli asetticiteli verdi, le lame speciali per sezionare il midollo spinale, confezionate sterilmente presso illaboratorio di nanomateriali di una ditta specializzata. Anche lo stimolatore midollare, dispensatore distimoli elettrici rivitalizzanti, è pronto, accanto ai recipienti con la miscela «magica» di PEG echitosano.

Un momento di surreale, religioso silenzio accoglie l’ingresso di R. La tensione è all’acme. Eovviamente anch’essa, nella sala chirurgica, si taglia col bisturi.

Gli occhi dei presenti fremono sopra il bordo delle mascherine. C’è chi accarezza la fronte di «Jury»,come tutti hanno preso a chiamarlo, in ricordo di Jury Gagarin (il cosmonauta e aviatore sovietico, ilprimo uomo a volare nello spazio), chi gli stringe la mano, chi volge al cielo i pollici inguainati daiguanti chirurgici, chi prega dentro di sé... Sì, perché R. sta per compiere «un grande balzo perl’umanità», ma un balzo nell’ignoto.

Il donatore è già stato tracheostomizzato e intubato. E adesso è la volta di R. I chirurghi accedono alsistema delle arterie e delle vene con l’inserimento di alcuni cateteri, destinati a convogliare farmaci diogni tipo. L’ultimo contatto con questo mondo sono gli occhi cerulei della dottoressa anestesista, e nelgiro di una manciata di minuti le palpebre cominciano a cedere...

I contorni del mondo si sfilacciano.

R. scivola nel morbido regno dell’anestesia e della paralisi farmacologica. Le macchine della vitaartificiale entrano in azione: hanno assicurato la respirazione meccanica del donatore e in questopreciso momento stanno garantendo la sua.

Le teste di entrambi vengono ora «bloccate» con estrema precisione grazie a uno stabilizzatorecranico, un dispositivo metallico che si ancora alle pareti del cranio con tre perni, piazzati all’internodell’osso. La postura è necessaria per fissare in modo rigoroso la testa ed evitarne gli spostamentidurante le manovre operatorie.

Un sensore a infrarossi viene inserito nel canale uditivo e applicato sulla membrana timpanica di unorecchio per registrare la temperatura endocranica: le strutture cerebrali, infatti, verranno poste inanimazione sospesa in seguito al raffreddamento a 15 °C, così da rallentare i processi metabolici etutelare la vitalità dei neuroni durante la fase di distacco e ricongiungimento, quando cioè la testarisulterà esangue, del tutto priva di ossigeno e glucosio. Dopo l’autorizzazione all’intervento, neisuccessivi due anni preparatori si è ampiamente discusso per stabilire quale delle metodiche di

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successivi due anni preparatori si è ampiamente discusso per stabilire quale delle metodiche di

raffreddamento cerebrale sarebbe stata la più idonea. Una di queste era stata ideata da Robert White,e prevede che i neurochirurghi pratichino due piccoli fori nella parte alta della testa e inseriscano unpaio di minicannule nelle cavità del cervello bagnate dal liquor, il fisiologico «fiume» che bagna eprotegge il sistema nervoso centrale. Un altro cateterino in uscita deve essere introdotto poco al disotto della giunzione fra la testa e il collo, quasi a contatto col cervelletto. In questo sistema di canalicomunicanti si infonde lentamente una soluzione fisiologica (cloruro di sodio in acqua purificata) a 2°C. Nel giro di un’ora al massimo la temperatura endocranica avrà raggiunto il valore fissato.

Alla fine, però, si è deciso di sfruttare una tecnica più semplice: cateterizzare il primo tratto dell’arteriacarotide di un lato (uno dei più grossi tronchi arteriosi del corpo umano, ai lati del collo) e l’arteriafemorale corrispondente, connesse in un sistema a circuito chiuso attraverso una pompa centrifuga. Ilsangue viene drenato in continuo dall’arteria femorale, raffreddato in un bagno d’acqua a bassissimatemperatura e reinfuso nella carotide comune. Ma ad agevolare l’abbassamento termico provvedeanche un caschetto per l’induzione dell’ipotermia, sulla testa di R.

Comincia l’«ibernazione» dei tessuti cerebrali. Il termistore, posizionato nel condotto uditivo, continuaa registrare la discesa della temperatura. Che si abbassa, si abbassa, si abbassa... con costanza eregolarità, finché sul display compare il limite stabilito: 15 °C.

Come il colpo di pistola sparato dall’arbitro per la partenza degli atleti, quel numero è il «Via!» cheattiva l’équipe di chirurghi.

Si lavora in sincrono sul donatore e sul ricevente, disposti sui lettini operatori ripiegati adesso inposizione eretta, alla distanza di due metri e mezzo, così da velocizzare il trasferimento della testa di R.sul corpo di D.

L’operazione si svolgerà lungo due direttive: il compartimento anteriore del collo e quello posteriore.Sul davanti agisce un plotone di specialisti composto da due chirurghi generali, con esperienza diinterventi complessi sul collo, due chirurghi otorinolaringoiatri e due chirurghi vascolari;posteriormente, il compito è affidato ai chirurghi ortopedici e ai neurochirurghi.

A effettuare le incisioni iniziali della cute e del tessuto sottocutaneo penserà un chirurgo plastico,attento a preservare l’aspetto estetico dell’area operata.

Le linee di taglio sono tre: una condotta dall’area occipitale (nella parte inferiore e posteriore dellascatola cranica) fino alla prima vertebra dorsale; le altre due sul margine anteriore dei muscolisternocleidomastoidei, quei robusti nastri muscolari, simmetrici, situati nella regione anteriore elaterale del collo, tesi trasversalmente tra l’occipite e la clavicola. A queste tre incisioni, segue un taglioorizzontale «a collana», tutt’attorno al collo.

È sull’organismo di D. che la squadra dei chirurghi deve lavorare con estrema accortezza. Perché, peresempio, la ghiandola tiroide (che abbraccia la parte iniziale della trachea), per ragioni legate alla suaparticolare vascolarizzazione (cioè alla distribuzione della rete sanguigna) sarà di D., ma la laringesottostante, con le corde vocali all’interno, resterà quella di R., perché in questo modo la sua voceverrà conservata.

Le lancette dell’orologio scorrono inarrestabili.

Ma qui non bisogna stabilire record di velocità. Qui c’è in ballo una nuova pagina della storia medica eumana. I precedenti interventi preparatori, con lo scambio completo delle teste sui pazienticerebralmente morti, si sono svolti senza intoppi tecnici, ma ci si è comunque resi conto che non sisarebbe riusciti a scendere sotto la soglia delle 36 ore complessive.

Il lavoro del bisturi prosegue: sul davanti vengono sezionati uno alla volta i molti piani muscolari cherendono stabile il collo. Ciascun muscolo, tanto su R. quanto su D., è contrassegnato con un filo di

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rendono stabile il collo. Ciascun muscolo, tanto su R. quanto su D., è contrassegnato con un filo di

colore diverso, in modo da facilitare la successiva riconnessione.

La vicinanza dei due lettini fa sì che i chirurghi siano costantemente in contatto, per coordinarsi. Nervicruciali, come il vago e il frenico, su R. sono distaccati a valle con un certo margine, così da avere più«filo» del necessario per confezionare una fusione senza tensione (che produrrebbe effetti nefastisulla capacità delle fibre nervose di condurre gli impulsi). Lo stesso vale per il nervo ricorrentelaringeo (ramo del nervo vago), che innerva i muscoli intrinseci della laringe. L’ipotesi iniziale era stataquella di mantenerlo integro, sfilando le anse che descrive (a destra attorno all’arteria succlavia, e asinistra sotto l’arco aortico), una volta recisa l’aorta di R., ma, tutto sommato, si può contare sullecapacità «sigillanti» del PEG dopo la sezione. Il che aiuta a semplificare il già oneroso lavoro deicamici verdi.

Ecco: sul davanti, la trachea (in corrispondenza del primo anello, subito al di sotto della laringe) e iltubo esofageo cominciano a essere disgiunti, con precisione millimetrica. I chirurghi vascolari aquesto punto si dedicano a isolare le arterie carotidi e le vene giugulari, che, al momento opportuno,verranno tagliate e «clampate», come si usa dire in ambito medico, cioè chiuse temporaneamenteutilizzando un clamp, un morsetto. Ultimo atto prima del trasferimento finale.

Il versante anteriore del collo è il fronte che richiede in assoluto il maggior impegno da parte deichirurghi: è qui che saranno spese moltissime ore di lavoro, sia nella fase di distacco della testa, sianel docking, per usare il gergo dei voli nello spazio, ossia nella successiva manovra di aggancio.Operazioni che richiederanno la rotazione di diversi camici verdi.

Nel contempo, gli ortopedici e i neurochirurghi si stanno occupando del versante posteriore del collodei due soggetti, che continuano ad avere la scatola cranica ingabbiata dagli stabilizzatori. Il copione siripete per le masse muscolari: recise con diligenza, sono «marcate» con dei fili chirurgici colorati.

L’attenzione si sposta sulle vertebre. Su entrambi i corpi si provvede a rimuovere i processi spinosi (glisperoni ossei presenti posteriormente, in posizione mediana) «in blocco», dalla prima vertebracervicale – detta atlante, dal nome del personaggio mitologico che portava sulle spalle il peso delmondo – fino alla settima. In tal modo è possibile ottenere una visione completa di tutto il midollospinale del tratto cervicale, avvolto dalla dura madre, la parte più esterna e «tosta» delle tre meningi (lemembrane che cingono nel loro abbraccio protettivo encefalo e midollo spinale). Quando i chirurghihanno ultimato le manovre sul compartimento anteriore del collo di R., gli ortopedici, dietro, iniziano alavorare sullo spazio tra la quinta e la sesta vertebra cervicale, rimuovendo da qui il discointervertebrale, il fibroso cuscinetto circolare interposto tra un corpo vertebrale e l’altro (di cui la naturaci ha dotati per attenuare le pressioni sviluppate durante i movimenti). Si ottiene così ladisconnessione del segmento cervicale. La rimozione del disco segna il momento in cui i chirurghivascolari possono procedere a sezionare e «clampare» le arterie carotidi e vertebrali (i tubi arteriosi,cioè, che si dirigono verso l’alto, si addentrano nel cranio e provvedono a irrorare il cervello), nonché levene giugulari (che riportano il sangue dalla testa al cuore).

Manca ancora un importante atto prima del fatidico momento della separazione. La dura madre vienedelicatamente aperta con un taglio longitudinale, sia su R., sia su D. Al di là della breccia lineareappena schiusa, spicca il midollo spinale, madreperlaceo, con le radici che emergono ai lati aformare i nervi spinali. Sotto le luci della sala operatoria assume un aspetto quasi spettrale... Adessouna mano ha impugnato la lama speciale, ingegnerizzata, dal filo tagliente ultrasottile: è stata creataper incidere il midollo spinale con la massima meticolosità e senza traumi per i tessuti nervosi.

Questa lama – in realtà in sala operatoria ve ne sono quattro – ha caratteristiche davvero uniche. Lasua origine affonda le radici nel passato.

Avete mai sentito parlare delle lame di Damasco? Ai tempi delle Crociate, i Cristiani si trovarono difronte a una tecnologia sconosciuta in grado di produrre sciabole affilate al nanometro, cioè almiliardesimo di metro. Le leggende, all’epoca, si sprecavano: si narrava che queste spade fossero

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miliardesimo di metro. Le leggende, all’epoca, si sprecavano: si narrava che queste spade fossero

talmente vigorose da tagliare una roccia. Il filo della lama risultava così affilato da dividere un fazzolettodi seta lanciato in aria. E, ancora, la loro versatilità era tale da poter essere arrotolate attorno a unuomo per poi tornare drittissime senza la benché minima scalfitura. L’acciaio di Damasco, durante ilMedioevo, forniva ai guerrieri musulmani un vantaggio tecnologico non indifferente. Nessun fabbro nesvelò il segreto. E nessuno riuscì a riprodurre quel ferro e a forgiare di meglio. Pensate, solo nel 2006si è potuto fotografare (letteralmente) nel dettaglio l’intimo segreto di queste lame, grazie a uno studiopubblicato su Nature da un gruppo di studiosi coordinati da Peter Paufler, della Technische Universitätdi Dresda, in Germania. L’analisi al microscopio elettronico di una di queste sciabole ha svelatochiaramente la presenza di nanotubi in carbonio e nanofili di cementite! La particolare tecnicametallurgica dei fabbri islamici finiva per generare nanotecnologiche strutture tubulari di carbonio,scoperte e comprese veramente soltanto sul finire del secolo scorso, quando lo scienziato americanoRichard E. Smalley individuò (conquistando il Premio Nobel) una speciale forma di arrangiamentoregolare degli atomi di questo elemento: quella dei fullereni, «gabbie» sferiche formate da unarrangiamento ordinato di strutture carboniche esagonali e pentagonali.

