Il Giornale della Memoria n.07-2010

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In questo numero PAG.4 Crudeltà su un cavallo Seregno sconvolta Nell’ottobre del 1970, un animale destinato al macello si ribella. Massacrato a botte e lasciato agonizzante per ore PAG.5 1970, notte da incubo per due fidanzatini a Verano Pistole puntate al vetro della 500, due balordi rapiscono lei. Tentando di stuprarla. Caccia all’uomo in tutta la Brianza PAG.6 1961, quando il Gran Premio non volle fermarsi La Ferrari di Von Trips fa strage tra la folla alla parabolica di Vedano. Ma la gara prosegue fino alla fine PAG. 12 L’Aldun che sfondava le reti. Un campione discreto Storia del giussanese Aldo Boffi, dal campetto della Vis Nova alla maglia del Milan e della Nazionale. Un mito calcistico degli anni ’30 e ’40 PAG.14 Gente veneta. Fra nuove storie e ringraziamenti Il numero scorso del Giornale della Memoria ha fatto parlare di sé fra i Veneti della Brianza. Nuove testimonianze PAG.15 Quando Cantù cambiò faccia. Le demolizioni Nel 1932 una seria di grandi cambiamenti urbanistici investì il capoluogo del mobile. Piazza Garibali, detta «Granda», mutò volto. PAG.16 La Memoria? Abita qui La rete dei negozi amici Dalla libreria di Seregno al bar giussanese, dall’edicola di Lissone alla tabaccheria di Alzate. Ecco dove trovarci. ALLEGRIA ! La puntata di prova di Campanile Sera nella piazza di Giussano gremita e con Enzo Tortora collegato. Sfida con Saronno. Da studio, Mike pronuncia la battuta che diventerà il suo marchio. Brianzoli sconfitti e beffati: non vanno in onda Ottobre 1959, la Rai in Brianza per una nuova trasmissione P ronto Giussano, siete in onda». Così Mike Bongiorno collegato dal Teatro delle Vit- torie di Milano. È la prima puntata di Campanile Sera, il nuovo quiz del giovedì che deve sostituire Lascia o raddoppia. Una puntata test, a beneficio dei vertici Rai riuniti in Corso Sempio- ne. Secondo il gioco, una prova di abilità fra due paesi, i Brianzoli si opponevano a Saronno, cittadini dell’Alto Milanese. Durante la gara, la linea passa spes- so alla piazza brianzola dove con- duce un dinamico Enzo Tortora che presenta, sul palco, alcuni per- sonaggi cittadini, come il coman- dante dei vigili Corbetta, con cui inscena un piccolo siparietto e la vecchia gloria calcistica Aldo Bof- fi. In gara, a Milano, il vernciatore Cazzaniga e lo studente del Balle- rini di Seregno, Cassina. Ma alla fine, vince Saronno. E, colmo del- la beffa, la puntata non va in onda: giace ancora negli archivi Rai. servizi a pag. 8 Il cemento continua a dividere Lissone. Se nelle scorse setti- mane, il ritrovamento di una «cimice» negli uffici dell’as- sesorato all’Edilizia ha scate- nato le polemiche, lo sviluppo cittadino aveva creato tensioni fortissime anche 40 anni fa. È il 9 gennaio 1970, quando sul Meridiano Lissonese, pa- gina interna del Cittadino, si dà conto di un fatto che mette a rumore la politica lissonese, allora molto incentrata, come in gran parte della Brianza del resto, sulla Democrazia cristiana. Nottetempo, la cittadina del mobile è stata inondata di ma- nifesti severi contro il partito, colpevoli di frenare lo svilup- po urbanistico di Lissone. Il che fece tuonare la segrete- ria cittadina della Dc. «A parte il livore e insofferen- za di questi “utili idioti” del partito del cemento», esor- disce l’intervento, «non si ri- esce a comprendere il fine di questa azione, condotta sotto il segno del più ignobile ano- nimato». Sull’attacco al consiglio co- munale, al sindaco e alla Dc, rei di non avallare lo sviluppo edilizio della città, «con falsi palesi e insostenibili» e mo- strando «il più rozzo e squa- lificato razzismo», il partito di maggioranza in consiglio co- munale ha le idee chiare: «È il risultato», scrivono i Dc, «del- la campagna orchestrata dal partito del cemento, che non bada a spese pur di continua- re a imperversare sulla città e sul tessuto urbano creando confusione e paura». LISSONE 1970, NASCE IL PARTITO DEL CEMENTO U na notte spensierata di giugno, mentre rientra a Eupilio con due amici, dopo aver festeggiato in pizzeria la fine dell’an- no scolastico, Cristina Mazzotti, 18 anni, figlia dell’industriale Helios, viene rapita da alcuni uomini armati. Pistole spianate, hanno costretto la Mi- ni su cui viaggiavano i giovani a fermarsi quindi, individuata Cristina, la chiudono nel bagaglio della loro auto e la portano via. Ritroveranno il suo corpo in una discarica del novarese ai primi di settembre a pag.10 D a Carate Brianza a San- remo, dal liceo alla tv. A fine agosto del 1982, la 18enne Federica Moro viene incoronata Miss Italia. Un successo ina- spettato le piove adosso e, in breve, viene pro- iettata nel jet-set. È del 1 settembre la sua pri- ma intervista brianzola. La con- cede a L’Ordine, il nuovo quoti- diano monzese. A firmarla è un giornalista di punta di quel giornale, Luigi Losa, che oggi dirige il Cittadino. Nell’inter- vista la giovane Moro mostra già un discreto carattere. a pag.11 CRISTINA MAZZOTTI, QUANDO IL MONDO CROLLA A 18ANNI FEDERICA MORO, QUELLA DICIOTTENNE DI SUCCESSO 1982 La festa 1975 Il dramma BRIANZA n.07 Settembre 2010 euro 2,00 OMAGGIO con il patrocinio di

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Mensile di divulgazione storica della Brianza, numero di settembre 2010

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Page 1: Il Giornale della Memoria n.07-2010

In questo numero

PAG.4Crudeltà su un cavalloSeregno sconvolta Nell’ottobre del 1970, un animale destinato al macello si ribella. Massacrato a botte e lasciato agonizzante per ore

PAG.51970, notte da incubo per due fi danzatini a Verano Pistole puntate al vetro della 500, due balordi rapiscono lei. Tentando di stuprarla. Caccia all’uomo in tutta la Brianza

PAG.61961, quando il Gran Premio non volle fermarsi La Ferrari di Von Trips fa strage tra la folla alla parabolica di Vedano. Ma la gara prosegue fi no alla fi ne

PAG. 12L’Aldun che sfondava le reti. Un campione discreto Storia del giussanese Aldo Boffi , dal campetto della Vis Nova alla maglia del Milan e della Nazionale. Un mito calcistico degli anni ’30 e ’40

PAG.14Gente veneta. Fra nuove storie e ringraziamentiIl numero scorsodel Giornale della Memoria ha fatto parlare di sé fra i Veneti della Brianza. Nuove testimonianze

PAG.15Quando Cantù cambiò faccia. Le demolizioni Nel 1932 una seria di grandi cambiamenti urbanistici investì il capoluogo del mobile. Piazza Garibali, detta «Granda», mutò volto.

PAG.16La Memoria? Abita quiLa rete dei negozi amici Dalla libreria di Seregno al bar giussanese, dall’edicola di Lissone alla tabaccheria di Alzate. Ecco dove trovarci.

ALLEGRIA! La puntata di prova di Campanile Sera nella piazza di Giussano gremita e con Enzo Tortora collegato. Sfida con Saronno. Da studio, Mike pronuncia la battuta che diventerà il suo marchio. Brianzoli sconfitti e beffati: non vanno in onda

Ottobre 1959, la Rai in Brianza per una nuova trasmissione

P ronto Giussano, siete in onda». Così Mike Bongiorno collegato dal Teatro delle Vit-torie di Milano.

È la prima puntata di Campanile Sera, il nuovo quiz del giovedì che deve sostituire Lascia o raddoppia. Una puntata test, a beneficio dei vertici Rai riuniti in Corso Sempio-ne. Secondo il gioco, una prova di abilità fra due paesi, i Brianzoli si opponevano a Saronno, cittadini dell’Alto Milanese. Durante la gara, la linea passa spes-so alla piazza brianzola dove con-duce un dinamico Enzo Tortora che presenta, sul palco, alcuni per-sonaggi cittadini, come il coman-dante dei vigili Corbetta, con cui inscena un piccolo siparietto e la vecchia gloria calcistica Aldo Bof-fi. In gara, a Milano, il vernciatore Cazzaniga e lo studente del Balle-rini di Seregno, Cassina. Ma alla fine, vince Saronno. E, colmo del-la beffa, la puntata non va in onda: giace ancora negli archivi Rai.

servizi a pag. 8

Il cemento continua a dividere Lissone. Se nelle scorse setti-mane, il ritrovamento di una «cimice» negli uffi ci dell’as-sesorato all’Edilizia ha scate-nato le polemiche, lo sviluppo cittadino aveva creato tensioni fortissime anche 40 anni fa.È il 9 gennaio 1970, quando sul Meridiano Lissonese, pa-gina interna del Cittadino, si dà conto di un fatto che mette

a rumore la politica lissonese, allora molto incentrata, come in gran parte della Brianza del resto, sulla Democrazia cristiana. Nottetempo, la cittadina del mobile è stata inondata di ma-nifesti severi contro il partito, colpevoli di frenare lo svilup-po urbanistico di Lissone. Il che fece tuonare la segrete-ria cittadina della Dc.

«A parte il livore e insofferen-za di questi “utili idioti” del partito del cemento», esor-disce l’intervento, «non si ri-esce a comprendere il fi ne di questa azione, condotta sotto il segno del più ignobile ano-nimato». Sull’attacco al consiglio co-munale, al sindaco e alla Dc, rei di non avallare lo sviluppo edilizio della città, «con falsi

palesi e insostenibili» e mo-strando «il più rozzo e squa-lifi cato razzismo», il partito di maggioranza in consiglio co-munale ha le idee chiare: «È il risultato», scrivono i Dc, «del-la campagna orchestrata dal partito del cemento, che non bada a spese pur di continua-re a imperversare sulla città e sul tessuto urbano creando confusione e paura».

LISSONE 1970, NASCE IL PARTITO DEL CEMENTO

Una notte spensierata di giugno, mentre rientra a Eupilio con due amici,

dopo aver festeggiato in pizzeria la fi ne dell’an-no scolastico, Cristina Mazzotti, 18 anni, fi glia dell’industriale Helios, viene rapita da alcuni uomini armati. Pistole

spianate, hanno costretto la Mi-ni su cui viaggiavano i giovani a fermarsi quindi, individuata

Cristina, la chiudono nel bagaglio della loro auto e la portano via. Ritroveranno il suo corpo in una discarica del novarese ai primi di settembre a pag.10

Da Carate Brianza a San-remo, dal liceo alla tv. A fi ne agosto del 1982, la

18enne Federica Moro viene incoronata Miss Italia. Un successo ina-spettato le piove adosso e, in breve, viene pro-iettata nel jet-set. È del 1 settembre la sua pri-

ma intervista brianzola. La con-cede a L’Ordine, il nuovo quoti-diano monzese. A fi rmarla è un

giornalista di punta di quel giornale, Luigi Losa, che oggi dirige il Cittadino. Nell’inter-vista la giovane Moro mostra già un discreto carattere. a pag.11

CRISTINA MAZZOTTI, QUANDO IL MONDO CROLLA A 18ANNI

FEDERICA MORO, QUELLA DICIOTTENNE DI SUCCESSO

1982 La festa1975 Il dramma

BRIANZA

n.07Settembre 2010

euro 2,00OMAGGIO

con il patrocinio di

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2Settembre 2010

Durante l’estate, esattemen-te il 6 agosto scorso, il criti-co letterario de La Stampa di Torino, Marco Belpoliti, ha provato a rifare il viaggio in Brianza che Stendhal compì nell’agosto del 1818, col suo amico milanese Giuseppe Vismara.Il giornalista in un singolare remake letterario, di chiara intonazione dissacrante, era tornato sui luoghi che Henry Beyle aveva visto - Giussano, Oggiono, Alserio - volendo anche annotare quanto fos-sero cambiati, e in peggio.Della città dell’Alberto, Bel-politi ricorda che l’autore de La Certosa di Parma e de Il rosso e il nero salì sul cam-panile, da cui ammirò il pa-norama. «Se oggi Stendhal dovesse risalire le medesi-me scale», chiosava Belpoliti, «non vedrebbe più nulla del genere per via dell’aria pie-na di polveri sospese. Quasi duecento anni dopo tutto ap-pare immerso in una nebbia rossastra».Errore: oggi Stendhal non ve-drebbe niente di quello che vide quasi due secoli orsono, semplicemente perché quel campanile non c’è più. Nel 1927, la furia moder-nizzatrice che percorreva la Brianza, abbatté la secola-re chiesa per ricavarne una piazza.A cavallo degli anni ’30, in nome del nuovo, si rasero al suolo edifici di un certo pre-gio oltre che pezzi di borghi storici. Accadde a Lissone, come a Cantù (la cui storia raccon-tiamo a pagina 15).Ottant’anni dopo, ecco la furia costruttrice: edificare ovunque, in nome dello svi-luppo, lasciando in malora vecchie cascine o case di cortile anche nei centri cit-tadini.Oggi come allora una sover-chia indifferenza alla bel-lezza dei luoghi e alla loro storia. Una lezione che ci ri-fiutiamo di imparare. GdM

