Il granello di senape 167 n.4/2015- Ottobre 2015

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167 n. 4 / 2015 i i l l g g r r a a n n e e l l l l o o d d i i s s e e n n a a p p e e "è il più piccolo di tutti i semi, ma, una volta cresciuto, è il più grande dei legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e fa nno i nidi fra i suoi rami” (Mt 13,32) REDAZIONE: COMUNITÀ DI MAMBRE Str. S. Martino, 144 12022 BUSCA (CN) tel. 0171 943407 e-mail: [email protected] - c.c.p. n. 17678129 intestato a IL GRANELLO DI SENAPE - Registrazione del Tribunale di Cuneo n. 433 del 30/1/1990 - Spedizione in abbonamento postale comma 20/C art. 2 Legge 662/’96 art. n. 819/DC/DCI/CN del 6/4/2001 Filiale di Cuneo Editore: Associazione La Cascina Direttore Responsabile: Gianluigi Martini Ciclostilato in proprio: Associazione La Cascina, via S. Maurizio 72, S. Rocco Castagnaretta (CN). I poveri parlano all’ONU Terra, casa, lavoro, il “minimo assoluto” che deve essere assicurato a tutti: questa è l’esigenza fondamentale che il papa è andato a piantare il 25 settembre scorso nel cuore dell’assemblea delle Nazioni Unite. Che il mondo, che le Nazioni si misurino su questo, che a ciò si rivolgano diritto, politica ed economia, ha invocato papa Francesco. Ma questa richiesta non è venuta prima di tutto da lui. Era stata già prima formulata dai poveri che avevano scelto terra casa e lavoro come parole d’ordine per l’incontro mondiale dei movimenti popolari che si era tenuto in Vaticano nell’ottobre 2014 nell’aula del Vecchio Sinodo. Papa Francesco li aveva invitati per mostrare alla Chiesa e ai popoli “un grande segno”, e cioè che “i poveri non solo subiscono l’ingiustizia, ma lottano contro di essa”, e per incoraggiarli a continuare questa lotta: “Avete i piedi nel fango e le mani nella carne. Odorate di quartiere, di popolo, di lotta! Vogliamo che si ascolti la vostra voce che in generale si ascolta poco. Forse perché disturba, forse perché il vostro grido infastidisce, forse perché si ha paura del cambia- mento che voi esigete”. E offrendo la sua voce come eco alla loro, France- sco aveva fatto sue quelle parole d’ordine, il che non voleva dire che “il papa è comunista”, perché “l’amore per i poveri è al centro del Vangelo” Terra casa e lavoro diventavano così parole del papa perché, diceva, “quello per cui lottate sono diritti sacri”. Il grido degli esclusi Ma, come accade per quelle dei poveri, neanche le parole del papa furono allora ascoltate: meglio ignorarle che dover discutere se il papa fosse comunista. E allora Francesco ci tornò in un secondo incontro con i movimenti popolari, questa volta a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia, il 9 luglio scorso, e disse loro: “La Bibbia ci ricorda che Dio ascolta il grido del suo popolo e anch’io desidero unire la mia voce alla vostra: le famose “tre t”: terra, casa, lavoro (in spagnolo: tierra, techo, trabajo) per tutti i nostri fratelli e sorelle. L’ho detto e lo ripeto: sono diritti sacri. Vale la pena, vale la pena di lottare per essi. Che il grido degli esclusi si oda in America Latina, e in tutta la terra”. E aggiunse che c’era poco tempo, perché “sembra che il tempo stia per finire” quando non solo ci combattiamo tra noi, ma siamo giunti ad accanirci contro la nostra casa. Nemmeno quella volta papa Francesco fu ascoltato. I poveri non sono ascoltati. “Che cosa posso fare io, si chiedeva allora il papa mettendosi al al loro posto, “raccoglitore di cartone, frugatrice tra le cose, raccattatore, riciclatrice?”. Chi mi ascolta? “Che cosa posso fare continuava il papa - io artigiano, venditore ambulante, trasportatore, lavoratore escluso se non ho nemmeno i diritti dei lavoratori? Cosa posso fare io, contadina, indigeno, pescatore che appena appena posso resistere all’asservimento delle grandi Notiziario di comunità e gruppi ottobre 2015

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REDAZIONE: COMUNITÀ DI MAMBRE – Str. S. Martino, 144 – 12022 BUSCA (CN) – tel. 0171 943407 – e-mail: [email protected] - c.c.p. n. 17678129 intestato a IL GRANELLO DI SENAPE - Registrazione del Tribunale di Cuneo n. 433 del 30/1/1990 - Spedizione in abbonamento postale comma 20/C art. 2 Legge 662/’96 art. n. 819/DC/DCI/CN del 6/4/2001 Filiale di Cuneo – Editore: Associazione La Cascina – Direttore Responsabile: Gianluigi Martini – Ciclostilato in proprio: Associazione La Cascina, via S. Maurizio 72, S. Rocco Castagnaretta (CN).

I poveri parlano all’ONU Terra, casa, lavoro, il “minimo assoluto” che deve essere assicurato a tutti: questa è l’esigenza fondamentale che il papa è andato a piantare il 25 settembre scorso nel cuore dell’assemblea delle Nazioni Unite. Che il mondo, che le Nazioni si misurino su questo, che a ciò si rivolgano diritto, politica ed economia, ha invocato papa Francesco. Ma questa richiesta non è venuta prima di tutto da lui. Era stata già prima formulata dai poveri che avevano scelto terra casa e lavoro come parole d’ordine per l’incontro mondiale dei movimenti popolari che si era tenuto in Vaticano nell’ottobre 2014 nell’aula del Vecchio Sinodo. Papa Francesco li aveva invitati per mostrare alla Chiesa e ai popoli “un grande segno”, e cioè che “i poveri non solo subiscono l’ingiustizia, ma lottano contro di essa”, e per incoraggiarli a continuare questa lotta: “Avete i piedi nel fango e le mani nella carne. Odorate di quartiere, di popolo, di lotta! Vogliamo che si ascolti la vostra voce che in generale si ascolta poco. Forse perché disturba, forse perché il vostro grido infastidisce, forse perché si ha paura del cambia-mento che voi esigete”. E offrendo la sua voce come eco alla loro, France-sco aveva fatto sue quelle parole d’ordine, il che non voleva dire che “il papa è comunista”, perché “l’amore per i poveri è al centro del Vangelo” Terra casa e lavoro diventavano così parole del papa perché, diceva, “quello per cui lottate sono diritti sacri”. Il grido degli esclusi Ma, come accade per quelle dei poveri, neanche le parole del papa furono allora ascoltate: meglio ignorarle che dover discutere se il papa fosse comunista. E allora Francesco ci tornò in un secondo incontro con i movimenti popolari, questa volta a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia, il 9 luglio scorso, e disse loro: “La Bibbia ci ricorda che Dio ascolta il grido del suo popolo e anch’io desidero unire la mia voce alla vostra: le famose “tre t”: terra, casa, lavoro (in spagnolo: tierra, techo, trabajo) per tutti i nostri fratelli e sorelle. L’ho detto e lo ripeto: sono diritti sacri. Vale la pena, vale la pena di lottare per essi. Che il grido degli esclusi si oda in America Latina, e in tutta la terra”. E aggiunse che c’era poco tempo, perché “sembra che il tempo stia per finire” quando non solo ci combattiamo tra noi, ma siamo giunti ad accanirci contro la nostra casa. Nemmeno quella volta papa Francesco fu ascoltato. I poveri non sono ascoltati. “Che cosa posso fare io, si chiedeva allora il papa mettendosi al al loro posto, “raccoglitore di cartone, frugatrice tra le cose, raccattatore, riciclatrice?”. Chi mi ascolta? “Che cosa posso fare – continuava il papa - io artigiano, venditore ambulante, trasportatore, lavoratore escluso se non ho nemmeno i diritti dei lavoratori? Cosa posso fare io, contadina, indigeno, pescatore che appena appena posso resistere all’asservimento delle grandi

Notiziario di comunità e gruppi – ottobre 2015

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INDICE DEL GRANELLO N. 167 I poveri parlano all’ONU, RANIERO LA VALLE pag. 1-3 Gocce di solidarietà, ADRIANA LONGONI 4 Europa dei valori e fenomeno migratorio, YVONNE FRACASSETTI E MICHELE BRONDINO

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Vogliamo quello che volete voi, CHIBUNDO ONUZO 8 Tempo di elezioni nell’UE, FRANCO CHITTOLINA 9 Facciamo esplodere la pace, GIGI GARELLI 10 Beati coloro che sanno resistere, a c. di A. IANNIELLO 11-13 La resistenza oggi si chiama nonviolenza, M. MAZZETTO 14 Chi semina vento raccoglie tempesta, A. COTTINO 15-16 Rut, ANGELO FRACCHIA 17-19 Gher (forestiero), ANGELO FRACCHIA 20 Dialogo cristiano-islamico, a c. di GIGI GARELLI 21-22 Lev Tolstoj (1), ALBERTO BOSI 23-25 Not with tanks but with banks, CLAUDIA FILIPPI 26-27 Solidarity4all ad Atene, CARLO MASOERO 28 Dormendo con gli erbicidi, CLAUDIO MONDINO 29-30 Uomo del dubbio e della poesia, MARIELLA CATTERO 31 Ode alla normalità, CECILIA DE MATTEIS 32 Il costruttore di mulini a vento, NADIA BENNI 33-34 Nawal, l’angelo dei profughi, BEATRICE DI TULLIO 35-36 Viaggio ai confini… Lampedusa, COSTANZA LERDA 37-38 Continuiamo ad essere umani, SABRINA MICALIZZI 39-41 Riflessioni su una morte violenta, GF. CONFORTI 42 Troppi migranti e profughi?, COOP. COLIBRÌ 43-44 Le pagine della Cascina, I CASCINOTTERI 45-48

imprese? Che cosa posso fare io dalla mia borgata, dalla mia baracca, dal mio quartiere, dalla mia fattoria quando sono quotidianamente discriminato ed emarginato? Che cosa può fare questo studente, questo giovane, questo militante, questo missionario che calca quartieri e luoghi con un cuore pieno di sogni, ma quasi nessuna soluzione ai suoi problemi?” E il papa stesso rispondeva: “Potete fare molto. Potete fare molto! Oserei dire che il futuro dell' umanità è in gran parte nelle vostre mani, nella vostra capacità di organizzare e promuovere alternative creative nella ricerca quotidiana delle “tre t”; d’accordo? - lavoro, casa, terra –”. D’accordo. Ma se è in gioco il futuro dell’umanità, bisogna porre il problema là dove il futuro dell’umanità si decide, bisogna che il grido soffocato nelle periferie echeggi sul tetto del mondo lì dove, almeno in prospettiva, risiede il potere della comunità organizzata delle Nazioni, bisogna andare ad alzare questo grido all’ONU. E alla fine il papa è arrivato a New York, portandosi dietro questo grido, come attraverso un lungo pellegrinaggio, come per un suo personale anno santo della misericordia, dalle periferie del mondo fino al centro dell’ordinamento internazionale, dal basso della vita reale all’alto della rappresentanza politica. E in questa salita il grido si è arricchito, si è rivestito di nuovi contenuti e nel discorso all’ONU si è volto a una più grande lotta per tutto ciò che è umano. La terra, ad esempio, come è stata evocata a New York, non vuol dire solo la zolla coltivata dal contadino. Nel diritto alla terra è significato il diritto non solo a quel mezzo di produzione, ma a tutti i mezzi di produzione, anche immateriali, come i saperi, che sono necessari al lavoro umano e che consentono agli “uomini e donne concreti” di sottrarsi alla povertà, di “essere degni attori del loro stesso destino”, ciò che “suppone ed esige il diritto all’istruzione – anche per le bambine (escluse in alcuni luoghi) –”. E non solo il diritto alla terra, anche i diritti alla casa e al lavoro si sono arricchiti nel discorso alle Nazioni di nuovi significati, perché questo “minimo assoluto” a tutti dovuto, oltre ai suoi tre nomi a livello materiale, ha anche “un nome a livello spirituale: libertà dello spirito, che comprende la libertà religiosa e gli altri diritti civili”.

Un’altra antropologia Ma la terra vuol dire immediatamente per il papa anche la “casa comune”, l’ambiente fisico della nostra esistenza, che dobbiamo preservare e migliorare sia contro “l’irresponsabile malgoverno dell’economia mondiale” e contro gli eccessi di una tecnologia fuori controllo, sia contro l’esclusione e

l’inequità, che porta i più poveri ad essere “scartati dalla società” e nel medesimo tempo li obbliga a “vivere di scarti”; essi sono i più vulnerabili nel “soffrire ingiustamente le conseguenze dell’abuso dell’ambiente”. E qui papa Francesco ha ripreso al Palazzo di Vetro tutta la linea della “Laudato si’”, per la quale la crisi ecologica è una crisi globalmente umana, essendo indisgiungibili l’uomo e l’ambiente, ambedue fatti di terra, per così dire “connaturali”, per cui “qualsiasi danno all’ambiente è un danno all’umanità”. Questa è la ragione per cui si può parlare di un nuovo diritto, finora inedito, che è in capo ad ogni donna e uomo di questo pianeta, che è, dice il papa, “il diritto all’esistenza della stessa natura umana”. E qui è venuta in evidenza una nuova concezione antropologica, capace di uno sguardo perfino più lungo rispetto alle visioni evolutive della scienza moderna. L’uomo, riconosciuto come “porzione dell’ambiente”, ha tuttavia “una singolarità che trascende l’ambito fisico e biologico” (come dice la “Laudato si’” al n. 81); ma c’è anche la singolarità di ogni altra creatura “perché ciascuna creatura, specialmente gli esseri viventi, ha un valore in se stessa, di esistenza, di vita, di bellezza e di interdipendenza con le altre creature”. L’enciclica “Laudato si’” dice addirittura al n. 80 che in natura vi sono delle “potenzialità che permettono che dal grembo stesso delle cose possa sempre germogliare

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qualcosa di nuovo” e citando San Tommaso dice che “le cose stesse si muovono verso un determinato fine. Come se il maestro costruttore di navi potesse concedere al legno di muoversi da sé per prendere la forma della nave”; tutto ciò, ha detto il papa all’ONU mettendo in campo la sua fede, “proviene da una decisione d’amore del Creatore”. Nessuna divisione a causa o in nome di Dio

Dalla terra al cielo: è stata questa la traiettoria religiosa del messaggio di Francesco all’ONU. E in questo messaggio è sembrato che giungesse alla sua pienezza il compito che Francesco ha assegnato al suo pontificato, di annunziare Dio agli uomini d’oggi in modo nuovo: di “reinvestigare” come voleva il Concilio, ed “enunziare” la fede in Dio nel modo che i nostri tempi richiedono. Il Dio che papa Francesco così ha finito per mostrare è un Dio interpretabile solo come misericordia, alternativo ad ogni violenza e dottrina di violenza, un Dio nel cui nome e in ragione del quale nessuno può sentirsi diviso dagli altri; un Dio, come aveva egli stesso detto al Congresso americano, che non ammette nessuna forma di fondamentalismo, né religioso, né ideologico, né economico, un Dio che non mette più nessuno contro nessuno, né creature, né culture né fedi. Con un Dio così, un Dio che non divide, papa Francesco ha potuto presentarsi a Washington e all’ONU non come chi pretendesse rappresentare una totalità, ma come parte di un tutto, non come rappresentante di una Chiesa che tutto abbraccia e comprende, ma di una Chiesa che è come la tessera di un poliedro che convive nella differenza con tutte le altre, non come unica arca di salvezza ma come la comunità cattolica che cammina insieme alle altre comunità: “il papa della Santa Sede”, come lo ha presentato, commosso, lo speaker del Congresso. Ciò gli ha permesso di riconoscere la totalità umana in quella sede laica dei popoli, e di riconoscere nella politica mondiale il luogo “imprescindibile” attraverso cui passa oggi l’alternativa se l’umanità possa sopravvivere. La posta infatti è altissima: già in questi settant’anni da quando è stata fondata l’ONU, ha detto il papa, “l’umanità avrebbe potuto non sopravvivere all’uso incondizionato delle sue stesse potenzialità”, e questo può ancora accadere. Sovranità del diritto e limitazione del potere

Sicché ogni parte deve concorrere al bene del tutto. E proprio parlando come parte, e a nome di una parte – i figli degli emigrati, i poveri, gli scartati, le vittime – il papa ha potuto ottenere un consenso straordinario durante tutto il suo viaggio, e ha potuto proporre con autorità ciò che è bene per tutti, dall’abolizione della pena di morte alla

rinunzia al commercio delle armi, dal no alla guerra al contrasto al narcotraffico, dall’agenda per il clima alla liberazione dei Paesi poveri dall’usura di sistemi creditizi e finanziari che invece di aiutarli nelle crisi li asfissiano. Parlando poi a nome dei cristiani e di altri gruppi culturali od etnici perseguitati dall’odio e dalla pazzia degli estremisti religiosi del Medio Oriente, del Nord Africa e di altri Paesi africani (l’allusione era al califfato islamico e a Boko Haram, però non chiamati per nome per non associare l’Islam a una immagine oggi ignominiosa) il papa “pur desiderando che non ci fosse la necessità di farlo”, ha indicato nella comunità internazionale organizzata l’unico soggetto legittimato, ma anche obbligato “in base alla più elementare comprensione della dignità umana”, a intervenire per “fermare e prevenire ulteriori sistematiche violenze contro le minoranze etniche e religiose e per proteggere le popolazioni innocenti”. Non devono invece ripetersi interventi unilaterali di questa o quella potenza delle cui conseguenze negative “non mancano gravi prove”. Parlando a nome dei discepoli di Gesù, il vescovo di Roma ha di nuovo riconosciuto l’ONU (come avviene a partire dall’enciclica “Pacem in Terris” di Giovanni XXIII) come la risposta giuridica e politica adeguata al grave momento storico che viviamo, e ne ha esaltato il compito che è quello di sviluppare e promuovere “la sovranità del diritto”, sapendo che la giustizia è indispensabile per realizzare la fraternità universale. Che sia un papa a celebrare la sovranità del diritto, “il dominio incontrastato del diritto”, significa davvero che un’epoca si è chiusa, che il conflitto tra la Chiesa e la modernità è finito. Ma non si tratta di una caduta dalla fede nella Provvidenza alla vanità del giuridicismo. Si tratta di riconoscere e portare avanti ciò che la sapienza umana, molto spesso anche per impulso dei cristiani, ha saputo elaborare e incardinare nelle Costituzioni moderne, da quelle statuali a quella delle Nazioni Unite, e cioè, come ha detto il papa, che “la limitazione del potere è un’idea implicita nel concetto di diritto. Dare a ciascuno il suo, secondo la definizione classica di giustizia, significa che nessun individuo o gruppo umano si può

considerare onnipotente, autorizzato a calpestare la dignità e i diritti delle altre persone singole o dei gruppi sociali. La distribuzione di fatto del potere (politico, economico, militare, tecnologico, ecc.) tra una pluralità di soggetti e la creazione di un sistema giuridico di regolamentazione delle rivendicazioni e degli interessi, realizza la limitazione del potere”. Ah, se lo sapessero i rottamatori che vantano “i numeri” per poter fare qualsiasi cosa, e ritengono la Costituzione non più utile di quanto non siano i gettoni telefonici per far funzionare i telefonini!

Raniero La Valle

29 set 2015 da www.ranierolavalle.blogspot.com

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Gocce di solidarietà

E’ stata un’estate molto calda e sofferta, non solo sul versante meteorologico ma soprattutto perché, mai come in questi ultimi mesi dalla fine della seconda guerra mondiale, l’Europa ha visto approdare sulle sue coste un numero così importante di rifugiati e di richiedenti asilo provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa. Una situazione che ha scosso sensibilità e coscienze, rafforzato paure e rifiuti, messo a nudo le difficoltà politiche degli Stati membri ad affrontare la situazione con lungimiranza, coraggio e solidarietà, sottolineato l’inadeguatezza degli strumenti politici esistenti, come l’accordo di Dublino. I media hanno trasmesso in continuazione scene spesso insostenibili, dolori e tragedie quasi in diretta sulle vie di fuga dei rifugiati, i quali, oltre ad attraversare pericolosamente il Mediterraneo, percorrono nuove rotte attraverso i Paesi dei Balcani, con la speranza di giungere in quella “terra dei diritti”, nonché “Premio Nobel per la pace”, che è l’Unione Europea. Le risposte politiche e istituzionali dell’Unione a tale drammatico esodo sono state per mesi ben lungi dal riflettere una politica comune e condivisa di accoglienza ispirata alla solidarietà; le discussioni in seno alle riunioni dei responsabili si concentravano incredibilmente sulle quote di qualche migliaio di profughi da spartire, senza mai alludere al futuro e alla necessità di disegnare con urgenza gli strumenti politici necessari a far fronte ad un fenomeno che non si fermerà a breve o medio termine. Non solo, ma le posizioni fra i vari Stati membri al riguardo hanno riportato alla luce un’antica divisione fra Est e Ovest dell’Europa, una specie di ferita non ancora rimar-ginata. Se i Paesi dell’Ovest, Germania in testa, hanno dimostrato aperture e variabili disponibilità all’acco-glienza, non è stato il caso dei Paesi dell’Est, che hanno dimostrato indiscutibile chiusura, fino a deci-dere la costruzione di muri e il dispiegamento di barriere di filo spinato fra gli stessi Paesi membri. E’ il caso dell’Ungheria che, dopo aver blindato la sua frontiera con la Serbia, sta costruendo un altro muro al confine con la Croazia. Una situazione che mette ulteriormente in evidenza il paradosso legislativo attua-le dell’Unione: l’Ungheria, paese di confine dell’area Schengen, giustifica la costruzione dei suoi muri con la difesa delle frontiere esterne europee, cosa riconosciuta, con imbarazzo, dalle stesse Istituzioni comunitarie, mentre la Germania, con la sua dichiarazione di accoglienza di un numero indefinito di persone, ha, in un certo qual modo, violato le leggi europee sospendendo unilateralmente l’Accordo di Dublino.

Se tutto ciò avviene a livello politico, nelle Cancellerie o nelle stanze di Bruxelles, a livello invece di cittadinanza, molte sono state le iniziative che hanno chiaramente voluto dimostrare la loro opposizione alla costruzione di una “fortezza Europa”, nonché il loro impegno ad una accoglienza dignitosa e rispettosa dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo. E’ importante infatti sottolineare e ricordare alcune iniziative, fra le tante e purtroppo spesso ingiustamente ignorate dai media, di semplici cittadini che in questa Europa ci vivono e vogliono continuare a credere nei suoi valori fondanti e nella pace. Come infatti valutare, al di là del gesto spontaneo, l’accoglienza dimostrata da cittadini tedeschi alla stazione di Monaco con i loro cartelli “Willkommen”? E che dire di quei cittadini austriaci che, sfidando le regole imposte, hanno organizzato in breve tempo una lunga carovana di macchine per trasportare i richiedenti asilo da Budapest a Vienna? Come non ricordare quei cittadini ungheresi che, malgrado il pesante clima politico del loro paese al riguardo, non hanno esitato ad organizzare sistemi di aiuto e conforto per alleviare le indescrivibili sofferenze dei profughi? Anche se discreti e certamente meno visibili e appariscenti delle manifestazioni di rifiuto e ostilità, molti sono stati gli atteggiamenti di accoglienza e di solidarietà che hanno attraversato tutta l’Europa. Ricordiamo ancora, ad esempio, la “Marcia delle don-ne e degli uomini scalzi” che, svoltasi in Italia l’11 settembre scorso da Venezia a Palermo, chiedeva innanzitutto di fermare una tale tragedia e di accogliere con dignità e umanità chi fugge, a rischio della propria vita, da guerre e da un impossibile futuro. Su uno dei cartelli della marcia si leggeva uno slogan molto significativo “Da Venezia a Kobane, da Budapest a Bruxelles”. Tutto ciò significa che una buona parte della

popolazione europea ha mandato messaggi chiari ai suoi responsabili politici, messaggi che si scontrano e contraddicono gli atteggiamenti di chiusura e di incapacità a decidere di una politica comune dell’asilo che rifletta con coerenza la sfida che questi flussi migratori rappresentano per il futuro dell’Europa. E forse, saranno proprio quei cittadini europei, se cresceranno in numero e convinzione, a rimettere al centro della politica quei valori irrinunciabili che hanno fatto dell’Europa una “terra dei diritti”, dell’accoglienza e del rispetto.

Adriana Longoni

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IL GRANELLO AI SUOI LETTORI Per qualsiasi problema di invio di questo nostro periodico, vi preghiamo gentilmente di rivolgervi ad uno dei due seguenti recapiti: Comunità di Mambre (tel. 0171 943407, strada S. Martino 144 - 12022 Busca; e-mail: [email protected]) oppure Associazione La Cascina (tel. 0171 492441, c/o Cartoleria, via Demonte 15, San Rocco Castagnaretta - Cuneo, e-mail: [email protected]).

Se il Granello vi interessa e vi fa piacere riceverlo, vi chiediamo di contribuire, se vi è possibile, alle spese per la carta, la stampa e la spedizione postale, con un contributo minimo di 10 euro, da versare sul c.c.p. n. 17678129, intestato a Il granello di senape, oppure da consegnare a mano alla Cascina o a qualcuno del gruppo redazionale (di Mambre, della Bottega Passaparola, ecc.). Ci sono graditi e utili suggerimenti, critiche, proposte (e magari anche apprezzamenti!).

“Il Granello di senape” è un notiziario di comunità e di gruppi. In partico-lare vi collaborano stabilmente: Comunità di Mambre, Ass. Ariaperta, La Cascina, Cooperativa Colibrì, Gruppo Oltre di Vernante, Libera, Orizzonti di pace, Tavolo delle Associazioni. A questo numero hanno contribuito anche: “i Casci-notteri”, Nadia Benni, Alberto Bosi, Michele Brondino, Claudio Califano, Anna Cattaneo, Mariella Cattero, Franco Chittolina, Gianfranco Conforti, Amedeo Cottino, Sergio Dalmasso, Cecilia Dematteis, Beatrice Di Tullio, Renzo Dutto, Gianni Fabris, Claudia Filippi, Yvonne Fracassetti, Angelo Fracchia, Gigi Garelli, Attilio Ianniello, Costanza Lerda, Adriana Longoni, Flavio Luciano, Eva Maio, Carlo Masoero, Maurizio Mazzetto, Sabrina Micalizzi, Claudio Mondino, Sergio Parola, Piera Peano, Grazia Quagliaroli.

Questo numero è stato chiuso in redazione il 6 ottobre 2015.

Europa dei valori e fenomeno migratorio Nel quadro epocale del processo migratorio odierno dal sud arabo-musulmano del Mediterraneo al nord europeo è comparsa - lo ha evidenziato Sergio Matta-rella, presidente della Repubblica, nel suo video messaggio al Forum Ambrosetti di Cernobbio - “l’Europa della paura, dei muri, dei veti: è l’Europa che alimenta nazionalismi e populismi”, mentre sarebbe necessaria “più Europa… con maggiore integrazione politica. Servono regole comuni sul diritto d’asilo per superare con regole nuove e condivise l’accordo di Dublino”. Invero dinanzi al magmatico flusso migratorio, via mediterranea o via balcanica, ogni stato membro dell’UE interpreta a suo modo il diritto d’asilo, sia per i profughi spinti da necessità economiche sia per quelli in fuga da guerre e persecuzioni politiche o etniche, cioè i rifugiati, come i Siriani che a centinaia di migliaia oggi fuggono dalla guerra civile in atto da quattro anni nel loro paese. Basta tener presente, tra i paesi dello spazio Schengen dell’UE a cui è imposto di prendersi in carico i profughi che vi arrivano, l’osti-nato rifiuto all’accoglienza da parte dell’Ungheria e dei paesi della ex cortina di ferro, dimentichi dell’ac-coglienza riservata ai loro abitanti dall’Europa nel lontano 1956 fino ad oggi. Come mai si è giunti a questa impasse dell’accoglienza dove l’UE rischia la sua implosione, invece di presentarsi ed agire come una comunità unita dai suoi valori etici e civili oltre che come potenza economica?

