Dorato, Mauro - Istituzioni Di Filosofia Della Scienza

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Copyright @ Mauro Dorato. Dispense per il corso di Istituzioni di Filosofia della Scienza (M-Fil 02) e Epistemologia (Fis 08) È vietato far circolare o utilizzare per citazioni Dispense per Istituzioni di Filosofia della Scienza M/Fil-02 (4 CUF) e per Epistemologia (Fis-08, 3 CUF) Prof. Mauro Dorato Dipartimento di Filosofia Via Ostiense 234, I-00146 Roma e-mail:[email protected] NB È vietato far circolare queste dispense o usarle per citazioni Questo documento è protetto dalle vigenti leggi di copyright per le pubblicazioni on-line Aggiornate al 10/03/2004 1

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Dispense per Istituzioni di Filosofia della Scienza

M/Fil-02 (4 CUF) e per Epistemologia (Fis-08, 3 CUF)

Prof. Mauro Dorato Dipartimento di Filosofia

Via Ostiense 234, I-00146 Roma e-mail:[email protected]

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Capitolo 1

I rapporti tra filosofia e scienza

Che cosa c’entra la filosofia con la scienza? A chi insegni filosofia della scienza non di

rado capita sentirsi rivolgere questa domanda, motivo per cui non esiste forse modo migliore

per introdurre l’oggetto della filosofia della scienza che cercare di rispondere a questo

interrogativo.

Come vedremo, le risposte a questa domanda sono diverse e molteplici, dato che non solo

esistono varie ragioni per connettere la filosofia alla scienza, ma il tipo di risposta è funzione

di controverse posizioni filosofiche, ovvero dipende dalla filosofia di ciascun filosofo.

Intanto, cerchiamo di definire in modo approssimativo e generale l’oggetto della filosofia,

cominciando con due delle tre domande che segnano le tre grandi opere critiche di Kant,

ovvero “che cosa possiamo conoscere?” (Critica della Ragion Pura) e “che cosa dobbiamo

fare?” (Critica della Ragion Pratica).

La prima domanda è tipica di quella parte della filosofia nota come teoria della

conoscenza (un termine desueto, che quindi non useremo, è gnoseologia). Più recentemente,

la teoria della conoscenza è designata dalla parola epistemologia, dalla parola greca episteme,

che vuol dire appunto scienza o conoscenza oggettiva, da contrapporsi a doxa, che è invece

opinione soggettiva. Ebbene, l’epistemologia, che alcuni confondono tout court con la

filosofia della scienza propriamente detta ma che è da considerarsi come da essa distinta, ha

come oggetto la natura, l’origine, i limiti e la giustificazione della conoscenza. E

“conoscenza”, almeno in una prima approssimazione che per il momento può ritenersi adatta

ai nostri scopi, è credenza vera giustificata. Per esempio, considerando che l’origine e la

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni giustificazione di molte delle nostre credenze è la diretta percezione sensoriale (“credo a quel

che vedo”), una tipica domanda dell’epistemologia della scienza è: “abbiamo ragioni di

credere a entità non osservabili” (geni, batteri, atomi, particelle, galassie diverse dalla nostra,

ecc.)?

Tale domanda ci avvicina e ci introduce a un’altra veneranda branca della filosofia, forse

la più speculativa, l’ontologia o metafisica, che si occupa appunto di rispondere alla

domanda “che cosa vi è” (“on what there is” è il titolo di un famoso articolo di Quine),

ovvero che cosa esiste, ovvero di appurare quali siano i costituenti ultimi della realtà. Le

versioni più semplicistiche di questo tipo di problemi riducono gli interrogativi metafisici

all’alternativa tra una posizione “materialistica” (la mente e le capacità cognitive dell’uomo

sono riducibili alle sue attività cerebrali) e una idealistica, secondo cui il costituente ultimo

della realtà è non-materiale o spirituale, qualunque cosa ciò significhi.

La disciplina filosofica che si occupa di rispondere alla domanda pratica “che cosa

dobbiamo fare”, che è la seconda domanda di Kant sopra menzionata, è invece l’etica o

filosofia morale che, insieme alla filosofia politica, hanno come oggetto i valori, ovvero ciò

che deve essere realizzato dalle nostre azioni perché è per noi importante. Strettamente

connessa all’etica intesa come teoria dell’origine e giustificazione dei valori è l’estetica o

teoria del bello, che Kant vedeva come una specie di ponte tra teoria della conoscenza ed

etica. Anche se in questa sede non possiamo entrare in dettagli, segnaliamo che il problema

dell’”estetica” nella scienza, o più precisamente, del rapporto la simmetria di certe equazioni

e la loro possibile verità o del mutare di “stile” scientifico in scienziati diversi è stato

recentemente oggetto di interessanti indagini storico-filosofiche.

A questo punto dovrebbe sembrare ovvio perché la filosofia della scienza debba essere

considerata parte integrante della filosofia e, viceversa, perché la scienza sia un’ impresa le

cui radici affondano nella filosofia.

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Per giustificare ulteriormente questa tesi si considerino i seguenti problemi, che

elenchiamo senza nessuna pretesa di completezza, ma solo allo scopo introdurre il lettore alla

complessità delle ramificazioni filosofiche del sapere scientifico:

(1) stabilire se la scienza ci offra e sia conoscenza oggettiva, visto che la scienza è,

indipendentemente dal nostro atteggiamento verso di essa, parte integrante e

importante della nostra cultura; (questo primo punto solleva il rapporto tra scienza o

teoria della conoscenza)

(2) stabilire come la scienza si distingua da altre forme tradizionali di “interpretazione del

mondo”, quali quelle offerte dalla religione, dal mito, dall’arte, e dalla filosofia stessa;

Come si è già detto sopra, lo stesso rapporto tra filosofia e scienza costituisce un

problema filosofico, la cui risposta potrà essere più chiara solo alla fine di questo

corso introduttivo o addirittura del corso di studio. Tale risposta potrebbe non essere

univoca, nel senso che potrebbe sollevare dibattiti sul ruolo della scienza nella cultura

o nella filosofia: per esempio, è ammissibile far coincidere tutto ciò che possiamo

conoscere con ciò che conosciamo attraverso il metodo scientifico, come ha sostenuto

il primo Wittgenstein? (scienza e metodo della conoscenza);

(3) stabilire se la scienza ci permetta di conoscere le entità ultime che costituiscono la

realtà, o non possa penetrare al di là del tessuto percettivo del mondo dell’esperienza

(scienza e metafisica);

(4) stabilire quale sia il rapporto tra scienza e valori (si pensi solo ai problemi etici

sollevati da nuove bio-tecnologie, dallo sfruttamento dell’energia nucleare

dall’ingegneria genetica, dall’etica legata alla medicina, dal rapporto tra scienza e

industria o globalizzazione) (scienza ed etica);

(5) stabilire quale il rapporto tra scienza e politica; si pensi che il carattere “pubblico”

della scienza – basato su un sapere controllabile empiricamente da tutti e non su

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conoscenze inaccessibili ai più in linea di principio come in molte società antiche

fondate sulla religione – è stato spesso posto alla base delle società democratiche;

(scienza e politica);

(6) se si ammette che la scienza sia il frutto principale anche se non esclusivo del mondo

occidentale, quale contributo ha dato la nostra cultura al mondo intero? (scienza e

cultura ed economia occidentale)

(7) la moderna organizzazione del laboratorio a partire dalla fase post-bellica (seconda

guerra mondiale) rappresenta in piccolo la specializzazione delle conoscenze e del

lavoro tipiche di una società industrializzata avanzata; (scienza e società)

(8) Chiarire la natura del rapporto tra scienza e tecnologia in generale.

Dovrebbe essere ovvio che questi sono solo alcuni punti che suggeriscono l’importanza

della scienza nella nostra cultura. È però altrettanto chiaro che senza conoscere in modo

sufficientemente approfondito qualcuna delle scienze naturali e sociali è impossibile

rispondere ai quesiti di cui sopra in modo plausibile. Purtroppo, la divisione del lavoro

intellettuale tra filosofi e scienziati lamentata già da Husserl nei primi decenni del Novecento

ai nostri tempi si è accentuata ancora di più, ciò che rende difficile che un uomo colto di oggi

che non sia uno scienziato sia al corrente almeno dei principali rudimenti delle maggiori

teorie scientifiche contemporanee, dalla meccanica newtoniana alla teoria della relatività,

dalla meccanica quantistica alla chimica, dalla cosmologia alla neurofisiologia del sistema

nervoso centrale.1

Un altro importante motivo per prendere sul serio la filosofia della scienza è che

moltissimi dei più grandi filosofi furono al tempo stesso scienziati: si pensi non tanto al

1 Oggi i filosofi spesso ignorano le maggiori teorie scientifiche contemporanee, fatto questa che nella storia della filosofia è senza precedenti. In Italia in particolare, a causa del peso della tradizione umanistica che vede il sapere storico-letterario-artistico come l’unica degno di una persona colta, la cultura scientifica risulta particolarmente penalizzata, forse a causa di un retaggio mistico-religioso che faceva dire ad Agostino che la

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mondo greco, quando “filo-sofia” (che vuol dire “amore del sapere”) includeva in modo

indifferenziato tutto il sapere, quanto all’inizio dell’epoca moderna, allorché Galileo,

Cartesio, Newton diedero rilevantissimi contributi sia alla filosofia propriamente intesa che a

quelle che oggi chiamiamo fisica e matematica. Per quanto non diede contributi diretti al

sapere scientifico del loro tempo, Kant conosceva bene la fisica a lui contemporanea, tanto è

vero che gli storici delle idee del mondo moderno sanno bene quanto siano inseparabili

scienza e filosofia.

Di conseguenza, è difficile comprendere a fondo la Critica della Ragion Pura e in

particolare l’Estetica Trascendentale e l’Analitica dei Principi senza tener presente il grande

dibattito filosofico-scientifico sulla natura dello spazio e del tempo che si generò a partire

dalla rivoluzione scientifica operata da Copernico (1543), e che fu portato a maturazione

completa dai Philosophiae Naturalis Principia Mathematica pubblicati da Newton nel 1687.

Si potrebbe però sostenere che ai nostri giorni le scienze naturali e sociali si sono

distaccate definitivamente dalla “grande madre” (la filosofia al tempo dei greci comprendeva

tutto lo scibile umano) e sono divenute talmente autonome da essa da non influire più sul

dibattito filosofico vero e proprio. Di conseguenza, anche la filosofia non avrebbe oramai più

nessuna importanza per le scienze. In un dipartimento di filosofia dovremmo quindi ritenerci

giustificati nell’ignorare le scoperte o le teorie scientifiche più recenti e in uno di fisica, o di

biologia, potremmo ignorare senza alcuna conseguenza le teorizzazioni filosofiche sulla

scienza.

Un tale giudizio sarebbe però assai superficiale. Si pensi infatti che esiste un contributo

“inconsapevole” che viene direttamente dalla scienza a questioni filosofiche tradizionali,

conoscenza di ciò che è al di fuori di noi è vana curiositas. Agostino invitava a tornare in se stessi, perché in noi abita la verità.

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni come quelle che hanno a che fare con il determinismo, la natura dello spazio e del tempo, dei

numeri, dell’identità personale, della giustizia e del libero arbitrio.

La storiografia della scienza ha infatti contribuito a mostrare che il progresso delle

conoscenze scientifiche non è spiegabile solo grazie all’accumularsi più o meno rapido di

scoperte sperimentali permesse da strumenti tecnologici sempre più sofisticati, o dal

progredire delle conoscenze matematiche, ma è permesso anche dall’analisi concettuale di

nozioni fondamentali di natura filosofica.

Ne segue che le teorie scientifiche contemporanee interagiscono con la filosofia in un

duplice senso. Da una parte, molte ben confermate teorie scientifiche hanno notevoli

ripercussioni su questioni tradizionalmente “filosofiche”: si pensi all’impatto

dell’evoluzionismo darwiniano circa le domande sull’origine dell’uomo, o a quello delle

scoperte contemporanee di neurofisiologia sui rapporti tra corpo (cervello) e mente

(“anima”). Dall’altra, in quello che tecnicamente si chiama “interpretazione” di una teoria

scientifica o di una teoria fisica – che è il tentativo di capire che cosa essa ci dica sulla realtà

o sul mondo – è indispensabile usare in modo appropriato gli strumenti dell’analisi

concettuale tipici della filosofia. Senza un’attenta analisi filosofica del significato di “a è

simultaneo con b”, nel caso in cui questa relazione si attribuisca ad eventi tra loro distanti,

Einstein non avrebbe mai potuto costruire la relatività speciale.

In questo senso la filosofia della scienza non si pone solo il compito di riflettere ex post

sul lavoro scientifico compiuto dagli scienziati di professione, ma si propone – proprio in

virtù della sua peculiare formazione di filosofo – di partecipare in modo attivo ai complessi

processi di elaborazione, costruzione e valutazione delle stesse teorie scientifiche. Da questo

punto di vista, il filosofo della scienza cerca, e dovrebbe cercare, di contribuire ad una più

profonda comprensione, se non all’effettivo progresso, di singole teorie scientifiche, proprio

grazie alla sua peculiare abilità nell’analisi di concetti “fondamentali” che compaiono in

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni queste ultime. Si pensi a nozioni quali quelle di ‘numero’, ‘probabilità’, ‘legge di natura’,

‘forza’, ‘causa’, ‘riduzione’, ‘spiegazione’, ‘proprietà emergente’, ‘conferma’, ‘causalità’, o

‘esperimento’, che costituiscono da vari decenni il terreno sul quale l’analisi filosofica della

scienza si è maggiormente concentrata.

In ogni caso, non è necessario assumere che lo scienziato e il filosofo siano sempre

persone distinte: talvolta le migliori analisi filosofiche di un concetto o di un problema

scientifico provengono proprio da scienziati, che cercano di interpretare la teoria che hanno

contribuito a fondare, ovvero si domandano su cosa verta la teoria, o quale sia la sua

ontologia (si pensi all’opera di Bohr, Heisenberg, Schrödinger o Einstein sui fondamenti

filosofici della meccanica quantistica).

Dopo aver cercato di illustrare, seppure in modo necessariamente stringato, sia

l’importanza che le scoperte scientifiche hanno per le tradizionali questioni filosofiche sia il

rilievo che queste ultime hanno per l’interpretazione della scienza – è necessario far presente

che la filosofia della scienza contemporanea si è andata progressivamente specializzando e

settorializzando, sicché esistono oggi due modi distinti di intenderla e praticarla, entrambi

legittimi e in grado di arricchire sia la filosofia che la scienza. Il primo consiste nel cercare di

dare risposte a problemi che sono di diretta pertinenza del sapere scientifico nella sua

globalità e generalità, tipo “esiste un progresso scientifico?”, “che cos’è una teoria

scientifica?”, “che cos’è una legge scientifica?”, “la scienza spiega i fenomeni che

descrive?”, “esiste un limite alla conoscenza scientifica della realtà?”, qual è la differenza tra

il sapere scientifico e quello non scientifico?”, ecc. Stabiliamo convenzionalmente di

chiamare la disciplina che cerca di dare una risposta a questi interrogativi – ai quali la scienza

non sa e non intende rispondere – filosofia della scienza.

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Esiste poi un altro tipo di domande, pur sempre filosofiche, che sorgono però

direttamente dal lavoro degli scienziati, e che coinvolgono quindi dispute “più interne” a

singole discipline scientifiche. Esempio di queste domande sono “come può essere fatto il

mondo microscopico se la meccanica quantistica è vera?” o “qual è il confine tra mondo

microscopico (in cui vige la meccanica quantistica) e mondo macroscopico (in cui vige la

tradizionale meccanica classica newtoniana?)”, oppure, ancora, “qual è l’unità su cui ha

operato la selezione naturale, il gene, l’individuo o la specie?” Come è ovvio, domande di

questo tipo rendono indispensabile una conoscenza tecnica approfondita delle singole scienze

in cui spesso si originano, e possono essere ricomprese in un’attività che possiamo

convenzionalmente denominare fondamenti della scienza, o meglio “fondamenti di particolari

discipline scientifiche”. Ai nostri giorni registriamo così lo sviluppo dei fondamenti della

fisica, della chimica, della biologia, delle scienze cognitive, dell’economia.