Distruttori & costruttori

EditorialeEMUORE AI GIARDINETTI MA C’È CHI TIRA DIRITTOBuco fatale per un 16enne di Carate: lo trovano all’alba ma, dicono i Cc, molti avevano visto senza dare l’allarme

L a Brianza, in quei giorni, faceva i con-ti con un’ospite sub-dola e feroce, che entrava nelle case,

prendendosi i figli più indifesi. Si chiamava, colmo della beffa, eroi-na, quasi fosse una donna capace di coraggio e virtù e invece era una scimmia, come si diceva allora, sul-la spalla di tanti troppi ragazzi. L’11 settembre del 1982, era sabato e la gente, andando al bar, a fare spe-se o in fabbrica per la consueta mat-tinata di straordinario, mormorava di quel bagai morto per la droga il giorno prima. Un altro.Marino C. un ragazzo lo era davve-ro: 16 anni, caratese, brianzolo doc. Lo avevano trovato nei giardini di Via Vittorio Veneto a Veduggio. Era andato fin là per bucarsi con un amico più grande, A. Z., 28en-ne, di Carate anche lui. Li aveva visti qualcuno a terra, apparentemente esanimi, ma so-lo Marino era già morto: l’altro rantolava. Il buco fatale, secondo la ricostruizione dei Carabinieri di Besana, intevenuti al comando del maresciallo Giovanni Fazzini, era avvenuto intorno alle 22: i due era-no arrivati con la moto di Marino e si erano appartati al buio.«Sul posto si sono iniettati una dose e si sono sentiti male», scrive L’Ordi-ne della Brianza. Con loro ci sareb-be stata anche un terzo compagno che, capita la gravità della situazio-ne, si sarebbe dileguato senza nep-pure dare l’allarme.A uccidere il giovane sarebbe stato il taglio dell’eroina: accadeva infatti

La tragedia 1982 eroina killer a Veduggio

Il numero

i piani dai quali cadde, il 19 settembre del 1970 una bambina seregnese di soli cinque anni, Maria Selvaggi. Conclusione miracolosa di un’avventura drammatica, titolò il Cittadino, per-ché la piccola, incredibilmente ne uscì illesa. Scendendo, con un’amichetta, le scale dal decimo piano di uno stabile in via Gozzano 12, Maria scivolò, infilandosi fra la ringhiera di prote-zione e i gradini, precipitando per alcuni piani, «rimbalzando da un pianerottolo all’altro».

QUATTRO

che per “moltiplicare” le dosi, nella catena dello spaccio, si mescolasse spesso a gesso o a borotalco, a in-tonaco grattato dai muri, ma anche altre sostenze più velenose che, ne-

L’articolo dell’Ordine

della Brianza che racconta

della tragedia di Marino C.

Continuavano a tornare, anche molti anni dopo. Erano i brian-zoli caduti nella Seconda guerra mondiale. Man mano che la terra o la burocrazia ne restituiva i resti, i caduti rientravano a casa, dove c’erano ancora amici, familiari, coscritti pronti a pian-gerli. Fu così anche il 30 settembre del 1963, a Limbiate. Come raccontò L’informatore limbiatese, da Bari giunsero le spoglie del maggiore Mario Gatti e del soldato Alessandro Bogani. Entrambi erano caduti sul fronte greco-albanese e, probabil-mente, il capoluogo pugliese era stata una tappa, dopo il loro recupero da qualche cimitero di montagna ellenico. Il tributo dei limbiatesi alle loro giovani vite, troncate anzitempo dalla follia della guerra, si ebbe da prima nella chiesa vecchia di Piazza Solari e poi nella chiesa parrocchiale, presenti tutte le associazioni d’arma e combattentistiche. «Chiediamo a Dio anzitutto e poi agli uomini», scriverà un ano-nimo redattore, «che tali sacrifici di milioni di soldati e di vittime civili non siano stati fatti invano e che noi ci meritiamo quella che pace che essi hanno già duramente pagato per noi».

Tutti al circo! La sera del 4 ottobre del 1950, molti seregnesi ac-corsero in massa alla rappresentazione di un gruppo di acroba-ti, i Palmiri. Ma sul più bello, mentre gli artisti volteggiavano

in numeri che strappavano degli “oh” di stupore, la tribunetta di legno cominciava a muoversi. Come riferisce il Corriere della Sera del 5 ottobre, «a causa del terreno umido, parte della copertura che sosteneva l’assito della platea cedeva e diverse persone cadevano dalle loro sedie». Le espressioni di ammirazione per gli acrobati lasciarono il posto a quelle di paura di quanti ruzzolavano a terra. Fortunamente, racconta il Corriere, «solo un po’ di spavento» e nessuna conseguenza per i caduti. Unico sfortunato il 29enne Antonio Pellegata che riporterà «contusioni giudicate guaribili in 10 giorni».

Fiamme in una notte di ottobre. Molte famiglie di Carugo, il 5 ottobre del 1960, vengono svegliate dalla urla e dal trambusto che arriva dal mobilifi cio dei Fratelli Turri. Sono le due e, af-

facciandosi alle fi nestre, molti vedono lingue di fuoco librarsi alte dai capannoni. L’incendio è minaccioso, come riporterà due giorni dopo il Corriere della Sera, e parrebbe anche poter attaccare le case. Panico. Chi ha il telefono in casa - nella Brianza degli anni ’60 non era certo scontato - fa il numero dei Vigili del Fuoco. Arrivano a sirene spiegate dalla non lontana Carate. Ma, come spiega il giornale, non possono far altro «che allontanae la gente dal luogo del sinistro, iso-landolo e assistere impotenti alla distruzione del capannone, giacché nelle vicinanze non esistevano bocche d’acqua suffi cienti ad attaccare l’incendio». Un mesto spettacolo che «si è prolungato fi no alle prime luci dell’alba» e che ha comportato 25 milioni di danni, in compensati e legnami pregiati. Titolo del Corriere: «Ore d’incendio a Carugo con i vigili senz’acqua».

La cronaca

1950 Seregno, paura al circo

1960 Carugo, pompieri senz’acqua

lel vene, potevano diventare fatali. Ma le cronache raccontano anche un fatto incredibile: «Ieri mattina all’alba diverse persone di Vedug-gio sono passate in zona e hanno

fatto finta di niente», scrive l’Ordi-ne, qualcuno ha visto i due corpi, a terra, ma non ha avuto il coraggio di avvisare l’ordine». Quando la no-tizia era arrivata, per Marino non c’era più nulla da fare. Se l’allarme fosse stato dato subito, forse la sua vita poteva essere risparmiata.Il suo corpo «è stato trovato dai ca-rabinieri a ridosso di una ripa qusi cercasse di allontanarsi dalla mor-te». L’anonimo cronista chiude il suo articolo con un appello: l’epi-sodio è solo la punta dell’iceberg di una tossicodipendenza crescente.«Ma se l’Alta Brianza, già teatro di delitti inenarrabili, non saprà bloc-carli, ogni speranza di sottrarre gio-vani al male del secolo sarà vana». Secondo il quotidiano brianzolo «nel suolo besanese vi siano alme-no sette-otto spacciatori», ma che nessuno pare avere la voglia «di de-nunciare come avviene in altre zo-ne della Brianza».A fianco, un commento: «Parlare di una situazione “allarmante” è su-perfluo: il livello di diffusione del fe-nomeno è divenuto insopportabile. Non è più tollerabile che centinaia di giovani consumino nel nulla la propria esistenza trascinando nel vuoto intere famiglie». E si chiese che la politica anche lo-calmente si muovesse, perché la re-pressione non bastava: «Le ammi-nistrazioni comunali si incontrino, discutano, facciano proposte ope-rative». Prevenzione e recupero dei tossicodipendenti, si disse. Ma non un commento su quelli che a Veduggio avevano visto e deciso di tirare diritto.

La storiaMARIO E ALESSANDRO, CADUTI CHE LIMBIATE RIABBRACCIA

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CSettembre 2010

Colophone

Gli alpinisti sudamericani ancora commossi per la scomparsa dello scalatore di Villasanta sul Monte Bianco

Il caso 1961, tributo dal Perù

La sicurezza sui luoghi di lavoro è tutt’oggi un problema aper-to, figuriamoci mezzo secolo fa. Se oggi, le cronache sono spesso funestate da incidenti se non addirittura morti bianche; ferirsi o, peggio, perire sul lavoro non era troppo infrequente nella Brianza degli anni ’60Ne è una testimionianza la tragedia sfiorata in un cantiere monzese: a causa di un crollo, due operai, feriti, rimangono per ore in bilico a 15 metri d’altezza. Ne dà notizia il Corriere Lombardo del 16 ottobre 1959. Il giornale, pur riportando la foto, non indica il luogo del fat-to ma fornisce le generalità dei protagonisti e molti dettagli sull’incredibile situazione di pericolo in cui si sono trovati. Due operai, dopo il cedimento di una vasta parte dell’edifi-cio che stavano ristrutturando, si trovano salvi ma feriti su una piano che non è largo più di 40 centimetri. Sono il monzese Dino Villa, allora 28enne, e il lissonese Gian-carlo Brambillasca, di 30. Sono malconci: Villa ha una gamba quasi spappolata perché finita sotto un macigno. Nel loro precarissimo rifugio, il compagno di lavoro è riuscito ugualmente a prestare le prime cure al ferito: strappandosi la camicia aveva legato stretta la gamba sopra la ferita, in modo da fermare l’emorragia. Alla drammatica situazione assistono impotenti i compagni di cantiere, in attesa dei soccorsi. I vigili del fuoco di Monza, arrivati dopo poco, tentano vana-mente di trarli in salvo: per salire dovrebbero appoggiarsi sul

muro in cima al quale sono intrappolati i due ma la struttura è pericolante e le scale dei pompieri rischiano di farla venir giù definitivamente. Si deve allora far ricorso al comando di Milano, che invia un’autoscala lunghissima, capace di recuperare i due senza mettterne in pericolo la vita. «Il Villa è in gravi condizioni all’ospedale di Monza ma non si dispera di salvarlo», conclude il giornale.

«QUEL PICCO SULLE ANDE SI CHIAMERÀ OGGIONI»

La lettera viene resa nota dal Cittadino del 9 settembre del 1961: il Club andinista pe-ruviano, il corrispet-

tivo del nostro Club alpino italiano, l’ha scritta allo scalatore monzese Bruno Ferrario: «Il ghiacciaio del Rondoy sarà intestato al suo colle-ga Andrea Oggioni». Gli scalatori sudamericani scrivono a Ferrario, perché in cima al Picco del Rondoy c’era stato di recente. La dedicazione a un altro alpini-sta brianzolo, Andrea Oggioni, ar-riva sull’onda dell’emozione che ha colpito il mondo intero pochi mesi prima, il 16 luglio, quando il 31en-ne è morto di freddo e di stenti sul Monte Bianco.La vicenda aveva sconvolto l’Italia intera perché un’intera cordata era stata inchiodata dal maltempo sul Freney,il pilastro centrale del gigan-te alpino, insieme al grande Wal-ter Bonatti, a Roberto Gallieni e ai francesi Pierre Mazeaud, Pierre Kohlmann, Robert Guillaume e Antoine Vieille. Italiani e francesi s’erano incontrati proprio sul massiccio, alla Bivacco della Fourche: erano bastate poche parole, pochi saluti e una passio-

La foto di Piero Vismara riporta una discalia semplice: «Settem-bre 1979, svincolo Valassina Briosco-Giussano, Renato Pozzet-to». L’ex-cabarettista era in Brianza per girare uno dei suoi tanti fi lm. Quale diffi cile saperlo: quell’anno toccò a La patata bollen-

te, Tesoro mio, Giallo napoletano e Agenzia Riccardo Finzi.

