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HARRY BERNSTEIN IL GIARDINO DORATO Traduzione di VELIA FEBRUARI PIEMME

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HARRY BERNSTEIN

IL GIARDINODORATO

Traduzione diVELIA FEBRUARI

PIEMME

Titolo originale: The Golden WillowCopyright © 2009 by Harry BernsteinAll rights reserved.

Realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl - Cormano (MI)

I Edizione 2009

© 2009 - EDIZIONI PIEMME Spa 20145 Milano - Via Tiziano, [email protected] - www.edizpiemme.it

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Il mattino del mio novantesimo compleanno mi sve-gliai di buon’ora e andai incontro a un’esperienza al-quanto singolare: nell’istante in cui aprii gli occhi, fuiaccecato da una cortina di chiazze luminose danzanti eintense, di forme e colori diversi. A tratti si fondevanol’una nell’altra, creando nuovi disegni, dimensioni esfumature, e non restavano mai immobili. Era comeguardare attraverso un caleidoscopio, una visione affat-to spiacevole, perciò rimasi fermo qualche istante a os-servare quell’incantesimo, circondato da un silenzio as-soluto, rotto soltanto dal canto degli uccelli fuori ingiardino.

Intanto, un pensiero curioso balenò nella mia mente:che il mondo potesse essere stato così ai suoi albori, pri-ma dell’arrivo dell’uomo: solo colori e silenzio assoluto,nient’altro.

Poi spostai appena la testa sul cuscino e il fenomenosvanì all’istante. Dopotutto, era semplicemente la luce

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del sole che irrompeva dalla finestra e andava a proiet-tarsi dritta nei miei occhi. Adesso riuscivo a percepireogni cosa in maniera normale e badai a non muovermitroppo per non disturbare mia moglie che dormiva pla-cida al mio fianco, i capelli ancora corvini sparsi sul cu-scino, il respiro leggero e a malapena udibile.

Rimasi lì ad ascoltare il canto degli uccelli che cin-guettavano fuori, e uno sembrava dominare su tutti glialtri con le sue dolci note gorgheggianti: un tordo bef-feggiatore, senza alcun dubbio. Era tutto sommato unabella giornata di primavera e non avrei potuto chiederedi meglio per il mio compleanno. Tuttavia, con il risve-gliarsi della mente, avvertii una certa malinconia che sifaceva largo dentro di me.

Divenni a un tratto consapevole del fatto che quelgiorno avrei compiuto novant’anni e quella considera-zione a sua volta diede ai miei pensieri una piega mor-bosa, perché novant’anni erano tanti, davvero tanti.Un tempo avrei considerato uno di quell’età con benpiù di un piede nella fossa. Certamente era la fine ditutto. E che cosa avevo realizzato in tutti quegli anniper dare un senso alla mia esistenza? Avevo aspirato adiventare uno scrittore, ma il massimo che avessi otte-nuto fino ad allora era stato scrivere qualche raccontopubblicato in riviste minori che pochissimi avevanosfogliato, alcuni pezzi freelance per il supplemento do-menicale dei quotidiani e un romanzo breve, pubblica-to da una piccola casa editrice, che nessuno aveva lettotranne me e l’editore, fallito subito dopo l’uscita delmio libro. Vero era che avevo scritto decine di altri ro-manzi, ma nessuno di essi aveva mai visto la luce.

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Ci ripensai quel mattino mentre me ne stavo lì,sdraiato e fui pervaso dalla tristezza. Era troppo tardiormai. Non sarei mai stato lo scrittore che avevo desi-derato diventare. Non c’era proprio niente da festeg-giare in quel compleanno.

Poi sentii un leggero movimento al mio fianco. Voltaiappena la testa. Era mia moglie. Dormiva ancora, maevidentemente stava iniziando a risvegliarsi. Guardan-dola e ascoltando il suo lieve respiro, pensai: “Be’, eccola ricompensa per tutto quello che non ho fatto”. Cieravamo sposati nel 1935, durante la Grande Depres-sione, e con lei avevo trascorso una vita meravigliosa.