Questo dualismo tra filosofia della scienza e fondamenti delle scienze pone problemi

importanti per una comprensione unitaria del sapere scientifico, sui quali qui non possiamo

soffermarci. Essi coinvolgono in particolare la possibilità di considerare la filosofia della

scienza come autonoma e indipendente dalla filosofia delle scienze particolari (filosofia della

fisica, filosofia della biologia, filosofia delle scienze cognitive, filosofia dell’economia,

filosofia della matematica, ecc.). Per esempio, ha senso considerare una teoria filosofica delle

teorie scientifiche che valga per tutte le discipline, dalla fisica all’economia, oppure si deve

assumere che ogni disciplina possiede caratteristiche uniche? È chiaro che una risposta a

questi interrogativi dipende da un ulteriore approfondimento e progresso nell’ambito dei

fondamenti delle scienze particolari, alle quali, non a caso, gran parte della ricerca

contemporanea sulla scienza oggi si rivolge. Anche le ricerche filosofiche cosiddette generali

tendono, anche se in modo tacito o implicito, a privilegiare una scienza particolare, in genere

la fisica: così è certamente stato per gran parte dell’epistemologia del Novecento.

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Questa scissione e questa specializzazione non è necessariamente da considerarsi in

modo negativo ai fini di una comprensione sintetica e globale del sapere scientifico nei suoi

rapporti con le altre forme culturali e con la società. In fondo, così i fondamenti delle scienze

particolari funzionano da tramite più diretto tra le singole scienze e la filosofia della scienza

generale, così quest’ultima fa da tramite tra scienza e sapere filosofico in generale. È solo

grazie a una ricerca filosofica più concreta e aderente al lavoro delle scienze – quale quella

che verte su quelli che abbiamo chiamato “fondamenti delle scienze singole” – che si possono

trarre delle generalizzazioni plausibili nell’ambito della filosofia della scienza in generale.

Viceversa, è solo non perdendo di vista gli scopi di quest’ultima e quelli della filosofia in

generale che il lavoro tecnico sui fondamenti non perde del tutto i suoi connotati concettuali e

filosofici.

Le due pagine che seguono riassumono quanto detto sinora.

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Metafisica (che cosa vi è?) Ontologia

Epistemologia (che cosa possiamo conoscere?) Teoria della conoscenza: natura, origine, limiti e giustificazione della conoscenza

FILOSOFIA

Etica (teoria dei valori) (che cosa dobbiamo fare?)

Realismo e antirealismo scientifico

• Etica e scienza • Bioetica • Neutralità della scienza • Natura umana

• Scienza e osservazioni • Metodo della scienza • I limiti della scienza • Rapporti con altre forme culturali.

FILOSOFIA DELLA SCIENZA

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METAFISICA: cerca di appurare quali siano i costituenti ultimi della realtà

IL FINE DELLA FILOSOFIA DELLA SCIENZA • stabilire se la scienza ci offra e sia conoscenza oggettiva, visto che la scienza è,

indipendentemente dal nostro atteggiamento verso di essa, parte integrante e importante della nostra cultura; (rapporto scienza ed epistemologia o teoria della conoscenza)

• stabilire come la scienza si distingua da altre forme tradizionali di “interpretazione del

mondo” (religione, mito, arte, e filosofia stessa); in altre parole, lo stesso rapporto tra filosofia e scienza costituisce un problema filosofico: per es. è ammissibile far coincidere tutto ciò che possiamo conoscere con ciò che conosciamo scientificamente, come il primo Wittgenstein sostenne? (scienza e metodo della conoscenza);

• stabilire se la scienza ci permetta di conoscere le entità ultime che costituiscono la

realtà, o non possa penetrare al di là del tessuto percettivo del mondo dell’esperienza (scienza e metafisica);

• stabilire quale sia il rapporto tra scienza e valori (si pensi solo ai problemi etici

sollevati da nuove tecnologie, dal nucleare all’ingegneria genetica, dall’etica legata alla medicina al rapporto tra scienza e industria o alla globalizzazione) (scienza ed etica)

• stabilire quale sia il rapporto tra scienza e politica; si pensi che il carattere “pubblico” della scienza, basato su un sapere controllabile empiricamente da tutti e non un sapere religioso ed inaccessibile ai più in linea di principio come in molte società religiose, è stato spesso posto alla base delle società democratiche; (scienza e politica);

• Scienza e tecnologia in generale • se si ammette che la scienza sia il frutto principale anche se non esclusivo del mondo

occidentale, quale contributo ha dato la nostra cultura al mondo intero? (scienza e cultura ed economia occidentale)

• la moderna organizzazione del laboratorio a partire dalla fase post-bellica rappresenta in piccolo la specializzazione delle conoscenze e del lavoro tipica di una società industrializzata avanzata; (scienza e società)

EPISTEMOLOGIA: studia la natura, l’origine, i limiti e la giustificazione della conoscenza umana

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Capitolo 2

Che cos’è una teoria scientifica?

2.1 Il Criterio di Verificazione e il modello di teoria neopositivista

Nel cercare di dare una risposta alla domanda con la quale si apre questa lezione, è

opportuno cercare di seguire, per quanto è possibile, il cammino storico che nel corso del

Novecento ha condotto a provare a individuare un criterio di demarcazione della scienza dalla

metafisica o filosofia. Partendo dal criterio neo-positivistico, basato sul principio di

verificazione, passeremo a quello popperiano, fondato sul principio di falsificazione, fino ad

arrivare alle tesi cosiddette “liberalizzate”, difese da Carl G. Hempel intorno alla metà del

secolo scorso.

L’idea che seguiremo è che per capire ciò che è tipico ed essenziale nella conoscenza

scientifica sia opportuno partire dal tentativo di delimitare quest’ultima da ciò che non è

scienza, procedendo in senso “negativo”. Come vedremo, la storia dei tentativi di demarcare

la scienza dalla metafisica è caratterizzata da un’importante tesi intorno al significato degli

enunciati, che sono proposizioni suscettibili di essere veri o falsi. Tale tesi lega ciò che è

dicibile, ovvero ciò che è dotato di senso, a ciò che è conoscibile scientificamente. Questa

identificazione, che in seguito alla cosiddetta “svolta linguistica” della filosofia del

Novecento, venne fatta in nome del significato degli enunciati, si riallaccia però al dibattito

settecentesco sull’origine e i limiti della conoscenza umana (Locke, Hume, Kant), un

dibattito che era però condotto sul terreno “psicologistico” e meno controllabile delle idee.

Per gli empiristi, tutte le idee della nostra mente vengono dall’esperienza (interna ed esterna),

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e qualunque idea non possa essere ricondotta all’esperienza deve essere considerata con

sospetto.

Non possiamo qui non ricordare che la spedizione “geografica” che aveva il compito di

tracciare i confini del continente della conoscibilità rispetto all’oceano dell’inconoscibile fu

lanciata inizialmente da Locke (1632-1704); e che ancora per Kant (1724-1804), portare a

termine tale spedizione era considerato il compito principale della filosofia teoretica. In

Hume (1711-1776), pensatore assai importante per Kant la buona metafisica ha la funzione

opposta a quella enunciata dalla legge di Gresham a proposito delle monete, e cioè di

scacciare la cattiva,2 al punto che l’indagine di Hume ebbe un esito al quale nel nostro secolo

si riagganciarono i neoempiristi della prima ora: «quando scorriamo i libri di una biblioteca, e

ci accorgiamo che non contengano ragionamenti intorno a materie di fatto né relazioni tra

idee, buttiamoli nel fuoco, perché non contengono altro che sofisticherie ed inganni.»

L’equivalente novecentesco dei ragionamenti su “materie di fatto” di cui parla Hume

sono le proposizioni empiricamente fondate, o “asserti di base”, che danno origine a quelli

che Kant chiamava giudizi sintetici. Le “relazioni tra idee” di cui parlava Hume, e che per lui

caratterizzano la matematica e la logica, nel primo Wittgenstein e nei neoempiristi del

cosiddetto “Circolo di Vienna” diventano invece proposizioni tautologiche, ovvero enunciati

che si riducono ad asserti del tipo “A è A”.3 Per Kant gli enunciati di questo tipo erano

giudizi analitici, dato che, per esempio, “il triangolo è trilatero”, non fa che esplicitare o

analizzare nel predicato ciò che è già contenuto nel concetto espresso dal soggetto.4

2 La legge di Gresham in economia dice che la moneta cattiva (che non contiene metalli preziosi, per esempio) tende a scacciare la buona moneta, perché tutti tendono a mettere da parte proprio quest’ultima, in quanto più preziosa. 3 In una fase del suo pensiero, quella influenzata da Wittgenstein, per Russell la matematica diventa l’arte di dire la stessa cosa in modo diverso. 4 Per Kant però, la matematica non si fonda su giudizi meramente analitici, ma presuppone giudizi sintetici a priori.

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La logica in particolare viene vista dai neoempiristi del circolo di Vienna come lo

strumento filosofico per eccellenza, non solo perché permette di tradurre nel suo linguaggio

gran parte se non tutta la matematica rendendola con ciò “rigorosa”, formalizzata e priva di

fuorvianti riferimenti alle nostre intuizioni, ma anche perché consente quel legame

indispensabile tra enunciati teorici che si riferiscono a entità non osservabili e enunciati di

base, che costituiscono cioè il fondamento su cui poggia tutta la nostra conoscenza. Questi

ultimi sono enunciati che fondano tutta la nostra conoscenza proprio in quanto si riferiscono a

entità o a proprietà direttamente osservabili: si pensi a enunciati come “questo strumento

segna 4 ampere”5, o “questo oggetto è rosso”.

Il principio selettivo di Hume nei confronti della cattiva metafisica viene reinterpretato

dai neoempiristi sulla base del principio di verificazione, inteso come criterio di significanza

o sensatezza degli asserti:

(C) Per ogni enunciato x, x è dotato di senso se e solo se è verificabile.

Ne segue che religione e metafisica (filosofia speculativa), nella misura in cui sono non

verificabili, sono non solo sofisticherie, come voleva Hume, ma risultano addirittura prive di

senso. L’ambito di ciò che può essere detto, come afferma il primo Wittgenstein (1889-1951),

quello del Tractatus Logico-Philosophicus (1921) coincide con le proposizioni della logica,

della matematica e della scienza empirica. La filosofia, come viene intesa dai neoempiristi o

neo-positivisti logici, deve identificarsi con l’analisi logica delle proposizioni della scienza

naturale; per il Wittgenstein del Tractatus la filosofia era addirittura una scala di cui ci si

doveva liberare dopo l’uso, che consisteva nel mostrare come tutti i problemi filosofici

derivino da un cattivo uso del linguaggio. L’egemonia del linguaggio nella filosofia del

Novecento si fece sentire dunque anche nella filosofia della scienza, e si può anzi dire senza

timore di sbagliare che tale egemonia si originò o almeno si esercitò proprio al suo interno, e

5 L’ampere misura l’intensità di corrente in un circuito. Aggiornate al 10/03/2004 15

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni fece sentire i suoi effetti molto a lungo. Da questo punto di vista, lo studio del filosofo della

scienza era di tipo meta-linguistico: così come l’oggetto di cui si occupa lo scienziato è la

natura (o, metaforicamente, il “linguaggio” in cui è scritta), l’oggetto di studio del filosofo

della scienza è il linguaggio con cui lo scienziato parla della natura.

I motivi che condussero all’elaborazione della radicale teoria filosofica del significato di

un enunciato racchiusa in (C), sono molteplici e noi qui possiamo esaminarli in modo solo

sintetico.

In primo luogo, lo sviluppo delle geometrie non-euclidee, dell’algebra e dell’analisi della

seconda metà dell’800 avevano portato a un grande sviluppo della logica, e in particolare al

tentativo di ridurre (o tradurre) tutta la matematica nota alla teoria degli insiemi. Per quanto

riguarda le scienze empiriche, soprattutto dopo le due teorie della relatività di Einstein (1905,

1915) e la formulazione della nuova meccanica quantistica (1924-26), c’era la

consapevolezza che i problemi sollevati dalle nuove rivoluzionarie concezioni dello spazio,

del tempo e della materia atomica e subatomica, implicite nella relatività e nella nuova fisica

quantistica, dovessero necessariamente coinvolgere anche i filosofi, dato che i concetti di

“spazio”, “tempo” e “materia” erano state eminenti preoccupazioni filosofiche dai pitagorici a

Kant.

In terzo luogo, molti neoempiristi avevano forti interessi per il mondo sociale e il politico:

Otto Neurath, uno dei membri fondatori del cosiddetto Circolo di Vienna, nome con cui si

designa storicamente un gruppo di filosofi e scienziati che incontrava periodicamente a

Vienna per discutere di scienza e filosofia (1922-1938), era un sociologo, che aveva vissuto

insieme agli altri membri del Circolo il primo sanguinoso conflitto mondiale europeo. I

neoempiristi logici ritenevano che l’estensione del metodo scientifico – che tanto successo

aveva avuto nelle Naturwissenschaften (scienze della natura) – anche alle scienze sociali

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni (Geisteswissenschaften), poteva finalmente porre anche queste ultime sulla sicura strada del

progresso e dell’accordo intersoggettivo esemplificato dalle prime.

Da questo punto di vista, era tipico il sostegno dei neopositivisti logici all’ideale

dell’unità di tutte le scienze: il metodo delle varie scienze è identico per tutte e, in una certa

misura, il linguaggio in cui esse esprimono i loro asserti di base è lo stesso. Gli asserti di

base sono gli enunciati che esprimono la nostra lettura degli strumenti di misura o dei risultati

di esperimenti e sono dunque l’ultimo tribunale cui un’ipotesi deve far appello per essere

considerata come scientifica. A secondo del periodo e del filosofo neopositivista che

consideriamo, tuttavia, gli asserti di base possono in ultima analisi trarre significato vuoi da

enunciati che esprimono sensazioni private il cui significato è contestuale” (tipo “io vedo

rosso qui e ora”), vuoi da enunciati il cui significato è non-contestuale e non-soggettivo

perché si riferiscono a oggetti fisici (“Mario Rossi vede un oggetto rosso alle 4.30 del 22.2.04

nel laboratorio C”.). Quest’ultima tesi sulla natura dei protocolli sperimentali era chiamata

con il nome di fisicalismo perché faceva riferimento a oggetti fisici e non a sensazioni

soggettive o “private”, e più tardi porterà gli eredi nel neopositivismo logico a interrogarsi

sulla riducibilità di tutte le scienze al linguaggio della fisica.

Come ultimo motivo possiamo ricordare con Michael Friedman (1998) che i neoempiristi

volevano riformare la filosofia dal profondo sia per intima convinzione sia per avere più

spazio nel mondo accademico, che in Germania era ancora dominato da Heidegger e dai

seguaci storicisti di Hegel. Il richiamo dei neopositivisti a Hume e (con toni più polemici) a

Kant, intendeva anche essere un richiamo alla responsabilità di ciò che si dice. Scrivere in

modo oscuro ed oracolare può infatti conferire il non meritato vantaggio di mettere il filosofo

in condizione di non poter essere confutato o almeno discusso criticamente. Si confrontino i

primi due brani con il terzo nelle citazioni seguenti.

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni “Il niente è la condizione che fa possibile la rivelazione dell’essente come tale per l’essere

esistenziale dell’uomo. Il niente non dà soltanto il concetto opposto a quello di essente, ma

appartiene originariamente all’essenza dell’essere stesso. Il nientificare del niente avviene

nell’essere dell’essente” Heidegger, Che cos‘è la metafisica?, p.24

“L’individuo senziente è idealità semplice, soggettività del sentire. Si tratta ora, che egli

ponga la sua sostanzialità, l’adempimento che solo è in sé, facendone soggettività; si prenda

in possesso, e diventi come la potenza dominatrice di sé stesso per sé. L’anima, come

senziente, non è più meramente naturale, ma è individualità interna; questo essere per sé di

lei, che nella totalità meramente sostanziale, è formale, bisogna renderlo indipendente e

libero» Hegel, Enciclopedia, II vol. p. 395,

“Sembra una proposizione che non darà luogo a molta controversia, quella che dichiara che

tutte le nostre idee non sono che copie delle nostre impressioni, o, in altre parole, che è

impossibile che noi pensiamo qualche cosa che non abbiamo precedentemente sentita, sia per

mezzo dei sensi esterni che di quelli interni”

D. Hume, Ricerche sull’intelletto umano, p. 82

Applicando il criterio di significanza ai primi due brani, la loro non-verificabilità ne

implicherebbe la mancanza di senso: il terzo sembra essere invece sufficientemente chiaro

Tornando al problema che è al centro del capitolo che stiamo presentando, risulta allora

chiaro che il principio di verificabilità, o il criterio di significanza di un enunciato, ci offre

anche la chiave di accesso alla radicale concezione delle teorie scientifiche tipica del

neopositivismo: una teoria scientifica è un insieme di enunciati verificabili, e si distingue

pertanto da teorie non scientifiche come asserti dotati di senso si distinguono da asserti del

tutto insensati.