IL CONTADINO IN VALASSINA

La tragedia sfiorataPAUROSO CROLLO NEL CENTRO DI MONZA,OPERAI IN BILICO PER ORE A 15 METRI D’ALTEZZA

La curiosità

il Giornale della Memoriamensile di divulgazione storica

www.giornaledellamemoria.it

Registrazione pressoil Tribunale di Monza.n. 1975 del 15/02/2010

Direttore responsabile: Giampaolo Cerri

RedazioneVia Giusti, 32/c20034 Giussano (MB)tel. 0362.285087 [email protected]

hanno collaborato: Leandro Cazzaniga,Martina Cerri, Beppe Citterio, Daniele Corbetta, Doranna Fumagalli, Sergio Giussani,Walter Giussani, Annagrazia Internò,Gigi Molteni,Erminia Moretto (ricerche d’archivio),Daniele Villa

Si ringrazia per l’amichevole collaborazione:Pietro Vismara, fotografo

Progetto grafi co e impaginazione: box313 (www.box313.net)

Editore: Associazione Culturale Storia e TerritorioVia Giusti, 32/c20034 Giussano (MB)tel. 0362.285087email: [email protected]

StampaA.G. BELLAVITE Via I maggio, 4123873 Missaglia (Lc)

Stampato su carta ecologica EFC,con inchiostri a base vegetale.

ne in comune: raggiungere quel-la vetta inviolata. Farlo insieme, probabilmente, sarebbe stato più agevole. Era la notte fra domenica 10 e lunedì 11 luglio e tutti, italia-ni e transalpini, avevano in mente quel monte di granito di cui veni-re a capo.La scalata procedeva per il meglio: i sei alpinisti eff ettuarono un altro bivacco, questa volte in parete, la notte successiva e l’indomani, par-titi di buon ora, raggiunsero al base del pilastro, a quota 4.500 metri. Si tratta della Chandelle, la porta da cui si può aggredire ancora la mon-tagna, per circa 140 metri, e arrivare in cima al Freney.Era ormai mezzogiorno di marte-dì 12 e i francesi per primi avevano aggredito la Chandelle quando un tuono squarciò l’aria, accompagna-to da nubi nere da Ovest. La spe-dizioni si bloccò lì. La pioggia e la neve durarono per giorni. Il grup-po tentò la discesa all’alba del 14 luglio. Ma sarà una discesa tragica: la neve fresca costa la vita a Vieille e Guillaume, caduti nei crepacci l’in-domani. Poi, al Canalino dell’Inno-minata, il ghiaccio ingarbuglia le corde di Oggioni, mentre Kohl-mann e Mazeaud davano segni di

sfi nimento. Bonatti e Gallieni pro-cedevano alla ricerca dei soccorsi ma, che si pensava potessero essere alla Capanna Gamba. Ci arrivaro-no alle 3 del mattino ma quando,

con i soccorritori, ritornarono al Canalino, trovarono vivo solo Ma-zeaud. Per Oggioni, il lungo amore con la montagna, cominciato anni prima sulla Grigna, era fi nito.

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N on si uccidono così anche i cavalli? Era il titolo di un film america-no di media fattura degli anni ’70: più che la storia, firmata dal regista Sidney Pollack (e trat-

ta dal libro di Horac McCoy), ebbe più fortuna come titolo o meglio per la sua traduzione ita-liana. Presentato a Cannes, nel marzo del 1970, è la storia di una coppia che si iscrive a una deva-stante gara di ballo, con l’America della Grande Depressione sullo sfondo. Quel titolo sarebbe venuto buono, nell’ottobre dello stesso anno, per una storia di ordinaria me-schinità andata in scena per le vie di Seregno. La racconta il Cittadino del 10 ottobre e anche oggi suona quasi incredibile.Un macello di Via Colombo acquista un cavallo destinato alla triste fine: allietare con le sue bi-stecche le tavole di molti brianzoli. La carne di cavallo non piace a tutti ma ha un suo pubbli-co di appassionati e soprattutto è raccomanda-ta alle persone anemiche, per la sua ricchezza di ferro.Fin qui tutto bene. O meglio, per gli animalisti tutto male: ancora oggi il fatto che gli equini possano finire nel piatto, inorridisce e sgomenta alcuni, ma tant’è. La storia di quarant’anni fa, putroppo, porta in sé un orrore che va ben oltre le posizioni di prin-cipio. Accade, in quella mattina d’autunno nella quale, a giudicare dalle foto e dalla luminosità del giorno, l’estate sembrava non voler cedere il passo, che da un allevamento di Zoccorino, di proprietà del brianzolo Luigi S., una bestia fosse condotta a Seregno per essere appunto macel-lata. Nulla si sa dell’animale: se fosse vecchio, se fosse stata una bestia da lavoro e che avesse terminato le sue fatiche terrene o se, al contra-rio, fosse stata allevata sui pascoli di Zoccorino - dove il solo illuminava la campagna e fa brillare le nevi su Resegone - per essere poi macellata. Sta di fatto che l’animale, la cui intelligenza è proverbiale, intuisce cosa stesse per accadere e quando l’autista, arrivato nel cortile della macel-laria, cerca di farlo scendere dal camioncino, il cavallo punta le zampe come se fosse un mulo. Niente, non c’è verso di farlo uscire fuori. A dar man forte all’autista dell’allevamento allora ar-riva un addetto della macelleria che, con l’altro, si mette a tirare. Ma l’animale recalcitra: gli zoc-coli stridono sul piano di legno, il muso resiste alle corde. Nel cortile risuonano le bestiemme e gli improperi dei due e i nitriti di sforzo e di paura della bestia. Finché i due uomini, sfiniti e infuriati, decidono di passare alle maniere forti: il cavallo non vuol scendere con le buone? Si prenderà una bella razione di randellate. Proprio così, si procura-no ognuno un bastone nodoso e cominciano a picchiare sul muso e sulle zampe della bestie che, nell’angusto spazio del camioncino, non ha neppure lo spazio per difendersi. Urla e bot-te, scalpitio disperato, senza non poter neppure scalciare, senza nemmeno poter tentare una re-sistenza disperata.E così Seregno si trasforma in un teatrino tragico in cui due energumeni, che hanno la forza dalla loro, massacrano una povera bestia che resiste al suo destino.Che problema c’è? Si saranno deti i due: l’anima-le deve finire al macello, la sua sorte è segnata. Se non ne vuol sapere di scendere, peggio per lui. Sofferenze? Ma va là, sono bestie! E poi ab-biamo da lavorare.Sotto le mazzate dei due infuriati, il cavallo pie-ga le zampe anteriori, s’accascia semi-svenuto.

«Gli hanno fratturato la testa e gli arti anteriori», scriverà il Cittadino.Domata nel sangue la voglia di sfuggire il macel-lo, la bestia viene trascianata dai due in un ango-lo del cortile. «L’equino è stato ridotto in fin di vita a bastonate e lasciato agonizzare per oltre tre ore agganciato a una corda ad un portone sotto gli occhi sgomenti di numerose persone», scrive il giornale monzese. Proprio così. Non è che i due energumeni, una volta piegata la bestia, l’avessero abbattuta subi-to. No, ognuno è tornato ad altre occupazioni, tutte evidemente più urgenti del colpo di grazia che il cavallo ferito meritasse.Ma anche quarant’anni fa, seppure la sensibilità verso gli animali non fosse certo spiccata come oggi, la gente aveva un cuore e la sofferenza gra-tuita, anche di un animale, era uno spettacolo insopportabile a molti.E succede che i tanti che si trovassero a passare dal cancello di quella corte sostassero inorridi-ti e scandalizzati. Forse qualcuno, si reca anche dai proprietari del macello, a protestare. Qual-cun altro non può far a meno di fare un colpo di telefono in Comune, al comando dei vigili, raccontando il triste spettacolo che andava in scena, lì a due passi dal municipio.Il maresciallo Aldo Regolin, con un suo vigile, prende l’auto e va a vedere se le cose che più vo-ci, al telefono, gli denunciano sono vere. E par-cheggiata l’auto della municipale in prossimità

della corte, raggiungono l’indirizzo di Via Co-lombo. E capiscono come fosse tutto vero. Che i seregnesi indignati, quelli che avevano alzano il telefono, fra cui alcuni abitanti della corte, non hanno esagerato: il cavallo - grigio, a giudicare dalle foto - era adagiato su un fianco, sanguinan-te e respirava con fatica. Secondo il giornalista del Cittadino, i vigili fanno «in tempo a vedere l’animale spirare». Non si uccidono così anche i cavalli? No, non si ammazzano così neppure i cavalli, si dice il maresciallo Regolin, mettendo tutto a verbale.Un fatto che deve aver colpito la pub-blica opinione, tanto è vero che, la settimana successiva, il Cittadino ripropone alcuni sviluppi della vicenda, inserendo anche la foto del pove-ro animale agonizzante (che pubblichiamo so-pra, ndr).L’aggiornamento della notizia è il seguente: il comando dei vigili urbani seregnesi ha deciso di trasmettere il rapporto dei ghisa intervenuti al Pretore competente, per verificare se e quali reati erano stati compiuti. Nelle settimane suc-cessive, i responsabili di quella mattina di follia sarebbero stati sanzionati con pene pecuniarie.Troppo poco - avrà commentato qualcuno dei tanti attoniti spettatori che, in quella mattina di quasi autunno, videro morire un cavallo senza nome - troppo poco: perché chi tratta male le bestie è pronto a far lo stesso, c’è da giurarci, con i cristiani

SCENE DI FEROCIA IN BASSA BRIANZAUn cavallo destinato a un macello di Seregno, s’impunta. Due addetti lo prendeno a bastonate e lo lasciano agonizzare per ore nella corte. La gente, inorridita, chiama i vigili

Cronaca 1970, incredibile storia di crudeltà sugli animali

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U na sera fredda di gen-naio. Forse un cielo stellato e due fidan-zatini che cercano un po’ di intimità

nella 500 di lui, nella Cava Borgo-novo di Verano. Il 16 gennaio del 1970 è un vener-dì e i due giovani sono usciti forse perché lui, che oggi chiameremo Marco, nome di fantasia, 22 anni, operaio di Veduggio, non lavora e si può fare un po’ più tardi. Due ragazzi rannicchiati nella 500 in una notte brianzola, un quadret-to che vale un’epoca: a quante cop-pie oggi mature sarà successo. Ma quella notte, per lui e la sua ragaz-za, che oggi chiameremo Anna, di un paese della Bassa Brianza, fu una notte tragica, segnata dal-la paura e poi, per giorni e giorni, dalla vergogna.Mentre sono lì a scambiarsi delle effusioni, nel vetro mezzo appan-nato, si sente battere come di un rumore metallico. Paura: i due si ricompongono. Al di là del vetro c’è certamente un uomo con una pistola e col volto imbavagliato, al-la maniera dei banditi del Far West. Già, ma qui siamo a Verano in una notte di gennaio, non è un film. E ce n’è un altro, insieme a quello armato. Fanno cenno a Marco di uscire. Lui tituba ma i due sembra-no maleintenzionati. Esce con le mani in alto. Con modi spicci lo fanno avvicinare a un muro e lo tengono lì a guardare il buio, di-stante dall’auto, sotto la minaccia di una pistola: «Non ti muovere». Secondi di terrore, rabbia, voglia di reagire: Anna è là, in balia di que-sti matti, che le faranno? Forse se lui tentasse una reazione, un gesto, un grido forse si sentirebbero mi-nacciati, forse desisterebbero. Ma

NOTTE DA INCUBO, RAPITA E SEVIZIATAUna coppietta di giovanissimi si apparta in auto nella Cava di Verano in una notte di gennaio. Due armati bussano al finestrino e si portano via lei. La ritrovano i Cc sotto shock

