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Ramón José Sender Il Funerale di Paco Titolo originale dell'opera Réquiem por un campesino español Traduzione Giuseppe Punzo Dattilografato in proprio Roma 2005

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Ramón José Sender

Il Funerale di

Paco

Titolo originale dell'opera

Réquiem por un campesino español

Traduzione

Giuseppe Punzo

Dattilografato in proprio

Roma 2005

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Cap.1

Il curato era lì che attendeva seduto su una

poltrona, con la testa inclinata sulla pianeta nera,

proprio quella che si usa per i funerali.

La sagrestia profumava di incenso. In un angolo

c'era un fascio di rametti di ulivo che erano avanzati

alla cerimonia della domenica delle Palme, le cui

foglie, ormai secche, sembravano di metallo. Quando

Don Mosè Millan passava nei pressi, cercava di non

sfiorarli nemmeno, per paura che le foglie si

staccassero e cadessero al suolo.

Il chierichetto andava su e giù con la sua

tunichetta bianca.

Nella sagrestia c'erano due finestre che si

affacciavano sul piccolo orto della parrocchia e

attraverso i vetri arrivavano i rumori di normali

attività: qualcuno che stava spazzando con tanta furia

che si sentiva lo stridio della scopa sui sassi. E poi

una voce che urlava: - Maria, Marietta!

Vicino ad una delle finestre, che era socchiusa,

una cavalletta imbrigliata tra i rami di un arbusto, si

agitava disperatamente cercando di mettersi in salvo.

Più lontano, verso la piazza, nitriva un puledro.

- Questo - pensò Don Mosè - deve essere il

puledro di Paco, quello del Mulino che, come al

solito, gironzola per il paese, libero e indisturbato.

Nel pensiero del curato, quel puledro libero per

le strade del paese, gli faceva venire in mente la

figura di Paco e gli ricordava costantemente la sua

disgrazia.

Con i gomiti appoggiati sui braccioli della

poltrona e le mani incrociate sulla pianeta nera con

bordi d'oro, continuava a recitare le sue preghiere.

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Erano ormai cinquantuno anni che ripeteva le

stesse orazioni, per cui si era creato un sorta di

automatismo che gli permetteva di avere il pensiero

altrove, mentre continuava a pregare.

La sua immaginazione, ora, errava per le strade

del paese, sperando che i parenti del defunto

arrivassero da un momento all'altro. Era sicuro che

sarebbero venuti; non ne potevano fare a meno,

perché si trattava di un funerale, ancorché egli si

accingeva a celebrarlo senza che nessuno glielo

avesse ordinato.

Don Mosè sperava che venissero non solo i

parenti, ma anche gli amici del defunto; ma su questo

pensiero ebbe qualche dubbio.

Quasi tutti gli abitanti del villaggio erano stati

amici di Paco, anche se le famiglie più potenti, come

quelle di don Valeriano e don Gumersindo, non lo

erano.

C'era anche una terza famiglia ricca, quella del

signor Càstulo Perez; quella, però, non si poteva

considerare né amica né nemica.

Il chierichetto era entrato nella sagrestia, aveva

preso una campanella che era in un angolo e, tenendo

fermo il batacchio perché non suonasse, stava per

uscire, quando Don Mosè gli chiese:

- Sono venuti i parenti?

- Quali parenti? - chiese il chierichetto.

- Non essere sciocco! Non ti ricordi di Paco,

quello del Mulino?

- Ah! si, signore. Però non vedo ancora nessuno

nella Chiesa.

Il ragazzo uscì di nuovo sull'abside, riflettendo

sul nome di Paco del Mulino. Certo che lo ricordava:

lo aveva visto morire! Ricordava anche che alla sua

morte la gente, in maniera spontanea ed anonima,

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aveva creato una canzonetta, di cui egli conosceva

solo alcuni versi:

Questi è Paco del mulino,

già da tutti condannato;

ora piangono il destino

che ne ha fatto un disgraziato.

In verità, la gente non aveva pianto affatto. E

nemmeno lui, il chierichetto, aveva pianto.

Ora andava dicendo tra sé: " Lo vidi insieme con

gli altri, dalla vettura del signor Càstulo. Io portavo la

borsa con l'Olio Santo per l'Estrema Unzione, perché

Don Mosè potesse ungergli i piedi, come faceva con

gli altri".

Il chierichetto andava su e giù per la sagrestia e,

mentre continuava a recitare sottovoce la canzone di

Paco, senza accorgersene, muoveva i suoi passi al

ritmo della canzone:

Giunti al muro, lo ha fermato

Quel centurione odiato

La leggenda del centurione, poi, sembrava al

chierichetto un riferimento ai riti della Settimana

Santa, al passaggio che ricorda l'orazione nell'orto.

Ora, dalla finestra entrava nella sagrestia un

odore di erba bruciata. Don Mosè, senza interrompere

le sue orazioni, percepì questo odore come nostalgico

ricordo della sua giovinezza.. Egli era ormai vecchio,

ripeteva a se stesso, e stava raggiungendo l'età in cui

nemmeno il sale ha più sapore, come dice la Bibbia.

E, intanto, continuava a biascicare tra i denti le

sue preghiere, tenendo la testa appoggiata al muro,

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sempre nello stesso posto dove, col tempo, si era

formata una macchia di unto di colore scuro.

Il chierichetto entrava ed usciva dalla sagrestia,

ora con il bastone per accendere i ceri, ora con le

ampolline, ora con il messale.

Don Mosè continuava a chiedere:

- C'è gente in Chiesa?

- No, signore.

Il curato ripeteva tra sé:

- In fondo, è ancora presto. Inoltre, i contadini

non hanno ancora terminato la trebbiatura. Però, la

famiglia del defunto non può mancare.

Le campane continuavano a diffondere i loro

rintocchi che, per i funerali, sono lenti, distanziati e

gravi.

Don Mosè allungava i piedi sul tappeto di sparto

e le punte delle scarpe gli sporgevano fuori dall'Alba

e si notava che quel camice bianco era un po'

sfilacciato sul bordo. Le scarpe mostravano la suola

consumata sul lato di appoggio del piede quando si

cammina. Il curato vedendole pensò:

- Debbo mandarle dal ciabattino.

