Il genere narrativo-popolare multimediale western ha radici … · 2020. 7. 21. · western. Anche...

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Francesco G. Manetti https://www.ereticamente.net/2015/06/fascismo-fumetto-ulceda-il-western-autarchico.html Il genere narrativo-popolare multimediale western ha radici lontane nelle cronache giornalistiche romanzate (molto romanzate!), ideate per informare (o per intrattenere) il pubblico delle grandi città della costa orientale nord-americana su ciò che accadeva nella cosiddetta Frontier a; questo soprattutto nel periodo delle Guerre Indiane, quando i Pellerossa, dopo la fine della Guerra d Secessione – il cui infausto esito avrebbe cambiato il futuro dei decenni a venire – furono definitivamente e quasi totalmente spazzati via dagli Stati Uniti d’America, manu militari , con l’impiego di ogni genere di armamento (comprese le innovative mitragliatrici Gatling) e arrivando persino a usare – inquadrat i nei famigerati reggimenti dei Buffalo Soldiers – elementi di origini africane, testé “liberat i” con gli editti lincolniani. Una tipica dime novel americana ottocentesca Siamo nella seconda metà del XIX secolo e su riviste e libretti in carta povera (le pagine venivano infatti realizzate materialmente dalla polpa di legno di scarsa qualità, da cui il termine inglese pulp, che oggi però tende a rimandare, dopo la cinematografia di Quentin Tarantino, a un ulteriore genere narrativo) e a basso prezzo (costavano generalmente dieci centesimi di dollaro, ovvero un dime, da cui la terminologia dime novel per identificare tali pubblicazioni) apparivano storie a profusione incentrate sugli “eroi” del Far West, sfornate anche da raffinati autori e giornalisti, ma molto spesso da pennivendoli aspiranti letterati. Con la fine dell’Ottocento la contemporanea invenzione di due nuovi mezzi di comunicazione – cinema e fumetto – avrebbe dato una spinta straordinaria alla diffusione internazionale del modo di raccontare, dei personaggi e degli scenari propri delle saghe western. Anche nell’Italia della prima metà del ‘900 il western si afferma e riscuote grande successo; nel Dopoguerra si assiste poi a una vera e propria esplosione, certamente in virtù della dilagante produzione straniera su celluloide, ma pure grazie alle realizzazioni autoctone e originali – con i fumetti della scuderia Bonelli (in primis) e successivamente con i film di Sergio Leone, Antonio Margheriti, l’appena scomparso Alberto De Martino, e vari epigoni. Addirittura si è arrivati ad affermare e a sostenere da parte di certa critica la paternità fumettistica (da Tex soprattutto) degli spaghetti-western, che avrebbero a loro volta ispirato, influenzato e ormai marchiato indelebilmente tutto il cinema western moderno – a partire dalle regie di Sam Peckinpah.

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  • Francesco G. Manetti https://www.ereticamente.net/2015/06/fascismo-fumetto-ulceda-il-western-autarchico.html

    Il genere narrativo-popolare multimediale western ha radici lontane nelle cronache giornalisticheromanzate (molto romanzate!), ideate per informare (o per intrattenere) il pubblico delle grandi cittàdella costa orientale nord-americana su ciò che accadeva nella cosiddetta Frontiera; questosoprattutto nel periodo delle Guerre Indiane, quando i Pellerossa, dopo la fine della Guerra diSecessione – il cui infausto esito avrebbe cambiato il futuro dei decenni a venire – furonodefinitivamente e quasi totalmente spazzati via dagli Stati Uniti d’America, manu militari, conl’impiego di ogni genere di armamento (comprese le innovative mitragliatrici Gatling) e arrivandopersino a usare – inquadrati nei famigerati reggimenti dei Buffalo Soldiers – elementi di originiafricane, testé “liberati” con gli editti lincolniani.

    Una tipica dime novelamericana ottocentesca

    Siamo nella seconda metà del XIX secolo e su riviste e libretti in carta povera (le pagine venivanoinfatti realizzate materialmente dalla polpa di legno di scarsa qualità, da cui il termine inglese pulp,che oggi però tende a rimandare, dopo la cinematografia di Quentin Tarantino, a un ulteriore generenarrativo) e a basso prezzo (costavano generalmente dieci centesimi di dollaro, ovvero un dime, dacui la terminologia dime novel per identificare tali pubblicazioni) apparivano storie a profusioneincentrate sugli “eroi” del Far West, sfornate anche da raffinati autori e giornalisti, ma molto spessoda pennivendoli aspiranti letterati. Con la fine dell’Ottocento la contemporanea invenzione di duenuovi mezzi di comunicazione – cinema e fumetto – avrebbe dato una spinta straordinaria alladiffusione internazionale del modo di raccontare, dei personaggi e degli scenari propri delle saghewestern. Anche nell’Italia della prima metà del ‘900 il western si afferma e riscuote grande successo;nel Dopoguerra si assiste poi a una vera e propria esplosione, certamente in virtù della dilaganteproduzione straniera su celluloide, ma pure grazie alle realizzazioni autoctone e originali – con ifumetti della scuderia Bonelli (in primis) e successivamente con i film di Sergio Leone, AntonioMargheriti, l’appena scomparso Alberto De Martino, e vari epigoni. Addirittura si è arrivati adaffermare e a sostenere da parte di certa critica la paternità fumettistica (da Tex soprattutto) deglispaghetti-western, che avrebbero a loro volta ispirato, influenzato e ormai marchiato indelebilmentetutto il cinema western moderno – a partire dalle regie di Sam Peckinpah.

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    Una delle rare foto esistentidi Guido Moroni Celsi

    I segnali di fumo del salgariano

    Abbiamo visto, dunque, che nel codice genetico dei filmwestern odierni di gran richiamo, come iltarantiniano Django Unchained (2012), grazie a tutta una catena di passaggi e scambi intermediali,c’è un ricco afflusso di sangue fumettistico italico! Il Tex Willer di Gian Luigi Bonelli e Aurelio “Galep”Galleppini nato nel 1948, uno dei pochi personaggi al mondo che può vantare di aver resistitoininterrottamente nelle edicole per un periodo così lungo (visto che ancora oggi esce, quasi 70 annidopo!), ha i suoi bravi e indiscussi meriti. Ma già prima della Seconda Guerra Mondiale, in piena EraFascista, un grande autore si era cimentato – pionieristicamente – con cavalli e selle, cappelloni estivali, rivoltelle e asce, vaccari e Indiani!