Mi tornarono alla mente alcuni particolari di queiprimi giorni e un sorriso mi affiorò sulle labbra. La no-stra prima casa era una stanza ammobiliata in un palaz-zo di arenaria sulla Sessantottesima Strada Ovest ed erastato lì che un giorno, mentre eravamo ancora nell’esta-si appassionata della luna di miele, avevo guidato Rubydavanti allo specchio appeso sulla toeletta.

Le avevo chiesto di guardarsi, mi ero posizionato die-tro di lei, le avevo preso entrambe le guance tra le ditae avevo tirato, sfigurando i suoi bei lineamenti. «Quan-do sarai vecchia, magari a sessanta o settant’anni,» – sipoteva forse essere più vecchi di così? – «potresti averequesto aspetto,» le avevo detto «ma io ti amerò come tiamo adesso.»

Be’, avevo mantenuto la promessa: l’amavo quantol’avevo amata allora. Ma non assunse mai l’aspetto cheavevo profetizzato. Ai miei occhi, era bella come il gior-no in cui l’avevo incontrata, a un ballo alla WebsterHall di New York. Era più giovane di me solo di un an-

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no ma, nonostante ciò, aveva soltanto qualche ruga su-perficiale e i capelli ancora scuri, con appena qualchecapello grigio qua e là.

Poi mi resi conto che era sveglia, mi stava guardandocon i suoi occhi grandi e scuri, e mi sorrideva.

«Buon compleanno, tesoro» sussurrò, e io mi prote-si per baciarla.

Sì, avevo molte cose di cui essere grato e questo fugòun po’ di tristezza. Inoltre, era proprio una giornata in-cantevole, davvero perfetta per festeggiare: luminosa,soleggiata e delicatamente tiepida. In quel periodo del-l’anno, poi, la comunità per pensionati del New Jerseydove vivevamo era al massimo dello splendore, con lestrade decorate da file di alberi ornamentali in piena fio-ritura, miriadi di boccioli di un bianco abbacinante. Ifiori erano sbocciati dappertutto: i tulipani, le giunchi-glie, gli iris e, ovunque ti voltassi, potevi cogliere l’in-tenso profumo dei lillà.

Anche il nostro giardino era al massimo rigoglio, conil ciliegio che era una massa di rosa, la sanguinella di unbianco delicato e il filadelfo, anch’esso di un biancopuro, che spandeva la sua fragranza simile a quella del-l’arancio in modo così intenso e forte da costringerti atrattenere il fiato. Ma era il salice dorato a calamitarel’attenzione, gigantesco al centro del giardino, con ilunghi rami sottili, alcuni dei quali ricadevano con gra-zia fino a toccare terra, gonfiandosi come la gonna diun abito da ballo di una volta.

Il salice dorato era il primo albero che avevamo pian-tato non appena ci eravamo trasferiti e io e Ruby aveva-mo avuto un buon motivo per farlo, ma era un segreto

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che tenevamo nascosto. Un semplice arboscello sottilequando lo avevamo piantato nel terreno, aveva raggiun-to dimensioni enormi e superava gli altri alberi del giar-dino, stagliandosi alto e bello in mezzo a tutto il resto:un centrotavola d’oro lucente. Mentre accompagnava-mo gli ospiti nel prato quel giorno, per rilassarci al solesulle sdraio e bere un drink prima di cena, catturò su-bito tutti gli sguardi.

Quando i nostri nipotini erano più piccoli, giocava-no sempre a nascondino sotto il salice e io e Ruby, guar-dandoli, ci scambiavamo occhiate divertite poiché co-noscevamo bene i rifugi di quell’albero. Faceva partedel nostro segreto. Ma ormai i nipoti erano grandi,troppo per giocare, abbastanza adulti da unirsi a noiper un drink.

Be’, eravamo tutti più vecchi quel giorno e c’eranomeno ospiti rispetto ai compleanni precedenti. Eranodiversi anni che calavano di numero, i parenti e gli ami-ci se ne andavano a uno a uno. Nostro figlio Charles esua moglie erano presenti con i figli adulti, e c’erano an-che nostra figlia Adraenne, suo marito e due o tre ami-ci superstiti, un numero relativamente esiguo se para-gonato alle persone che partecipavano di solito allefeste precedenti.