Dall’Europa dell’economia all’Europa dei valori A nostro avviso le problematiche si focalizzano sui valori della cittadinanza e della diversità culturale che attanagliano in particolare l’area euromediterranea, posta di fronte al macroscopico fenomeno migratorio provocato dalla globalizzazione dell’economia neoli-berale condizionata dalle strategie della geopolitica delle grandi potenze, in primis gli USA. Società in crisi in ogni campo e da una parte e dall’altra del Mediterraneo, che, sotto angolature diverse, sono coinvolte nel turbine dell’incontro-scontro delle diversità etniche, religiose e culturali con effetti dirompenti sulle tradizionali culture e civiltà, dove gli individui e le istituzioni devono rivedere ab imis profundis i concetti di cittadinanza e democrazia e la loro gestione nella realtà di ogni giorno quanto mai impegnativa. Tanto più oggi con l’escalation della guerra civile in Siria e l’autoproclamazione dello Stato Islamico (Daesh in arabo) da parte dei terroristi jihadisti, che si sta formando a cavallo tra Siria e Iraq malgrado i raid aerei della coalizione internazionale. Infatti oggi l’Unione Europea si trova in un’impasse, incapace di agire come lo fu, ad esempio, nel 2005 a proposito del trattato per la Costituzione Europea, su cui i paesi membri si divisero bloccandone la ratifica. E’ bene richiamare brevemente alla nostra memoria, dopo il disastro della II guerra mondiale, la motivazione che spinse coloro che lanciarono l’idea

dell’Europa unita, al fine di stimolarci nel nostro cammino per tradurre in realtà la nostra “patria europea”, momento indispensabile, propedeutico verso la cittadinanza universale: pegno per le generazioni future, come propone il sociologo E. Morin quando invita a realizzare un umanesimo solidale sulla “Terra-Patria” di tutti gli uomini (Pour une politique de civilisation, Paris, 2008, p. 5-7). In quest’ottica il preambolo del Trattato di Roma del 1957 rispondeva all’inten-to di “gettare le basi per un’unione sem-pre più stretta fra i popoli d’Europa … e creare, istituendo una comunità eco-nomica, le premesse di una più vasta e profonda comunione fra i popoli per lungo tempo divisi da sanguinosi conflitti e di gettare le basi di istituzioni che diano un indirizzo a un destino da oggi in poi condiviso”. Questo era lo scopo dei padri fondatori della Comunità Economica Europea che poi evolverà in Unione Europea nel 1992-93 (Trattato di Maastricht). Giova

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qui ricordare le parole di Robert Schuman, che insieme a Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer ne fu l’ispiratore: “Dopo due guerre mondiali noi siamo convinti che la migliore garanzia per la nazione non sta più in uno splendido isolamento né nella forza… ma nella solidarietà delle nazioni che sono guidate da uno stesso spirito e che accettano dei compiti comuni nell’interesse comune… siamo convinti che noi dipen-diamo gli uni dagli altri e che ci potremo salvare solo in una Europa moralmente unita e politicamente organizzata”. Ecco il grande salto di qualità che noi oggi dobbiamo compiere: passare da una comunità dominata dall’eco-nomia del libero mercato, qual è ancora oggi l’UE, ad una comunità inclusiva di valori: dalla democrazia alla solidarietà, dalla diversità alla fraternità umana. L’Europa dei popoli oltre l’Europa dei mercati.

Europa dei valori di fronte alla globalizzazione dell’economia neoliberale

Processo inclusivo questo, rivolto non solo all’Europa ma aperto verso il mondo intero, soprattutto oggi di fronte alle logiche economiche e finanziarie della globalizzazione che per lo più tendono ad escludere ed emarginare “tutti i sud del mondo”, ricorrendo alle di-versità etnico-religiose per provocare conflitti funzio-nali alle strategie della geopolitica internazionale. L’esodo in corso ci rivela che siamo di fronte ad una svolta cruciale a livello europeo: che tipo di sviluppo vogliamo? Un economista francese, Michel Aglietta, ha detto: “L’euro a été conçu comme monnaie des marchés, il est temps de construire l’euro des citoyens”. Siamo riusciti a creare un mercato comune con una moneta unica, la quale è stata uno scudo di protezione efficace contro i ricorrenti chocs finanziari dell’eco-nomia mondiale. L’Europa economica è una realtà che si è imposta a livello mondiale, ma la comunità econo-mica, per quanto essenziale, da sola non può portare ad una comunità di valori, soprattutto nei momenti critici in cui l’economia non tira come in questo periodo e ci si rende conto che bisogna spartire la torta con altri partners. Ecco la necessità dell’euro dei cittadini, cioè l’importanza della società civile che promuova una nuova cittadinanza europea ed un nuovo concetto di sviluppo globale. Tutti ci proclamiamo europei, ma abbiamo la sensazione che non tutti siamo figli della stessa madre: abbiamo praticato il motto dell’UE “uniti nella diversità” traducendolo in pratica nelle azioni della nostra vita quotidiana, nelle nostre scuole, nelle nostre istituzioni politiche e sociali? Abbiamo dato la nostra disponibilità ad una vera compartecipazione dei vantaggi economici, dei valori e dei diritti e doveri che l’UE implica? Oppure in piena globalizzazione ci stiamo trincerando dentro le nostre identità nazionali o peggio dentro la nozione di Nazione-Stato difendendo i nostri privilegi sociali, costruendo muri e blindando le frontiere? Dobbiamo quindi promuovere una coscienza di

cittadinanza europea, improntata ai valori dichiarati nel preambolo e nell’articolo due del Trattato: “L’UE si fonda sui valori della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani. Questi valori sono comuni agli stati membri in una società fondata sul pluralismo, sulla tolleranza, sulla giustizia, sulla solidarietà e sulla non discriminazione”. Oggi, però, l’UE è entrata in crisi di fronte alla globalizzazione e alle istanze umanitarie che proven-gono dalla regione euro-mediterranea: non serve a nulla erigere barriere, trincerarsi e far finta di niente. Bisogna far tesoro delle esperienze passate e innovare, trovare formule che siano all’altezza delle nuove aspettative degli altri mondi che bussano alle nostre porte, come accade ora di fronte ai biblici flussi migratori nella regione euro mediterranea. Insomma rivedere il nostro concetto di sviluppo: condividere i vantaggi economici ed eliminare l’illu-sione di una crescita continua ed infinita, rimetterci in questione e confrontarci col concetto di decrescita per liberarci dal consumismo sfrenato (vedi Serge Latouche, Breve trattato sulla crescita serena, Torino, 2008) e promuovere nelle nostre società, attraverso le istituzioni pubbliche e private, la nozione della cittadinanza europea, dove le identità vengono condi-vise e le diversità viste come ricchezza di risorse uma-ne e materiali. E proprio in questi drammatici frangenti storici, davanti alle folle di profughi che, imperterriti sulla via balcanica, aggirano muri, filo spinato, gas lacrimogeni, ogni ostacolo a costo della vita, per andare verso la libertà ed una vita migliore, si assiste al risveglio della coscienza europea malgrado le defezio-ni e le tergiversazioni di alcuni paesi membri dell’UE. La tragica foto di Aylan, il bimbo siriano di tre anni riverso sulla spiaggia turca della città di Bodrum, ha scosso l’indifferenza di molti: dalla Germania della cancelliera Angela Merkel a Papa Francesco con interventi rivoluzionari che aprono le porte dell’acco-glienza a dimensione dei valori della civiltà europea. Tramite i mass media, Aylan è diventato l’icona del dramma di migliaia di migranti (tra cui centinaia di bambini) annegati nel Mare Nostrum nel corso dell’anno, risvegliando le coscienze dei popoli e dei governi europei, malgrado il rifiuto dell’Altro da parte dei governi dell’Europa dell’est, determinati a negare il diritto d’accoglienza coll’erigere barriere d’ogni tipo, o le accoglienze calcolate e selettive dell’Inghil-terra, dettate da meri interessi economici. Certo non bisogna illudersi che la generosa cifra di 500.000 migranti da accogliere ogni anno da parte della Germania di A. Merkel sia ispirata solo a puri motivi umanitari, come lo è pure per altri stati membri dell’UE disposti all’accoglienza in rapporto alle loro possibilità, perché sono evidenti le motivazioni dettate da interessi socio-economici, in primis la cosiddetta bomba demografica, cioè il fenomeno del vistoso calo delle nascite e del crescente invecchiamento della popolazione europea, i cui dati sono stati ampiamente

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Le vignette di questo numero del Granello, tratte

dal web, sono tutte di Arístides Esteban

Hernández Guerrero (in arte Ares). Nato all’Avana (Cuba) nel 1963, laureato in medicina con

specializzazione in psichiatria, umorista, illustra-

tore e pittore autodidatta, ha ricevuto, per le

caricature apparse nelle principali pubblicazioni

cubane e in numerosi periodici di tutto il mondo,

oltre sessanta premi. Considerato uno dei migliori

caricaturisti del mondo, è giurato internazionale

di saloni di umorismo.

sbandierati dai mass media. Quindi l’arrivo di masse di giovani forze, sia nel campo demografico che nel mondo del lavoro, è per lo più ben visto dai governi e dalle società dell’UE, nonostante l’opposizione di partiti e gruppi sociali di estrema destra che, talora, sconfina in forme di aperto razzismo. L’Italia ne è direttamente coinvolta e non mancano i risultati positivi, ma da noi si agita in modo inquietante il problema della gestione di queste emergenze (dall’accoglienza all’integrazione dei migranti) viste le gravi derive socio-politiche sconfinanti in ogni campo, persino in quello mafioso (vedi il caso di “Mafia capitale” a Roma e in Sicilia).

L’UE e la geopolitica nel Mediterraneo

Oggi nell’area euromediterranea, specificatamente a sud del Mediterraneo, dal Marocco al Medio Oriente, imperversano guerre civili, terrorismo e traffici d’ogni genere: dalla droga al traffico delle armi e degli esseri umani. Fenomeni, questi, che incidono profondamente sull’evento migratorio delle popolazioni civili di quelle regioni in preda al marasma della violenza. Caso macroscopico è la Siria, dove la società civile è nell’occhio del ciclone di violenze, da cui sono già fuggiti oltre 4 milioni di persone in Turchia, Libano e Giordania, ed ora verso l’Europa. All’Europa non compete soltanto accogliere e gestire il flusso dei migranti, ma assumere le sue responsabilità nel quadro internazionale. Senza soffermarci sulle innegabili responsabilità storiche della colonizzazione europea in quest’aerea, le cui conseguenze sono tuttora operanti nonostante la decolonizzazione degli anni cinquanta e sessanta, si evidenziano nuove forme di colonialismo, dallo sfruttamento delle risorse energetiche agli interessi dell’economia neoliberale e della geopolitica delle potenze occidentali, tra cui emergono in primis gli Stati Uniti e i paesi dell’UE da una parte, contrastati dall’altra parte dalla Russia e dalla Cina del gruppo dei BRICS. Al di là delle contrastanti tensioni tra le singole politiche delle potenze regionali, quali la Turchia di Erdogan, memore della sua potenza ai tempi dell’impero Ottomano, l’Iran sciita a guida teocratica in contrapposizione ai regimi autocratici sunniti dell’Arabia Saudita e dei paesi del Golfo, si è venuta costituendo un’alleanza internazionale etero-

genea tra le potenze occidentali e quelle arabo-musulmane, in reazione alla terribile presenza dei terroristi jihadisti dello Stato Islamico auto-procla-matosi nel giugno del 2014 tra Iraq e Siria. Ma a fronte di questa coalizione che lega le potenze occidentali e quelle regionali come l’Arabia Saudita e l’Iran, emergono contraddizioni e contrasti che inficiano la sua efficacia e la sua credibilità, e condi-zioneranno la stabilità politica della regione: innan-zitutto l’incoerenza delle alleanze delle potenze occidentali, dettate da esigenze prettamente militari, economiche e geopolitiche, al di là dei proclamati valori democratici, come l’alleanza con l’Arabia Saudita dove il regime rigorista wahhabita nega, ad esempio, la libertà di culto alle altre religioni o non esita ad eseguire lapidazioni pubbliche; in secondo luogo la volubilità di queste alleanze e il sovrapporsi dei cambiamenti nelle scelte politiche delle potenze occidentali nei confronti degli stati arabi della regione mediterranea, i quali a loro volta hanno promosso e finanziato gruppi jihadisti contrapposti, come nella guerra civile in Siria o nello stesso Stato Islamico. Da quattro anni la guerra civile in Siria, iniziata contro la dittatura di Bashar al-Assad, continua in un alternarsi di fazioni contrapposte, istigate e foraggiate da stati esterni, per cui si parla di “guerre per procura” come afferma il politologo americano Zbigniew Brzezinsky, già consigliere della Casa Bianca. In questo drammatico quadro di violenze s’ingrossa sempre più la fuga biblica dei rifugiati: a quando la presa di responsabilità da parte delle potenze coinvolte in questo groviglio di lotte? Mentre i ricchi paesi del Golfo, ponendosi dichiaratamente al di fuori dei diritti dell’uomo, rifiutano rifugiati e migranti, l’Europa depositaria di questi diritti universali non dovrebbe perdere l’occasione di riaffermarli. E l’UE, diret-tamente interessata, assumerà le sue responsabilità per arrivare ad una soluzione di pace e giustizia per i popoli della regione euro mediterranea, al di là delle affermazioni verbali? Per questo è necessario un ritorno ai valori fondanti della cultura europea, è necessario che l’Europa osi imporsi come potenza civile e non soltanto come cinghia di trasmissione dell’economia mondiale e della relativa geopolitica, il che significa pensare ad un altro ordine mondiale basato sulla giustizia, sulla solidarietà e sulla pace più

che sul profitto. Michele Brondino e Yvonne F

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Vogliamo quello che volete voi Ho un cugino che ha attraversato il deserto del Sahara a piedi per raggiungere l’Europa. In un’altra epoca e con un’altra pelle avrebbe potuto essere un celebre esploratore: un Mungo Park, una Mary Kingsley o perfino un David Livingstone. Oggi è solo uno dei tanti migranti neri che hanno cercato di passare al di là della barriera. I gradassi cattivi, le insidie nelle dune di sabbia e i compagni di viaggio morti prima di avvistare lo stretto di Gibilterra: era una storia degna di Robert Louis Stevenson, un’epopea adatta a Omero, ma il funzionario dell’ufficio immigrazione italiano che lo ha espulso non era interessato a sentirla e lo ha rispedito in Nigeria. Quando l’ho incontrato, stava progettando di ripetere il viaggio. Era vestito bene, aveva un telefono cellulare e scarpe di pelle lucide. Mio cugino non era in fuga da una guerra o da una persecuzione, non era stato costretto a lasciare la sua casa né stava morendo di fame. Molti scappano verso l’Europa per questi motivi, ma non mio cugino. Lui voleva vivere in Europa semplicemente perché desiderava una vita migliore, così come i migranti dell’Inghilterra del nord si spostano a Londra in cerca di una vita migliore. Così come i migranti della Polonia si trasferiscono in Inghilterra. Qualche giorno fa sono state fatte molte speculazioni sul cadavere di un uomo caduto giù dal cielo sul tetto di una casa a Londra. Forse stava scappando da una guerra, forse no. Forse stava fuggendo da una persecuzione religiosa, forse no. Per secoli è stato un fatto normale della vita: se non ti piace il luogo dove vivi, se non ti piacciono i tuoi vicini, se ti sei annoiato della tua piccola città e sogni disperatamente un’avventura, se desideri l’oro di Eldorado, il tè della Cina, le spezie dell’India o gli esseri umani dell’Africa occidentale, se non hai mai voluto fare altro che scoprire le sorgenti del Nilo, prepari lo zaino e ti metti in cammino verso l’ignoto. Non esistono barriere tanto alte da poter impedire agli esseri umani di avere aspirazioni. Eppure sempre di più il movimento di chi parte da certe zone del mondo viene interrotto. Solo poche persone con passaporti di certi colori sono libere di muoversi su questa Terra. Solo gli eletti possono viaggiare e lavorare senza difficoltà in qualunque luogo del pianeta. Per tutti gli altri c’è il processo frustrante e umiliante del visto. I britannici possono andare in 173 paesi senza visto. I nigeriani in 44. Come cantava Mighty Shadow, il cantante di calypso di Trinidad: “Oggi se entri in un paese straniero ti chiamano alieno. / Devi spiegare all’ufficio immigrazione che intenzioni hai. / Colombo non dovette farlo. Non avrebbe avuto senso./

La sua autorità era un cappello a tesa larga e il suo passaporto era la violenza”. Se non stanno morendo di fame, se hanno un governo stabile, le radio e gli smartphone, perché cercano di venire qui? Era questa l’incredulità che traspariva da un articolo che ho letto di recente. Come se un inglese considerasse la sua vita un successo perché ha un cellulare e vive in un paese dove il governo è andato al potere pacificamente grazie a delle elezioni democratiche. Come se il massimo per uno statunitense fosse accendere una radio e sentirla suonare. È la realtà del capitalismo globale. Beviamo la stessa Coca-Cola. Usiamo la stessa internet. Guardiamo lo stesso YouTube. Vogliamo quello che volete voi. Perché fa tanta paura sentirselo dire? Tutti vogliamo un lavoro migliore, un clima migliore, alloggi più economici, licei migliori, un costo della vita più basso. È la condizione umana. Perché alcuni possono viaggiare in cerca di opportunità migliori e altri no? La Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America sostiene il diritto di ognuno “alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità”. Ma la realtà è che se sei di una certa zona del mondo puoi attraversare le frontiere per perseguire la felicità, mentre se sei di un’altra zona non puoi. Soprattutto l’Europa, con la sua storia recente di imperi brutali e predatori, dovrebbe sapere qualcosa dei desideri, dei viaggi per soddisfare i desideri, e della disperazione che spinge a tentare e ritentare. Hernan Cortés desiderava così ardentemente i tesori del Messico da fare a pezzi le navi per impedire ai suoi uomini di tornare indietro. I padri fondatori americani desideravano così ardentemente la libertà di culto da mettersi in viaggio verso un luogo talmente diverso che lo chiamarono “nuovo mondo”. Mio cugino desiderava così ardentemente un lavoro pagato in moneta straniera da attraversare un deserto a piedi. Non esistono barriere tanto alte da impedire agli esseri umani di avere aspirazioni. Non esistono oceani così vasti da poterci impedire di sognare. Aprite il mondo in modo che tutti possano muoversi liberamente. Oppure chiudete le frontiere e lasciate che ognuno se ne torni a casa e veda quanto diventa povero e triste il mondo quando siamo tutti costretti a restare nel luogo in cui nasciamo.

Chibundu Onuzo

scrittrice nigeriana nata a Lagos nel 1991; il suo ro-manzo d’esordio, The Spider King’s Daughter (Faber & Faber, 2012), ha ottenuto numerosi riconoscimenti.

(Pubblicato su The Guardian e poi tradotto su Internazionale n. 1109, luglio2015)

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Tempo di elezioni nell'UE È toccato ai greci aprire le danze delle consultazioni elettorali d'autunno. Domenica 20 settembre sono tornati ai seggi per la terza volta in appena otto mesi: prima per le elezioni politiche di gennaio, che avevano decretato una larga vittoria di Syriza, una vasta aggregazione di componenti della sinistra ellenica con a capo Alexis Tsipras; a giugno, per il referendum sul piano imposto dalla Troika e rifiutato dal 62% degli elettori greci e, domenica, per nuove elezioni politiche destinate a esprimersi sulla proposta della Troika, accettata da Tsipras nonostante l'esito referendario, grazie al sostegno ricevuto dalle forze di opposizione, ad esclusione delle estreme, di destra e di sinistra. Come appare chiaro, un quadro politico complesso e contrastato che ha fatto da sfondo alla nuova consultazione elettorale, vinta nettamente da Tsipras sugli avversari conservatori di Nuova Democrazia (rispettivamente 145 seggi contro 75), ma che non scongiura del tutto rischi di instabilità politica per una coalizione insolita che, mettendo insieme sinistra e i nazionalisti di destra di Anel (con i loro 10 seggi), permette a Syriza di raggiungere, con appena un solo seggio in più, la maggioranza in Parlamento e di guidare il nuovo governo. Un governo da subito alle prese con l’attivazione dell’accordo di agosto dal quale dipendono gli 86 miliardi di euro promessi alla Grecia e con la speranza di un alleggerimento dell’in-sostenibile debito greco, grazie a dilazioni delle scadenze di rimborso e a riduzioni degli interessi. Una richiesta avanzata dal Fondo monetario internazionale per partecipare all’operazione di salvataggio, il cui intervento è ritenuto indispensabile da parte della Germania. Si tratta di una situazione segnata da molte fragilità, prima fra tutte la reale prospettiva di crescita per un Paese sfiancato da una crisi che non consente facili illusioni sulla sua soluzione e, quindi, sulla reale possibilità di onorare gli impegni sottoscritti nel corso delle estenuanti trattative estive a Bruxelles. E, tuttavia, una situazione che per ora non sembra destare eccessive preoccupazioni, diversamente dalle esasperazioni dei mesi scorsi, adesso che altri più gravi problemi hanno fatto passare in seconda linea il problema del debito greco: dal dramma di profughi e migranti che continuano a cercare ospitalità nell'UE ai timori innescati dal rallentamento delle economie dei Paesi emergenti fino alle recenti mosse della Federal Reserve USA, che tradiscono una chiara preoccu-pazione sull'evoluzione della crisi economica mondiale, compresa quella americana fino ai venti di guerra che soffiano sulla vicina Siria. Ma già l'ombra lunga di altre imminenti elezioni si proietta sull'Unione Europea: dopo le elezioni regionali in Catalogna, vissute come un referendum

sulla futura indipendenza della Regione, a inizio ottobre le elezioni politiche in Polonia con la probabile vittoria delle destre, a fine settembre quelle in Porto-gallo, reduce da una severa cura di austerità e, a fine anno, le elezioni politiche in Spagna e quelle regionali in Francia. Il risultato del voto del 28 settembre nella ricca Catalogna, dove gli indipendentisti hanno ottenuto la maggioranza dei seggi ma non quella dei votanti accorsi in massa alle urne, annuncia giorni difficili per la Spagna alla vigilia di elezioni politiche dall’esito incerto e per l’Europa che, alla pressione sulle frontiere esterne, vede aggiungersi un rischio di sgretolamento di quelle interne. L’esito elettorale catalano va ben al di là della sua natura di normale consultazione regionale, destinato com’è a pesare sulla diffusa voglia di secessione della regione a fronte di fragili argini nazionali. Il voto catalano scuote non solo la Spagna, ma anche l’Unione Europea dove covano altri focolai “indipen-dentisti”, come in Gran Bretagna con la Scozia, ancora in Spagna con i Paesi Baschi e, seppure con intensità minore, in Francia con la Corsica, nella Slesia a cavallo tra Germania, Repubblica ceca e Polonia e in Italia con l’invenzione della Padania. Nell’UE le regole attuali sono chiare: in caso di secessione, in uno Stato membro, di una sua regione, quest’ultima è considerata fuori dall’Unione e per rientrare deve riprendere la strada lunga del processo di adesione e ottenere l’accordo unanime degli Stati membri, com-preso quello che hanno abbandonato. Strada chia-ramente impraticabile, senza una modifica dei Trattati. Qualche riflessione sul futuro dell’Europa e della Gran Bretagna sarà necessaria anche in occasione dell’annunciato referendum sulla permanenza o meno del Regno (dis)Unito nell’UE, che si realizzerà probabilmente già l’anno prossimo, alla vigilia di due altri voti “pesanti” per il futuro dell’UE, quelli delle elezioni presidenziali in Francia e quelli politici federali della Germania nel 2017. Intanto in Gran Bretagna un segnale di discontinuità politica è già arrivato dalla vittoria alle primarie del partito laburista di Jeremy Corbyn, con una visione d’Europa nettamente diversa da quella attuale. Si prospetta un calendario caldo per l’Unione Europea che, dopo aver provvisoriamente tamponato la crisi greca ed essersi dilaniata sull’emergenza profughi e migranti, sentirà suonare dai seggi elettorali nuovi campanelli d’allarme sulla sua fragile coesione politica e sociale. Potrà però anche essere uno stimolo ad accelerare sulla strada di un nuovo progetto di Unione, sulle ceneri di quello che si è andato logorando gravemente in questi ultimi tempi.

Franco Chittolina

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Facciamo esplodere la pace! Dalla marcia Cuneo-Boves un deciso “No!” alla violenza, al commercio delle

armi, all’economia che impoverisce i popoli e alla globalizzazione dell’indifferenza È cominciata a piedi nudi la Carovana della pace che il 20 settembre scorso ha condotto da Cuneo a Boves una folla di giovani, famiglie, sindaci e amministratori in nome di una “nuova resistenza nonviolenta” nell’anno del centenario della Prima guerra mondiale e del settantesimo della Liberazione, in una sorta di legame ideale con la “Marcia delle donne e degli uomini scalzi” svoltasi in tutta Italia nei primi giorni di settembre in solidarietà con l’esodo dei migranti accalcati alle porte dell’Europa dell’est. È stata un’edizione particolarmente ricca di sugge-stioni, che ha visto intrecciarsi temi accomunati dal ripudio della guerra e di ogni forma di violenza, un rifiuto che porta con sé il “no” a un’economia che esclude e uccide, ai conflitti armati e al commercio delle armi e alla globalizzazione dell’indifferenza: fronti diversi e apparentemente lontani, ma che i molti interventi succedutisi alla partenza della marcia sotto le finestre del Municipio di Cuneo e all’arrivo in Piazza Italia a Boves hanno mostrato nella loro profonda intercon-nessione. Chi ha il coraggio e la pazienza di affrontare i grandi temi della nostra contemporaneità andando oltre l’ultimo miglio raccontato dai giornali, scopre che negli ultimi decenni è andato via via irrobustendosi il filo rosso che da sempre collega globalizzazione, povertà, sfruttamento e guerre, fino ad arrivare ai viaggi della speranza che ogni giorno portano migliaia di persone ad affacciarsi alle frontiere del mondo ricco in cerca di accoglienza. È contro questa tragica catena di ingiustizie e di sofferenza che occorre resistere oggi costruendo insieme una opposizione ferma ma nonviolenta, e proprio a partire dalla parola Resistenza queste grandi tematiche sono state poste al centro della «Carovana della Pace», promossa dalla diocesi di Cuneo e Fossano e della Scuola di Pace nel ricordo dell’eccidio di Boves del 19 settembre 1943, primo atto di rappresaglia nazista contro la popolazione nel nord Italia, cui seguirono i 20 mesi di Resistenza partigiana. Per evidenziare la necessità di un impegno attivo e concreto a favore della pace ed evitare che la marcia si riducesse a puro momento celebrativo, nei giorni precedenti sono stati organizzati incontri di riflessione e di approfondimento per i ragazzi delle scuole medie, momenti di dibattito pubblico sulla difesa popolare

nonviolenta, fino al concerto con il cantautore Luca Bassanese, invitando a partecipare a tutte queste iniziative anche i rappresentanti di Schondorf am Ammersee, paese della Baviera dove è sepolto il comandante della divisione tedesca che ordinò la rappresaglia nazista, Joachim Peiper. Il sindaco di Schondorf Alexander Hermann e il collega bovesano Maurizio Paoletti hanno firmato al sacrario di piazza Italia un «Patto di Amicizia» che impegna i due Comuni a promuovere «un reciproco scambio di esperienze socio-culturali che favoriscano la diffusione di una cultura di rispetto tra i popoli». Potrebbe essere il preludio di un futuro gemellaggio, simile a quelli già sottoscritti con Mauguio Carnon, la città francese

sede dell’associazione «Servir la Paix» e con Castello di Godego, luogo dell’ultima rappresaglia nazista in Italia il 29 aprile del 1945. Nel contesto di queste iniziative sospese tra passato e presente, tra la memoria delle violenze subite e l’impegno per la costruzione di un futuro di pace, la marcia ha potuto concentrarsi sui grandi temi dell’oggi offrendo spunti di riflessione a scandire il cammino. Tanti gli interventi, dal Vescovo di Cuneo a Renzo Dutto, in apertura della

Carovana; da don Maurizio Mazzetto, protagonista delle lotte vicentine del comitato “No Dal Molin” a Matim Karim, donna membro del Consiglio nazionale della Resistenza iraniana; da don Benevelli, ideatore della prima Carovana della pace, a Judith, mediatrice culturale di Migrantes, che dopo essere stata accolta in Italia si dedica ora alle persone povere ed emarginate del Camerun, suo paese d’origine. Ad animare il corteo il coro delle ragazze nigeriane del gruppo gospel «Dynamite», accolte nella casa San Bartolomeo della comunità di Mamre a Borgomanero come profughe, dopo essere sfuggite alla cattura dell’organizzazione terroristica Boko Haram. Tante voci che si sono composte in un unico messaggio forte ed esplicito a favore dell’impegno per una nuova umanità, in cui le apparenti sconfitte delle lotte nonviolente non generino scoraggiamento ma una più consapevole determinazione, e la fatica del marciare non alimenti lo sconforto ma il desiderio di stringere legami di solidarietà con i compagni di cammino.