Cronaca 1970, aggrediti due fidanzatini in 500

quella pistola, quell’arma punta-ta metteva a Marco un sacro ter-rore. Chi sono? Cosa vogliono? Saranno balordi o criminali veri? Basterebbe un urlaccio a metterli in crisi o è gente spietata e pron-ta a tutto? Ragionamenti spezzati dal rumore della 500 che ingrana la prima e lascia il piazzale della Cava a tutta velocità. Marco si sente morire: il tempo di voltarsi e vedere i fanalini ros-si della macchina allontanrsi con Anna dentro e di vedere una Giu-lia bianca, sgommare a poca di-stanza, forse guidata da un com-plice.Mezzanotte passata, freddo, la Ca-va deserta, le case lontane e so-prattutto un paura matta per lei, per Anna. Corre, Marco, corre fi-no alla Valassina. È disperato: ve-de i fari di una macchina avvici-narsi, gli fa segno disperatemente, a rischio di essere messo sotto. Si spiega a fatica ma è convincen-te, il buon samaritano lo aiuta a lanciare l’allarme.«Si è fatto accompagnare alla ca-serma dei Carabinieri di Seregno», scrive il Corriere della Sera di sabato 17 gennaio, «dove ha denunciato il fatto. Da Desio, Milano e Como sono partite gazzelle dei Cc per la caccia ai malviventi». I militi trovano dopo qualche ora la macchina del veduggiese: è sta-ta abbandonata per le strade di Seregno. E per strada, a Seregno, una gazzella dei Carabineri ritrova Anna che vaga, visibilmente sotto choc, di notte. «Mi hanno portato in un prato e mi hanno violenta-ta», dirà inebetita agli uomini in divisa.Ha solo 17 anni, vive con la fami-glia e quella che le sta capitando pare una vicenda troppo troppo

pesante da sopportare. La portano in caserma per prende-re a verbale la sua prima deposizio-ne. «Anna, che è stata interrogata a lungo dopo aver superato lo choc, non ha ancora reso una versione convincente di quanto è realmente accaduto dopo che aveva lasciato il fidanzato», scrive il Corriere, «alcu-ne contraddizioni hanno lasciato perplessi gli inquirenti».Quarant’anni fa, come talvolta accade ancora oggi, quando una donna subisce violenza, ancor prima di conoscere i fatti e i loro svolgimento, si insinua, striscian-te, l’idea che in qualche modo se la sia cercata. Specialmente se si è giovani, come Anna, e se ci si tro-va a mezzanotte in macchina col moroso in un luogo isolato. «Le reticenze della ragazza fanno pen-sare che il suo comportamento sia condizionato da qualche minaccia rivoltale dai suoi rapitori», scrive il quotidiano di via Solferino. Anna conosce i suoi seviziatori? Te-me uno scandalo maggiore, rive-landone l’identità? Anna, a un certo punto, cerca an-che di alleggerire la posizione dei

suoi rapitori: non l’hanno violen-tata, limitandosi a compiere degli atti osceni davanti a lei. Un cambio di versione che non convince «il capitano Iamoni, co-mandante della Comandante del-la Compagnia di Desio, che con i sottufficiali Capone e Vernò, sta conducendo l’inchiesta, non dispe-ra di poter convincere la ragazza a raccontare tutto». E anche i genitori di Anna, arrivati nella notte da casa, che riabbraccia-no la loro figlia distrutta, in caser-ma, non paiono troppo convinti di questa ultimo passaggio, tant’è ve-ro che - come racconta la cronaca - chiedono che la ragazza sia sotto-posta ad accertamenti medici.Nelle stesse ore qualcuno è già a letto a casa sua ma forse non riesce a prender sonno per l’adrenalina che quella notte folle gli ha messo in circolo. L’indomani si presenterà a lavoro, tirato a lustro, come ogni mattina e commenterà con i colleghi, ai can-celli o alla macchina del caffè, quel-la storiacca della Cava di Verano, magari scuotendo il capo e com-mentando: «Se l’è cercata»

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Lui era carino, cortese, un affabile corteggiatore. Studente all’Università di Pavia, faccia simpatica: anche se lei l’ave-va conosciuto in Internet e per quanto fosse più piccolo di due anni (lei ne ha 23), accetta l’invito a uscire.Non si era stupita quando lui, una sera, era arrivato a Vare-do, dove lei vive, anche con due amici. Due ragazzini più piccoli di lui, 17 e 18 anni, ma tutto sommato simpatici.Ne, lei, si era insospettiva quando l’avevano invitata a sa-lire: «Dai, facciamo un giro», avevano detto ridendo. Ma quando lui, dopo un quarto d’ora di girovagare, ha puntato diretto la zona del campo sportivo, deserta a quell’ora di sera, lei ha capito tutto. Poco dopo la violentavano in due, mentre il terzo fi lmava col telefonino. È la sera del 6 agosto scorso. I Cc arresteranno il terzetto un mese dopo.

Una suggestiva immagine del film La Ciociara, con Sofia Loren, simbolo tragico della violenza sulla donna

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L’a u t o m o b i l e scappa dal cir-cuito, evaden-do dalla pri-gione in cui si

trova. Le reti non hanno abbastan-za coraggio per reggere lo scontro con il bolide impazzito che lascia senza scampo ben sedici persone. Tra loro c’è anche Roberto Bram-billa, che a soli sei anni se ne va con il padre Mario a causa di un tragico incidente. Ci sono anche due giovani fidanzati di Biella, fal-ciati dal mezzo, così come Augu-sto, Rinaldo, Franca e Claudina, giunti dalla Valle d’Aosta per una giornata di festa e destinati a un tra-gico appuntamento con la morte. In ultimo c’è anche Wolfang Von Trips, pilota tedesco della Ferrari, al volante dell’auto uscita di pista. È il 10 settembre 1961 e il Gran Pre-mio di Monza è il teatro di uno dei più gravi incidenti della storia della Formula 1. Il sabato precedente è proprio Von Trips ad entusiasmare la folla, co-gliendo una spettacolare pole po-sition e inserendosi di diritto nella lotta per i pretendenti alla vittoria del Gp d’Italia. Non solo: il tede-sco dalle nobili origini, sopranno-minato «Taffy» è in corsa per il ti-tolo Mondiale e detiene la prima posizione con due gare ancora da disputare, a Monza e negli Stati Uniti. L’atmosfera è carica e la ri-sposta brianzola sulle tribune è di quelle da record, come sottolinea la Gazzetta dello Sport «un pubblico che a Monza si era visto poche vol-

Tragedie Monza 1961 la Ferrari vola fra la folla

QUANDO IL GP NON SI FERMÒIl tedesco Wolfgang Von Trips, girando nella parabolica di Vedano, viene tamponato da Clark e fi nisce fra gli spettatori uccidendone 15. Morti e feriti ma la gara continua di Daniele Corbetta

te»: sole e caldo fanno il resto, alle-stendo tutti gli elementi necessari per mandare in onda una giornata di festa sportiva, che purtroppo non arriverà mai. Al secondo giro, presso l’imbocco della curva parabolica di Vedano, la Lotus di Jim Clark tampona ad ol-

tre duecento chilometri orari la Fer-rari numero quattro di Von Trips, scatenando una spirale infernale. Il bolide rosso sfreccia senza control-lo verso il terrapieno, manda in mil-le pezzi la leggera rete metallica di protezione e si abbatte come una furia sugli spettatori increduli. Do-

po cinque o sei testacoda, sospesi fra terra e aria, che colpiscono al-tri tifosi, la carcassa della 156 sceglie fatalmente di tornare nel suo habi-tat, la pista. Ma è troppo tardi. Von Trips è sbalzato fuori dall’abitaco-lo subito dopo l’uscita: il suo corpo esanime fu ritrovato a venti metri

Wolfgang Von Trips morto a 33 anni. Sopra la sua Ferrari in pista.A fianco le immagini dell’incidente

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I superstiti

Taffy e gli altri

Luigi Sirtori e Luigi Paleari furono due brianzoli superstiti nel terribile incidente Von Trips. Il primo, l’unico monzese coinvolto nel sinistro, racconta la sua incredibile esperienza al Cittadino del 23 settembre: «È proprio un miracolo se io e mio cognato oggi siamo ancora vivi». Sirtori, 56enne, spiega di essersi re-cato all’autodromo quasi per caso, dopo molti anni di assen-za, per accompagnare il cognato, Paleari, all’epoca 51enne, di Villasanta. «Per meglio leggere i numeri delle macchine sono arretrato di circa un metro dalla rete di protezione, sovrastando con la mia statura le teste dei vicini», racconta. Improvvisamente «uno schianto e ho sentito una vampata, come di ferro rovente, passarmi sul viso, nel mentre venivo immerso in un polverone. Non fossi arretrato di quel metro scarso, anche per me sarebbe stata la fi ne». Al contrario Palerai si era «accucciato, per riuscire a vedere attraverso uno spiraglio fra gli spettatori in prima fi la». Anche per lui nessuna conseguenza, eccetto un sasso che lo ha leggermente ferito al capo. Nel frattempo, l’in-ferno: «Non appena diradatasi la nube di polvere abbiamo visto l’orribile scena. Quelli che pochi istanti prima erano a nostro stretto contatto si trovavano tutti a terra ammucchiati, morti o fe-riti, chi mutilato e chi orrendamente sfi gurato. Di quel gruppetto solo noi due eravamo rimasti in piedi e salvi».

Insieme al pilota tedesco di Horrem, Wolfang Von Trips, moriro-no nell’incidente anche un cittadino svizzero, Franz Waldvoger e gli italiani Albino Albertini, Mario Brambilla, Roberto Brambilla, Franca Dugued, Luigi Fassi, Luigi Freschi, Rinaldo Girod, Giu-seppina Lenti, Luigi Motta, Paolo Perazzone, Claudia Polognoli, Augusto Camillo Vallaise, Laura Zorzi, Renato Janin. Fra loro un gruppo di sportivi arrivati fi no a Monza dalla Val d’Aosta.

LUIGI E LUIGI, GLI UNICI SALVI FRA POLVERE E SANGUE

Silverstone, Montecarlo, Indianapolis, Bremgarten, Spa, Reims-Gueux e fi nalmente Monza: la neonata Formula Uno approda per la prima volta in Italia il 3 settembre 1950. All’autodromo brianzolo toccherà il compito di eleggere il primo Campione del Mondo della storia dei motori.

Sono passati 60 anni da quando la Federazione Internazionale dell’automobile istituì il Campionato del Mondo di Formula 1 riservato ai piloti e indicando Monza come ultima gara in calendario: il seguito dell’automobi-lismo, in termini di pubblico, era in continua crescita, perciò ci fu la creazione di un campionato a punti, sce-gliendo sette circuiti che già avevano segnato la storia di tale sport. La data di nascita del Campionato è dunque il 13 maggio 1950, a Silverstone. Il momento clou, l’apice di questa prima competizione è però nel capoluogo brianzolo, come ricorda il Cittadino del 26 agosto 1950 «l’autodromo di Monza vivrà il 3 settembre prossimo una delle sue più grandi giornate, in occasione del XXI Gran Premio d’Italia». Le premesse erano delle migliori: la «squadra delle tre F» era pronta a dar spettacolo e lottare per il titolo iri-dato. Juan Manuel Fangio si presentò a Monza in vetta alla classifi ca con 26 punti, seguito da Luigi Fagioli con 24 e da Nino Farina con 22. I tre piloti correvano per l’Alfa Romeo, assoluta dominatrice con l’Alfetta 158, senza rivali nell’annata in corso: il Campione del Mondo sarebbe uscito da questo tris di nomi. Ferrari e Talbot sono le mine vaganti, pronte a scompigliare la gara e ben comportatesi nelle competizioni non rientranti nel circuito Formula Uno. Continua il Cittadino: «Non si assisterà ad una corsa in famiglia ma a quella gara che le folle desiderano: ad una vera e propria battaglia senza quartiere fra campioni di grande classe». Fangio parte in pole, seguito dalla Ferrari di Ascari, davanti a circa 70 mila spettatori desiderosi di festeggiare un campione del Mondo italiano: la Rai trasmette l’evento in tutta Italia e anche radio argentine e brasiliane mandano in onda la cronaca. Al via è Farina a bruciare tutti, dando il via ad un duello Alfa-Ferrari con la rossa di Ascari, il quale prende il comando della gara durante il 15mo giro. Al 22mo il pilota del Cavallino sarà co-stretto a ritirarsi per un guasto. Ma la Formula 1 delle origini riserva sorprese: Ascari raggiunge i box a piedi e continua la corsa sulla vettura del compagno Serafi ni, fermo per rifornimento. Stessa sorte capita a Fangio: ritiratosi al 24mo passaggio per la rottura del radiatore, continua il Gp al volante dell’altra Alfa Romeo di Ta-nuffi («tra i fi schi di disapprovazione del pubblico», come scrive il giornale), prima di prendere la via dei box defi nitivamente, per un guasto. Tra ritiri e colpi di scena la bandiera a scacchi sorrise a Farina, davanti ad Asca-ri e a Fagioli: il torinese diventa così il primo campione del mondo nella storia della Formula 1. L’alloro più importante è consegnato per la prima volta ad un pilota italiano, al volante di un’automobile italiana e su un circuito italiano. Brianzolo per esser precisi

Sessant’anni fa, debutto in Brianza del campionato destinato a fare storia. Una corsa da batticuore, vinta dall’Alfa Romeo

LA PRIMA VOLTA DI MONZA IN FORMULA 1

7Settembre 2010

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Il fatalismo del CittadinoTerminato il fracasso e atte-nuatasi l’indignazione per delle morti così atroci si ini-zia a riflettere sulle cause dell’accaduto, aprendo un dibattito pro e contro le mi-sure di sicurezza del circui-to di Monza. Il Cittadino del 16 settembre fa subito capire la propria posizione in meri-to alla vicenda, attribuendo la sciagura esclusivamente al destino avverso: «Se do-vessimo far correre le mac-chine per quindici giorni e quindici notti consecutive, la tragedia non si ripeterebbe. È una tragica fatalità, che ha condotto la macchina di Von Trips contro la protezione del terrapieno e contro la rete. La stessa fatalità che fa crollare una casa e seppellisce uomi-ni, donne e bambini». Pen-siero è rimarcato anche do-po i funerali delle 16 vittime: «Colpa della fatalità piuttosto che della spericolatezza dei corridori o di eventuali in-suffi cienze protettive lungo la fatale pista». Nel 1961 il pensiero comune fra monze-si e addetti ai lavori era che il circuito fosse il più sicuro del mondo, come fatto emergere dalle dichiarazioni di diversi corridori. Un’idea nata dopo il disastro del 1928, quando la Talbot di Emilio Materassi, sul rettilineo davanti alle tri-bune, sbandò e piombò sulla folla inerme, provocando 21 morti e quaranta feriti. Da al-lora, grazie ad un rinnovato sistema di sicurezza, non si verifi carono più incidenti che coinvolgessero degli spetta-tori. Fino a quel maledetto 10 settembre 1961, che rimise tutto quanto in discussione.