La cena si tenne come al solito all’Harvest, il nostroristorante preferito, e la proprietaria, una donna polac-ca alta, magra e con un marcato accento straniero, checi conosceva da anni come clienti, aveva insistito perprepararci un menu speciale in stile Giorno del Ringra-ziamento, con tanto di tacchino e contorni vari.

«Per lei,» mi aveva detto quando avevamo ordinato

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la cena «sarà come una festa di Ringraziamento. Com-pie novant’anni. Non sono in molti a tagliare questotraguardo. Dobbiamo ringraziare il Signore.»

Fu una cena di una bontà straordinaria, un banchet-to perfetto, anche abbastanza gioioso, certo non quan-to le altre feste di compleanno poiché sentivo la man-canza dei cari amici che erano morti l’anno precedente,Ann e Pete Warth, con cui una volta eravamo stati inEuropa e che vedevamo quasi tutti i giorni: se n’eranoandati entrambi lo stesso anno. E un altro che mi man-cava era mio fratello minore Sidney. Tutti i miei fratellie sorelle erano morti negli ultimi anni ed ero ferma-mente convinto che Sidney, più giovane di me di diecianni, mi sarebbe sopravvissuto. Invece no, anche lui sen’era andato e ormai ero l’unico superstite della fami-glia.

A quello pensavo in mezzo all’ilarità della tavolata eprovai una grande tristezza, ma feci attenzione a non la-sciarla trapelare, né con Ruby né con gli altri ospiti.

Il momento clou della festa fu quando venne servitala torta di compleanno. Fu la proprietaria in persona aportare il dolce, in testa a una processione di camerieriche cantavano in coro Tanti auguri a te. Me la posò da-vanti, mentre i commensali al nostro tavolo e quelli deitavoli vicini applaudivano. In cima alla colossale mil-lefoglie c’erano nove candele accese, ognuna delle qua-li simboleggiava un decennio, che ero tenuto a spegne-re... se possibile, con un solo soffio. Era quella la miaintenzione e avrei dimostrato a tutti che avevo ancora laforza per riuscire nell’impresa. Mi chinai sul dolce esoffiai più forte che potei, ma le fiamme delle candele si

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limitarono a guizzare nella stessa direzione, rimanendoaccese. Soffiai ancora e accadde la stessa cosa. Seguiro-no grida d’incoraggiamento e riprovai, fallendo dinuovo. In mezzo a tutte le acclamazioni e le risate, unodei miei nipoti, Pete, scivolò al mio fianco e disse: «La-scia che ti aiuti, nonno».

Si piegò verso di me, arricciò le labbra, soffiò e tuttele candele si spensero. Le ovazioni crebbero, e così lerisate, e dovetti unirmi a loro. Ringraziai Pete, nascon-dendo la mortificazione che provavo, e tagliai la primafetta di torta. Cercai di dimenticare l’accaduto, ma erail primo compleanno in novant’anni in cui non ero riu-scito a spegnere le candeline sulla torta, e mi rodeva.

Quando congedammo gli ospiti, quella sera, si era fat-to già buio, ma era ancora presto. Rimanemmo fuori persalutarli con la mano mentre si allontanavano in auto.Poi facemmo per rientrare in casa, ma ci fermammo.Era una serata deliziosa: c’era la luna piena, grande eluminosa nel cielo stellato. Credo ci ricordasse qualco-sa, una serata simile di tanti anni prima. Ma nessuno deidue vi accennò.

«Ti va di fare una passeggiata?» chiesi a Ruby.«Sì» rispose prontamente. Adorava camminare, co-

me me, specialmente in serate come quella, troppo bel-le per chiudersi in casa. L’aria, in effetti, sembrava es-sersi intiepidita e si avvertiva quasi un calore estivo,perciò non avevo nemmeno bisogno di rincasare aprenderle qualcosa per proteggersi dalla frescura dellasera.