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

Un insieme di enunciati che costituiscono una teoria scientifica però è chiaramente dotato

di una certa struttura, e non è costituito da un insieme di osservazioni più o meno

causalmente legate l’una all’altra: in particolare, la struttura in questione è deduttiva e una

teoria fisica da questo punto di vista assomiglia a un sistema assiomatico, in cui,

intuitivamente, le leggi o le ipotesi più teoriche sono gli assiomi, e le conseguenze che da

esse si possono dedurre (insieme alle condizioni iniziali) sono le osservazioni (i teoremi).

Anche a causa della grande influenza che ebbe il formalismo hilbertiano nella filosofia della

matematica e nella logica dei primi decenni del secolo scorso, per il neopositivismo logico il

metodo scientifico si basa quindi sul sistema ipotetico-deduttivo. Una teoria è confermata o

verificata quando dalle sue ipotesi si possono derivare, applicando regole di inferenza

matematica che preservano la verità delle ipotesi stesse, dei risultati osservativi, che vengono

poi effettivamente riscontrati in sede sperimentale. Se tali deduzioni conducono a

osservazioni che gli esperimenti smentiscono, per modus tollens la teoria ha almeno qualche

ipotesi falsa (se dalla congiunzione di A & B & C si deriva D, e D è sperimentalmente

falsificata, almeno una delle tre ipotesi di partenza va abbandonata). Tipicamente il

neopositivismo logico si disinteressa di come lo scienziato arrivi a postulare le ipotesi

teoriche, considerando questo non un problema di logica della scoperta ma di psicologia o

sociologia dell’invenzione; ciò che conta è la giustificazione rigorosa dell’ipotesi stessa, che

avviene a partire dalle sue conseguenze osservative.

Un’altra tesi caratteristica della concezione neopositivista delle teorie scientifiche è data

dalla divisione del vocabolario di una teoria scientifica in due grandi categorie: gli enunciati

teorici e gli enunciati osservativi. Mentre questi ultimi fanno riferimento a oggetti e proprietà

direttamente osservabili, i secondi si riferiscono alle cosiddette “entità teoriche” (non

direttamente osservabili, dove direttamente significa “ a occhio nudo). La sensatezza degli

asserti teorici è assicurata dal fatto che, grazie a enunciati di riduzione ottenuti tramite gli

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni strumenti della logica, essi si riducono agli (ovvero si traducono negli) asserti osservativi, che

corrispondono agli enunciati di base di cui sopra, contenenti solo dati sensoriali di osservatori

posti in condizioni normali o proprietà di oggetti fisici osservabili a occhio nudo. Questa

concezione che riduce i concetti teorici a osservazioni è assai vicina all’operazionismo di

Bridgman, che sostiene che il significato di qualunque concetto teorico vada identificato con

le operazioni necessarie a misurarlo.

2.2 Alcune difficoltà del criterio di verificazione e dell’osservabilità diretta

Dopo aver elencato alcune delle ragioni che condussero alla formulazione di una così

radicale posizione filosofica, cominciamo ora a vederne le difficoltà. Il primo problema da

chiarire è che cosa significhi “verificabile”: in prima approssimazione, possiamo ritenere il

termine come sinonimo di “percepibile”: poiché nella specie homo sapiens sapiens la

maggior parte delle informazioni sul mondo esterno passa per gli occhi, il termine

“verificare” si associa spesso all’osservazione vera e propria e dunque “verificabile” significa

“osservabile”.

Superata rapidamente questa prima difficoltà, passiamo subito all’aspetto modale

dell’enunciato di cui sopra (C), indicato dal suffisso “bile” attaccato alla parola “verifica”,

che rende ambiguo il criterio stesso. Per esempio, viene da domandarci: verificabile di fatto o

in linea di principio? Oppure, verificabile/osservabile a occhio nudo o con l’aiuto di

strumenti? E inoltre, è davvero fondata la distinzione cui spesso i neopositivisti si richiamano

tra ciò che i nostri occhi osservano senza l’aiuto di strumenti e ciò che vediamo con l’aiuto di

microscopi e telescopi?

Prima di chiarire questi punti, cerchiamo di capire perché le espressioni modali sono state

introdotte: restringere l’ambito della sensatezza di un enunciato a quello della sua

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni verificazione o osservazione di fatto (ovvero, a ciò che è già stato verificato o osservato)

avrebbe implicato una concezione troppo limitata della significanza di un asserto. Per

esempio, proposizioni vertenti sulla presenza di crateri sull’altra faccia della luna (dark side

of the moon) sarebbero state prive di senso fino a una verificazione diretta con una nave

spaziale, e ciò a causa del fatto ben noto che nel suo moto di rivoluzione attorno alla terra, la

luna ci porge sempre la stessa faccia. Quel “verificabile” va allora inteso in prima

approssimazione, e in modo più liberale, come “ciò che è possibile osservare direttamente in

un’epoca t da un essere umano utilizzando la tecnologia disponibile a t”. (C) allora diventa:

(C’) Per ogni enunciato x, x è dotato di senso se e solo se è osservabile direttamente da

un essere umano in una certa epoca t con la tecnologia allora disponibile.

Ma questa nuova versione del criterio di verificabilità, che è più precisa perché specifica

esattamente che cosa significhi verificabile o “osservabile”, introduce una dipendenza della

sensatezza di un enunciato dal mutevole livello di tecnologia disponibile in un certo periodo

storico. Al tempo di Galileo e Newton, un qualunque asserto vertente sulla faccia nascosta

della luna non sarebbe stato verificabile e dunque sensato, mentre al nostro tempo esso è

verificabile e diventa dunque dotato di senso. Ma noi riusciamo a capire benissimo che cosa

significa “esistono crateri sulla faccia nascosta della luna”, indipendentemente dall’esistenza

di satelliti lunari che li possano fotografare o di navi spaziali che atterrino con uomini a bordo

sulla faccia nascosta della luna. Quindi l’enunciato in questione è dotato di senso in modo del

tutto indipendente dal livello tecnologico di cui disponiamo. Ne segue che o rafforziamo il

senso di “è osservabile” nel criterio (C), o abbandoniamo il criterio di significanza

neopositivista al suo destino.

Seguendo la prima alternativa, possiamo sostituire la possibilità (e quindi la modalità)

tecnologica con la possibilità fisica, che è più forte, dato che se x è impossibile sulla base di

leggi di natura allora è impossibile anche tecnologicamente, mentre il viceversa non vale:

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni (C’’) Per ogni enunciato x, x è dotato di senso se e solo se è osservabile direttamente da un

osservatore umano, dove “osservabile” significa “che può essere osservato senza

violare le leggi della natura”.

Per esempio, un enunciato che ci impegni sull’esistenza di stelle analoghe al nostro sole

su Andromeda è dotato di senso perché è fisicamente possibile da parte di essere umani

osservarle (se qualcuno fosse lì le potrebbe osservare) anche se dovesse risultare

tecnologicamente impossibile in linea di principio inviare una sonda con esseri umani a bordo

a distanze dell’ordine di 2.106.3.105.60.60.24.365 km.

Anche in (C)’’ si presentano però evidenti difficoltà, date dal fatto che in esso si fa

implicito riferimento a leggi note, ciò che rende il criterio stesso dipendente da ciò che ora

sappiamo. Un asserto che oggi è insensato, perché incompatibile con le leggi oggi note,

potrebbe diventare dotato di senso domani, se l’insieme di leggi naturali note in futuro

dovesse cambiare. Ma anche indipendentemente da tale difficoltà, che potrebbe essere

superabile, esistono osservazioni dirette che appaiono fisicamente impossibili anche in

contesti scientifici futuri: un enunciato che attribuisce certe proprietà a un elettrone o a un

atomo non sembra osservabile direttamente da un essere umano né ora né mai. Il fatto che un

osservatore possa restringersi fino a occupare le dimensioni di un elettrone o di un atomo

appare incompatibile con la possibilità di mantenersi in vita e quindi con le leggi della

biologia terrestre.

Per risolvere le difficoltà generate dall’interpretazione dell’aggettivo

verificabile/osservabile abbiamo tre strade.

Una prima via d’uscita per continuare a sostenere che gli enunciati che fanno riferimento

a entità troppo piccole per essere osservabili direttamente in linea di principio sono

comunque dotati di senso, è sostenere che tali enunciati sono tutti traducibili, senza perdita di

significato, in altri asserti che si riferiscano solo a entità osservabili direttamente. Questo

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni genera il famoso problema dello status delle cosiddette entità teoriche (atomi, particelle

subatomiche, molecole, virus, batteri, ecc., non direttamente osservabili): esistono le entità

teoriche, o sono solo utili finzioni del pensiero che ci permettono di fare predizioni efficaci?

È plausibile che tra gli dei di Omeri e gli elettroni, entrambi non osservabili direttamente, non

ci sia alcuna differenza, se non di grado, come sostiene Quine? Come vedremo meglio

successivamente, questa prima strada presenta molti inconvenienti, dovuti al fatto che il

significato di un termine teorico non può esaurirsi nelle procedure sperimentali che

utilizziamo oggi per introdurlo, perché ciò impedirebbe di riferire quello stesso termine ad

altre procedure o osservazioni realizzabili in futuro.

La seconda strada consiste nell’abbandonare l’ossessione neopositivistica per l’osservazione

diretta, o a “occhio nudo”. Per dare più precisione e sostanza al criterio di verificabilità

diretta, si deve precisare che l’osservazione diretta di cui parlano i neopositivisti, necessaria

alla verifica diretta, è un’osservazione priva di strumenti che estendono i sensi dell’uomo,

specialmente la vista. Ma come vedremo meglio più oltre, questa ossessione rende

immediatamente molto controversa sia la nozione di osservabilità diretta sia, mediatamente,

quella di verificabilità diretta, su cui quest’ultima è basata. Perché vedere attraverso le lenti di

un paio di occhiali vale presumibilmente come un osservare direttamente ciò che sta dietro di

essi ed invece guardare attraverso un microscopio o un telescopio non conta come osservare

direttamente? (Van Fraassen 1980, Hacking 1983). E se guardare dietro il vetro di una

finestra è osservare in modo meno diretto quel che c’è fuori rispetto a quando la apriamo, ne

dobbiamo concludere che la distinzione tra osservare direttamente e indirettamente è una

distinzione vaga, sfumata e priva di confini netti, ciò che suggerisce che non si può utilizzarla

per separare le entità esistenti (osservabili direttamente) da quelle su cui dobbiamo

sospendere il giudizio (osservabili indirettamente).

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

A ben riflettere, si può criticare e mettere in crisi la distinzione teorico/osservativo in due

modi diversi:

(1) Il primo consiste nel sostenere che anche le osservazioni apparentemente prive di teoria,

quelle che compaiono negli asserti base, in realtà sono cariche di teoria, ovvero di aspettative

e di pre-comprensioni, (Popper, Hanson, Feyerabend). Vedremo questa soluzione

presentando la posizione di Kuhn

(2) Oppure si può sostenere, come abbiamo fatto nel paragrafo precedente, che gli enti

apparentemente teorici in realtà sono osservabili indirettamente, per cui tutti gli enti di cui

parla la fisica sono osservabili, direttamente o indirettamente non fa differenza

Ai nostri scopi importa sottolineare che in entrambi i casi la distinzione tra teorico ed

osservativo deve essere abbandonata, ciò che implica l’abbandono di un punto cardine della

concezione neopositivista delle teorie e quindi l’abbandono del neopositivismo tout court!

Tutte queste difficoltà suggerirono l’abbandono del criterio stretto di verificabilità diretta,

la terza alternativa posta sopra, fatto questo che può essere salutato come una forma di

progresso filosofico vero e proprio. Non è dunque vero che la filosofia, al contrario delle

scienze, non faccia progressi: oggigiorno, nessuno difende più la concezione neopositivistica

del significato di un enunciato

2.3 Popper killer del neopositivismo?

Si capisce allora perché Karl Popper, a partire già dalla pubblicazione parziale della sua

prima opera, La logica della scoperta scientifica, che apparve in versione originale tedesca

nel 1935, abbia provato a sostituire da subito il criterio di verificabilità diretta con quella di

falsificabilità. Con una vena di scetticismo, Popper fa infatti notare come in una teoria che

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

abbia un dominio di riferimento infinito non è mai possibile verificare in modo completo tutte

le previsioni della teoria. Come verificare infatti la legge di Newton prima della nascita

dell’uomo sulla Terra o dopo che l’ultimo uomo sarà estinto, o in luoghi troppi distanti per

essere raggiunti con una nave spaziale pur velocissima? L’asimmetria tra verificazione e

falsificazione ci viene allora in soccorso, rammentandoci che mentre una sola falsificazione

di un asserto universale che esprime una legge, quale “tutti gli x sono y”, basta a confutarla,

cioè a renderla falsa, una ulteriore verifica di quell’enunciato, in caso di un numero infinito di

x, non rafforza la nostra fiducia cognitiva in esso, né il nostro grado di credenza in esso inteso

come sua probabilità soggettiva. Le osservazioni sono infatti in numero sempre

necessariamente finito e un numero finito di osservazioni a cui ne aggiungiamo una nuova è

pur sempre un numero finito, mentre per ipotesi il dominio della legge è infinito.6

Si noti che un’importante conseguenza di questa teoria è una certa dose di scetticismo

sulla verità delle teorie scientifiche: una teoria T è scientifica se, pur falsificabile, non è

ancora stata falsificata, dato che una teoria già falsificata è chiaramente falsa. C’è qui

implicita un’altra asimmetria degna di nota: mentre possiamo venire a sapere solo se una

teoria scientifica è falsa, non potremo mai venire a sapere se è vera, dato che non potremo

mai essere sicuri di non riuscire in un giorno lontano a falsificarla. Ovvero, se pure abbiamo

già a disposizione teorie scientifiche vere, non potremo mai saperlo, perché non potremo

provarlo in modo definitivo. Anticipando una terminologia sulla quale ritorneremo in seguito,

possiamo quindi concludere affermando che Popper è un antirealista sulle teorie, dato che

queste ultime possono essere al massimo verosimili (truthlike) ma mai definitivamente vere o

vere senza aggettivi.

6 Non è chiaro perché Popper assuma che il numero degli oggetti nell’universo fisico sia infinito. Forse presuppone che l’universo non venga ad esistere nel tempo ma sia sempre esistito.

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

Un importante punto a favore della falsificazione vista come criterio di demarcazione tra

teorie scientifiche e teorie metafisiche o religiose è costituito dall’antidogmatismo che la

accompagna. Essere razionali per Popper significare proprio sottomettere a critica tutte le

nostre credenze e le nostre teorie apparentemente più solide e sacrosante, provando a

confutarle, ovvero sottoponendole ai test empirici più severi che possiamo immaginare. È

solo se falliamo nell’impresa di confutarle che le possiamo considerare, temporaneamente,

come “buone teorie”. Il dogmatismo consiste invece nel cercare solo conferme e mai smentite

ai propri pregiudizi e alle proprie credenze, dato che per Popper è metodologicamente e

psicologicamente provato che se cerchiamo conferme alle nostre teorie, le possiamo sempre

trovare. Persino un campo scientificamente così squalificato come l’astrologia può trovare

conferme a vuote e vaghe predizioni del tipo “oggi (questo mese o quest’anno) succederà

qualcosa di molto spiacevole”, dato che la probabilità che un evento qualsiasi di questo tipo si

verifichi è sempre alta, e d’altra parte, se l’evento non si verifica, possiamo sempre dire che

lo abbiamo evitato grazie alla previsione astrologica, ciò che rende quest’ultima immune da

possibili falsificazioni e dunque da possibili critiche.