Gli venne in mente che l'attuale ciabattino era

arrivato al villaggio da poco tempo; che quello di

prima non andava mai a Messa, però lavorava bene e

gli praticava anche un piccolo sconto.

Il vecchio ciabattino e Paco del Mulino erano

stati molto amici.

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Cap. 2

Don Mosè rivisse il giorno in cui aveva

battezzato Paco, in quella stessa Chiesa.

La giornata si era presentata fredda ma limpida,

con una di quelle mattinate in cui la ghiaia del fiume,

che era stata sparsa nella piazza in occasione del

Corpus Domini, scricchiolava sotto i piedi per il

freddo.

Il bambino, avvolto in un bel completino bianco,

ricoperto da un manto di raso anche bianco, ricamato

con la seta dello stesso colore, era portato in braccio

dalla madrina.

Il lusso dei contadini di solito è riservato alle

cerimonie sacre.

Quando il battesimando entrò in Chiesa, le

campane più piccole avevano iniziato a suonare

allegramente, e da quel suono si potette capire che era

un bambino e non una bambina. Le campane avevano

un tono più alto ed uno più basso: quando annunciano

il battesimo di un maschietto, dicevano: - No es nena,

màs es nen - Per una feminuccia, i toni si invertono e

si poteva ascoltare il suono che diceva: No es nen,

màs es nena.

Queste parole sono in lingua catalana, già che la

storia si svolge in un villaggio della Catalogna, nei

dintorni di Lerida.

Quando il bambino entrò in Chiesa, nella piazza,

come al solito, esplose un gran vociare di giovani e

ragazzi. Il padrino aveva portato con sé una busta di

carta piena di confetti e caramelle; sapeva che se non

l'avesse fatto, i ragazzi avrebbero ricevuto il bambino

con grida e cori sprezzanti e forti allusioni ai

pannolini bagnati.

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Si poteva udire il rumore dei confetti che

battevano contro le porte e le finestre e, a volte, anche

sulla testa dei ragazzi che, in quella occasione, non

perdevano il tempo a lamentarsi.

Mentre le campane continuavano il loro

annuncio bitonale, i contadini entravano in Chiesa,

dove Don Mosè li aspettava, già pronto con i

paramenti della cerimonia.

Il curato serbava un particolare ricordo di quel

battesimo tra i tanti che aveva officiato, perché era il

battesimo di Paco, quello del Mulino.

Ricordava che alcune persone erano vestite a

lutto e si comportavano con un certo contegno. Le

donne avevano una mantiglia oppure un mantello

nero; gli uomini, la camicia inamidata. Nella

cappella, la pila battesimale suggeriva antichi misteri.

Don Mosè era stato invitato a pranzo dalla

famiglia. Non c'erano stati grandi sfarzi perché le

cerimonie d'inverno sono di solito meno festose e

fastose che quelle d'estate.

Ricordava che su di una tavola c'era un pacco di

candele contorte ed ornate e, in un angolo della

stanza, la culla del bambino.

Ad un lato della culla la madre, che aveva la

testa piuttosto piccola ed un petto opulento: aveva la

maestosa serenità delle partorienti. Il padre si

occupava degli amici. Uno di costoro, avvicinatosi

alla culla, chiese:

- E' figlio tuo?

- Beh!, non lo so, rispose il padre supponendo,

con tranquilla ironia, l'ovvietà della risposta.

Certamente, è di mia moglie.-

Nella stanza esplose una grande risata.

Don Mosè, che stava leggendo il suo breviario,

alzò la testa e disse:

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- Andiamo! Non essere volgare. Che vuoi dire

con queste stupidate?

Anche le donne ridevano, specialmente la

Jeronima, mammana e all'occorrenza curatrice, che in

quel momento stava portando alla madre una tazzina

di brodo di gallina ed un bicchiere di vino moscatello.

Accudita la madre, si fermò presso il bambino e

gli cambiò la fasciatura del cordone ombelicale. E,

alludendo ai suoi attributi, esclamò:

- Che bel maschietto! A lui nessuna ragazza

negherà mai un ballo.

La madrina fece notare che il bambino, durante

il battesimo, aveva cacciato fuori la lingua per leccare

il sale e da questo deduceva che, da grande, avrebbe

avuto fortuna con le donne.

Il padre andava su e giù per la stanza; di tanto in

tanto si fermava a guardare il neonato, riflettendo a

mezza voce:

- Guarda un po' che cosa è la vita: finché non era

nato questo bimbo, io ero solamente il figlio di mio

padre; ora sono diventato il padre di mio figlio.

Poi, alzando la voce, aggiunse:

- Il mondo è rotondo. E gira.

Don Mosè era certo che a pranzo avrebbero

servito le pernici con la salsa piccante: in quella casa

le offrivano spesso. E quando aveva sentito nell'aria il

loro profumo, si era alzato, si era avvicinato alla

culla, aveva preso dal suo breviario un piccolo

scapolare e lo aveva collocato sotto il cuscino del

bambino; mentre guardava il bimbo, non smetteva di

pregare:

Ad perpetuam rei memoriam.

Sembrava che il bambino si accorgesse di essere

al centro dell'attenzione e, mezzo addormentato,

sorrideva.

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Il curato, appartatosi in un angolo, aveva pensato

a voce alta:

- Di che cosa può sorridere?

La Jeronima intervenne commentando:

- Sta sognando! Sogna un fiume di lattuccio

caldo

Il diminutivo della parola latte suonava un po'

strano; però, tutto quello che diceva la Jeronima era

sempre un po' strano.

Quando furono arrivati anche i ritardatari, si

cominciò a mangiare.

Il padre, felice, occupò uno de capotavola. La

nonna, indicando l'altro capotavola, si rivolse al

curato e disse:

- E qui, l'altro padre, don Mosè Millan.

Il curato aggiunse, giustificando il ragionamento

della nonna, che quel bambino era nato due volte: una

al mondo, l'altra alla Chiesa. E di questa seconda

nascita il parroco doveva essere considerato

certamente come un secondo padre.

