Il Futuro Del Capitalismo

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capitalismo e postcapitalismo

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IL FUTURO DEL CAPITALISMO, ovvero la formazione di un mondo senza lavoro (produttivo) e le sue possibili conseguenze sull’organizzazione sociale Il capitalismo “nasce” con la rivoluzione industriale del XVIII secolo, ovvero con l’avvento delle macchine che, in sinergia con il lavoro umano, iniziarono a produrre enormi quantità di merci la cui produzione presupponeva l’esistenza di enormi capitali e l’utilizzo del lavoro umano dipendente (operaio) in quantità assai maggiori rispetto al passato (caratterizzato da un tipo di economia fondamentalmente domestica o basata comunque sulla piccola impresa artigiana). Per secoli tecnologia, ovvero avanzamento tecnologico costante, e capitalismo andarono a braccetto: il capitalista era colui che, possedendo enormi capitali e quindi potenti macchinari, e potendo inoltre (sempre grazie a tali capitali) pagare il lavoro di una consistente manodopera operaia, teneva le fila dell’aziende moderna. Quest’ultima, del resto, era in un sistema di mercato concorrenziale, in costante conflitto con le aziende omologhe (quelle che producevano merci analoghe) cui cercava di rubare fette di mercato rischiando allo stesso tempo di subire la stessa sorte ad opera loro. L’avanzamento tecnologico, cioè la ricerca di una sempre maggiore efficienza produttiva e conseguentemente di un sempre maggiore contenimento dei costi di produzione, era la chiave di volta (almeno nella maggior parte dei casi) della sopravvivenza della singola azienda nei marosi della lotta di mercato. Per questo il capitalismo è tra tutti i sistemi di organizzazione economica quello che maggiormente nel corso dei secoli ha stimolato (e ancora oggi stimola) l’avanzamento tecnico-produttivo. La società capitalista è una società costitutivamente di mercato e tecnocentrica, dove questo secondo attributo è il portato del primo, un suo inevitabile risultato. La razionalità economica derivante dalla natura concorrenziale dell’organizzazione produttiva si portava difatti dietro la razionalità tecnico-scientifica, come inevitabile conseguenza, in quanto strumento di estrinsecazione della prima. Questo discorso tuttavia, è solo una metà della medaglia. Le merci infatti, dopo essere state prodotte andavano vendute, pena il deficit finanziario dell’azienda produttrice (la sovrapproduzione e la conseguente perdita almeno di parte del danaro investito per sostenerla). La grande produzione d’altronde, costitutiva delle società industriali, si rivolge da sempre principalmente alle masse di cittadini e consumatori, ovvero alla parte ordinaria (se non povera) della popolazione. Da dove trae questa massa il reddito necessario ad acquistare quelle merci? Trattandosi di cittadini non ricchi, quindi di non capitalisti, in gran parte dal lavoro dipendente (operaio) e in una parte tendenzialmente decrescente dalla piccola impresa autonoma e artigiana (la produzione e in genere le imprese di piccolo cabotaggio infatti, tendono col tempo a scomparire). L’avanzamento tecnologico poi, ha reso sempre più superfluo il lavoro umano in campi specifici dell’economia creando così u tipo di disoccupazione (disoccupazione tecnologica) che andava poi a coprire nuove attività di carattere solitamente superiore (attività intellettuali o di concetto). Ciò ha determinato una ben nota e secolare tendenza che vede il lavoro produttivo grezzo sempre più in mano alle macchine (e a quegli sfortunati lavoratori, pur quantitativamente decrescenti, che con esse debbono interfacciarsi come sostegni passivi e semimeccanici) e gli uomini sempre più impegnati in attività intelligenti, capaci (si dice) di dare ad essi soddisfazioni morali e intellettuali. Come definire queste attività superiori? Spesso si definiscono terziarie, ma tale termine è molto vago. Direi che, dal mio punto di vista, andrebbe almeno spezzettato in due distinti significati: il terziario produttivo e quello improduttivo. Il primo, quello appunto produttivo, pone l’uomo come un prolungamento della macchina e delle attività delle aziende produttive in genere; il secondo no. 1) Esempio del primo tipo possono essere (a) le attività di progettazione dei macchinari, o di controllo e interazione con essi a un livello avanzato (che vada cioè al di là di quello del semplice operaio della catena di montaggio “fordista”, per intendersi); ma anche (b) le attività di contabilità, di gestione burocratica e amministrativa dell’impresa. In entrambi i casi si hanno attività intellettuali o comunque dipendenti per loro natura dall’uomo in quanto portatore di specifiche