Ebbene, la disponibilità delle lame midollari si dovrà proprio alla possibilità di ottenere queste intimearchitetture in scala nanometrica. Potrebbero esistere altre modalità per separare in manieraatraumatica il midollo spinale: nei moderni ultramicrotomi, impiegati per ottenere sezioniestremamente sottili dei campioni biologici da esaminare, le lame in diamante sono per esempio ingrado di effettuare tagli nella scala degli Ångström, quindi ben al sotto del nanometro.

Ma ricaliamoci nell’atmosfera elettrica della nostra suite chirurgica.

Il taglio non avviene nel punto in cui si realizzerà poi la fusione vera e propria, ma in entrambi gliindividui i midolli verranno divisi prevedendo una piccola «coda», un margine appena più abbondante,cosicché al momento di collegare la testa al corpo i due monconi si accavallino.

La dura madre viene tagliata circolarmente. La separazione ultima è vicina... Ma prima si bagna lospazio attorno alla meninge, e anche al di sotto di essa, con una soluzione fisiologica a 4-15 °C, perraffreddare anche il midollo cervicale e tutelarlo (perché il processo di fusione abbia successo, alsegmento spinale bisognerà in seguito comunque riassicurare una temperatura fisiologica).

L’ansia è palpabile. Il vociare dei chirurghi cresce.

La lama midollare avanza con delicatissima caparbietà, addentrandosi nello spessore della sostanzabianca e in quella grigia... Marcia con decisione e rigore...

E qualcuno lancia un grido di attonita meraviglia quando a un certo punto, come il team tecnico di unpit stop che alza le braccia dopo il cambio delle gomme o il rifornimento di carburante, tutto ilpersonale si arresta in un fermo immagine al cardiopalmo e vede... la testa del Signor R. che si lib ranell’aria della sala operatoria.

La testa è attaccata a degli strap di velcro assai lunghi, che a loro volta pendono da un’asta mobile,che sovrasta il lettino.

È completamente esangue. Nelle arterie carotidi si provvede a immettere ancora della soluzioneacquosa a una temperatura di 4 °C, per ulteriore sicurezza.

Anche la testa di D. viene sganciata dal corpo.

La prima decapitazione medicalmente assistita della storia dell’umanità ha appena avuto luogo.

Occhi sbigottiti. Un mix di tracimante entusiasmo e intima perplessità scorre nelle vene di questomanipolo di medici e infermieri. Il primo passo sulla Luna, ma anche... che cosa? Con l’innesto di unnuovo corpo, non s’è forse tracciata la via per allungare l’esistenza umana? Un organismo nuovo dizecca per rottamare quello semplicemente logorato dai segni del tempo. Ai posteri l’ardua sentenza.

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Di certo, adesso non c’è tempo per le domande. Si è a metà del guado: bisogna nuovamente ritrovarela concentrazione per assicurare a R. il viaggio di ritorno, il congiungimento con il nuovo corpo.

I lettini chirurgici, snodabili, sono sempre piegati a 90 gradi, con i due individui ben fissati in posizionequasi seduta. L’asta che tiene sospesa la testa di R. viene ruotata verso il tavolo operatorio che ospitail corpo decapitato di D.: il capo, in alto, oscilla...

Il senso storico di quella visione accelera il ritmo cardiaco di tutto il personale.

Come il modulo lunare Apollo sul paesaggio del nostro satellite, la testa di R. plana lentamente sulcollo di D... e subito riparte la convulsa catena della vita, il generoso lavoro di quell’umanità in camicebianco. Bisogna ricucire le arterie carotidi e le vene giugulari, in cui sono state inserite con prontezzadelle cannule, così da ripristinare il flusso di sangue (che dovrà essere all’inizio lento) nel cervello diR.: la soglia di tolleranza per le strutture cerebrali raffreddate ed esangui è di 45-60 minuti.

I chirurghi ortopedici hanno nel frattempo praticato un foro nella quinta vertebra cervicale di R. e unonella sesta di D.: i due elementi ossei vengono incastrati l’uno con l’altro grazie a un perno in metalloalloggiato nei due corpi vertebrali, per assicurare un’immediata stabilità. Viti e placche di titaniocompletano l’opera, fissando le vertebre accostate.

Le abili mani dei chirurghi cominciano a suturare i monconi di esofago e trachea nella testa con lerispettive parti sezionate nel corpo donato, e via via anche i muscoli riacquistano una continuitàanatomica. Ora i nervi vengono «bagnati» con il PEG e microsuturati tutto intorno. Il lavoro, in questafase, merita una cura eccezionale. C’è una missione da svolgere con straordinaria accortezza:bisogna procedere con la fatidica fusione spinale. È il momento clou dell’intervento. La parte tantovagheggiata dalla ricerca scientifica e che adesso giunge alla resa dei conti.

La lama a ghigliottina ultrasottile «rifila» i due monconi in modo da renderli della lunghezza giusta eche siano appaiati per combaciare perfettamente: non ci si può permettere di creare tensioni estiramenti meccanici sullo stelo midollare. Una volta accostati, in piena armonia anatomica, sul puntodi fusione viene spalmato il gel a base di PEG e chitosano, che «costringerà» le bianche fibre nervosea ricongiungersi, e avrà anche un’azione neuroprotettrice sulla popolazione di neuroni accolta nellasostanza grigia, interna, del midollo spinale. Ma il PEG si infonderà anche per via endovenosa, e dinuovo dopo qualche ora.

Qui un altro miracolo della tecnologia interviene a sostenere l’operato dei chirurghi.

L’idea iniziale era quella di tenere i monconi giustapposti per almeno trenta minuti, così da agevolare ilprocesso di fusione, per poi applicare una serie di microsuture tutt’attorno al punto di incontro,passando per la pia madre, la meninge adesa al midollo spinale. Ma si può anche disporre di unostrumento alternativo e più immediato: un microconnettore a pressione negativa. Collegato a unamicropompa, crea una condizione di «vuoto», capace di tenere addossate delicatamente le due faccemidollari (più o meno come accade con la conservazione sottovuoto, quando, una volta rimossa l’ariaall’interno, l’involucro di plastica «intrappola» e blocca con tenacia l’alimento).

Infine, il neurochirurgo ripristina l’integrità della dura madre.

Ma non è finita!

Ecco un’altra manovra di nevralgica importanza: in corrispondenza dell’area di fusione, al di sopradella meninge appena ricucita, si appoggia una piastra di stimolazione spinale, un elettrostimolatoreche aiuta a «riaccendere» l’attività delle cellule nervose e a favorirne la rigenerazione. La fantasialetteraria di Mary Shelley trova un incredibile coronamento: l’elettricità come mezzo per ridestare glistimoli nervosi lungo i cavi che animano gli arti.

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Il trapianto di testa. (PER GENTILE CONCESSIONE DI DAVIDE BONADONNA.)

Da ultimo, vengono riposizionati e fissati i processi spinosi vertebrali asportati in precedenza, così darestaurare la continuità del canale vertebrale che accoglie il cordone midollare.

Nel contempo, i chirurghi vascolari sono impegnati a suturare in microchirurgia le due arterievertebrali. Il flusso di oro rosso viene quindi ristabilito del tutto, nei settori del collo sia anteriori, siaposteriori. Come in un film proiettato a ritroso, i chirurghi plastici iniziano adesso a «saldare» i pianicutanei e sottocutanei, prestando grande attenzione al risultato estetico finale.

Viene apposto l’ultimo punto.

Un’ideale scritta THE END chiude quest’impresa chirurgica massacrante. Durata, più o meno, quantoprevisto: un giorno e mezzo.

Uno scroscio di applausi. Qualcuno non trattiene le lacrime, stremato dallo stress e dall’emozionenon più contenibile. Abbracci. E qualcuno non riesce a non replicare le parole fatidiche pronunciatemezzo secolo prima da Neil Armstrong: «Houston... Aquila è atterrata».

R. viene condotto nelle sale della rianimazione, dove trascorrerà le successive settimane in sedazione

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R. viene condotto nelle sale della rianimazione, dove trascorrerà le successive settimane in sedazione

farmacologica e agganciato a un respiratore.

I piani di lavoro del team dei neurofisiologi clinici, all’indomani dell’intervento, prevedono delleperiodiche elettrostimolazioni della corteccia motoria del cervello, per verificare se gli impulsi nervosivengono correttamente convogliati al midollo spinale e da qui lungo i nervi periferici fino alle massemuscolari. Quando gli stimoli finiranno per sollecitare un movimento degli arti, ebbene, sarà quello ilmomento di cominciare a svegliare con gradualità R.

Gli esami di neuroimaging, con la risonanza magnetica funzionale, effettuata a più riprese, servirannoa sondare la salute del cervello e l’assenza di danni vascolari.

Naturalmente, come per ogni soggetto reduce da un trapianto, per R. sarà l’inizio di un percorsoriabilitativo alquanto impegnativo, contrassegnato dalle cure farmacologiche immunosoppressive (percontrollare le reazioni del sistema immunitario e scongiurare il rigetto), dal necessario sostegnopsicologico e da un lungo periodo di fisioterapia intensiva, con protocolli studiati ad hoc.

Per R. c’è adesso un corpo nuovo con cui familiarizzare.

La stupefacente plasticità del nostro organismo contribuirà di sicuro ad agevolare questa straordinaria«fusione». Ma, come sempre, il tempo resta la migliore medicina.

Non fatevi intrappolare dai dogmi. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui offuschi la vostravoce interiore. Abb iate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione. In qualche modo lorosanno che cosa volete realmente diventare. Tutto il resto è secondario.

STEVE JOBS

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PARTE QUARTA

Le verità da scrivere Lasciamo che il futuro dica la verità, e giudichiamo ciascuno secondo le proprie opere e ob iettivi. Ilpresente è loro; il futuro, per il quale ho realmente lavorato, è mio.

NIKOLA TESLA

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Ma l’umanità è pronta? «RACCONTARE una siffatta storia richiede quasi più ardimento che l’udirla»: lo scriveva ThomasMann a proposito del suo racconto Le teste scambiate, pubblicato nel 1940. Si tratta della storia di dueamici: Shridaman, cervello nobile e vivace su un fisico fragile e non allenato, e Nanda, testa rozza macorpo prestante. Colto da fervore religioso, un giorno Shridaman si decapita in un tempio; Nanda,disperato, fa altrettanto con la spada. Ma Sita, sposa del primo, per volere della dea Kalì, riattaccheràle loro teste... scambiandole!

Già: trapiantare una testa. O meglio: ricevere un altro corpo. Perché, alla fin fine, è questo – ormai losapete bene – l’approdo finale del mio progetto.

E allora l’immaginazione vola. Perché, come hanno affermato i revisori di Surgical NeurologyInternational, la rivista scientifica che ha pubblicato il mio lavoro, HEAVEN/GEMINI «schiude un campocompletamente nuovo per la medicina contemporanea».

Non soltanto per la medicina, aggiungo io: il vero banco di prova di quest’operazione oltre i limiti saràla vita stessa. Mi sono, infatti, chiesto spesso: siamo pronti ad accettare tutte, ma davvero tutte leconseguenze di un simile atto chirurgico?

Quando vengo intervistato, io rimarco sempre che qui il macigno da digerire non è più la questionetecnica, la fattibilità materiale dell’intervento; i veri scogli da accettare e superare sono i risvolti etici,culturali, emotivi e comportamentali.

Il ricevente saprà convivere con quel 90% di sé totalmente estraneo? Un cuore donato pulsa invisibilesotto la pelle. E così il fegato o un rene. O un intestino. Sono organi che funzionano nascosti alla vista.Il corpo del donatore nella sua interezza, invece, agirà sotto i nostri occhi. Riusciremo ad accettare il«gemellaggio anatomico»?

Ma forse, a ben vedere, questo è tutto sommato l’aspetto più soft, il lato della faccenda menoproblematico, affrontabile oggi con una ben programmata assistenza psicologica nel post intervento,come già avviene all’indomani di un routinario trapianto d’organo.