Don Mosè prendeva poco cibo nel piatto, perché

attendeva il momento delle pernici.

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Cap. 3

Dopo ventisei anni ricordava ancora quelle

pernici: ne aveva percepito il profumo già prima della

Messa, quando era ancora digiuno: l'aglio soffritto,

l'aceto, l'olio di oliva. Ma ora cercava di rimuovere

per il momento quel ricordo; e si mise ad ascoltare le

campane.

Il chierichetto, che non conosceva tutto il

romanzo di Paco, se ne stava lì sulla porta, con un

dito piegato fra i denti, cercando di ricordare la

canzone:

Se lo portano i soldati,

con i polsi ammanettati.

Il chierichetto, però, ricordava la scena: era stata

sanguinosa e piena di spari. Il curato continuava a

fantasticare nel ricordo di quel battesimo, mentre il

chierichetto, tanto per dire qualcosa, ripeteva al

curato:

- Non so che cosa succede, ma oggi nessuno ha

voglia di venire in Chiesa.

Egli aveva imposto l'Olio Santo sulla nuca del

bambino, quella nuca tenera che formava due piccole

rughe all'altezza della spalla.

Ed ora, pensava, quella nuca è già sotto terra,

polvere nella polvere!

Quel giorno erano tutti felici, soprattutto il

padre; ma si poteva notare che il bambino aveva una

espressione come se fosse poco serena. Nulla è più

misterioso di un neonato!

Don Mosè ricordava pure che quella famiglia

non era stata mai molto devota; però adempiva i suoi

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doveri verso la Chiesa e conservava la buona

abitudine di dare, ogni anno in agosto, due offerte alla

parrocchia: un po' di lana delle sue pecore ed una

misura di grano.

Il curato pensava che questi doni erano più il

frutto della tradizione che della devozione familiare;

però li facevano.

Quanto alla Jeronima, ella sapeva che il parroco

non la vedeva di buon occhio. Spesso gettava

scompiglio nelle placide acque del villaggio, sia a

causa del suo lavoro, sia per i suoi pettegolezzi o,

come preferiva dire lei, le sue chiacchiere.

Qualche volta recitava strane preghiere per

allontanare la grandine o per evitare le inondazioni,

preghiere che terminavano sempre allo stesso modo:

"Tu che sei santo, giusto ed immortale

liberaci, o Signore da ogni male."

Vi aggiungeva, inoltre, una frase in latino -

almeno così diceva lei - che il parroco non fu mai in

grado di decifrare, ma che gli suonava come oscena.

Ella lo faceva innocentemente; e quando il parroco le

domandava dove aveva trovato quel latinorum

incomprensibile, rispondeva di averlo ereditato da sua

nonna.

Don Mosè era sicuro che se si fosse avvicinato

alla culla del bambino ed avesse guardato sotto il

cuscino, avrebbe certamente trovato qualche amuleto.

La Jeronima era solita usare sempre gli stessi

portafortuna: se si trattava di un maschietto,

sistemava a croce una piccola forbice, che serviva a

proteggerlo dalle ferite - ella diceva - dalla crudeltà

delle armi da taglio; le femminucce venivano

gratificate con una rosa, che ella stessa aveva seccato

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alla luce della luna, che serviva a darle bellezza ed a

proteggerla dalle mestruazioni difficili.

Un giorno successe un fatto curioso che,

segretamente, piacque molto al curato. Il medico del

villaggio, un uomo molto giovane, fu chiamato per

una visita. Egli entrò, salutò tutti, si tolse gli occhiali

per pulirli, già che si erano appannati entrando in

casa, e si diresse verso la culla.

Quando ebbe terminata la visita, disse alla

Jeronima con un tono molto serio, di non toccare

l'ombelico del bambino, nemmeno per cambiargli la

fasciatura.

A parte il tono serio della ramanzina, ciò che

dispiacque alla Jeronima era che questa fu fatta in

pubblico, davanti a tutti; la sentirono perfino quelli

che stavano in cucina.

Come era prevedibile, appena il medico andò

via, la Jeronima cominciò a sfogarsi. Disse che i

medici anziani non avevano avuto mai niente da

ridire del suo operato; che questo giovincello credeva

di sapere tutto lui. Dimmi chi credi di essere e ti dirò

che ti manca. Quel medico aveva certo più

prosopopea che scienza.

Poi cominciò a porre zizzania fra lui ed i mariti.

Non avevano visto come era solito entrare nelle case,

impetuosamente, senza neanche bussare? E che,

appena entrato, andava dritto verso la camera da letto,

anche se la donna stava ancora vestendosi? Più di una

era stata sorpresa in sottoveste o in corsetto. E che

facevano quelle poverine? Nulla. O gridavano o si

rifugiavano in un'altra stanza. Era questa la maniera

di comportarsi di un uomo celibe e senza riguardo?

Così era quel medico!

La Jeronima continuava a parlare, ma gli uomini

non l'ascoltavano nemmeno. Alla fine intervenne Don

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Mosè: - Ma sta zitta, Jeronima! Un medico è un

medico!

I contadini continuavano a parlare del loro

lavoro: il grano accestiva bene; i semenzai ed i

piantonai degli ortaggi presentavano una buona

vegetazione. Per come stava andando il tempo, nella

prossima primavera sarebbe stata una delizia

seminare lattughe e meloni.

Il curato, quando si accorse che la discussione

stava languendo, intervenne cominciando a parlare

male della superstizione: la Jeronima ascoltava in

silenzio.

Il curato diceva che le cose più gravi avvenivano

proprio nelle campagne. Che ora, la nascita di questo

bambino rallegrava la Chiesa, tanto quanto gli stessi

genitori; che bisognava allontanare da lui le

superstizioni, che sono cose del demonio e che

potrebbero danneggiarlo nel futuro. Ed aggiunse che

il bambino poteva diventare un nuovo Saul per la

Cristianità.

- Voglio soltanto che apprenda bene a vestire i

pantaloni, disse il padre; e che, con un

buoninsegnamento, possa diventare capomastro.