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capacità di cui le macchine sono sprovviste, legate tuttavia a filo doppio alla produzione delle merci (che però appunto, sono sempre di più create in modo diretto dalle macchine, e sempre meno coinvolgono il lavoro degli uomini). Consideriamo poi che una gran parte delle attività economiche della società industriale moderna è legata alla distribuzione e alla commercializzazione delle merci prodotte, e che anche questo secondo tipo di attività è sempre più demandata alle macchine (ad esempio a mezzi di trasporto sempre più capienti e rapidi, richiedenti quindi sempre minore lavoro umano, ecc.) Queste attività sono a loro volta strettamente legate alla produzione (non si potrebbero infatti commercializzare merci che non fossero state prodotte in precedenza) e quindi, a buon titolo, sono a loro volta attività sotto o post produttive, come quelle analizzate in a e b. 2) Vi è poi un secondo tipo di terziario, che potremmo definire per molti versi creativo e voluttuario. In esso non si svolgono attività legate, seppure solo indirettamente, alla produzione e alla commercializzazione delle merci materiali, bensì attività o servizi puri, che prescindono perciò dal campo delle macchine. Un insegnante di yoga svolge un’attività che da benessere a persone stressate dalla frenesia del mondo occidentale, lo stesso si può dire di un insegnate di tennis, o di un qualsiasi individuo che svolga attività ricreative, esclusivo campo di competenza (almeno finora) dell’uomo e non della macchina. Ma anche un infermiere, pur svolgendo un lavoro per nulla voluttuario ma al contrario estremamente necessario, rientra in quest’ambito: quello cioè delle attività non produttive, né direttamente (operaio della catena di montaggio) né indirettamente (amministratore, ragioniere, trasportatore, venditore di merci, ecc.) Anche queste figure vendono qualcosa, ma non vendono servizi legati alla produzione di merci fisiche ma allo svolgimento di attività che, tendenzialmente, rientrano nell’ambito del benessere e dei servizi alle persone (abbiamo molti atri esempi in questo ambito: dal musicista alla guida turistica, al custode di museo, ecc.) Torniamo allora al punto precedente: da dove prende la gente il danaro necessario ad acquistare le merci che vengono prodotte industrialmente (alimenti, tecnologia, vestiti, abitazioni, ecc.)? E tale domanda va posta specificamente in relazione a un’economia sempre più automatizzata, quale quella in cui ci troviamo a vivere. Possiamo dire che, col tempo, anche il terziario “produttivo” di cui si è parlato sopra tenda a essere preso sempre di più in carico dalle macchine, in quanto queste divengono col tempo e l’avanzamento tecnico sempre più capaci di pensiero autonomo (per dare un’idea di quel che voglio dire, posso dire che esistono oggi calcolatori in grado di orientare il lavoro della polizia maggiormente in determinate zone della città piuttosto che in altre, sulla base di calcoli statistici e di altri dati… esistono poi, come tutti sanno, software sempre più complessi ed efficienti per la contabilità aziendale, la gestione del personale, ecc.) In tutti i campi del terziario di servizio insomma, il lavoro umano tende a essere rimpiazzato dall’automazione. Restano chiaramente dei campi di altissimo profilo (ad esempio l’invenzione e la progettazione di nuove macchine) in cui l’uomo non può essere sostituito (per ora dalle macchine stesse, anche se senza dubbio è sempre più coadiuvato da esse anche in tali tipi di attività. Ma queste ultime sono chiaramente retaggio di una parte esigua dell’umanità, e ciò anche con un certo vantaggio sociale perché, se così non fosse, l’avanzamento tecnologico (e il conseguente processo di obsolescenza del lavoro umano) subirebbe un’ulteriore accelerazione. Quel che resta sempre di più nelle mani dell’uomo è dunque il campo delle attività improduttive, quantomeno improduttive di beni materiali (cibo, vestiti, automobili, telefonini, computer, ecc.) L’unico orizzonte del lavoro umano si prospetta quello del terziario puramente improduttivo o produttivo di servizi alla persona. Ora, considerando che la capacità della società di assorbire questo tipo di attività è strutturalmente limitata, anche considerando che esse col tempo possano crescere in modo considerevole (sempre più gente farà corsi di yoga, di tennis, di magia nera, di rampicata, ecc.; sempre più persone avranno