Il punto veramente critico è un altro.

Nell’ultimo decennio il trapianto di parti corporee composite, costituite da tessuti differenti, come unamano o la faccia, è diventato realtà. E allora, se la tecnologia chirurgica rende oggi realizzabile anchel’innesto di un nuovo corpo, non si è praticamente materializzata la soluzione finale per estenderel’esistenza umana? Un’operazione di questo tipo, indipendentemente dalla presenza di una severacondizione fisica (una patologia neuromuscolare o una tetraplegia), potrebbe scintillare agli occhi diqualche potente della Terra come l’autentico elisir della giovinezza. Sostituire con un nuovo organismoquello ormai provato dalla ruggine del tempo. Uno «sfizio» che pochi sarebbero in grado dipermettersi, visto che una così complessa operazione comporterebbe un costo di oltre 15 milioni dieuro (ma, secondo alcuni, anche parecchi di più).

Volendo spingere a tavoletta il pedale della fantasia apocalittica, con la complicità di un mago delbisturi prezzolato, il potente in questione potrebbe cominciare a fare casting. A cercare il tipo giusto, lacategoria di fisico più consona, più avvenente. Oggi, drammaticamente, quasi non sconcerta piùleggere di persone disposte a commercializzare un rene o un pezzo di fegato per fronteggiare lapovertà. È un fenomeno dilagante, specchio di un’angoscia e di un abbandono che proliferano.Domani assisteremo al gesto terminale di qualche disperato che si immolerà per regalare un futuroeconomico alla sua famiglia? O, compravendita «ufficiale» a parte, la collezione dei corpi giustidiventerà l’attività criminale di qualche organizzazione complottista? Proprio come il romanziere RobinCook aveva descritto nel suo medical thriller Coma? Nel romanzo, una «Casta» diabolica, all’interno

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Cook aveva descritto nel suo medical thriller Coma? Nel romanzo, una «Casta» diabolica, all’interno

di una struttura sanitaria, alleva una legione di pazienti in stato comatoso per venderne gli organi almiglior offerente. Ricorderete l’impressionante immagine-simbolo dell’omonimo film ricavato dalromanzo, diretto nel 1978 da Michael Crichton: nella grande sala di un fantomatico istituto, uomini edonne in animazione sospesa fluttuano nell’aria mantenuti in vita da un computer. Un incredibileintrigo per fornire organi vitali a una cerchia di ricchi acquirenti.

Quando diffusi il comunicato stampa che annunciava, nel 2013, la pubblicazione del mio lavoro, mipremurai di scrivere:

Il dilemma etico, che necessiterà di un approfondito dibattito, riguarda la capacità di HEAVEN/GEMINIdi estendere la vita umana. Soggetti ormai avanti negli anni, ma dotati di grandi possibilitàeconomiche, potrebbero decidere di farsi trapiantare la testa da chirurghi senza scrupoli sul corpo digiovani sani reperiti sul mercato nero. La Società dovrà iniziare seriamente a pensare diregolamentare questa procedura, prima che un intervento progettato per aiutare tante personesofferenti diventi un incubo per molte altre.

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Il nuovo corpo saprà accettare la testa? COME nelle altre ordinarie pratiche di trapianto, per la riuscita della procedura è fondamentale che visia la più alta compatibilità possibile tra le parti anatomiche unite. La complicanza più temibile per R.sarebbe che il nuovo «ospite», l’organismo donato, rigetti la testa. Nel caso del trapianto di testa,infatti, il ricevente ingloba non un singolo tessuto o un organo, ma un corpo intero, e, di conseguenza,ne eredita persino il gruppo sanguigno e le difese biologiche, perché è nel corpo di D. che risiedono elavorano le fondamentali stazioni dell’apparato immunitario e i soldati cellulari delle linee difensive (ilinfociti).

A voler essere pignoli, non di rigetto si tratterebbe ma dell’evenienza opposta, che la medicina,sempre generosa di etichette, chiama Graft-versus-Host Disease, la «malattia del trapianto control’ospite», espressione di una complessa reazione immunologica delle cellule immunocompetenti deldonatore nei confronti dei tessuti e degli organi del ricevente.

A differenza dei «semplici» trapianti d’organo, una testa trapiantata è un ammasso di pelle, muscoli,tendini, osso, cartilagine, grasso, nervi e vasi sanguigni, cui dobbiamo aggiungere i tessuti cerebrali.Nome scientifico di tutto l’insieme: «allotrapianto tissutale composito». Ognuna di queste componentipossiede un diverso grado di antigenicità: mostra, cioè, una differente capacità di indurrenell’organismo la produzione di anticorpi. La cute è il distretto più frequentemente interessato daqueste reazioni immunitarie.

Ma il progetto HEAVEN/GEMINI, in fin dei conti, non costituisce un’anteprima imprevedibile: innesticompositi sono già stati effettuati nella chirurgia trapiantologica. Basti pensare alla mano e alla faccia.

Nel 1998, a Lione, un’équipe internazionale di chirurghi ha spostato i confini del possibile eseguendoun trapianto di mano per la prima volta al mondo (e nel 2000 l’impresa è stata replicata in Italia). Val lapena di rimarcare che Clint Hallam, il paziente che allora si sottopose con successo a questo storicointervento, dopo due anni smise volontariamente di assumere i farmaci immunosoppressivi e la sua«appendice» andò incontro a un rigetto irreversibile («Non riuscivo più a guardarla», ebbe a dire).

Da quella data, circa cento allotrapianti di arto superiore sono stati siglati in tutto il globo, compresi undoppio trapianto di braccia, in Germania nel 2008, uno di entrambe le gambe, in Spagna nel luglio del2011, e addirittura un innesto di tre arti contemporaneamente sullo stesso individuo (due braccia euna gamba, in un trentaquattrenne: è accaduto nel 2012 all’ospedale dell’università Akdeniz di Antalya,in Turchia). Si conta ormai anche una trentina di trapianti di faccia (il primo storico risale al 2005,eseguito ad Amiens, in Francia, su una donna di 36 anni con il viso maciullato dai morsi di un cane).

Episodi di rigetto acuto si sono presentati nella stragrande maggioranza dei casi nel corso del primoanno dopo il trapianto, e hanno richiesto un aggiustamento del regime farmacologico. Lasopravvivenza a lungo termine tocca oggi circa il 95%, e i fallimenti sono da ricondurre alla mancataaderenza (non-compliance, si dice nel gergo medico) del paziente alle prescrizioni del regimeantirigetto. Certo, parliamo di terapie che comportano diversi effetti collaterali, ma confortano anche iprogressi nella gestione del post trapianto: nuovi protocolli consentono di ridurre frequenza edosaggio degli immunosoppressori tradizionali, personalizzando la terapia immunodepressiva. Manon mancano le sperimentazioni farmacologiche, nella speranza di individuare nuovi trattamenti(come quelli a base di anticorpi mono e policlonali) che liberino il paziente dalla «dipendenza» dellepillole assunte vita natural durante.

Tra le strade più intriganti c’è sicuramente quella che persegue questa filosofia: anziché «bastonare»il sistema immunitario con i farmaci, è possibile convincerlo con qualche ingegnoso stratagemma adaccettare l’impianto estraneo come se fosse una presenza amica. Per spostare l’ago della bilancia a

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accettare l’impianto estraneo come se fosse una presenza amica. Per spostare l’ago della bilancia a

favore della tolleranza immunitaria serve il chimerismo, ovvero la coesistenza pacifica fra le celluledifensive del donatore e quelle del ricevente, in una forma di convivenza e cooperazione tra duesistemi immunologici differenti all’interno dello stesso organismo: una sorta di «doppio sistemaimmunitario». Ci si potrebbe prefiggere questo obiettivo, tra le strade più intriganti nel campo dellatrapiantologia generale, infondendo nel soggetto ricevente anche il midollo osseo del donatore, riccodi cellule staminali (lo stesso effetto nel trapianto di testa sarebbe ottenibile seguendo il percorsoinverso): non mancano i casi di trapiantati di rene ai quali è stata sospesa la terapia antirigetto a lungotermine. Comunque sia, un iniziale periodo di immunosoppressione resta benefico per la fusionespinale, perché si sa da tempo che il sistema immunitario può nuocere ai processi neurorigenerativi.

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Resteremo la persona di prima o cambieremo? ALTRI interrogativi e prospettive ci frullano nella mente.

C’è chi potrebbe vedere in quest’operazione il sistema radicale che spazza via in un colpo solo tutta lachirurgia del transessualismo! Ma l’altra domanda forte è: resteremo la persona che siamo, quella,cioè, che amici e parenti conoscono? I ricordi, le emozioni, gli affetti non sono dati nudi e crudiimmagazzinati nel cervello: una gran valanga di messaggi biochimici provenienti da miliardi di cellulecorporee influenza pesantemente il funzionamento cerebrale e quindi il nostro comportamento.

Nel libro Il mio cuore sconosciuto, l’attrice francese Charlotte Valandrey rievoca il trapianto cardiacosubito nel 2003. Dopo l’intervento e una lunga riabilitazione, la donna risorge, ma comincia a essereturbata da sensazioni «aliene», déjà-vu, inspiegabili cambiamenti nei gusti. Esiste una memoriacellulare? È possibile che gli organi di un donatore possano «trapiantare» nel corpo ospite antichememorie e pensieri lontani, quella che qualcuno chiamerebbe «anima»? La scienza nega, ma comescrive nella prefazione Gérard Helft, cardiologo dell’Hôpital Pitié-Salpêtrière di Parigi, «latestimonianza di Charlotte mostra come il trapianto non possa essere mai ridotto a una questionemeccanica». Certe recentissime e suggestive indagini fanno, in effetti, pensare: il professor MichaelLevin, che dirige il Center for Regenerative and Developmental Biology della Tufts University, studianell’organismo vivente il ruolo dei voltaggi endogeni, delle differenze di pH e dei flussi ionici,suggerendo come qualunque rete interconnessa elettricamente (qual è il complesso delle cellulemuscolari del cuore) possa immagazzinare «memorie».

Corpo e cervello sono indissolubilmente legati, e si suggestionano a vicenda. Per la cronaca, il corpoarmonico di Shridaman, nel racconto di Mann citato all’inizio, diventa flaccido per mancanza d’attivitàfisica. E anche la brillantezza del cervello, a sua volta, comincia ad appannarsi...

D’altro canto, in virtù di questa simbiosi anatomica, dobbiamo immaginare che l’organismotrapiantato finirà per alimentare i neuroni del ricevente con sangue e fattori biologici cambiati, rinnovati.Diciamolo: una specie di «bagno» nella fonte della giovinezza. Non è fantascienza, perché anche quitornano in gioco le meraviglie possibili della plasticità somatica.

Alcuni intriganti lavori scientifici mostrano infatti che il sangue giovane può spostare indietro le lancettedell’orologio biologico dei tessuti deteriorati dall’età. È stato possibile evidenziarlo con una tecnicadefinita «parabiosi eterocronica»: si tratta della connessione di due individui della stessa specierealizzata sperimentalmente per studiare l’effetto reciproco di ciascun soggetto sull’altro. Immaginatedue ratti, uniti «per la pelle», attraverso delle suture cutanee, che condividono il circolo sanguigno (unpo’ come accade nella cavità uterina quando ospita due organismi con una sola placenta, nel casodei gemelli monocoriali).

Negli anni Cinquanta il biochimico e nutrizionista Clive M. McCay, della Cornell University (Ithaca, NewYork), con questa tecnica permise al sangue di un roditore giovane di affluire nel corpo di unesemplare anziano. Le successive autopsie si rivelarono illuminanti: le cartilagini degli animali«attempati» esibivano un aspetto decisamente più giovanile.

Queste risultanze sperimentali sono tornate di grande attualità: ricorrendo nuovamente alla parabiosi,negli ultimissimi anni gli scienziati hanno notato che in seguito a tale procedura i muscoli del topoanziano tendono a ripararsi quasi alla stessa velocità di quelli del ratto giovane (con effetti positivisulla forza e sulla resistenza muscolari); che nel primo le cellule del fegato ricrescono a ritmiesuberanti (come avverrebbe in un «ragazzo», per capirci); che addirittura si registrano innegabili

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esuberanti (come avverrebbe in un «ragazzo», per capirci); che addirittura si registrano innegabili

effetti positivi sui neuroni (rinvigorendo le connessioni sinaptiche nell’ippocampo, la nevralgicaregione cerebrale che gestisce la memoria – il che migliorerebbe i deficit cognitivi legati all’età); che èstata riscontrata una ricrescita dei vasi sanguigni nelle strutture del cervello; e che pure la funzionalitàcardiaca migliora. All’opposto, i ratti giovani infusi con sangue «senile» invecchiano prematuramente ela vitalità delle cellule staminali si riduce.