    Il primo “Albo di Salgari”, serienata nel 1938 per raccogliere le“avventure malesi” di MoroniCelsi (immagine tratta dal sito“collezionismofumetti.com”)

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    Stiamo parlando di Guido Moroni Celsi, quello che molti considerano (insieme a Pedrocchi, Albertarellie a pochi altri) il vero padre del fumetto italiano non umoristico (dunque western, ma pureavventuroso, fantascientifico, del brivido, storico, poliziesco, etc.). Moroni Celsi nacque a Roma nel1885 (o nel 1888 secondo certe autorevoli fonti) e si spense nel 1962. La sua collaborazione al“Corrierino” (com’è stato sempre affettuosamente chiamato il “Corriere dei Piccoli”, emanazionesettimanale giovanile del “Corriere della Sera” e prima pubblicazione a fumetti dello Stivale), di cui fuuno degli uomini di punta, andò avanti per oltre venti anni, dal 1913 al 1934. In questo periodo la suafirma apparve in parallelo un po’ dovunque su simili testate: su “Numero”, su “La Domenica deiFanciulli”, sul concorrente romano “Il Messaggero dei Piccoli”, su “Il Cartoccino dei Piccoli”, su “Viaggie Avventure”, su “Novellino”, etc.; di gran caratura le opere di Moroni Celsi apparse sul supplemento“Il Balilla” del quotidiano “Il Popolo d’Italia” e, sul prestigioso foglio “L’Avventuroso”, il racconto“coloniale” La prigioniera dei Ras. La fine del sodalizio con il “Corrierino” segna il definitivo ingresso diMoroni Celsi nelle fila delle Edizioni API (Anonima Periodici Italiani) Mondadori (“Topolino”, “Paperino”e “I Tre Porcellini”), per le quali, nei secondi Anni Trenta e fino allo scoppio del conflitto, realizzeràquelli che sono considerati i suoi capolavori: le riduzioni a fumetti del ciclo malese salgariano e lastoria di fantascienza (la prima in Italia) SK1. E, ovviamente, Ulceda…

    Locandina originale delcartone animato “I TrePorcellini” (1933)

    Le praterie editoriali di Ulceda

    Il 28 marzo del 1935 l’API Mondadori lanciava il settimanale “I Tre Porcellini”, come prodromoall’acquisizione da parte della casa editrice milanese dei diritti italiani per il fumetto disneyano, cheera stato proposto per la prima volta nel Belpaese dal fiorentino Nerbini a partire dal dicembre 1932,con “Topolino” giornale: ne abbiamo già parlato qui su “EreticaMente”. I personaggi di punta delnuovo periodico erano – in adattamento a fumetti – i tre maialini protagonisti del cartone animatoDisney The Three Little Pigs, uscito nei cinema nel maggio 1933 con la regia di Burt Gillett, premio

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    Oscar e gran successo anche in Italia. Fu proprio sul neonato giornale mondadoriano – una dellepubblicazioni che, pur essendo nate per presentare in traduzione gli artisti americani, si sarebbero poirivelate vere e proprie “palestre” artistiche per il nostro fumetto e i nostri autori – che apparve inventicinque puntate nel 1935 (iniziando con il n. 11 del 5 giugno) la storia intitolata Ulceda, la figliadel Gran Falco dellaprateria – capostipite del fumetto western “all’italiana”, ispirata ai tre romanzi delciclo che Salgari (del quale Guido Moroni Celsi era grande estimatore) aveva ambientato nell’Ovestamericano.

    Copertina del primo libro dellaTrilogia del West di Salgari(Bemporad – Firenze, 1908)

    Stiamo parlando dei volumi (licenziati a Firenze da Bemporad) Sulle frontiere del Far-West del 1908,La scotennatrice del 1909 e Le selve ardenti del 1910. Questa prima incarnazione editoriale di Ulcedasi presentava ai lettori nelle vesti di una singola tavola settimanale numerata, dotata di un suoautonomo “titolino”, montata su quattro strisce (mutuate dal formato americano delle daily strips),composte in media da tre vignette ciascuna (dunque una media di dodici vignette per tavola). Nel1939 la Mondadori ristampò la storia suddividendola in tre puntate (con divisione a metà di ciascunatavola) nell’effimera collana “Albi di Avventure”, sui numeri 5, 6 e 7. Nell’immediato dopoguerra i 25capitoli che componevano l’avventura originale furono raccolti dalla Mondadori in unico fascicolo(nella serie settimanale “Albo d’Oro”, sul n. 16 del 24 agosto 1946). Stavolta il “rimontaggio” delletavole fu davvero “drastico” e operato direttamente sugli originali, viste le più ridotte dimensioni delnuovo fascicolo rispetto al “gigantismo” de “I Tre Porcellini” (ciò era dovuto alla penuria di carta, cheportò alla nascita dell’idea stessa di “pubblicazione tascabile”): dalle tre vignette per striscia e quattrostrisce per pagina si passò infatti a tavole, sempre con quattro strisce, ma con solo due vignette (dimedia) per striscia (dunque da dodici a otto vignette per tavola).

    Per far questo le vignette furono tagliate, allungate, ritoccate, etc., e per comprendere meglio questasituazione nelle immagini di corredo a questo articolo vi presentiamo rimontaggi di una tavola intera edi un frammento, rari superstiti, sopravvissutialla dispersione e alla distruzione degli originali degliarchivi Mondadori. Un caso tristissimo (e ancora oggi non ancora indagato fino in fondo) di unpatrimonio artistico del ‘900 andato nella quasi totalità irrimediabilmente perduto (se si escludono

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    appunto le tavole e le copertine finite prima nei cataloghi dei commercianti e poi nelle collezioniprivate; emblematico il caso dei capannoni di Lavanderie di Segrate). La storia western di Moroni Celsifu successivamente più volte ristampata; molto interessante quella “quasi anastatica” edita daCartoon Museum (Rho, 1972).