Gigi Garelli

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Beati coloro che sanno resistere «Sono affamato di giustizia non di rabbia perché la rabbia uccide e non perdona Distruggere non serve Dobbiamo costruire A lamentarsi si finisce per morire». Con questi versi della canzone “Processione” di Luca Bassanese, don Flavio Luciano presenta il convegno “Per una nuova resistenza nonviolenta” (Cuneo, Sala San Giovanni, pomeriggio di sabato 19 settembre 2015). L’incontro, spiega don Flavio, è un elemento di riflessione in vista della Carovana della Pace che l’indomani vedrà molte persone di ogni età e prove-nienza marciare da Cuneo fino a Boves con un’unica parola d’ordine: «Diciamo no ad un’economia che esclude e uccide, alla guerra e al commercio di armi, alla globalizzazione dell’indifferenza». Don Flavio quindi cede il microfono a Renzo Dutto, il quale, nel ruolo di moderatore, introduce i lavori portando ai presenti alcune riflessioni raccolte sul tema del convegno stesso. Anche Renzo Dutto inizia con una citazione. Questa volta è una frase di Edgar Morin: «La storia è la nascita, la crescita, la moltiplicazione e la lotta a morte degli stati fra loro: è la conquista, l’invasione, l’asservimento; ed è la resistenza, la rivolta, l’insurre-zione… è lo scatenarsi della potenza e della forza; è la dismisura del potere… E anche qua e là un messaggio di pietà e di compassione…» (da “Terra Patria”) Renzo Dutto riprende queste ultime parole, questi messaggi di pietà, di compassione, messaggi di speran-za e di pace che sembrano sempre essere schiacciati dalla grande storia. Eppure dopo la II Guerra Mondiale sembrava af-fermarsi un cambiamento radicale. Nella Costituzione italiana l’uguaglianza diventa un dato normativo; la guerra viene ripudiata. Nel mondo intero gli orrori della guerra avevano fatto nascere la speranza che fosse finalmente l’ultima follia umana e che tutti i popoli potessero vivere in pace, con un benessere universalizzato. Il sistema capitalistico, denuncia Renzo Dutto, se è vero che produce enormi ricchezze, è anche vero che non vuole distribuirle e crea un continuo aumento della forbice tra i pochi ricchi, sempre più ricchi, e i molti poveri, sempre più poveri «A partire dagli anni ottanta il sistema capitalista si accorge che non può estendere i suoi benefici a tutti. I suoi meccanismi sono fatti per incrementare il denaro non per soddisfare i bisogni. La società si divide ancora, il bene degli uni passa attraverso il sacrificio degli altri per cui ci sono i privilegiati e ci sono gli esclusi, ci sono i necessari e ci sono i superflui, gli esuberi… » spiega Renzo Dutto.

«Per portare avanti questa politica di dominio è necessario far apparire buono e democratico il nuovo dio mercato. E questo è stato possibile grazie ad un sistema mediatico con il compito di creare una immensa fabbrica dei sogni e far credere che il mondo in cui viviamo non venga avvertito come uno dei mondi possibili, ma come l’unico mondo al di fuori del quale non c’è salvezza. E se il potere mediatico non basta c’è la guerra, ci sono le armi, sempre più potenti, per difendere questo sistema. E la guerra è sempre di più la continuazione della politica. E la potenzialità di autoannientamento del pianeta cresce ogni giorno». Ecco allora l’urgenza di una nuova resistenza, una resistenza nonviolenta che deve entrare nel quotidiano di ogni uomo di buona volontà. Gli strumenti pacifici di questa nuova resistenza non si possono improv-visare. Occorre studiare, sperimentare, creare, anche guardando alle testimonianze storiche di tale resistenza nonviolenta e alle esperienze attuali. Per queste ragioni lotte nonviolente passate e recenti si intrecciano tra loro nel Convegno, in uno scenario di umanizzazione della storia sociale e politica non solamente italiana. Francesco Comina, giornalista e collaboratore del Centro per la Pace del Comune di Bolzano, è il primo relatore. Le sue parole portano subito le persone presenti nella storia delle vallate trentine di lingua tedesca. Siamo nella seconda metà degli anni Trenta e la vita personale di Josef Mayr-Nusser si intreccia con le vicende di quella storia che molti scrivono con la s maiuscola. Il sudtirolese Josef è un padre di famiglia e presidente della sezione giovanile dell’Azione cattolica di Bolzano. Da cristiano cosciente della propria fede prende posizione contro le dittature fascista e nazista trovando le assurdità della loro propaganda sulla razza, sul culto della personalità, profondamente contrarie agli insegnamenti del Vangelo.

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Inizia quindi, attraverso articoli e conferenze, una sorta di controinformazione che raggiungerà il maggior impegno quando ai Sudtirolesi viene posta l’opzione se rimanere in Italia o trasferirsi in Germania. Il 23 giugno 1939 infatti la delegazione italiana e quella tedesca decidevano che i cittadini germanici ed ex austriaci abitanti in Sudtirolo sarebbero stati fatti rientrare con la forza nel Reich, mentre i Sudtirolesi di lingua tedesca delle province di Bolzano, Trento, Belluno e Udine, avrebbero potuto scegliere se trasfe-rirsi nella Germania nazista e ottenere la cittadinanza tedesca, oppure rimanere nelle proprie terre. Francesco Comina racconta allora del travaglio morale e sociale di Josef Mayr-Nusser, il quale comprende il dramma dei suoi conterranei e cerca in tutti i modi di convincerli a non optare, a rifiutare una opzione che porterà solamente divisione, violenza, rancori e le inevitabili sofferenze di chi deve abbandonare la propria terra per un avvenire incerto. La propaganda nazista riesce comunque a convincere molti, tanto che alla fine sono circa 75mila i Sudtirolesi che varche-ranno il Brennero per andare in Germania. Ma un’ulteriore sofferenza attende i Sudtirolesi che rimangono nelle loro terre. Dopo l’8 settembre 1943 le truppe tedesche occuperanno immediatamente il Sudtirolo e nel corso del 1944 invieranno a tutti i Sudtirolesi di lingua tedesca la cartolina precetto per l’arruolamento del corpo delle SS. Anche Josef Mayr-Nusser viene chiamato alle armi. Josef parte il 7 settembre 1944 per la caserma di Konitz (oggi Chojnice, cittadina polacca), nella Prussia occidentale. Il 4 ottobre 1944 è il giorno del giuramento: «Giuro a te, Adolf Hitler, Führer e cancelliere del Reich, fedeltà e coraggio. Prometto solennemente a te e ai superiori designati da te l’obbedienza fino alla morte e che Dio mi assista». Josef chiede la parola e dichiara che non può giurare, che non vuole fare un giuramento contrario alla sua fede cristiana, alla sua visione del mondo, al suo concetto di fratellanza umana. Ai commilitoni che lo pregano di tornare sulla sua decisione dice: «Se nessuno avrà mai il coraggio di rifiutare il nazionalsocialismo, questo sistema non finirà mai». Inizia così il lungo e doloroso cammino di Josef Mayr-Nusser verso la morte, che avverrà il 24 febbraio 1945 a Erlangen mentre era in viaggio verso Dachau, a causa delle violenze, della privazioni di cibo e di un edema polmonare volutamente non curato. Dopo il racconto della testimonianza di vita di Josef Mayr-Nusser, fatta da Francesco Comina, tocca a don Maurizio Mazzetto, coordinatore di Pax Christi Vicenza, parlare di una resistenza nonviolenta più vicina a noi temporalmente, la lotta alla costruzione della nuova base americana al “Dal Molin”. Vicenza infatti non è caratterizzata solamente dall’architettura palladiana (patrimonio dell’Unesco) ma anche dalla presenza massiccia di basi militari. Dentro e intorno alla città erano già presenti sei basi

militari Usa. Quando si annunciò la costruzione di un’ulteriore base all’ex aeroporto Dal Molin, racconta don Maurizio, si costruiva poco per volta un’opposi-zione e una lotta nonviolenta per fermare tale proposito. Dal 2006 al 2013 nasce quindi una mobilitazione pacifista. Benché sconfitta (poiché la base verrà costruita portando il suolo occupato dall’esercito Usa in Vicenza a circa 3 milioni di mq e trasformando la città nella più grande base militare americana fuori dal territorio statunitense), la mobilitazione riesce a creare, come spiega don Maurizio Mazzetto, due fondamentali elementi e due essenziali frutti, personali e sociali. Il primo elemento è la soggettività femminile che si è espressa non solamente nel determinare diverse linee e atteggiamenti di azione di resistenza, ma anche nel creare un clima di accoglienza delle persone che, pur nella differenza di posizioni sociali e politiche, partecipano alla mobilitazione. Il secondo elemento è il passaggio nella coscienza dei singoli da un impegno localistico alla consapevolezza della dimensione nazionale e internazionale della questione riguardante la base militare, gli armamenti, la pace e l’interconnessione con questioni sociali quali il lavoro, le migrazioni, il terrorismo e così via. Don Maurizio Mazzetto pone poi l’attenzione sui frutti di quella resistenza nonviolenta: in primis “un proces-so di individualizzazione attraverso un processo collettivo”. Le persone partecipanti al movimento di resistenza hanno avuto l’opportunità di scoprire maggiormente se stessi, l’identità personale e politica e, se vogliamo, alla fin fine, il senso della propria vita e dei valori per i quali ci si può e ci si vuole spendere. Il secondo frutto è il cammino di liberazione personale e collettivo. Le persone hanno imparato a “prendere la parola”, a non accontentarsi di delegare ma ad assu-mere in proprio l’azione politica. La mobilitazione per fermare la costruzione della nuova base militare, dunque, non è stata inutile ma importante per seminare semi di libertà e democrazia. Libertà e democrazia, parole che risuonano all’interno della sala San Giovanni di Cuneo nella testimonianza della signora Matin Karim, membro del Consiglio

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Nazionale della Resistenza Iraniana. Incarcerata per diversi anni perché aderente al movimento dei Mujahidin del popolo iraniano, Matin Karim riesce a rifugiarsi nei campi profughi di Ashraf e Liberty in territorio iracheno e da qui a raggiungere l’Europa. Con commozione racconta in persiano (con traduzio-ne simultanea del dottor Nikzat Khosro) le violenze e le sofferenze patite, violenze e sofferenze condivise con tutta la sua famiglia (la madre morirà di stenti e il padre verrà trovato morto orribilmente mutilato). Matin Karim parla quindi della speranza di libertà e di democrazia che anima molti iraniani, in particolar modo le donne, che applicano forme di resistenza nonviolente, e si fa portavoce della piattaforma per il futuro dell’Iran ideata da Maryam Rajavi, presi-dentessa eletta del National Council of Resistance of Iran (NCRI): una repubblica basata sul suffragio universale, un sistema pluralistico che garantisca libertà individuali e collettive, l’abolizione della pena di morte, la libertà religiosa e la separazione tra Stato e Religione, l’uguaglianza tra i sessi, un sistema giuridico moderno e garantista, il rispetto della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, uguali opportunità per tutti gli iraniani di impiego e iniziativa imprenditoriale, il rispetto della Carta delle Nazioni Unite, la messa al bando delle armi nucleari e di distruzione di massa. Infine Matin Karim chiede con forza che l’Italia non faccia finta che il nuovo corso del regime iraniano sia meno repressivo dei precedenti. Il numero di arresti di dissidenti e il numero crescente di condanne a morte degli stessi testimonia il contrario. Non si chiudano gli occhi di fronte alla violazione di diritti umani per mere questioni commerciali e di approvvigionamento energetico. Infine la parola passa a due giovani, Alessandro e Ettore, dell’Operazione Colomba, un progetto nato in seno all’associazione Papa Giovanni XXIII e presente in luoghi di conflitto, quali Palestina-Israele, Colombia, Albania, Siria-Libano. Raccontano il loro quotidiano lavoro a fianco delle persone che subiscono i conflitti armati. Il loro compito è di condividere fisicamente la vita delle vittime delle guerre fungendo, con la loro presenza, da deterrente verso l'uso della violenza. Inoltre attivano azioni dirette nonviolente molto concrete quali, ad esempio: l'interposizione fisica, la denuncia pubblica delle violazioni, l'accompagnamento dei profughi o delle persone minacciate; azioni di solidarietà concreta, di facilitazione di incontro e mediazione tra le parti, di protezione delle minoranze, di animazione con i bambini e così via. Il Convegno si conclude così con la testimonianza di questi due giovani volontari. Nel saluto finale Renzo Dutto ricorda due versi del sacerdote poeta padre David Maria Turoldo: «Beati coloro che hanno fame e sete di opposizione Beati coloro che sanno resistere»

Attilio Ianniello (a cura)

Testimonianza alla Carovana della Pace 2015

Le migrazioni di Judith Buona sera a tutti, sono Judith, vengo dal Camerun e sono arrivata in Italia nel 1999. Nel corso degli anni ho lavorato nella raccolta di frutta, come badante, e mi sono formata mediatrice culturale e OSS (1° e 2° modulo). Oggi vi sto parlando come membro del gruppo Migrantes di Cuneo, dove con tanti altri, anche qui presenti, non solo ci sentiamo a casa, ma impariamo ad amarci gli uni gli altri come il Signore ci insegna. Colgo questa occasione per parlavi della mia esperienza personale. Nel 2007, mentre stavo lavorando, ho avuto un male grave alla schiena e sono stata operata al C.T.O. di Torino. Dopo più di 6 mesi di malattia, vengo licenziata. Non potete immaginare cosa vuole dire partire dal proprio paese alla ricerca di un lavoro, trovarlo con un contratto a tempo indeterminato e poi perderlo! Mi sono subito sentita limitata fisicamente, ma poi, anche se avevo questa sensazione di avere perso tutto, ho capito quanto ero fortunata, perche ero stata curata. Quante ce ne sono in giro per questo mondo persone che muoiono di malattia e anche di fame, per mancanza di cura? Ed è cosi che mi è venuta una grande voglia di lasciare tutto per ritornare nel mio Paese ad occuparmi di tutti coloro che non hanno nessuno per aiutarli, gli abbandonati. Mi aspettava una sorpresa, una categoria di malati poveri e abbandonati da tutti, guardati come fossero pupazzi di neve ma in realtà non visti da nessuno, i malati di mente e i loro figli. Oggi mi batto giorno e notte per i loro diritti, per-ché la vera felicità si trova nel dare, senza aspettare niente in cambio. Sono stata accolta da voi con amore e ho ricevuto tanto gratuitamente, e vorrei fare lo stesso con questi ultimi che non hanno scelto né di nascere, né di ammalarsi. Avete contributo tanto a quello che sto facendo e oggi più che mai conto ancora su di voi, non solo per portare avanti questa opera, ma per riuscire a rimanere un piccolissimo strumento di pace fra le mani del Signore, perché è bello amare. Tutto il resto è vanità, vanità di vanità. Ognuno di noi nel suo piccolo dovrebbe provare ad amare gli altri, aprire la porta del cuore, perché insieme facciamo esplodere la pace. Guardate voi stessi cosa sta succedendo nelle nostre famiglie e nel mondo in generale, per mancanza di amore. Grazie a tutti coloro che mi stanno sostenendo per portare avanti questa missione, Viva la pace, viva l’amore!

Judith

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La Resistenza oggi si chiama Nonviolenza Sono don Maurizio di Pax Christi Vicenza. Pax Christi è nata alla fine della Seconda Guerra mondiale, quando tedeschi e francesi si sono domandati come mai popoli fratelli, che condividono la stessa fede cristiana, si sono combattuti. Così è nato questo Movimento con l'intenzione di pregare e operare per la Riconciliazione tra i popoli europei e per la Pace in tutto il mondo. Mi piace collegare questa Carovana della Pace a cui abbiamo partecipato oggi con due eventi vissuti negli ultimi tempi. Anzitutto il grande appuntamento che abbiamo avuto all'Arena di Verona il 25 aprile scorso, quando è stata lanciata la proposta di una “Difesa civile e non armata”, all'insegna di questi due slogan: “La Resistenza oggi si chiama Nonviolenza” e “La Liberazione oggi si chiama Disarmo”. In secondo luogo l'iniziativa di domenica scorsa - promossa da Amnesty International e sostenuta da tante Associazioni e Movimenti, tra cui Pax Christi, Libera, il CAI, e così via - quando con seimila persone abbiamo abbracciato le Tre Cime di Lavaredo (appar-tenenti alle Dolomiti, Patrimonio Unesco dell'Uma-nità) per una iniziativa in difesa della Pace e dei Diritti Umani. Oggi, camminando, ho scoperto che erano presenti anche alcuni di voi. Così oggi abbiamo unito, con questa Carovana di Pace, le Alpi Orientali e le Alpi Occidentali nell'impegno comune per la pace e la nonviolenza, per la solidarietà e l'accoglienza. Ecco il potente messaggio che è stato letto domenica scorsa, davanti alla Tre Cime, e che era stato inviato dal Vescovo di Pax Christi Italia, Giovanni Ricchiuti: “Amiche e amici carissimi, non è solo una catena la vostra, per quanto lunga e ardita. So che siete oltre ai 2000 metri d’altezza non solo per dar vita ad una catena umana che abbraccerà le Tre Cime di Lavaredo, ma soprattutto perché amate i diritti umani e la pace. Perché volete lanciare un grido da queste cime. Fate riecheggiare nelle gole dei monti e giù lungo le valli, ancora una volta, il forte grido che quella guerra, come ogni guerra, fu una vera “follia” ed una “inutile strage”! Un grido per dire che un’intera, giovane generazione europea venne cinicamente sacrificata in nome di sporchi interessi fatti passare, con costrizione e con inganno, come ideali di amor di patria e premiati con medaglie coniate ‘nel bronzo nemico’. (…). Vi dico con convinzione: è giunto il tempo di dire basta! Di riaffermare, con coraggio, che la guerra offende in modo drammatico la dignità della perso- na umana, che bisogna ritornare ad ubbidire e ad obbiettare con la propria coscienza, che la produ-

zione, il commercio e il traffico delle armi arric- chiscono i mercanti di ieri e di oggi. Con la guerra è l’umanità a morire e insieme ad essa viene giù, rovinosamente, anche questa casa comune e meravigliosa che abbiamo ricevuto in dono da Dio. Con un forte augurio di non stancarvi e di non stancarci sul difficile sentiero che porta alla Pace! Vi abbraccio con molta, molta amicizia e fraternità! + don Giovanni vescovo”. Continuiamo a camminare insieme! Ora e sempre resistenza nonviolenta!

Maurizio Mazzetto Boves, 20 settembre 2015

Rifugiati e tortura Secondo l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, la stragrande maggioranza delle 137.000 persone che hanno attraversato il Medi- terraneo verso l'Europa durante i primi sei mesi del 2015 fuggivano da guerre o persecuzioni. Un terzo di essi proveniva dalla Siria. Il secondo e terzo dei principali paesi di provenienza sono l'Afghanistan e l'Eritrea. Le statistiche del Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir) affermano che un rifugiato su tre, di quanti hanno raggiunto l'Italia, ha subito tortura nel proprio paese. Una pratica presente in 131 paesi, secondo Amnesty International. L'82% della popolazione mondiale vive sotto governi che utilizzano la tortura in modo più o meno sistematico. L'obiettivo per cui le persone vengono sottoposte a terribile violenze il più delle volte non è quello di estorcere informazioni. Si vuole, invece, distrug-gere l'identità di chi dissente per incutere terrore nella popolazione. “Attraverso la distruzione dell'identità della perso- na, la tortura mira all'azzeramento del suo portato all'interno della società: la persona torturata si trasforma unicamente in monito vivente per gli oppositori e i non allineati” spiegano Fiorella Rathaus e Valeria Carlini, operatrici del Cir. “Le conseguenze della tortura coinvolgono ogni aspetto della vita del sopravvissuto e niente è più come prima. Le esperienze traumatiche estreme infatti provocano nella psiche di chi le subisce delle ripercussioni profonde e arrivano a coinvolgere le funzioni di base e spesso fanno precipitare la psiche in stati di vera e propria frammentazione”.

Sergio Dalmasso Tavolo delle Associazioni - Cuneo

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Chi semina vento, raccoglie tempesta Ovvero gli omicidi mirati del Drone

È a dir poco sorprendente che un professore di diritto si assuma pubblicamente la responsabilità di difendere non soltanto la legittimità della tortura ma anche la sua utilità. Eppure ciò è quanto è successo all’Università di Harvard dove un noto giurista, Allan Dershowitz, si è schierato a favore del ricorso a questa forma estrema di violenza in quanto un utile strumento nella lotta contro il terrorismo. Incidentalmente ricordo che, secondo il professore, il metodo più efficace sono gli aghi conficcati sotto le unghie del sospettato1. Potremmo liquidare il ‘caso Dershowitz’, limitandoci a prendere atto che da sempre c’è chi, all’interno della Comunità scientifica di riferimento, dà un suo contributo all’esaltazione della violenza. È noto infatti2 che i metodi di tortura impiegati nel lager di Guan-tanamo sono stati elaborati da due psicologi. Ma questa sarebbe una conclusione troppo frettolosa, ché il fatto stesso che la tortura sia diventata oggetto di pubblico dibattito è rivelatore, a mio modo di vedere, di una crisi profonda che stanno attraversando in generale il diritto e, in particolare, i diritti umani. Mi limiterò qui a pochi rilievi, facendoli precedere da un sintetico quadro di fondo. Per millenni, la violenza3, soprattutto quella della guerra, ha avuto il suo corso in scenari predeterminati: territori, bracci di mare e, in epoche a noi vicine, spazi aerei. Non meno predeterminati sono stati i suoi protagonisti, vuoi che fossero piccoli raggruppamenti di uomini, vuoi che fossero interi eserciti. In comune essi avevano una caratteristica: erano riconoscibili, e lo erano grazie a segni particolari, quali, ad esempio, la divisa o la bandiera, simboli cioè che comunicavano immediatamente la loro diversità non soltanto rispetto ai propri nemici ma anche nei confronti degli abitanti del medesimo spazio o degli spazi contigui, quegli spazi occupati da coloro che oggi chiamiamo la popolazione civile. In sintesi, la violenza della guerra aveva una sede chiaramente individuabile e degli attori facilmente identificabili. Ciò consentiva tra l’altro, soprattutto laddove lo scontro era il corpo a corpo, il riconoscimento dell’altro, della parte soccombente. Quando questi deponeva le armi, il vincitore poteva risparmiargli la vita. Non per nulla, passò alla storia come oggetto di generale riprovazione l’episodio - vero o leggenda che fosse - del ferimento a sangue freddo del capitano Francesco Ferrucci da parte di Fabrizio Maramaldo, il condottiero al servizio dei Medici, e della sua successiva uccisione da parte dei soldati di quest’ultimo. Che cosa è successo a partire, grosso modo, dalla seconda Guerra Mondiale, con un’accelerazione soprattutto dopo l’attacco alle Torri Gemelle? In

particolare, qual è lo ‘stato di salute’ del diritto inter-nazionale? Innanzitutto, non c’è più uno scenario predeterminato. Poiché, appunto, il campo di battaglia non è più necessariamente riconducibile ad uno spazio definito a priori, è venuta largamente meno la separazione fisica tra le forze belligeranti e la popolazione. L’eleva-tissima percentuale di vittime civili che caratterizza le guerre contemporanee ne è la prova. Questa carat-teristica è particolarmente evidente nel caso del terrorismo, sia quello riconducibile ai movimenti insurrezionali sia quello messo in atto dagli Stati. In secondo luogo, il terrorismo ha richiesto una modalità di scontro che ricorda da vicino quella del cacciatore, ed una tecnologia adeguata, quella assi-curata dal drone. Grazie a questo velivolo senza pilota, teleguidato da una postazione situata a migliaia di chilometri di distanza, il sospetto terrorista non ha quasi mai scampo. Al pari della selvaggina, la preda umana viene prima identificata in base agli indizi, dagli abiti - ad esempio l’uso di un copricapo -, al contesto materiale, ai movimenti del corpo; poi viene braccata, ed infine uccisa4. Ma qui finiscono le similitudini. I nostri progenitori, con l’ascia o con l‘arco, e l’odierno signore con la doppietta, erano e sono tuttora in grado di distinguere e identificare le loro prede. Sanno che la selvaggina è altro dal-l’animale da cortile e dalle specie protette. Raramente, se non mai, essi commettono errori. E se non rispettano le regole, spesso consapevolmente, vengono puniti. Gli errori li commette invece il drone cacciatore di uomini. Qui le ‘specie protette’ esistono soltanto sulla carta. E poco convincenti sono le ripetute affermazioni ufficiali al fine di tranquillizzare l’opinione pubblica, come, ad esempio, quella di Léon Panetta, l’ex-direttore della CIA, per il quale ‘il drone è molto preciso e contenuto in termini di danni collaterali’5. Ora, a parte il fatto che è inaccettabile, sotto il profilo etico e del diritto internazionale, la messa in bilancio dei succitati ‘danni collaterali’, il drone spesso non è in grado di rispettare un criterio-cardine del diritto umanitario di guerra, il principio che fa divieto di colpire i civili, salvo la loro parteci-pazione diretta alle ostilità e la minaccia imminente. Questo mancato rispetto avviene nella maggioranza dei contesti in cui opera il drone. È noto infatti che in Afghanistan, in Pakistan e nello Yemen – i luoghi più frequentati dai droni – gli uomini portano le armi. E allora come distinguere tra un potenziale terrorista ed un pacifico pastore? Un terzo, ma non meno significativo indicatore della crisi che sta attraversando il diritto, è l’emergere del

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cosiddetto ‘diritto penale del nemico’, una ‘teoria’ che stravolge l’idea di diritto e dello Stato di diritto che si pensava costituissero una conquista irreversibile dell’Illuminismo. Per questo nuovo ‘diritto’ infatti non sono più le azioni che il soggetto pone in essere a qualificarlo come reo, bensì ciò che lui è. La sua colpa, la sua reità sono ontologiche. Pertanto oggetto del giudizio è «non tanto e non solo se l’accusato abbia commesso un fatto terroristico o comunque criminale, ma se egli è stato ed è tuttora un terrorista o un connivente con il terrorismo»6. Ma come accertarlo? La risposta è ovvia: con la tortura. In sintesi, «la guerra assume la forma di enormi campagne di esecuzioni extragiuridiche»7, campagne che, proprio in quanto negazione della guerra nella sua forma tradizionale, escludono a priori ogni soluzione alternativa. Non è più pensabile l’idea della risoluzione del conflitto. L’eliminazione, dal quadro di riferimento del drone, non soltanto del contesto storico ma anche delle cause e dei motivi che stanno alla base del comportamento del presunto terrorista, esclude automaticamente qualsiasi altro percorso - come, ad esempio, negoziazioni, trattative in vista di qualche tipo di soluzione pacifica - che non sia quello puro e semplice dell’assassinio. Inutile a dirsi, a fronte di questo quadro, non soltanto non esistono riflessioni consolatorie, ma aumentano le preoccupazioni. Di fatto, questa ‘nuova’ guerra ha messo in atto un tragico circolo vizioso. Senza affrontare qui il tema complesso delle ragioni storiche che hanno contribuito alla nascita ed alla diffusione dei terrorismi, mi limito ad un solo rilievo. Dato e non concesso che la violenza possa mai essere lo strumento opportuno per porre fine ad un’altra violenza, è evidente che questa ‘caccia all’uomo’ attraverso il drone, praticata ormai da anni dagli Stati Uniti e da Israele, non mette in conto, volutamente o meno, l’impatto emotivo, le reazioni del singolo e della

collettività che viene aggredita. Non mette cioè in conto che l’assenza di un nemico identificabile e visibile contro cui battersi e la conseguente impotenza e frustrazione provocheranno, quasi inevitabilmente, un enorme bisogno di rivalsa. E qual è, a questo punto, una forma attraverso cui questa rivalsa, compren-sibilmente, si manifesterà? Evidentemente, l’azione terroristica. Mai come in questo caso soccorre l’adagio: chi semina vento, raccoglie tempesta.