Alla luce di simili risultati, un bersaglio del trattamento è stata la malattia di Alzheimer, trasferendo neimalati il plasma di un soggetto giovane nel tentativo di contrastare la demenza: in Giappone ci hannoprovato, e pare che il primo paziente ne abbia beneficiato in maniera sorprendente. Come si spieganoquesti effetti «miracolosi»? I ricercatori, impegnati a determinare gli ingredienti «magici» coinvolti neiprocessi osservati, si sono concentrati in particolare su una proteina, in gergo GDF11 (da Growthdifferentiation factor 11): è lei che ha la facoltà di stimolare le cellule staminali, fondamentali permantenere vitali i tessuti negli organismi, favorendo la formazione di nuova massa muscolare.

Si schiudono orizzonti a dir poco eccitanti: già si lavora per allestire i primi test clinici, anche se,ovviamente, sarà necessario parecchio tempo prima di avere a disposizione qualche trattamento.

Ma l’evidenza più convincente è fornita dall’osservazione che, nelle donne in gravidanza non piùgiovanissime, l’attesa del pargolo provocherebbe una più rapida rigenerazione dei tessuti e quindi unrallentamento dell’invecchiamento cellulare. A quanto pare il feto, nel pancione di una donna matura,espone l’organismo femminile a una cascata di fattori di ringiovanimento.

Gli studiosi stanno davvero toccando con mano la possibilità di invertire il processo di invecchiamentocellulare e, nemmeno a farlo apposta, attraverso la stessa materia – letteraria e mitologica – di cui sinutrono i vampiri per restare eternamente giovani: il sangue!

Immaginiamo a questo punto che cosa potrebbe accadere nel cervello del nostro R.: beneficerà, con ilcorpo donato, di un bagno sanguigno «in continuo» e rinnovato. Una full immersion in un nuovo maredi fattori crescita.

R. sarà l’indiscusso protagonista di un’inedita pagina della biologia e della scienza della longevitàcerebrale?

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Ci avvicineremo come mai prima d’ora al mistero ultimo della coscienza? SANT’AGOSTINO scrisse: «Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se vogliospiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più». La frase funziona perfettamente anche se l’oggetto inquestione è la coscienza.

La corteccia cerebrale è considerata la struttura più evoluta e complessa tra tutti i sistemi viventi.Risulta organizzata in diversi strati cellulari (sei nella neocorteccia), che hanno spessore edestensione differenti nelle varie aree cerebrali, variando altresì per densità e tipologia di cellule. Ogniregione della corteccia cerebrale comunica con altre zone del cervello per mezzo di un ginepraio diconnessioni, efferenti e afferenti, ossia che trasportano il messaggio neurale dal sistema nervosocentrale verso la periferia o che da qui vengono convogliate ai «piani alti».

Ma in che modo la coscienza, la percezione di ciò che siamo, emerga da questa popolazione di cellule(benché organizzate in un sofisticato e intricatissimo network) è ancora un mistero.

I pensieri e i desideri più intimi, il sapore soggettivo delle personali esperienze, le angosce e lepassioni, la materia primordiale che ci definisce come esseri umani... davvero sono il risultato finale diun «semplice» fenomeno bioelettrico, quale è la trasmissione degli impulsi nervosi?

La maggior parte degli scienziati coltiva una visione «materialista» e dice con fermezza: è allacomplessità della corteccia cerebrale che dobbiamo quella funzione superiore che chiamiamocoscienza, la percezione di noi stessi e del nostro «esserci» nel mondo. I neuroni, grazie agli assoni eai contatti che stringono con migliaia di altre cellule neurali (vicine o nell’emisfero cerebrale opposto)disegnano reti capaci di assumere un numero incredibile di configurazioni. Così, un trauma o unaccidente cerebrovascolare che metta fuori uso questi schemi neurali finisce per produrre un effettovisibile sulla personalità.

I materialisti, insomma, affermano che l’autoconsapevolezza umana è figlia della corteccia cerebrale.E che un danno all’architettura di questa rete dinamica produce risposte incoerenti e prive disignificato.

Ma siamo certi che le cose funzionino davvero così?

Chi scrive ritiene che le teorie materialiste non siano sufficienti a spiegare il «miracolo» dellacoscienza. E non è il solo. Se la coscienza è la diretta espressione dell’attività chimica ed elettricadella corteccia cerebrale, perché il filosofo Colin McGinn, docente presso la University of Miami, dice:«Più guardiamo il cervello, tanto meno sembra un dispositivo per la creazione della coscienza»? Afargli eco c’è Steven Weinberg, vincitore del Premio Nobel per la Fisica nel 1979, che nel suo libroDreams of a Final Theory riconosce che «c’è un problema con la coscienza, perché la sua esistenzanon sembra derivabile da leggi fisiche. Come possono i processi fisici nel cervello generarel’esperienza soggettiva, l’interiorità del pensiero e della percezione?»

«Non c’è niente che conosciamo in modo più diretto della coscienza, ma è straordinariamente difficileconciliarla con tutto il resto delle nostre conoscenze. Com’è possibile che sorga dai processi neuralidel cervello?» si chiede anche David J. Chalmers, del Dipartimento di Filosofia presso l’Universitàdell’Arizona nel suo libro The Puzzle of Conscious Experience.

Ritenere che la coscienza si riduca all’anatomia e alla fisiologia è una concezione meccanicistica dinoi stessi, generata dalla fisica dell’Ottocento. Diversi ricercatori hanno ipotizzato che possa essere la

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noi stessi, generata dalla fisica dell’Ottocento. Diversi ricercatori hanno ipotizzato che possa essere la

moderna meccanica quantistica a fornire una risposta: una delle più note teorie della «coscienzaquantistica» è stata avanzata dall’insigne matematico Roger Penrose, a braccetto col medicoanestesista statunitense Stuart Hameroff. In estrema sintesi: i neuroni contengono particolari strutture,i microtubuli, che oltre a costituire lo «scheletro» della cellula ospitano complicatissimi processiquantistici di calcolo e comunicazione intracellulare, cruciali per le funzioni cognitive superiori.Sarebbe proprio l’attività dei microtubuli, e in particolare dei fenomeni vibrazionali di tipo quantistico (equindi probabilistico) che hanno luogo nel loro interno, a far emergere la coscienza.

Decine di scienziati si sono scatenati in questi anni in un fiorire di teorie della coscienza che cavalcanoproprio questi fronti della fisica, dopo aver abbattuto il dogma che una materia «calda e umida» comeil cervello non possa essere sede di fenomeni quantistici.

Ma gli interrogativi fioccano.

Per esempio: Wilder Penfield è stato un grande neurochirurgo canadese, uno dei massimi esperti diepilessia, il cui principale obiettivo fu il pieno controllo delle crisi con l’asportazione della cosiddetta«zona epilettogena», la regione della corteccia cerebrale responsabile delle scariche elettricheanomale. Ebbene, Penfield stesso scrive: «Lesioni [chirurgiche] più gravi limitate alla corteccia nonannullano la coscienza e abbiamo scoperto che molte aree corticali possono essere asportate senzadanno». La sua conclusione: il cervello «filtra» solo la coscienza che ci avvolge e ci crea.

Un’osservazione ulteriore? Il caso, negli anni Ottanta, di uno studente all’Università britannica diSheffield. Studiava per laurearsi in Matematica e il suo quoziente intellettivo toccava quota 126 (ilpunteggio medio è 100). Piccolo dettaglio: il ragazzo aveva la testa leggermente più ampia delnormale. All’origine di questo aumento di volume del cranio vi era un idrocefalo, quella condizioneneurologica in cui si ha un abnorme accumulo di liquido cerebrospinale nelle cavità fisiologiche (iventricoli) scavate nello spessore dell’encefalo; gli spazi si ampliano per la quantità eccessiva difluido; si impenna la pressione all’interno del cranio e la corteccia si assottiglia per la compressionemeccanica. I ventricoli cerebrali, insomma, sono troppo pieni di «acqua» e si dilatano schiacciandoparte del tessuto cerebrale. Ma le immagini radiologiche svelarono che lo strato corticale dellostudente era diminuito paurosamente: i normali 4,5 centimetri di spessore si erano ridotti a 1! Tant’èche il neurologo John Lorber, che aveva studiato il caso, sentenziò: «La corteccia cerebrale fa moltemeno cose di quel che la gente immagina». Come può un individuo con uno strato corticale cosìseveramente compromesso interfacciarsi col mondo, continuando a socializzare con gli altri e persinoottenendo risultati ragguardevoli negli studi universitari? Steven Arthur Pinker, docente di psicologiaalla Harvard University, ha fornito nel 1998 una serie di dati che mostravano come bambini idrocefalisignificativamente ritardati avessero capacità linguistiche intatte, e addirittura più sviluppate delnormale.

Lascia interdetti anche il caso segnalato nel 2007 dal dottor Lionel Feuillet, dell’Université de laMéditerranée di Marsiglia, sulla rivista medica The Lancet: un quarantaquattrenne francese, impiegato,sposato e padre di due figli, ha ammutolito i medici rivelando alla TAC e alla risonanza magnetica unacondizione di idrocefalia senza precedenti. Una spaventosa massa liquida pressava la cortecciacerebrale, ridotta ormai a un’esile membranella spessa quanto un foglio di carta, spalmata sullascatola cranica. L’uomo possedeva ormai soltanto il 10% dell’abituale massa cerebrale. Eppureconduceva una vita senza deficit fisici o psichici, e anche il QI risultava poco al di sotto della media(75). Ebbene, nessuno è in grado di fornire una spiegazione attendibile per questi casi clamorosi.

I pensieri, le memorie, le emozioni, la straordinaria ricchezza e bellezza delle sensazioni legateall’essere quello che siamo... per la percezione di tutto ciò, attenendoci alle verità attuali, dovremmodisporre di una sostanziale «base» di corteccia cerebrale, di un congruo impianto elettrico di neuroni econnessioni sinaptiche, di fili e interruttori. Il dogma scientifico per eccellenza, in altre parole, è che lacoscienza sia qualcosa che sta nella nostra testa. Ma nei pazienti citati il cervello semplicemente...non c’è.

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E allora? L’esternalismo (così vengono identificate quelle posizioni, all’interno della filosofia dellamente, accomunate dall’idea che la coscienza non sia «figlia» del sistema nervoso centrale madipenda da qualcosa che risiede «all’esterno») trova linfa vitale in punti di vista «altri». Soprattutto inquello che cita i casi delle persone vittime di un arresto cardiaco e reduci da un’esperienza dipremorte...

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Vedremo milioni di farfalle? FU ritrovato ancora intatto. Portato a casa, stava per essere sepolto; ma 12 giorni dopola morte, tornò in vita e, risuscitato, narrò quello che aveva visto nell’aldilà. Raccontò chel’anima, uscita dal corpo, si mise in cammino con molte altre. Esse giunsero in unluogo meraviglioso [...] Ogni anima trascorreva sette giorni nella prateria; all’ottavo, tuttedovevano riprendere il cammino e giungere in un luogo da dove si poteva vedere unaluce che si diffondeva dall’alto attraverso tutto il cielo e la terra. Una luce diritta comeuna colonna, assai simile a un arcobaleno ma più lucente e pura.

No, a parlare non è il neurochirurgo americano Eben Alexander, diventato celebre negli Stati Uniti e nelresto del globo dopo aver pubblicato A Proof of Heaven (in Italia edito da Mondadori col titolo Milioni difarfalle), racconto di un’esperienza trascendentale che il medico avrebbe vissuto quando, a causa diuna meningite, rimase in stato di coma per sette giorni, nel 2008. Il brano in questione si trova invecenella Repubblica del filosofo greco Platone. Come dire: resoconti del genere punteggiano tutte leepoche. «NDE», le chiamano i ricercatori che se ne occupano, acronimo dell’inglese Near-deathexperiences. Esperienze di premorte.