Normalmente, fare una passeggiata avrebbe signifi-

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cato camminare intorno al lago che si trovava in fondoalla nostra via, costeggiato da un sentiero lungo quasidue chilometri, quel tanto che bastava per una passeg-giatina dopo cena. Ma invece di girare a destra, verso illago, svoltai nella direzione opposta e la trascinai conme. Era perplessa.

«Dove andiamo?» domandò.«Tra poco lo vedrai» risposi.Non era lontano. La condussi nel giardino sul retro

di casa nostra: era il salice dorato che l’avevo portata avedere, lucente e ancor più bello al chiaro di luna, pro-prio come mi aspettavo che fosse. E non solo: era la co-pia esatta del salice che avevamo visto a Central Parktanti anni prima, e che ci aveva spinto a piantare quel-lo in giardino.

Le sensazioni di quella sera lontana erano ancora for-ti in me. Era stato tanto tempo prima, prima che io eRuby ci sposassimo, la torrida estate in cui ci eravamoconosciuti a un ballo, una sera. A quei tempi non ave-vo un lavoro né soldi in tasca, perciò non potevo por-tarla a teatro o in posti dove ci fosse da pagare, e Cen-tral Park era gratuito. A Ruby non importava, purchéstessimo insieme, e veniva volentieri con me al parcoquasi tutte le sere. Talvolta suonavano musica dal vivoe altre volte organizzavano balli all’aperto, poi c’erasempre lo zoo e, cosa forse ancora migliore, le panchi-ne al riparo dell’ombra degli alberi.

Quella sera eravamo andati al concerto della bandaed eravamo rimasti seduti ad ascoltare per un po’, fin-ché non ci era presa una certa irrequietezza. Era una se-ra simile, la luna piena in cielo, stelle dappertutto; ci

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eravamo allontanati di soppiatto e, mano nella mano,avevamo imboccato il sentiero che costeggiava il lago,fermandoci di quando in quando per baciarci. D’untratto lo avevamo scorto in lontananza, torreggiante sututti gli altri alberi, le foglie dorate che splendevano alchiarore lunare. Non lo avevamo mai visto prima e lasua bellezza ci aveva mozzato il fiato. Ci eravamo avvi-cinati ed eravamo rimasti a guardarlo da presso per unpo’, poi avevo scostato alcuni rami ed eravamo entratisotto. Era stato come varcare la soglia di un luogo sa-cro. Mi aveva fatto pensare a una cattedrale, con l’altosoffitto intorno al tronco robusto. Io e Ruby eravamorimasti a fissarci nell’oscurità, poi le avevo messo unamano intorno alla vita e l’avevo attirata a me; poco do-po giacevamo su un letto di rami molli e decompostiche si era formato intorno alla base dell’albero nel cor-so degli anni. In lontananza sentivamo la banda suona-re ed era stato lì che avevamo fatto l’amore per la pri-ma volta.

Be’, tutto questo riaffiorò alla mia mente mentre sta-vo a guardare il salice immerso nel chiaro di luna nelnostro giardino e d’un tratto mi ritrovai a scostare i ra-mi dell’albero con una mano mentre con l’altra stringe-vo quella di Ruby.

«Cosa fai?» sussurrò Ruby guardandosi intorno, conil timore che qualcuno dei nostri vicini ci vedesse.

Non risposi. Sapevo cosa stavo facendo. Cercai diconvincerla a entrare. «Vieni» sussurrai di rimando.

«Sei pazzo?» mi chiese.«No, niente affatto» replicai. «Ti prego, vieni con

me.»

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«Ti rendi conto,» disse «che hai novant’anni?»«Sì. È per questo che voglio che tu mi segua.»Entrò con me sotto l’albero. Magari fui sfiorato dal

pensiero di come avevo tentato, senza riuscirci, di spe-gnere le candele sulla torta di compleanno. Forse unpo’ di quel sapore amaro era rimasto. Ma penso che cifosse molto di più. C’era anche il chiaro di luna e il ri-cordo di quella notte a Central Park. Il nostro giaciglioera morbido come quello di allora. Rami e foglie marcesi erano accumulati anno dopo anno e l’odore argillosopungeva forte le narici. Dopo ci addormentammo, vici-ni, abbracciati l’uno all’altra.