dal luogo dell’impatto, inesorabil-mente adagiato sull’asfalto nero. E Clark? Nessuna grave conseguenza per il pilota britannico. Un disastro terribile, che tuttavia non ha la forza di fermare il Gran Premio. Uno dopo l’altro, igna-ri, abbandonano la corsa anche le Ferrari di Baghetta, Rodriguez e Ginther: la gara si trasforma in un triste ed inconsapevole monologo di Phil Hill. Lo statunitense taglia il traguardo per primo, cogliendo il prestigioso successo nel XXXII Gran Premio d’Italia e diventando Campione del Mondo 1961. Fu una delle vittorie più nere del-la storia dell’automobilismo: Hill, sceso dall’auto, chiese preoccupato a meccanici e dirigenti «E Trips? È morto?». «No, vieni ti vogliono al-la premiazione». Sorrisi, strette di mano, champagne e inni nazionali, quello statunitense per Hill, l’italia-no per la Ferrari di nuovo campione del Mondo. Ma la stessa macchina aveva causato sedici morti. Quando Hill scese dal podio e incrociò gli occhi del direttore sportivo del ca-vallino non fu necessaria alcuna pa-rola. Il neo iridato comprese pian-gendo di aver perso un amico.Monza è costretta ancora a rendere omaggio ai propri defunti, procla-mando nuovamente il lutto citta-dino, poco più di un anno e mezzo dopo la tragedia del disastro ferro-viario del 1960. E per la seconda volta sui pennoni dell’Arengario la bandiera italiana e quella della città sventolano me-stamente a mezz’asta

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Spettacolo. 1959 la Rai del biancoenero scende in una piazza giussanese ma l

BRIANZA FUPer la trasmissione di prova di Campanile sera, quiz del giovedì chla Città dell’Alberto. Mike in studio a Milano e Tortora nella Piazza

Pronto Giussano, sta-te apparendo sui no-stri schermi», la voce di Mike Bongiorno arriva distinta nella

Piazza San Giacomo, dove alcune centinaia di persone stanno disci-plinatamente dietro un lungo tran-sennamento. Guardano, di fronte a loro, un ampio palco che dà le spal-le a Villa Mazzenta e a quello che i giussanesi chiamano il Casone, do-ve avrebbe vissuto il mitico Alberto del Carroccio.È una prima nazionale: Campanile sera, il programma destinato ad ere-ditare la scena e i trionfi di Lascia o raddoppia. E la televisione, la tv in bianco e nero che si vedeva nei cir-coli e in poche case borghesi, aveva scelto la Brianza per un debutto del genere. Siamo alla fine di ottobre del 1959.Peccato che quella prima mitica puntata, quella festosa piazza brian-zola, fossero destinate all’oblio e al seppellimento nelle Teche della Rai: si trattava di un test, di un numero zero, di una prova da mostrare ai dirigenti che, dagli studi di Corso Sempione, sede milanese della tv di Stato, dovevano successivamen-te dare l’ok alla messa in onda del nuovo programma.La sigla è nello stile dell’epoca: di-segnata su cartelli con le scenogra-fie artigianali della Rai degli inizi. Poi appare Bongiorno, giovanissi-mo, con la sua faccia rassicurante, che tiene la scena con un lungo di-scorso introduttivo. I tempi, nella tv di allora, erano meno sincopa-ti di quelli dell’attuale, ma tant’è. Con un lungo prologo, il già Mike nazionale nega metodicamente il motivo per cui la trasmissione na-sce e prende persino il titolo: il cam-panilismo. «Conosceremo dei pa-esi», spiega, «entreremo nelle loro piazze, ci affezioneremo. Ma non dobbiamo fare del campanilismo: nessuno è peggiore o migliore per il fatto che risponda in meno secondi a una domanda». Un appello rilanciato anche ai con-tendenti di quella sera: Giussano, appunto, cui si contrapponeva Sa-ronno. Brianza contro Alto milane-se, sfida lombarda e sanguigna.In studio, il mitico Teatro delle Vit-torie, secondo la formula del gioco, una rappresentanza dei paesi in ga-ra. Per Giussano si presenta un gio-vane liceale di 17 anni, Giulio Cas-sina. Studia al Ballerini e si presenta in un impeccabile completo scuro, pronto a rispondere a domande sul-la musica leggera.Sarà proprio lui a sfidare il bidello di Saronno sulla cultura generale. «Mi dica almeno due degli autori di que-ste opere», chiede Mike, «La Man-dragola, La Moschetta, Il Negroman-te». Facile, per uno che fa il Classico, indicare le firme delle prime due: «Machiavelli e Ariosto». Risposta esatta e dalla piazza giunge il pri-mo scrosciante applauso.E arriva il momento di gloria per la cittadina: la linea passa a Giussa-

Immagini della trasmissione: in studio, Mike fa le domande ai rappresentanti. Le piazze sono collegate

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Sembrava una carriera bril-lantemente avviata quella di Enzo Tortora. Il giornalista genovese, classe 1928, dopo Campanile sera, era appro-dato alla Domenica sportiva, conoscendo negli anni ‘60 la sua massima notorietà. Ma proprio al culmine del-la carriera - Tortora, oltre al programma sportivo, condu-ce i quiz Bada come parli, alla tv, e Il gambero, alla radio - inciampa in un incidente di-plomatico: critica i vertici Rai in un’intervista al settimana-le Oggi e viene licenziato. Siamo nel 1969, Tortorà po-trà rientrare a Viale Mazzini solo nel 1976, con lo storico successo del mercatino tele-visivo di Portobello.Ma di nuovo in una fase ascendente della sua car-riera, Tortora deve fermar-si. Stavolta non perde solo il programma ma la libertà: un giorno di giugno del 1983, trova i carabinieri ad aspet-tarlo all’uscita dell’albergo: arrestato per associazione camorristica e spaccio di droga. Lo accusano tre pen-titi napoletani, uno dei quali coltivava un astio personale contro il presentatore per-ché, proprio a Portobello, erano stati smarriti dei cen-trini fabbricati in carcere e che nella trasmissione dove-vano essere venduti.Tortora rimane in carcere per un anno, fino a che, elet-to al parlamento europeo nelle fila radicali, ottiene l’immunità. Dopo un’iniziale condanna a 10 anni, il pre-sentatore rinuncerà alle sue guarentigie di eurodeputato e verrà arrestato nuovamen-te ma gli verranno concessi i domiciliari.Assolto con formula piena in appello e in Cassazione nel 1987, anno in cui torna in Rai, di nuovo con Portobello. Ma l’esperienza ne ha mina-to il fisico: muore il 18 mag-gio 1988 per un tumore.

Portobello drammatico

la storica puntata non si vedrà mai

UORIONDA he avrebbe preso il posto di Lascia o raddoppia, era stata scelta a S.Giacomo. Sconfi tti da Saronno e beffati: immagini archiviate

no, col già citato «pronto» di Mike, quasi fosse al telefono.Sul grande palco brianzolo, saltel-la, frizzante, Enzo Tortora. Viene dall’esperienza di Telematch, tra-smissione che si svolgeva proprio nelle piazze. Con lui, a fare l’invia-to c’è Renato Tagliani, altro perso-naggio sulla cresta dell’onda in que-gli anni e poi declinato. «Due bravi ragazzi», li definisce da studio Mike, praticamente coetaneo di entram-bi, ma che gioca a fare la star.Tortora ravviva il collegamento con qualche espediente da presentato-re consumato: chiama il capo dei ghisa brianzoli, il mitico Corbetta. «Che a più di sessant’anni gira an-cora in bicicletta», dice introducen-dolo. Battuta che dimostra come, nell’Italia degli anni 50, le sessanta primavere fossero considerate il gi-ro di boa della vecchiaia. Il coman-dante Corbetta, di anni ne ha 67 e, alla chiamata di Tortora, inforca la bici, pedalando da un angolo della piazza fin sotto il palco.Con un gag sicuramente studiata, il presentatore chiede di curiosare nel borsello del vigile urbano, fino a trovare il blocchetto delle multe. Tortora le legge alla piazza: «Tre-mila lire, mille lire. Ah, qui c’è un semaforo rosso non rispettato». Poi la battuta: «Corbetta, lei ha fatto la guerra di Libia, cosa le scrisse il suo capitano quando si congedò». Il ghi-sa risponde pronto: «Tanto ha dato senza nulla chiedere». Una risposta che lancia la battuta del presenta-tore: «Ma se qui ha chiesto mille lire per una multa!». La folla ride fragorosa a quell’umorismo lieve, centratissimo per l’Italia di mezzo secolo fa.Poi, rivolto al ghisa, una domanda a bruciapelo: «Se lei vede una coppia di fidanzati baciarsi su una panchina dà loro la multa?». Risatine in piaz-za S.Giacomo. Il capo delle guardie sfodera un buonsenso tipico della Brianza: «Dovremmo fargli 500 li-re di contravvenzione», premette,

ligio al regolamento, «ma se non danno spettacolo e si vogliono be-ne, lasciamo correrre». Applausi.Tortora, poi, passa a presentare il tavolo degli esperti che, secondo la formula di Campanile sera, devo-no concorrere con prove di abilità varia. «Giussano, 13.500 abitanti e nessun disoccupato», dice il futuro invento-re di Portobello, «13mila sono a lavo-ro e gli altri 500 qui con noi».A testimonianza della laboriosità brianzola e volendo segnalare una particolarità nazionale della città, presenta uno degli esperti come un industriale «che fila a partire dal cri-ne di cavallo, importato dalla Man-ciuria», nella lontana Cina.Quindi accenna alle altre celebri-ties cittadine: un’aspirante hostess dell’Alitalia, un pubblicista, fino ad arrivare a un mito vero, il calciato-re Aldo Boffi. Dinnanzi alla stella calcistica, Bongiorno riguadagna la scena, da studio. «È vero che lei sfondava le reti?», l’Aldo nazionale (cui dedichiamo un servizio a pa-gina 12-13), arrivato ai vertici negli anni 30 con la maglia del Milan, ri-dacchia: «Sì, qualcuna che era un po’ andata». Mike giogioneggia: «Boffi, da bambino facevo il tifo per lei», urla quasi dal Delle Vittorie. E quando Tortora, di rimando, dice di averlo avuto fra le sue figurine, Mi-ke vuole avere l’ultima battuta: «Ma quella di Boffi ne valeva dieci».Ormai padrone della scena, il pre-sentatore introduce il «portavoce di Giussano, il signor Radaelli», il qua-le, salutando, tradisce un’evidente emozione. Da studio, SuperMike lo bacchetta: «Siete tutti molto presi, eh. Sorridete però. Allegria!». I giussanesi, inconsapevoli, aveva-no assistito alla nascita del celebre motto del Rischiatutto.Di lì a poco, arriva la prova per gli esperti: una somma fra vari adden-di da rintracciare nella cultura ita-liana e nell’attualità. Dal Delle Vit-torie, Mike scandisce bene: c’è da