L’esperienza autobiografica di Popper sembra averlo portato a riflettere sull’importanza

di affidarsi alla falsificazione e non alla verificazione per procedere razionalmente nella

scienza e nella vita quotidiana: il marxismo e la psicanalisi, che erano così influenti nella

Vienna della sua giovinezza, offrivano predizioni che non proibivano alcuno stato di cose, e

in quanto tali erano non erano falsificabili, essendo compatibili con tutto ciò che poteva

accadere. Un giovane che posto di fronte a un possibile tuffo nell’acqua di un fiume si butta

per superare il suo complesso di inferiorità (sulla base della teoria di A. Adler) o non si butta

a causa dello stesso complesso ha un comportamento che in ogni possibile evenienza (sia che

si butti sia che non si butti) può essere spiegato dalla causa in questione (il complesso di

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni inferiorità). Quest’ultima allora, potendo spiegare tutto, in realtà è una predizione vuota, e

non spiega nulla.

Un altro importante “vantaggio” offerto dalla concezione popperiana rispetto a quella

neopositivistica è quello di poter recuperare la sensatezza della metafisica e della religione.

Sembra infatti assurdo negare che almeno alcune teorie metafisiche – pur non verificabili nei

momenti in cui furono avanzate (si pensi all’atomismo, che sosteneva l’esistenza di atomi

considerati come gli elementi più piccoli che compongono tutto ciò che esiste) – fossero

dotate di senso, al punto che stimolarono innegabilmente il sorgere e lo svilupparsi della

fisica e della chimica moderne (la cosiddetta metafisica influente sulla scienza). Quindi tutta

la storia della metafisica o della filosofia è un deposito di teorie sensate non falsificabili, che

possono quindi fornire lo spunto per suggerire nuove ipotesi scientifiche.

In definitiva quindi, per Popper la differenza tra una teoria scientifica e una teoria

metafisica – e dunque il relativo criterio di demarcazione – sono dati proprio dalla

falsificabilità: una teoria è scientifica se falsificabile e una teoria metafisica è dotata di senso

anche se si distingue da una teoria scientifica perché non falsificabile.

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

Capitolo 3

La liberalizzazione del criterio di significanza e il passaggio da una concezione sintattica a una semantica di una teoria scientifica

Il processo di liberalizzazione del criterio di significanza di un enunciato, già iniziato da

Popper e portato avanti da Carnap (1936) ed Hempel (1950), condusse a due importanti

conseguenze tra loro collegate, ovvero (1) al riconoscimento di un ruolo insostituibile degli

enunciati teorici all’interno di una teoria scientifica e (2) all’abbandono di un netto criterio di

demarcazione tra scienza e filosofia. Esaminiamo questi due punti in successione, dando

maggior risalto al primo, che fu risolto allorché si comprese che se i termini teorici hanno

davvero una funzione nelle teorie, allora essi non possono essere definiti esplicitamente in

funzione dei termini osservativi.

La divisione di una teoria scientifica in due vocabolari separati, uno teorico e uno

osservativo, creava naturalmente il problema del loro rapporto, che i primi neoempiristi

costruirono in funzione della traducibilità completa del primo nel secondo. Il motivo per il

quale i neoempiristi privilegiavano il linguaggio osservativo dovrebbe essere abbastanza

chiaro: i termini osservativi non hanno solo il compito di assegnare un significato ai termini

teorici (elettrone, protone, atomo, ecc. assumono significato a partire dai termini che

intervengono negli esperimenti che li coinvolgono), ma anche quello di fornire ragioni per

credere alle teorie stesse in cui i termini teorici compaiono. L’influsso di autori antimetafisici

come Mach, assai importante sui filosofi neoempiristi del circolo di Vienna, aveva lasciato

una traccia profonda.7

Già Carnap in un importante saggio del 1936 aveva rinunciato, anche per l’influenza di

Popper, alla verificazione definitiva di tutti gli enunciati di una teoria scientifica, ovvero a

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

trattare tutti i suoi enunciati come scientifici se veri-ficabili. Popper li considerava scientifici

se falsi-ficabili, mentre Carnap si concentrò sulla nozione più realistica di confermabilità.

Una teoria è scientifica se è nel suo complesso confermabile, nel senso che i suoi asserti

teorici indicano come possono essere confermati da osservazioni ed esperimenti. Mentre il

trattamento della funzione di conferma di un enunciato teorico da parte di un enunciato

osservativo nel 1936 era solo qualitativa, qualche anno più tardi Carnap provò a studiare il

problema della conferma da un punto di vista quantitativo servendosi del calcolo della

probabilità e di logiche induttiva (Carnap 1950).

L’abbandono di una concezione eliminazionistica dei termini teorici, in base alla quale i

termini teorici sono esplicitamente definibili in funzione dei termini osservativi, si deve però

essenzialmente ad un altro neoempirista della prima ora, Karl Hempel, recentemente

scomparso. Il dilemma dello scienziato teorico, sollevato da Hempel nel 1958, poneva il

problema della funzione dei termini teorici in modo chiaro: o i termini teorici servono al loro

scopo, e allora sono superflui (dato che sono traducibili senza perdita di significato in asserti

contenenti solo termini osservativi), o non servono al loro scopo, e allora sono certamente

superflui. Ma dato che i termini teorici o servono al loro scopo o non servono al loro scopo,

essi sono in ogni caso superflui. (cfr. Hempel 1958).

Rigettando il primo corno del dilemma, Hempel mostrava che se i termini teorici

debbono spiegare le nostre osservazioni e prevedere nuove esperienze (è questo in realtà il

loro ruolo), non possono essere collegati ai termini osservabili tramite definizioni esplicite.

“Definire” infatti significare “eliminare” o “fare a meno”, e il carattere aperto delle teorie

scientifiche, che le rende suscettibili di estensioni e arricchimenti a fenomeni non ancora

noti, ci impone di considerare i termini teorici non come pure espressioni abbreviate dei

termini osservativi, ma come collegabili in modo solo parziale ai termini osservativi.

7 Si veda Barone (1953-19863) e Weinberg (1950). Aggiornate al 10/03/2004 29

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

Tale cambiamento di punto di vista sui termini teorici fu filosoficamente molto

importante, perché preludeva e preparava il terreno ad un’interpretazione anti-

strumentalistica della scienza: l’indispensabilità dei termini teorici costituisce un primo

argomento in favore dell’esistenza delle entità non osservabili da essi denotati e quindi del

realismo scientifico, che si definisce, in parte, come una credenza nell’esistenza di entità non

osservabili. Una teoria scientifica viene allora paragonata da Hempel ad una rete fluttuante

costituita da vari nodi, corrispondenti ai termini teorici. La rete è sollevata dal terreno dei

fatti, ma è pur sempre ad esso collegata attraverso dei fili, le cosiddette regole di

corrispondenza tra termini teorici e termini osservativi, che però esplicitano in modo solo

parziale il significato dei primi.

Per quanto riguarda invece il secondo punto, l’indebolirsi della divisione tra scienza e

metafisica nella seconda metà del Novecento poteva costituire la giustificazione anche per un

avvicinamento tra filosofi della scienza e scienziati. La continuità tra la riflessione scientifica,

con le sue assunzioni metafisiche di tipo realistico, e quella filosofica, con le sue aperture ad

una conoscenza di prima mano delle nuove teorie scientifiche, condusse a ricerche sui

fondamenti delle singole scienze e persino di branche interne a scienze particolari, ricerche

che divennero feconde sia per le scienze che per la filosofia. In qualche senso, si ricostituì la

vecchia tradizione della filosofia naturale del Seicento, in cui la filosofia e le scienze naturali

formavano un’unità organica e indissolubile.

3.1 Dalla sintassi alla semantica

Malgrado la liberalizzazione del criterio del significato si sia definitivamente realizzata

negli anni a cavallo della metà del Novecento, l’idea che una teoria scientifica fosse un

insieme di enunciati strutturati in modo deduttivo non lasciò facilmente il campo a concezioni

Aggiornate al 10/03/2004 30

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni alternative. Almeno da questo punto di vista, il primato della filosofia come analisi logica del

linguaggio della scienza era destinato a rimanere ancora intatto.

In particolare, il metodo che i primi neopositivisti avevano visto come primario per

comprendere la natura di una teoria scientifico era fornito dalla sua assiomatizzazione. Per i

neopositivisti, una teoria scientifica era dunque vista come “un calcolo formale non

interpretato”, in cui il vocabolario non logico era fornito dai termini teorici e da quelli

osservativi, e l’ossatura era fornita dalla logica dei predicati del primo ordine.8 Il termine

“calcolo” allude alla struttura algoritmico-deduttiva del linguaggio in cui la teoria è scritta e il

termine “non interpretato” segnala che la teoria era vista in modo puramente sintattico,

ovvero come un insieme di segni non interpretato.

Qual è lo scopo di una assiomatizzazione? La grande influenza che la nuova logica

matematica di Russell, Whitehead e il formalismo di Hilbert ebbe sul primo neopositivismo

condusse questo movimento a sottolineare l’importanza di provare a determinare, per ogni

teoria scientifica, l’insieme di proposizioni di base da cui tutte le altre potevano essere

dedotte. Tra le altre cose, l’utilità di assiomatizzare un corpus di conoscenze è infatti

essenzialmente questa: oltre a rendere formale e quindi non interpretato il linguaggio, e a

poter così controllare in modo più preciso le derivazioni e le inferenze che si compiono nella

teoria, si compie l’operazione fondamentale di enucleare i termini fondamentali del

linguaggio in cui la teoria è formulata, e le proposizioni “base” dalle quali tutte le altre

derivano grazie all’applicazione di regole deduttive (di trasformazione dei simboli) che

preservano la verità. Preservare la verità in una deduzione significa che se sono veri gli

assiomi sono necessariamente vere anche le conclusioni correttamente dedotte da essi. Nella

pagine che segue, sono riportati quattro dei cinque assiomi della geometria euclidea, i quali

insieme alle definizioni, ci permettono di costruire l’intero castello della geometria studiata a

Aggiornate al 10/03/2004 31

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

scuola. Si ricorderà che la negazione del quinto assioma, quello delle parallele, condusse allo

studio di geometrie non euclidee, poi sviluppate rigorosamente nell’Ottocento.

8 Una logica è del primo ordine se quantifica solo su individui e non sulle loro proprietà.

Aggiornate al 10/03/2004 32

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

I primi quattro assiomi della geometria euclidea:

1) Per due punti passa una retta ed una sola.

2) Per tre punti passa un piano ed uno solo.

3) Tutti gli angoli retti sono uguali.

4) Fissato un punto ed un segmento, esiste una circonferenza con centro il punto e

raggio il segmento

6 Definizioni: (Punto: un termine indefinito)

Retta: un insieme di punti, caratterizzato dall'assioma 1).

Piano: un insieme di punti, caratterizzato dall'assioma 2).

Segmento: tutti i punti di una retta compresi fra due punti su di essa.

Semiretta: una delle due parti in cui una retta è divisa da un punto su di essa.

Angolo: una delle due parti di piano comprese fra due semirette uscenti dallo stesso

punto (vertice).

Angolo piatto: l'angolo formato da due semirette appartenenti alla stessa retta

3 + 4

a + b

Somma aritmetica Unione insiemistica

A U B a * b

P v Q

Disgiunzione proposizionale

Aggiornate al 10/03/2004 33

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni FIG. 3

Nella parte inferiore della pagina precedente, viene illustrato un altro importante

vantaggio di una presentazione puramente sintattica di una teoria. Poiché in un calcolo non

interpretato i segni del linguaggio sono privi di interpretazioni preassegnate, è possibile

svincolare e liberare i segni dalla loro interpretazione usuale, interpretandoli con più di un

insieme di significati. Guidati da alcune analogie formali, possiamo perciò far corrispondere

allo stesso insieme di segni modelli diversi. Che cos’è un modello?

Un modello in senso logico è qualunque struttura astratta che renda vero un insieme di

assiomi, facendo corrispondere a ogni costante e a ogni variabile del linguaggio un individuo

nell’insieme O di oggetti che costituisce il dominio della teoria, e ad ogni predicato e

relazione del linguaggio opportuni sottoinsiemi di O: per esempio i predicati del linguaggio

individueranno il sottoinsieme di O tale che tutti i suoi membri soddisfano la proprietà cui

corrisponde il predicato in questione (“è un gas”), mentre le relazioni binarie individueranno

coppie di elementi, come nel caso illustrato sopra a proposito dell’interpretazione di ‘a * b’.

La sintassi di un linguaggio formale (in analogia con quella dei linguaggi naturale)

regola quindi il modo corretto di associare i segni che costituiscono il vocabolario della

teoria, in base alle cosiddette regole di formazione, e il modo corretto di passare da certi segni

ad altri segni, in base alle regole di trasformazione. La semantica ha invece a che fare con

l’universo di oggetti cui i segni si riferiscono (il mondo), e quindi con la nozione di verità,

resa possibile dall’associazione tra segni e oggetti da essi denotati nel modo brevemente

illustrato sopra.

Forti di queste nozioni, possiamo ora notare che nel corso della storia del Novecento si

è passati da una concezione sintattica delle teorie scientifiche, in cui l’assiomatizzazione

veniva a ricoprire un ruolo fondamentale, ad una concezione semantica, in cui le teorie

vengono identificate con un modello, inteso però, come ora vedremo, non nel senso

Aggiornate al 10/03/2004 34

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni puramente logico del termine. In questo passaggio dalla sintassi alla semantica, il linguaggio

in cui viene presentata una teoria diventa in un certo senso meno importante, dato che il

modello è un oggetto astratto, identificabile cioè con entità non spaziotemporalmente estese,

e in quanto tale può essere descritto da linguaggi diversi: si pensi all’oggetto astratto ‘due’

cui si riferiscono i numerali ‘2’, ‘10’, e ‘II’ nei sistemi numerici decimali, binari e romani

rispettivamente o alla proposizione che “it rains” o “piove” o “es regnet” hanno in comune. Si

afferma talvolta che se una teoria è identificata con un oggetto astratto, il linguaggio usato

per descriverlo diventa meno centrale nella caratterizzazione di una teoria, e che questo fatto

marcherebbe una certa distanza dalle prime formulazione sulla natura delle teorie scientifiche

della prima metà del Novecento, che invece offrivano il centro del palcoscenico filosofico

proprio al linguaggio. Ovviamente, il fatto che il sistema assiomatico di Euclide sia scritto in

greco antico o in italiano moderno non muta il modello che esso identifica, e questo segna

certamente un punto a vantaggio della concezione semantica della teorie.

Si noti però che, contrariamente a quanto sostiene Giere (1988) seguendo van Fraassen

(1980), anche nella concezione assiomatica delle teorie gli assiomi si possono pensare come

le proposizioni astratte che i diversi enunciati nelle diverse lingue naturali esprimono, ciò che

indebolisce la tesi che la differenza tra approccio sintattico e approccio semantico stia solo

nel ruolo che il linguaggio gioca nel primo, a differenza che nel secondo .

Il punto importante, come sopra si accennava, è che quando si parla di concezione

semantica delle teorie scientifiche come una teoria filosofica che identifica una teoria

scientifica con un modello, ci si riferisce a “modello” come a qualche cosa di più e di diverso

da una struttura che rende vero un insieme di assiomi. Quando si parla di una teoria come un

modello ci si intende riferire essenzialmente anche a una rappresentazione idealizzata

schematica e semplificata di un insieme di fenomeni.

Aggiornate al 10/03/2004 35

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

Malgrado questo aspetto verrà chiarito in modo più approfondito nelle lezioni

successive sulle leggi di natura, possiamo già da ora anticipare che la rappresentazione del

mondo sulla quale si basa la fisica è costituita da semplificazioni e da astrazioni di caratteri

presenti nel mondo reale, introdotte proprio dalle proposizioni che esprimono le leggi di

natura. Queste ultime intervengono a definire in modo essenziale che cos’è un modello: per

esempio, la legge della gravitazione universale, insieme alla seconda legge del moto,

identificano un modello newtoniano di un sistema meccanico, e in modo analogo la legge

della molla F = -kx identificano il modello del relativo sistema fisico, caratterizzato da una

funzione di forza proporzionale allo spostamento.