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Fummo svegliati dal bagliore di un lampo, seguitodal basso brontolio di un tuono. Ci alzammo in fretta,facemmo capolino dall’albero e poi corremmo verso ca-sa, raggiungendola appena in tempo, proprio quandoiniziavano a cadere le prime gocce di pioggia.

Ridevamo felici della nostra fuga, poiché il tempora-le si abbatté con piena potenza, con schianti di tuono eviolenti guizzi di lampo, solo quando fummo rientrati.Non perdemmo tempo e andammo a letto. Era una pia-cevole ninna nanna ed era bello starsene coricati insie-me ad ascoltare i tuoni e vedere i fulmini squarciare ilcielo fuori dalla finestra. Poi, dopo il lampeggiare diuna saetta, udimmo il fragore improvviso di qualcosa dipesante che cadeva.

«Cos’è stato?» mormorò Ruby.«Non lo so» sussurrai in risposta.Non avevo voglia di alzarmi per andare a controllare

perciò smettemmo entrambi di preoccuparci e ci ad-dormentammo subito.

Quando l’indomani mattina aprimmo gli occhi, tutto

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era tranquillo e soleggiato. Era una giornata simile aquella che mi aveva accolto al risveglio ventiquattr’oreprima, all’alba del mio novantesimo compleanno. Ave-vo novant’anni e un giorno, riflettei sbadigliando. Iltemporale, però, era passato e mi chiesi quanti danniavesse fatto.

Ruby si alzò per prima dal letto. Io ero ancora sdraia-to quando la sentii esclamare: «Oddio!».

«Che succede?» Balzai a sedere sul letto.«Corri a vedere!»Era in piedi davanti alla finestra, l’orrore dipinto sul

volto. La raggiunsi rapidamente e lanciai anch’io ungrido. Il nostro bel salice dorato giaceva disteso a terraper tutta la sua lunghezza, in un groviglio di foglie do-rate e rami, le radici divelte dal terreno che si proten-devano verso l’alto con zolle di terra scura ancora at-taccate. Giaceva lì come un gigante ucciso in battaglia.

Quell’albero significava molto per entrambi e mi ac-corsi che Ruby era in lacrime. Le cinsi le spalle con unbraccio e cercai di consolarla. «Passerà» le dissi. «Do-potutto, è solo un albero.»

Ma, per quanto la riguardava, poteva tranquillamen-te essere una persona. «Non ci sarà mai un altro alberocome quello» replicò. «Possiamo piantarne uno nuo-vo?»

Scoppiai a ridere. «Ruby, tesoro,» le dissi «non po-tremmo mai sostituire un albero bello come quello, co-sì come non potrei mai sostituire te.»

«Grazie per il complimento,» rispose, in un tono divoce smorzato, asciugandosi gli occhi con un fazzoletto«ma sei sicuro che non ne possiamo piantare un altro?»

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«Sono sicuro, sì» ribadii. «Sai quanto ci ha messo acrescere. L’ho quasi dimenticato. Trent’anni? Forsequaranta? Ma non preoccuparti» mi affrettai ad ag-giungere. «Abbiamo ancora tempo a sufficienza per noidue.»

«Davvero?» domandò, ma parlò in maniera assente,come se nella sua mente si fosse insinuato un altro pen-siero.

«Sì» risposi con determinazione. «Tantissimo, un’eter-nità.»

Così parve per due anni ancora, con l’anemia diRuby, apparentemente sotto controllo, che le permet-teva di continuare a insegnare yoga tutti i mercoledìmattina al circolo sportivo, flessuosa, esile e in formacome non mai nel suo body, anche se era ormai una no-nagenaria come me. Ci godevamo la vita insieme, noidue, concedendoci persino un altro paio di viaggi inMessico.