    Frammento originariamenteappartenuto alla tavola XVIIIoriginale, rimontato per la ristampa in“Albo d’Oro” (collezione privata)

    Rimontaggio della storiadi Ulceda (dalle tavoleXVI e XVII originali) perl’edizione degli “Albid’Oro” del dopoguerra.Tavola originale dacollezione privata(immagine tratta dal blog“Anni Trenta”)

    La critica ha da sempre e meritoriamente “coccolato” Ulceda – sia dal punto di vista artistico, sia“filosofico”. Antonio Faeti, per esempio, nel suo articolo Il West non è l’Ultima Frontiera apparso su“Comic Art” nel giugno 1988, scrive: Io sono sempre sulla soglia della Grande Prateria, da quandolessi Ulceda, il fumetto di Guido Moroni Celsi, l’amato fumetto delle limpide rocce, delle forre, dellegrotte. E non a caso la raccolta in volume (con evocativa copertina di Pablo Echaurren) dei pezzi diFaeti proposti fra il 1986 e il 1990 sulla già citata rivista romana si intitolava La freccia di Ulceda…Molti, nel commentare il capolavoro di G. M. C. del 1935, stigmatizzano – secondo le proprieimpostazioni culturali, condivisibili o meno che siano – certi connotati “sensibili”… Così, per ilgiornalista Carlo Scaringi, Ulceda era un racconto sostanzialmente fedele alla realtà storica, conscontri anche aspri fra cow-boys e pellerossa, ma nel complesso cavallereschi, con gli indiani che non

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    erano i soliti “musi rossi” dell’iconografia cinematografica dell’epoca. Ulceda era una ragazza indianache alla fine sposa l’eroe bianco della storia, dando un contributo notevole alla pacificazione razziale.E i super esperti del fondamentale blog “Fumetti Classici Anni Trenta” (che ci è servito anche comefonte iconografica) aggiungono: Ulceda è molto importante, perché è all’origine di una genealogia difumetti italiani che passa per il Kit Carson di Rino Albertarelli e arriva a Tex Willer di Gian Luigi Bonellie Aurelio Galleppini: tutti autori che si formano nell’Anteguerra, nelle redazioni della SAEV, di Nerbinie di Mondadori. L’eroe “bianco” è un italiano, “razza” oppressa da secoli nelle sue “naturali”aspirazioni nazionali, e l’incontro con la fiera “razza indiana” è da pari a pari: grande retorica para-fascista, naturalmente, ma è comunque significativo che i nativi americani non siano i “cattivi”. GuidoMoroni Celsi è un grande artista, oggi di difficile comprensione, per il suo stile a prima vista attardato,ma già “moderno” per l’uso del linguaggio del Fumetto.

    “I Tre Porcellini” n. 11 del 5giugno 1935, sul qualeapparve la prima delle 25puntate di Ulceda (immaginetratta dal blog “AnniTrenta”)

    Di Ulceda si può leggere – come una sorta di sunto di quanto detto finora – anche in Eccetto Topolino(NPE, 2011), l’approfondito volume di Gadducci, Gori & Lama di cui abbiamo su queste colonne giàparlato; nel 1935 Arnoldo Mondadori, con il varo dei suoi nuovi settimanali per ragazzi, decide dicommissionare serie a fumetti di produzione italiana in grado di competere, almeno nelle intenzioni,con quelle statunitensi.

    “Albi Avventure” n. 5, 1939. È il primo

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    albo della prima ristampa di Ulceda(immagine tratta dal sito“collezionismofumetti.com”

    Il primo tentativo in assoluto è anche fra quelli più cospicui. Sul numero 11 de “I Tre Porcellini” del 5aprile 1935 appare la prima puntata di Ulceda, la figlia del Gran Falco della Prateria, testi e disegni diGuido Moroni Celsi. Forse l’autore si ispira al successo del fumetto inglese Colomba Bianca, apparsosu “Jumbo” nei due anni precedenti, così da mettersi in diretta concorrenza anche con la SAEV, oforse si rifà alle crudeli e fiere eroine Yalla e Minnehaha della celebre trilogia del West di EmilioSalgari, le cui opere rivisiterà di lì a poco. È evidente anche un tentativo di sfruttare il mitocinematografico hollywoodiano, ma il punto di vista è spostato in modo significativo sugli indiani:minoranza eroica e fiera, facilmente assimilabile a certa “mistica” fascista. Come esordio diMondadori nel campo dei comics, e anche quale primo western nazionale, Ulceda ha una suaimportanza storica notevole. È soprattutto un episodio che influenzerà profondamente il fumettoitaliano: sia nell’immediato (con Kit Carson di Albertarelli) che nei decenni successivi, passando perTex di Bonelli e Galleppini. Ma è notevole anche la sua qualità artistica, non solo dal lato grafico.

    La prima ristampa delDopoguerra: “Albo d’Oro” n.16 del 1946 (immaginetratta dal sito“collezionismofumetti.com”)

    C’era una volta in terra carioca?

    Entrando adesso nel dettaglio, nella carne della storia, sorge spontanea una prima domanda: dove èambientata l’avventura vissuta dalla giovane indiana Ulceda e dagli altri protagonisti?

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    La ristampa Cartoon Museumdel 1972

    Il riferimento spaziale dovrebbe essere ben preciso, visto che Nella foresta brasiliana è il chiaro“titolino” della prima puntata. Fin da qui si vede che è primaria l’intenzione, quasi la necessità (daparte dell’autore, e pure dell’editore), di staccarsi da alcuni dei maggiori canoni della narrativawestern, già allora ben cristallizzati nell’immaginario collettivo.

    L’ambientazione geografica viene così traslata dall’America del Nord e dalle Praterie degli Stati Uniti –entità politica che tanta responsabilità aveva avuto nello sterminio del popolo rosso e che per le sueimpostazioni economiche e socioculturali liberaldemocratiche cominciava già adesso a essere sentitalontana dall’Italia fascista – all’America Meridionale.

    In realtà questo spostamento avviene solo nominalmente, come vedremo, anche se vengonosapientemente mantenuti dall’artista romano alcuni elementi particolari (soprattutto correlati allafauna) che potevano essere immediatamente avvertiti, se non come “brasiliani” puri, almeno come“sudamericani” originali, anche dai lettori meno attenti. Le bolas da caccia, innanzitutto, pesanti pallecollegate da una corda che in più di un’occasione gli indigeni di Moroni Celsi roteano in aria e lancianocontro i loro nemici. Si tratta del ben noto strumento del gaucho, il buttero argentino cantato daBorges, che lo usava per catturare il bestiame. Dunque non propriamente qualcosa di carioca… mapoco ci manca! C’è da dire che queste bolas venivano adoperate in Patagonia dagli amerindi fin dallaPreistoria, e tracce di questo attrezzo sono state persino trovate negli scavi del sito paleolitico diCalico, in California. Ecco poi il condor, noto uccello rapace saprofago, autoctono dell’America del Sud,ma andino piuttosto che brasiliano (e con un parente californiano): va a sostituire il classico avvoltoiodel Far West, che fa solitamente individuare a Sceriffi e Ranger, grazie al suo svolazzare in cerchiosulle zone desertiche, il luogo dov’è avvenuta una carneficina (indiani contro coloni, banditi contropostiglioni e passeggeri di diligenza, soldati contro indiani, etc.) o dove sta per morire qualcuno…

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    La prima puntatadell’avventura, come apparivasu “I Tre Porcellini” n. 11 del 5giugno 1935 (immagine trattadal blog “Anni Trenta”)