La Jeronima sorridendo ironica nei confronti del

curato, disse:

- Il bambino sarà quello che sarà; ma non sarà

certamente un prete.

Mosè Millan, un po' sorpreso le rispose:

- Quanto sei cattiva, Jeronima.

In quel momento venne qualcuno a chiedere

della curatrice. E quando la Jeronima fu uscita, il

parroco si avvicinò alla culla e, sollevando il cuscino,

trovò una piccola chiave ed un chiodo sistemati a

forma di croce. Prese i due oggetti, li consegnò al

padre e disse:

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- Vedi?

E si mise a recitare una preghiera.

Dopo, riprendendo il discorso, ripeté che, se pure

il piccolo Paco fosse diventato un capomastro, era pur

sempre un suo figlio spirituale e, pertanto, doveva

egli badare alla salvezza della sua anima. Egli sapeva

che le sciocchezze dalla Jeronima non potevano fare

alcun male; ma nemmeno facevano bene.

Erano passati degli anni, Paquito crebbe e

diventò Paco, raggiunse l'età della leva, infine era

morto; ed ora, che il parroco stava per celebrare una

Messa in suffragio della sua anima, la Jeronima era

ancora viva, sebbene fosse tanto vecchia che ormai

sparlava e nessuno le dava più credito.

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Cap. 4

Il chierichetto stava sempre sulla porta della

sagrestia e ogni tanto si affacciava fuori per vedere se

veniva qualcuno. Ma la risposta era sempre la stessa:

- Non è venuto ancora nessuno.-

Il parroco, aggrottando le sopracciglia, pensò:- Non

capisco! Tutto il villaggio voleva bene a Paco, tranne

don Valeriano e don Gumersindo; a volte anche il

signor Càstulo Perez, per quanto dei sentimenti di

costui nessuno poteva essere certo.

Il chierichetto, tanto per fare qualcosa, ripeteva

qualche verso della canzone:

La luce camminava per il monte

e l'ombra si perdeva all'orizzonte.

Il parroco, sempre nell'attesa, socchiuse gli occhi

e ripescò altri ricordi dell'infanzia di Paco. Egli

voleva bene al ragazzo; ed anche il ragazzo gliene

voleva: i bambini e gli animali amano sempre chi

vuole loro del bene.

A sei anni Paco fece la prima scappatella: si unì

con altri giovinastri per entrare di nascosto nelle

cucine dei vicini. I contadini lo sapevano, ma

facevano finta di niente, fedeli al loro vecchio

proverbio, secondo il quale al figlio del vicino

puliscigli il naso e fallo entrare in casa.

A poco più di sei anni, andò a scuola per la

prima volta.

Siccome la canonica era lì sulla strada, a due

passi, il ragazzo ogni tanto vi si fermava per salutare

il parroco.

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Il fatto che vi andasse di sua volontà

commuoveva il curato, che lo gratificava regalandogli

figurine colorate di santi.

A volte, uscendo dalla canonica, il ragazzo

incontrava il ciabattino che gli diceva:

- Vedo che sei diventato amico del parroco.

- Perché lei non lo è? - domandava a sua volta il

ragazzo.

- Oh! si, diceva evasivamente il ciabattino. I

preti sono persone che si assumono più responsabilità

degli altri, pur di non lavorare. Ma Don Mosè è un

santo.

Il tono di quell'ultima affermazione era così

esagerato che nessuno poteva pensare che egli stesse

parlando sul serio.

Il piccolo Paco stava intanto facendo le sue

prime scoperte. Un giorno nella canonica vedendo il

curato che si cambiava d'abito, scoprì che questi sotto

la tunica portava i pantaloni; ne restò sorpreso, senza

sapere che cosa pensare.

Quando Don Mosè incontrava il padre di Paco,

gli chiedeva del piccolo, usando sempre espressioni

lusinghiere:

- Dov'è l'erede?-

Il padre di Paco aveva un cane magro, con un

brutto aspetto e del quale aveva poca cura.

I lavoratori trattano, in genere, i loro cani con

indifferenza e, a volte, con crudeltà; e questa è

certamente la ragione per cui i cani li adorano.

A volte, questo cane accompagnava Paco a

scuola; gli camminava a lato, senza mostrare né

sottomissione né allegria: lo proteggeva solo con la

sua presenza.

Vi fu un tempo in cui Paco era molto

preoccupato, perché cercava di convincere il cane che

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anche il gatto aveva il diritto di vivere. Il cane,

ovviamente, non era di questo avviso, così che per il

povero gatto non c'era stato altro rimedio che

scappare in campagna.

Paco avrebbe voluto recuperarlo, ma il padre gli

disse che sarebbe stata una fatica inutile:

- Probabilmente qualche animale selvaggio l'ha

già ucciso. Per esempio i gufi, i quali non tollerano

che per la campagna circolino animali capaci di

vedere nel buio come loro. Perciò perseguitano i gatti,

li uccidono e se li mangiano.-

Da quando Paco ebbe conosciuto questo segreto,

le sue notti furono colme di un misterioso terrore;

quando andava a letto aguzzava sempre l'udito per

sentire i rumori che provenivano dall'oscurità.

Se la notte è il tempo dei gufi, il giorno lo è per i

ragazzi. e Paco era già abbastanza ribelle all'età di

sette anni. Ma le sue preoccupazioni e le sue paure

notturne non gli impedivano di litigare con i suoi

compagni quando usciva dalla scuola.

In quel periodo, Paco era una specie di

chierichetto ausiliare, un supplente.

Fra i tesori dei ragazzi del villaggio c'era un

vecchio revolver che tutti loro volevano possedere; e

se lo passavano di mano con tanta frequenza, che

nessuno riusciva a tenerlo più di una settimana.

Quando veniva il turno di Paco, o perché gli era

capitato in sorte, o perché l'aveva vinto al gioco, lo

portava sempre con sé, anche quando andava a servire

la Messa.

Un giorno, mentre stava portando il messale da

un lato all'altro dell'altare, facendo la genuflessione,

l'arma gli scivolò e cadde sul gradino di legno

dell'altare, facendo un grande rumore.