Per comprendere il carattere semplificato delle leggi e dunque dei modelli, basti pensare

alla prima legge del moto: un modello inerziale di un sistema fisico presuppone l’esistenza di

un corpo su cui non agiscano forze, ma ogni corpo nell’universo reale è soggetto almeno alla

forza gravitazionale, dalla quale non può essere schermato. Le sfere di galileiana memoria

che rotolavano su un piano inclinato vengono comunque frenate dalla forza di attrito

proporzionalmente alla velocità, e non obbediscono dunque, se non in modo approssimato,

alla legge di Galileo, che pure identifica il modello meccanico corrispondente. Occorre

dunque levigare la superficie del piano inclinato e quella delle sfere che cadono lungo di esso,

ma un po’ di attrito resta comunque. Analogamente, un pendolo semplice è un modello del

pendolo reale formato da un filo non-estensibile e non soggetto ad attrito, ma i fili reali sono

tutti estensibili e soggetti sia all’attrito che alla resistenza dell’aria. L’astrazione da qualità e

da proprietà causali reali (Galilei parlava di togliere o “defalcare gli impedimenti della

materia”) è indispensabile per applicare la matematica al modello nella formulazione di leggi,

ovvero per eliminare dei fattori di complessità che renderebbero non trattabile il modello.

Naturalmente, successivi modelli possono eventualmente tener conto delle proprietà

inizialmente trascurate, come avviene nel caso delle leggi dei gas perfetti, in cui si passa da

Aggiornate al 10/03/2004 36

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni PV = costante, una legge in cui non si tiene conto delle forze di interazione delle molecole

che compongono il gas, alla legge di van der Walls, [P + a (N/V)2](V – Nb) = kNT , in cui tali

forze vengono prese in considerazione (P è la pressione del gas, V il suo volume, a e b sono

costanti determinabili sperimentalmente, K è la costante di Boltzmann ed N è il numero

complessivo di molecole del gas).

Malgrado questo, i modelli approssimano in modo soddisfacente il comportamento dei

sistemi che descrivono: anche se nel mondo non esistono sistemi perfettamente inerziali, la

Terra nel suo moto traslatorio attorno al Sole approssima un sistema inerziale, ciò che spiega

perché non ci rendiamo conto del moto stesso. In effetti, un sistema fermo, come la Terra

appare, e un sistema che si muova di moto rettilineo uniforme, come approssimativamente fa

la Terra nel suo reale moto orbitale attorno al Sole, sono indistinguibili). Tali idealizzazioni

sono quindi indispensabili per rappresentare e spiegare le proprietà dei fenomeni realmente

esistenti.

Per illustrare la teoria in questione con un altro esempio, quando pensiamo a un

modello meccanico di un gas, supponiamo che le molecole di quest’ultimo siano

microscopiche ed invisibili palline da biliardo dotate di una certa velocità, che si urtano tra

loro e contro la parete del recipiente in modo da generare pressione e costituire la temperatura

del gas a livello macroscopico. Ovviamente, le molecole di un gas reale non sono

perfettamente analoghe a delle piccole palle da biliardo, essendo prive di numeri e di colori.

Altri esempi potremmo fare, ma riteniamo che questi possano bastare.

Ci si può chiedere se “la teoria delle teorie scientifiche” che identifica quest’ultime con

modelli che rappresentano aspetti parziali della realtà fenomenica si applichi a tutte le teorie

scientifiche e non sia invece un’arbitraria estensione a tutte le scienze di ciò che di fatto vale

solo nella fisica. Se così fosse, tale teoria filosofica soffrirebbe dunque dello stesso difetto di

cui è stata spesso accusata la concezione assiomatica delle teorie, che viene rimproverata di

Aggiornate al 10/03/2004 37

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni essere applicabile essenzialmente solo ad alcune teorie altamente matematizzate della fisica

(meccanica classica, meccanica relativistica, teoria quantistica, ecc.) (Suppe 1977). Se non

ogni teoria scientifica è assiomatizzabile in modo che risulti utile e fruttuoso, e

l’assiomatizzabilità è condizione di scientificità di una teoria, difendendo una concezione

assiomatica rischiamo di lasciar fuori dal nostro criterio troppe teorie che vogliamo

comunque considerare come scientifiche, come la teoria dell’evoluzione di Darwin, che non

sembra assiomatizzabile in modo fruttuoso. Non corriamo lo stesso rischio con la concezione

delle teorie scientifiche viste come modelli, che sembrano presupporre comunque la presenza

di una dose massiccia di matematica?

In realtà, la nozione di modello nel senso visto è assai più ampia di quella di sistema

assiomatizzabile, perché essa è definibile ovunque siano reperibili delle leggi o delle

regolarità, esprimibili anche in termini puramente qualitativi. Parliamo per esempio di

modello evolutivo darwiniano o di modello continuista di trasformazione storica senza

presupporre che sia utile assiomatizzare il corpus di conoscenze corrispondenti.

Naturalmente, dato il ruolo oramai insostituibile della matematica in biologia, è possibile

esprimere alcuni aspetti della teoria evoluzionista con il linguaggio matematico della genetica

delle popolazioni, senza che sia con ciò utile assiomatizzare la teoria corrispondente.

Analogamente in geologia, un modello sarà specificabile tanto più esattamente quanto più

precise sono le regolarità e le leggi che lo definiscono. Inoltre, per alcune trasformazioni

geologiche possono essere utilizzati modelli matematici assai specifici.

Aggiornate al 10/03/2004 38

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

Capitolo 4

Come muta una teoria scientifica?

Il passaggio ad una concezione liberalizzata del criterio di significanza non comportò

soltanto l’abbattimento di ogni confine netto tra scienza e metafisica e il riconoscimento di un

ruolo insostituibile dei termini teorici all’interno di una teoria scientifica. Nel clima di rivolta

che si era creato contro la concezione assiomatica di una teoria scientifica, alla fine degli anni

Cinquanta del secolo scorso assistiamo ad una progressiva riscoperta della dimensione

storica e diacronica della scienza, una dimensione che l’attenzione ai puri rapporti logici e

sintattici di una teoria, tipici del primo neopositivismo, non poteva mettere in evidenza. Nel

1958 esce I Modelli della Scoperta Scientifica di N. Hanson (1978), e nel 1962 La struttura

delle rivoluzioni scientifiche di T. Kuhn (1962), preceduta da La Rivoluzione Copernicana ad

opera dello stesso autore (Kuhn 1957). Tutte queste opere pongono la domanda di come si

passi da una teoria fisica a quella successiva, e rispondono utilizzando modelli che esaltano

la discontinuità e in un certo senso l’arbitrarietà della scelta tra teorie rivali.

Il problema principale che esse pongono parte da un assunto che capovolge in un certo

senso l’ipotesi neopositivista sull’esistenza di un linguaggio osservativo che, essendo lo

stesso per teorie diverse, costituiva il terreno di confronto neutro tra ipotesi rivali.

Ricordiamo le due alternative poste nel capitolo 2: se si attacca in modo radicale la

distinzione teorico-osservativo, si può sostenere che tutti gli enti di cui parla la fisica sono

osservabili, anche se in modo più o meno diretto, oppure che sono tutti teorici, perché

qualunque osservazione è theory-laden (carica di teoria).

Quest’ultima è l’opzione degli storici e filosofi di cui ci occuperemo in questo capitolo:

come vedremo è proprio da tale opzione, combinata a una tesi sul significato dei termini di

una teoria e sul loro mutamento, che scaturiscono tesi epistemologiche che si avvicinano al

Aggiornate al 10/03/2004 40

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni relativismo: ogni epoca ha la sua teoria scientifica “prevalente” – paradigma per T. K. Kuhn,

il maggiore rappresentante di questa corrente – e il passaggio da una teoria scientifica a

un’altra viene considerato come non troppo dissimile da un mutamento di stile pittorico nelle

arti figurative, che a volte conduce a opere che tra loro non sono nemmeno comparabili. Il

termine gergale per tale mancanza di comparabilità in filosofia della scienza è

incommensurabilità, anch’esso dovuto a Kuhn.

Se il linguaggio osservativo è, come afferma Hanson (1958), e come già affermava

Popper, “carico di teoria”, e se il significato di un termine osservativo dipende, olisticamente,

dalla teoria in cui è inserito, su quale terreno possiamo confrontare le due teorie? Se le

interpretazioni che le due teorie rivali danno degli stessi esperimenti dipendono da assunzioni

teoriche incompatibili, come utilizzare gli esperimenti stessi per scegliere tra le teorie?

In base alla tesi dell’incommensurabilità tra paradigmi rivali, scienziati che difendono

programmi di ricerca in competizione “ritagliano il mondo dell’esperienza” in modo diverso,

e quindi impongono ai fenomeni una tassonomia diversa, ovvero un diverso sistema di

classificazione. Per esempio, “pianeta” all’interno della teoria tolemaica significa qualcosa di

diverso dal significato che “pianeta” ha nella teoria copernicana. “Pianeta”, in greco, si

riferisce a qualunque oggetto in movimento e comprende dunque il Sole, mentre dopo

Copernico il Sole è considerato fermo e la Terra diventa un pianeta, termine che però dopo

Copernico inizia a essere usato in contrapposizione a stella, o oggetto che brilla di luce

propria.

Questo esempio per Kuhn e Feyerabend mostra due punti importanti. Il primo è che il

significato di un concetto scientifico dipende, in modo contestuale e relazionale, dalla teoria

in cui è inserito: se cambia la teoria cambia il significato del termine. Il secondo punto è che

se cambia la categorizzazione degli oggetti, ovvero il mondo viene “ritagliato in modi

diversi” dai nostri concetti, secondo Kuhn cambia anche la strutturazione del mondo che ci

Aggiornate al 10/03/2004 41

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni circonda, dato che non c’è modo di riferirsi al mondo indipendentemente da una teoria, o da

qualche formulazione linguistica (Kuhn 1962, p.206-7).

Allo stesso modo, dicevano gli idealisti, non possiamo confrontare le nostre percezioni

degli oggetti con come gli oggetti sono in sé, indipendentemente dalle percezioni di qualche

essere senziente: non esiste un punto di vista privo di prospettive. Così, prima di Copernico

c’è un senso in cui gli uomini vivevano in un mondo diverso, come noi dopo Einstein e

Heisenberg viviamo in un mondo diverso da quello newtoniano. Per comprendere meglio

questa teoria, si pensi alla concezione kantiana della conoscenza, resa possibile da un insieme

di categorie che il soggetto trascendentale impone a priori all’esperienza. Per Kant i fenomeni

risultano dal contatto del soggetto con la cosa in sé. Come per Kant, anche per Kuhn il

mondo in sé (la cosa in sé) è inconoscibile, e dunque non se ne può dire nulla (per Kant lo si

poteva pensare). La differenza tra il sistema di categorie kantiano e i paradigmi di Kuhn

consiste nel fatto che mentre il primo è immutabile e applicato a priori ai fenomeni, i

paradigmi si susseguono nel tempo e sono in larga misura a posteriori (Friedman M.,

Dynamics of Reason, CSLI Publication, 2001).

La seguente citazione, tratta da un saggio di Wilfrid Sellars, chiarirà che cosa Kuhn

intenda per “mutamento di paradigma”: esso corrisponde a ciò che Sellars chiama “un

mutamento di categorie” (Sellars W., 1962, p.40): «A primitive man did not believe that the

tree in front of him was a person, in the sense that he thought of it both as a tree and as a

person, as I might think that this brick in front of me is a doorstop. If this were so, then when

he abandoned the idea that trees were persons, his concept of a tree could remain unchanged

although his beliefs about trees would be changed. The truth is, rather, that originally to be a

tree was a way or being a person, as, to use a close analogy, to be a woman is a way of being

a person, or to be a triangle is a way of being a plane figure. That a woman is a person is not

something that one can be said to believe…one cannot be said to believe that a triangle is a

Aggiornate al 10/03/2004 42

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

plane figure. When primitive man ceased to think of what we called trees as persons, the

change was more radical than a change in belief; it was a change in category.»9

Da questo paragone tra “paradigma” e “categoria” nel senso di Sellars, che non è poi così

azzardato, non risulta però ancora chiaro che il paradigma per Kuhn non è soltanto un

insieme di teorie, metodi e valori epistemici condivisi da un gruppo di scienziati impegnati in

un programma di ricerca, ma è anche un esemplare, ovvero un modello per risolvere

problemi nuovi sulla base di tecniche utilizzate con successo per affrontare problemi passati.

Un paradigma inteso come “esemplare” è ciò che apprende a fare un giovane fisico quando

applica a un caso nuovo la seconda legge della dinamica di Newton: risolvere il problema in

questione significa trovare la funzione di forza che risolve il problema modellizzando

opportunamente il sistema fisico in questione (cfr. Giere 1988). Tale fondamentale attività di

problem solving o “soluzioni di rompicapo”, che Kuhn denotò con il nome di scienza

normale, lascia però il posto, durante il cosiddetto periodo di scienza rivoluzionaria, a

un’attività assai più creativa, che consiste nel suggerire teorie del tutto nuove, dato che le

vecchie cominciano a doversi confrontare con troppe “anomalie”, ovvero con contraddizioni

con fatti sperimentali noti o con problemi concettuali che non possono risolversi all’interno

del paradigma stesso.

La storia di ogni disciplina scientifica per Kuhn si può dunque caratterizzare con il

passaggio da una fase pre-paradigmatica, in cui non c’è consenso su come si deve affrontare

un problema all’interno di una disciplina e prevale dunque il conflitto tra metodi diversi di

9 Un uomo primitivo non credeva che l’albero di fronte a lui fosse una persona, nel senso lo vedeva come un albero e come una persona, come io potrei pensare che questa teiera di fronte a me è un chiavistello. Se fosse così, quando abbandonò l’idea che gli alberi fossero persone, il suo concetto di albero sarebbe potuto rimanere inalterato al mutare delle sue credenze su cosa fosse un albero. La verità è che essere un albero era originariamente per lui un modo di essere una persona, o per usare un’analogia forte, essere una donna è un modo di essere una persona, o essere un triangolo è un modo di essere una figura piana. Che una donna sia una persona non è qualcosa che qualcuno potrebbe credere; così come non si può dire che si crede che essere un triangolo è un modo di essere una figura piana. Quando si cessò di vedere un albero come una persona il mutamento era più radicale di un semplice mutamento di credenze, si trattata di un mutamento di categorie.

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni conoscenza, ad una fase paradigmatica o di scienza normale, in cui prevale il consenso su

cosa sia un problema e su come vada risolto. Il progresso conoscitivo – che per Kuhn,

ribadiamolo, esiste soltanto all’interno di un paradigma e non tra paradigmi diversi, proprio a

causa della tesi dell’incommensurabilità tra paradigmi rivali – è compiuto grazie

all’estensione degli esemplari o delle generalizzazioni simboliche che hanno già avuto

successo nello spiegare un certo gruppo di fenomeni, e che definiscono un paradigma

scientifico come la meccanica newtoniana, ad altri fenomeni ancora non spiegati. Quando

questo processo di “soluzione di rompicapo” non può più andare avanti a causa del

proliferare di problemi sperimentali e concettuali (le cosiddette anomalie), ecco il periodo

rivoluzionario (scienza rivoluzionaria), in cui la disciplina in questione sembra tornare alla

conflittualità e al dissenso tipici del periodo pre-paradigmatico. La rivoluzione scientifica che

in genere ha luogo a questo punto implica il passaggio da un paradigma all’altro, un

passaggio che è incommensurabile perché non possiamo tradurre senza perdita di significato i

concetti della teoria successiva in quella precedente. Al trionfo di uno dei due paradigmi

rivali, segue poi di nuovo la fase di scienza normale e il ciclo inizia di nuovo.

È importante ribadire che per Kuhn il mutamento di paradigma non è solo un guadagno,

come tende a sostenere certa storiografia scientifica, ma implica anche perdite. La storia che

troviamo nei manuali è sempre scritta dal punto di vista dei vincitori (cioè delle ultime teorie

che si sono affermate), e vede il mutamento scientifico come un progressivo eliminare gli

errori del passato per raggiungere la verità della teoria attuale.