    Il favoloso serpente – quasi un drago mitologico – con il quale si scontra il capo indiano nel labirinto digrotte, per la sua lunghezza e corposità, potrebbe essere un anaconda verde, tipico delle foresteumide sudamericane. In una grotta attigua svolazzano i pipistrelli definiti “vampiri succhiatori disangue”: sono i desmodus rotundos, diffusi in Messico e nell’America del Sud. D’un tratto compareanche un “pantera nera”. Il termine “pantera” è piuttosto generico, essendo sinonimo di “leopardo”,che a sua volta, nel Nuovo Mondo, può indicare (a seconda della varietà del mantello) il “puma” (illeone di montagna nordamericano, dal pelo color nocciola) e il “giaguaro”, ovvero la “lonza”, il grossofelino maculato che batte anche le foreste amazzoniche brasiliane. Ma il colore nero rimanda di solitocon la fantasia all’Asia misteriosa, alle pantere nere propriamente dette, quelle che “infestano” ilBengala – e dunque, a un altro ambito salgariano, per rimanere nel cosmo di Moroni Celsi.

    La seconda puntata di Ulceda,come appariva nel settimanale“I Tre Porcellini”, nel giugno

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    1935 (immagine tratta dal blog“Anni Trenta”)

    Ma le attinenze sudamericane, seppur dubbiose, si fermano praticamente qui. Per il resto i Pellerossache appaiono nella storia (della fantasiosa tribù degli Owada) non sono certo gli Indios dell’Amazzoniao di altri panorami carioca: per caratteristiche, fisiche, per gli accessori, per gli abbigliamenti, per isimboli e così via… sono chiaramente individui delle popolazioni delle Praterie del Nord America, iDakota e i Lakota (offensivamente definiti Sioux dai loro rivali), anche se l’autore preferisce (comeusava all’epoca nella narrativa popolare, illustrata o meno) far indossare a tutti il copricapo dallemolte penne, nella realtà riservato al sakem (come Toro Seduto, Cavallo Pazzo e Nuvola Rossa) o aguerrieri particolarmente eroici; correttamente disegna invece le loro abitazioni nella foggia delletende tee-pee a forma conica. Uno degli animali sacri per gli Indiani è l’orso, ed ecco che il Gran Falcosi scontra con un grizzly, una sottospecie di orso bruno che vive nelle foreste di coniferenordamericane e solo occasionalmente nelle Grandi Praterie – sicuramente non in Brasile! Alcuni deimilitari, chiamati “regolari”, infine, ricordano per i loro abbigliamento lo US Army e stazionano anchein un classico fortino di frontiera, uno di quelli con le palizzate di legno (mutuate dall’esperienza diCesare in Gallia) che nei film western sono oggetto di fitto lancio di frecce incendiare! Altri, con ledivise che portano, sembrano più i Rurales messicani, ovvero i volontari della Guardia Rural (scioltanel 1914) che nella seconda metà dell’Ottocento si occupava di reprimere nel sangue le rivolte degliApache (ma, del resto, anche i Rurales sono vecchie conoscenze del lettore e dello spettatorewestern!).

    La XX puntata di Ulceda sulsettimanale “I Tre Porcellini”(immagine tratta dal blog “AnniTrenta”)

    Quanto alla collocazione temporale le cose si fanno ancora più curiose… Parrebbe di trovarsi, per laquasi totalità delle puntate e delle vignette, alla fine dell’Ottocento – negli anni Ottanta del XIXsecolo, azzardiamo… Ma in una didascalia a metà della prima tavola si fa un chiaro appello all’EraFascista, dove si dichiara che il protagonista bianco, Vittorio Ranghi, appartiene a quelle tempre

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    d’individui che l’Italia d’oggi ha forgiato in poco più di un decennio. Dunque, visto il riferimentocronologicoaddirittura alla Marcia, siamo proprio nel 1935, anno d’uscita della storia. E questopotrebbe spiegare anche l’altro dei motivi che portarono autore ed editore alla collocazione brasilianadell’episodio: il fatto che nel 1935 sarebbe stato ormai impossibile rappresentare i “modernissimi” e“avanzatissimi” Stati Uniti d’America, anche quelli delle piane centrali, con gli stilemi del western diambientazione ottocentesca. Non ci avrebbe creduto nessuno! Al centro delle Praterie dell’Ovest nelBrasile (così recitava un’altra didascalia) poteva invece conservarsi in maniera abbastanza plausibile,ancora nel 1935, un pizzico di fascino esotico e di tempi andati e perduti… Dunque un Brasiletradizionale, rustico e “arretrato” in maniera romantica e affascinante, in un 1935 dove tutto il restodel mondo stava andando sempre più a capofittoverso il Duemila, e dove già da un anno, in Italia,c’erano trasmissioni televisive.

    Elementi contemporanei (del 1935) inUlceda: riferimenti all’Era Fascista ealla Marcia

    Ma il lettore, come abbiamo detto, doveva aver presente il fatto di trovarsi… nel presente! E così, neldodicesimo episodio, nel buio di un‘antica caverna, Vittorio estrae dai pantaloni una lampadinatascabile elettrica contemporanea, non certo uno dei primi modelli di fine Ottocento!

    Elementi del 1935 in Ulceda: lalampadina tascabile a batteria diVittorio

    Alla fine dell’avventura Guido Moroni Celsi strizza comunque ufficialmente l’occhio ai luoghi delwestern classico. Nell’ultima sequenza Vittorio Ranghi e Ulceda annunciano di volersi sposare,benedetti dal suocero e padre Gran Falco, e partono (non si capisce se in viaggio di nozze o persposarsi) per l’Italia fascista (c’è un nuovo, chiaro, riferimento), salpando in transatlantico – non dallecoste brasiliane, ma da… Galveston, in Texas!