Proprio i più moderni sviluppi delle tecniche di rianimazione, che hanno permesso di «riportare in vita»pazienti dichiarati clinicamente morti, hanno suscitato inquietanti interrogativi sui rapporti tra cervello ecoscienza.

Le testimonianze di questi redivivi, che riemergono dalle tenebre di un coma o di un arresto cardiaco,eccitano tremendamente la fantasia collettiva. Ecco, per esempio, un passo del racconto di EbenAlexander: «Mi ritrovai in un mondo completamente nuovo. Il mondo più bello e più strano che avessimai visto... Luminoso, vibrante, estatico, stupefacente. C’era qualcuno vicino a me: una bella fanciulladagli zigomi alti e dagli occhi intensi. Eravamo circondati da milioni di farfalle, ampi ventagli svolazzantiche si immergevano nel paesaggio verdeggiante per poi tornare a volteggiare intorno a noi. Non fuun’unica farfalla ad apparire, ma tutte insieme, come un fiume di vita e colori che si muovevanell’aria».

Potrebbero essere la prova, simili descrizioni, che esiste un aldilà palpitante oltre il buio della fine?Che «qualcosa» si stacca dal nostro corpo morente? O le testimonianze ci parlano, invece, di unacoscienza esterna, che vive indipendentemente dal funzionamento della corteccia cerebrale?Alexander (sul cui caso sono ovviamente piovute critiche e polemiche) abbraccia in toto proprioquest’ipotesi. Ha dichiarato: «Non è che il mio cervello funzionasse parzialmente – non funzionava pernulla». Per questo, sostiene, non sarebbe stato scientificamente possibile avere visioni, anche di tipoallucinatorio oppure onirico.

Ora, nel momento in cui la testa di R. verrà staccata e traslata sul corpo di D., il suo cervello risulteràvirtualmente senza vita. Sarà stato raffreddato a 10-15 °C e, per almeno qualche minuto prima dellariconnessione, nel suo sistema vascolare non circolerà una sola goccia di sangue. L’attività cerebralerisulterà pari a zero. R. sarà clinicamente morto. Ciò accade in maniera analoga negli arresti cardiaci,quando l’attività elettrica del cuore si interrompe e la pompa smette di ossigenare il cervello. Laletteratura medico-scientifica da tempo segnala che questi pazienti, giunti fino alla soglia della morte epoi rianimati con successo grazie alle manovre mediche, tendono a riferire un copione standard diesperienze.

Basterebbe scorrere i resoconti raccolti, già nel 1975, dal medico e psicologo statunitense RaymondMoody nel suo libro La vita oltre la vita. I soggetti riferiscono il senso di pace e di quiete; la percezionedi una luce, che, per quanto brillante, non acceca; la sensazione di percorrere un tunnel, una galleriabuia; l’esaltazione delle facoltà intellettive; l’abbandono del corpo (e l’osservazione dall’alto di tutto ciòche accade attorno ai personali «resti» terreni, con le pratiche rianimatorie dello staff medico); ilriepilogo della vita e la possibilità di assimilarla con un singolo sguardo mentale; l’incontro con un

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riepilogo della vita e la possibilità di assimilarla con un singolo sguardo mentale; l’incontro con un

«essere luminoso»...

Non si vorrebbe più tornare da quegli universi fantastici, inebrianti. E la vita per molti riprende in mododiverso dal solito: i redivivi affermano di essere meno legati alle cose materiali. «Dicono di esseretotalmente mutati», riporta Moody, «e di non avere più alcun dubbio sull’esistenza di Dio e di una vitadopo la morte».

La scienza materialistico-riduzionistica, che da oltre un secolo la fa da padrone specialmentenell’accademia, ci dice che si tratta di una grande allucinazione, dovuta a un variegato assortimento difenomeni psico-biologici tipici di un cervello morente. Allucinazioni che sono identiche nelle persone diogni ceto sociale e religione, ma che poi noi esseri umani finiamo per colorare, nei resocontisuccessivi, con le personali credenze, con il nostro folclore, con i più inconfessati desideri.

Sono in tanti a ritenere che la sofferenza cerebrale sia all’origine di queste esperienze: per OliverSacks, per esempio, le visioni di santa Ildegarda di Bingen avvenivano in concomitanza con lacosiddetta «aura», la fase che prelude gli attacchi di emicrania; e la «visione a tunnel», condizione percui il campo visivo si restringe dalla periferia verso il centro, è un fenomeno che caratterizza anche lasindrome vaso-vagale, la causa più comune di svenimento.

Ma in tanti, fra cui il sottoscritto, respingono queste spiegazioni. Sono assolutamente convinto che lecose non stiano così, che il cervello, una massa gelatinosa, un chilo e mezzo di pura materia, non siacapace affatto di produrre «coscienza» ma la possa soltanto «filtrare», «leggere», come se fosse undecoder. Perché il luogo della coscienza è... ovunque.

Lo stesso Sir Charles Scott Sherrington, storico neurofisiologo inglese, Premio Nobel per lefondamentali scoperte sulle funzioni dei neuroni – il «filosofo del sistema nervoso», come vennechiamato – dedicò i suoi ultimi anni allo studio del mind-body prob lem , e riconobbe che con glistrumenti della biologia e della fisiologia dell’epoca, non molto diversi da quelli attuali, era impossibilearrivare a comprendere come la mente sia connessa al corpo.

Anche il grande neurofisiologo australiano John Carew Eccles, uno dei più influenti e prolificiesponenti delle neuroscienze del Novecento, padre di straordinarie scoperte sulle cellule nervose (epure lui Premio Nobel nel 1963), collocò l’attività mentale al di fuori della sostanza cerebrale,giungendo a parlare – assieme al filosofo Karl Popper – di «Mondo 1» (gli universi materiali,inorganico e organico, che abbracciano tutte le entità biologiche, anche i cervelli umani) e «Mondo 2»(l’infinita gamma delle nostre esperienze percettive, con i ricordi, le fantasie, i pensieri e i progetti).Come direbbe Eccles, dobbiamo avere il coraggio di aprire nuove porte, di ammettere che anche glistraordinari strumenti scientifici di cui attualmente disponiamo non sono sempre sufficienti per capire.

Nel 2014 sono stati diffusi i risultati della più vasta indagine mai condotta sulle NDE: lo studio AWARE(vocabolo inglese che significa «consapevole», «conscio», ma qui è anche la contrazione delle paroleAWAreness during REsuscitation). Sponsorizzata dalla Università di Southampton e capitanata dalprofessor Sam Parnia, professore di Terapia intensiva alla State University di New York, la ricerca hacoinvolto quindici ospedali in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Austria e oltre 2.000 individui cheavevano subito un arresto cardiaco. Dopo quattro anni di osservazioni, è emerso che circa il 40% deisopravvissuti possedeva «ricordi» dei minuti in cui i soggetti risultavano clinicamente morti, col cuorefermo e senza apporto di sangue alle cellule cerebrali. Proprio così: mostravano una sorta diconsapevolezza, proprio quando il cervello era in debito critico di ossigeno, per la completainterruzione del battito cardiaco e del flusso sanguigno cerebrale.

Spicca la testimonianza di un cinquantasettenne di Southampton, dichiarato clinicamente morto: èstato in grado di descrivere con minuzia le azioni del personale infermieristico presente nella sala. Masoprattutto, ha percepito per due volte il «beep» di un macchinario emesso a intervalli di tre minuti.Nessuna possibile alternativa, verrebbe da dire, al fatto che l’autocoscienza del paziente fossepresente al di fuori del cervello. Secondo Parnia, questi resoconti potrebbero essere assai più

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presente al di fuori del cervello. Secondo Parnia, questi resoconti potrebbero essere assai più

numerosi, ma non tutte le persone riescono a rievocare tali esperienze, vuoi per la successivasofferenza cerebrale, vuoi per il carico dei farmaci sedativi somministrati.

Io credo che il progetto HEAVEN/GEMINI permetterà di gettare uno sguardo concreto su questiaffascinanti scenari. Forse potremo davvero scrivere qualche parola definitiva sull’annoso dibattito cheho qui tratteggiato. Già, perché, come stavo dicendo più sopra, ci saranno alcuni drammatici istanti incui la testa di R. risulterà esangue e «ibernata». Impossibile concepire una qualsivoglia attivitàelettrica cerebrale degna di questo nome, in simili condizioni. Per capirsi ancora meglio:l’elettroencefalogramma risulterà piatto. Ebbene, ogni eventuale racconto di R. al suo risveglio, coldettaglio magari di cose, persone e avvenimenti di quelle trentasei ore filate in sala operatoria, nonpotrà essere il mero risultato di un’allucinazione, perché qualsiasi percezione sensoriale immaginariaha bisogno di un cervello vivo e funzionante per generarsi.

Sarà la prova che la coscienza sopravvive? Che la morte, come l’ha definita una paziente rediviva, èuna «nasty bad lie», una bassa menzogna?

Vi lascio con le parole stupefacenti di un genio della fisica, l’italiano Federico Faggin, che inventando ilprimo microprocessore al mondo ha rivoluzionato l’universo della tecnologia. Tra i pionieri dellaSilicon Valley, fondatore e direttore della Synaptics, l’azienda che ha sviluppato i primi touchpad etouchscreen, Faggin è stato collocato dalla rivista Forbes accanto a Enrico Fermi dopo aver ricevuto ilNational Medal of Technology and Innovation dal presidente americano Barack Obama. La sua ultimaambizione? Trovare l’equazione capace di descrivere la consapevolezza dell’universo.

«La coscienza», dice, «è l’esito non semplicemente dell’attività del nostro cervello, come moltiritengono, ma di una consapevolezza primordiale che è una proprietà intrinseca della natura. La fisicaafferma che spazio, tempo e materia sono il frutto di un’unica energia: quella del Big Bang. Comequesta energia contiene in nuce lo spazio, il tempo e la materia, così possiamo pensare che contengaanche il ‘seme’ della consapevolezza». Una posizione assai vicina al panpsichismo, di antichissimadata, che vede attività psichica, per quanto primordiale, in ogni dove. A questo punto mi è facilepensare che la vita, portatrice di autocoscienza, che evolve e si trasforma in tante dimensioni, sia figliadi una coscienza universale. Edgar Allan Poe, il famoso scrittore e poeta maledetto, scrisse nel 1849:«Non è tutto ciò che vediamo, o ciò che ci sembra di vedere, soltanto un sogno dentro il sogno?» («adream within a dream», nell’originale). Nessuno ci è andato più vicino.

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HEAVEN o AVATAR? Non andare dove il sentiero può portare.

Vai, invece, dove non c’è il sentiero

e lascia una traccia.

RALPH WALDO EMERSON

IO la penso così: dinanzi a una ricerca scientifica realizzata nel rigore ma ancheconforme alle esigenze dell’etica, che devono ispirare ogni proposta medica tesa albene del paziente, non dico mai di no. E in generale ritengo che non si debba mai diredi no e tanto meno invocare divieti e censure. Che sono perfettamente inutili almeno perdue motivi.

Il primo è la famosa legge che sovrintende alle avventure umane, e cioè: «Se una cosasi può fare, si farà», in barba a tutte le proibizioni, legittime e non.

Il secondo motivo è che – almeno, a mio giudizio – elevare barriere raddoppia ilpericolo, perché spinge nella clandestinità studi all’avanguardia che è di gran lungameglio vagliare e discutere alla serena luce del sole.

Sono le parole forti e chiare del professor Umberto Veronesi, l’oncologo che ha rivoluzionato iltrattamento chirurgico dei tumori della mammella, all’indomani della comunicazione ai media del mioprogetto HEAVEN/GEMINI.

In effetti, ci sono ricerche, nel mondo della scienza, che stanno indiscutibilmente alimentando sogniaudaci.

Gli studi del neuroscienziato Miguel Nicolelis vanno ormai disegnando un domani in cui governeremomacchine e protesi in virtù delle onde cerebrali, e fonderemo le nostre menti per creare reti socialioggi impensabili. Le trame estreme dei romanzi e dei film cyberpunk rischiano di diventare obsolete,alla luce delle sperimentazioni condotte da questo genio brasiliano che ha dovuto sempre confrontarsicon la cultura ultraconservatrice dell’ambiente accademico.