La tesi dell’incommensurabilità tra paradigmi rivali implica quindi che non ci sia una

tesaurizzazione delle conquiste scientifiche vantate dalla teoria precedente, e che non ci sia

dunque nemmeno progresso verso qualche direzione (la verità), proprio perché manca un

terreno osservativo che sia neutrale tra teorie successive che permetta di operare la

comparazione. Per Kuhn, si può persino dire che per certi aspetti le teorie di Einstein sono più

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni vicine a Aristotele di quanto quelle di Newton siano vicine a quelle di Aristotele o Einstein (a

suo parere, entrambi “geometrizzano” la gravità, nel senso che lo spazio dipende dalla

presenza di corpi (Kuhn 1962, p. 207). Non c’è bisogno di aggiungere che questo punto di

vista appare come una forzatura e come un’applicazione di quella storiografia che cerca

“predecessori” nel passato, che Kuhn stesso ha giustamente criticato. Si può dire che

l’elemento in comune tra Newton e Einstein, l’uso della matematica, avvicini questi due

grandi fisici assai di più di quanto faccia una presunta dipendenza di certe proprietà dello

spazio dai corpi che li accomunerebbe!

In un altro famoso passo della sua opera maggiore, Kuhn, in modo abbastanza poco

motivato, passa da una differenza nel modo di vedere il mondo a una differenza di mondi:«At

the very least, as a result of discovering oxygen, Lavoisier saw nature differently. And in the

absence of some recourse to that hypothetical fixed nature that “he saw differently”, the

principle of economy will urge us to say that after discovering oxygen Lavoisier worked in a

different world» (Kuhn 1962, p. 118). Come si è già visto, si passa da “vide la natura in modo

diverso” a “lavorò in un mondo diverso” a causa della mancanza di una nozione “ipotetica di

natura fissa”.

Probabilmente un’altra ragione che porta acqua al mulino “relativista” di Kuhn è il

fallimento del criterio del progresso nella verosimiglianza di teorie di Popper. Popper cercò di

fornire ragioni per credere che una teoria successiva ingloba tutti i successi di quella

precedente, riuscendo in più a spiegare fatti che quest’ultima non riusciva a prevedere. Si

prendano due teorie false, tali da farci pensare, intuitivamente, che la seconda è tuttavia

conoscitivamente più accurata della prima (Copernico e Newton, per esempio), nel senso che

è “più vicina alla verità”. L’idea che Popper provò a difendere consisteva nel considerare una

teoria T2 falsa ma progressiva rispetto ad una teoria precedente ugualmente falsa T1 – e

dunque “più prossima alla verità” o più verosimile (o truthlike) – se tutte le conseguenze vere

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni di T1 sono anche conseguenze vere di T1, mentre le conseguenze false di T1, che hanno

condotto ad abbandonarla, non sono conseguenze false di T2. In altre parole, ad un aumento

del contenuto di verità di una teoria falsa A non dovrebbe contemporaneamente aumentare il

contenuto di falsità e viceversa, ad una diminuzione del contenuto di falsità non dovrebbe

diminuire contemporaneamente il contenuto di verità.

Purtroppo, se proviamo a togliere una proposizione falsa f da A, toglieremmo anche

l’enunciato vero “se f allora p”, dove p è un enunciato qualsiasi (vero o falso) di A. Per cui

diminuire il contenuto di falsità di una teoria comporta automaticamente diminuire il

contenuto di verità (se questo ultimo è definito come il numero di proposizioni vere della

teoria). Analogamente, se aggiungiamo una proposizione vera t alla teoria T aumentandone il

contenuto di verità, aumentiamo contemporaneamente il suo contenuto di falsità, dato che “se

t allora l” è un enunciato falso se l è un enunciato falso di A. Oltretutto, se il numero di

conseguenze vere o false di una teoria è infinito, è difficile compararle in questo modo,

motivo per cui la definizione di verosimiglianza popperiana proprio non funziona.

Una soluzione più ragionevole al problema di stabilire se esista progresso scientifico

ovvero conoscitivo – non parliamo qui del progresso di natura tecnica, per il quale non

nutriamo dubbi se pensiamo a quanto si sono miniaturizzati e al tempo stesso velocizzati i

computers dagli anni Cinquanta – è quello di guardare al linguaggio matematico con cui le

leggi naturali sono scritte. In quest’ottica, il linguaggio dell’incommensurabilità lascia il

posto a principi di corrispondenza espressi da strutture matematiche sempre più astratte che

esprimono le teorie precedenti come loro casi particolari. L’esempio del passaggio dalle

trasformazioni di Lorenzt, che contengono un fattore (1-v2/c2)-1/2, a quelle di Galileo, che

regolano la trasformazione di coordinate spaziotemporali nella meccanica classica e in quella

relativistica rispettivamente, ci dicono che quando la velocità v di un sistema inerziale è

piccola rispetto a c, la velocità della luce, la radice di cui sopra vale 1, e la meccanica classica

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni è un’ottima approssimazione. L’insistere, come fece Popper, che la storia della scienza è una

storia di continue falsificazioni ci ha fatto dimenticare che nel suo ambito di applicazione (per

v piccole rispetto a c), la meccanica classica funziona benissimo ed è dunque vera, come ben

sanno gli ingegneri che debbono mandare in orbita i satelliti. In realtà, la meccanica classica è

un caso particolare di quella relativistica, e il progresso scientifico può essere considerato

come lo scoprire che leggi prima ritenute universali, ovvero valide per ogni valore dei

parametri fisici che in esse intervengono, valgono invece solo per certi intervalli, come in

effetti accade per le leggi del moto newtoniane rispetto a quelle einsteiniane. È però

opportuno sottolineare che la meccanica classica, nel suo ambito di applicazione, è vera, se

possiamo ritenere le teorie scientifiche vere. Si rivela allora necessario analizzare questo

ulteriore problema di natura epistemologica, dato dal realismo scientifico: in che misura

possiamo parlare di verità delle teorie scientifiche (realismo delle teorie)? In che misura le

entità teoriche prima introdotte presentando la concezione neoempirista delle teorie esistono

indipendentemente dalla nostra teorizzazione e dal nostro ipotizzarle (realismo delle entità)?

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

Capitolo 5

Realismo, strumentalismo e progresso scientifico

Riprendendo per sommi capi la discussione della lezione precedente, distinguiamo due

forme di realismo scientifico, di cui sarà immediatamente necessario valutare i rapporti di

implicazione logica. Il realismo sulle teorie (chiamiamolo RT) afferma che queste ultime

sono vere, e non rientrano solo nella categoria dell’utile come afferma l’antirealista o lo

strumentalista, per il quale le teorie scientifiche sono appunto solo utili strumenti. Il realismo

sulle entità (chiamiamolo RE) afferma invece che le entità teoriche (cioè non osservabili

direttamente) postulate dalle teorie mature esistono indipendentemente da noi, o

analogamente, che i loro termini teorici sono denotanti e non si riferiscono a mere finzioni. In

una parola, non sono inventati ma scoperti.

Affermare che le entità teoriche esistono senza al contempo impegnarsi sulla verità delle

teorie che li postulano può sembrare poco plausibile, ma questa è una posizione che è stata

effettivamente difesa da autorevoli filosofi, da Cartwright (1983), Hacking (1983) e Giere

(1988), ed è nota appunto come “realismo sulle entità” (Entity Realism). In simboli logici, tali

filosofi affermano la compatibilità di RE & –RT, ovvero, affermano che non è necessario (in

simboli “–N”) che RE implichi RT:

(1) –N (RE→RT).

Vedremo in seguito che tale affermazione è assai controversa, dato che difendere il realismo

sulle entità e al contempo negare che gli asserti che descrivono le loro proprietà siano veri o

falsi appare quantomeno discutibile. La posizione opposta, che attribuisce verità alle teorie

senza impegnarsi sulla loro dimensione ontologica non ha invece rappresentanti, e dunque si

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni può sostenere che è concettualmente o logicamente necessario, indichiamo tale operatore

sempre con l’operatore di necessità “N”, che RT implichi RE

(2) N(RT→ RE)

ovvero, in modo equivalente, gli antirealisti sulle entità devono necessariamente essere anche

antirealisti sulle teorie, e quindi si ha

(3) N(–RE→–RT).

La ragione delle due ultime implicazioni, che hanno un valore di necessità concettuali o

logiche, è data dal fatto che l’accettazione della nozione di verità per le teorie implica un

impegno sull’effettiva portata denotativa dei termini teorici, ovvero sull’esistenza delle entità

teoriche corrispondenti. Anche queste implicazioni possono essere messe in discussione, ma

il fatto che nessun filosofo le abbia attaccate ci risparmia in questa sede di entrare in maggiori

dettagli (vedi nota 7)

Due osservazioni terminologiche sono importanti per evitare fraintendimenti. Si noti che

quando utilizziamo espressioni quali “l’esistenza di entità teoriche”, intendiamo dire che se le

entità in questione esistono, esistono nello spazio-tempo indipendentemente da menti e da

esseri dotati di linguaggio quali noi siamo. Non pensiamo quindi a una possibile esistenza

soggettiva quale quella di stati mentali, di sapori, odori, suoni, o di finzioni letterarie, e

nemmeno all’esistenza astratta (non spazio-temporalmente estesa) come può essere quella

che si riferisce alle entità matematiche. La seconda osservazione è quando useremo il termine

“realismo” o “antirealismo” senza ulteriori qualificazioni, ci riferiremo sempre a filosofi che

sono realisti o antirealisti sia sulle teorie che sulle entità.

Discuteremo ora gli argomenti principali che sono stati portati nella letteratura recente a

favore o contro tali due posizioni, partendo dal problema del realismo sulle entità. Questa

scelta appare conveniente: infatti da (2) o (3) segue che se si riuscisse a sostenere che le entità

teoriche non esistono indipendente dalla mente ma sono costruzioni sociali, si affermerebbe

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

implicitamente che le teorie che ne parlano non sono vere se non all’interno di certe pratiche

narrative non differenti da quelle letterarie.10 In questa ipotesi le teorie stesse non avrebbero

infatti alcun referente, e si sarebbe dunque riusciti ad argomentare a favore dell’antirealismo

scientifico tout court.

Cominciamo dunque dagli argomenti principali che sono stati portati a favore

dell’antirealismo sulle entità, per esaminarli poi tutti e confutarli a uno a uno. Questa strategia

retorica consiste nel rafforzare la posizione che si vuol confutare quanto più è possibile, in

modo che la sua successiva confutazione non appaia un esercizio fin troppo facile, come

sarebbe “l’uccidere un uomo già morto”.

Gli argomenti più potenti a favore dell’antirealismo sulle entità vengono dalla cosiddetta

induzione pessimista proposta da Larry Laudan, in base alla quale nel corso della storia della

scienza sono state postulate molte entità considerate esistenti e poi abbandonate. Ne segue

non solo che le credenze nelle teorie che allora le postulavano sono false, ma che dovrebbero

essere false anche le teorie in cui crediamo oggi, dato che ieri e oggi il metodo utilizzato per

stabilire ipotesi è fondamentalmente lo stesso. Dall’etere – il mezzo elastico in cui si credeva

che si propagasse la luce nell’Ottocento, prima dell’avvento della teoria della relatività

speciale di Einstein – al calorico (il fluido che spiegava il passaggio del calore da un corpo

caldo a uno più freddo prima della teoria dell’equivalente meccanico del calore, che lo riduce

ad agitazione molecolare), al flogisto (la sostanza che secondo la chimica prima di Lavoisier

veniva liberata dai corpi durante la combustione) ci viene detto che la storia della scienza è

un cimitero di entità abbandonate. L’ossigeno scoperto successivamente inoltre non può

essere identificato con l’“aria deflogistizzata” di cui parlavano il chimico Priestley prima di

10 Nello stesso modo, potremmo dire che l’affermazione che “Sherlock Holmes è un acuto investigatore” è vera relativamente al contesto della finzione narrativa in cui compare il personaggio in questione. L’idea di una verità relativa a un contesto narrativo forse permetterebbe di discutere (2) e (3), ma si noti che nel contesto narrativo possiamo assumere che Sherlock Holmes esista.

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

Lavoisier (fine Settecento). Tale discontinuità tra i due postulati teorici in questione ci induce

a pensare che non ci possa essere progresso nello scoprire come è fatto il mondo

extrapercettivo, e che le entità teoriche postulate oggi possano essere abbandonate nella

scienza di domani.

Per ribattere a queste concezioni, ci sono vari argomenti, tratti soprattutto dall’esperienza

dei fisici sperimentali che lavorano nei laboratori e da argomenti filosofici tratti dalla natura

della spiegazione causale. Anzitutto, la misurazione di varie proprietà di certi oggetti

microscopici, effettuate con metodi diversi e presupponendo leggi diverse, conferisce

sufficiente evidenza alla nostra credenza nelle entità le cui proprietà sono state misurate.

Salmon (1990) fa l’esempio di 13 modi diversi di calcolare il valore del numero di Avogadro,

che è il numero di molecole di una mole di gas,11 tra cui il modo offerto dal cosiddetto moto

browniano studiato anche da Einstein (moto di particelle sospese in un gas e bombardate da

molecole), l’elettrolisi, la radiazione alfa, la diffrazione dei raggi X e la radiazione del corpo

nero. Questo argomento convinse gli scienziati all’inizio del secolo scorso, e dovrebbe

convincere anche i filosofi di oggi, sull’esistenza indipendente dalla mente delle molecole.

Come è possibile che tutti questi metodi diversi convergano su N senza supporre che le

molecole esistano?

Le osservazioni di Hacking (1983) sul vedere attraverso i microscopi hanno fornito

ulteriori argomenti a favore dell’idea che la nozione di osservazione indiretta costituisce

comunque una forma di osservazione, dato che la distinzione tra osservazione diretta e

indiretta (attraverso strumenti) è una distinzione di grado, come il vedere con e senza le lenti

dei nostri occhiali mostra (Maxwell 1962). Scrive Hacking: «Il microscopista evita la

fantasia. Invece di andare su Giove per mezzo di una navicella fittizia [per osservare

11 La mole è la quantità di materia contenuta da un sistema (un gas per es) che abbia tanti atomi quanti sono contenuti in 12 grammi di carbonio 12.

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

direttamente le sue lune], nella routine quotidiana riduciamo una griglia.12 Poi guardando il

piccolissimo dischetto, vediamo esattamente quelle forme e quelle lettere che erano state

disegnate in grande con penna e inchiostro. È assurdo pensare seriamente che questo

dischetto piccolissimo, che ora sto prendendo con una pinza, non abbia di fatto la struttura di

una griglia contrassegnata. Io so che quello che vedo al microscopio è vero perché noi

abbiamo fatto quella griglia in quel modo. Io so che il processo di manifattura è affidabile,

perché è possibile esaminare i risultati con una dozzina di tipi diversi di microscopi, ognuno

basato su un diverso processo fisico di produzione di immagine. Possiamo forse credere che

questa sia una sorta di gigantesca coincidenza?» (1981, 316-7)

Come si vede, l’argomento che sostiene la realtà delle entità non osservabili misurate con

tecniche sperimentali indipendenti e quello che sostiene l’osservabilità attraverso un

microscopico sono simili. Entrambi confluiscono nella direzione del realismo delle entità, che

da Hacking è stato argomentato con ulteriori argomenti tratti dal suo attacco alla concezione

spettatoriale della conoscenza. Conoscere non è tanto e solo un rappresentare, quanto un

fare, e nei moderni laboratori microentità come gli elettroni vengono quotidianamente

manipolate per caricare negativamente certi bersagli o per studiare le proprietà di altri oggetti

meno noti nell’ambito della fisica delle particelle elementari: che ragioni abbiamo per

dubitare che conosciamo le proprietà causali degli elettroni stessi, e che questi ultimi esistono

proprio come le sedie che manipoliamo ogni giorno? Analogamente, nei moderni acceleratori

possiamo alterare la direzione, la velocità nonché lo spin di fasci di particelle: se tali

particelle non esistessero, fossero solo utili finzioni o riguardo alla loro esistenza dovessimo,

come suggerisce van Frassen (1980), sospendere il giudizio, come potremmo giustificare la

pratica sperimentale e spiegare ciò che riusciamo a trovare dando per scontare le proprietà di

12 Tale griglia viene prima disegnata a penna con lettere grandi su un foglio e successivamente viene ridotta con tecniche fotografiche e sul microfilm si deposita del metallo.