Aveva novantun anni e io novantadue quando deci-demmo di festeggiare il nostro sessantasettesimo anni-versario di nozze. I figli, Charlie e Adraenne, si eranoaccordati per organizzarlo a proprie spese, un regalod’anniversario che per noi non avrebbe potuto esserepiù bello: un soggiorno di due notti all’Hotel Plaza diNew York, nei pressi di Central Park, lo stesso in cuiavevamo trascorso la luna di miele, vicino a dove aveva-mo vissuto nei primi mesi della nostra vita insieme; po-sti in platea al Metropolitan per La Bohème, la nostraopera preferita, e biglietti per il concerto di un quartet-to d’archi alla Carnegie Hall. Cosa potevamo chiederedi più?

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Arrivammo al Plaza in macchina, pregustando quel-le due notti di lusso, e immediatamente ci ritrovammoin un mondo a noi sconosciuto fino ad allora: un por-tiere in livrea ad accoglierci, un fattorino per prenderele chiavi e parcheggiare l’auto, un secondo fattorino perportare le valigie, una hall riccamente rivestita di mo-quette da attraversare in direzione della reception perregistrarci, poi un ascensore per salire alla nostra came-ra, e che camera! Era grande e arredata con gusto e, sì,si affacciava sul parco, una vista perfetta che attrassesubito la nostra attenzione. Non quanto il letto a bal-dacchino, però. Quello ci tolse letteralmente il respiro.Avevamo visto letti di quel tipo solo nei film, prima diallora. I nostri ragazzi avevano pensato proprio a tutto.

I due giorni che seguirono volarono troppo in frettaper i nostri gusti. Avremmo potuto facilmente mettereda parte la soggezione e adattarci senza alcun problemaa vivere al Plaza: alla gente che ci serviva e riveriva; aipasti sontuosi al ristorante dove due o tre camerieri, in-cluso un sommelier con una grossa chiave appesa alcollo, si affaccendavano per noi; alla passeggiata nelparco, alla sera all’opera e al quartetto d’archi del gior-no successivo... Avremmo potuto abbracciare tuttoquesto per il resto della nostra vita.

Ma prima che la pacchia fosse finita ci concedemmoun altro sfizio. Volevamo tornare sulla SessantottesimaStrada per rivedere il vecchio palazzo di arenaria doveavevamo abitato alcuni mesi dopo il matrimonio. Sa-rebbe stato il finale perfetto per il nostro anniversariodi nozze.

Per fortuna, il tempo era stato clemente durante quei

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due giorni, tiepido e soleggiato, tanto piacevole che nonavremmo potuto desiderare di meglio. Fu così che par-timmo in pellegrinaggio verso la nostra vecchia casa.Anni prima ci avremmo messo appena qualche minutoa raggiungere a piedi la Sessantottesima Strada dallaCinquantanovesima e sarebbe stato una cosa da poco.Ma avevamo un’età diversa, eravamo più anziani, eavanzavamo adagio; presto dovemmo fermarci a ripo-sare su una delle panchine che costeggiano la CentralPark Ovest. Avevamo già scoperto dalle nostre passeg-giate nel parco che non eravamo più capaci di cammi-nare a passo svelto e che dovevamo fare pause frequen-ti, perciò la cosa non ci sorprese e fummo grati perl’alto numero di panchine.

Ma alla fine, sudando sotto il sole, assai meno cle-mente di quando ci eravamo messi in marcia, oltrepas-sammo il grande edificio di pietra bianca della EthicalCulture Society, dove avevamo trascorso innumerevolidomeniche mattina ad ascoltare le prediche e le lettu-re di Algernon Black, e approdammo alla Sessantotte-sima.