Dice Nicolelis:

Dopo aver lavorato e riflettuto sull’impatto dei robot controllati con il pensiero, spessochiamati interfacce cervello-macchina [BMI, Brain-Machine Interfaces], immagino unfuturo di ottimismo e di fervente attesa, non un avvenire afflitto dal dolore e dallecalamità [...] Si annuncia un’era di social network neurali: nel futuro centrato sul cervello,potremmo comunicare con persone nella stanza accanto o milioni di altri utenti tramitequella che ho battezzato brain net, una rete di cervelli [...] Nei miei esperimenti unmacaco ha imparato a trasmettere a un’interfaccia cervello-macchina l’intenzione dispostare un cursore su uno schermo, un’attività che è diventata sempre più naturale efluida, come l’uso di un joystick. L’esperimento è stato ripetuto con successo nei malatidi Parkinson a uno stadio avanzato. In seguito, una scimmia del mio laboratorio, allaDuke University, ha imparato a trasmettere segnali cerebrali a migliaia di chilometri didistanza per controllare le gambe di un robot in Giappone [...] Realizzati i collegamentiinput-output con il mondo, siamo all’alba di un futuro bionico: le interfacce siintegreranno sempre più a sofisticati arti robotici ora in fase di sperimentazione e, comemattoncini Lego, braccia e gambe robotiche saranno collegate a un tronco biosintetico.Questo «abito» robotico, o esoscheletro, avvolto sul debole corpo dell’indossatore,manterrà una connessione diretta con la corteccia, il centro di comando supremo del

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manterrà una connessione diretta con la corteccia, il centro di comando supremo del

cervello [...] Mi aspetto che dopo poche settimane di interazione, il cervello saràcompletamente integrato nell’esoscheletro come reale estensione dell’immaginecorporea del paziente. A quel punto la persona sarà in grado, attraverso il cervello, diusare l’esoscheletro controllato dall’interfaccia per muoversi liberamente eautonomamente.

E il pensiero di Nicolelis spicca il volo nei cieli del futuro prossimo venturo, proprio per l’evidenza deisuoi inconfutabili risultati sperimentali:

Interagire con il computer sarà quasi un’esperienza di incarnazione, se la nostra attivitàcerebrale consentirà di afferrare oggetti virtuali, lanciare programmi, scriverepromemoria e, soprattutto, comunicare con altri membri della nostra rete [...] In futuro,ciò che potrebbe sembrare inimmaginabile diventerà realtà, perché gli esseri umaniintegrati alle macchine potrebbero trovarsi in ambienti remoti, attraverso avatar estrumenti controllati soltanto con il pensiero. Dalle profondità degli oceani ai confinidelle supernove sino ai piccoli spazi intracellulari del corpo, le capacità umane sarannoall’altezza delle sfrenate ambizioni di esplorare l’ignoto tipiche della nostra specie. Inquesto contesto, immagino che i nostri cervelli completeranno la liberazione dagliantiquati corpi che abbiamo abitato per milioni di anni e inizieranno, con l’ausilio delleinterfacce bidirezionali comandate attraverso il pensiero, a elaborare una miriade dinanostrumenti che saranno i nostri nuovi occhi, orecchie e mani nei tanti piccoli mondicreati dalla natura [...] Questo pensiero mi porta a provare un misto di esaltazione esoggezione, probabilmente simile alla profonda emozione che un navigatore, 500 annifa, può aver sperimentato quando, alla fine di un lungo e pericoloso viaggio, si trovòsulle chiare e sabbiose coste di un nuovo mondo.

Quando la scienza ci fornisce le chiavi della conoscenza, è il messaggio di Nicolelis, bisognaaccettare «la sfida di sognare in grande».

Certamente sogna in grande Dmitry Itskov, l’imprenditore russo che, sull’onda degli orizzontimozzafiato dipinti da Nicolelis, ha investito le sue ingenti risorse finanziarie per esplorare i confini dellacoscienza umana e l’integrazione finale tra biologia e tecnologia. Ha avviato il «Progetto Avatar».L’obiettivo: affrancare l’uomo dai limiti imposti dalla fisicità del corpo umano.

Le modalità operative spingono ancora avanti, in pratica, il traguardo che si è posto HEAVEN/GEMINI:infatti, si tratterà di rimuovere il cervello e tenerlo vivo e vegeto in un surrogato robotico. Un’immortalitàhi-tech, l’eternità digitale.

Termine ultimo per il raggiungimento di questa nuova esistenza umana: l’anno 2045.

Il percorso prevede quattro step: il primo passo (da qui al 2020) consisterà nel generare un simulacrorobotico pilotato da un’interfaccia neurale, una Brain-Computer Interface, mezzo di comunicazionediretto tra il cervello (o parti funzionali del sistema nervoso centrale) e il dispositivo esterno. L’individuopotrà controllare attraverso le onde cerebrali il suo alter ego tecnologico. In una fase successiva(2020-2025) si punterà a creare un autonomo sistema di supporto vitale per ospitare direttamente ilcervello umano, espiantato dal soggetto alla fine della sua esistenza; nel terzo stadio (2030-2035),l’integrazione bioelettronica sarà tale che si approderà alla creazione di un modello digitale di cervello:secondo i propugnatori di questo progetto, si potrà così ottenere una rivoluzionaria perpetuitàcibernetica, una mente trasformata in software, trasferibile all’interno di un androide (l’avatar), senzapiù barriere fisiche da abbattere, capace anche di assumere le fattezze di un ologramma (tra il 2040 eil 2045) in grado di attraversare la materia.

C’è davvero da rimanere senza fiato nell’apprendere che un consorzio di scienziati, supportato da unagrande disponibilità di denaro, si sia messo in testa di rendere immortale la razza umana, con unpiano ultrafantascientifico per smaterializzarla e digitalizzarla... Senza parole? Anch’io. Immaginatevi in

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piano ultrafantascientifico per smaterializzarla e digitalizzarla... Senza parole? Anch’io. Immaginatevi in

una nuvola digitale, un cloud, dove verranno ricreati e simulati nuovi «voi», nuove storie, nuoveesistenze.

Sarà l’inizio di un Rinascimento scientifico con la R maiuscola.

Lo Special Air Service inglese, le leggendarie forze speciali d’élite del Regno Unito, ha un motto: «Chiosa vince».

Così sia.

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Postfazione PERCHÉ mai un chirurgo gastrointestinale, quale sono io, dovrebbe poter dire qualcosa su untrapianto di testa? Non sono un neurologo, né un neurochirurgo. Certo, sono il responsabile editorialedi Surgery, rivista scientifica che si occupa di chirurgia, ma, per dirla tutta, non specificamenteincentrata sulla trapiantologia. Però è anche vero che nel mio laboratorio ci siamo interessati ditrapianti di intestino per ben ventotto anni, con una particolare attenzione – qui sta il punto – allo studiodel suo comportamento dopo che tutti i nervi vengono sezionati. La domanda era: l’intestino avrebbefunzionato in maniera soddisfacente da un punto di vista fisiologico (per quanto concerne la suacapacità di contrarsi e di assorbire i nutrienti)?

Diciamo che in questo caso il problema della reinnervazione, cioè del ripristino del controllo nervosodell’organo trapiantato, non era una questione prioritaria e poco mi preoccupava. Al contrario, il dottorSergio Canavero propone di trapiantare la testa aspettandosi una reinnervazione, sì, ma anche«acuta», cioè subitanea, in tempo reale; un concetto, questo, francamente estraneo al chirurgotrapiantologo, più focalizzato nel prevenire il rigetto e animato dal fondamentale intento di salvare unpaziente in immediato pericolo di vita.

In effetti, l’intervento che mi regalò più soddisfazione durante gli anni della mia specializzazione (nel1983, un’era geologica fa per la scienza, eppure stiamo parlando di appena tre decenni addietro), èstato il trapianto di rene: in pratica, dalla mattina alla sera innestavi un organo nuovo di zecca in uno diquesti pazienti, costretti a restare attaccati alla macchina dell’emodialisi e, voilà, il giorno dopo ilmalato rinasceva. Era un’altra persona. Dico: il giorno dopo! E molti di costoro solo allora si rendevanopienamente conto di quanto stessero male prima. Quindi potete ben comprendere gli strepitosiprogressi compiuti dalla trapiantologia: fegato, polmone, cuore, rene, pancreas, piccolo intestino,ossa, pelle, cornea, arti inferiori, mani e... persino la faccia! E allora: perché non un trapianto di testa(o, più correttamente, di corpo)?

Ve lo confesso: quando il dottor Canavero mi contattò con l’idea di pubblicare, sulla rivista da mecurata, un articolo che tracciasse lo stato dell’arte del «trapianto di testa», be’, ho pensato subito:«Questo qui è un pazzo! Il... ‘fuori di testa’ è lui!» Mi son detto: Canavero avrà letto troppe volte MaryShelley e si è intossicato a forza di vedere Star Trek ! Insomma, lì per lì rifiutai. Quando però il progettodi questo neurochirurgo di Torino venne diffuso da un’altra pubblicazione specializzata, mi premurai diinviargli una e-mail congratulandomi con lui. E fu così che iniziammo a frequentarci su Skype etelefonicamente.

Devo dire che grazie alle nostre chiacchierate in videochiamata ho avuto l’opportunità di apprezzare dalvivo questo collega, inizialmente reputato dal sottoscritto... «pronto per il manicomio»! Ho colto la suapersonalità, l’ovvio entusiasmo e la tenacia nel convincermi circa la fattibilità scientifica del trapianto ditesta. Ha cominciato così a inondarmi di articoli scritti da scienziati autorevoli, anche vecchi di decenni,che sono stati in larga parte trascurati (o, più benignamente, «mal interpretati») e poi soltanto direcente riscoperti e rivalutati (nell’ambito della chirurgia dei nervi periferici)! Articoli pubblicati sullepagine di prestigiose riviste medico-scientifiche, che documentavano chiaramente – con precisemisurazioni neurofisiologiche – il recupero immediato della trasmissione nervosa in corrispondenzadei monconi nervosi sezionati e «rifusi». Alcuni di questi contributi relativi alla «fusione degli assoni»dei nervi periferici si riferivano all’impiego di determinati polimeri (glicoli polietilenici), capaci dipreservare la membrana cellulare, minimizzando o inibendo quella che noi medici chiamiamo nelnostro gergo «degenerazione walleriana», ovvero quei fenomeni degenerativi che interessano la fibranervosa in seguito all’interruzione della sua continuità. Come i docenti insegnano in ogni università diMedicina e chirurgia, i nervi sezionati possono ricrescere o «gemmare» (è il fenomeno dellosprouting) e riacquisire un’attività elettrica, se si effettua una riconnessione molto, molto precisa deidue monconi. Questa ricrescita avviene alla velocità di circa un millimetro al giorno (due centimetri emezzo al mese), fino a un’estensione massima di trenta centimetri.

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Senza avere a disposizione quella mole di nuove acquisizioni neurofisiologiche cui accennavo, sicapisce l’obiezione di fondo sollevata sin dall’inizio al progetto di Canavero: come si può pensare ditrapiantare con successo una testa con il suo segmento di midollo spinale, e i nervi periferici annessi,quando non è possibile ricongiungere le singole fibre? E anche se i nervi fossero ricresciuti (ogemmati) in maniera efficiente, come avrebbero potuto reinnervare validamente il corrispettivo distrettocorporeo? Del resto, se la distanza massima di sviluppo della fibra nervosa copre una trentina dicentimetri, la maggior parte del corpo non sarebbe mai stata riattivata! Invece quei famosi polimeripossono consentire alle membrane dei nervi sezionati di «ricompattarsi», permettendo un rapidoritorno degli impulsi elettrici.

Wow! E allora se tutto ciò funziona con i nervi periferici, perché non dovrebbe accadere lo stesso nelmidollo spinale? Uno scienziato cinese ha trapiantato di recente la testa di un roditore sul corpo di unaltro e ha potuto registrare una trasmissione di segnali elettrici attraverso il punto di «fusione»spinale, con tanto di recupero dell’attività motoria!

L’impresa di Canavero potrebbe, allora, diventare realtà? Un trapianto di testa... le domandecertamente incalzano. Per esempio, sul fronte dell’immunologia viene da chiedersi: cervello e midollospinale sono aree anatomiche «privilegiate», ovvero immuni dal punto di vista del rigetto?