    Elementi contemporanei in Ulceda:

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    riferimenti all’Era Fascista nella XXVe ultima tavola

    Dal Far West al Profondo Nord

    Come abbiamo letto negli stralci di critica proposti, una delle particolarità di Ulceda è quella didivergere nettamente già nel 1935 dallo stereotipo dell’indiano “cattivo”, ladrone, ubriacone,bellicoso, superstizioso, etc., preponderante nel westerntradizionale internazionale (film, fumetti eromanzi) almeno fino alla fine degli anni Cinquanta. In Italia, per vedere un western cosìdichiaratamente e inequivocabilmente “moderno”, occorre attendere il 1961 – con la serie “Zagor”,ideata dallo sceneggiatore Guido Nolitta (nome d’arte di Sergio Bonelli, figlio del creatore di Tex,scomparso nel 2011, e padre di Davide, attuale timoniere della casa editrice milanese) e daldisegnatore Gallieno Ferri (tutt’ora in gamba). Ulceda precorre dunque i tempi di un’interagenerazione! Le motivazioni sono qui però diverse, e non hanno niente a che fare con la “correttezzapolitica”. In Ulceda il bianco di origine europea Vittorio Ranghi pare allearsi con gli elementi miglioridella tribù del Gran Falco della Prateria in nome di un’antica patria comune, una patria nordica,polare, iperborea, atlantidea – un’identica patria, dello spirito e non solo geografica. Solo un’idea,un’intuizione? Presso le popolazioni amerinde non si fa forse riferimento, nelle leggende sacre, adancestrali semidei dalla pelle chiara provenienti da settentrione? Non ci sono straordinarie attinenze,non solo sonore, m anche di significato, fra certi lemmi presenti nei linguaggi dei Pellerossa conalcune terminologie europee? Il Grande Spirito, il Padre di tutti gli Dei, quel Manitù chiamato Watandagli Indiani delle Praterie, non sembra rimandare a Wotan, l’Odino del pantheon germanico? Il nomedel fiume Potomac, derivato dal termine algonchino Patowmeck, non ricorda forse la parola grecapotamos, che sta per “fiume”?

    Sleeping Bear, capo dei Brulé,fotografato nel 1898

    Secondo i Lakota Brulé, una “sottotribù” dei Sioux Teton, il fatto che tutti gli Indiani d’America (inrealtà appartenenti a 500 nazioni diverse, ognuna con i loro peculiari linguaggi, usi e costumi e anche

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    aspetti fisici diversi) abbiano un’unica origine asiatico-mongolide, è una falsità, una trappola moderna,che considera solo una seconda e tardiva ondata migratoria nel Continente americano, che halasciato tracce soprattutto fra gli Inuit: molti Brulé hanno infatti la pelle chiara, non hanno gli occhi amandorla e vantano altezze corporee fino oltre i 190 cm. – caratteristiche incompatibili con le loropresunte ascendenze “gialle”. Recentemente è tornato sull’argomento Gianfranco Drioli, con il suoIperborea (Ritter, 2014), ma – saltando d’un balzo migliaia di pagine di decine di autori che neidecenni hanno indagato tale questione – si può risalire a 80 anni prima, fino all’epoca stessa in cuiveniva elaborata da Moroni Celsi la trama di Ulceda, e leggere gli eccellenti e rivelatori passaggivergati da Julius Evola nel suo fondamentale Rivolta contro il mondo moderno, nel terzo capitolo dellaseconda parte (Hoepli, 1934 – il testo qui riportato è ripreso dall’edizione 2010 di Mediterranee): Latradizione costante circa le origini che si ritrova in America, fino al Pacifico e alla regione dei GrandiLaghi, parla della terra sacra del “lontano Nord”, posta presso le “grandi acque”, da cui sarebberovenuti gli antenati dei Nahua, dei Toltechi e degli Aztechi. (…) Il nome prevalente di questa terra,Aztlan, comprende anche – come lo shveta-dvîpa indù – l’idea di bianchezza, di terra bianca. Ora,nelle tradizioni nordiche, sussiste il ricordo di una terra abitata da razze gaeliche, vicina al Golfo diSan Lorenzo, chiamata Grande Irlanda o Hvitramamaland, cioè “paese degli uomini bianchi”, e i nomidi Wabanakis o Abenikis, che gli indigeni verso quelle parti si danno, vengono da Wabeya, cioè da“bianco”. Senonché alcune leggende dell’America centrale menzionano quattro antenati primordialidella razza Quiche che vogliono ancora raggiungere Tulla, la regione della luce. Vi trovano invece ilgelo, il sole in essa non appare. Allora si dividono e passano nel paese dei Quiche. Questa Tulla oTullan, che è la patria d’origine dei progenitori dei Toltechi, i quali probabilmente trassero da essa ilnome, e che andarono a chiamare parimenti Tulla il centro dell’Impero da loro successivamentefondato sull’altopiano del Messico, – questa Tulla era stata appunto concepita anche come la “Terradel Sole”. Essa, è vero, viene talvolta localizzata ad oriente dell’America, cioè nell’Atlantico; ma ciò sideve verosimilmente all’interferenza del ricordo di una sede successiva, la quale riprese, per un certoperiodo la funzione della Tulla primordiale (a cui forse più particolarmente corrisponde l’Aztlan), ovevenne a regnare il gelo e non si trovò più il sole: Tulla, che equivale visibilmente alla Thule dei Greci,sebbene questo nome, per ragioni di analogia, fu applicato anche ad altre regioni.

    Tex nei panni di Aquila della Notte (disegnodi Fabio Civitelli)

    Tali suggestioni, dopo il 1935 di Ulceda, si ritroveranno spesso nella terra fumettistica italicafecondata dall’avventura, creatrice di un filone, ideata da Moroni Celsi. La saga di Tex è ricca di tramenate su commistioni fra antiche leggende amerinde e realismo western; e tra l’altro lo stesso

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    personaggio di Willer, nella mitologia della collana, non è soltanto un Texas Ranger, ma è soprattuttoAquila della Notte, capo bianco – “pari fra i pari” – di un nucleo di Navajo, dei quali in giovane etàsposò la figlia Lilith del precedente sakem; donna che, prima di morire precocemente assassinata, glidiede un figlio, Kit, che insieme all’invincibile padre, al canuto Carson e al fiero indiano Tiger Jackforma un ben noto quartetto della letteratura disegnata. Come vediamo, ritornano in Tex molti deglielementi umani, germogliano molti dei semipiantati daUlceda.

    La questione dell’origine “bianca”, “iperborea”, “polare”… dei popoli chiamati oggi “nativi americani”viene affrontata ancor più profondamente nelle pagine di “Zagor”, un fumetto western talmenteatipico che forse – come ha affermato più volte l’attuale curatore e sceneggiatore principe della serie,Moreno Burattini – non è nemmeno tale. L’orrore, il mistero, la fantascienza, il macabro, etc. sonoinfatti elementi portanti (e non solo casuali) dell’epopea zagoriana. E in anni recenti, proprio con unaserie di episodi disegnati su testi di Burattini, il bocciolo di Atlantide è rifiorito negli albi delpersonaggio creato da Nolitta. Infine, come Tex, anche Zagor è un bianco, di madre irlandese (il veronome è Patrick Wilding), che ha una grandissima influenza sulle tribù indiane dell’immaginariaForesta di Darkwood (sita nella parte orientale degli Stati Uniti, intorno al 1830, con un lavoro chericorda quello dello pseudo-Massachussets di Lovecraft), da loro rispettato come un soprannaturaleSpirito con la Scure, e che lui difende dall’espansionismo occidentale (militare e civile), rischiando piùvolte la vita. Un particolare, piccolo e curioso, collega ancor più strettamente Zagor all’opera diMoroni Celsi. Più volte Zagor è stato definito dalla critica fumettistica come un “tarzanide”, ovvero unpersonaggio che per certe sue caratteristiche “atletico-scenografiche” deve molto al Tarzan nato nel1912 dalla fantasia dell’americano Edgar Rice Burroughs. Tarzan, enfant sauvage, una volta salvato,allevato e cresciuto dai primati, diventa un “capo bianco fra popolazioni e animali esotici in terreesotiche” – come Zagor; fa molto conto sulla fisicità corporea per affrontare certe situazioni estreme,proprio come Zagor.