Ci scambiammo un sorriso quando la imboccammo.La strada era la stessa di sessantasette anni prima, conle due file identiche di palazzi in arenaria che si fronteg-giavano ai due lati della strada, le alte scale d’ingressoche digradavano uniformemente fino al marciapiede.Niente sembrava essere cambiato e ne eravamo felici.Quando fai un tuffo nel passato vorresti sempre chetutto fosse rimasto intatto. La nostalgia ci travolse men-tre risalimmo l’isolato, guardando a destra e a sinistraalla ricerca di dettagli familiari: le fioriere che alcune

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case esibivano un tempo sui davanzali, l’insegna deldentista alla finestra polverosa del numero 42. Be’,qualcosa era cambiato. Le fioriere erano sparite e così imolti annunci di «Affittasi» attaccati ai vetri; non c’erapiù nemmeno l’insegna del dentista, tanto meno il denti-sta stesso, un signore anziano e trasandato che sembra-va trascorrere più tempo facendo lavoretti qua e là perriparare la proprietà in rovina che a svolgere la sua pro-fessione. Avevamo visto di rado pazienti salire in casa el’insegna alla finestra era accartocciata e ingiallita daltempo, proprio come il suo proprietario.

Finalmente giungemmo alla nostra casa, quasi alla fi-ne dell’isolato, nei pressi della Columbus Avenue, e inostri cuori presero a battere un po’ più forte quandola vedemmo, ancora lì, la stessa casa che ci aveva accol-to un giorno di primavera, con tutti i nostri averi in unpaio di misere valigie. Due ragazzi, molto emozionatiper la nuova vita che li aspettava e altrettanto innamo-rati. Mentre salivamo i gradini, immaginai di vedere lapadrona di casa che ci osservava dalla finestra dell’ap-partamento a piano terra dove abitava con la figlia. Sichiamava signora Janeski, ma l’avevamo soprannomi-nata “Madame” per via dei modi altezzosi e aristocrati-ci che aveva ostentato quando eravamo andati ad affit-tare l’appartamento, informandoci che accettava solopersone «selezionatissime». Uno scrutinio severo leaveva suggerito di nutrire riserve nei nostri confronti.

Ma io e Ruby pensavamo ad altro mentre ce ne sta-vamo lì in piedi in contemplazione della casa.

Fu Ruby a rompere il silenzio. «Mi domando sel’idraulico sia venuto, alla fine» disse.

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«Me lo domando anch’io» le feci eco, e scoppiammoa ridere.

Stavo pensando esattamente la stessa cosa e non c’erada stupirsi. Era un’idea che ci era frullata spesso nelperiodo in cui avevamo soggiornato presso Madame,l’unica pecca della stanza. Era deliziosa, per quanto po-tesse esserlo qualsiasi stanza ammobiliata a quei tempi.Per noi era praticamente perfetta, mancava solo una co-sa: la doccia. C’era una vasca, abbastanza carina, mal’accessorio di somma importanza, la doccia appunto,mancava ed era essenziale per entrambi.

Madame era caduta dalle nuvole quando le avevamosottoposto la questione, come se fino ad allora non sifosse mai accorta che in bagno la doccia non c’era. Sene sarebbe occupata subito, aveva promesso. Avrebbechiamato l’idraulico per installarne una.

L’idraulico non era venuto e Madame aveva avuto lascusa pronta: sua figlia aveva avuto un incidente e l’uo-mo era dovuto correre all’ospedale dove l’avevano rico-verata. Ma sarebbe venuto la settimana prossima. E lasettimana dopo, se l’idraulico non era arrivato, era sta-to perché era caduto dai gradini della chiesa e si era rot-to una gamba. Le scuse erano inesauribili e alla fine cieravamo resi conto che, sempre che l’idraulico fosseesistito davvero, i motivi per cui non era ancora venutonon erano che il prodotto della fervida fantasia di Ma-dame.

Tutto questo ci tornò in mente quando ci trovammodavanti alla nostra vecchia casa. Stavamo ridendo quan-do la porta d’ingresso si aprì e spuntò un uomo basso etracagnotto con indosso un paio di jeans e una camicia

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di flanella a quadri. Ci aveva visto dalla finestra, la stes-sa da cui Madame ci spiava con sospetto quando entra-vamo e uscivamo, e si era incuriosito.

«C’è qualcosa che posso fare per voi?» domandò congentilezza.