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Per un attimo l'arma restò lì; ma subito i due

chierichetti si tuffarono su di essa per

impadronirsene. Paco spinse via l'altro e si riprese il

suo revolver; poi si sollevò la sottana, assicurò l'arma

nella cintura dei pantaloni e si ricompose giusto in

tempo per rispondere al sacerdote:

- Et cum spiritu tuo.

Terminata la Messa, Don Mosè chiese a Paco

una spiegazione: lo rimproverò e gli chiese di

rendergli il revolver; ma Paco lo aveva già nascosto

dietro l'altare. Il prete lo perquisì per bene, ma non

trovò niente, mentre il ragazzo si limitò negare ogni

cosa. Nemmeno i boia della Santa Inquisizione

sarebbero stati capaci di fargli dire qualcosa.

Alla fine, il prete, ormai esausto, gli chiese:

- Paco, ma perché vuoi questo revolver? Hai

forse l'intenzione di uccidere qualcuno?

- Nessuno. Lo porto io per evitare che lo tengano

gli altri che sono peggiori di me.-

Questa scusa spaventò il curato. Egli si

interessava a Paco perché sapeva che i genitori erano

poco religiosi; sperava che attraendo il ragazzo,

potesse portare in Chiesa tutta la famiglia.

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Cap. 5

Quando Paco compì sette anni, arrivò nel

villaggio il vescovo per le cresime. La figura del

prelato, anziano, alto, con i capelli bianchi,

impressionò molto il ragazzo: quella mitra ornata di

pietre preziose, quel piviale scintillante e quel bastone

dorato gli davano l’idea approssimata di come doveva

essere nel cielo il Padreterno.

Dopo la funzione, i cresimati incontrarono il

Vescovo nella sagrestia.

- Chi è questo monello? chiese il vescovo,

rivolto a Paco.

- Paco, Signore, per servire a Dio e a vostra

Signoria.

Al ragazzo erano state suggerite previamente

certe risposte. Comunque, il vescovo continuò

amabilmente ad interrogarlo:

- Che cosa vuoi diventare da grande? Un prete?

- No, Signore.

- Allora un generale?

- No, Signore, nemmeno. Io voglio diventare un

lavoratore, come è mio padre.

Il vescovo, vedendo che Paco gli teneva testa,

continuò:

- E comprarti tre pariglia di muli e con essi

uscire sulla strada principale cantando...

Il parroco cominciò a preoccuparsi; fece segno a

Paco di stare zitto mentre il vescovo prese a sorridere.

Don Mosè, approfittando dell'emozione che la

solenne visita aveva suscitato in Paco, lo ammise a

fare parte del gruppo di coloro che si preparavano alla

prima comunione. Pensò che era meglio farsi

complice delle piccole magagne dei ragazzi piuttosto

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che fare il loro censore. Sapeva che Paco aveva il

revolver, ma non tornò mai più su quell'argomento.

Paco si sentiva sicuro. Il ciabattino, chi sa

perché, lo guardava con una certa ironia e il medico,

quando andava per una visita a casa, lo chiamava

monellaccio.

Quasi tutti i vicini e gli amici di famiglia

conoscevano qualche segreto di Paco: il possesso del

revolver, qualche vetro rotto di una finestra, il furto di

un po' di frutta in questo o quell'orto. Ma la copertura

del segreto più importante era quella che gli

procurava Don Mosé, a causa del revolver.

Un giorno, il curato stava parlando con il

ragazzo di cose serie e difficili: cioè, gli stava

spiegando l'esame di coscienza, dal primo all'ultimo

Comandamento.

Quando giunsero al sesto, il parroco vacillò un

momento, poi disse:

- Saltalo. Tu non hai ancora peccati di questo

genere.-

Riflettendo su questa affermazione, il ragazzo

ebbe il sospetto che si trattasse delle relazioni tra

uomini e donne.

Paco andava spesso in chiesa, sebbene aiutasse il

prete solo quando mancava qualche chierichetto.

Al tempo della Settimana Santa fece una grande

scoperta. Durante quei giorni la liturgia subiva dei

cambiamenti: le immagini erano tutte coperte con

panni di colore viola, incluso l'altare maggiore, su cui

si stendeva un unico lenzuolo, anch'esso viola, che lo

copriva tutto.

Una cappella della navata laterale veniva

trasformata in un luogo misterioso, detto il

Monumento, a cui si accedeva salendo alcuni gradini,

a loro volta coperti da un tappeto nero.

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Ai piedi di questi scalini, sopra un cuscino di

raso bianco, c'era un Crocefisso di metallo, anche

Esso coperto con un panno viola, che formava la

figura di un rombo, per coprire il Crocefisso. Al di

sotto del rombo, il cuscino mostrava una fascia

finemente ricamata, che i fedeli baciavano dopo di

essersi inginocchiati. Al lato, un vassoio che

conteneva poche monete di argento e qualcuna in più

di rame.

Nella penombra della Chiesa, quel luogo

silenzioso ed illuminato, con gli scalini pieni di

candele e lumini accesi, dava a Paco l'impressione di

mistero.

Sotto il Monumento, in un posto invisibile, due

uomini suonavano una melodia molto triste con flauti

di canna. La melodia era corta, ma si ripeteva infinite

volte durante tutto il giorno. Il tutto dava a Paco delle

sensazioni molto intense e contraddittorie

Durante il Giovedì ed il Venerdì Santo le

campane non suonavano ed i loro rintocchi erano

sostituiti dal rumore delle raganelle.

Nella volta del campanile venivano sistemati due

enormi cilindri di legno, ricoperti da magli, anche essi

di legno, disposti in filari. Quando si faceva girare il

cilindro, questi bracci colpivano il legno vuoto,

producendo il tipico rumore.

Tutto questo apparato era posto nella volta del

campanile, al di sopra delle campane, ed era

sostenuto da un asse, accuratamente unto,.incastrato

tra due pareti opposte della torre campanaria,

I chierichetti, invece, portavano in mano due

piccole raganelle, che facevano suonare al momento

del Canone della Messa, quando il prete sollevava

prima l'Ostia e poi il Calice.