sommare «il numero di figure uma-ne dipinte da Giotto nella Fuga in Egitto, che sta agli Scrovegni», quel-lo delle parole, «escluso titolo, che formano i primi quattro versi del Bove di Giosuè Carducci» più, anco-ra, «il numero dell’articolo del nuo-vo codice della strada in cui si defi-nisce il velocipede». Il che scatena gli esperti giussanesi nelle ricerche su manuali ed enciclopedie. In un attimo, il Redaelli scrive alla lavagna i vari numeri: 8, 23, 23 totale 54. Ma Milano gela la piazza: «Non è esat-ta». Infatti, i personaggi giotteschi degli Scrovegni sono sì otto, ma i versi carducciani assommano a 32. Brusio di delusione dalla folla, tanto che Tortora non sente Mike.Nelle domande da studio, i brian-zoli provano a rovesciare il pun-teggio. Schierano il preparatissimo Cazzaniga, di professione vernicia-tore. Tortora, dal palco, gli mostra Giuseppe Barzaghi, detto Menude, calzolaio in città, che promette un paio di scarpe gratis al suo concitta-dino se risponderà correttamente. E Cazzaniga le azzecca tutte. Pulsante alla mano brucia il rappre-sentante di Saronno. Chi ha vinto il Giro Lombardia nel 1959? Van Loyd. Il Festival Sanremo 1958? Saronno sbaglia, Cazzaniga ricorda corretta-mente Domenico Modugno: «Nel blu dipinto di blu». E a quale città corrisponde la targa «Erregi»? An-cora Giussano: «Ragusa». E il brian-zolo si dimostra ferratissimo anche sul cinema: «In quale film compare il personaggio di Zampanò?». Co-me dimenticare Antony Quinn ne La strada di Fellini. Ma sulla città in cui è morto l’attore Errol Flyn, Sa-ronno si impalla. Giussano sbaglia, mentre sul nome artistico di Toni Lardera, vale a dire Dallara, i brian-zoli guadagnano un altro punto. La sfida si fa avvincente: ora le due squadre finiscono in cabina, per le domande finali. Tocca alla doman-da numero 3. se indovinano vanno a quota 5, a un punto da Saronno.«Su quale fiume sorge la città di Tara-scona?» Cazzaniga non vaccilla: «Il Rodano». Mugugna, un concorren-te saronnese da studio: «Ho sentito suggerire dalla piazza». Scatta la re-primenda di Mike: «Mentre si fanno le domande, si toglie l’audio».Tocca agli altomilanesi la doman-da di zoologia: «Quale noto anima-letto è definito Sciurus vulgaris?». Quelli di Saronno non sbagliano, si tratta dello scoiattolo. Risposta esatta e vittoria matematica.Mike chiude velocemente. Le tele-camere non ritorneranno su Piazza S.Giacomo dove è facile immagina-re un po’ di mestizia. A rendere ancora più agra la scon-fitta, la mancata messa in onda: per il ghisa Corbetta, il verniciatore Cazzaniga, il liceale Cassina nem-meno il quarto d’ora di celebrità, nemmeno la possibilità di entrare nella storia di della televisione ita-liana. Aldo Boffi, quello che sfon-dava le reti, lui la gloria l’aveva già avuta

Catodo pedagogico

La prima puntata di Campanile sera andò in onda il 5 novembre del 1959 (fi no al 1962) sul Programma nazionale, l’unico nella Rai dei primordi. Si trattava di un gioco di abilità che contrap-poneva due cittadine, di qui il riferimento al campanile, e anda-va in onda il giovedì alle 21, nel giorno e nell’orario del Lascia o raddoppia, lo storico e fortunatissimo quiz che aveva portato Mike Bongiorno alla notorietà. Con lui, che dirigeva da studio, c’erano uno scalpitante Enzo Tortora e Renato Tagliani a cui, successivamente, sarà preferita la giovane Enza Sampò. Fu anche il primo programma che fece conoscere l’Italia agli Italiani, cui era proposto, all’inizio della puntata, un fi lmato in-troduttivo dei paesi in gara, mostrandone la geografi a, le tradi-zioni, la storia.L’idea veniva dalla radio, dove era già andata in onda la serie de Il gonfalone, e fu poi esportata in Francia, dove prese il no-me di Intervilles, a cui si ispirerà, negli anni ’70, la fortunatissima Giochi senza frontiere. Molto apprezzata, Campanile sera ebbe anche qualche giocato-re di rilievo, come lo scrittore Beppe Fenoglio che, non ancora consacrato come autore nazionale, gareggiò infatti per Alba.

LA TV PER CONOSCERE L’ITALIA

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Chi è Cristina Maz-zotti», chiese l’uo-mo armato. «Sono io», rispose corag-giosamente lei.

Furono le ultime parole che le sen-tirono pronunciare. La sera del 26 giugno 1975, la Mini Minor su cui viaggiava Cristina, di ritorno dal-la festa di fine anno scolastico con gli amici, fu affianca da una Giu-lia e da una 125 Fiat che strinsero e fecero fermare l’auto su cui viag-giavano Cristina con due amici, un ragazzo e una ragazza, Carlo ed Emanuela. Di qui la necessità, per i rapitori, di identificarla. A loro interessava la figlia diciot-tenne di Helios, industriale cere-alico di Eupilio, limite estremo dell’Alta Brianza, che allora era provincia di Como.Uno dei malviventi la prese rapida-mente e la fecero entrare nel baga-gliaio della Giulia, un altro legava e imbavagliava gli amici all’interno della Mini, alla quale foravano le gomme.Immaginiamo il terrore negli oc-chi e nelle mente di questi giovani, poco più che ragazzini: Cristina nel buio di un bagagliaio, mentre l’au-to romba veloce nella notte; Car-lo ed Emanuela disperati, al buo-io della Mini, senza poter gridare aiuto mentre i fanalini dell’auto si scoloravano nella notte. Una bella sera di prima estate, la gioia per l’anno scolastico che si è chiuso, l’idea delle vacanze da-vanti, magari qualche progetto per l’estate, da condividere e tutto che si sgretola in un attimo: una manovra brusca di due auto come impazzite, le armi, le urla. Fu Emanuela la prima a liberarsi

In una foto di Pietro Vismara, la Mini su cui viaggiava Cristina Mazzotti la sera del sequestro

dalle corde, sciogliendo poi Carlo. Poi l’allarme, la polizia, i carabinie-ri, la notizia: diciottenne rapita nel Comasco.Fatti cui oggi non riusciamo a da-re la valenza terrificante che aveva-no, tanto ci paiono lontani. Eppu-re allora, fra la fine degli anni ‘70 e i primi anni ‘80, mezz’Italia, ma soprattutto la Brianza, conobbero questa piaga orribile: uomini, don-ne, bambini rapiti per essere scam-biati con somme di danaro. Dopo sequestri in condizioni bestiali, a volte lunghi mesi, anni. Capaci di lasciare conseguenze per una vi-ta. Quando la vita era risparmiata, perché alcuni non tornarono mai.Fu così anche per Cristina, il 1 set-tembre 1975, il suo corpo fu ritrova-to in una discarica del Novarese.Per due mesi si erano svolte le trat-tative. A Helios Mazzotti furono dapprima chiesti 5 miliardi di lire: una cifra per l’epoca iperbolica. Richiesta a cui seguì un lungo silen-zio, tanto che i familiari di Cristina dovettero lanciare appelli accorati ai giornali, spiegando di non poter raccogliere tanto danaro.

Una sera di giugno, mentre rientra a casa con alcuni amici, la 18enne figlia dell’industriale Helios Mazzotti viene rapita. Morta durante la detenzione e gettata in discarica

Cronaca 35 anni fa, rapimento in Alta Brianza

IL CALVARIO DI CRISTINA

Il 15 luglio, improvvisamente, i ra-pitori si fecero vivi, abbassando le pretese: si sarebbero accontetati di un miliardo e mezzo. La famiglia raccolse il danaro e pagò il riscat-to mentre in tutt’Italia divampava la polemica e la gente chiedeva la pena di morte per chi si macchiasse di simili reati.Fu Helios Mazzotti a consegnare materialmente il riscatto ai malavi-tosi: 1 miliardo e 50 milioni che l’in-dustriale portò, si seppe in seguito, in una casa di Appiano Gentile.E Cristina? Cristina non tornava a casa. I Mazzotti si disperavano, il cuore di Helios, già sofferente, vacillava. Perché non la lasciano? Perché non la rimandano a casa? Cosa vogliono ancora? Ma non potevano rimandarla a ca-sa semplicemente perché l’aveva-no uccisa. E mentre ritiravano dal-le mani di Helios i danari, Cristina era già morta e sepolta.Come le indagini dimostreranno, a ucciderla era stato un cocktail le-tale di farmaci. Le davano eccitanti per spingerla a parlare con i geni-tori e poi tranquillanti per tener-la buona durante la prigionia che, come appureranno gli inquirenti, avvenne in un buco di due metri per due, scavato nel giardino della villetta di un sequestratore a Gal-liate (Varese). Finché un giorno il suo cuore si fermò. I sequestratori trascinarono il corpo in una disca-rica, a Varallino, nei pressi di Sesto Calende. La gettarono tra i rifiuti e la coprirono di spazzatura: altra se ne sarebbe aggiunta nei giorni a venire, con l’andirivieni dei camion della zona.Nessuno l’avrebbe trovata se uno della banda, non fosse stato arre-

stato in Svizzera, dopo aver cerca-to di “ripulire” in una banca, una parte del riscatto. Fu lui a rivelare il luogo in cui il corpo era stato ab-bandonato. E le forze dell’ordine ritrovarono i suoi poveri resti sotto una coltre di spazzatura, vicino a una carrozzina. Per il medico lega-le, era lì da almeno 40 giorni.Uno dopo l’altro, i banditi finirono arrestati. Erano una decina. Dei ba-lordi: delinquenti di mezzo calibro, qualcuno con un passato di neofa-scista, un paio di commercianti.A loro la Corte di Assiste, nel mag-gio 1977, inflisse dieci ergastoli ma non tutti erano stati assicurati alla giustizia, come si scoprirà nel 2008, quando il riesame di un’impronta digitale rilevata sulla Mini, porterà all’arresto di un detenuto in semi-libertà, un ergastolano che, negli anni ‘70, era stato con Epaminoda il Tebano, uno dei protagonisti del-la mala milanese di Vallanzasca e Turatello. Lui indicherà altri com-plici: erano loro il commando che quella notte di giugno aveva rapito Cristina. Per 30 maledetti milioni: questa la cifra per la quale aveva-no sequestrato la ragazza per poi consegnarla alla banda che avrebbe gestito il riscatto.E Cristina non fu l’unica vittima di quella barbarie. Il padre Helios morirà di infarto pochi anni dopo mentre la sorella, Marina, all’epoca 23enne, perse il bambino che por-tava in seno. Sarà lei con la madre, signora Car-la, che costituirà la Fondazione Cri-stina Mazzoti, un ente non profit che finanzia la ricerca per la pre-venzione del crimine. Che il sacri-ficio di Cristina, almeno, portasse un piccolo frutto

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Settembre 2010FEDERICA, PRIMA DA MISS Eletta la più bella d’Italia, a Sanremo, la diciottenne caratese Moro si misura con la celebrità a casa sua. Ecco la sua prima intervista a Luigi Losa per L’Ordine della Brianza

L’Ordine de l -la Brianza la r i t r a e c o n Ugo Tognaz-zi ed Edvi-

ge Fenech che la baciano simul-taneamente sulla guancia. È il 1 settembre 1982, una ragazzina di-ciottenne, con gli occhioni azzurri e il nasino a punta, porta Carate Brianza alla ribalta delle cronache nazionali. Pochi giorni prima, in-fatti, a Sanremo, l’hanno incorona-ta Miss Italia e ora, questa brunetta liceale, si gode il trionfo prima di riprendere la scuola.Il quotidiano brianzolo manda a intervistarla, a casa sua, un esperto cronista di quegli anni, Luigi Losa, attuale direttore del Cittadino.Per introdurre l’intervistata, Losa racconta l’atmosfera di casa Moro, con la mamma della futura stelli-na, la signora Rosangela, che fa da scudo a fotografi e giornalisti, tradendo una certa confusione e l’imbarazzo che prende la gente semplice quando viene travolta dalla notorietà.Federica sta nel salotto, in accap-patoio marrone, che si spazzola i capelli ancora bagnati: ha ricevuto il titolo da 48 ore ma ha imparato

Spettacoli Reginetta brianzola conquista il Bel Paese

presto a fare la diva.Al giornalista brianzolo ripete quello che ha detto già chissà quante volte: in finale c’è arriva-ta per caso, avendo partecipato con gli amici del mare alla finale di Miss Liguria ad Alassio, dove si era piazzata quinta. «Le vacanze erano finite, al concorso non pen-savo più ma poi, a mezzanotte, mi telefonano per dirmi che il giorno dopo devo essere a Sanremo per la finalissima: dico io “ma cosa c’entro, sono arrivata quinta” e quelli ribattono, “non ti preoccu-pare, se abbiamo deciso così, vuol dire che va bene”».E poi racconta, in un crescendo di incredulità, l’arrivo al titolo fi-nale: «Non posso nascondere che, all’annuncio del verdetto, sono ri-masta incredula ma ho provato fe-licità per il successo». Sul futuro, Federica fa qualche congettura: «Proposte ne ver-ranno tante», dice, «il mio volto lo vorranno sfruttare sino in fon-do. Ho già firmato un contratto pubblicitario e ci sono impegni da definire. Comunque la scuola ri-entra sempre nei miei program-mi e cercherò di trovare il tempo necessario».