    Il “tarzanide” Zagor, che si spostavelocemente nella Foresta di Darkwoodgrazie a volteggi fra le liane (disegno diGallieno Ferri)

    E come Zagor si serve delle “vie aree” per spostarsi in foreste e boscaglie, dondolandosi nel fittogroviglio di possenti liane. Nel primo e secondo capito di Ulceda, il nostro Vittorio Ranghi usa propriole liane per liberarsi da un cappio teso come trappola da ignoti cacciatori e spostarsi – “alla Tarzan” –

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    da un punto all’altro della macchia!

    Edificando le fondamenta del western a fumetti italiano

    Ulceda, la figlia del Gran Falco della prateria, come abbiamo visto, è fondamentale nella storia delfumetto nostrano per svariati motivi. Innanzitutto per aver introdotto, prima in assoluto, un nuovogenere fumettistico nel Belpaese; e in secondo luogo per aver rappresentato nel 1935 la figuradell’Indiano d’America in maniera radicalmente diversa rispetto al passato (e anche rispetto ai duedecenni futuri, almeno!), ponendolo alla pari con l’uomo bianco europeo – nella fattispecie italiano –magari in virtù di una gemella sorgente primeva del sangue.

    Questo per quanto riguarda “l’anima” del capolavoro di Guido Moroni Celsi. Se scendiamo su un pianopiù “materiale” – prettamente figurativo, scenografico, e di svolgimento della trama – vediamo comel’artista romano riesca a inserire, in un’avventura dopotutto breve (ha lo stesso numero di vignette diuna cinquantina di pagine di un albo di “Tex”, ovvero di appena mezzo fascicolo bonelliano), quasitutti quelli che diventeranno ben presto i canoni e gli stilemi propri del fumetto western, elementidella narrazione per immagini – già qui belli che pronti e cristallizzati – con i quali tutti glisceneggiatori e i disegnatori nei decenni a venire dovranno necessariamente confrontarsi.

    Elementi wester: l’indiano, furtivo, il cow-boy… (tav. I)

    Il primo capitolo, Nella foresta brasiliana, presenta di per sé già moltissimi “oggetti” western. C’èl’indiano in agguato, con il suo bel copricapo piumato da gran guerriero, che si aggira furtivo nellaboscaglia, raffigurato in nera silhouette; lancia un raccapricciante grido di guerra (yo-ho-hee! Yo-ho-hee!), piuttosto attinente in quanto a sonorità a simili vocalizzi in simili occasioni nella realtà storica. Ilbianco è Vittorio Ranghi, un italiano che da tre anni vive lontano dalla Patria, presso uno zio, che hauna fazenda quasi al centro delle praterie dell’ovest, nel Brasile, e con un fratello minore d’età;Vittorio veste alla cow-boy, con cappellone a larghe tese, fucile, cartucciera, rivoltella nella fondina,coltello, accetta, etc. – tutto un insieme di parafernalia che possono anche in parte richiamarel’iconografia degli eroi di celluloide coevi di Tom Mix, ma che sono il prototipo di quello che saràl’abbigliamento “standard” per il western a fumetti. Si intravede anche il “ranch” dello “ziod’America”, con due figure che saltano in groppa ai destrieri, sellati di tutto punto. È quasi inutilesottolineare come il Far West – anche quello letterario – non esisterebbe senza il cavallo! Ranghiincappa subito in un laccio, una trappola tesa per la cattura delle belve: nel fumetto di Frontiera,

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    centrali saranno le figure dei trapper – uomini rudi e solitari, a metà strada fra il cacciatore el’eremita, che vivono per mesi nelle foreste e sulle montagne al fine di procacciarsi pellame darivendere nei “punti di scambio” (i cosiddetti trading post) oppure negli annuali rendez-voussportivo-commerciali organizzati insiemi ai colleghi. Pensiamo al nostro “Ken Parker”.

    Fermo immagine da un film westernamericano degli anni Dieci (epoca del muto).Il classico abbigliamento precipita nei fumettifin da subito!

    Nel secondo capitolo, Un grido umano!, Vittorio (come avevamo accennato), usa le liane della forestaper spostarsi; incontra anche una feroce pantera nera, alla quale spara con una carabina,centrandola; la fiera, che si immagina moribonda, salta in un cespuglio, e subito si leva in aria ungrido di orrore. Ecco dunque, in questa seconda tavola, entrare in gioco altri elementi western –oltretutto anticipatori, come avevamo scritto sopra, di un certo innovativo western a fumetti deglianni Sessanta: l’agilità del protagonista, che pare imitare il bambino ferino di Burroughs; l’animaleferoce, simbolo stesso dell’asprezza naturale del Nuovo Mondo; il fucile, fedele compagno delPioniere, dell’Avventuriero e del Colonizzatore (have gun, will travel – “con il fucile andrai lontano” –era uno dei più celebri motti della Frontiera); qualcuno in pericolo, in necessità di soccorso.

    Il dono del Pellerossa è il titolo del terzo capitolo. Vittorio Ranghi salva dalle fauci della pantera neraun capo pellerossa, il Gran Falco della Prateria. L’indiano minaccioso dell’inizio, con un sapiente colpodi scena, diventa adesso un alleato. Fra i due viene infatti suggellato un ferreo patto d’amicizia con ildono all’italiano di un coltello sacro con il manico in corno inciso dalla dolce fanciulla Ulceda, figlia delsakem. L’arma bianca è anche una sorta di talismano riconosciuto da tutte le tribù della zona, unasorta di lasciapassare per Vittorio. L’oggetto magico che da solo vale mille parole e che aiuta asuperare le incomprensioni dovute alle barriere culturali e linguistiche è un elemento ricorrente nelfumetto western italiano: basti pensare alla fascia rituale, il wampum, che Tex si stringe alla frontequando veste nel suo villaggio i panni di Aquila della Notte; tale wampum è riconosciuto anche fuoridallo stretto ambito navajo, ed è un vero e proprio documento di riconoscimento, dotato di indiscussaautorità. In questa stessa tavola vengono introdotti finalmente quelli che saranno i compagnid’avventura di Vittorio: il fratellino Vico, anche lui armato e ben addestrato alla vita delle Praterie(ricorda molto da vicino il Kit Willer della saga di “Tex”) e il “meticcio” Kamoto, una sorta di ponte incarne e ossa fra due mondi (come sarà il texiano Tiger Jack).