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Paco osservava tutto questo con un certo

sgomento. Soprattutto, lo impressionavano le statue

poste ai lati del Monumento: gli sembrava l'interno di

una macchina fotografica col mantice disteso.

Il suo turbamento gli derivava dal fatto che

aveva già visto quelle statue nello scantinato della

Chiesa, dove erano ammucchiate insieme con altre

cose vecchie: c'erano piedi di santi staccati dai corpi;

statue di martiri nudi e sofferenti, teste lacrimose

dell'" Ecce Homo"; abiti per la vestizione dei Santi

appesi al muro; un treppiedi fatto di legno, che

reggeva un busto di donna il quale, quando veniva

coperto con un manto nero di forma conica, diventava

una statua di Nostra Signora dei reietti

L'altro chierichetto, quando i due capitavano

insieme in quel deposito, mostrava una certa

familiarità con quelle figure: o si metteva a cavalcioni

su di un apostolo, colpendogli la testa con le nocche,

per vedere - diceva lui - se c'erano topi; ad un altro

metteva nella bocca un pezzetto di carta arrotolato,

come se stesse fumando; o andava vicino al S.

Sebastiano, gli toglieva una freccia e poi gliela

rimetteva, con incredibile crudeltà.

In un angolo, tutto impolverato, c'era un

catafalco che serviva per le Messe dei Defunti. Era

coperto con un panno nero, tutto macchiato di cera,

sul quale era disegnato, in ognuno degli angoli, un

teschio poggiato su due ossa incrociate. A volte il

chierichetto suo collega si nascondeva nel catafalco e

cantava cose irriverenti.

Il Sabato Santo, detto della Gloria, di buon

mattino i ragazzi andavano in chiesa con piccoli

bastoni gelosamente conservati durante tutto l'anno

per quella occasione. Andavano - chi l'avrebbe detto?

- ad ammazzare i Giudei.

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Don Mosè, per evitare che rompessero i banchi,

il giorno precedente faceva porre in fondo alla chiesa

tre tavole di legno. Si supponeva che sotto quelle

tavole vi fossero rinchiusi i Giudei; per i ragazzi non

era difficile immaginarlo. I ragazzi si sedevano tutti

negli ultimi banchi in modo che, appena il prete

diceva la parola "resurrexit", cominciavano a colpire

quelle tavole producendo un fragore

scandaloso, che durava fino al canto dell'"Alleluja";

Questo, dal canto suo, coincideva con il primo suono

delle campane.

Era il segnale che si era sciolta la Gloria!

Dopo la Settimana Santa Paco si sentiva come

un convalescente. Quelle cerimonie gli avevano

procurato enormi sensazioni, anche per quei nomi

strani: le tenebre, il sermone delle sette parole, il

bacio di Giuda, il bacio dei veli strappati,..

Il Sabato della Gloria rappresentava la

riconquista della luce e dell'allegria.

Ai primi rintocchi delle campane, dopo tre giorni

di silenzio, la Jeronima andava al fiume a raccogliere

delle piccole pietre, bianche e arrotondate, che – ella

diceva – trattenute in bocca,servivano ad alleviare il

mal di denti.

Paco andava a casa del curato insieme con gli

altri ragazzi che si preparavano alla Prima

Comunione. Il prete si raccomandava e li consigliava

di non fare diavolerie in quei giorni: soprattutto non

picchiarsi e non andare al lavatoio dove le donne

erano solite parlare troppo liberamente.

I ragazzi sentivano quel consiglio come uno

stimolo, per cui, se passavano dalla parte del lavatoio,

aguzzavano bene le orecchie.

Parlando tra loro a proposito della Comunione, si

raccontavano un sacco di frottole: quando si prende

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l'Ostia bisogna aprire molto la bocca perché se la si

tocca con i denti, il comunicante cade morto e va

direttamente all'Inferno.

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Cap. 6

Un giorno, Don Mosè chiese a Paco di

accompagnarlo a dare la Estrema Unzione ad un

malato molto grave. Andarono fuori del villaggio,

dove non c'erano più case e la gente viveva in grotte

scavate nella roccia; ad esse si accedeva attraverso un

buco rettangolare, segnalato con un bordo imbiancato

con la calce. Paco portava a tracolla una borsa di

velluto, dove il curato aveva sistemato gli oggetti per

la liturgia funebre.

Entrarono in una di quelle case abbassarndo la

testa, muovendo i passi con attenzione. Dentro

c'erano due locali con il pavimento lastricato di pietre

ed alquanto sconnesso.

Fuori era già scuro e nel primo locale non c'era

abbastanza luce; nel secondo si vedeva solo una

piccola lampada ad olio.

Una donna anziana, vestita di stracci, venne loro

incontro con un moccolo di candela accesa.

Il tetto di roccia era molto basso e, sebbene si

poteva stare tranquillamente in piedi, il sacerdote

abbassava la testa, tanto per precauzione.

Non c'era altra ventilazione che quella della

porta di entrata. Quella donna anziana aveva gli occhi

prosciugati ed una espressione affaticata, di gelido

sgomento.

In un angolo, sopra un tavolaccio di legno,

giaceva il malato.

Il prete non disse niente e la donna nemmeno. Si

udiva soltanto il rantolo regolare e persistente che

usciva dal petto del moribondo.

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Paco aprì la borsa; il prete, indossata la stola, tirò

fuori dei pezzetti di stoffa ed un piccolo vasetto con

l'Olio Santo e cominciò a recitare in latino.

La donna ascoltava, tenendo gli occhi abbassati e

la candela in mano.

La sagoma del malato, che aveva il petto molto

alto e la testa sprofondata, si proiettava sul muro e al

minimo movimento della candela l'ombra si spostava.

Il sacerdote scoprì i piedi del malato, che erano

grandi, secchi e screpolati: i piedi di un lavoratore.

Quindi, si avvicinò alla testa: si vedeva che

l'agonizzante usava tutta l'energia che gli rimaneva

per l'immensa fatica di respirare. I rantoli diventavano

sempre più stentati e frequenti.