Bisogna infatti sapere che queste due formazioni sono naturalmente protette da una strutturachiamata «barriera emato-encefalica», in grado di impedire alle sostanze potenzialmente dannosepresenti nel sangue di ledere il sistema nervoso centrale. E ancora: come si riuscirà a tenere ilcervello «vivo e vegeto» durante il critico periodo operatorio in cui non ci sarà flusso di sangue,nonostante l’abbassamento della temperatura corporea? (Però, tutto sommato, è lo stesso problemache già quotidianamente si affronta in cardiochirurgia, in condizioni di ipotermia e in presenza di unarresto cardiaco.) E poi c’è il grande problema etico, con il primo (coraggioso) ricevente. E chi sarà ildonatore?

Sono tendenzialmente scettico, come è giusto che sia, ma le innovazioni vincenti nei confronti dellequali ho nutrito in passato lo stesso scetticismo mi hanno insegnato a schiudere la mente. Non acaso sto scrivendo questa postfazione!

La storia della chirurgia è zeppa di idee «folli» che poi si sono concretizzate: penso al trapianto dicuore di Christiaan Barnard, o a tutti gli interventi in laparoscopia nelle cavità toracica e addominale...

Tutti noi dobbiamo essere sognatori. In fin dei conti, dai sogni deriva l’innovazione. Certo, quando sitratta di scienza dobbiamo essere «sognatori realistici», ma cionondimeno sognatori. Il corpo èveramente un meraviglioso sistema di «organi trapiantabili», che non dovrebbe mai e poi mai esseredissipato, annientato dalla tragedia di un lutto, quando si perde una persona cara. Perché quel corpopossiede la capacità di riaccendere altre vite: come l’esistenza di chi è gravemente compromesso nelfisico, ma vanta una mente sveglia, lucida, viva. C’è una soluzione chirurgica per questi pazienti? Puòl’idea di Canavero essere la risposta?

Canavero in questo libro ha cercato di convincerci che, sì, una risposta c’è. E ci ha illustrato il suopiano d’azione. Soltanto il tempo e il potere dell’immaginazione potranno confermarcelo.

Nel frattempo, per quel che mi riguarda, voglio restare aperto al futuro.

Michael G. Sarr, MD

James C. Masson Professor of Surgery

Past President della

International Society of Surgery, 2007-2009

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Editor in chief, Surgery

Mayo Clinic, Rochester (Minnesota, USA)

Dipartimento di Gastroenterologia e Chirurgia generale

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Bibliografia ragionata e commentata Sulla base di una modesta congettura ho intrapreso un viaggio molto rischioso e già scorgo ipromontori di nuove terre.

Coloro che avranno il coraggio di proseguire nella ricerca ne calcheranno il suolo e proveranno ilpiacere di dare a esse un nome.

IMMANUEL KANT

Alcuni degli storici articoli di Robert White (1926-2010), il neurochirurgo statunitense che è stato perme fonte di ispirazione durante tutta la mia vita.

WHITE, R.J., WOLIN, L.R., MASSOPUST, L.C. JR et al., «Primate cephalic transplantation: neurogenicseparation, vascular association», in Transplant Proc, 1971 Mar; 3(1):602-4.

WHITE, R.J., WOLIN, L.R., MASSOPUST, L.C. JR et al., «Cephalic exchange transplantation in themonkey», in Surgery, 1971 Jul; 70(1):135-9.

WHITE, R.J., ALBIN, M.S., VERDURA, J. et al., «The isolation and transplantation of the brain. Anhistorical perspective emphasizing the surgical solutions to the design of these classical models», inNeurol Res, 1996 Jun; 18(3):194-203.

WHITE, R.J., «Head transplants», in Sci Am , 1999 Sept; 24-6.

Qui descrivo obiettivi, tecnica e implicazioni dell’anastomosi cefalo-somatica (il mio progettoHEAVEN/GEMINI di «trapianto di testa»).

CANAVERO, S., «HEAVEN: The head anastomosis venture Project outline for the first human headtransplantation with spinal linkage (GEMINI)», in Surg Neurol Int, 2013; 4 (Suppl 1):S335-42.

CANAVERO, S., «Editorial. The ‘Gemini’ spinal cord fusion protocol: Reloaded», in Surg Neurol Int,2015 Feb 3; 6:18.

CANAVERO, S., «Commentary. The rise of Heaven: from biology to ethics», in Surg Neurol Int, 2015 (instampa).

Il seguente paper è stato scritto quando ero specializzando: rappresenta il mio primo passo versoHEAVEN/GEMINI. Al tempo ero indirizzato verso un trapianto di cervello vero e proprio. In questo caso ilproblema sarebbe stato riconnettere i nervi cranici. Il nervo ottico si prestava bene a questo«esercizio» chirurgico, in quanto, se fossi riuscito a ottenerne la rigenerazione, avrei fra l’altro avuto lapossibilità di trapiantare un occhio e trattare chirurgicamente la cecità. L’articolo fu presentato a unconcorso indetto dalla Società Italiana di Neurochirurgia, ma non venne premiato.

CANAVERO, S., «Total eye transplantation for the blind: a challenge for the future», in Med Hypotheses,1992; 39:201-11.

Uno degli ostacoli fondamentali sulla strada del «trapianto di testa» era la possibilità che il soggettoricevente sviluppasse una drammatica sindrome dolorosa, che affligge diversi pazienti con dannospinale. Sarebbe come dire: il trapianto riesce ma il paziente impazzisce dal dolore. Studiando a fondola questione, ne compresi la genesi e individuai una terapia. Il libro qui citato, pubblicatodall’Università di Cambridge, rappresenta la summa di questa «avventura nell’avventura».

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CANAVERO, S., BONICALZI, V., Central Pain Syndrome, Cambridge University Press, Cambridge 2007.

Questi due libri descrivono la tecnologia di stimolazione cerebrale che verrebbe messa in atto nelcaso in cui dovessero insorgere danni al cervello (come un ictus) durante i minuti fra il distacco dellatesta e il suo collegamento al nuovo corpo. La testa è stata raffreddata attorno ai 10 °C e il lassotemporale che trascorre senza flusso sanguigno è limitato, ma naturalmente una manovra complessaqual è il «trapianto di testa» non può non contemplare un «piano B» per gli imprevisti (come, perl’appunto, una complicazione vascolare). In questi libri affronto anche il tema degli stati vegetativi espiego come in realtà oggi la tecnologia medicale possa fare molto per questi pazienti. Altri temitoccati: la malattia di Parkinson, il dolore cronico e i disturbi psichiatrici.

CANAVERO, S., Textbook of Therapeutic Cortical Stimulation, Nova Science, New York 2009.

CANAVERO, S., Textbook of Cortical Brain Stimulation, DeGruyter Open, Varsavia/Berlino 2014.

L’articolo successivo è la dimostrazione di come la realtà superi spesso la fantasia: una pazientesottoposta alla stimolazione cerebrale sviluppa la vivida sensazione di possedere un «terzo braccio».Segno clamoroso che il senso di sé, la percezione del proprio corpo, è un elemento modulabile,«plastico»!

CANAVERO, S., BONICALZI, V., CASTELLANO, G. et al., «Painful supernumerary phantom armfollowing motor cortex stimulation for central poststroke pain. Case report», in J Neurosurg, 1999;91:121-3.

I ricercatori cinesi effettuano il primo trapianto di testa simultaneo in due topi.

XIAO-PING REN, YANG SONG, YI-JIE YE et al., «Allogeneic Head and Body Reconstruction: MouseModel», in CNS Neuroscience & Therapeutics, 2014; 1-5.

I seguenti due lavori rappresentano la risposta a quanti considerano «impossibile» il ricollegamentodi un midollo spinale sezionato.

GOLDSMITH, H.S., FONSECA, A. JR, PORTER, J., «Spinal cord separation: MRI evidence of healingafter omentum-collagen reconstruction», in Neurol Res, 2005; 27:115-23.

TABAKOW, P., RAISMAN, G., FORTUNA, W. et al., «Functional regeneration of supraspinal connectionsin a patient with transected spinal cord following transplantation of bulbar olfactory ensheathing cellswith peripheral nerve bridging», in Cell Transplant, 2014; 23:1631-55.

In questi ultimi quindici anni diversi gruppi isolati di ricercatori sono riusciti a migliorare sensibilmenteil quadro clinico dei pazienti colpiti da danni spinali gravi con la messa a punto di tecnichesperimentali. Il grande dilemma è che queste testimonianze sono rimaste voci nel deserto: nessunaltro ha seguito le loro orme.

TADIE, M., LIU, S., ROBERT, R. et al., «Partial return of motor function in paralyzed legs after surgicalbypass of the lesion site by nerve autografts three years after spinal cord injury», in J Neurotrauma,2002; 19:909-16.

MOVIGLIA, G.A., VARELA, G., BRIZUELA, J.A. et al., «Case report on the clinical results of a combinedcellular therapy for chronic spinal cord injured patients», in Spinal Cord, 2009; 47:499-503.

Ecco la pietra angolare che mi ha consentito di costruire il progetto HEAVEN/GEMINI. Daspecializzando, ebbi modo di tradurre dall’inglese un paio di testi universitari di neurologia: nel 1991mi imbattei così nel report di questo caso che risale al 1902. Fu un colpo di fulmine! La transezionecalibrata del midollo spinale non mostrava la stessa prognosi degli sconquassi seminati da untrauma. Questo lavoro fu molto criticato anni dopo, ma quel che conta è che mi indirizzò sulla giusta

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trauma. Questo lavoro fu molto criticato anni dopo, ma quel che conta è che mi indirizzò sulla giusta

strada.

STEWART, F.T., HARTE, R.H., «A case of severed spinal cord in which myelorrhaphy was followed bypartial return of function», in Philadelphia Med J, 1902; 9:1016-20.

Subito dopo scoprii questo studio, che suggellò definitivamente l’idea che «midollo sezionato» nonequivaleva a «paralisi imperitura». E pensare che stiamo parlando di osservazioni risalenti a unacinquantina di anni fa.

FREEMAN, L.W., «Observation on the regeneration of spinal axons in mammals. Proceedings», in XCongreso Latinoamericano de Neurocirugía, Editorial Don Bosco, Buenos Aires 1963; 135-44.

Quasi cinque decenni dopo, gli esperti giungono alla medesima conclusione: la sezione voluta e«pulita» del midollo spinale è cosa ben diversa dal taglio «sporco» e problematico che produce untrauma.

SIEGENTHALER, M.M., TU, M.K., KEIRSTEAD, H.S., «The extent of myelin pathology differs followingcontusion and transection spinal cord injury», in J Neurotrauma, 2007 Oct; 24:1631-46.

SLEDGE, J., GRAHAM, W.A., WESTMORELAND, S. et al., «Spinal cord injury models in non humanprimates: are lesions created by sharp instruments relevant to human injuries?», in Med Hypotheses,2013; 81:747-8.

In questi testi si affronta un altro tema cruciale, e cioè che i famosi «spaghetti» – le lunghe fibrebianche che dalla corteccia cerebrale discendono nel midollo spinale – non sono così fondamentalinel determinare il movimento. Un dato «rivoluzionario», scoperto ben oltre mezzo secolo fa e poisepolto nelle sabbie del tempo!

PUTNAM, T.J., «Treatment of unilateral paralysis agitans by section of the lateral pyramidal tract», inArch Neurol Psych, 1940; 44: 950-76.

BUCY, P.C., KEPLINGER, J.E., «Section of the cerebral peduncles», in Trans Am Neurol Assoc, 1960;85:65-6.

BUCY, P.C., KEPLINGER, J.E., SIQUEIRA, E.B., «Destruction of the ‘pyramidal tract’ in man», in JNeurosurg, 1964; 21:285-98.

JANE, J.A., YASHON, D., BECKER, D.P., BEATTY, R., SUGAR, O., «The effect of destruction of thecorticospinal tract in the human cerebral peduncle upon motor function and involuntary movements.Report of 11 cases», in J Neurosurg, 1968; 29:581-5.

E già che ci siete...

NATHAN, P.W., SMITH, M., DEACON, P., «Vestibulospinal, reticulospinal and descending propriospinalnerve fibres in man», in Brain, 1996; 119:1809-33.

BASSO, D.M., «Neuroanatomical substrates of functional recovery after experimental spinal cord injury:Implications of basic science research for human spinal cord injury», in Phys Ther, 2000; 80:808-17.

CHOE, A.S., BELEGU, V., YOSHIDA, S. et al., «Extensive neurological recovery from a complete spinalcord injury: a case report and hypothesis on the role of cortical plasticity», in Front Hum Neurosci, 2013;7:290.