Io e Ruby ci guardammo. Stavamo pensando la stes-sa cosa: ci sarebbe piaciuto entrare per rivedere la no-stra vecchia stanza. Gli spiegai come mai ci trovavamolì, ovvero per fare una visita sentimentale al primo po-sto in cui avevamo vissuto insieme, in occasione del no-stro sessantasettesimo anniversario di nozze. Si dimo-strò comprensivo e piuttosto affabile. Era il nuovoproprietario dell’immobile, un acquisto relativamenterecente. Malgrado i jeans e la camicia di flanella, eraprofessore di economia alla New York University e nonavrebbe avuto problemi a mostrarci la stanza.

«Anche se,» ci spiegò «non la chiamiamo più stanzaammobiliata. È un monolocale adesso.»

Sorridemmo e pensammo che probabilmente venivaaffittato a dieci volte – o anche più – la cifra che paga-vamo allora. Fortunatamente per noi, l’inquilino delmonolocale era via per il fine settimana. Seguimmol’uomo dentro casa e tutto si rivelò familiare: l’ingresso,il piccolo tavolo dove il postino lasciava le lettere (insie-me ai miei manoscritti rispediti al mittente), le scale ri-vestite di moquette. Non era lustra come quando eraMadame a gestirla, comunque, e il corrimano non scin-tillava.

Salimmo la prima rampa e giungemmo a destina-zione. Il padrone di casa si frugò in tasca in cerca dellachiave. Aprì la porta e si fece da parte per lasciarci pas-

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sare. Esitammo entrambi. Era riaffiorato il ricordo diquando avevo preso in braccio Ruby sulla soglia e cre-do desiderassimo entrambi poterlo fare di nuovo. Masarebbe stato sconveniente davanti a quell’uomo cheaspettava che entrassimo, e dubito che avrei avuto laforza di sollevare Ruby e portarla dentro.

Varcammo la porta e fu un momento emozionanteper entrambi guardarci intorno in quella che un tempoera stata la nostra prima casa. Era la stessa di allora, as-solata, con le due finestre che si affacciavano sul giardi-no sottostante e la fila di cortili con le sdraio pronte perun riposino, i fili del bucato su cui stendevo i panni la-vati, con fare furtivo, badando a sguardi indiscreti.

C’era ancora la piccola rientranza con la toeletta chea Ruby piaceva molto, un tocco di eleganza che di radosi accompagnava a una stanza ammobiliata. Sulla toe-letta era appeso lo specchio in cui avevo fatto guardareRuby mentre le deformavo i lineamenti, mostrandolecome sarebbe potuta diventare da vecchia e dicendo-le che l’avrei amata quanto l’amavo a vent’anni. E poic’era il bagno.

Incrociammo lo sguardo. Saremmo arrivati a tanto?«Possiamo andare in bagno?» domandai al padrone

di casa.Annuì, ma penso che rimase turbato quando entram-

mo insieme. Nemmeno le coppie più affiatate vanno inbagno insieme. Ma procedemmo lo stesso e non perusarlo, ma per verificare. Controllammo e la docciamancava ancora: c’era solo una di quelle prolunghe chesi comprano dal ferramenta.

«L’idraulico non è mai venuto» constatai.

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Ruby iniziò a ridere, ma io la zittii. Uscimmo e ci tro-vammo di fronte il padrone sempre più perplesso.

«Non c’è ancora una vera doccia» gli dissi. «Non neabbiamo mai avuta una.»

«Oh, davvero?» replicò lui. «Be’, ho appena acqui-stato l’immobile e non ho ancora trovato il tempo di fa-re delle migliorie. Ma aspetto l’idraulico tra una setti-mana circa per fare installare la doccia.»

Dopo averlo ringraziato per averci fatto visitare il no-stro vecchio nido e una volta in strada, io e Ruby scop-piammo in una risata così isterica che dovemmo soste-nerci l’un l’altra. La gente ci fissava, pensando forse chefossimo ubriachi.

Be’, quello fu il nostro sessantasettesimo anniversariodi nozze, un giorno felice, felice come lo erano stati tut-ti gli altri nel corso di tanti anni.

E poi, una settimana dopo il nostro ritorno a casa, cisvegliammo una mattina e trovammo del sangue sul cu-scino di Ruby.

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