Amedeo Cottino NOTE 1 M. Latorre e M. Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura?, Bologna, Il Mulino, 2013 2

Gli ‘architetti’ delle enhanced interrogation techniques (letteralmente, ‘tecniche di interrogatorio potenziate’) utilizzate dalla C.I.A. hanno un nome: sono gli psicologi a contratto James Mitchell and Bruce Jessen (R. Eidelson & T. Bond, New Evidence Links CIA to the American Psychological Association’s “War on Terror” Ethics, Transcend Media Service, 29.10.2014). 3 La violenza a cui mi riferisco in questa sede è la violenza diretta. Precisazione che ritengo doverosa in quanto, come ha ricordato Johan Galtung, esistono due altre forme di violenza, la violenza culturale e la violenza strutturale. 4 Il modus operandi del cacciatore è finemente descritto da Carlo Ginzburg (Spie. Radici di un paradigma indiziario, in A. Gargani (a cura di), Crisi della ragione Torino, Einaudi, 1979) in una riflessione più generale sulla valenza conoscitiva del metodo indiziario. 5 G. Chamayou, Teoria del drone, Roma, DeriveApprodi, 2014 (ed. or. Théorie du drone, Parigi, La Fabrique, 2013). Mio corsivo nella citazione. 6 Ibid. p.93. 7 Ibid. p.33, mio corsivo.

Uomini Uomini tutti diversi tutti ben definiti non esistono L’esistere non si sa Sii più reale

Dubbio Il mio nome non importa Dettagli esteriori di me Non importa Solo il mio carattere interessa Il mio spirito è esitazione e dubbio

Presenza Il mio male è di ricordare la mia presenza La timidezza impedisce l’emozione diretta

Attività Essere amato e mai amare Mi pesa l’obbligo della reciprocità Mi piace la passività Dell’attività mi basta per non farmi dimenticare

Signore Signore liberami da me fa che io sia il cielo e la terra e che non ci sia fango nelle strade dei miei pensieri c.c.

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Rut racconto

«Non azzardarti neppure a sollevare quella brocca, non nel tuo stato!».

«Madre, sto bene, l'ho sempre fatto». «Per qualche luna non lo farai più. Quando

sarà nato il bambino, dopo un poco, riprenderai a servire il tuo uomo e la nostra casa».

«Madre, siete sicura che voi ve ne asteneste, ai vostri tempi, quando portavate mio marito in grembo?».

«Erano tempi diversi, ed era diversa la mia situazione».

«Siete diversa voi, madre... Vostro figlio mi ha parlato un poco della vostra storia, ma non so tutto. Volete narrarmi qualcosa?».

«Come sei curiosa! Ma hai ragione, potrai raccontare a tuo figlio come era sua nonna, gli servirà. E se sarà una figlia, le servirà ancora di più. Però... non perdiamo tempo. Oggi mangeremo schiacciata di ceci. Così, mentre li puliamo e li pestiamo, ti racconto di quanto avvenne tanto tempo fa...».

«Narrate, madre, mentre preparo. Come siete giunta qui?».

«Sono nata nella campagna di Moab. È una campagna avara, arida, fredda d'inverno e di notte, ustiona di giorno. La gente di questo paese è abituata a lamentarsi della sua terra, ma non sa che il deserto sa essere ancora più crudo».

«Come erano i vostri genitori?» «Crudi come il deserto di Moab. Duri, asciutti...

Erano entrambi di una famiglia umile del paese, credo che mia madre fosse rimasta incinta prima delle nozze. Non ne sono sicura, ma qualche battuta perfida che ho colto dalle vicine me lo ha fatto pensare. Di certo mio padre era uomo ruvido e violento, con sua moglie e con i figli. Io sono l'ultima di cinque figli sopravvissuti... quella che era venuta a rubare pane a tradimento, diceva di tanto in tanto mio padre. Anche qui, nella terra di Giuda, una figlia è un peso che porta via denaro e fatica ai genitori. Se è la primogenita, può ancora rendersi utile, a mano a

mano che cresce, come sostegno alla madre. Ma l'ultimogenita è un ulivo piantato da un ottantenne, che non ne vedrà mai i frutti... Mio padre non faceva nulla per non farmi pesare la mia condizione, tanto che già da bambina sognavo di fuggire».

«Avevate altre sorelle?» «Una, la secondogenita. Andò sposa a un uomo

del paese, e da quel giorno non la vidi più sorridere. Provavo a chiedergliene il motivo, quando ci trovavamo al pozzo, ma non mi ha praticamente più parlato... E io ho capito quel giorno che non potevo seguire i palpiti della pancia, quando vedevo qualche giovane che mi piaceva, perché sarebbe stato mio padre a scegliermi il marito, ma anche che quella scelta poteva rendermi disperata o felice per tutti i miei giorni.

«Fu in quel tempo che arrivarono dalla terra di Giuda quattro poveracci. Il paese si chiedeva come potessero aver pensato di trovarsi da noi meglio che sui loro monti. Ma loro parlavano di una carestia che in effetti non ci aveva colpito, anche se non per questo ci sentivamo meno poveri di loro. Erano tre uomini, il padre e due figli, insieme alla moglie. Quattro belle persone, comunque, e si erano presentate in paese in modo molto mite: la più severa sembrava la moglie e madre. Iniziarono a lavorare come braccianti, tutti e tre gli uomini: erano resistenti alla fatica, volenterosi. Mi piacevano. Un giorno anche mio padre decise di servirsi di uno di loro non per i campi ma per

essere aiutato a rifare le tavole del tetto di casa. Era il più giovane dei fratelli, ed era bello. Ho iniziato a portargli dell'acqua, una focaccia, e a guardarlo negli occhi per un momento, di tanto in tanto. Basta poco a provocare un uomo, e credo che avesse già allora parlato al padre di me».

«Non riesco a immagi-narvi in questo ruolo».

«Ero giovane, e forse anche un poco ingenua. Ma, insieme, sapevo di non voler condividere la sorte di mia sorella, e mi illudevo di

Noemi prese il bambino, se lo pose in grembo e gli fece da nutrice.

Le vicine gli cercavano un nome e dicevano: «È nato un figlio a Noemi!».

E lo chiamarono Obed. Egli fu il padre di Iesse, padre di Davide.

Questa è la discendenza di Peres: Peres generò Chesron, Chesron generò Ram,

Ram generò Amminadàb, Amminadàb generò Nacson, Nacson generò Salmon, Salmon generò Booz, Booz generò Obed, Obed generò Iesse

e Iesse generò Davide.

(Rut 4, 16-22)

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riuscire a garantirmela migliore. E non ricordavo che è l’Altissimo, benedetto Egli sia, a guidare le nostre sorti. Il padre di questa famiglia, Elimélek, restò schiacciato sotto una macina che stava aiutando a trasportare. I manovali più giovani, quando questa iniziò a inclinarsi, saltarono indietro, ma lui non fu altrettanto veloce. Dopo sette giorni il suo figlio più giovane, Chiliòn, veniva a chiedere la mia mano.

«Ricordo che persino io ne ero stupita: non aveva atteso molto a consolarsi per la perdita del padre, non era stato il fratello maggiore ad accompagnarlo, e a questi atteggiamenti, che sembravano irrispettosi, si aggiungeva la voce maligna che sussurrava che quella famiglia, fuggita da una terra più ricca della nostra in cerca di fortuna, si fosse attirata nella sua regione il malocchio. Fu forse per questo che mio padre ebbe un attimo di titubanza. Non sperava di riuscire già a liberarsi di me, ma temeva di esagerare, dandomi a un uomo sedizioso e maledetto. Non si poneva neppure il problema di concedermi a uno straniero, per lui valevo come un asino che mangiava molto e portava pochi pesi. Ma l’idea che il malocchio, per mio tramite, potesse giungere a toccare anche lui proba-bilmente lo condizionava, e mi chiamò per chiedere il mio parere. Io acconsentii, volevo solo fuggire.»

«Davanti a quali sacerdoti stringeste il vostro patto?»

«Nel tempio di Kemosh: eravamo nella terra di Moab, ciò era naturale. Certo, io mi chiedevo se ciò significava che il mio marito era un uomo disposto a divenire servo del dio della sua nuova terra, o se in fondo non indicava un uomo indifferente rispetto a qualunque dio. Ben presto ebbi una risposta: già la prima notte, venni picchiata selvaggiamente. Nei pochi mesi in cui vivemmo insieme, più volte mi disse di ritenermi una cagna, una serva a lui inferiore che voleva solo usare per il suo piacere. Pregai Kemosh di non concedermi figli, e mi ritenni ascoltata fino al giorno in cui Chiliòn, ubriaco, fu coinvolto in una rissa e venne accoltellato.

«Le mie lacrime, quel giorno, erano una mescolanza di sollievo e di angoscia per il futuro. Ero ormai la vedova, senza figli, di un attac-cabrighe straniero. Non vedevo alcuna prospettiva davanti a me».

«Tua suocera come era?» «Non era cattiva. Era rigida, amareggiata, ma

non cattiva. La mattina dopo le nozze, quando mi sono presentata in casa con gli occhi rossi di pianto e una guancia gonfia, mi ha guardata, poi si è avvicinata, mi ha accarezzato la guancia, mi ha

abbracciata... senza dire una parola, ma io, che mi sentivo perduta, ho pensato che qualcuno mi capiva, e mi sono rimessa a piangere, questa volta in modo meno amaro...

«Il fratello di Chiliòn, Machlòn, era diverso, più buono, e si limitò a dirmi che non poteva sposarmi lui perché aveva già chiesto la mano di un'altra donna del paese. Decisi di fermarmi in quella famiglia per aiutare No'omì ad allestire il matrimonio. In realtà, avrei dovuto proba-bilmente chiedere a mio padre il permesso di riaccogliermi a casa sua e poi di fermarmi da mia suocera per aiutarla... ma non feci nulla. Sapevo che mio padre era stato felice di vedermi andare via, né venne a chiedermi come stavo dopo il matrimonio o dopo che rimasi vedova. Mi dicevo che sarei tornata da lui dopo il matrimonio di Machlòn, ma sapevo già che sarebbe stato tardi.

«In quei giorni lavorai a stretto contatto con No'omì, mia suocera, e parlammo molto. In fondo eravamo due vedove, sia pure di età tanto diverse. Io le dicevo che era più fortunata, perché un figlio lo aveva, lei mi rispondeva che avevo ancora speranze davanti a me. Entrambe sapevamo di essere almeno in parte bugiarde: lei sapeva, come me, che una vedova non riaccolta dal padre aveva ben poche speranze davanti a sé, ed entrambe vedevamo Machlòn sempre più magro e grigio, debole e senza fiato. No'omì mi ripeteva di confidare ormai soltanto nel suo Dio, che si era sempre preso cura dei più poveri e affranti, e io mi lasciavo affascinare sempre più da un Dio non di potenza, ma capace di farsi vicino ai dimenticati e picchiati, come me.

«Machlòn morì di malattia una settimana dopo le nozze, a festa non ancora conclusa. Eravamo rimaste tre vedove, una straniera e due mogli di stranieri. Dopo la cerimonia funebre, non avevamo neppure più lacrime da piangere, ci limitavamo a guardarci disperate.

«Quel giorno stesso No'omì decise di parlarci: dovevamo tornare alle nostre case, se ci avessero accolte, nella speranza di poter trovare un nuovo marito e dei figli. "Tu che cosa farai?", le chiesi. Mi rispose che sarebbe tornata nella terra di Giuda, pur non avendo nessuno che potesse prendersi cura di lei. "Preferisco morire di fame nella terra del mio Dio". Restai ancora più ammutolita. Non riuscivo quasi a pensare. Mia cognata si mise a piangere, disse che non l'avrebbe abbandonata, ma io di colpo intuii che No'omì si comportava come il moribondo che vuole morire abbracciato a chi ama... intuii che non si limitava a servire il suo Dio, ma se ne sentiva amata, come avevo sperato di essere amata da mio marito. Non avevo mai udito nessuno confidare in qualcosa del

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avevo mai udito nessuno confidare in qualcosa del genere, e meno che mai da anziana, con tutte le delusioni della vita. La guardavo, mentre ascoltavo le proteste disperate di mia cognata, tanto più disperate quanto più aveva, a mio parere, già deciso di tornare da suo padre, che l'avrebbe accolta, lei! Alla fine, mentre imbruniva, colei che era stata mia cognata partì.

«No'omì mi guardò: "E tu, figlia mia?". Io cercai di respirare a fondo, non volevo che la mia voce tremasse anche se gli occhi erano umidi, e infine ripetei, non so per quale motivo, quelle parole che avevo detto a Chiliòn, e che le sue viscere non avevano mai ascoltato: "Dove andrai, andrò, dove ti fermerai, mi fermerò, il tuo popolo sarà il mio popolo, il tuo Dio il mio Dio"».

«È la formula del matrimonio». «Sì, non so perché l'ho utilizzata. Mi è venuta

dal cuore, e subito dopo ho pensato che era come se adesso a essere sposate, a doverci prendere cura l'una dell'altra, eravamo noi due, suocera e nuora, come mai si era visto nella storia. Ci siamo abbracciate e abbiamo pianto ancora...

«Già il giorno dopo siamo partite. Dormivamo abbracciate lungo il viaggio, e abbiamo continuato appena tornate a casa sua. Era abbandonata, l'abbiamo ripulita, sistemata... ma non avevamo cibo. Eravamo all'inizio dell'estate, stavano mietendo l'orzo. Sono andata a spigolare nel primo campo che ho trovato...

«Avevo paura. Ero una donna giovane, vedova, senza famiglia, straniera. Se avessero approfittato di me, non avrei avuto nessuno che mi difendesse. Mi sono tirata il velo fin sugli occhi, non volevo che vedessero che ero spaventata.

«Il sole nei campi è feroce: in Moab il sole è altrettanto duro, ma l'aria è più fresca, e si sopporta meglio. Mescolavo il sudore alle lacrime... E mi chiedevo fino a quando avrei potuto resistere. Si stava avvicinando l'ora più calda della giornata, immaginavo che i giovani stessero per interrompere il lavoro, e mi chiedevo se avrei dovuto tornare a casa, mettermi in un angolo, continuare a raccogliere le spighe cadute... quando si avvicinò un uomo imponente. Era da solo, pensavo che se avessero voluto farmi del male non sarebbero venuti di giorno, sotto gli occhi di tutti, e da soli. O di nascosto, o in gruppo. Invece quell'uomo veniva da solo, e non sembrava un mietitore. Era il padrone del campo, e mi informava di sapere quello che avevo fatto per No'omì, che lo aveva apprezzato, e di restare nel suo campo anche i giorni successivi: "Ho ordinato ai ragazzi che nessuno ti infastidisca. Mangia con le mie serve, e non avere timore". «Non osavo crederci: per la prima volta nella mia

vita, c'era chi si prendeva cura di me pur potendomi evitare... Ero come risollevata: non parlavo, non guardavo, ma non sentivo più il sole, il caldo, le mosche, i tafani... Nel pomeriggio ho pensato che i mietitori non fossero molto bravi, continuavo a trovare sempre più spighe. Alla sera ho battuto tutto, e quasi riempito un'efa!

«Non riuscivo quasi a trascinarla da No'omì, ed entrambe non credevamo alla nostra buona sorte! Le spiegai dove ero andata, chi era quell'uomo, e fu lei a dirmi che quel padrone poteva sposarmi e concedere a entrambe una discendenza. E fu lei a sugger irmi come muovermi ...

«Continuai a spigolare da tuo suocero per tutta la settimana. Quando i mietitori ebbero finito il lavoro, festeggiarono con focacce e frittelle, carne e uova, birra e vino. Soprattutto bevvero tanto. Faceva caldo, erano stanchi, felici e ubriachi, e ognuno si coricò dove capitava. Io trovai Bo'oz, tuo suocero, da solo, come speravo, e mi coricai accanto a lui. Feci in modo che, al risveglio, pensasse di essersi addormentato accanto a me e di aver approfittato di me. Quando si svegliò confuso, stanco e bagnato, con me accanto a lui, fu quello che pensò. E pensò immediatamente che doveva sposarmi.

«Dovette faticare per riuscirci, ma lo fece, e dopo dieci mesi nacque tuo marito.

«E ora...», aggiunse accarezzando la pancia alla nuora «... sta per nascere il nipote di No'omì, l'amareggiata, che pensava che non avrebbe più visto la gioia. Fammi vedere bene questo pancione».

«Madre...!» «Alza quella gonna, non c'è nessuno che ci

veda... Voglio dirti una cosa, ma lo posso fare solo se lo vedo... Ecco, lo immaginavo. Voglio dirti, figlia mia, che il bambino che stai per partorire è destinato a grandi cose. O diventerà re lui, o genererà un re».

«Ma che dite, madre!» «Nel mio paese leggevano le forme delle pance

delle donne incinte, e ho imparato anch'io». «E ci credete?» «No», rispose ridendo, «ma non fa male fingere

di crederci. Non potresti dare alla luce una famiglia di re? Dei re di Giuda, che portano nelle loro vene il sangue di una moabita... Questo davvero sarebbe coerente con il Dio che ci ha salvato, che protegge la sorte dei più piccoli, di chi non conta, di chi è dimenticata anche dal proprio padre, abbandonata dalla sorte, privata del marito e di ogni speranza. Il Dio che restituisce speranza ai disperati, figlia mia, darà ai giudei un re, nipote di una moabita. Perché non potrebbe essere?»

Angelo Fracchia

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bibblando ando

Il primo miracolo Il primo miracolo è l'essere, l'esserci: che qualcosa vi sia anziché il nulla.

Il primo miracolo è la nascita: che rinnova e preserva e infutura il nostro mondo comune, il mondo comune che noi stessi siamo.

Il primo miracolo è la solidarietà: senza la quale né io né tu saremmo sopravvissuti all'ingresso nel mondo, senza la quale né tu né io avremmo pensieri e parole.

(Peppe Sini, 5-6-2015)

Gher (forestiero) È noto che il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, ha giustificato la costruzione del muro che divide il territorio ungherese da quello serbo con la difesa dei valori cristiani dall'invasione dei migranti. Senza voler prendere posizione qui sul valore di tale scelta politica, mi limito a chiarire che cosa nella Bibbia si dice sul "forestiero", limitandoci all'Antico Testamento (il Nuovo potrebbe essere più facilmente accusato di buonismo).

Chi è il gher?

I testi della Bibbia ebraica conoscono molto bene la contrapposizione tra vicini. Di fatto, tanti testi sono attraversati dall'invito a diffidare dello straniero (soprattutto delle donne straniere, a dire il vero...) dalle guerre e lotte contro i nemici, dal mantenimento della purezza religiosa e familiare ebraica. È un atteggiamento universale, ancora più diffuso nei gruppi umani piccoli, come era, al tempo dell'Antico Testamento, quello ebraico. È tanto più interessante, quindi, che si dicano cose diverse sul gher, parola spesso tradotta con "forestiero". Più che l'etimologia, per capire di chi si parla può essere utile verificare chi venga definito gher. Era gher chi si allontanava dal proprio clan e dalla propria patria, solitamente per sfuggire ad una carestia (Elimelech, suocero di Rut: Rt 1,1; Elia il profeta: 1 Re 17,20; Isacco a Gerar: Gen 26,3; ma gli stessi figli di Giacobbe in Egitto: Gen 47,4), o a volte per sfuggire alle conseguenze di una guerra (i dispersi di Moab in Is 16,4; gli abitanti di Beerot in 2 Sam 4,3).

Il gher non possedeva una terra (se poteva acquistarla, diventava un abitante della regione), per cui vengono definiti tali anche i leviti, incaricati del servizio al tempio, che non potevano possedere terra e venivano mantenuti dalle offerte delle altre tribù: l'ebreo più vicino a Dio è un gher.

Come trattare il gher?

L'Antico Testamento, non sempre tenero verso gli estranei, è però netto nell'indicare come comportarsi con il forestiero: senza terra, senza una famiglia che lo protegga e riscatti, è assimilato all'orfano e alla vedova ebrei. Deve essere trattato con mitezza (Dt 10,19), deve avere il diritto di passare nelle vigne vendemmiate o nei campi mietuti per raccogliere acini e spighe dimenticati (Lv 19,10; Dt 24,21), deve essere accolto con rispetto e delicatezza, anzi amato, ricordando che anche gli ebrei erano stati forestieri in Egitto (Lv 19,34). Il gher non deve essere soltanto ospitato e rifocillato, ma ha il diritto di partecipare alle feste d'Israele, in forma esplicita alla Pasqua (Es 12,19; Nm 9,14) e allo jom kippur (Lv 16,29). Può essere strano che non lo si ricordi per la festa delle capanne (Lv 23,43), ma il motivo si intuisce presto: è una festa che ricorda a Israele, ormai sicuro in solide case, di quando camminava nel deserto affidato soltanto alla benevolenza provvidente di Dio. Il gher non ha bisogno di tale ricordo, dal momento che vive adesso il suo pieno stato di precarietà. Tale è la vicinanza di Dio al forestiero che i testi più poetici confessano che ogni credente ammette di essere davanti a Dio null'altro che un gher (Sal 39,13; 119,19; 1 Cr 29,15): è la consapevolezza che entrambi devono a Dio la loro sussistenza ad avvicinare residente e forestiero.

Angelo Fracchia

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___Orizzonti di pace

___ Associazione per il dialogo tra le culture

Tel. 0171.695677 E-mail: [email protected]

XIV Giornata ecumenica del Dialogo cristiano-islamico del 27 ottobre 2015

Cristiani e musulmani: dall'accoglienza alla convivenza pacifica

A giorni si celebrerà la Giornata del Dialogo cristiano-islamico. Per la quattordicesima volta un po’ in tutta Italia le religioni di Abramo si presen-tano insieme in modo solenne per dare visibilità ad un percorso di conoscenza e dialogo che affonda le proprie radici in tante piccole realtà capillari di incontro. Sono esperienze coltivate con pazienza e perseveranza, spesso nel nascondimento, che di tanto in tanto hanno il bisogno - e anche il dovere civile - di uscire allo scoperto per farsi voce e segno di un diverso progetto di società, fondato sul riconoscimento dell’altro, della sua dignità e della sua ricchezza. Ancora più oggi, nella speranza di poter contrastare il tentativo strumentale di alimentare un clima diffuso di paura e di diffidenza. Anche a Cuneo la Giornata sarà celebrata nelle prossime settimane con un incontro dedicato al tema suggerito per l’edizione di quest’anno, particolarmente stimolante e attuale in un periodo di fortissima tensione quale quello che stiamo attraversando. Qui di seguito pubblichiamo il testo dell’Appello redatto per l’occasione dal Comitato organizzatore, che può essere sottoscritto da singoli o da associazioni sul sito www. ildialogo.org, e una riflessio-ne a margine, redatta dagli stessi estensori, dal titolo Cristiani e Musulmani: dal-l’accoglienza alla convivenza pacifica. Cristiani e musulmani, lo diciamo da sempre, hanno profonde radici comuni. Già lo scorso anno ne abbiamo indicati due, quelli della misericordia e della compassione. Islam e cristiane-simo, di più, sono religioni di pace. E per costruire un mondo di pace c'è bisogno che le due religioni mondiali maggioritarie, che sono l'islam ed il cristianesimo, sappiano riscoprire le comuni radici di pace in tutte le loro molteplici declinazioni, fra cui quest'anno vogliamo indicare alle comunità cristiane e musulmane, come tema per la

quattordicesima giornata ecume-nica del dialogo cristiano isla-mico del 27 ottobre 2015, quelle dell'accoglienza dello straniero, del rifugiato, dell'aiuto ai poveri, agli ultimi della società, per costruire la convivenza pacifica,

che abbiamo sintetizzato in: «Cristiani e musulmani: dall'accoglienza alla convivenza pacifica». I nostri rispettivi testi sacri dicono parole chiare su tale aspetto, checché ne dicano coloro che vorrebbero piegare sia l'islam che il cristianesimo alla logica della guerra. Questa crediamo possa essere la strada per costruire una società libera dal terrore della guerra nucleare, dalla paura continua di qualsiasi essere umano diverso da noi, riscoprendo la comune umanità, il comune bisogno di accoglienza e di vivere pacificamente, come figli e figlie dell'unica Madre Terra che ci ospita.

La ricca e opulenta Europa ed il cosiddetto "occidente", non potranno assolversi dalle proprie gravissime colpe nei confronti dei popoli che hanno depredato delle loro risorse e che hanno costretto a subire la guerra e poi a fuggire e a divenire profughi, se non fermando la vendita degli armamenti, che sosten-gono la guerra e producono milioni di profughi, e ponendo fine alla depreda-zione delle risorse dei popoli africani, asiatici o sud-americani. Chi vuole pace per sé dovrà imparare a dare pace agli altri. E questo lo si potrà fare riscoprendo le vere radici comuni alle religioni mono-teiste, ad islam, cristia-

nesimo ed ebraismo, che sono l'accoglienza, l'ospi-talità, la misericordia, la pace, perché "la terrà è di Dio" e nessuno ha il diritto di dichiararla propria e sfruttarla a proprio uso e consumo. Uomini e donne di pace cercasi. Con un fraterno augurio di shalom, salaam, pace.