Lo storico articolo in cui un ricercatore francese dimostra come gli interneuroni della sostanza grigiamidollare non siano presenze accessorie, ma ricoprano un ruolo assolutamente cruciale.

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LARUELLE, L., «La structure de la moelle epinière en coupes longitudinales», in Rev Neurol, 1937;67:697-711.

Ed ecco le successive conferme (un’impressionante mole di dati) del fatto che gli interneuronipossono fare a meno dell’intervento degli «spaghetti»!

SASAKI, S., ISA, T., PETTERSSON, L.G. et al., «Dexterous finger movements in primate withoutmonosynaptic corticomoto-neuronal excitation», in J Neurophysiol., 2004; 92: 3142-7.

COURTINE, G., SONG, B., ROY, R.R. et al., «Recovery of supraspinal control of stepping via indirectpropriospinal relay connections after spinal cord injury», in Nat Med, 2008 Jan; 14(1):69-74.

ALSTERMARK, B., PETTERSSON, L.G., NISHIMURA, Y. et al., «Motor command for precision grip in themacaque monkey can be mediated by spinal interneurons», in J Neurophysiol, 2011; 106:122-6.

ALSTERMARK, B., ISA, T., «Circuits for skilled reaching and grasping», in Annu Rev Neurosci, 2012;35:559-78.

SCHLAEGER, R., PAPINUTTO, N., PANARA, V., «Spinal cord gray matter atrophy correlates withmultiple sclerosis disability», in Ann Neurol, 2014; 76:568-80.

BAKER, S.N., ZAAIMI, B., FISHER, K.M. et al., «Pathways mediating functional recovery», in Progr BrainRes, 2015; 218:389-412.

HAN, Q., CAO, C., DING, Y. et al., «Plasticity of motor network and function in the absence ofcorticospinal projection», in Exp Neurol, 2015 May; 267:194-208.

I due contributi sottostanti, articoli della letteratura medico-scientifica recente, sono davvero cruciali: gliinterneuroni della sostanza grigia riescono a bucare senza difficoltà lo sbarramento rappresentatodalla cicatrice spinale traumatica, a differenza di quanto avviene per gli «spaghetti» che dalla cortecciamotoria si allungano fino al midollo. Gli interneuroni inoltre mostrano, assai più di altre cellulenervose, una spiccata resistenza ai traumi.

CONTA, A.C., STELZNER, D.J., «Differential vulnerability of propriospinal tract neurons to spinal cordcontusion injury», in J Comp Neurol, 2004; 479:347-59.

FENRICH, K.K., ROSE, P.K., «Spinal interneuron axons spontaneously regenerate after spinal cordinjury in the adult feline», in J Neurosci, 2009; 29:12145-58.

Ecco un’idea di come potrà essere effettuato il taglio chirurgico del midollo spinale, utilizzando unananolama ad alta tecnologia ultramicrotomica, cioè dotata di un filo il cui spessore è misurabile innanometri (un nanometro equivale a un miliardesimo di metro).

SRETAVAN, D.W., CHANG, W., HAWKES, E., KELLER, C., KLIOT, M., «Microscale surgery on singleaxons», in Neurosurgery, 2005; 57:635-46.

CHANG, W.C., HAWKES, E.A., KLIOT, M., SRETAVAN, D.W., «In vivo use of a nanoknife for axonmicrosurgery», in Neurosurgery, 2007; 61:683-92.

CHANG, W.C., KLIOT, M., SRETAVAN, D.W., «Microtechnology and nanotechnology in nerve repair», inNeurol Res, 2008; 30:1053-62.

CHANG, W.C., HAWKES, E., KELLER, C.G., SRETAVAN, D.W., «Axon repair: surgical application at asubcellular scale», in Wiley Interdiscip Rev Nanomed and Nanobiotechnol, 2010; 2:151-61.

Del resto, a forgiare simili lame ci avevano già pensato qualche secolo fa, a Damasco...

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REIBOLD, M., PAUFLER, P., LEVIN, A.A. et al., «Carbon nanotubes in an ancient Damascus sabre», inNature, 2006; 444:286.

Una selezione dei tanti lavori scientifici accumulati nel tempo sui famosi polimeri «magici», i«fusogeni» o «sigillanti di membrana», le sostanze in grado di restaurare un prolungamento nervosoamputato una volta accostate le sue due estremità. Spicca il lavoro pionieristico del professor GeorgeBitter sul PEG del 1986.

BITTNER, G.D., BALLINGER, M.L., RAYMOND, M.A., «Reconnection of severed nerve axons withpolyethylene glycol», in Brain Res, 1986 Mar 5; 367(1-2):351-5.

KRAUSE, T.L., BITTNER, G.D., «Rapid morphological fusion of severed myelinated axons bypolyethylene glycol», in Proc Natl Acad Sci USA, 1990; 87:1471-5.

SEXTON, K.W., POLLINS, A.C., CARDWELL, N.L. et al., «Hydrophilic polymers enhance early functionaloutcomes after nerve autografting», in J Surg Res, 2012; 177:392-400.

AMOOZGAR, Z., RICKETT, T., PARK, J. et al., «Semi-interpenetrating network of polyethylene glycol andphotocrosslinkable chitosan as an in-situ forming nerve adhesive», in Acta Biomater, 2012; 8:1849-58.

BITTNER, G.D., KEATING, C.P., KANE, J.R. et al., «Rapid, effective, and long-lasting behavioral recoveryproduced by microsutures, methylene blue and polyethylene glycol after completely cutting rat sciaticnerves», in J Neurosci Res, 2012; 90:967-80.

CHEN, B., BOHNERT, D., BORGENS, R.B., CHO, Y., «Pushing the science forward: chitosannanoparticles and functional repair of CNS tissue after spinal cord injury», in J Biol Eng, 2013; 7:15.

KOUHZAEI, S., RAD, I., KHODAYARI, K., MOBASHERI, H., «The neuroprotective ability of polyethyleneglycol is affected by temperature in ex vivo spinal cord injury model», in J Membr Biol, 2013a;246:613-9.

KOUHZAEI, S., RAD, I., MOUSAVIDOUST, S., MOBASHERI, H., «Protective effect of low molecular weightpolyethylene glycol on the repair of experimentally damaged neural membranes in rat’s spinal cord»,in Neurol Res, 2013b; 35:415-23.

SHI, R., «Polyethylene glycol repairs membrane damage and enhances functional recovery: a tissueengineering approach to spinal cord injury», in Neurosci Bull, 2013; 29:460-6.

RAD, I., KHODAYARI, K., HADI ALIJANVAND, S., «Interaction of polyethylene glycol (PEG) with themembrane-binding domains following spinal cord injury (SCI): introduction of a mechanism for SCIrepair», in J Drug Target, 2014; 1-10.

I ricercatori tedeschi riescono a far camminare di nuovo dei ratti, dopo una sezione spinale, nel giro di8 mesi!

ESTRADA, V., BRAZDA, N., SCHMITZ, C. et al., «Long-lasting significant functional improvement inchronic severe spinal cord injury following scar resection and polyethylene glycol implantation», inNeurob iol Dis, 2014; 67C:165-79.

E qui lo scopritore degli effetti del PEG sulle fibre nervose sezionate (gli «spaghetti») si rendeeffettivamente conto che questa colla biologica, a braccetto con l’innesto di ponti di nervo periferico,potrebbe offrire la cura per la paraplegia...

RILEY, D.C., BITTNER, G.D., MIKESH, M. et al., «Polyethylene glycol-fused allografts produce rapidbehavioral recovery after ablation of sciatic nerve segments», in J Neurosci Res, 2015; 93:572-83.

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E luce sia! Il potere dell’elettricità nell’accelerare e favorire la rigenerazione nel sistema nervoso e lasua straordinaria capacità di «riattivare» gli interneuroni del midollo spinale.

BECKER, R.O., The body electric, Morrow/Harper Collins, New York 1985.

DIMITRIJEVIC, M.R., GERASIMENKO, Y., PINTER, M.M., «Evidence for a spinal central pattern generatorin humans», in Ann NY Acad Sci, 1998; 860:360-76.

GORDON, T., CHAN, K.M., SULAIMAN, O.A. et al., «Accelerating axon growth to overcome limitations infunctional recovery after peripheral nerve injury», in Neurosurgery, 2009; 65(4 Suppl):A132-44.

SUNSHINE, M.D., CHO, F.S., LOCKWOOD, D.R. et al., «Cervical intraspinal microstimulation evokesrobust forelimb movements before and after injury», in J Neural Eng, 2013; 10:036001.

ANGELI, C.A., EDGERTON, V.R., GERASIMENKO, Y.P., HARKEMA, S.J., «Altering spinal cord excitabilityenables voluntary movements after chronic complete paralysis in humans», in Brain, 2014;137:1394-409.

Infine, qualche lettura per comprendere come il dato della plasticità neurale possa aiutare a renderegestibile il post intervento nel progetto HEAVEN/GEMINI; per cogliere il contributo della realtà virtualeimmersiva nella rieducazione del paziente trapiantato; e per gettare uno sguardo sul panorama deitrapianti dei tessuti compositi eterologhi, come quello della faccia.

NICOLELIS, M., Il cervello universale: la nuova frontiera delle connessioni tra uomini e computer,Bollati Boringhieri, Torino 2013.

DUBERNARD, J.M., SIRIGU, A., SEULIN, C., MORELON, E., PETRUZZO, P., «Fifteen years later: mainlessons from composite tissue allografts», in Clin Transpl, 2013:113-9.

POMÉS, A., SLATER, M., «Drift and ownership toward a distant virtual body», in Front Hum Neurosci,2013; 7:908.

SIEMIONOW, M., GHARB, B.B., RAMPAZZO, A., «Successes and lessons learned after more than adecade of upper extremity and face transplantation», in Curr Opin Organ Transplant, 2013; 18:633-39.

ISA, T., NISHIMURA, Y., «Plasticity for recovery after partial spinal cord injury - Hierarchicalorganization», in Neurosci Res, 2014; 78:3-8.

KHALIFIAN, S., BRAZIO, P.S., MOHAN, R. et al., «Facial transplantation: the first 9 years», in Lancet,2014; 384(9960):2153-63.

WRIGHT, W.G., «Using virtual reality to augment perception, enhance sensorimotor adaptation, andchange our minds», in Front Syst Neurosci, 2014 Apr 8; 8:56.

HEAVEN/GEMINI e le sue implicazioni sono illustrati in due conferenze del circuito TEDx:

http://tedxtalks.ted.com/search/?search=sergio+canavero TEDx Verona

http://www.ustream.tv/recorded/52890140 TEDx Limassol

Esiste un video su YouTube che documenta le performance del PEG.

https://www.youtube.com/watch?v=gGuYUoijwOQ

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La scelta a

Perché è importante decidere come vorremmo morire

Silvio Garattini

Fa bene o fa male? a

Salute, ricerca e farmaci: tutto quello che b isogna sapere

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Curare è prendersi cura a

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Il metodo rapido per gestire il cervello emotivo e superare ansie, paure e conflitti nelle relazioni, nello studio e nel lavoro

Edoardo Rosati, Pierangelo Garzia, Vincenzo Soresi

Guarire con la nuova medicina integrata

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L’eredità di Eva a

Una lettura laica delle figure femminili nelle Sacre Scritture

Francesca Fedeli

Lotta e sorridi a

Una storia d’amore e scienza

Marco Voleri

Sintomi di felicità a

La mia passione per il canto contro la malattia

a Disponibili anche in ebook.

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I libri di Edoardo Rosati

BENESSERE IN PILLOLE

IL GRANDE LIBRO DELLA MEMORIA (con Gianni Golfera e Pierangelo Garzia)

GUARIRE CON LA NUOVA MEDICINA INTEGRATA (con Enzo Soresi e Pierangelo Garzia)

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http://www.sperling.it http://www.facebook.com/sperling.kupfer

Il cervello immortale

Realizzazione editoriale a cura di Oldoni Grafica Editoriale

© 2015 by Edoardo Rosati and Sergio Canavero

Published by arrangement with Agenzia Santachiara

© 2015 Sperling & Kupfer Editori S.p.A.

Ebook ISBN 9788820093679

COPERTINA || ART DIRECTOR: FRANCESCO MARANGON | GRAPHIC DESIGNER: CARLOMASCHERONI | FOTO © GETTY IMAGES

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