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni tali oggetti? In una parola, (1) misurare almeno alcune proprietà quantitative di X o (2)

manipolare indirettamente X implica che X esista. La seconda condizione naturalmente non si

applica a entità troppo grandi perché possano essere manipolate (stelle o galassie), mentre la

prima comprende sia microentità che entità di dimensione astronomica.

Per quanto riguarda la nozione di verità delle teorie e il realismo sulle teorie, la

discussione è più complicata dall’esistenza di varie concezioni della verità, in particolare

della verità come coerenza (o assenza di contraddizione tra tutti gli enunciati che esprimono

le nostre credenze), o verità come corrispondenza, ciò che prevede una relazione semantica

tra enunciati (truth-bearers o portatori di verità) e fatti non linguistici (truth-makers o

“elementi che rendono vere-i).

Senza entrare nel dettaglio di tali diatribe filosofiche sulla verità, potremmo provare a

sostenere che, contrariamente alla posizione di Hacking, Cartwright e Giere, il realismo sulle

entità implica una certa forma di realismo sulle teorie, per cui queste ultime sono vere se le

entità esistono. In fondo, come possiamo fidarci degli enunciati che attribuiscono certe

proprietà causali agli elettroni, da noi usate per manipolarli, senza al contempo credere che

tali enunciati o le leggi che li generino, siano almeno approssimativamente veri?

Il problema di tale ipotesi sta nell’assumere una riducibilità o addirittura un’equivalenza

tra le leggi teoriche e le leggi più sperimentali o fenomenologiche, su cui si basa la

manipolazione sperimentale. Nella misura in cui le seconde possono essere considerate come

indipendenti e autonome dalle prime, e dunque anche meno soggette a rivoluzioni concettuali

profonde, il realismo sulle entità implicherebbe solo un realismo riguardo alla componente

più eminentemente fenomenologica della teoria e non riguardo alle leggi più teoriche della

disciplina. L’ambito ontologico del termine “fenomenologico” qui non si riferisce “a ciò che

è osservabile a occhio nudo”, visto che un elettrone non lo è, ma ciò che appunto costituisce

l’ambito delle leggi causali che ci permettono di interagire indirettamente con le microentità

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni fisiche, chimiche e biologiche. Si pensi, per esemplificazione, alle leggi che regolano

l’emissione di elettroni quando vogliamo raccoglierli in un fascio come a leggi

fenomenologiche, e alla l’equazione di Schrödinger come a una legge teorica della meccanica

quantistica.

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

Capitolo 6

La verità delle teorie scientifiche e il problema delle leggi

Nell’ipotesi che questa separazione tra leggi teoriche e leggi fenomenologiche sia

plausibile, è necessario esaminare la questione della verità delle teorie scientifiche

separatamente dal problema dell’esistenza delle entità teoriche. Iniziamo a considerare, come

abbiamo fatto sopra per la questione del realismo delle entità, gli argomenti principali a

sostegno dell’antirealismo delle teorie. I realisti si caratterizzano per negare almeno una se

non tutte le quattro asserzioni qui di seguito riportate:

1. il fine della scienza non è la verità, né quello di dare descrizioni vere, ma solo quello di

fornire algoritmi inferenziali che ci permettano di eseguire calcoli a scopi predittivi;

2. la sottodeterminazione delle teorie da parte dei dati e la collegata questione dell’olismo

della conferma, o cosiddetta tesi di Duhem-Quine;

3. una concezione convenzionalista delle leggi di natura (convenzionalismo)

4. un realismo antimodale: in natura non esistono modalità de re (possibilità o necessità).

Possibilità e necessità sono solo finzioni del modello.

Gli argomenti strumentalisti contro il realismo delle teorie

1. Il primo punto presuppone che parte della disputa coinvolga essenzialmente una

questione normativa, che riguarda appunto il fine dell’attività scientifica. Un realista

afferma che il fine della scienza è la verità, un antirealista che la scienza deve solo

“salvare i fenomeni osservabili”. Secondo van Fraassen, uno strumentalista non è tenuto

ad accettare nemmeno la teoria della verità come coerenza delle credenze scientifiche (o

Aggiornate al 10/03/2004 55

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loro non-contraddittorietà) – ciò che sembrerebbe un requisito minimale per ogni

scienziato –13 dato che lo strumentalista non si impegna a credere nelle teorie, ma le

accetta solo come empiricamente adeguate (1980, p. 69).

Si noti però che se la disputa tra realisti e antirealisti fosse davvero basata su un

disaccordo sugli scopi della scienza, tenendo in giusto conto la relatività dei fini in

generale si potrebbe persino bollare la disputa stessa come puramente soggettiva. In tal

caso, potremmo decidere di non interessarcene da un punto di vista filosofico, lasciando

l’intera questione nelle mani di uno storico o di un sociologo della scienza.

In realtà, a riflettere con maggiore attenzione, più che sugli scopi della scienza, la

disputa sollevata da questo primo punto riguarda una questione di rapporto mezzo-fine.

Dando per scontato che (i) le persone preferiscano avere credenze vere, e che (ii) il fine

della conoscenza in generale (senza pensare necessariamente alla scienza) sia comunque

raccogliere verità significative – ovvero interessanti per noi (non siamo interessati a

sapere quanti granelli di sabbia esistono sul litorale tirreno, ma una tale descrizione

farebbe parte di una descrizione vera e completa del mondo)14– il genuino problema

sollevato dal primo punto è quello di stabilire se l’attività scientifica sia in grado di

fornirci verità significative o no.

In breve, la disputa tra realisti e antirealisti non è tanto sugli scopi della scienza, come

afferma van Fraassen (1980), ma sul fatto che quest’ultima sia o meno adeguata a

fornirci i mezzi per raggiungere un fine (la verità) che è di fatto parte della vita della

stragrande maggioranza degli scienziati. Se sottoponessimo a tutti gli scienziati la

domanda in questione, quasi invariabilmente questi ultimi affermerebbero che il fine

13 A volte gli strumentalisti affermano che in funzione dei nostri variabili scopi, si possono usare anche due modelli che fanno assunzioni contraddittorie rispetto ad uno stesso dominio di esperienza (modelli discreti e continui di un fluido, per es.). 14 Tali verità devono inoltre essere compatibili con nostri limiti cognitivi.

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

della loro attività è quello di cercare la risposta vera a interrogativi non ancora risolti: chi

è l’epistemologo o il filosofo della scienza per affermare che gli scienziati si illudono sul

fine ultimo di ciò che fanno, e con quale diritto può dir loro come invece dovrebbero

regolarsi?

Se concediamo questo punto, l’accusa di soggettività viene a cadere, dato che se si è

d’accordo sul fine e su come definirlo, il problema di stabilire l’adeguatezza dei mezzi

per raggiungerlo possiede importanti caratteri di oggettività (intersoggettività). Nel

nostro caso la vera difficoltà non sta tanto nell’accertarci che la verità sia davvero il fine

della conoscenza scientifica, ma nel rifiuto della concezione della verità come

corrispondenza, difesa da molti filosofi strumentalisti. In altre parole, la difficoltà

riguarda il come andrebbe definito il fine dell’attività conoscitiva scientifica e non quale

di fatto esso sia.

E proprio qui si attacca la tipica critica antirealista che abbiamo visto già avanzata da

Kuhn: se l’unico accesso che abbiamo alla natura è tramite una teoria, se la stessa

percezione è carica di teoria e se lo stesso senso comune contiene una teoria sul mondo,

come possiamo confrontare la corrispondenza tra una teoria e un mondo in sé considerato

come privo di qualunque interpretazione teorica? L’antirealista concepisce la verità

sempre come relativa a schemi concettuali, teorie o paradigmi. E poi, se anche avessimo

tra le mani una teoria vera, come potremmo provarlo?

2. Il secondo cavallo di battaglia antirealista ha a che fare con l’idea che in ogni momento

storico esistono più teorie scientifiche (almeno due, ma potenzialmente un numero

infinito) tra loro in contraddizione ma in grado di dar conto degli stessi dati empirici.

Poiché questi ultimi rappresentano il test di ogni ipotesi, l’esistenza di più ipotesi rivali

tutte compatibili con gli stessi dati rende del tutto ingiustificata l’attribuzione a qualcuna

di tali ipotesi la proprietà di esser vera.

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

Nella figura di cui sopra, la linea retta è l’ipotesi algebricamente più semplice per

spiegare come la variabile sulle ordinate (o variabile dipendente) dipenda da quella che

riportiamo sulle ascisse (variabile indipendente), ma le altre due curve algebriche passano

per gli stessi punti, e sono dunque in grado di dar conto della dipendenza funzionale dei

dati, anche se con altre equazioni incompatibili con quella della retta. Come è intuibile

dalla figura, se aumentiamo il numero di dati (cioè di punti), alcune curve diventano

incompatibili con i dati, ma è sempre possibile trovare un numero infinito di curve che

passano per i punti e che dunque soddisfano le condizioni imposte dai dati.

In casi storicamente più realistici e meno artefatti di questo esempio geometrico,

Kuhn ha sostenuto che quando Copernico avanzò la sua ipotesi eliocentrica, l’ipotesi

tolemaica era empiricamente equivalente ad essa. Prendendo sul serio l’equivalenza

empirica delle teorie, ne risulta un problema di scelta tra teorie rivali che spesso, secondo

gli strumentalisti, non ha una base razionale, dato che anche la semplicità (scegli la teoria

più semplice) non è necessariamente una guida alla verità: un cerchio è più semplice di

un’ellisse, ma come scoprì Keplero, le orbite dei pianeti sono descritte da ellissi.

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

Analogamente per altre grandi transizioni tra teorie appartenenti a paradigmi rivali: per

gli antirealisti sulle teorie come Kuhn la scelta tra una teoria e un’altra o è una questione

di conversione di massa o è semplicemente dovuta alla morte biologica della generazione

di scienziati formatasi alla teoria precedente o si spiega con fattori sociologici, politici ed

economici estranei alla scienza stessa. Infatti i valori epistemici di cui parla Kuhn

(semplicità, coerenza, potere esplicativo, potere predittivo, e portata empirica) sono vaghi

e non permettono di valutare le teorie in modo univoco. Dovrebbe invece essere ovvio

che dal punto di vista di uno strumentalista, l’equivalenza empirica di due teorie rivali

non è assolutamente un problema. Se due teorie fanno predizioni equivalenti ma hanno

ontologie distinte, per chi, come uno strumentalista crede solo nella componente

osservabile di un modello, esse sono praticamente la stessa teoria.

La cosiddetta tesi di Duhem-Quine rafforza il punto di vista della sottodeterminazione

delle teorie, sostenendo che se i dati osservativi non possono verificare definitivamente

una teoria, essi non possono nemmeno falsificarla. La falsificazione secca e definitiva di

una teoria da parte di un esperimento infatti presuppone una concezione atomistica del

linguaggio e delle teorie. Il significato di un termine scientifico proviene invece, secondo

Quine e Feyerabend, dal contesto in cui si trova, cosicché quando facciamo un

esperimento, mettiamo in gioco molte parti della nostra conoscenza della natura. In base

all’ipotesi olistica sulla natura del linguaggio delle teorie scientifiche, queste ultime

formano una rete intricata di credenze, e un qualunque esperimento ne chiama in causa

molte se non addirittura tutte.15 Basti pensare che quando facciamo un’osservazione che

utilizza un microscopio, tiriamo in gioco le leggi dell’ottica, le leggi della fisica dei solidi

che regolano la composizione dei materiali che costituiscono il microscopio, assunzioni

sui materiali che costituiscono la lente, ecc.

Aggiornate al 10/03/2004 59

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

Ciò significa che se in presenza di un esperimento falsificante siamo disposti a

modificare certe ipotesi o a aggiungerne alcune ad hoc, possiamo sempre rendere la teoria

compatibile con quei dati che prima la falsificavano. Questa concezione è un attacco

diretto alla metodologia popperiana, che unisce falsificazionismo e metodo ipotetico-

deduttivo (consistente nel fare un’ipotesi, dedurne conseguenze e compararle con i dati).

A questo proposito viene spesso portato l’esempio del pianeta Urano, la cui orbita non

rispondeva alle leggi della meccanica newtoniana e che sembrava pertanto falsificarla

(1848 circa), per mostrare che il falsificazionismo ingenuo non è una fedele descrizione

dell’andamento reale della scienza. Ovvero, le osservazioni spesso non servono

nemmeno a smentire le teorie. In quel caso storico infatti, invece di abbandonare la

meccanica netwoniana dopo la falsificazione dei dati di Urano, si pensò all’ipotesi ad hoc

(o ausiliaria) data dall’esistenza di un altro pianeta, Nettuno. Tale pianeta, ancora non

osservato, avrebbe spiegato le deviazioni osservate dell’orbita di Urano da quelle previste

in base alla teoria. Il fatto storico che Nettuno fu effettivamente osservato implica che

teorie che, come quelle di Newton, hanno avuto un grande successo nel passato non

vanno subito abbandonate se falsificate.

In una parola, la tesi di Duhem-Quine afferma che se siamo disposti a modificare altri

pezzi della rete delle nostre conoscenze, la teoria che sembra apparentemente smentita dai

dati osservativi può alla fine essere resa compatibile con essi. E ciò significa in definitiva

che i dati sottodeterminano sempre le teorie, e che se esiste un numero indefinito di

ipotesi tra loro contraddittorie ma compatibili con gli stessi dati, non abbiamo ragione di

ritenere queste ultime vere.

15 Si veda la chiara presentazione di Klee (1997).

Aggiornate al 10/03/2004 60

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

3 Sulla base del terzo punto, gli strumentalisti insistono che le asserzioni che

specificano le proprietà delle leggi di natura sono o vere solo nel modello, o sono

definizioni mascherate. Si pensi per esempio alla seconda legge della dinamica, F =

ma, che in fondo definisce la forza come qualcosa che altera la velocità provocando

un’accelerazione ad un corpo di massa m. Analogamente, si pensi alla concezione già

esposta delle teorie scientifiche viste come modelli, e che riconosce il carattere

semplificato e idealizzato degli oggetti che tratta. Per esempio, la legge

dell’isocronismo del pendolo, che afferma che il periodo di oscillazione è

proporzionale alla lunghezza del filo e non dipende dalla sua massa, vale solo sotto

particolari condizioni idealizzate. Tra queste, l’assenza di attrito nel moto del pendolo,

il fatto che gli angoli di oscillazione siano piccolissimi, ciò che permette di

considerarlo un sistema unidimensionale che oscilla solo orizzontalmente,16

l’inestensibilità del filo ecc, tutte condizioni che i pendoli reali non esemplificano. Da

questo punto di vista, la legge dell’isocronismo del pendolo semplice definisce il

modello a cui appartiene, ed è dunque vera, a rigore, non dei pendoli reali, ma del

pendolo idealizzato del modello matematico corrispondente.

4 Riguardo ai problemi contenuti nel quarto punto, si consideri che un filosofo che è un

realista modale interpreta alcuni aspetti della causalità (o della probabilità) in modo tale

che la causalità esista in natura come controparte della struttura modale di un modello

(realismo modale). Gli strumentalisti affermano invece che la causalità non esiste

indipendentemente da noi, e che le singole propensità probabilistiche per interpretare la

probabilità di eventi individuali non esistono.

16 I pendoli reali oscillano orizzontalmente e verticalmente, quindi in due dimensioni (vedi Giere 1988, p. 70)

Aggiornate al 10/03/2004 61

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

Poiché argomenti tratti dalla causalità sono fondamentali per difendere il realismo delle

entità (si ricorderà che per i realisti manipolare le entità o misurarne le proprietà implica

che queste esistono)17, attaccare l’indipendenza dalla mente della causalità implica

indirettamente attaccare quegli argomenti.