I promotori della Giornata ecumenica

del Dialogo cristiano-islamico

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Lettera agli uomini e alle donne di buona volontà in occasione della 14° giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico

Cari amici e amiche, fratelli e sorelle, facciamo appello, per la quattordicesima volta, alla vostra sensibilità e al vostro impegno affinché l'imminente Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico del 27 ottobre, diventi un momento concreto di costruzione di pace e di convivenza fra persone di diversa religione. In questi mesi il flusso dei profughi provenienti dai paesi dove sono in corso guerre è aumentato esponenzialmente. Immense tragedie vengono rese note dai mass-media, che danno notizia di naufragi a ripetizione, con centinaia e centinaia di morti di cui molti bambini. Il Mediterraneo, che da millenni è stato luogo di incontro fra le diverse civiltà che vi si affacciano, si è trasformato in un immane cimitero. Inoltre, dai tragici fatti di Parigi di inizio anno, con l’assalto al giornale satirico “Charlie Hebdo”, un’ondata di razzismo anti-islamico si è propagata in modo esponenziale in Europa, compresa l’Italia. Si susseguono le aggressioni a singoli, ai centri dove sono accolti i rifugiati, ai luoghi di culto islamici. Politici razzisti, a cui viene dato ampio spazio dai mass-media con la scusa della “libertà di opinione”, istigano intere popolazioni a schierarsi contro i migranti. Questi politici razzisti in Italia ed in Europa si presentano come difensori delle “radici cristiane dell'Europa” e attaccano tutti quei religiosi cristiani, a cominciare dalla massima autorità della Chiesa cattolica, quando questi invitano le comunità cristiane non solo all’accoglienza ma a convivere pacificamente con chiunque sia portatore di una religione diversa da quella cristiana. Ed è questo che da 14 anni cerchiamo di realizzare nel nostro Paese attraverso l’iniziativa della Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico. Cristianesimo ed islam, nella loro essenza, sono religioni di pace. La radice della parola “islam” è pace; “beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio” è la parte centrale di quel “manifesto cristiano” che sono le beatitudini evangeliche. Queste sono le radici vere di cristianesimo ed islam, che nel corso dei secoli sono state strumentalizzate e stravolte a fini politici ed economici. Ribadiamo insieme, cristiani e musulmani, la netta e ferma condanna di qualsiasi forma di violenza e guerra fatta nel nome di Dio. La storia, che è maestra di vita, insegna che chi si macchia di omicidi in nome di Dio, odia qualsiasi religione, compresa quella dietro cui si nasconde.

e che gli uomini e le donne di pace fermeranno l’odio e la violenza di chi vorrebbe mettere cristiani contro musulmani. E che il bene prevarrà sul male ce lo dicono le decine e decine di iniziative di dialogo che, in seguito ai drammatici atti di violenza di Parigi, si sono sviluppate dal basso in tutte le regioni d’Italia. Comunità cristiane e musulmane si sono unite, concretamente, anche per dare assistenza sanitaria congiunta ai profughi a prescindere dalla loro religione di appartenenza. Con questo appello, invitiamo quindi tutte le persone di buona volontà a ricordare la Giornata del 27 ottobre, dando vita ad attività di dialogo permanenti che cercheranno di rendere concreto il tema che abbiamo posto all’attenzione di cristiani e musulmani e cioè passare “dall’accoglienza alla convivenza pacifica”. Buon 27 ottobre! Con un fraterno saluto di shalom, salaam, pace

Massimo Abdallah Cozzolino,

Presidenza della Confederazione Islamica Italiana Giovanni Sarubbi,

direttore del sito www.ildialogo.org Roma, 1 ottobre 2015

Noi siamo convinti che il bene prevarrà sul male

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Appunti sulla vita ed il pensiero di

Lev Tolstoj (1828-1910) (1) “Non posso continuare a vivere nel lusso che mi ha circondato fino ad oggi. Faccio quel che di solito fanno i vecchi alla mia età: rinunziano al mondo per vivere in solitudine e raccoglimento gli ultimi giorni della loro esistenza”. Così Lev Tolstoj nella lettera di congedo alla moglie, scritta alle quattro del mattino del 28 ottobre 1910, prima di partire di nascosto dalla casa di Jasnaja Poljana, dove era nato e dove aveva vissuto quasi tutta la sua lunga vita, allevando la numerosa famiglia, coltivando la terra e scrivendo i suoi immortali romanzi. E’ noto il seguito: pochi giorni dopo, l’ottantaduenne Tolstoj si ammalava e si spegneva il 7 novembre nella piccola stazione ferro-viaria di Astapovo (l’intera vicenda è stata narrata da un film di pochi anni fa intitolato appunto L’ultima stazione). Nei giorni dell’agonia, quella sperduta stazioncina russa diventava uno dei luoghi al mondo più gremiti di giornalisti di tutti i paesi. La cerimonia religiosa fu negata allo scrittore, scomunicato dalla Chiesa ortodossa per i suoi scritti nei quali egli l’accusava di avere tradito l’autentico insegnamento di Gesù. Ma il feretro veniva riportato per la sepoltura a Jasnaja Poljana da un’immensa folla nella quale intellettuali russi ed europei si mescolavano ai semplici contadini. Vastissima era infatti la fama di Tolstoj sia in patria che all’estero (qualche anno prima un giornale aveva pubblicato una vignetta intitolata “La Russia ha due zar” in cui figurava un colossale Tolstoj in abiti contadini e un minuscolo Nicola II schiacciato dai paramenti regali). Moriva così, in circostanze tra il drammatico e il patetico, uno dei più grandi geni letterari di tutti i tempi, uno che senza falsa modestia aveva detto della sua maggiore opera, Guerra e pace: “E’ qualcosa come l’Iliade”, e che anni dopo parlava delle sue stesse opere come “bazzecole” che avrebbe volentieri scambiato con La capanna dello zio Tom: non certo per i meriti letterari del romanzo americano, ma perché questo almeno aveva contribuito a sostenere la causa dell’abolizione della schiavitù. Sbagliava. Era ingiusto con la grande letteratura e con se stesso. Penso di poterlo affermare sulla base della mia stessa esperienza: la mia vita sarebbe stata sicuramente diversa se non mi fossi imbattuto, attorno ai vent’anni, nei suoi grandi romanzi. Sono stati questi che per primi mi hanno dato il senso della grandezza (nella sua duplice dimensione, sulla quale ho insistito in articoli precedenti, dell’ampiezza e della profon-dità) della vita umana, una sensazione quasi fisica che

nei suoi libri è continuamente rafforzata simboli-camente dalla vastità della terra russa, quella vastità che ha ingoiato gli eserciti di Napoleone e di Hitler. Dopo letture del genere, riesce - anche volendo - più difficile perdersi a lungo nelle banalità, nella zavorra che oggi, con l’aiuto della tecnologia e del consu-mismo, più che mai riempie la maggior parte della vita del maggior numero. E dalla vita Tolstoj, umanamente parlando, aveva avuto proprio tutto: la nascita aristocratica (discen-deva da una delle famiglie russe di più antica nobiltà), la prestanza fisica, la ricchezza, il talento, la gloria internazionale. Ma su quest’ultimo punto non si può non citare un suo appunto del 1905, che sull’uomo dice più di molte pagine autobiografiche:“Come si è chiarita la storia dei miei rapporti con l’Europa: 1) gioia di essere conosciuto, io meschino, da tanti grandi uomini; 2) gioia che mi apprezzassero alla pari con i loro; 3) che mi apprezzassero al di sopra dei loro; 4) cominci a comprendere chi sono quelli che ti apprezzano; 5) nasce il dubbio che ti capiscano; 6) la certezza che non ti capiscono; 7) che non capiscono niente: che quelli i cui apprezzamenti avevo così cari sono stupidi e selvaggi” (Pier Cesare Bori, Gianni Sofri, Gandhi e Tolstoj. Un carteggio e dintorni, Il Mulino 1985, p. 131, nota 4). Eppure quest’uomo, che dalla vita aveva avuto tutto, attraversa verso i cinquant’anni, ormai ricco e famo-so, una crisi spirituale talmente profonda da pensare continuamente al suicidio, fino a nascondere corde e fucili per impedirsi di attuare il proposito in un momento di debolezza. Ne esce con una drammatica conversione: “Credetti nella dottrina di Cristo e all’improvviso la mia vita mutò: cessai di volere quello che volevo prima e incominciai a volere quello che prima non volevo (…). Le direttrici della mia vita, le mie aspirazioni divennero altre: bene e male si cambiarono di posto. Tutto derivò dall’aver capito la dottrina di Cristo in modo diverso da come la intendevo prima”. Ma Tolstoj rimane più che mai un inquieto anche dopo la conversione, come testimoniano gli ultimi trent’anni della sua vita, interamente occupati dall’ambizione di riformare se stesso, la religione e il mondo, fino alla drammatica fuga alla quale abbiamo accennato. Le pagine che seguono cercano di seguire le tracce di questa grande vicenda spirituale, basandosi principalmente sullo scritto autobiografico che la descrive con cruda sincerità, intitolato La confessione

Grandi esperienze spirituali (5)

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(composta tra il 1879 e il 1882: ho utilizzato l’edizione Feltrinelli, 2000). Non si potrà evitare qualche riferimento ai suoi grandi romanzi, che continuano ad assicurare la sua fama nel tempo, mentre la sua azione di riformatore religioso e sociale è stata storicamente valutata in modo molto difforme. Ma anzitutto, due parole sul contesto storico- culturale. L’ “anima russa” e le sue contraddizioni

“Noi russi abbiamo due patrie: la Russia e l’Europa”. Questa incisiva osservazione di Dostoevskij costituisce la definizione più sintetica del problema storico della civiltà russa. Un problema storico del quale è un tipico sintomo l’esterofilia e la frequenza dei viaggi in Europa (in Germania, in Italia, soprattutto in Francia) dell’élite colta russa dal tempo di Pietro il Grande in poi. Molti all’estero si fermavano, sia perché non riuscivano più a sentirsi a casa in patria, sia perché non potevano tornare per cause politiche (di A. I. Herzen incontrato a Parigi lo stesso Dostoevskij disse che non era emigrato ma era nato emigrante). L’emigrazione delle élites non era solo un fenomeno russo; ad esempio lo troviamo nell’Italia dell’Ottocen-to; ma in Italia il fattore centrale era il dominio stranie-ro, in Russia l’oppressione di un potere autocratico. Sarebbe forse bene che i nostri politici che trattano affari commerciali o diplomatici con la Russia studiassero un poco di storia, per capire quali tasti toccare e quali evitare quando si parla con i russi. Almeno dal tempo di Pietro il Grande, promotore nel primo Settecento dell’occidentalizzazione con una serie di iniziative dall’alto, in parte riuscite e in parte fallimentari, la Russia oscillò tra il sogno di diventare Occidente e un orgoglioso, risentito ripiegamento su se stessa. Odio-amore per l’Occidente, senso d’inferiorità alternativamente controbilanciato da un altrettanto forte senso di superiorità, che si esprime nella polarità di provincialismo slavofilo e nazionalista e di cosmopolitismo esterofilo. I settant’anni aperti dalla rivoluzione d’Ottobre si possono vedere nel quadro di queste oscillazioni, come un tentativo demiurgico (analogo a quello di Pietro il Grande) di forzare i tempi della storia accelerando la modernizzazione sul modello occidentale, sotto l’egida di un’ideologia universalistica che paradossalmente imponeva la chiusura verso l’esterno. La zarina Caterina II verso la metà del settecento adulava gli illuministi francesi (ma si guardava bene dal seguirne i consigli) e nei salotti di Mosca e di Pietroburgo verso la fine del secolo la lingua ufficiale di comunicazione era il francese, come sanno i lettori di Guerra e pace che nel capolavoro tolstoiano vedono comparire numerose pagine scritte interamente nella lingua di Voltaire. Era normale per gli aristocratici russi dal Settecento in poi parlare diverse lingue europee (l’istitutrice francese o l’istitutore privato tedesco erano uno status symbol pressoché obbli-gatorio presso le famiglie nobili) e parlarle meglio del

russo .Quanto alla lingua materna infatti “era un comune paradosso che i russi più colti e raffinati sapessero parlare solo il russo popolare che avevano imparato da piccoli a contatto con la servitù” (Orlando Figes, La danza di Nataša. Storia della cultura russa (XVII-XX sec.), Einaudi, 2008, p. 49). Un episodio paradossale che possiamo vedere come un segno di incipiente sentimento nazionale è quello (citato da Tolstoj in Guerra e pace ) del nobile moscovita che, al tempo dell’invasione napoleonica, vergognandosi di sapere solo il francese, si fa impartire lezioni di russo. E’ il 1812, una delle date più importanti dell’intera storia russa: cade l’idolo francese, sorge il nuovo idolo nazionalista. Molti nobili ufficiali (i cosiddetti figli del 1812, i futuri decabristi, vale a dire i protagonisti della fallita rivoluzione del dicembre 1825; pensiamo ai nostri quasi contemporanei Pellico, Santarosa, Confalonieri) rifiutano l’orgoglio di classe, si sentono più vicini ai contadini che si organizzano in bande partigiane contro l’armata di Napoleone in fuga. Un personaggio emblematico di questo periodo è il principe Sergej Volkonskij, il quale, reduce dalla guerra contro Napoleone, insieme ad altri giovani nobili militari, si fa interprete delle nuove tendenze. Questi giovani intellettuali rifiutano i formalismi e le convenienze mondane della cultura illuministica settecentesca, le parrucche e i balli di società (ma non le baldorie che sono da sempre parte integrante dello spirito russo). Sono insomma giovani romantici, riconoscibili a prima vista dai pantaloni, dalle barbe e dai capelli sciolti, in voluta contrapposizione alla società settecentesca delle parrucche e delle culottes. E’ il mondo di Puskin : “Il giro elegante non è più alla moda. Lo sai, mio caro, siamo uomini liberi ormai”. La fallita rivoluzione decabrista segna l’inizio del regno di Nicola I, che per trent’anni “surgela” la Russia, trasformandola in un grande collegio o convento (l’espressione è del viaggiatore tedesco Haxthausen). Il dramma dei decabristi, diverse cen-tinaia dei quali finiscono in Siberia, ci fornisce anche il filo conduttore per risalire all’origine di Guerra e pace: il romanzo incompiuto I decabristi (1860-61). Sergej Volkonskij nei lunghi anni dell’esilio in Siberia studierà il folklore, fonderà scuole di villaggio, organizzerà con altri esuli una comune agricola e istituti di agricoltura. Il “principe contadino” Vol-konskij anticipa sia gli slavofili degli anni 30 che i populisti degli anni 70; ma anticipa anche la figura di Tolstoj, la sua ricerca di un giusto rapporto con la terra e con chi la coltiva, fino allo stile di vita, al modo di vestire ecc., che non sono eccentricità di aristocratico ma gesti pieni di significato storico e culturale. Lineamenti base della personalità di Tolstoj

Gli scrittori russi dell’Ottocento, a cominciare da Puskin e Gogol, si trovano davanti al compito immenso di dare forma alla vitale, ma confusa e

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magmatica, “anima russa”, di additarle i suoi compiti, al di là delle contingenze storiche più o meno meschine; certo con un occhio all’occidente europeo, ma senza farsi prigionieri di questo modello. Esistono intere biblioteche sull’intelligentsia russa dell’Otto-cento, una minoranza esigua rispetto a masse ancora quasi interamente contadine, ma che proprio per questo si sente gravata di un compito storico immenso, che viene preso molto sul serio dando origine ad enormi ed esplosive contraddizioni. Chi si sente investito da un compito salvifico, messianico, è portato naturalmente al radicalismo, e spesso non esita di fronte alle scelte più estreme. Penso anzitutto ai protagonisti della rivoluzione bolscevica, ma il radicalismo e i contrasti laceranti ch’esso porta con sé li troveremo anche in Tolstoj (abbiamo accennato alle vicende della sua fuga e successiva morte). Chi si è abituato a considerare Tolstoj uno scrittore “realista”, chi conosce le solide architetture dei suoi grandi romanzi, si stupisce nel sapere che egli nella vita è stato fondamentalmente un tremendo narciso: un adolescente che non fa che guardarsi allo specchio, scrivere diari sui suoi sentimenti più intimi e fare buoni propositi per il futuro che regolarmente si accusa di non rispettare. Ma mentre molti narcisi si limitano a “narciseggiare” per il resto della vita, Tolstoj in qualche modo è riuscito a capovolgere il proprio narcisismo in una straordinaria espansione della sensibilità, una specie di empatia totale con il mondo. Quando parla di un soldato morente è un soldato morente, quando descrive la toeletta di una donna è una donna, e riesce persino a entrare nella pelle di un animale, anzi si direbbe anche nella misteriosa sensibilità di una pianta. Per questo già i contem-poranei notavano che, dopo aver letto Tolstoj, i suoi personaggi - anche per la sua diabolica cura del dettaglio, che non è tanto realistico quanto simbolico, ed è un mezzo per stabilire un rapporto con l’anima del protagonista - entrano nella nostra vita, nei nostri ricordi come le persone che abbiamo conosciute da vicino. Il suo talento è talmente clamoroso che, fin dalle sue prime opere - non a caso, autobiografiche - Infanzia e Adolescenza (1852-54), viene salutato come un protagonista della scena letteraria russa, alla pari con grandi già affermati come Turgeniev. E tuttavia, il mondo letterario non diventa mai il suo mondo: a lui non interessa tanto la letteratura in sé quanto ciò che la letteratura può dare per cambiare in meglio la vita degli uomini; come non gli interessa neppure la scienza (dei cui sviluppi è peraltro attento e curioso osservatore) quanto l’unica “scienza di come bisogna vivere”, cui riporta continuamente ogni questione intellettuale per quanto complessa. Essere un grande artista non gli basta: quello che vuole fin dall’inizio è la verità-nella-vita, essere un uomo vero, non essere approvato dagli altri ma da se stesso. Quando negli ultimi decenni della vita parla delle sue grandi opere come “bazzecole”, è ingiusto verso l’arte e verso se stesso, ma intanto continua a scrivere, sia

pure non per amore dell’arte ma per la causa del bene e della giustizia; diversamente da Rimbaud, non rinnega il proprio genio ma lo supera in un orizzonte più universalmente umano. L’ansia di perfezionamento morale è infatti il filo rosso che percorre tutta la sua vita. Abbiamo detto dei suoi propositi più o meno disattesi di miglioramento: ma il “perfezionare se stesso” rimase, tra alti e bassi, la stella polare della sua vita, non in opposizione, ma come tutt’uno con il servizio degli altri: “riguardo alla morale ho fermamente deciso di dedicare la mia vita al servizio del prossimo”. Addirittura, in un’annotazione del 1854: “per l’ultima volta mi dico che, se passeran-no tre giorni senza che io abbia fatto qualcosa di utile per gli altri, mi ucciderò”. E in una lettera del 1857 alla cugina Aleksandra (l’unica donna con la quale sentirà di avere un rapporto alla pari sul piano intellettuale) teorizza un ideale di vita eroico nel quale la ricerca della felicità sembra una debolezza: “L’eterna inquie-tudine, il lavoro, la lotta, le privazioni, sono condizioni imprescindibili da cui nessun uomo, neppure per un istante, può pensare di poter uscire. Soltanto una onesta inquietudine, la lotta e il lavoro, fondati sull’amore, sono quel che si chiama la felicità. Ma che felicità! E’ questa una parola stupida; non felicità, ma ciò che è bene; e invece una disonesta inquietudine, fondata sull’amore di sé: questa è l’infelicità…”. Già negli anni della giovinezza gli si delinea l’idea di un’opera immensa, alla quale si sente capace di dedicare tutta la vita: “Si tratta di cercare una nuova religione che sia più conforme allo sviluppo dell’uma-nità: una religione di Cristo, ma purificata di tutti i dogmi e misticismi, una religione pratica che non prometta la beatitudine eterna, ma ce la procuri in questo mondo”. Ma in questi stessi anni la sua vita è tutt’altro che coerente con tali alti ideali: sono infatti anni abbastanza scapestrati, spesi tra studi non terminati, il servizio militare con tanto di bravate e scherzi da caserma, donne e debiti di gioco, (ma da questa esperienza usciranno anche i Racconti di Sebastopoli del 1855, che lo rendono noto a un più vasto pubblico): una condotta della quale il vecchio Tolstoj non finirà mai di pentirsi in pubblico. Ma gli anni della scapigliatura arriveranno ad una conclusione: prima nel 1859-61 con il suo impegno di educatore nei confronti dei bambini di Jasnaja Poljana, poi soprattutto con il matrimonio con la giovanissima Sofia Bers, la quale gli darà nientemeno che quattordici figli. E’ allora che l’irrequieto Tolstoj “mette la testa a posto” come si suole dire, anzi crede di avere trovato una risposta alla domanda sul senso della vita che egli condensa nella formula “tutto il meglio per me e per la mia famiglia”, e protetto anche dalla servizievole collaborazione della moglie, attenta amministratrice oltre che segretaria scrupolosa, pone mano alle titaniche imprese letterarie che lo renderanno famoso nel mondo.

Alberto Bosi (continua sul prossimo numero)

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Note sulla crisi greca, con le parole di uno dei suoi protagonisti

Not with tanks but with banks “Non con i carri armati ma con le banche”

La Grecia è come il canarino nella sua gabbietta che i minatori si portavano nelle gallerie. Se l’uccellino moriva, questo era il primo segnale di pericolo per la presenza di un gas letale che li avrebbe uccisi. Ma non è il canarino a causare la morte dei minatori. Con questa risposta alla domanda posta da Fabio Fazio sul rischio di contagio della crisi greca nell’Eurozona, Yanis Varoufakis ha concluso la sua intervista nel programma di RAI3 “Che tempo che fa”, domenica 20 settembre. Nel suo solito stile, come lo è stato tutto il suo intervento alla tra- smissione: originale, vivace, diretto, sem-pre con una punta si sana ironia, che a tratti diventa pungen-te sarcasmo. Economista e profes-sore universitario, ha insegnato in Inghil-terra, in Australia e in Grecia. Ministro delle Finanze nel primo governo Tsipras, ha smesso di esserlo dopo il Referendum con cui a luglio il popolo greco, con una maggioranza del 62%, aveva detto NO (il famoso OXI) alle misure che l’Europa intendeva imporre al Paese per non farlo fallire e consentirgli di rimanere nella moneta unica. Tre giorni dopo, Alexis Tsipras, ha firmato quegli stessi accordi ai quali aveva chiesto al suo popolo di dire no. Nell’intervista Varoufakis ha detto di aver dato le dimissioni perché non si sentiva di accettare, proprio come ministro delle finanze, di mettere in atto provvedimenti che riteneva ingiusti e contropro-ducenti. Come potevo sottoscrivere un nuovo prestito di 80 milioni di euro che sapevo non restituibile, e che

avrebbe soltanto aggravato la nostra situazione, già disastrosa. In un’Eurozona nata da una progettazione errata e inadeguata, è stata provocata una crisi da lui definita necessaria, per negare il fallimento e mettere i Paesi più deboli, in generale quelli del Sud Europa, uno contro l’altro, dove la Grecia è stata considerata solo un trascurabile effetto collaterale. La Grecia è stata lasciata sola da Paesi che, come Francia, Italia, Spagna, Portogallo, si trovano ancora a

rischio, ma hanno scelto la sudditanza ai più forti, di marcare la distanza da un riprovevole e riottoso governo di sinistra, che andava comunque abbattu-to. Ha commentato Varoufakis: quando si è in campo, sareb-be bene colpire la palla, non i giocatori della stessa squadra. Una guerra tra poveri è sempre stata l’arma fomentata dai cinici potenti di turno per speculare, arricchirsi e tenere subalterni i popoli, in particolare quelli che osano ribellarsi e resistere. Continua l’ex mini-stro: applicando un po’ di logica, solo questo, si dimostra che la concorrenza non è produzione e che per arrivare a un surplus commerciale

del 10%, come quello della Germania, la Grecia dovrebbe mettersi in affari con l’intera galassia! Le elezioni di gennaio 2015 hanno dato la vittoria e il governo del Paese a un leader e un partito che prometteva di dire di no ai dettami feroci dell’Europa, di salvare la Grecia dalla dittatura della troika (organismo informale, costituito da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario

non perdiamoci di vista… 11

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internazionale, l'insieme dei creditori ufficiali per i negoziati sul debito). Poi, dopo la scelta di non proseguire il negoziato, di dimissionare il suo sgradito ministro, di rinunciare a una lotta durissima e impari, è stato letteralmente obbligato a dire di sì, con tutti i mezzi di pressione possibili, che hanno rasentato il ricatto e la tortura psicologica. Ma allora perché Tsipras e il suo partito hanno stravinto le elezioni del 20 settembre? Perché Alexis è una brava persona, un uomo onesto, che ha a cuore il suo popolo, e cercherà di fare il possibile per salvaguardarlo in qualche modo. Secondo l’ex-ministro, una missione impossibile; ma se devi essere torturato, preferirai un torturatore entusiasta o uno riluttante? Quest’uomo carismatico, senz’altro affascinante, scomodo e spigoloso, ha condotto per 5 mesi le trattative con l’Europa, con una determinazione, un coraggio, una resistenza che hanno destabilizzato un gruppo di supponenti burocrati, convinti di trovarsi di fronte l’impaurito ministro di un Paese debole, stremato da anni di austerità, sacrifici, recessione, in mano a governi corrotti e bugiardi. In poco tempo è diventato la bestia nera dell’Eurogruppo, detestato da tutti se non addirittura odiato, in particolare dal ministro tedesco Schäuble, che non ha tollerato la sua mancanza di arrendevolezza e sudditanza e di trovarsi come avversario un uomo dal “pugno di ferro in guanto di titanio”. Tutto questo viene da lontano, dall’appartenenza a un popolo fiero, a una terra antica che tutti riconoscono come culla della nostra civiltà, dalla com-passione, dalla solidarietà e dalla coerenza che anima chi deve le sue scelte etiche e politiche a un contesto di vita nazionale e famigliare problematico e che comprende e condivide le traversie dei suoi connazionali, della sua gente. Nell’estate del 2013, Yanis Varoufakis ha pubblicato sul suo blog tre brevi “Racconti d’estate”, ispirati, come lui stesso scrive, dai semplici racconti di una settimana passata dalla sua famiglia su qualche spiaggia del Peloponneso, nell’estate del 1943. Mia madre era stata malata di tubercolosi e mia nonna pensava che sarebbe stato d’aiuto se avesse trascorso qualche tempo vicino all’acqua di mare, lontano dal pozzo nero di dolore e malattia che era Atene occupata. Le storie liriche di mia madre, dei piccoli piaceri che hanno apprezzato su quella spiaggia soleggiata, nonostante le loro pance vuote e il buio che avvolgeva la nazione, hanno assunto un significato immaginario della mia infanzia che è ancora con me. Sto trascorrendo, mentre scrivo, gli ultimi giorni di estate, prima di tornare negli Stati Uniti, a Egina – la nostra isola santuario greco. Non è il 1941, non è il 1943. Il brusio dei ristoranti è il consueto brusio di mezza estate, il mare è blu come non mai, i traghetti trasportano turisti fugaci. E tuttavia, la Grecia è nella

morsa di una calamità che chi ha vissuto il 1940 pensava non avrebbe mai dovuto vivere di nuovo. Ma devo desistere. Questo non è il posto per analisi e argomentazioni in relazione alla nostra catastrofe greca contemporanea. Questo è un pezzo di brevi racconti estivi. Quindi, mi permetto di raccontarvi tre di queste storie. Sono storie semplici, di ordinaria quotidianità, narrate in sintonia con queste caratteristiche, lontane da retorica e autocommiserazione. Eccone una, che s’intitola Hellenikon. I lettori di questo blog non hanno bisogno di ricordare l’emergenza umana nel sistema sanitario pubblico della Grecia, dopo il fallimento dell’appa-rato statale. E neppure sono inconsapevoli della corruzione che affligge il nostro servizio sanitario. Quello di cui non possono aver sentito parlare, tuttavia, è la storia ‘dall’altra parte’: quella eroica. (Sì, ce n’è sempre una!). Hellenikon, che significa ‘greco’, è un sobborgo meridionale di Atene, la zona del vecchio aeroporto di Atene. A Hellenikon si può incontrare il volto benevolo della crisi. Diversi medici del settore pubblico, infermieri e operatori hanno istituito un Centro medico, dove trascorrono il loro tempo libero, gratuitamente, per la fornitura di servizi medici, anch’essi gratuiti, a tutti quelli che arrivano e ne hanno bisogno. Il Centro sta guadagnando una reputazione eccellente per la velocità nelle cure mediche e per un vero spirito umanitario. Carovane di greci, di migranti, i locali e le persone di altre città vengono a Helleni-kon per il trattamento, per farmaci che non posso-no permettersi altrimenti, e anche per conforto. Sorprendentemente, anche se il Centro cerca il sostegno di chiunque abbia voglia di assistere, rifiuta a bruciapelo le donazioni in denaro. Se volete aiutare, c’è chi vi darà un elenco dei far-maci di cui hanno bisogno; chi pubblicherà on line una richiesta di toner per le loro stampanti e fotoco-piatrici; chi chiederà alle persone di aiutare i pazien-ti nel trasporto in macchina o forse di fornire loro un mini-bus. Ma non accetteranno contanti, come un segnale al mondo che la loro è una forma di azione incontaminata, di pura solidarietà. I medici e gli operatori responsabili di questo miracolo di umanità sono, comunque, profondamente gratificati. Uno di loro mi ha raccontato, quasi in lacrime, di una telefonata ricevuta. Veniva da una donna il cui marito era appena morto di cancro. La sua richiesta? Che qualcuno dal Centro fosse andato a casa sua a prendere i suoi farmaci chemio. “Lui non avrebbe voluto che questi fossero buttati nei rifiuti, quando così tanti malati di cancro non possono permetterseli”.

Claudia Filippi

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Appunt i su un viaggio in Grecia

Solidarity4all ad Atene La ‘Caritas’ di Syriza. Politica ed assistenza, ma prima la persona

A inizio settembre, in “missione” per Italia-Grecia di Cuneo, ho avuto una serie di incontri ad Atene con varie realtà di Solidarity4all, la rete sociale legata a Syriza, che coordina vari movimenti di base per fronteggiare l’emergenza in Grecia su vari fronti (acqua, elettricità, casa, salute …). C'era la campagna elettorale, che faceva largamente prevedere una larga astensione e il centro di Atene sommerso da un’ondata sempre ricreantesi di profughi siriani (in netta prevalenza), afgani e pachistani trasportati in ferry dalle isole in città perché prendessero il pullman per emigrare a nord. Per le loro caratteristiche (di passaggio e con qualche soldo in tasca) non sembravano suscitare particolare rigetto da parte della popolazione, né sollecitavano le varie organizzazioni umanitarie a specifiche iniziative di solidarietà. C'era anche tanta gente che dormiva per strada e andava alle mense, ma la presenza così debordante dei profu-ghi e l'essere Atene una metropoli - e dunque ‘normale’ la presenza di drogati, barboni, ecc. - non lasciavano individuare a occhio nudo il degrado della situazione sociale. Comunque, a parte le statistiche, tutti quelli con cui ho parlato mi hanno confermato un progressivo impove-rimento della popolazione.