Il tono non è certo quello della ra-gazzina spaesata: pochi giorni nel circo dello spettacolo sono basta-ti a chiarirle le idee. Programmi a lunga scandenza? Ci sono ancora due anni di liceo da fare, poi, forse l’università, «ad architettura forse, ma anche filosofia mi piace».Sulla ragioni della sua vittoria, s’è fatta un’idea: le altre sfoggiavano un trucco pesante, lei, che aveva

preso a prestito il vestito, s’è pre-sentata con un look acqua e sapo-ne. «Credo che la giuria ci abbia osservato nei momenti di tranquil-lità», spiega, «mentre eravamo al bar o a tavola».Di sé accredita la figura di una ra-gazza cui piace non dare troppa confidenza: «Amici ne ho più al mare che qui», racconta, «sì, cer-to, conosco gente a Carate, Sere-gno, Desio, ma poca. Qui in Brian-za si sta troppo attenti a come ci si veste, come si trucca, quale in-teresse si suscita tra i ragazzi. Così preferiscono starmene sulle mie, anche perché la scuola mi impe-gna molto. In fondo, gli unici mo-menti tranquilli li trovo il sabato e la domenica».Insomma, una diciottenne che sa il fatto suo e parla già come un’at-trice navigata che ha molto chiaro che tipo di immagine vuol dare di sé. Lo si capisce bene quando è lei stessa a interrogare il giornalista su cosa «i brianzoli« dicano di lei. «Ci coglie in contrattempo», am-mette Losa che pure, già allora, era un cronista di lungo corso. L’intervistatore-intervistato dà fondo a tutta la sua saggezza per replicare alla neo-celebrity: «An-che papà Luigi che ora è accanto a lei, annuisce quando le ricordia-mo che, ora come sempre, i brian-zoli stanno sulle loro, fingono in fondo indifferenza, ma alla fin fine sono curioso di saperne di più di questa ragazzina che arriva a San-remo con l’ultimo treno, senza propositi e senza ambizioni, e se ne torna a casa col titolo di “più bella d’Italia”»

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52Nei primi anni ’30, un giovane attaccante della squadra di Giussano si impone all’attenzione dei tecnici per la potenza del suo tiro. Dopo otto anni, in maglia azzurra di Daniele Corbetta

Mentre s’alle-nava colpì per caso, da una ventina di metri, un

ragazzino che gli correva incon-tro. Il malcapitato rimase svenuto per più di dieci minuti». Dinamite nei piedi e umiltà: così La Gazzetta dello Sport presenta Aldo Boffi da Giussano, futuro bomber di Milan e Seregno, per tre volte incoronato capocannoniere della serie A.Brianzolo doc e talento purosan-gue, la sua storia è leggenda, ricca di aneddoti e disseminata di gran-di e piccole soddisfazioni. Golea-dor fra le due guerre: Aldo nasce nel 1915 a Giussano, la città dove ri-marrà per tutta la vita e che lo farà innamorare del pallone. Da disegnatore di filature dedica il tempo libero a scavalcare il mu-ro che da sul campo del Vis Nova: quella stessa parete è anche quel-la dell’orto di casa Boffi. È qui che Cesare Dell’Orto si rende conto del diamante grezzo del giovane Aldo, iniziandolo al calcio fatto di regole e allenamenti, indispensabili per affinarlo. Il Vis Nova è dunque pronto a lanciarlo da terzino: dopo una stagione in quel ruolo (1932/33) si converte a centravanti, facendo-si conoscere a modo suo in Prima Divisione. Il Seregno, all’epoca militante in se-rie B, mise subito gli occhi su quel potente attaccante, pronto a stra-biliare sin dalla prima apparizione, come racconterà anni dopo la Gaz-zetta: «I pochi sportivi di Seregno che assistettero a quell’incontro dicono che non se lo scorderanno mai più». Che cos’è successo? Co-sa si è inventato quello che diven-terà l’Aldone nazionale? Durante l’esordio in maglia azzurra, contro il Lugano, è semplicemente stato se stesso. «Boffi non conosceva nessu-no dei suoi compagni. Chiuso di ca-rattere, non scambiò con loro una sola parola. C’era da giurarlo che l’intesa avrebbe lasciato a desidera-re». Aggiungiamoci che il Seregno fu sconfitto per 2-1. Centravanti bocciato e rispedito a Giussano? «Boffi colpì due volte i pali, sparò almeno dieci tiri a rete contro lo stupefatto Bizzozzero che fece prodigiose parate e lo bat-tè con un’azione capolavoro». Ecco il biglietto da visita di quel 19enne rampante, sbattuto in faccia senza dire una parola a tutti i portieri della serie cadetta. La stagione ’35-’36, la seconda di Boffi a Seregno, è segnata da un epi-sodio che accompagnerà il giussa-nese per tutta la vita. I brianzoli so-no di scena a Biella: dopo un quarto d’ora di gioco capita una punizione a centrocampo e Aldo si appresta a tirare in porta. «Il pubblico biel-

Sport Personaggi, Aldo Boffi dalla Vis Nova alla Nazionale

Aldo Boffi in azione con la maglia del Milan, dove approderà nel 1936, arrivato dal Seregno

lese sorride e si prepara a fischiare il sicuro insuccesso. Un calcio, un sibilo, la palla entra e sfonda la re-te. Si dirà che era una rete un po’ vecchia, ma intanto dev’esser sta-to ben forte il tiro se, nonostante il lungo tragitto, il pallone è riu-scito a far breccia». In pochi attimi nasce la leggenda del «centravanti che sfonda le reti», raccontata an-che dal quotidiano sportivo più fa-

CENTRAVANTI SFONDA RETI

moso d’Italia. Inoltre Boffi inizia a credere con maggior convinzione nei propri mezzi, come dimostra l’episodio del match di campiona-to con la Cremonese. La gara d’andata, a Seregno, si era chiusa sullo 0-3: azzurri non perve-nuti. La dirigenza chiede il riscat-to nella gara di ritorno a Cremona e Aldo, goleador di poche parole, aggiunge prima dell’ingresso in

campo: «Ghe dem indree i stess goii». Così fu: tre capolavori e 0-3 restitu-ito. Neanche a dirlo i gol portano un’unica firma: Boffi. Aldo ha 21 an-ni, è in partenza per il servizio mi-litare e vede davanti a sé un futuro da campione.Nel 1936 arriva l’esordio in serie A, con la maglia rossonera, condito da scetticismo e popolato di detrattori: fra loro non c’è la dirigenza mila-

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13Settembre 2010

B Brianzoli protagonisti

La favola di MorenoPer trovare un’altra gloria calcistica brianzola del ca-libro di Boffi - oltre alla sto-ria esaltante e tragica di un altro giussanese come Ste-fano Borgonovo - bisogna andare ai successi di More-no Torricelli, terzino pluri-campione. Erbese, classe 1970, Torri-celli tira i primi calci nei pul-cini della Folgore Verano. Lo vedono in tecnici del Co-mo che lo portano sul Lario, dove disputa il campionato Allievi Regionali, ma qual-cosa non va e rientra a Ve-rano.Ceduto all’Oggiono nel 1989, gioca con i rossoblu nel campionato Promozio-ne. Operaio in una fabbrica di mobili, ogni tanto indossa anche la maglia dei dilettanti della Caratese.All’inizio degli anni ’90, in una amichevole fra la squa-ra di Carate e la Juventus, si fa notare dai tecnici bian-coneri che lo prendono per la squadra primavera. Qui lo vede Giovanni Trapattoni che lo aggrega alla prima squadra con cui esordisce il 13 settembre del 1992. Vincerà Coppa Uefa, scudet-ti, Coppa Italia, Champions League, Supercoppa, Coppa intercontinentale. Protagoni-sta degli sfortunati Mondiali di Francia del 1998, giocherò tre stagioni nella Fiorentina, quindi milita per due anni nell’Espanyol di Barcellona e chiude la carriera ad Arez-zo, in serie B, nel 2004.Lo scorso anno ha allenato la squadra toscana del Figline, in Legapro.

L’addio, ottobre 1987

È una domenica sera di fi ne ottobre quando Aldo Boffi saluta per l’ultima volta la sua amata Paina di Giussano. La Gazzetta del-lo Sport di martedì 28 ottobre 1987 rende omaggio al bomber «che sfondava le reti», ripercorrendo brevemente la sua prolifi ca carriera negli anni ’30. Juve, Inter e Bologna dominano in Italia e in Europa; la Lazio è sempre pronta ad inserirsi, mentre il Milan dell’epoca è una squadra modesta. Nonostante ciò l’Aldun è ri-cordato per i suoi gol a raffi ca e per l’aver formato un temibile tridente con Gino Cappello e nientemeno che Giuseppe Me-azza. Il cronista della Rosea non manca di riproporre le caratte-ristiche che l’hanno reso famoso: «Sulle punizioni era un castigo, il pallone partiva dal suo piede come una freccia dall’arco, i suoi non erano piedi da palleggiatore ed egli li usava per dare alla sfera una mazzata potente, non era un supercampione ma un centravanti dal rendimento eccezionale». In due sole parole: Aldo Boffi , il granatiere, chiuso in Nazionale dal grande Silvio Piola, partito da Giussano e giunto alle porte dell’Olimpo del pallone. In silenzio, senza mai disturbare.

PER L’ALDUN, OMAGGIO IN ROSA

Bologna, 1938. Boffi, terzo in piedi da sinistra, esordisce nell’Italia di Pozzo

nista, che scommette sul giovane brianzolo. L’attesa per il 1˚ novem-bre, giorno della prima apparizione nel Milan, è grande, come riporta una dubbiosa Gazzetta del 31 otto-bre: «Ci fu un’accanita caccia delle maggiori società per acquistarlo; possiede più che altro un gran bel tiro, ma non quelle doti tecniche che contraddistinguono i grandi centravanti». Inizio in salita: opaco nella sconfitta contro il Torino («di Boffi si è visto ben poco»), assaggia la tribuna fino alla sfida casalinga con il Novara, quando la Rosea apre gli occhi di fronte all’innegabile ta-lento: «Il portiere novarese non di-menticherà le stangate di Boffi». Il Milan vince 2-0, Aldo torna al cen-tro dell’attacco rossonero, va in gol e si dimostra «l’uomo che ci vuole per assestare un reparto fino a ieri sofferente». Al termine del torneo le reti furono 8, preludio ai grap-poli di gol che sarebbero stati in-terrotti solo dalla Seconda Guerra Mondiale, nel corso della stagione 1942-’43. Arriva quindi la prima apparizione in Nazionale, saltando la trafila del-la squadra cadetta: è il 20 novembre 1938, l’Italia è Campione del Mondo in carica, Silvio Piola è infortuna-to e il leggendario Vittorio Pozzo chiama a sostituirlo il ragazzo di

Giussano, in occasione della sfida contro la Svizzera a Bologna. L’in-tera penisola si accorge improvvi-samente di lui: Luigi Grassi della Gazzetta dello Sport ricorda «Aldo Boffi, è un modesto giovinotto del-la Brianza, di cui in questi giorni si occupano tanto gli sportivi di tutta Italia. Era famoso a Giussano, suo luogo natale, a Seregno, dove aveva completato la preparazione atleti-ca, a Milano, dopo che era venuto a giocare al Milan, ma nessuno in Italia avrebbe voluto saperne di più di quanto ci raccontano le cronache calcistiche del lunedì». E invece tutti vennero a conoscenza dell’Aldun, della suo mite indole, della passione per i libri gialli, per il biliardo e lo scopone. Eccolo in Nazionale, con

34 tifosi giussanesi al seguito pronti a dichiarare «Boffi sei il nostro or-goglio». Il gol non arriva, ma Aldo conquista definitivamente spettatori e croni-sti: «Dopo un tiro uscito di poco ci fu un’invocazione popolare “Boffi, Boffi, Boffi”, si urlava a cadenza. Raramente si entra così di slancio nelle grazie del pubblico. Una vera consacrazione». Arriva anche il titolo di capocan-noniere della serie A, raggiunto nel 1939, nel ’40 e di nuovo nel ’42, diventando il secondo calciatore a vincere per tre volte la classifica dei bomber. Prima di lui c’era riuscito solo un certo Giuseppe Meazza, ricordate? La Seconda Guerra Mon-diale spazza via sogni e certezze, in-

terrompendo dopo una manciata di partite la stagione 1942-43 e ac-corciando la carriera al nostro Al-do. Nel ’45 Boffi, dopo 136 gol con la casacca rossonera, lascia il Milan e approda a Bergamo, sotto i co-lori dell’Atalanta: in questa strana stagione post bellica non ingrana e sarà svincolato al termine dell’an-nata. Ed eccolo nuovamente a Seregno, in serie B. Il Cittadino del 3 agosto 1946 non nasconde l’entusiasmo: «Notizie rivoluzionarie per il Sere-gno, è stato perfezionato l’acqui-sto del famoso cannoniere Boffi dall’Atalanta». L’inizio è ancora una volta in salita: in questa occa-sione Biella non regala soddisfazio-ni. Gli azzurri perdono 5-1, Boffi è un corpo estraneo e l’unica rete è realizzata da Como, un difensore. Il cronista è a dir poco duro: «Sullo svolgimento della partita preferia-mo tacere». Il 5 ottobre arriva la rivincita, al-lo stadio Ferruccio di Seregno: la giornata è memorabile e la coper-tina spetta di diritto all’Aldun, che si guadagnerà l’appellativo di «Bom-bardiere di Seregno». L’avversario di turno è il Savona e davanti a tre-mila spettatori il cannoniere si sca-tena calando un incredibile poker: «La traiettoria del pallone calciato da Boffi ha qualcosa di magico, su-pera la barriera e inganna il portie-re…Aldo ha già saettato, il pallone s’insacca in rete sotto il montante sinistro…». È il 29 settembre 1946 e il bomber chiuderà la stagione a quota 32 reti. Si tratta della sua ultima annata di grande livello, prima del calo di ren-dimento e dell’inevitabile ritiro: al termine del campionato di serie B 1951-52 Aldo Boffi abbandona il cal-cio giocato, a 37 anni suonati. Grande potenza, buona tecnica, ot-timo colpo di testa, astuzia e fiuto del gol: così Boffi sul campo.Fuori dal rettangolo verde è timido e pacato, l’umiltà e la semplicità co-me doti primarie: «Il bombardiere di Seregno» non ha mai alzato la vo-ce, nemmeno per dire che in realtà era di Giussano, dove amava gioca-re a palla con i ragazzini del vicina-to. E dove dopo oltre sessant’anni è ancora bello affermare «Boffi sei il nostro orgoglio».