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    Il coltello-talismano-lasciapassare che il GranFalco dona a Vittorio (tav. III)

    La foresta iniziale, piena di misteri, trabocchetti e animali feroci – che ricorda la dantesca SelvaOscura nella quale l’Alighieri è disperso all’inizio della “Commedia” – viene abbandonata per lesconfinate distese di erba alta, lasciando spazio ad altre situazioni prettamente western nel quarto equinto capitolo, La fattoria in fiamme e L’agguato nella prateria. La fazenda brasiliana del ramoamericano della famiglia Ranghi è stata data alle fiamme dagli indiani dopo avere sottratto ilbestiame che vi era allevato; alcuni di questi incursori cavalcano destrieri bianchi “a pelo”, senzasella, altri con regolare montatura di cuoio. A differenza dei loro colleghi del Nord, tali stranipellerossa delle praterie carioca non tirano solo frecce, ma anche lazos e bolas! I tre pard Vittorio,Vico e Kamoto partono all’inseguimento e li vediamo – classicamente – sparare all’indietro con lacarabina, pur continuando a galoppare in avanti, stringendo i fianchi del cavallo con le ginocchia –piedi ben saldi nelle staffe.

    Ogni sforzo difensivo dei due bianchi e del meticcio viene ben presto vanificato, e i tre cadono predadella tribù: Prigionieri degli Owada è infatti il titolo del sesto capitolo. Vediamo dunque il gruppettolegato ai tradizionali “pali della tortura” in attesa che si compia il loro destino. Il capitolo VII, Kamiola,il traditore, è dedicato al complotto e – in parte – anche a un intermezzo passionale. Appare infatti perla prima volta Ulceda, la bellissima squaw figlia del Gran Falco, che si intuisce essere una sorta dicapo supremo di tutte le tribù della prateria (in una vignetta, infatti, vediamo un tale “capo degliOwada”, che dunque non dovrebbe essere il Gran Falco; oppure quello in cui sono segregati i Ranghi,è un campo secondario, con una specie di vice-capo al comando; rimane insondabile questo piccolomistero di sceneggiatura). Tutti gli uomini validi dell’accampamento sono stati richiamati al “quartiergenerale” e Vittorio Ranghi si erge subito a difensore di Ulceda contro le mire del viscido Kamiola,vice-capo (o vice-vice-capo!). Guido Moroni Celsi ricorre adesso alla figura della “damigella inpericolo”, tema narrativo antichissimo: si cristallizzò con il Ciclo del Graal e con la letteraturacavalleresca ed è poi stato sfruttato ovunque e comunque, fino a imporsi nel cinema (pensiamo allaeptalogia di “Guerre Stellari”, che non esisterebbe senza l’elemento scatenante della Principessa Leilain pericolo) e nel fumetto “di genere” (avventura, fantasy, horror, fantascienza, etc.) – e ovviamentenel western.

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    Il rapimento di Ulceda da parte del viscidotraditore Kamiola (tav. VIII)

    La gelosia e l’odio, oltre all’avidità, portano l’infido Kamiola alla vile azione del rapimento: nell’ottavocapitolo (Verso il tesoro segreto) sequestra Ulceda e la conduce lontano dalle tende per farsi indicaredov’è nascosto l’oro della tribù, custodito dal Gran Falco, che evidentemente lo dispensa con un certaqual parsimonia. Entra ora in gioco il coltello sacro che il Gran Falco aveva donato a Vittorio:mostrandolo agli Owada ottiene la libertà, per sé e per i suoi compagni – così da partire per lemontagne all’inseguimento di Kamiola. Ecco dunque inserite altre costanti del western all’italiana, chespesso ama mischiare i generi, come abbiamo detto: il talismano invincibile, la religiosità magica deiPellerossa, il messaggio rivelatore (con il quale Ulceda mette sulle sue tracce i suoi salvatori) e ilfascino del tesoro celato. Si alzano potenti ricordi delle leggende e dei miti di Eldorado, delle SetteCittà di Cibola e – per rimanere in ambito europeo, dove la storia è stata pensata e realizzata –dell’Oro del Reno. Infine, ecco l’ennesimo cambio di panorama: abbiamo visto la foresta, la fattoria, laprateria, l’accampamento indigeno… Ora tocca alle montagne e alle caverne, che saranno leprotagoniste scenografiche assolute da qui fin quasi al termine dell’avventura.

    La gola fra le rocce, con i massi che bloccano i passaggi, con le pietre che cadono rischiando ditravolgere gli esploratori, fanno bella mostra di sé nel nono e nel decimo capitolo (rispettivamente Laterra trema e La terribile avventura di Kamoto); abbinando anche l’undicesimo episodio (La lottacontro i condor) assistiamo a emozionanti momenti di puro alpinismo, con le corde che dovrebberoservire per catturar vitelli usate per issarsi su spuntoni e vette rocciose. Simili situazioni, nel westernpiù puro, le ritroviamo solitamente nella Monument Valley o nel Grand Canyon. Il predatore alatoandino è una sorta di sostituto letterario dell’avvoltoio nordamericano, come abbiamo giàsottolineato; soprattutto nelle sue prime storie, Tex Willer ne fa fuori a centinaia a revolverate, perallontanarli dai cadaveri di malcapitati su cui si stavano abboffando. E lo stesso accade qui, conVittorio e Vico che, a furia di fucilate, impilano un bel mucchio di carcasse di tali pennuti.