Le attività

Nei diversi incontri, l'accoglienza è stata fantastica; a volte, stante le difficoltà dell'inglese un po' zoppicante, c'era pure l'interprete. I centri di solidarietà che ho visto io, che poi sono un campione delle tipologie più presenti nel paese, sono di: assistenza alimentare (i più numerosi - in tutta la Grecia circa 300 - consegnano una “borsa della spesa” con scadenze regolari, a cui contribuiscono i super-mercati, spesso i panettieri; per l’olio se la cavano con qualche sottoscrizione; qualche volta viene allestita anche una mensa); spesso sono accompagnati da distribuzione di vestiti, da attività scolastiche, culturali, ricreative.; servizio di farmacia (richiestissimo), dentistico e medico (non sempre associati). Ho però sentito parlare di tante altre attività che si fanno carico dei problemi più vari della vita quotidiana.

Tanti poveri, tanti volontari, niente soldi C’è tanto bisogno, ci sono tanti volontari, ma nessun soldo (salvo qualche contributo dai parlamentari di Syriza), sullo stato non c’è da contare e la situazione economica ad oggi continua a peggiorare. Le associazioni, assai radicate, si muovono su base territoriale senza distinzione di alcun tipo tra chi ne richiede l’aiuto; i volontari rivendicano il legame strettissimo che hanno per loro solidarietà e impegno politico (sono tutti per Syriza) ma specificano con

forza che, al di là della questione politica, il loro è un apporto volontario con moti-vazioni in primo luogo uma-nitarie. Rispetto alla Chiesa, che si muove anch’essa, mi pare che i volontari di Solida-rity4all vadano in parallelo, senza avere o cercare alcun dialogo, anche se in genere si dichiarano religiosi. Le loro sedi sono povere ma pulite, adeguate nella dimensione, talora in locali

pubblici, spesso totalmente trasformate nella struttura dal lavoro volontario. Anche realtà grandi spesso sono nate dal lavoro di pochissime persone, a volte di un singolo. Un sorriso, un caffè

Ti accolgono con il sorriso, il caffè, la bottiglietta d’acqua - i 38° la rendono molto gradita! -, un dolce; mi è sembrato un sogno rispetto all’atteggiamento ringhioso o trascurato di tante sedi sindacali e di partito italiano. Volontari compilano una scheda per ogni intervento, anche perché chi ci lavora ha ben chiaro che prima di ogni specifico servizio è la persona intera che va accolta e aiutata; gli “utenti” sono invitati a collaborare e talora lo fanno, e in tutta naturalezza (forse anche perché la povertà è diventata naturale in Grecia). È forte la ricerca di un rapporto con gli stranieri, e non solo per pubblicità e per la speranza di aiuti. Di aiuti hanno comunque bisogno: mi ha colpito che in un laboratorio medico dentistico appena aperto le uniche attrezzature presenti, in parte usate, venissero da Francia e Germania e un po’ di soldi (a livello di mille euro …) da due italiani che erano andati a trovarli.

Carlo Masoero

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Dormendo con gli erbicidi I rischi incalcolabili di un modello agroalimentare basato

sulle sementi transgeniche e sui prodotti agro-tossici L’Agenzia Internazionale per l’Investigazione sul Cancro (IARC), settore specialistico dell’OMS (Orga-nizzazione Mondiale per la Sanità), si è finalmente decisa - alcuni mesi fa - a confermare lo stretto vincolo fra l’erbicida glifosato e il cancro, affermando che produce danni genetici nelle persone. Varie organiz-zazioni sociali e scientifiche indipendenti, non vinco-late alle “sei sorelle”, le multinazionali che hanno in mano la produzione delle sementi transgeniche e dei prodotti agro-tossici - Syngenta, Bayer, Basf, Mon-santo, Dow e DuPont - hanno dato il benvenuto alla decisione tremendamente ritardata dell’OMS. La Monsanto è la creatrice e la maggior produttrice di glifosato, l'erbicida più utilizzato al mondo sotto il marchio commerciale di Roundup. Entrato nel mercato negli anni 80 del secolo scorso, la sua utilizzazione è cresciuta a dismisura, soprattutto da quando in Ame-rica Latina sono iniziate le colture intensive di soia, mais e cotone con sementi geneticamente modificate. I Paesi più colpiti: Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay. La Monsanto ha definito il rapporto dello IARC "scienza spazzatura" e non si è fatta scrupoli nel chiedere all'Organizzazione Mondiale per la Sanità il ritiro del rapporto. Per troppo tempo questa multina-zionale era riuscita a far oscillare dalla sua parte il pendolo degli studi e delle ricerche scientifiche relative agli organismi geneticamente modificati e agli erbicidi, pagando cifre astronomiche a sedicenti scienziati ed esperti che continuavano a pubblicare studi fasulli relativi alle conseguenze innocue di tali veleni. Da oltre dieci anni varie università argentine e brasi-liane portano avanti studi epidemiologici e verifiche sul terreno, relativi alle conseguenze prodotte dall’alta concentrazione del magazzinaggio di cereali transge-nici e della fumigazione con i pesticidi. Il risultato unanime è che nella popolazione che vive nelle zone della coltivazione di soia transgenica e della fumigazione con il glifosato vi è un’incidenza cinque volte maggiore di casi di cancro rispetto alla comune. Un gruppo di scienziati dell’Università francese di Caen, nel 2005, aveva scoperto e denunciato il fatto che le cellule della placenta umana e animale sono fortemente sensibili al Roundup, dimostrando come la sua formula (a base di glifosato) uccide un’enorme quantità di queste cellule dopo appena 18 ore di esposizione a concentrazioni ben inferiori a quelle usa-te negli erbicidi agricoli. Conseguenze: parti prematuri e aborti. Qualche anno fa, in Polonia, il mais transgenico BT della Monsanto è stato accusato dagli apicoltori di

essere la causa dello sterminio di intere colonie di api. Nel maggio 2012 il governo polacco ne ha proibito la coltivazione. Prevedendo che questo sarebbe potuto succedere, la Monsanto - con la sua schiera di ricerca-tori le cui conclusioni sono assolutamente top secret - nel settembre 2011 ha comprato la prestigiosa azienda Beelogistics, specializzata nelle malattie delle api. Controllando le operazioni e le relazioni tecniche di questa azienda, ha potuto proteggere il suo mais transgenico dall’effetto cascata che la sanzione del go-verno polacco avrebbe potuto provocare in altri paesi. Nel frattempo, la moria delle api in Europa è continuata come una vera piaga, senza che venissero prese misure serie e unanimi contro la Monsanto. La “patria grande” della soia è formata da Brasile, Argentina, Paraguay, Bolivia e Uruguay. I 5 paesi contano una superficie totale di circa 50 milioni di ettari coltivati a soia transgenica, vale a dire che quasi il 50% delle terre coltivate ha un’unica destinazione: la soia. Si tratta del pilastro di un modello più ampio: gli agro-affari. La coltivazione di soia transgenica è avanzata in tutti i paesi in modo esponenziale, il che ha implicato il disboscamento di territori sempre più ampi, la diminuzione di altre coltivazioni, ha incrementato notevolmente l’uso di agro-tossici e i cinque paesi hanno posto ampi settori del loro territorio a disposizione delle necessità dell’Europa e dell’Asia. Sono dati di un rapporto pubblicato a fine 2012 dal Centro per la Biosicurezza della Norvegia, “Produzio-ne di soia in America Latina: attualizzazione sull’uso della terra e dei pesticidi”. L’investigazione fa notare un altro fattore deter-minante: l’aumento della concentrazione delle pro-prietà terriere in mano a pochi proprietari. L’intenso processo di industrializzazione della produzione (se-menti transgeniche, agro-tossici, macchinari) implica l’incremento della capacità di investimento dei produt-tori e la conseguente progressiva marginalizzazione dei piccoli agricoltori. A motivo della resistenza al glifosato, è stato implementato un nuovo erbicida molto più potente: il Paracquat, sviluppato dalla multinazionale svizzera Syngenta. Nel 2007 tale pesticida è stato proibito in tutta l’UE. Ciò non toglie che venga usato nel Cono Sud latinoamericano per la produzione della soia, che verrà poi esportata in Europa quale alimento degli animali e per i biocombustibili. Conclude quindi il rapporto: “Il fabbisogno di soia in Europa ha un impatto sulla dinamica dell’utilizzo delle terre e dei pesticidi in America del Sud.

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Esistono perciò standard differenti di protezione ambientale e salute pubblica fra i luoghi dove sorge la domanda e dove si producono le commodities”. Il cocktail a base di glifosato, con cui si aspergono via aerea i campi di soia e di mais transgenici, viene ogni volta reso più velenoso, per il fatto che in pochi anni sono già 10 i tipi di graminacee che si sono adattate all’erbicida. Tutte queste sostanze altamente velenose arrivano a contaminare le persone per varie strade: le particelle contaminate del terreno che il vento trasporta, le falde acquifere in cui con il tempo tali pesticidi penetrano. Ed infine arrivano sulle nostre tavole, attraverso gli alimenti di cui ci nutria-mo. È emblematico il caso di fotografie di stomaci di maiali o di mucche nutrite con soia transgenica o con soia normale. La Monsanto è stata fondata nel 1901 da John Francis Queen, e la sua prima attività famosa è stata quella della vendita della sac-carina alla Coca Cola. Da allora ha prodotto e venduto centinaia di sostanze chimiche, fra cui il DDT e l’Agente Arancio (un erbicida altamente velenoso, vera e propria arma chimica, usata nella guerra del Vietnam). Ha contri-buito alla creazione delle prime bom-be atomiche e allo sviluppo di prodotti plastici e di elettronica ottica. È stata la pioniera nel 1982 nel settore dello sviluppo di organi-smi geneticamente modificati. A motivo di tutto ciò, una riconosciuta e apprezzata ONG degli Usa, Natural Society, ha dichiarato la Monsanto come “la peggiore azienda dell’anno 2011”, per il fatto che minacciava “la salute umana e l’ambiente”. Per produrre un chilogrammo di fagioli di soia, la pianta utilizza fra i 1.500 e i 2.000 litri d’acqua. Una ricercatrice argentina ha pubblicato una statistica significativa: per ogni nave che parte da un porto dell’Argentina o del Brasile con un carico di 40.000 tonnellate di soia, dirette in Europa o in Asia, vengono esportate circa 3.600 tonnellate di elementi

nutritivi, quasi il 10% del totale del carico. Ha quindi disegnato un grafico delle perdite per il paese esportatore: ci vorrebbero 300 camion per caricare gli elementi nutritivi che si esportano in ogni nave. E fa notare come, ogni 3 unità di elementi nutritivi persi, viene recuperata una sola unità, vale a dire appena il 37% di quanto perde il terreno, con una perdita esponenziale degli elementi nutritivi. E siccome tali elementi devono essere rimessi nel terreno attraverso i fertilizzanti, come i fosfati, si comprano all’estero. Uno dei maggiori produttori

mondiali di fosfati è il Marocco, dove il governo ha colonizzato in modo violento i territori del popolo del Sahara Occidentale - Saharawi - per poter sfruttare senza ostacoli le loro enormi riserve di fosfati. Questo modello agro-alimentare basato su sementi transgeniche e prodotti agrotossici - in cui il ruolo delle “sei sorelle” è determinante, non senza la complicità dei governi di turno e della lobby trasversale dei latifondisti - è stato denunciato presso il Tribunale Permanente dei Popoli a Bangalore, in India, nel dicembre 2011. Il verdetto ha sentenziato che si tratta di un modello agro-alimentare che implica una chiara “ingiustizia globale”, in cui “sei

transnazionali sono responsabili per la violazione sistematica e ampiamente diffusa del diritto alla salute e alla vita, dei diritti economici, sociali e culturali, così come di altri diritti politici e civili, e di quelli delle donne e dei bambini”. Malgrado tutto, sono così poderose le sei sorelle, e sono così enormi gli interessi economici in gioco, che la maggior parte dei governi tanto del Nord come del Sud del mondo continuano impunemente ad etichettare come “ecologicamente sostenibili” ed “economica-mente risolutivi” della questione della fame nel mondo, dei prodotti fitosanitari le cui conseguenze sulla salute umana e animale e sull’ambiente nessuno è in grado di prevedere. O non si vuole prevedere. Sarebbe troppo alto il costo. La storia insegna …

Claudio Mondino

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Eppure Per gli incolori che non hanno canto neppure il grido, per chi solo transita senza nemmeno raccontare il suo respiro, per i dispersi nelle tane, nei meandri dove non c'è segno, né nido, per gli oscurati dal sole altrui, per la polvere di cui non si può dire la storia, per i non nati mai perché non furono riconosciuti, per le parole perdute nell'ansia per gli inni che nessuno canta essendo solo desiderio spento, per le grandi solitudini che si affollano i sentieri persi gli occhi chiusi i reclusi nelle carceri d'ombra per gli innominati, i semplici deserti:

fiume senza bandiere senza sponde eppure eterno fiume dell'esistere.

Pietro Ingrao

Uomo del dubbio e della poesia Infine se n’è andato Pietro Ingrao. Qualcuno ha scritto oggi “sipario su una storia ormai chiusa”, quella del PC, di cui è stato esponente di spicco fino allo scioglimento, ancorché “eretico”, come era spesso definito. Lo ricordiamo piuttosto come “uomo del dubbio”, aspetto che più di altri ce lo ha fatto sentire così vicino: “È una dimensione essenziale che sta al centro della mia esperienza. Se dovessi dare una definizione di me stesso, la prima cosa che direi è: la pratica del dubbio. Penso che è una delle poche cose che ho realizzato. Mi differenzia moltissimo da molti dei miei compagni. È quello che salvo di me, ma anche quello su cui sono

stato poco compreso” (intervista pubblicata sul Manifesto 29/3/2010). Dubbio e ricerca che non hanno mai paralizzato l’azione: “Io sento penosamente la sofferenza altrui: dei più deboli, o più esattamente dei più offesi. Ma la sento perché pesa a me: per così dire, mi dà fastidio, mi fa star male. Quindi, in un certo senso, non è un agire per gli altri: è un agire per me. Perché alcune sofferenze degli altri mi sono insopportabili” (lettera a Goffredo Bettini,1992). Ma anche “uomo di poesia”: “Mi rivolgo alla poesia per dare tutta la polivalenza dell’esperienza umana, la combinazione dei miei interessi e delle mie passioni. Non solo la narrazione prosastica di quello che abbiamo fatto, ma la risonanza interiore, che ha accompagnato il mio cammino. Questo dà la poesia”. (Intervista 2010) Luigi Dalmasso, di cui ricorre a giorni il 4° anniversario della morte, ne avrebbe scritto con ben altra profondità: molte sensibilità lo accumunavano al “grande vecchio”. Ieri, letta la notizia, Roberta mi ha scritto in un messaggino “stasera papà sarà in buona compagnia”.

Mariella Cattero

Guerra al terrore 1milione e 300mila morti per la “guerra al terrore”. È il dato che emerge da un rapporto redatto da tre gruppi di scienziati, tra i quali gli International Physicians for the Prevention of Nuclear War, la federazione di medici che nel 1985 si è aggiudicata il Nobel per la pace per “aver creato consapevolezza sulle catastrofiche conseguenze di una guerra nucleare”. Le missioni militari avviate nel 2001 da Bush avrebbero “ucciso direttamente o indirettamente circa un milione di persone in Iraq, 220.000 in Afghanistan e 80.000 in Pakistan, un totale di circa 1 milione e 300 mila persone”, soprattutto civili. Si tratta di una stima che, pur escludendo altri paesi coinvolti nella guerra al terrore, come lo Yemen e la Somalia, e “nonostante sia al ribasso”, “è 10 volte superiore rispetto a quella di cui è consapevole il pubblico, gli esperti e i decisori politici e rispetto a quella diffusa dai media e dalle principali organizzazioni non governative”. Barak Obama, anche lui premio Nobel per la pace, si è indignato per la facilità di accesso alle armi negli Stati Uniti, che rende possibile stragi come quella della chiesa di Charleston, ma dimostra meno sensibilità quando le armi vengono usate altrove. È lui che ogni settimana approva la “kill list”, l'elenco dei condannati a morte segretamente con l'accusa di terrorismo. Ad eseguire la sentenza di morte saranno, nella maggior parte dei casi, droni telecomandati. Dal 2004 all’ottobre del 2012 i pachistani eliminati con questo strumento sono stati tra i 2.318 e i 2.912, “la maggior parte di loro civili”.

Sergio Dalmasso

Tavolo delle Associazioni - Cuneo

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n. 4 (167) – ottobre il granello di senape pag. 32

«Al posto degli uomini abbiamo sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l'assillo dei riequilibri contabili». (Federico Caffè)

«Abbiamo conquistato il cielo come gli uccelli e il mare come i pesci, ma dobbiamo imparare di nuovo il semplice gesto di camminare sulla terra come fratelli». (M. L. King)

Ode alla normalità (come dimensione trascendente)

Nel susseguirsi delle cose sempre uguali e, alla lunga, conosciute, è tranquilla pace. Questa io cerco, in un'esistenza che invece la incalza e non la trova. Ci sarà? Ci sarà una tale situazione regolare, normale, banale anche, o non sarà una mia illusione, fugace amen, preludio di sconvolgimenti ulteriori, imprevedibili, di colpi di scena, appunto, osceni? Dove la quiete se punto non è solo punto, retta non è solo retta, cubo non è solo cubo, vuoto non è solo vuoto? Se né tempo, né spazio possiedo e capisco? Quale la terza dimensione, quella che fa il volume, il tuttotondo della vita, anzi la sfera, figura reale, perfetta? Quale la completezza, minuto dopo minuto, nei vari minuti che impiego per creare oggetti, pensieri, per catturare il visibile? Quale la curva relativa, gomitolo arrotolato di iper-grandezze, che si sviluppa nella musica di cui vibro dato che nulla è più

calcolabile, definito, tangibile? Forse la conoscenza è il filo che cuce e tesse la trama? Conoscenza, apertura al mistero, convinzione di esistenze altre, oltre, altrove. Palla che dall'esterno m'ingloba è la fede ultraterrena, la stessa che in simultanea arde in me, nel mio intimo, nascosta al raziocinio. Un continuo rimbalzo, un unicum. Insieme germoglio che cresce nelle radici (e spacca il terreno e lo ferisce con solchi che s'aprono verso il basso e si perdono nelle viscere) e albero che ristora con la sua ombra gaia, (e abbraccia con la sua fronda che volge al cielo e accarezza e nutre). Unica dimensione sopportabile è la normalità, quando naturale vien procedere senza domandarsi la meta, dove facile rimane credere che ogni cosa ha inizio e fine. Che nulla ha inizio e fine. Che tutto diviene. Che tutto è fermo. Che tutto si dilata, causa la prospettiva. Che l'eternità è per ogni istante l'infinito per ogni punto il suono per ogni silenzio. Pure per quello in cui io sono, punto, istante, silenzio, e che, così maldestramente, amo.

Cecilia Dematteis

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n. 4 (167) – ottobre il granello di senape pag. 33

Il costruttore di mulini a vento E’ sorprendente quello che è accaduto in seguito alla marcia dei profughi nei Balcani. In pochi giorni abbiamo avuto un’altra idea di Europa, di Germania, perfino della Merkel, un’altra idea anche dei migranti, tornati ad essere persone, un’altra idea dell’opinione pubblica europea, o almeno di una parte di essa. Le idee, come le emozioni, e specialmente se dettate dalle emozioni, potrebbero essere effimere, momen-tanee. Potremmo illuderci che quel che è successo cambi qualcosa in modo definitivo nella politica europea, ciononostante i segni dei tempi segnano una rottura con il passato. I frutti non sappiamo ancora se saranno abbondanti o miseri, dolci o acerbi; comunque qualcosa di importante, non prevedibile né scontato, è avvenuto. “Quando soffia il vento del cambiamento, alcuni costruiscono dei ripari ed altri costruiscono dei mulini a vento”: trovo questo proverbio cinese estremamente attuale e adatto a ciò che sta accadendo. Si alzano muri, si mettono barriere di filo spinato, si inveisce spaventati verso i migranti, si lanciano lacrimogeni, si usano spray urticanti persino sui bambini, si lasciano partorire donne senza assistenza, si bloccano treni e frontiere europee… e poi alcuni costruiscono “mulini a vento” per utilizzare la nuova energia per vedere oltre, per trasformare l’inevitabile che bussa alla porta della Storia e delle loro vite, in qualcosa di utile per tutti, di bello per tutti. Finalmente qualcuno mi ha stupita. Sono ungheresi, austriaci, tedeschi, italiani e altri ancora, che stanno accogliendo i profughi con un applauso, con un sorriso, con una bottiglietta d’acqua, un panino, un abito o una coperta. Sono quelli che sanno passare dalla preoccupazione per sé alla solidarietà verso l’altro, quelli la cui paura si scioglie in una festa, quelli che sentono che la Storia sta bussando alla porta chiedendo di uscire dall’indifferenza e schierarsi, quelli che prima delle regole mettono la coscienza, rischiando del proprio, come chi è andato con l’auto a prendere i profughi che camminavano verso Monaco. Qualcuno dice che è stata una foto a scatenare la compassione e poi la solidarietà, quella di Aylan, 3 anni, morto annegato mentre, con altri migranti, da Bodrum cercava di raggiungere l’isola di Kos. Qualcuno potrebbe obiettare che, prima di questo, di bimbi ne erano morti tanti e nulla era mutato, o che ormai il potere della comunicazione è immenso e ci fa provare sentimenti ed emozioni a suo piacimento, così come è anche capace di renderci assolutamente insensibili. Tutto questo è vero, ma credo anche che ci siano processi psichici e sociali che prima si muovono in modo sotterraneo e poi un evento catalizzatore, razionalmente non più eclatante di altri ma fortemente simbolico, li faccia emergere.

Credo anche che il cambiamento sia stato in gran parte dovuto alla marcia coraggiosa dei profughi, alla loro resistenza nei confronti di governi senza scrupoli come quello ungherese: è diverso, anche se non dovrebbe, vedere in tv migranti disperati scendere da un gommone o da una nave su un’isoletta come Lampedusa o in uno dei nostri porti, circondati subito da poliziotti, medici e volontari, e invece vederli a migliaia camminare sulle autostrade d’Europa, accamparsi nelle piazze, nelle stazioni. E’ diverso vedere le madri preparare un letto di fortuna per i loro figli sul marciapiede o in un’aiuola delle nostre ricche città, vederle lavare con dignità i panni alla fontana più vicina, stringere i più piccoli al petto per difenderli dalle cariche della polizia, riparandosi dietro i mariti o i fratelli. In questi casi, quei corpi, che appaiono a molti fantasmi senza storia che vogliono venire a portarci via qualcosa, diventano persone, come noi, solo più sfortunate, e l’identificazione che porta all’empatia scatta più facilmente. Qualcuno comincia a pensare che potrebbe essere lui quel professore di inglese che spera in un futuro in Germania per la sua famiglia, quella ragazza che vorrebbe studiare medicina, o quell’anziano che ha lasciato tutti i suoi ricordi e la sua patria distrutta per finire i suoi anni in pace, sapendo al sicuro i nipoti. E’ qui che i primi “costruttori di mulini a vento”, o forse dovremmo dire “costruttori di ponti”, escono allo scoperto e cominciano a operare, e altri li imitano perché si accorgono che la solidarietà, uno sguardo di gratitudine, un sorriso di ringraziamento, la consape-volezza di aver aiutato o salvato qualcuno, rendono più felici di qualsiasi confort, acquisto, divertimento o altro di tutto ciò che la nostra civiltà può offrire. Poi ci sono i politici, quelli che spiano gli umori della gente, pronti a cavalcarne l’onda o, talvolta, anche ad attendere che il vento muti direzione per fare ciò che hanno sempre saputo essere giusto, o conveniente (considerando che l’Europa, a causa della bassa natalità, entro il 2060 avrà bisogno di 250 milioni di immigrati), ma che temevano di proporre ad un’opinione pubblica impaurita e razzista, perché quello che conta più di tutto è il consenso. Anche questa volta abbiamo capito quanto conti l’opinione pubblica, quanto possa far mutare le cose in bene o in male; abbiamo capito quanta responsabilità abbiano i mass-media, il mondo dell’informazione, i giornalisti. Una parte d’Europa questa volta ha battuto un colpo, coerente con la sua storia, la sua civiltà e i suoi valori troppo spesso presenti solo sulla carta e traditi completamente nella realtà; quest’Europa che potrebbe, unita, diventare un esempio per tutti, un modello. Purtroppo non si vedono ancora cambiamenti significativi nella politica estera, e non certo possono

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n. 4 (167) – ottobre il granello di senape pag. 34

Così sia Così possa avvenire, forse

Così possa avvenire forse che i vapori che salgono dalle radici all’ultima piccola foglia dell’albero di vita restituiscano vita attorno e ne respiri l’ ampiezza nei quotidiani ritmi di veglia e di riposo.

Così possa avvenire forse che l’aurora mi colga sospesa tra chi è partito e i viventi a tendere fili tenui di parole e silenzi densi di grazie di dativi splendenti di umili ablativi.

Così possa avvenire forse che si sposino un poco nelle cellule nel desiderio nell’intenzione l’arrendersi e il non arrendersi col semplice retto guardare e il semplice retto lavoro del cuore.

Così possa avvenire forse che sottilmente dimori in ogni dove e con il peso di tutte le mie molecole abiti veramente là dove sono e non altrove.

Così possa avvenire forse che l’animo s’apra si tenda e inclini e curvi e si tenda e curvi ancora s’abbassi nei terremoti inquieti sprofondi in paesi silenti ché ogni strato dell’umano ha lì deposto lettere preziose.

Eva [questa poesia prosegue quella

pubblicata sul n. 106 del Granello]

rappresentarlo la volontà di Inghilterra e Francia di inviare bombardieri in Siria, come già fanno, pressoché inutilmente, gli Stati Uniti, mietendo inoltre terrore e vittime fra i civili. Ci vuole un progetto prima di tutto, per non ricadere nell’errore di combattere una terribile guerra e non costruire nessuna pace, e di destabilizzare ancora di più tutto il territorio. Ci vuole un progetto, una politica lungimirante, una diplomazia efficace: innanzitutto rinunciare a vendere le armi e massicci investimenti nei paesi poveri. Speriamo che il vento abbia cambiato direzione davvero e continui a farlo, che sempre più persone ne sappiano sentire la voce. Speriamo che i costruttori di muri comprendano che ci sono eventi epocali che nulla può fermare, l’unica cosa è orientare la loro forza perché serva al mondo intero, a tutti.

Nadia Benni (pubblicato l’8/9/2015 su http://diariodinadia.myblog.it/)

Rifugiati e tortura

Secondo l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, la stragrande maggioranza delle 137.000 persone che hanno attraversato il Medi- terraneo verso l'Europa durante i primi sei mesi del 2015 fuggivano da guerre o persecuzioni. Un terzo di essi proveniva dalla Siria. Il secondo e terzo dei principali paesi di provenienza sono l'Afghanistan e l'Eritrea. Le statistiche del Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir) affermano che un rifugiato su tre, di quanti hanno raggiunto l'Italia, ha subito tortura nel proprio paese. Una pratica presente in 131 paesi, secondo Amnesty International. L'82% della popolazione mondiale vive sotto governi che utilizzano la tortura in modo più o meno sistematico. L'obiettivo per cui le persone vengono sottoposte a terribile violenze il più delle volte non è quello di estorcere informazioni. Si vuole, invece, distruggere l'identità di chi dissente per incutere terrore nella popolazione. “Attraverso la distruzione dell'identità della persona, la tortura mira all'azzeramento del suo portato all'interno della società: la persona torturata si trasforma unicamente in monito vivente per gli oppositori e i non allineati” spiegano Fiorella Rathaus e Valeria Carlini, operatrici del Cir. “Le conseguenze della tortura coinvolgono ogni aspetto della vita del sopravvissuto e niente è più come prima. Le esperienze traumatiche estreme infatti provocano nella psiche di chi le subisce delle ripercussioni profonde e arrivano a coinvolgere le funzioni di base e spesso fanno precipitare la psiche in stati di vera e propria frammentazione”.