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bisogno di medici e infermieri a causa della crescita degli anziani, delle persone che si sottopongono a interventi chirurgici, ecc.), quali lavoro rimarranno in futuro capaci di creare reddito da lavoro e quindi spesa? Consideriamo poi che tale spesa dovrà sostenere sia queste attività improduttive, che cresceranno esponenzialmente, sia la produzione delle merci materiali (il cui prezzo però, tenderà a decrescere con l’avanzare della tecnologia e quindi dell’efficienza produttiva). Il rischio in una società sempre più automatizzata insomma, è che la graduale scomparsa del lavoro produttivo comporti quella del reddito da lavoro e quindi, stante il fatto che il danaro si guadagna principalmente attraverso il lavoro, della capacità di spesa complessiva della società, con ricadute a cascata sulla produzione stessa che, come si è detto e come ovvio, è sostenuta in ultima analisi proprio dalla spesa finale dei consumatori. Meno lavoratori significa infatti meno spesa, sia perché vi sarebbero sempre più poveri, sia perché i ricchi, per quanto consumistico possa essere il loro stile di vita, non potrebbero essere motivati ad acquistare un numero sufficiente di merci a sostenere una produzione costantemente in aumento. Si dirà, giustamente, che esiste in ogni caso la possibilità di inventare sempre nuovi mestieri, fonte di reddito alternativo rispetto a quelli tradizionali (agricoli, industriali, terziari in ambito produttivo). È dubbio tuttavia che tali nuovi mestieri possano bastare a colmare l’enorme vuoto creato dalla scomparsa dei precedenti. Ovviamente i meccanismi da me qui citati sono stati delineati in modo molto sommario, e non è necessario dire che – soprattutto sul piano teorico – richiederebbero un’analisi logica molto più serrata ed avanzata. Ad esempio, si potrebbe obbiettare che in una società in cui solo le macchine bastassero a produrre tutti i beni, tali beni non dovrebbero avere alcun prezzo (poiché il costo produttivo è in ultima analisi legato al lavoro umano, quantomeno in massima parte). Se le macchine fossero in grado di riprodursi e mantenersi autonomamente le merci da esse prodotte non avrebbero pressoché nessun costo, dal momento che le macchine non esigono un compenso per il loro lavoro. Il costo ultimo della produzione (se si eccettua quello legato a materie prime scarse e quindi intrinsecamente preziose) dipende alla fine dal fatto che in essa sono sempre implicate delle persone, che esigono un compenso sia per ragioni morali che materiali (poter acquistare merci disponibili sul mercato). Del pari, se solo per assurdo, dieci persone svolgessero impieghi produttivi, la loro retribuzione dovrebbe bastare ad acquistare la quasi totalità delle merci prodotte, per quanto grande essa potesse essere. (E dico quasi perché il costo produttivo, derivante dal lavoro umano, è sempre inferiore al prezzo delle merci al consumo, dal momento che l’azienda deve guadagnare qualcosa su ogni pezzo prodotto e venduto). Ma anche se, per continuare questo esempio per assurdo, dieci persone fossero all’origine dell’intera produzione mondiale, per il resto interamente demandata alle macchine che non hanno costi (poiché si mantengono da sole, senza chiedere nulla in cambio!), avrebbe senso credere che tali dieci persone potrebbero acquistare per sé e per i propri cari ed amici l’intera o quasi produzione mondiale. Il problema della sovrapproduzione quindi, da qualsiasi parte e in qualsiasi modo lo si voglia rigirare, ritorna. E ritorna sempre la considerazione per cui solo un mondo in cui crescessero a dismisura le attività improduttive come fonte di guadagno, sarebbe possibile dare a ciascuno (o comunque a una parte consistente della popolazione) un reddito da lavoro necessario da una parte a dargli l’accesso all’acquisto delle merci (compresi i beni di prima necessità) e dall’altra a sostenere la produzione stessa (la quale, se cadesse in picchiata, comporterebbe tra l’altro fallimenti aziendali e la perdita di posti di lavoro produttivi). Esiste un’alternativa a questo macello, a questa macelleria sociale, a questo collasso di ogni buon senso? Certamente esiste, anzi ne esiste più di una, ma è necessario avere il coraggio di percorrerla. Le ipotesi che mi sovvengono sono due.