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10Settembre 2010

Paolo Penacchio, 72 anni, originario del Veneziano, ci ha contattato dopo il numero dedicato alla «Gente veneta». E fatto leggere la sua storia in un libro in cerca d’editore

I l primo inverno a Seregno, col mio fratello maggiore, fu molto duro. Vi-vevamo in un cascinotto al Piapan, al freddo e senza soldi». È la storia di uno dei tanti veneti della Brianza, Pa-

olo Penacchio, classe 1938. Anche lui ha letto l’ultimo numero de Il Giornale della Memoria, quello che dedicava la prima pagina alla «Gente veneta». Subito dopo la pausa estiva è venuto a trovarci da Merone, dove vive adesso, dopo a una vita a Seregno.Le storie di sacrificio, di coraggio, di forza in-teriore che abbiamo raccontato sono le sue. E

la voglia farne memoria è la stessa, tanto è vero che ha scritto, in questi anni, la storia delle sue origini, da ragazzino, in Veneto, a Legnaro (Venezia) e quindi quella in Brianza, ricca di episodi, di ritratti, di amici, come quelli della naja. Un libro che non è stato mai pubblicato ma che Penac-chio ha dattiloscritto in va-

rie copie, che passa a quanti, come lui, hanno il culto delle radici e degli affetti e il senso del valore della vita che è passata.E le pagine dedicate all’arrivo in Brianza inizia-no proprio con il ricordo della durezza dell’in-verno al Piapan, anche se Penacchio, appena 17enne, era arrivato proprio il giorno di Ferra-gosto del 1954. Un giorno in cui, lui ragazzino veneto, s’imbatte nel dialetto brianzolo. «Oé ti bagai, le già mo tri volt ca te me saluti, basta per encù», gli disse uno dei primi seregnesi che il padre gli aveva presentato: Franco Monguzzi, detto el Sambruna, un signore che stazionava spesso in via Manara, alla Cà Storta, dove c’era un negozio d’alimentari «dove si poteva com-prare di tutto, anche il formaggio con i vermi». Un uomo buono, «sempre pronto alla burla, amico di tutti e che a tutt riusciva simpatico». Con la lingua briantea, che negli anni ‘50 era sistematicamente preferita all’italiano, all’ini-zio, fu dura: «Un giorno il principale mi spedi al negozio della Milietta», ricorda, «“te sa fé un et de giambun cru”, mi disse». Davanti al bancone, Paolo titubava: non aveva capito niente di quello che doveva comprare ma al «Savoret?» della signora provò un adatta-mento: «Un etto di giambone crudo». La risposta della signora Emilia se la ricorda an-cora: «Em te di cusè, terun. Diamogli un etto di giambone crudo».Come la frase che il macellaio del quartiere, Pietro Somaschini, disse alla moglie, addetta

alla cassa, la prima volta che il giovane Paolo si recò nel suo negozio a comprare un pezzo di bollito: «Faghe ul prez bun a chel bagai che l’aga dinvetà grant». Col tempo, scriverà, «ca-pii che non era una battuta di convenienza, ma solo l’espressione del suo gran cuore». Buon cuore che non faceva difetto neppure a Pistolin, il fornaio di via Garibaldi, nei pressi di Santa Valeria. «Una volta mio padre gli chiese del pane, offrendo in cambio un vecchio orolo-

gio da polso. Il fornaio tirò fuori un libretto, ci scrisse il nome di mio padre e non volle l’oro-logio né altro documento e papà, quella sera, fece ritorno a casa con una borsa piena d’ogni ben di Dio».«A Seregno», scrive nel suo libro, «ho incontrato tante brave persone la cui benevolenza mi ha reso sopportabile la nostalgia per la mia ter-ra, la lontananza della mia mamma e dal resto della famiglia»

Seregno 1980, Veneti in Brianza

Perticato, 1978. Veneti nelle

baracche. Un altro bellissimo

scatto del servizio di

Attilio Mina

LA SCOPERTA DEL GIAMBONE CRUDO

AAA VENETI CERCASIHa colpito molti il numero dedicato ai Veneti di Brianza. Oltre alle due testi-monianze che pubblichiamo in questa pagina, abbiamo notizia di tanti altri commenti, chiacchiere fra amici, di-scussioni in compagnia sulle giornate di 50-60 anni fa che registrarono l’arri-vo di migliaia di Veneti in questa terra.Fatti che documentano come la memo-ria di quella grande immigrazione sia ancora viva. Per questo invitiamo tutti i Veneti di Brianza a raccontarci ancora le loro storie. Le pubblicheremo

GdM

Terze generazioni

Mattia di veneto oggi avrebbe solo il cognome, Pasian, essendo nato in Brianza, diciotto anni fa. Anche lui ha letto il GdM dedica-to ai Veneti e ne è rimasto colpito. Innanzitutto perché ci ha letto la storia di sua nonna, Mirella Muner, e poi perché ci ha trovato le bellissime foto di un suo ex-professore dell’Istituto d’arte di Gius-sano, Attilio Mina. È stato proprio attraverso il contatto su Facebook con quest’ultimo ha determinare quello, sempre via Internet, col giornale. «Vedere l’articolo di mia nonna mi ha emozionato», ci racconta, «anche per-

chè lei ci tiene a raccontare le sue vicende».«I miei nonni mi raccontavano della loro vita nel Veneto piu precisamente a Sinda-cale», ricorda. Storie in cui «casoni e animali erano presenti molto spesso» e nelle quali «anche se la vita era povera, anche se non c’era lusso o poco con il quale far giocare i bambini, avevano sempre da fare e le risate non mancavano mai». Vicen-de che hanno fatto capire a Mattia che «anche se non si è ricchi si può passare una vita felice nella semplicità delle cose». Lunghi racconti di nonni, in cui il nipote si perdeva, incantato, immaginandone sensazioni, suoni, profumi.Esperienza che oggi lo fa sentire veneto. Fieramente veneto, «perché questa gen-te, i nostri nonni , si è sacrifi cata per noi, cambiando anche paese, casa, abitutidini, dialetto». Una storia, giura, «da raccontare ai fi gli», quando ne avrà. «Se non lo facessi», conclude Mattia Pasian, veneto di Brianza, «non saprei proprio far capire loro chi siamo e da dove veniamo».

MATTIA, FIERAMENTE VENETO

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Settembre 2010

Le foto d’epoca mo-strano insegne oggi sparite. Come quella dell’Albergo ristorante Cantù, famoso per-

ché, un giorno del 1907, vi fece tap-pa un giovane maestro romagno-lo, infiammato dalle idee socialiste, che girava l’Italia in cerca di adepti per fare la rivoluzione e arrivava in zona per incontrare i setaioli di Como: Benito Mussolini.Nel 1932, la Piazza Garibaldi, la Piazza Granda dei canturini, cam-biò fisionomia perché tutta la città fu interessata da una piccola rivo-luzione urbanistica: demolizioni, sbancamenti, apertura di nuove vie. Sono gli anni d’oro del fasci-smo: il regime, dopo le difficoltà degli anni 20, gli scricchiolii avverti-ti con l’omicidio di Matteotti, ave-va saputo resistere e consolidarsi. Gli anni 30 sono quelli in il fasci-smo dà l’impronta di sé al Paese e mentre si bonifica l’Agro-Pontino e si aprono i Fori imperiali, le città e i paesi vedono fiorire l’architet-tura razionalista: stazioni, palazzi pubblici, stadi.Trasformazioni che investono an-che la Brianza. A Giussano, nel 1927, l’antica chiesa di San Giaco-mo viene demolita. A Lissone, toc-ca alla Curt di Pagan e alla chiesa propositurale, abbattute, fra ’32 e il ’33, per far posto a una piazza.«La disposizione dei palazzi era molto diversa dall’attuale», spiega Gigi Molteni, appassionato culto-

Cronaca Cantù: cambia volto al centro cittadino

L’ex-convento di S.Ambrogio prima della demolizione. Sotto Piazza Granda a inizio del 900

re della memoria di Cantù, autore di personali ricerche negli archivi cittadini, «era una grande isola ver-so la quale convergevano diverse vie provenienti da zone circostanti, come via delle Torri, via del Com-missario, via Campo Rotondo e, in mezzo a un’ampia zona di rispet-to, stava un palco per la musica e un monumento con un capitello ed una palla di granito sulla cima». Siamo all’inizio del ’900, «ma anche le foto dei primi anni 30», spiega Molteni, «ci rappresentano chiara-mente questa situazione: accanto al complesso dell’Albergo centrale, lungo la futura via Roma, sino al giardino di Villa Calvi, vi erano or-ti, altre costruzioni e stradine che portavano ai campi sottostanti e terreni adiacenti all’ex-monastero di S.Ambrogio». Fu qui, dopo vari progetti, che si ar-rivò all’abbattimento del caseggia-to indicato come Casa Broggi, «ma conosciuto come Michelin della Frattina», precisa lo storico locale, per aprire una strada che unisce la Piazza Granda all’ingresso di Villa Calvi, nel frattempo divenuta sede della municipalità. «Non solo», pro-segue Molteni, «anche l’albergo fu demolito, rendendo così possibile allargare l’imbocco di via Manzoni che assunse l’odierna configurazio-ne». Insomma, il lato occidentale della città cambiò profondamen-te. Un cambiamento accuito negli anni 50, quando la fisionomia del luogo mutò ancora: «Nacque il se-

condo palazzo della Permanente di mobili e la sede della Banca popola-re di Novara, che sorse sul giardino di Casa Mazzucchelli».Oltre la Piazza, a fare le spese della furia modernizzatrice del secolo, fu il convento di Sant’Ambrogio, spianato per ricavarne una piaz-za, «quella dove si svolge il mer-cato del sabato e del quale è sta-to prospettato lo spostamento più valle», osserva la memoria cantu-rina. Convento che, nel 1936, an-no dell’abbattimento, aveva quasi quattro secoli di vita, essendo stato edificato nel 1550. La soppressione dell’ordine della Agostiniane, nel 1797 ad opera della Repubblica ci-spadana di Napoleone, ne decretò la decandenza. «Venduto all’asta nel maggio del 1818, negli anni, su-bì vari passaggi, tornando in mano pubblica nei decenni successivi».

Finché, un giorno del 1936, il consi-glio comunale canturino, cercando di trovare spazio al crescente mer-cato settimanale che ormai stava stretto in Piazza Grande, deliberò che le merci avessero diritto a un nuovo sito e che quelle vecchie mu-ra potessero benissimo esser tolte di mezzo. «Alla gara per la demo-lizione parteciparono quattro im-prese canturine», spiega Molteni.Alcuni elementi architettonici dell’antico convento finirono nel giardino a lato della chiesa di Santa Maria, dove poi sorgerà il Palazzet-to Parini. «Qualche pezzo è sicura-mente finito ad abbellire qualche casa canturina», sorride Molteni. E l’imponenza del complesso, do-cumentata anche dalla foto che pubblichiamo, fa certo pensare che di souvenir ce ne fossero davvero per tutti

A cavallo degli anni 30 l’architettura fascista rifa il look all’Italia, con nuove piazze e nuovi palazzi. La Brianza non fa eccezione: nella Città del mobile sparisce un ex-convento

DEMOLIZIONI DI REGIME

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CRESCE LA RETE DELLA MEMORIA

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