Paco vide due o tre mosche che ne sorvolavano

il viso, le quali, alla luce poco chiara delle candele,

rivelavano riflessi metallici.

Don Mosè, praticò l'Unzione ai piedi, sugli occhi

e nelle narici. L'infermo non se ne accorse nemmeno.

Alla fine, il sacerdote disse alla donna:

- Dio lo accolga nel suo grembo.

L'anziana donna era rimasta in silenzio e, di

tanto in tanto, si percepiva un piccolo tremore al

mento, che metteva in evidenza l'osso della

mandibola, sotto la pelle. Paco continuava a guardarsi

intorno: non c'era luce, né acqua, né fuoco.

Don Mosè avrebbe voluto abbandonare presto

quella casa, ma reprimeva quel desiderio perché la

fretta gli sembrava poco cristiana.

La donna li accompagnò fino all'uscio con la

candela accesa.

Non si vedevano altri mobili che una sedia

sgangherata, appoggiata ad una parete.

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Nell'altro locale, il primo entrando, c'erano a

terra in un angolo tre pietre affumicate e un

mucchietto di cenere fredda.

Più in là, su un bastone infisso nella parete, era

appoggiata una vecchia giacca.

Sembrava che il sacerdote volesse dire qualcosa

ma, alla fine, tacque. Ed uscirono.

Era già notte e nel cielo cominciavano a spuntare

le stelle. Paco domandò:

- Don Mosè, questa gente è povera?

- Si, figlio

- Molto povera?

- Molto-

- Sono i più poveri del paese?

- Forse. Però vi sono cose peggiori della povertà.

Costoro, poi, sono sventurati anche per altre ragioni.

Il chierichetto si accorse che il prete non gli

rispondeva volentieri, ma lo stesso gli domandò:

- Perché? -

- Perché hanno un figlio che potrebbe aiutarli;

ma, a quanto dicono, è in carcere.

- Ha ucciso qualcuno?

- Non lo so. Però non mi meraviglierei.

Paco non ce la faceva a stare zitto. Continuava a

camminare su quella strada sconquassata, ricordando

il moribondo e alla fine disse:

- Il vecchio sta morendo perché non può

respirare. Ora noi ce ne andiamo ed egli resta lì, solo.

Camminavano. Il curato sembrava molto stanco.

Paco aggiunse:

- Beh! proprio solo, no. C'è la moglie. Meno

male.-

Fino alle prime case del villaggio c'era da

percorrere ancora un buon tratto. Don Mosè disse al

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ragazzo che la sua compassione era un sentimento

molto nobile, e che egli aveva buon cuore.

Il ragazzo domandò ancora se nessuno andava a

fargli visita perché erano poveri o perché avevano un

figlio in carcere.

Don Mosè, volendo troncare il discorso, cercò di

rincuorare il ragazzo, ricordandogli le pessime

condizioni del moribondo: da un momento all'altro

sarebbe morto, sarebbe salito al cielo, dove sarebbe

stato finalmente felice.

Paco per un po' guardò le stelle, poi disse:

- Don Mosè, ma quel giovane, secondo me, non

deve essere molto cattivo.

- Perché?

- Se fosse cattivo, ruberebbe; ed i suoi genitori

avrebbero molto denaro.

Il curato non rispose e i due continuarono a

camminare nel buio.

Paco si sentiva soddisfatto camminando col

prete. Gli sembrava che essere suo amico gli desse

una certa autorità, sebbene non sapesse spiegarsene la

ragione.

Continuarono il cammino in silenzio fino alla

chiesa. Ma una volta arrivati, Paco chiese:

- Perché nessuno va a fargli visita?

- Che ti importa, Paco. Chi muore resta

comunque solo, anche se molte persone vanno a fargli

visita: la vita è così e Dio, che ha permesso questo, ne

consce la causa.

Paco ricordava che il malato non aveva detto

una sola parola, e la donna nemmeno. I suoi piedi

erano duri come quei Crocefissi di legno rotti e

abbandonati nel deposito.

Il sacerdote prese con se la borsa degli Oli. Paco

gli disse che sarebbe andato dai vicini a dire loro che

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quell'uomo era moribondo e che era necessario

aiutare sua moglie; lo avrebbe detto a nome di Don

Mosè, così nessuno si sarebbe negato

Il curato avvertì Paco che era meglio che se ne

andasse a casa.

- Se Dio permette la povertà - disse - ci deve pur

essere un motivo. Che cosa puoi fare tu? Quella

catapecchia che hai visto poc'anzi è davvero

miserevole; però c'è di peggio altrove.

Non del tutto convinto, Paco se ne andò a casa;

ma durante la cena tentò due o tre volte di parlare di

quel malato che stava morendo; diceva che in quella

catapecchia non c'era nemmeno un po' di legna per

accendere il fuoco.

I genitori non rispondevano: la madre

gironzolava la per casa; e Paco continuava a dire che

quel povero uomo stava morendo e non aveva

nemmeno un cuscino per appoggiare la testa, e che

era coricato su un tavolaccio.

Il padre, allora, smettendo di affettare il pane, lo

guardò con aria inquisitoria:

- Questa è stata l'ultima volta che vai con Don

Mosè a dare l'Estrema Unzione a qualcuno.

Ma Paco continuava a raccontare che il vecchio

aveva un figlio in prigione, ma non per colpa di suo

padre. E nemmeno del figlio.

Egli aspettava che il padre dicesse qualcosa;

invece questi portò il discorso su un altro argomento.

Un po' fuori dell'abitato, come in tutti i villaggi,

c'era un piazzale che i contadini chiamavano il

terrazzo; era posto ai piedi di una parete di roccia ed

esposto a mezzogiorno, per cui d'inverno era caldo e

d'estate fresco. Era il luogo dove si ritrovavano le

donne più povere, specialmente le più anziane, che vi

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si recavano per cucire, per ricamare, per filare e,

soprattutto per chiacchierare.

Durante l'inverno, il terrazzo era sempre

affollato: qualche donna anziana vi andava per

pettinare una nipotina. Anche lì, la Jeronima era

sempre allegra e trasmetteva la sua allegria a tutte le

altre. Certe volte, quando la gente sembrava

annoiarsi, ella si metteva a ballare da sola, seguendo

il suono delle campane.