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1) La prima è che, pur restando in un’economia concorrenziale e di mercato, a ogni cittadino sia riconosciuto un reddito sociale, in qualità cioè di cittadino o membro di una comunità. In questo modo egli potrebbe mantenere se stesso e mantenere la produzione industriale, ammesso che non avesse trovato attività remunerative (le famose attività terziarie improduttive) alternative a quelle classiche. Saremmo ancora in un regime di libero mercato, ma tendente non più (come ai tempi di Maynard Keynes, che sosteneva che lo stato dovesse finanziare la produzione per sostenere l’occupazione e con essa la spesa finale o domanda aggregata) alla piena occupazione, bensì al contrario alla piena inoccupazione. Ovviamente qualcuno continuerebbe a lavorare (il lavoro umano difatti non è affatto scomparso né ciò avverrà a breve, seppure avverrà; è tuttavia un fatto che esso tenda sempre più a scomparire. E proprio per questo dobbiamo pensare a un’organizzazione sociale capace di fronteggiare una crescente disoccupazione strutturale!) Al che potrebbe darsi che i lavoratori effettivi godrebbero di vantaggi morali e materiali rispetto ai non lavoratori, in quanto mantenuti dalla comunità. Oppure si potrebbe cercare di seguire il principio di “lavorare tutti ma lavorare meno”, laddove almeno esso fosse possibile (non tutte le attività umane sono difatti spezzettabili tra vari soggetti, soprattutto in un mondo in cui il lavoro umano, per continuare ad esistere, tende a divenire sempre più complesso e specialistico). 2) La seconda alternativa sarebbe quella, ancora più radicale, di uscire dall’economia di mercato, almeno come istituzione economica prevalente. La società, lo stato, dovrebbe allora pianificare la quantità e i tempi di produzione delle merci necessarie alla società, decidendo chi – tra la popolazione – dovrebbe svolgere le attività produttive ancora esistenti e necessarie. Questo comporterebbe tuttavia lo svantaggio di far ripiombare la società in una condizione di dipendenza passiva dalle élite dominanti, cui sarebbero demandate appunto le scelte di politica economica e indirettamente la vita stessa della società. Si ritornerebbe cioè a una società dispotica e autoritaria, governata (come nelle migliori tradizioni asiatiche) da una ristretta cerchia di tecnocrati. Al contrario una società fondata sul libero incontro di domanda e offerta, seppure con una ristrutturazione del reddito in quanto non più derivante dal lavoro, sarebbe forse più efficiente nell’intercettare e dare risposta alle effettive esigenze sociali (la domanda effettiva) e sarebbe pur sempre più democratica e libertaria. Il futuro è aperto, non è già scritto. Ma è necessario acquisire la consapevolezza dei cambiamenti in atto, nello specifico del fatto che in futuro le società umane, stante un avanzamento costante delle proprie capacità tecnologiche, avranno sempre meno bisogno dell’apporto del lavoro umano e che quindi l’antico circolo lavoro->salario->spesa (che sostiene la produzione e quindi il lavoro…) sarà sempre meno possibile come base stessa dell’organizzazione socio-economica. Se non si correrà ai ripari, sarà allora inevitabile una catastrofe sia sul piano sociale (disoccupazione e povertà) sia sul piano del funzionamento dell’economia di mercato (sovrapproduzione e crisi aziendali costanti). Oggi più che mai, e in futuro ancora di più, si dimostrerà vera l’intuizione di Keynes: la società liberale di mercato non necessariamente è in grado di autoregolarsi, spesso al contrario ha bisogno per sopravvivere dell’intervento della società civile, delle istituzioni e dello stato in qualità di riequilibratori degli scompensi che essa stessa crea al proprio interno.