    Arrampicate sulle rocce (in stile MonumentValley) e condor (che sostituiscono gliavvoltoi del western) nella tav. XI

    All’interno della lunghissima sequenza montana c’è una sorta di sottotraccia sotterranea, che partecon il dodicesimo capitolo, La porta nel macigno. Si entra così in uno degli aspetti più cupi del westernall’italiana (che G. L. Bonelli e seguaci rispolvereranno più volte, in futuro, a partire da quando, nellasaga texiana, debutta l’arcinemico Mefisto, amante dei foschi nascondigli). Nel ventre della terra è

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    come ritornare alle origini della vita. Viene subito in mente Viaggio al centro della Terra di Jules Verne.Sotto le rocce, inoltre, in una delle più straordinarie avventure della serie a fumetti “Blake &Mortimer” di E. P. Jacobs, capolavoro immortale della Linea Chiara franco-belga insieme al “Tintin” diHergé, i protagonisti viaggiano per cunicoli e grotte per numerose tavole, senza mai vedere la lucedel Sole e l’azzurro del cielo (L’enigma di Atlantide, 1957). La porta che chiude l’ingresso dellacamera del tesoro è un macigno cubico che si muove su cardini: un incredibile monolito che rimandaa ere lontane e che insieme a una lunga scalinata scolpita nelle rocce e alla botola lignea che copre iltesoro del Gran Falco fa pensare ad architetture concepite da avanzatissime, seppur perdute,popolazioni ancestrali. Davanti alle gemme preziose, Kamiola e Vittorio lottano (tredicesimo capitolo,Nel mistero della caverna), in uno scontro che per il momento vede l’eroe soccombere davanti almalfattore. Il traditore e ladro chiama l’avversario “maledetto bianco” e lo colpisce vigliaccamente alvolto con una torcia accesa, infuocata e fumante, mentre Vittorio, in quel momento, era armato solodella sua “avveniristica” lampadina a batteria.

    L’intreccio si complica con Il diabolico piano di Kamiola (XIV capitolo). Dopo il furto delle pietrepreziose, il giuda degli Owada, per intorbidire le acque contatta prima il Gran Falco e incolpa i bianchi– che avrebbero rapinato il tesoro indiano con la complicità di Ulceda. Poi si reca presso il comandantedei Regolari impegnati a reprimere le rivolte rosse e lo sguinzaglia sulle tracce del Gran Falco. Doppio,triplo gioco: un classico scenario del western fumettistico, e dell’avventura in genere. Il climaxdell’inganno, prima del chiarimento generale, viene raggiunto con il XV capitolo, La collera del GranFalco, ambientato nella camera del tesoro. Poi, nella puntata successiva (La caverna assediata) ilpiano di Kamiola crolla miseramente: il Gran Falco ritrova il giovane colono che l’aveva salvato dallapantera e capisce da uno sguardo che sua figlia non poteva averlo tradito. Tutto è spiegato! Ma comein ogni classica leggenda, ogni antico tesoro è vegliato da un drago invincibile. L’anima degli antichimostri uccisi dai cavalieri nelle saghe si manifesta sotto le spoglie di un gigantesco biscione (forse unanaconda, come avevamo accennato), che impegna duramente i Nostri per altre due tavole: La lottadel serpente (cap. XVII) e La gran porta di pietra (cap. XVIII).

    Il lato horror e macabro del westerfumettistico all’italiana: la lotta contro ipipistrelli-vampiro nel budello di roccesotterranee (tav. XIX)

    Il rettile non è l’unico mostro che gli eroi dovranno affrontare via via che si spingono più in fondo nelbudello pietroso, varcando tutta una serie di porte lapidee, nella speranza di sfuggire ai Regolari che libraccano. Nei capitoli XVIII e XIX (La battaglia contro i vampiri) appaiono infatti i giganteschi pipistrelliche si nutrono di sangue e che ben si sposano con le atmosfere da oltretomba della sequenza

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    sotterranea di Ulceda. Il vampiro zoologico, infine, rimanda immediatamente al mostro antropomorfodel folklore slavo e romeno, che ha nel “Dracula” di Bram Stoker il suo principale precursore letterarioe che nel 1931 era stato con grande successo riadattato per il grande schermo dal regista TodBrowning e dall’attore Bela Lugosi. Minacciosi e giganteschi chirotteri svolazzano un po’ dovunque nel“Tex” e nello “Zagor” bonelliano, nelle avventure dalle più forti tinte macabre.

    Con il ritorno della luce solare, i quattro capitoli da XX a XXIII (Il Gran Falco si cala nell’abisso, Il GranFalco e l’orso nero, La sorpresa dei regolari e I pellirosse alla riscossa) vedono come unicoprotagonista il capo indiano, che lotta, corre, e spara in gran solitario, mentre gli altri personaggi(Vittorio, Vico, Ulceda e Kamoto) attendono pazienti la salvezza su uno spuntone di roccia. È questopoker di tavole una sorta di avventura nell’avventura, anche qui molto innovativa: Guido Moroni Celsielegge come nuovo eroe della sua storia il fiero capo indiano il cui nome compariva dopotutto neltitolo, mentre la bella Ulceda (come una donnina d’altri tempi) rimane per tutta la storia silenziosa epassiva, pronunciando un’unica battuta (Mio padre!, esclama nel XVI capitolo). Fra gli elementistrettamente western di queste quattro settimane, troviamo il già menzionato grizzly nord-americano,il fumo che sale all’orizzonte di un bivacco (dei Regolari), l’inseguimento a cavallo con gran fracassodi fucili, il guado di un fiume, le grida di guerra indigene…

    Il XXIV e penultimo capitolo celebra La cattura di Kamiola, il traditore delle sue genti. Singolarmentesia il “quartier generale” del Gran Falco, sia quello delle truppe regolari brasiliane hanno un unicoaspetto: quello del fortino del Far West. E i comandanti dei Regolari, nella penultima vignetta dellatavola, sembra prioprio ufficiali dello US Army ottocentesco!

    Penultima tavola (XXIV): nelle singolaripraterie brasiliane di Moroni Celsi spuntano iclassici “fortini” del Far West, usati sia come“quartier generale” degli indiani del GranFalco (con tanto di tee-pee all’interno), siacome sede del comando dei Regolari (i cuiufficiali vestono con divise simili a quelledell’US Army dell’800)

    La storia si chiude con La condanna del perfido Kamiola (XXV capitolo), con un classico lieto fine, chesi distacca, per un certo suo romanticismo, dalla rudezza (quasi misogina) di tanti fumetti westernsuccessivi precedenti agli anni Sessanta. Il cattivo Kamiola viene condannato e esiliato in cima a unamontagna, con pochi viveri; Vittorio e Ulceda annunciano il loro matrimonio; il Gran Falco, come donodi nozze (non si capisce se già celebrate, in terra indiana, oppure no) regala ai due ragazzi alcunecasse di gemme preziose del tesoro tribale; infine, nell’ultima vignetta, i due fidanzatini (o sposi

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    novelli) salpano da Galveston verso l’Europa, per un lungo soggiorno nella grande Italia rinnovata.

    E qui chiudiamo il nostro tentativo analisi di questa affascinante storia degli anni Trenta. Sarebbe peròinteressante approfondire, in un futuro articolo, quello che è (in senso più strettamente tecnico) illinguaggio narrativo fumettistico di Ulceda. Vedremo!

    Francesco G. Manetti