Tutti gli argomenti antirealisti sulla causalità sono ovviamente uno sviluppo di quelli

humeani: ciò che esiste nei fenomeni è la costante congiunzione di eventi, la loro

contiguità spazi-temporale e la precedenza temporale della causa rispetto all’effetto. Il

legame causale esiste però solo nella nostra mente, che osservando la causa anticipa

l’effetto che ha tante volte osservato essere congiunto alla causa in passato.

Ulteriori argomenti a favore della soggettività del legame causale vengono dal suo

carattere “intenzionale”, ovvero dal fatto che ciò che viene identificato come causa viene

spesso a dipendere dagli interessi delle persone. Dopo un incidente automobilistico dovuto

a fari fattori, come eccesso di velocità, cattive condizioni stradali e freni di fabbrica

difettosi, il guidatore sosterrà che la causa dell’incidente è il manto stradale e i freni, e farà

causa al comune e alla fabbrica automobilistica; quest’ultima affermerà che la causa è

nella velocità eccessiva dell’auto e nel manto stradale, mentre la compagnia assicuratrice

incolperà lo stato dei freni e la velocità eccessiva. Come si vede, ogni attore in gioco

seleziona nel campo causale complessivo il fattore che serve meglio il proprio interesse. E

ora l’antirealista causale chiede: qual è il vero insieme di cause?

La riposta del realista scientifico ai quattro punti

1

Come prova del fatto che le teorie scientifiche ambiscono alla verità, si provi a domandare: è

vero che gli attuali continenti si muovono su enormi placche e che tale movimento causa

17 Manipolare è un verbo di innegabile significato causale, dato che significa provocare certi effetti a certi scopi. Aggiornate al 10/03/2004 62

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni molti terremoti? È vero che lo scimpanzé e l’uomo hanno un progenitore comune che viveva

non più di qualche milione di anni fa? Queste domande hanno un senso chiarissimo, ed

esigono una risposta che prenda posizione netta sulla loro falsità o verità, e quindi sul tipo di

evidenza che è disponibile per decidere quale delle due eventualità si dia. Ciò conferma che

la scienza mira alla verità e non alla verosimiglianza, e il punto è stabilire se ha i mezzi

appropriati per coglierla attraverso parti delle sue teorie.

Come spiegare i terremoti o il fatto che l’Africa e l’America del Sud hanno forme che

presuppongono una frattura precedente senza l’ipotesi che i continenti e gli oceani poggino su

zolle trasportate da correnti convettive tipiche di parti della terra che, essendo più vicine al

suo nucleo, sono parzialmente fuse? E i resti fossili che abbiamo ritrovato come dobbiamo

spiegarli? E gli orologi genetici, che ci permettono di stimare il tempo occorso per mutazioni

da una specie all’altra? È chiaro che uno scettico potrebbe sempre mettere in dubbio il

significato di tutti questi dati, ma come nel caso del problema dell’esistenza del mondo

esterno, è tenuto a darne o un’interpretazione alternativa o al silenzio completo, per cui il

miglior scettico è il pesciolino che sta nei nostri acquari.

Infatti, persino il dubbio sull’esistenza di un mondo esterno o sul fatto che le nostre teorie

siano vere presuppone che esista un mondo esterno indipendente da noi che cerchiamo di

conoscere o rappresentare. Affermare che le nostre percezioni possano sistematicamente

ingannarci sulla natura di X implica comunque che X esista. E asserire che un enunciato tratto

da una teoria scientifica, “X ha la proprietà P”, non è né vero né falso, ci obbliga comunque

alla forza dell’asserzione in questione, ovvero al fatto che sia vero che l’enunciato in

questione non è né vero né falso. In quanto scettici globali e radicali dovremmo tacere, dato

che non appena asseriamo qualcosa, ci impegniamo alla verità di ciò che asseriamo, come

quando, per dire che la verità non esiste, ci dobbiamo almeno impegnare all’esistenza di una

verità, quella che appunto afferma che la verità non esiste.

Aggiornate al 10/03/2004 63

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

Insomma, lo scettico globale sulla scienza è come lo scettico sul senso comune che dubita

di tutto, considerato che il senso comune è la base della conoscenza scientifica. Se persino “il

gatto è sul tappeto non è vero né falso”, perché parlare? Lo scettico locale invece, che dubita

di particolari proposizioni e enunciati, si mette sullo stesso piano dello scienziato, dato che il

dubbio su alcune proposizioni della scienza accettata è uno dei motori del progresso

scientifico e non pone dunque particolari problemi al realista delle teorie.

2

La sfida della sottodeterminazione delle teorie da parte dei dati è stata in parte lanciata

da Quine, che ha sottolineato più di altri filosofi il fatto che la conoscenza umana può

essere caratterizzata come un rapporto sbilanciato tra un flusso di inputs sensoriali

relativamente povero e una straordinaria ricchezza di ipotesi intese a collegarli. Per

cercare di comprendere le difficoltà sollevate da Quine e proporre una soluzione,

dobbiamo presentare il sopra nominato metodo ipotetico-deduttivo con qualche maggiore

dettaglio. In genere si afferma che un’ipotesi I è confermata (o smentita) ad un certo

grado se tra le sue conseguenze deduttive, ottenute grazie a ipotesi aggiuntive iniziali CI,

c’è n’è una osservativa O che è stata verificata (o smentita). Ovvero, considerando la

linea tratteggiata qui sotto come la conclusione dell’argomento deduttivo

I (ipotesi o legge) + CI (condizioni iniziali)

------------------------ O (predizione osservativa)

Naturalmente, dal fatto che una conseguenza sia verificata, e persino dal fatto che I spieghi

O, non segue che l’ipotesi sia vera: l’inferenza dalla conclusione alle premesse di un

argomento deduttivo non è valida. Inoltre, c’è bisogno, come abbiamo già visto, di ipotesi

ausiliarie, che attestino l’attendibilità degli strumenti osservativi ecc. Quindi si ha:

Aggiornate al 10/03/2004 64

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

I (ipotesi) + CI (condizioni iniziali)+

IA (ipotesi ausiliarie) ------------------------

O (predizione osservativa)

Se c’è una conseguenza osservativa falsificante, si può stabilire solo che una delle ipotesi

è falsa, ma non sempre si riesce facilmente a stabilire quale. Il caso della perturbazione del

pianeta Urano e la scoperta di Nettuno è un esempio di una situazione storica in cui si

rigettarono le ipotesi ausiliare e non la teoria di Newton. Con l’anomalia creata dal perielio di

Mercurio nel XX secolo invece la strategia non funzionò, e fu rigettata la teoria: l’ipotizzato

pianeta nascosto Vulcano non fu trovato e solo la relatività generale risolse il problema

dell’avanzamento del perielio di Mercurio ogni secolo. E allora, di fronte a un’esperienza

falsificante, in quali casi si deve falsificare la teoria, e quando invece modificare le ipotesi

ausiliarie iniziali? Dove punta la freccia del modus tollens?18 Si noti che è sempre possibile in

linea di principio dedurre O da un’altra ipotesi I1 e questa sembra una caratteristica tipica del

metodo ipotetico deduttivo. Perché allora non evitare il problema della sottodeterminazione

abbandonando il metodo ipotetico-deduttivo?

Un primo argomento a favore di questo suggerimento è dato dall’osservare che le

conseguenze osservative di ipotesi statistiche non possono essere dedotte, ma solo indotte con

una certa probabilità. Se l’ipotesi del fumo come statisticamente rilevante per il cancro è vera,

non possiamo dedurre la conclusione che la probabilità di contrarlo da parte dei fumatori è

maggiore che nei non fumatori, ma solo indurla con una certa probabilità, cioè asserire che è

più probabile che un fumatore contragga un cancro. Provare a costruire il metodo scientifico

su tecniche induttivo-probabilistiche è parte di un importante programma di ricerca

18 Si veda la presentazione di W. Salmon sul problema della conferma in Salmon W. e al (1992, pp. 46 e seguenti), da cui abbiamo ripreso la notazione dello schema ipotetico-deduttivo con qualche variante.

Aggiornate al 10/03/2004 65

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni nell’odierna filosofia della scienza, chiamato bayesianesimo (si veda Festa R., Cambiare

opinione, Clueb).

Qui basta osservare che molte teorie fisiche sono state accettate proprio perché riuscivano a

render conto di osservazioni note in modo “approssimativamente” deduttivo, dove

“approssimativamente” sta a indicare la corrispondenza sempre approssimata tra predizioni

teoriche e dati osservativi. Ciò basta a suggerirci di percorrere un’altra strada per attaccare il

problema della sottodeterminazione, una strada che non consiste nell’abbandono del metodo

ipotetico-deduttivo, ma che è basata sulla pratica effettiva della scienza.

In effetti, alcuni ritengono che il problema della sottodeterminazione sia più un’invenzione

dei filosofi della scienza che un problema reale della scienza. Gli scienziati non si trovano

mai o quasi mai in una posizione caratterizzata dal non sapere quale teoria scegliere perché

travolti da un embarasse de richesse (abbondanza dovuta a ricchezza). Il loro problema è che

non hanno nemmeno una teoria a disposizione che sia compatibile con tutti i dati noti, e non

che ne hanno troppe. Oppure si può concedere che in certi periodi storici la

sottodeterminazione c’è stata, ma non è durata troppo, come nel caso della scelta tra l’ipotesi

di Lorentz della contrazione dei regoli che manteneva l’esistenza di un riferimento

privilegiato e la soluzione di Einstein di una geometria pseudo-euclidea che, come quella

della relatività speciale, prevedeva l’equivalenza di tutti i sistemi di riferimento inerziali.

Gli antirealisti possono ribattere che il fatto che nella pratica la sottodeterminazione

storicamente non esista o non duri a lungo, non implica che non vi siano in linea di principio

altre teorie, che noi non conosciamo, che sono empiricamente equivalenti a quelle che

adottiamo, ma incompatibili con quelle note.

Beh, “producetele se siete capaci!”, rispose Boltzmann a un’analoga provocazione da parte

dei suoi nemici antirealisti, che negavano l’esistenza delle molecole ipotizzando altre teorie

che ne facevano a meno. Secondo gli antirealisti sulle teorie, i realisti dovrebbero mostrare

Aggiornate al 10/03/2004 66

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni

che nessuna altra teoria può esistere con caratteristiche dissimili da quella nota e in grado di

dedurre gli stessi dati. Talvolta percorrere questa strada porta a successo, come avvenne con

la dimostrazione che i modelli continuisti dell’emissione dell’energia di un corpo nero non

potevano essere compatibili con i dati.19 È però chiaro che non si possono offrire argomenti

del genere in ogni circostanza storica. E allora che fare?

Per superare questa empasse, sembra essenziale confrontarci con il terzo problema. Infatti

abbiamo visto che le leggi scientifiche contribuiscono in modo decisivo a definire il modello

nel quale sono immerse: se le leggi fossero false o né vere né false, come potremmo

difendere la realtà delle teorie intese come modelli?

3

L’argomento basato sulle leggi è, insieme alla sottodeterminazione, il più forte a favore di

una concezione antirealistica delle teorie: se le leggi che intervengono a costituire e definire il

modello sono astrazioni e idealizzazioni rispetto ai sistemi fisici rappresentati e (b) se le

teorie scientifiche sono modelli o famiglie di modelli, ne seguirebbe che il rapporto tra

mondo e teorie scientifiche che si costituiscono attraverso leggi idealizzate non rientra nella

nozione di verità come corrispondenza. Quest’ultima, infatti, sembra presupporre una sorta di

corrispondenza biunivoca completa tra proprietà del modello e proprietà del mondo.

Si può allora arrivare a sostenere, come provocatoriamente ha fatto la Cartwright (1983),

che le leggi teoriche della fisica mentono (nella misura in sono chiamate a spiegare i fatti),

ovvero che sono letteralmente false del mondo reale. Oppure si dovrebbe affermare, come fa

Giere (1988), che le leggi non sono né vere né false, ovvero che sono schemi di enunciati che

servono solo a costruire enunciati singoli sottoponibili al tribunale dell’esperienza.

Dal punto di vista del realista, si può cominciare a notare che malgrado le leggi

istituiscano relazioni idealizzate tra i fenomeni (astraendo da forze o da proprietà reali dei

19 Si veda Norton (1991) Aggiornate al 10/03/2004 67

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È vietato far circolare o utilizzare per citazioni corpi), non per questo sono del tutto arbitrarie. Parlando in modo inizialmente “intuitivo”, tra

un pendolo matematico unidimensionale e un pendolo reale c’è un rapporto di somiglianza,

tanto più forte quanto più il modello matematico è fedele. Lo stesso Giere (1988), un

antirealista sulle teorie ma un realista sulle entità, sostiene che i modelli somigliano, per gradi

e sotto certi rispetti, a sistemi reali. Ma, allora, perché le leggi vengono da lui definite come

né vere né false? Almeno qualche relazione dovranno pur aver in comune con i sistemi fisici

che contribuiscono a spiegare o a descrivere. Se le teorie sono modelli, i modelli

assomigliano in certi rispetti e per certi gradi ai sistemi reale e le leggi definiscono i modelli,

ne segue, checché sostenga Giere, che un qualche rapporto almeno di somiglianza tra leggi e

realtà ci deve essere.

Per esempio, un pendolo in cui la funzione di forza dipenda anche dalla velocità oltre che

dalla posizione, approssima meglio un pendolo reale. Un pendolo con oscillazioni forzate,

che può essere modellizzato da leggi (equazioni) specifiche, è chiaramente una

rappresentazione ancora più somigliante a un pendolo reale. Il problema è che la relazione di

somiglianza è così vaga da non dirci molto su questo rapporto tra teorie e mondo, motivo per

cui dobbiamo approfondire il problema del modo in cui le leggi rappresentano. Dato che le

leggi hanno una veste matematica, il problema che ci porremo nelle prossime lezioni sarà

proprio perché le leggi hanno una veste matematica.

4

L’ultimo punto che dobbiamo toccare riguarda la causalità, vista dagli antirealisti come

una proiezione della nostra mente sul succedersi regolare degli eventi nello spazio-tempo. Si

distingua anzitutto tra concezioni nomologiche della causalità e concezioni singolariste. Per

le prime, se un evento a causa un evento b, allora deve esistere una legge che lega gli eventi

di tipo a con gli eventi di tipo b, anche se non siamo di indicare quale.

Aggiornate al 10/03/2004 68

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In alcune concezioni fisiche e realistiche della causalità, un processo è causale se conserva

qualche grandezza fisica, come per esempio un sasso che trasmette una quantità di moto alla

lastra di vetro e la infrange: la somma delle masse del vetro moltiplicate per le loro velocità

sommate al prodotto della massa del sasso e dalla sua velocità dopo l’urto deve essere uguale

al prodotto della massa del sasso per la sua velocità prima dell’urto. Questo significa che il

processo è genuinamente causale perché conserva la quantità di moto prima e dopo la

trasmissione di questa grandezza da un sistema fisico all’altro. Lo stesso per altri processi

causali, che si definiscono tali perché conservano altre grandezza energia, carica elettrica,

spin, momento angolare, ecc.20 Per le seconde concezioni della causalità, un legame causale

può esistere tra singoli eventi anche senza l’intervento di leggi. Già da queste considerazioni

preliminari, possiamo ribadire il punto già avanzato nel paragrafo precedente: per rispondere

all’enigma dell’indipendenza dalla mente della causalità, la natura delle leggi scientifiche va

chiarita in modo più approfondito. Anche per questo problema rimandiamo dunque alle

lezioni successive sulle leggi.

Qui basterà dire che una possibile strada da seguire per difendere una concezione realista e

singolarista della causalità è quella di sostenere che noi percepiamo direttamente il legame

causale tra eventi singoli, un fatto che sembra testimoniato da verbi come tagliare, infrangere,

rompere, affettare, spazzar via, battere ecc. Descrivendo la successione temporale che occorre

tra eventi singoli con questi verbi di azione sembra che noi descriviamo al tempo stesso il

legame causale che essi esemplificano. Se osservo una pietra che, scagliata contro un vetro,

lo infrange, non percepisco forse direttamente il legame causale tra gli eventi “il lancio della

pietra” e “il rompersi del vetro”?

20 Dowe (1998). Aggiornate al 10/03/2004 69

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(aggiunta solo per un primo orientamento, non va ricordata ai fini dell’esame, anche perché incompleta!)

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