Sergio Dalmasso Tavolo delle Associazioni - Cuneo

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n. 4 (167) – ottobre il granello di senape pag. 35

cercatori/viaggiatori

DANIELE BIELLA, Nawal – L’angelo dei profughi, Paoline Edizioni, 2015, pp. 152, 13 euro

«Buongiorno a tutti, il mio nome è Nawal. Ringrazio Dio per avervi fatti arrivare qui sani e salvi. Vi prego di prestare molta attenzione a quello che vi sto per dire. Da questo momento non vorrei sentire alcun lamento. Qualsiasi cosa vi possa essere successa passa in secondo piano. Vi chiedo di non lamentarvi per queste cose perché dovete sapere che questo mare, che vi ha restituiti sani e salvi, ha preso con sé almeno 30mila persone nei soli anni che io ho vissuto». Ogni giorno, come un mantra, una giovane ragazza italo-marocchina ripete queste parole ai profughi sopravvissuti al mare e giunti a Catania. Nawal Soufi ha 27 anni, è nata in Marocco, ma sin da piccola vive in Sicilia con la sua famiglia. Nawal ha cominciato da

giovanissima a fare sentire la sua voce: i sit-in durante il liceo, le manifestazioni in piazza, il volontariato, la mensa dei poveri, sino ad arrivare a loro, agli immigrati in cerca di un futuro in Italia. Grazie al suo impegno, grazie ai suoi viaggi in Medio Oriente, grazie alla conoscenza della lingua araba e dell’italiano imparato a scuola, grazie alla rete di solidarietà in cui ha deciso di vivere attivamente, il numero di cellulare di Nawal è diventato di dominio pubblico. Oggi Nawal ha il telefonino sempre acceso, anche di notte, perché spesso riceve chiamate dai barconi che cercano di attraversare il Mediterraneo. «È iniziato tutto attra-verso il passaparola su Facebook - racconta Nawal in una intervista - dove è stato scritto il mio numero di telefono. Mi chiamano perché la guardia costiera non

ha un interprete di lingua araba: quindi loro mi comunicano le loro coordinate e io le riferisco a chi li deve salvare. E poi faccio un servizio di seconda accoglienza per chi continua il viaggio verso il Nord Europa». La prima chiamata risale all’estate del 2013, uno sconosciuto chiama Nawal e le dice di essere in mezzo al mare su una barca che sta colando a picco con il motore rotto. Nawal immediatamente si mette in contatto con la sede della Guardia Costiera, dove le spiegano che, in questi casi, l’unico modo per salvarli è conoscere le coordinate dell’imbarcazione in pericolo. Così è cominciata la sua esperienza di volontaria dei diritti umani. Oggi questa esile ragazza è

conosciuta come l’Angelo dei profughi, perché con il suo impegno, con il suo telefono sempre acceso, ha salvato migliaia di vite. Ma raccogliere gli SOS dalle carrette del mare non è l’unica attività di Nawal, che ogni giorno si occupa anche di chi in Sicilia è solo di passaggio: «Quando in stazione a Catania passano famiglie di profughi dirette verso il nord, le aiuto nell’accoglienza con indicazioni su come non farsi importunare dai trafficanti di terra - che arrivano a chiedere 500 euro a persona per il tratto Catania /Milano - come prendere i giusti biglietti del treno e dove rifocillarsi. Dopo esse-re sopravvissuti al mare, devono fare fronte a chi cerca di truffarli a

terra, facendo pagare troppo gli spostamenti. Non di rado in stazione c’è chi li deruba di tutto». Gran parte del suo impegno quotidiano, quindi, sta nel cercare di non far cadere i profughi tra le grinfie dei cosiddetti “scafisti di terra”. Nawal però raccoglie anche le segnalazioni delle famiglie che non trovano un proprio caro, nella speranza, spesso vana, che venga ritrovato in un altro centro di accoglienza (tiene un registro meticoloso dei dispersi), accompagna alle visite mediche le persone che ne hanno bisogno, chiede ospitalità agli amici quando i posti nelle strutture del territorio non bastano più e, nei casi più drammatici, si reca assieme ai parenti a riconoscere le salme recuperate senza vita dal mare. «E’ un disastro, una tragedia dopo l’altra. Non dormo la notte, ma se

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n. 4 (167) – ottobre il granello di senape pag. 36

Addio a Culìn Gaula

“Ricorderò per sempre il 6 giugno 2004. Alle tre del mattino mi sono alzato. Ho fatto colazione e ho lasciato un biglietto sul tavolo con su scritto: «Non vi preoccupate, io non parto da solo, ma in compagnia del mio Angelo Custode. Egli mi accompagna da cinquantotto anni e nei momenti difficili mi ha sempre sostenuto e guidato». Alle quattro sono partito e son passato a salutare mio papà e tutti quelli che con lui riposano in pace nel nostro cimitero e poi mi sono incamminato verso Tibert. Guardandomi attorno mi rendevo conto che ero una persona fortunata”. Così Giacomo Aimar, detto Culìn Gaula, iniziava sul bollettino interparrocchiale della Valle Maira, con un linguaggio semplice ed essenziale, il racconto dell’impresa di percorrere in 42 giorni (più due di riposo) il Cammino di Santiago di Compostela, partendo direttamente da Celle Macra, dove viveva con la famiglia. Dormendo a volte al riparo di un albero, o di un ponte in caso di pioggia, cantando e pregando per trovare forza e conforto nel viaggio compiuto spesso in solitudine, e sentito come un dovere per ringraziare Dio dei tanti doni ricevuti: “una famiglia felice e che ha avuto più del dovuto… le gambe per andare in montagna, correre, ballare; la voce per cantare e il cervello per ragionare”. La testimonianza ci aveva colpiti perché ci sembrava comunicare qualcosa che andava oltre la pura esperienza personale e bene rappresentava quella spinta interiore, quella fede umile e forte che ha mosso nei secoli un numero incalcolabile di pellegrini a lasciare tutto e a mettersi sulla strada verso i luoghi santi. Eravamo stati contenti di poter far conoscere anche ai nostri lettori la sua non comune esperienza sul numero di dicembre 2004. E poi, nel settembre 2013, di incontrarlo di persona quando con la moglie Marilena aveva partecipato alla “festa dei granelli del granello” (l’incontro di tutti i collaboratori degli ultimi 15 anni). Ora Giacomo ha intrapreso un altro diverso cammino, dopo tanti passi tra le sue amate montagne e non solo (appassionato podista aveva preso parte anche alla maratona di New York…), e noi vorremmo aggiungere a quello dei tanti amici il nostro ricordo, così come l’abbiamo conosciuto attraverso le stesse parole del suo racconto: un uomo semplice ma ricco di spiritualità, schivo e di poche parole ma col tempo capace di imparare ad essere attento agli altri e di “adoperarsi per mettere pace”. “Come sarebbe bello che tutti andassero d'accordo e cercassero di fare del bene agli altri senza pretese e senza vanto, in silenzio”: così concludeva il suo racconto, accompagnandolo con l’invito evangelico a rispondere al male col bene, per aiutare il cambiamento di chi ci ha ferito e sentire “dentro una grande gioia”. Ciao, Culìn, e grazie!

[La redazione]

penso alle centinaia di persone che incontro ogni giorno dopo essere fuggite dalla guerra, mi dico che è impossibile fermare quello che sto facendo». In tanti chiamano Nawal Yamma, mamma in arabo palestinese. Infatti lei, come una mamma, ricorda i nomi, le voci e le storie di tutti: «Ogni volta che parte un treno per il Nord Italia, segnalo ai contatti a Milano il numero di quelli che sono saliti, per non perderne neanche uno». Neanche uno: ogni vita, ogni persona che ce la fa, è una gemma di speranza che in qualche modo ridà dignità a chi è stato inghiottito dal mare o annientato dal sole e dagli stenti di una folle attraversata. Quando i volontari delle associazioni milanesi, che in Stazione Centrale, accanto ai funzionari comunali, accolgono i profughi, fanno sapere a Nawal che un treno è arrivato e le persone sono state prese in consegna, lei tira un sospiro di sollievo. Questo le permette di andare avanti, continuando un’opera che forse, un giorno, le verrà riconosciuta pubblicamente, “anche se a me per ora bastano i sorrisi dei bambini, gli abbracci della gente”. Per tenersi, così, sempre “a disposizione” Nawal ha messo in stand by ogni altro aspetto della sua vita da studente e, nell’estate più tragica di sempre per le acque del Mar Mediterraneo, non si è concessa un solo giorno di riposo (l’operazione Mare nostrum, l’aveva inserita nella task force dei mediatori e traduttori, ma senza riconoscerle alcun ruolo ufficiale, tanto meno un compenso). Quello di Nawal, quindi, non è un lavoro, è un gesto che lei sente di dovere al suo prossimo, allo straniero che arriva, e che lei accoglie come un fratello. Come tutti noi Nawal si chiede il perché di tante morti, di queste storie strazianti, della violenza di uomini che sfruttano altri uomini. «Mi chiedo di continuo perché succedono queste disgrazie, perché deve morire tanta gente innocente. Così come non posso togliermi dalla testa tutti gli SOS che mi arrivano al telefono, compresi quelli via terra, ovvero di siriani che non tentano la rischiosa traversata in mare, ma che, per esempio, provano a entrare in Europa superando il fiume Evros che dalla Turchia porta in Grecia. Mi chiamano dicendo che la polizia di frontiera li ha massacrati, alzando le mani anche sui bambini: come è possibile che chi ha lasciato tutto per fuggire dalla guerra debba sopportare ulteriori sofferenze? Mi rispondo dicendo che Dio ci ha lasciato libera scelta, anche di usare le mani per picchiare o respingere i profughi, o per sparare. Mani che probabilmente non avranno alcun giudice terreno, ma che al di là di questa vita troveranno il giudizio che meritano».

Beatrice Di Tullio

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Viaggio ai confini … Lampedusa

“Che posso dire io da Lampedusa? Posso dire che quantomeno salvarli è doveroso. Quando chiedo di non lasciare sola Lampedusa, chiedo in realtà di non abbandonare sole queste persone a un destino assurdo. .... Non è un crimine aspettare che i migranti siano decimati dal mare?” (13.7.2013 - Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa) Il neo cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente di Caritas Italiana, si intrat-tiene con i Lampedusani nella piazza a fianco della chiesa, il giorno dopo aver amministrato il sacramento della Cresima. Ha l’aspetto cordiale e semplice di un prete con i parrocchiani, senza incutere soggezione, e nel corso dell’omelia di quella domenica, 31 maggio 2015, si augura che Lampedusa “rimanga questo faro di luce per i migranti ... che anche oggi stanno arrivando”. A ben guardare, la parrocchiale di Lampedusa racchiude nella facciata le linee di una moschea, di una sinagoga e di una chiesa cattolica, a testimonianza dell’apertura nei confronti di chi professa un’altra fede ed ugualmente viene accolto nella comunità isolana. Scegliere l’isola come meta della propria vacanza vuol dire non solo amare il paesaggio, il sud, il caldo ed il sole, ma almeno essere “incuriosito” da quanto il nome evoca in questi tempi, da alcuni anni a questa parte. Si tratta di mettere insieme il clima, la morfologia, le caratteristiche del territorio meridionale - simile per qualsiasi regione del sud Italia - con il fenomeno migra-torio che l’ha interessata e l’ha portata sulla prime pagine dei giornali, rendendola famosa. Sovente le reazioni, a coloro che dichiarano di averla scelta come luogo di vacanza, sono quelle di curiosità mista a disappunto, come se un soggiorno lì potesse essere “disturbato”, reso meno piacevole dalle “presenze” degli immigrati che, tanti si immaginano, hanno “invaso” tutto il territorio. Lampedusa è terra di confine, con carabinieri, polizia, guardia di finanza, marina militare, aeronautica militare, guardia costiera, ma è terra di confine in mare, dove gli abitanti - tutti - conoscono l’obbligo

morale degli isolani di aiutare chi dal mare viene, perché l’isola ha sempre rappresentato per i naviganti - come per gli uccelli - momento di pausa e di ristoro. (“Ma le isole sono e sono sempre state questo: rifugio, riparo, ristoro lungo il viaggio” - dice Giusi Nicolini). Ed allora i due momenti critici per loro sono stati i mesi successivi alle primavere arabe, nel 2011 quando 6000 persone si sono riversate a Lampedusa, territorio con 5000 abitanti, ed il tragico naufragio dell’ottobre 2013, con i morti non lontani dalla spiaggia. Per tutto il resto gli isolani sanno che non hanno scelta, se non quella di aiutare chi arriva dal mare, di accogliere; questa è diventata la voce preminente, civile, religiosa, di popolo impegnato a non venir meno a tale imperativo morale. “Volete che li lasciamo

morire sulla spiaggia?” - ci dice l’autista del pulmino di linea che collega le varie calette. Ho trascorso una settimana di vacanza in questo favoloso paesaggio meridionale, a diretto contatto con gli abitanti dell’isola, aperti ed acco-glienti. Il secondo giorno, la domenica mattina, per caso ho assistito ad uno “sbarco” di migranti dalla nave che li ha raccolti al largo e portati al porto, a cui è seguito il trasbordo sul pull-man per il trasferimento al centro di Pronta accoglienza. Non è come vederlo in tele-visione, l’impatto è molto più forte e coinvolgente, anche se stai solo lì, alla distanza di cento metri, a guardare. Come prima giornata dall’arrivo è un inizio serio, pesante: è la mezza, l’ora del pranzo, una nave all’attracco... uomini

vestiti di bianco con la maschera... uomini vestiti di nero con la maschera bianca e guanti monouso... i migranti sul ponte sono un mucchio nero - fermo - che guarda... sono gli ultimi recuperati al largo... paiono giovani... molto vestiti, senza bagaglio ed alcuni con il cappuccio in testa. Per prima scende una donna in barella, avvolta nella carta dorata... un’altra donna a piedi con il capo coperto... altre due donne... Poi l’uomo bianco con la maschera fa stare calmi quelli che premono per scendere. Mi viene allora da pensare: che ne sarà di

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loro, dove andranno, quali possibilità troveranno in questo nord del mondo chiuso ed impaurito? A Lampedusa c’è un centro di Prima accoglienza, in un vallone della campagna, dove gli stranieri recuperati dai barconi vengono trattenuti due giorni prima di essere smistati in Sicilia o nel continente, trasferiti con il traghetto di linea; non se ne vedono in giro. L’isola vive sul turismo, un turismo per persone che devono essere capaci di adattarsi all’asprezza del territorio, di camminare, di spostarsi per cercare le spiagge, ... L’ambiente naturale è bellissimo, il mare ha fondali cristallini, pesci che vedi nuotare stando in barca, vegetazione interessante. E’ tipico del sud, arso, brullo, con pochi alberi, caldo di giorno, ventilato per respirare; le strade dell’interno sono per la maggior parte sterrate, le macchine piene di polvere ed acciaccate. La costa sud ha le calette, la nord le pareti a strapiombo sul mare... affascinanti.... I 5000 abitanti dell’isola (12 km per 4 km) sono per la maggior parte raggruppati nel centro, gli altri sono in campagna, coltivano gli orti (dove ci sono i pozzi ... ma non hanno problemi di acqua, anche se non tutta è dichiarata potabile...). Il sindaco, oltre all’emergenza migranti, ha posto un freno all’abusivismo, non senza difficoltà, creando qualche malumore tra i suoi concittadini, perché determina difficoltà all’economia; le case sono spesso abusive, regolarizzate con condono, costruite forse in assenza di piano regolatore. L’abbiamo salutata, in municipio, tra bandiere della pace e ricordi di visitatori più o meno illustri; abbiamo incontrato la psichiatra Enza Malatino che nel poliambulatorio si occupa anche del malessere dei soccorritori, provati dall’impotenza nel fronteggiare le tragedie del mare, le volontarie di Save the Children (che lavorano per conto del ministero), il falegname che fa le croci dai relitti delle barche ed aveva approntato gli arredi sacri per la messa del papa. Abitavamo da Rosa Maria e Costantino Baratta, muratore pugliese che ha sposato una lampedusana, orgoglioso della foto del CHE, in cucina, ritratto che non ha mai lasciato togliere. Non si dilungano sul salvataggio dell’ottobre 2013, che ha visto coinvolto direttamente Costantino, cercando ancora oggi di salvaguardare la privacy dei ragazzi che hanno tratto a riva e che i giornalisti vorrebbero intervistare, con i loro no per gli scoop pubblicitari. A lui l’Espresso riservò una copertina - con la motivazione della dedica a lui ed a tutti quelli che, come lui, non si tirano indietro - perché il 3.10.2013, in mare con un amico per pescare, avvistò un gruppo di naufraghi eritrei e ne salvò dodici. Ha ricevuto il 12.2.2014, dal sindaco di Valdieri (CN), il premio Paralup della Fondazione Nuto Revelli e dell’associazione Mai tardi - Scrivere altrove, concor-so letterario per nuovi cittadini, proprio come riconoscimento per la disponibilità manifestata in

quell’occasione. Per chi fosse interessato ad approfondire quanto vi ho raccontato, consiglio, su youtube, i significativi filmati con interviste al parroco, a Costantino ed il racconto di un funerale laico per una persona che non aveva tomba. Inoltre può essere interessante leggere, nelle edizioni del Gruppo Abele, un piccolo libro con intervista di Marta Bellingeri a Giusi Nicolini su isole, politica, migranti; utile supporto potrebbe essere rappresentato da “Lampedusa, guida per un turismo umano e responsabile” curata da Ivana Rossi, edita da Altreconomia nel 2014. Le letture possono accompagnare il viaggio, essere un valido strumento per il ricordo perché non vada perso nulla dell’esperienza diretta, per ripercorrere ed evocare sentimenti e vissuti che le parole solo in parte riescono a riportare a galla ed a rinnovare.

Costanza Lerda

Liberalizzazioni

Le liberalizzazioni sono state avviate vent'anni fa. Avrebbero dovuto portare la concorrenza e con essa una drastica riduzione delle tariffe. Uno studio pubblicato dalla Cgia di Mestre evidenzia che a diminuire sono stati solo i prezzi dei medicinali e i costi dei servizi telefonici. Ma non per merito della concorrenza, bensì per la ricerca scientifica nel settore farmaceutico e per l’alto tasso d’innovazione tecnologica nel caso della telefonia.“Per il resto - commenta Marco Bersani di Attac - assistiamo a ciò che da sem-pre abbiamo denunciato: le liberalizzazioni non fanno che sostituire un monopolio pubblico con oligarchie private, trasformando nel contempo il servizio d’interesse generale in merce da cui estrarre più dividendi possibili”. Dal 1994 ad oggi: le assicurazioni sui mezzi di trasporto sono aumentate del 184,1% (4,2 volte in più del costo della vita); i servizi bancari e finanziari sono saliti del 109,2% (2,5 volte più dell’inflazione); i trasporti ferroviari hanno registrato un aumento dei prezzi del 53,2 (il doppio dell’inflazione); i pedaggi autostradali sono aumentati del 69,9 % (inflazione +36,5%); i servizi postali sono saliti del 40,4% (inflazione +36,5%); sono triplicati i prezzi dei trasporti urbani ( +27,3% con inflazione a +9%); e sono aumentati il gas (+43,2% con inflazione a +23,1%) e l’energia elettrica (+21% con inflazione +13,6%). Svantaggi economici e una progressiva perdita della funzione pubblica e sociale di questi servizi, un vero e proprio disastro sul quale il Governo non sembra avere alcun ripensamento.

Sergio Dalmasso Tavolo delle Associazioni - Cuneo

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Continuiamo ad essere umani e civili… innanzitutto per rispetto di noi stessi

Nel mese di giugno, con alcuni altri membri del-l’associazione Rajiv Gandhi, di cui sono presidente, ho trascorso una settimana al Centro di Prima Acco-glienza di Roccella Jonica, in provincia di Reggio Calabria. E' stata, dal punto di vista umano, una delle esperienze più intense ed emozionanti della mia vita, non solo per il rapporto con i migranti ma anche per la bella amicizia nata con i ragazzi della protezione civile, che non conoscevamo ancora, anche se collaboravamo già da un anno e mezzo. Tanto che al ritorno, per alcuni giorni, non sono riuscita quasi a parlarne, mi sentivo strana... Poi ho iniziato a scrivere, di getto, le mie emozioni. Quello che la nostra associazione è riuscita a fare - l’allestimento della ludoteca, l'invio di "insignificanti" ciabatte di gomma o di vestiti usati… - può sembrare una piccola cosa; in quei contesti invece fa la differenza, ve lo posso assicurare, e ne sono orgo-gliosissima. Il treno corre veloce sulla splendida terra di Calabria e ormai mancano un centinaio di chilometri al nostro arrivo. E’ proprio in quel momento che arriva la telefonata di Mimmo, responsabile del gruppo di Protezione civile; mi comunica che c’è stato lo sbarco, i migranti sono arrivati, sono 71, provenienti da Siria, Iraq, Iran. Giusto il tempo di un saluto veloce al Centro di Prima Accoglienza agli altri operatori, dieci minuti per cambiarci e siamo sulla banchina del porto di Roccella Jonica (RC). 1300 chilometri non sono pochi, ma siamo qui per questo, per dare una mano ai nostri amici, non ci lamentiamo. I volti di questi uomini, donne e bambini sono straziati dalla stanchezza; il viaggio è stato di cinque giorni con mare forte e quasi tutti hanno vomitato più volte, qualcuno nel trasbordo dal barcone è finito in mare e sta tremando perché ha i vestiti bagnati. A loro vengono date coperte per coprirsi. Distribuiamo acqua da bere. Intanto che i medici del Ministero della Salute fanno i primi controlli di routine, conosco l’ispettore capo di polizia, l’assessore comunale, il responsabile della Polizia scientifica, altri rappresentanti della Capitaneria di Porto e della Croce Rossa Italiana, alcuni addetti di Frontex che raccolgono dati. Ci sono quindici bambini, vanno da uno a dieci anni, qualcuno è in braccio ai genitori, qualcuno gironzola e ride incrociando gli sguardi degli adulti. Poi tutti vengono trasportati al Centro di Primo Soccorso, risultano tutti in buono stato di salute, tranne qualcuno che è un po’ più provato, in particolare le persone anziane. Nessuno ha la “famigerata” scabbia di cui tutti i mass media stanno parlando in questi giorni con titoli a lettere cubitali. La dottoressa sorride, “la

scabbia si cura con una pomata e va via in tre giorni, fossero questi tutti i problemi” ci dice. Il cancello viene chiuso e inizia la perquisizione personale e dei bagagli, a cui fa seguito l’identificazione; vengono requisiti i documenti e i cellulari, si scatta una fotografia ad ogni persona, che tiene in mano un numero da far coincidere con il proprio nominativo scritto sul tabulato, e poi una fotografia di gruppo per le famiglie. Negli zaini, oggetti a volte da noi giudicati anomali: attrezzi da lavoro, trucchi, pillole per la muscolatura, una parrucca, vestiario per i piccoli, portafotografie con foto, ago e filo, spezie, un deodorante, una lacca. Chi può giudicare cosa ci si debba portare dietro in uno zainetto quando lasci presumibilmente per sempre la tua casa? Forse è meglio pensare che in quella casa ci tornerai e non è il caso di portarsi dietro tanti ricordi. Intanto arriva la cena: due pentoloni, uno contenente pasta rossa al sugo e l’altro un minestrone di verdura e pasta. Ogni persona può prendere entrambi i piatti, bambini compresi. Nessuno dice di no, nessuno si lamenta, anche se, nel frattempo, la pasta della minestra, per via del prolungarsi delle operazioni di identificazione, è gonfiata e non ha un bell’aspetto. Poi vengono assegnati i posti nelle tende, undici persone per tenda, cercando di non separare le famiglie. Qualcuno chiede sapone e vestiti puliti, ma è già mezzanotte, non tutti riescono a lavarsi, lo faranno domattina. Il giorno successivo il sole fa sì che tutti siano svegli di buon’ora; è difficile dormire in tenda con il caldo, anche se molti sono stanchissimi e alcuni hanno ancora le vertigini per il viaggio con il mare mosso. Qualcuno sposta la branda all’esterno, cercando un po’ d’ombra per continuare a riposarsi. Dopo la colazione con latte o the e fette biscottate, si provvede a distribuire, a chi ne fa richiesta, spazzolini da denti, sapone, asciuga-mani, biberon per i piccoli, assorbenti e pannolini, scarpe e ciabatte per chi le ha bagnate, vestiario, deter-sivo per il bucato. Il traduttore e mediatore culturale della polizia si è fermato solo per il riconoscimento, la sera prima. Tra gli uomini della polizia, dei carabinieri e della guardia di finanza pochi parlano inglese. Fortunatamente al centro ci sono tre ragazzi, arrivati anche loro con un barcone tanti anni fa e fermatisi a Roccella Jonica. Ora fanno i volontari per il gruppo di Protezione Civile. Saidh è egiziano e parla perfettamente l’arabo e un po’ d’inglese; Mushamel e Mustafa sono pakistani e parlano più lingue, arabo compreso. Tutti e tre hanno imparato l’italiano con qualche influenza di dialetto calabrese, è divertente sentirli parlare. Si danno da fare per capire quali sono le esigenze di ciascuno. C’è un gran via vai tra chi sbatte coperte, chi fa il bucato, chi

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si fa la doccia, chi lava i bambini. C’è grande dignità in tutti. Nella notte quattro ragazzi sono scappati scavalcando la recinzione, senza aspettare che la Polizia gli riconsegnasse i documenti e i cellulari. Da questo momento tutto sarà più difficile per loro. Intanto alcuni rendono una testimonianza spontanea alla polizia descrivendo dettagliatamente lo scafo con cui sono arrivati, qualche notizia sugli scafisti (di probabile nazionalità greca) scappati in gommone, altre informazioni utili per l’Intelligence italiana. Le cifre pagate variano dai 5.000 ai 10.000 euro ma sanno di persone e/o famiglie che sono arrivate a pagare fino a 30-40.000 euro, qualcuno fino a 50.000 euro. A parlare sono un giornalista che in Iran è stato imprigionato per cinque anni per aver “dato fastidio” al regime e un architetto iraniano che ha vissuto tanti anni a Dubai. Da subito si capisce che tutti scappano dai bombardamenti e dalla guerra, da soprusi, e che fanno parte di fami-glie benestanti. Tra di loro non si conoscono tutti, si formano i gruppetti e anche i bambini sembra non facciano amicizia. La maggior parte è di religione musulmana, ma c’è anche una famiglia cristiana. Dopo il pranzo, composto come la se-ra precedente da pasta rossa con il sugo e da minestra con verdura e pasta, coinvolgiamo i bambini con fogli e colori e, in amicizia, li facciamo sedere uno vicino all’altro; anche gli adulti si avvi-cinano ai tavoli e ridono scambiando quattro chiacchiere. Accendiamo anche la radio e tre bambine improvvisano un balletto su musica pop, tutti ridono e da quel momento cambia tutto, cambia il clima, si sente una certa armonia, è un momento di serenità. Il piccolo Harun, che ha solo un anno e mezzo, è la mascotte di tutti, militari compresi, passa in braccio da una persona all’altra, sorride a tutti, corre nel cortile ad una velocità impressionante. Nella seconda parte del pomeriggio apriamo la ludoteca che abbiamo allestito lo scorso anno con la nostra associazione. E’ una bella stanza dipinta di rosso e verde. Probabilmente era una piccola palestra, visto che ad un muro è fissata una spalliera in legno dove i volontari hanno appeso tanti peluches. C’è un divano colorato, una lavagna per bimbi, due tende, tanti giocattoli nuovi e usati, a terra ci sono i tappeti, così i bambini entrano scalzi. Quando li facciamo entrare, i piccoli rimangono basiti, con gli occhi

sgranati dallo stupore. Sono come impazziti, non sanno quali giocattoli scegliere per giocare, sono conten-tissimi. I genitori, dalla porta e dalla finestra aperta, danno consigli, ridono, scherzano. Qualcuno porta in cortile anche un fresbee e le racchette da tennis, alcuni adulti si mettono anche loro a giocare. E’ ormai sera, si chiude la ludoteca e arriva la cena, due pezzi di pizza a testa, bambini compresi. I volontari, però, hanno acquistato della pastina che preparano per i bambini e gli anziani. Le giornate passano lente, tranne per i bambini che non si staccano dalla ludoteca se non per pranzare e cenare. La TV locale, informata della nostra presenza, viene ad intervistarci e a filmare la ludoteca per mandare un servizio il giorno successivo. Ci sentiamo onorati. I cancelli vengono ora lasciati aperti, i migranti sono liberi di andare se lo vogliono, nessuno ha chiesto asilo politico in Italia, nessuno ha lasciato le

proprie impronte digi-tali, ma nessuno va via, aspettano impa-zienti notizie dalla polizia riguardo ai propri documenti e ai cellulari che conten-gono i numeri di tele-fono di amici e fami-gliari che nessuno è ancora riuscito a chia-mare e a tranquilliz-zare. Ognuno ha una storia da raccontare, tutti hanno parenti che li aspettano in Ger-mania, nei Paesi Bas-si, in Portogallo, in Francia, in Gran Bre-tagna. E’ bello chiac-chierare con loro, si capiscono meglio cer-

te dinamiche sulla guerra, che qui “non arrivano” o comunque non sono percepite. Hanno voglia di farti capire, di raccontare, di credere in un futuro migliore. Non so cosa avrei fatto al loro posto, me lo continuo a chiedere. Intanto arriva lunedì e ancora nessuna notizia dalla polizia dei documenti e dei cellulari. Sale il malcon-tento negli adulti, tanto che decidono di organizzare una protesta. Vogliono che chiamiamo l’UNHCR, l’agenzia internazionale per i rifugiati, la televisione, vogliono che tutti sappiano che gli sono stati presi i documenti e i preziosi cellulari. Indicono uno sciopero della fame, non fanno mangiare neanche i bambini. Nel primo pomeriggio li convinciamo che non è la strada giusta e sollecitiamo l’ispettore capo, insieme ad alcuni poliziotti di guardia, perché consegni i documenti. Ci dicono di pazientare. Intanto convin-ciamo i genitori a far mangiare i bambini, anche alcuni adulti cedono e pranzano con la solita pasta rossa al

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sugo, che nel frattempo si è freddata. Portiamo i piccoli in ludoteca, non è bello vedere gli adulti discutere, si spaventano. Intanto arriva anche il 118 perché un anziano si è sentito male. E’ solo, non ha parenti con sé e si scopre che in viaggio ha esaurito le medicine ed ha la glicemia a livelli elevatissimi. Lo portano via. Intanto alcuni se ne sono andati, così, senza documenti e cellulari. Per loro sarà tutto più difficile. La sera ancora pizza per tutti e pastina per i piccoli e gli anziani. Il martedì il centro è ormai mezzo vuoto, rimangono coloro che sanno bene essere troppo rischioso andare via senza documenti e cellulari. La maggior parte delle persone che sono uscite le rivedo in stazione, stanno aspettando il treno della sera che li porterà al nord, a Milano, dove poi si divideranno, ognuno verso una città diversa. Cerco di convincerli a non andare via, loro temono che io sia mandata dalla polizia per farli tornare al centro per poi essere arrestati. Non c’è verso di fargliela capire fino a quando non ricevo la telefonata dei volontari: la polizia ha portato i documenti e i cellulari e li sta distribuendo, hanno mezz’ora di tempo, chi non c’è per il ritiro non potrà più richiedere nulla al comando di Roccella Jonica perché tutto verrà trasferito a Siderno. Tutti tornano al centro, di corsa, anche gli anziani che non possiamo caricare in auto in quanto non autorizzati. Dopo un tira e molla con l’ispettrice di polizia riusciamo a convincerla ad andare a prendere in stazione l’anziano che il giorno prima si è sentito male, non ce la può fare a tornare indietro a piedi con il sole a picco. Lui sta tenendo duro per andare in Danimarca da suo figlio, ma le sue condizioni sono precarie. Ora tutti sorridono, hanno ottenuto i documenti, tutti telefonano, altri mi abbracciano ringraziandomi per essere riuscita a convincerli a tornare, qualcuno si scusa per non avermi creduto. Mi viene voglia di piangere, ma è ora di andare, i piccoletti mi corrono incontro e mi abbracciano, così come la loro madre e la nonna che mi dice “Allah sia con te”. Trattengo le lacrime, fortunatamente ho gli occhiali da sole, ma sto malissimo. Anche l’anziano mi abbraccia e con un filo di voce mi dice “Thank you”. Sto malissimo, ancora un saluto e non mi volto più, non ce la faccio, ho il magone; non è giusto che queste persone debbano scappare, soffrire in questo modo; la mia mente è confusa. In auto non parlo, sto troppo male, avrei la voce spezzata. Mimmo lo capisce e non mi dice nulla. E’ impossibile fare finta di nulla, rimanere al di sopra della situazione, non farsi travolgere dai sentimenti. Quella sera partiranno la maggior parte di loro. Rimarrà ancora per un giorno Harun con la mamma ed altri due ragazzi con i quali ci intratteniamo il giorno dopo. Intanto per la Questura sono andati via tutti e hanno fretta di chiudere la pratica di un altro sbarco. Pranziamo con gli ultimi rimasti e poi lasciamo il centro, in caso di controllo loro non devono essere più lì. Andiamo insieme a spiaggia. E’ bello far bagnare i piedi al piccolo Harun che ride a crepapelle. Intanto arriva la sera. Ancora una foto insieme, scambio di

indirizzi Facebook e poi tanti abbracci. Ho di nuovo il magone. Un ultimo forte abbraccio e poi scappo via insieme agli altri, è meglio non girarsi, non ce la farei. Le serate con gli amici della Protezione Civile di Roccella Jonica passano veloci tra risate, mangiate, battute. Mi sembra di conoscerli da sempre. Siamo così distanti, 1300 chilometri non sono uno scherzo, ci vuole una giornata intera di treno, ma li sento così vicini. Anche ognuno di loro ha una storia personale da raccontare ed è bello ascoltarli. Poi ci sono le difficoltà da affrontare ad ogni sbarco, la burocrazia, il cibo e l’acqua razionati, le incazzature con gli enti pubblici, ma tanta voglia di fare la propria parte. E’ stato bello rivedere anche Elio e Luca che con le loro foto sugli sbarchi stanno facendo un lavoro importantissimo, non solo di denuncia ma anche di integrazione. Loro sono stati con la loro mostra qui a Cuneo, in tanti l’hanno potuta vedere ed apprezzarne la presentazione in Comune a fine marzo. Il loro calore è incredibile e salutarsi è ancora una volta difficile. Dopo circa una settimana dal nostro rientro, nel giro di pochi giorni, sono riuscita a ricontattare, tramite Facebook, la maggior parte delle persone con le quali ero riuscita ad intrecciare un certo rapporto di amicizia, di empatia. Tutti sono arrivati dove si erano prefissati, basta pagare alla frontiera altri “scafisti di terra”: la ventenne M. e il suo piccoletto Harun hanno raggiunto i genitori e i fratelli ad Amburgo in Germania (suo marito è però ancora in Siria), M. con il fratello e la mamma sono in Olanda (sua moglie con i due piccoli figli e il padre sono rimasti in Siria), A. è stato ospite di amici in Italia per un mese e poi ora è in Germania, R. con la moglie e la figlioletta sono a Parigi (sì, proprio nella famigerata Francia dalle frontiere chiuse per chi da tre mesi vive sugli scogli alla frontiera di Ventimiglia), M. è in Portogallo, P. è a Berlino. Anche M. è ad Amburgo ed ha raggiunto il fratello che vive già lì. Due settimane fa ha scoperto di avere un cancro al cervello. Ha postato la notizia su Facebook. Lunedì scorso è stato operato, tutto bene, avrà un veloce recupero. Essere in Germania, ora, è stata la sua salvezza, in tutti i sensi. E’ bello sentirli e chattare con loro, mi raccontano della loro nuova vita, della scuola di lingua tedesca per chi abita in Germania, del clima così diverso, della loro preoccupazione per i parenti rimasti a casa, si discute di immigrazione e di accoglienza. Quando mi dicono “non dimenticherò cosa avete fatto per noi” mi sento una stretta al cuore, annuisco dicendo “ma figurati, per così poco!” e penso a tutti coloro che “non li vogliono”, all’indifferenza di questi giorni. Dovremmo esigere il rispetto di noi stessi, esigendo il rispetto che queste vite umane meritano, solo ed esclusivamente per il fatto di essere umani tanto quanto noi. E dovremmo esigerlo per poter urlare forte che noi, un genocidio, non possiamo tollerarlo, perché noi abbiamo la pretesa d’essere civili in un mondo che ormai ha scordato la civiltà.

Sabrina Micalizzi

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Riflessioni su una morte violenta per TSO Commentare un episodio grave come quello avvenuto in Piazzale Umbria a Torino il 4 Agosto, in cui un paziente psichiatrico è morto durante un ricovero coatto (TSO, trattamento sanitario obbligatorio) pare “messo in atto con violenza immotivata”1, da parte di agenti della Polizia Municipale, rischia di affidarsi più agli umori che alle riflessioni. A distanza di oltre due mesi dall’accaduto mi pare doveroso non aggiungere altri commenti ai tanti già fatti, specie non conoscendo direttamente l’accaduto, ma questa morte di un paziente psichiatrico deve farci riflettere e perciò non va dimenticata. Affronterei pertanto il problema del modo con cui, secondo me, occorrerebbe approcciarsi al paziente psichiatrico, visto che ne ho diretta esperienza lavorando come infermiere in un reparto psichiatrico ospedaliero per pazienti in fase acuta e svolgendo, inoltre, il ruolo di volontario in “MenteInPace - forum per il ben-essere psichico”, associazione che cerca di contrastare i pregiudizi nei confronti della malattia psichiatrica e di costruire momenti di ben-essere e di svago con familiari ed utenti dei servizi psichiatrici. Spesso ci capita di collaborare con le Forze dell’Ordine in reparto, in caso di pazienti particolarmente agitati (che, mi preme dirlo per non aumentare lo stigma, sono una minoranza). Devo dire che la collaborazione è sempre stata molto buona, volta a capire le reciproche competenze e limitazioni nel rispetto dei dettati normativi (in primis la Legge 180 del 1978, ma anche il DPR del 1° Novembre 1999 dal titolo “Progetto-obiettivo tutela salute mentale”) ma soprattutto a preservare la dignità del paziente psichiatrico che è, oltre che un utente del Servizio sanitario nazionale, una persona depositaria di diritti umani. La Costituzione parla chiaro. All’art. 13, com-ma 4, recita che “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. C’è da dire che le Forze dell’Ordine (ma ciò vale anche per il personale sanitario) sono spesso sottoposte a carichi di lavoro gravosi, stressanti, a fronte di retribuzioni poco dignitose e di mezzi a volte insufficienti. Non si tratta di giustificare ma di capire gli agiti, alla luce di un contesto. D’altro canto la cultura dominante è prevalentemente “maschile”; non a caso nella loro definizione si ripetono le parole FORZA e ORDINE. Difficile accettare emozioni che esulano dalla norma, difficile avere non tanto sentimentalismi quanto sentimento, premessa per mettere in atto l’empatia che è il prerequisito dell’atto terapeutico. Come scrisse Luciano Jolly “affermare il diritto al sentimento, nel maschio, è quasi un atto rivoluzionario: in tutte le caserme del mondo si è insegnato che esso è una debolezza, un fatto indegno”2. È vero che l’atto terapeutico è di nostra competenza, ma spesso si è instaurata una sintonia con agenti di P.S. o Carabinieri i

quali, frequentando tutti i giorni coloro che ci portano in reparto, sanno come prenderli per evitare che si degeneri. Tranne in rari casi, come quello in questione, che purtroppo facendo notizia sembrano la norma, ma non lo sono. Il riferi-mento alla cultura “maschile” da caserma risulta illuminante se si considera che la malattia schizofrenica di Andrea è insorta proprio durante il servizio di leva. Ora concludo con una breve riflessione sulla necessità di sane relazioni sociali, per diminuire la conflittualità che rischia di farci degenerare e di rendere invivibile la coesistenza civile. Stiamo vivendo un periodo in cui le regole sociali diventano sempre più difficili da far rispettare, facendo solamente affidamento alla cultura condivisa. Ciò, forse, perché cresce la coesistenza fra culture differenti e perché aumentano l’anomia e la conflittualità, mentre hanno meno presa le istituzioni sociali in una società individualizzante. Società in cui si è sempre connessi con il mondo grazie ai social network ma si è sempre più soli (e forse, proprio per questo, ci si affida ai social network). In questo clima di tensione sembra diventare una via obbligata far rispettare le regole di convivenza utilizzando solo la coercizione, specie se brutale; così qualcuno vorrebbe farci credere per utilizzare a suo vantaggio queste tensioni. Prime fra tutte quelle provocate dall’esodo biblico dei migranti e, nel nostro caso, quelle causate dai malati psichiatrici e dai loro comportamenti, spesso stigmatizzati e respinti. Occorre, secondo me, maggiore disponibilità a comprendere le diversità, accettando quelle che hanno la sola colpa di mettere in discussione abitudini, privilegi o punti fermi che ormai non hanno più senso in una società in continuo mutamento, ma non sono un pericolo per altri individui o per la collettività. Occorre, invece, essere fermi per ciò che crea oggettivamente un pericolo per sé e per gli altri, ma senza perdere di vista le relazioni umane. Come afferma il sottosegretario del Ministero dell’Interno Domenico Manzione, in relazione alle critiche per le parole del Santo Padre sulla necessità di accogliere i migranti, “polemizzare dopo le parole del Papa vuol dire aver smarrito ogni umanità”4. Perché abbiamo bisogno di umanità, calma, comprensione e, quando occorre, fermezza, se voglia-mo migliorare la salute mentale in particolare e la convivenza civile in generale.

Gianfranco Conforti 1 - Gabriele Guccione, http://torino.repubblica.it/cronaca/2015/08/07/news/a-120576550/ 2 - Luciano Jolly, Un ciclo della vita, in Sarà bello rivederti, Fusta Editore, Saluzzo, 2011, pag.4; 3 - http://www.huffingtonpost.it/2015/08/08/andrea-soldi-morto-sorella-intervista_n_7959098.html# 4 - Claudia Fusani, “M5S fuori tempo e fuori tema. I permessi sono solo seimila”, L’Unità, 9 Agosto 2015, pag.10

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Le botteghe della Colibrì si trovano a : CUNEO Corso Dante 33 BORGO SAN DALMAZZO Via Garibaldi 19 FOSSANO Via Garibaldi 8 MONDOVI’ Via S. Arnolfo 4 SALUZZO Via A. Volta 10

TROPPI MIGRANTI E PROFUGHI? TROPPE GUERRE E POVERTÀ!

Nel susseguirsi di notizie su sbarchi, naufragi e morti nel Mediterraneo, il movimento del commercio equo e solidale alza la voce per dire che l’unico modo utile per ridurre i flussi migratori è lavorare per far cessare le guerre in corso e dotarsi di una politica di redistribuzione delle risorse e degli squilibri internazionali. Lo fa attraverso una campagna promossa da AGICES – Assemblea generale italiana del commercio equo e solidale e dalla rivista Altreconomia. Il manifesto, disponibile sul sito www.equogarantito.org, sottolinea come da sempre il commercio equo lavori per creare accoglienza, lavoro sostenibile per i produttori, redistribuzione delle risorse, circuiti economici che promuovano giustizia e stabilità sociale. La necessità di sollevare una voce, a favore di una profonda riflessione sulle cause che scatenano le ondate migratorie cui stiamo assistendo, nasce dalle divergenti reazioni che l’Europa ha assunto nei confronti di un flusso di arrivi sempre più imponente. Di fronte a chi (sul web, sui giornali o tramite dichiarazioni politiche) festeggia naufragi ed annegamenti perché riducono gli arrivi, di fronte a chi si sente invaso e minacciato nella propria identità, o, per contro, di fronte a chi osserva sgomento, chiede protezione per chi fugge da guerre e miseria, comunque la si pensi, il movimento del commercio equo prende atto che ci troviamo davanti un processo destinato a durare, ed a sfidarci tutti, istituzioni e cittadini. Mai come in questo momento, secondo il commercio equo, è necessario capire da che parte vogliamo stare. Quella di chi opera nelle Botteghe e nelle scuole per promuovere il commercio equo è la parte di chi vuole collaborare per affrontare seriamente un fenomeno ampiamente previsto, rispetto al quale la politica dell’Unione Europea si è limitata ad osservare la crescita, contribuendo anzi alle sue cause, illudendosi che fosse possibile gestirlo col filo spinato. Se tuttavia alcuni Paesi come la Germania e l’Austria hanno cambiato il proprio approccio, aprendosi in parte all’accoglienza, a queste novità positive non sembrano corrispondere azioni rivolte a sradicare concretamente le cause delle migrazioni verso l’Europa. Sono cause note a tutti: guerre, miseria ed impoverimento, mancanza di diritti umani, desertificazione e siccità dovute ai cambiamenti climatici… LE RICHIESTE DEL COMMERCIO EQUO ALL’EUROPA Come ricorda il manifesto lanciato da Agices e Altreconomia, mentre la maggioranza dei politici si è limitata a parlare o a guardare da un’altra parte, da decenni il commercio equo e solidale si muove concretamente con l’obiettivo di ridurre le disuguaglianze, di distribuire il reddito su tutta la filiera produttiva (e non concentrarlo nelle mani di pochi), di portare benefici alle comunità locali, di operare una riconversione ecologica dell’economia che favorisca pace e giustizia sociale, e per una finanza che promuova i beni comuni, la produzione e il lavoro (anziché la speculazione). Da sempre il fair trade combatte gli squilibri che alimentano le migrazioni e denuncia l’insostenibilità di un modello economico globale dove oltre 842 milioni di affamati convivono con 600 milioni di persone sovralimentate, e che nel 2016 produrrà il record della disuguaglianza economica mondiale, con l’1% della popolazione complessivamente più ricco dell’altro 99%, mentre già nel 2012 la FAO ha stimato che entro il 2050 il cambiamento climatico causerà un aumento tra il 10% ed il 20% del numero di persone a rischio di fame, e del 21% del numero di bambini a rischio di malnutrizione. I migranti che ci osservano, chi è già partito e chi si prepara a partire, sono solo l’annuncio di un futuro nel quale la redistribuzione delle risorse ed una maggiore giustizia sociale globale potrebbero essere perseguite in modo violento, come prima o poi accade dove il filo spinato prende il posto di politiche capaci di incidere sui problemi.

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n. 4 (167) – ottobre 2015 il granello di senape pag. 44

LA COOPERATIVA COLIBRÌ (www.coopcolibri.it)

Nata nel luglio 2012, la Cooperativa sociale Colibrì riunisce in un unico progetto l'esperienza di cinque Botteghe del Mondo nella provincia di Cuneo che alla promozione del commercio equo e solidale affiancano un'intensa attività di sensibilizzazione attraverso percorsi info-educativi nelle scuole, eventi e campagne. Ai cittadini è offerta l’opportunità di partecipare alle scelte e alle attività della cooperativa in qualità di Soci Ordinari, Soci Volontari o Soci Risparmiatori: www.coopcolibri.it/diventasocio

Colibrì scs Onlus è un’Organizzazione di Commercio Equo e Solidale iscritta al Registro AGICES (www.agices.org) ed è socia del consorzio Altromercato (www.altromercato.it), la maggiore organizzazione italiana di Commercio Equo e Solidale.

Prima che ciò accada, con questo manifesto il movimento del commercio equo e solidale chiede all’Unione Europea una normativa organica sul diritto di asilo, che superi il regolamento di Dublino e includa l’istituzione di corridoi umanitari permettendo così a quote di migranti di accedere alle nazioni europee in tutta sicurezza; un piano strutturale dotato di adeguato sostegno economico per l’accoglienza dei profughi; la chiusura dei centri di detenzione così come sono oggi strutturati e gestiti; il finanziamento di piani per l’integrazione degli stranieri, che includa l’introduzione del diritto di voto alle elezioni amministrative per i migranti residenti; un impegno straordinario per il contrasto di qualsiasi forma di xenofobia e razzismo. LA LOTTA AL CAPORALATO CHE SPAVENTA LA ‘NDRANGHETA In numero sempre maggiore, migranti che raggiungono il nostro Paese vengono coinvolti dalle mafie in un circuito di sfruttamento che vede protagonista la produzione agroalimentare italiana. Il fenomeno del caporalato, secondo l’osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, riguarderebbe circa 700mila persone in Italia ridotte in condizione di schiavitù nei campi, per lo più immigrati irregolari. Molte realtà da anni lavorano sul territorio per creare opportunità di integrazione e lavoro nel rispetto dei diritti e della legalità. Fra queste la cooperativa ‘Giovani in vita’ di Sinopoli, che gestisce oltre 500 ettari di terreni confiscati e sequestrati alla criminalità organizzata. Nel mese di agosto questa cooperativa ha però subìto due pesanti intimidazioni, che fanno seguito a quelle di giugno nei confronti di un'altra realtà che aderisce alla rete di ‘Calabria Solidale’. La cooperativa, nata nel 2003 in provincia di Reggio Calabria, ha subìto prima il furto di un trattore e di un trinciastocche, poi l’incendio di una pianta di ulivo secolare (in un terreno di proprietà di Domenico Luppino, fondatore e direttore della cooperativa). Infine, nella notte tra il 26 e 27 agosto, dopo la denuncia dei danneggiamenti, il direttore Domenico Luppino è stato minacciato di morte con una scritta posta di fronte all’ingresso della cooperativa. La sfida della Cooperativa ‘Giovani in Vita’, che la ’ndrangheta reggina non tollera, è quella di trasformare il territorio creando lavoro soprattutto per i giovani. Sono infatti 40 i componenti tra soci e dipendenti (che diventano 70 nella stagione della raccolta delle olive), i quali, oltre a lavorare il terreno, si occupano di commercializzare i prodotti anche al di fuori dal contesto locale, ad esempio attraverso la rete del commercio equo e solidale. La cooperativa gestisce infatti 30 ettari di terreni confiscati, ma anche 500 ettari di beni sequestrati, di cui la maggior parte si trova in provincia di Reggio Calabria, con due appezzamenti nel vibonese e in provincia di Catanzaro. In tutto, ‘Giovani in vita’ possiede oltre 50mila piante di ulivo, la metà delle quali coltivate con meto-do biologico. Da questi terreni la cooperativa ricava olio d’oliva, agrumi (che trasforma anche in marmellate) e miele. L’olio d’oliva, distribuito da Altromercato, arriva anche nelle Botteghe della Cooperativa Colibrì. Nonostante le difficoltà, anche grazie alla collaborazione con il commercio equo, negli ultimi anni la cooperativa ‘Giovani in Vita’ ha saputo crescere il suo fatturato. Tuttavia il furto del trattore, l’11 agosto, rappresenta per la cooperativa un grave danno economico in quanto il mezzo non era assicurato. Per questo è stata avviata una campagna di raccolta fondi per l'acquisto di un nuovo mezzo agricolo. Chi volesse aiutare ‘Giovani in vita’ può fare una donazione a:

Bonifico Bancario su Banca CARIME - filiale di Palmi minisportello di Sant'Eufemia d'Aspromonte (RC) c/c intestato a Cooperativa Sociale Giovani in Vita - IBAN: IT 33 E 03067 81490 000 000 020 524 BIC: CARMIT31 - causale: liberalità per acquisto attrezzature

Chi volesse sostenere le attività della cooperativa attraverso l’acquisto dei suoi prodotti può trovarli nelle Botteghe della Cooperativa Colibrì a Cuneo, Borgo San Dalmazzo, Fossano, Saluzzo e Mondovì.

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L’ASSOCIAZIONE “LA CASCINA”

INVITA TUTTI GLI AMICI A PARTECIPARE ALLA GITA

Sabato 24 ottobre Ore 7.30 Partenza da S. Rocco C. (Piazzale della chiesa) Sosta lungo il viaggio Ore 10.30 Arrivo a Bard. Visita guidata. Ore 13.00 Pranzo al sacco a cura dei partecipanti Ore 14.30 Partenza per Nus con visita sia all’Osservatorio

Astronomico che al Planetario con spettacolo “A spasso per il cielo” e “Il cielo sopra Saint-Barthelemy”.

Ore 19.00 Partenza per Aosta, sistemazione in albergo in camere a 3 – 4 letti, cena e pernottamento.

Domenica 25 ottobre Ore 8.30 Prima colazione e visita di Aosta romana e Medievale (Arco di Augusto, S. Orso e cripta romanica, teatro romano, Cattedrale e Criptoportico). Ore 12.30 Pranzo in hotel. Ore 14.00 Partenza per Stupinigi e visita della palazzina di caccia. Ore 19.00 Arrivo previsto a Cuneo

Quota di partecipazione € 130 La quota comprende: viaggio andata e ritorno in pullman Gran Turismo. Cena, pernottamento, colazione e pranzo in albergo ad Aosta (bevande escluse). Sistemazione in camere a tre/quattro letti. Ingresso a vari monumenti e spettacoli. Non comprende: pranzo del sabato (da portarsi al sacco) e bevande ai pasti.

Iscrizioni fino ad esaurimento posti e comunque assolutamente entro e non oltre il venerdì 16 ottobre

presso la Cartolibreria “La Cascina” Tel. 0171/492441

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Domenica 08 NOVEMBRE

Ore 8.45 Partecipazione alla Stracôni. Ci troviamo in C.so Nizza angolo via E. Filiberto (dove c’è la Camera di Commercio).

Ognuno deve provvedere al biglietto

Quota del pranzo € 10

BISOGNA PRENOTARSI!!! Cartoleria Tel. 0171/492441

È possibile acquistare il lunedì e giovedì le verdure da noi coltivate prenotando presso la cartoleria (0171/492441). Pacco 5 kg. di verdura mista a € 5,00 oppure solo carote o patate a € 1,00 il kg. (offerta kg. 25 di patate a € 20,00)

Si prega di prenotare entro il giovedì precedente la festa telefonando in Cartoleria “La Cascina”allo 0171/492441.

Ore 12.30 Pranzo. Ore 14.30 Escursione in jeep Ore 17.30 Tutti a casa.

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SOGGIORNO A MARINA DI MASSA

dal 21 al 26 giugno 2015

Questa vacanza di 6 giorni mi è piaciuta molto perché ogni giorno andavamo in spiaggia a prendere il sole e a fare il bagno. Un giorno abbiamo giocato persino a pallavolo. Ero in squadra con Alexandra e con Alberto, mentre invece nell’altra squadra c’erano Davide, Vanni e Roberto. Mi sono divertito molto!

Paolo O. Quello che mi è piaciuto di più della vacanza al mare sono state le due serate nelle quali mi sono scatenato insieme ai miei amici sulla pista da ballo. L’animazione veniva offerta dall’associazione Arcobaleno del campeggio Italia. Alla fine delle due seratone, una signora ci ha persino ringraziati di averla fatta divertire e ci ha fatto un bellissimo complimento dicendo che “abbiamo lasciato il cuore”! Per il resto… mi sono divertito molto e mi è piaciuto tantissimo trascorrere 6 giorni con i miei amici dalla Cascina, anche se al inizio ero un po’ triste perché mi mancava la mamma. Sono riuscito anche a fare il bagno nel mare! Iee! Che divertimento! Spero di tornarci al più presto!

Bruno

Il mio soggiorno al mare è stato bellissimo perché siamo andati a visitare tanti posti come: il castello a Fontanellato, Lerici, la Torre di Pisa. La cosa che mi è piaciuta di più è stata: fare il bagno nel mare!

Claudio

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n. 4(167) – ottobre 2015 il granello di senape pag. 48

Ho passato un bellissimo soggiorno al mare nel campeggio Italia. Le giornate erano molto calorose, ma nonostante tutto andavamo ogni giorno a visitare qualche posto storico e poi andavamo al mare per rinfrescarci un po’! Il posto che mi è piaciuto di più è stato Pisa perché la sua Torre mi ha colpito molto!

Alberto

Mi sono piaciute le città di Pisa e Lucca per i monumenti. Lerici invece mi ha colpito per il paesaggio. A Fontanellato abbiamo potuto degustare Lambrusco, salumi e formaggi. E’ stata una bellissima vacanza! Saluti da Paolo C.

Mi è piaciuto nuotare con il materassino e andare a visitare la cattedrale di San Martino a Lucca. Mi è piaciuto anche giocare con le biglie sulla spiaggia. Tanti saluti da Roby

Il mare mi è piaciuto molto, ho giocato a palla nell’acqua. Le sere che mi sono divertito di più sono state quando siamo andati a ballare. Saluti a tutti Luciano La città che mi è piaciuta di più è stata

Lerici. Abbiamo visto li castello esternamente dal quale si poteva ammirare il panorama con la veduta del porto. Sono stato contento di ritornare a Parma e di visitare paesini che non avevo mai visto come Soragna e Colorno. Saluti da Fulvio

Questi 5 giorni mi sono divertito tantissimo. Ho fatto tanti bagni, ho giocato a pallavolo, alle biglie e ho anche camminato tanto. La città che mi è piaciuta di più è stata Pisa anche se ero già andato. Spero di ritornarci! Saluti Samuele

La spiaggia con la sabbia, il mare, gli ombrelloni e le sdraio mi ha rilassato moltissimo. La sera sono andato a mostrare la mia abbronzatura in sala giochi.

Matteo