Fu proprio la Jeronima che raccontò quanto Paco

si fosse mostrato pietoso verso la famiglia

dell'agonizzante e come Don Mosè si fosse rifiutato

di aiutarla; e come - esagerando per ottenere

maggiore effetto - il padre avesse proibito al ragazzo

di accompagnare il curato in queste occasioni:

Secondo lei, il padre avrebbe detto al curato:

- Ma chi è lei, che si permette di portare il

ragazzo a dare l'Estrema Unzione ad un moribondo?

Naturalmente, non era vero; però al terrazzo

davano ascolto a quello che diceva la Jeronima.

Anche perché ella parlava sempre con rispetto di tutte

le famiglie, ad eccezione di quelle di don Gumersindo

e don Valeriano.

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Cap. 7

Ventitré anni dopo, Don Mosè ricordava quegli

avvenimenti e sospirava sotto i suoi paramenti sacri,

in attesa del momento di iniziare la Messa, sempre

con la testa appoggiata sulla macchia scura del muro.

Pensava che la visita di Paco in quella

catapecchia aveva molto influenzato tutto quello che

gli era successo dopo.

- Egli venne con me, ripeteva perplesso. me lo

portai con me!-

In quel momento entrò il chierichetto nella

sagrestia, dicendo:

- Non è ancora venuto nessuno.-

Poi ripeté la risposta alzando la voce, perché

credette che il prete stesse dormendo, avendone visti

gli occhi socchiusi.

E mentre faceva l'annunzio, andava ripetendo

un'altra strofa della canzonetta:

L'hanno invano ricercato

per i monti e pei ripiani.

Ma nemmeno con i cani

riuscirono a trovar.

Le campane continuavano a suonare ed il Prete

continuava a ricordare Paco:

- Sembra ieri, quando fece la prima Comunione!

Il tempo era passato in fretta; nel giro di tre o

quattro anni, il ragazzo era diventato grande, quasi

come il padre. La gente, che fino ad allora lo aveva

chiamato Paquito, cominciò a chiamarlo Paco. Paco,

quello del Mulino.

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Un suo bisavolo aveva avuto un mulino che,

ormai, non funzionava più e che, perciò, era usato

come deposito di granaglie. C'era anche uno spazio

adattato ad ovile, per il riparo di un piccolo gregge di

capre.

Una volta, al tempo dei parti, Paco aveva portato

al curato un capretto, che poi restò a pascolare

nell'orto della parrocchia.

Un poco alla volta, Paco si era allontanato da

Don Mosè: quasi mai lo incontrava per la strada, né

trovava il tempo di andare di proposito nella

canonica. Tuttavia, ogni domenica andava a Messa -

d'estate qualche volta mancava - e a Pasqua si faceva

sempre la Comunione.

Era ancora imberbe, ma assumeva atteggiamenti

da adulto. Non solo andava al lavatoio ed ascoltava i

discorsi delle donne, ma quando queste gli

rivolgevano frasi allusive, egli rispondeva loro per le

rime.

Il luogo dove le donne andavano a lavare si

chiamava "la piazza dell'acqua"; in effetti era come

una grossa piazza, al centro della quale, per circa i

due terzi dello spazio, c'era uno stagno, quasi un

laghetto, profondo e limpido. D'estate, nei pomeriggi

caldi, alcuni ragazzi andavano a bagnarsi, nuotando

completamente nudi. Le lavandaie sembravano

scandalizzate; ma era solo una finzione: i loro gridi,

le loro risatine e le battute che si scambiavano con i

ragazzi, mentre le cicogne gracchiavano sul

campanile, rivelavano un'allegria primordiale.

Un pomeriggio anche Paco andò allo stagno e,

per circa due ore si esibì con piacere tra gli scherzi

delle donne: gli dicevano frasi provocatorie, gli

gridavano insulti allusivi ma chiaramente adulatori.

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Quella fu, praticamente, la sua iniziazione alla vita di

ragazzo celibe.

A seguito di quell'avvenimento, i genitori gli

permettevano di uscire di sera e ritirarsi tardi, quando

essi già dormivano.

Qualche volta Paco si tratteneva col padre a

parlare di cose che riguardavano la conduzione

dell'azienda di famiglia. Un giorno la conversazione

cadde sull'affitto dei pascoli in montagna ed il loro

costo: bisognava pagare ogni anno una certa somma

ad un vecchio duca, che non era mai venuto nel

villaggio e che percepiva l'affitto anche da pastori che

vivevano in altri cinque villaggi confinanti. Paco non

lo riteneva giusto.

- Se è giusto o no, domandalo a Don Mosè, che è

amico di don Valeriano, il quale è l'esattore del duca.

Va' e vedi cosa ti risponde.

Ingenuamente, Paco glielo chiese davvero, ed il

prete rispose:

- Ma che te ne importa, Paco?

- Il ragazzo azzardò.

- Mio padre ha detto che in paese c'è gente che

vive peggio degli animali e che si potrebbe fare

qualcosa per aiutarli ad uscire da quel disagio.

- Ma quale disagio? disse Don Mosè. Altrove c'è

ancora più miseria.

Anzi, già che c'era, lo rimproverò aspramente

per essere andato allo stagno nudo davanti alle donne.

Qui Paco dovette ammettere di avere torto.

Il ragazzo crescendo, andava maturando. Nei

pomeriggi della domenica, con il pantalone nuovo di

panna, la camicia bianca ed il panciotto di stoffa

colorata con fiori, andava a giocare alle biglie.

Dalla canonica, mentre leggeva il breviario, Don

Mosè ascoltava il rumore delle biglie che si

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toccavano fra loro e le monete di rame che cadevano

al suolo, dove i ragazzi le lanciavano per fare le

scommesse.

A volte usciva sul balcone e, vedendo Paco così

cresciuto, esclamava tra se:

- Sembra ieri quando lo battezzai.

E rifletteva sul fatto che quando i ragazzi

crescono, tendono ad allontanarsi dalla Chiesa,

mentre tendono a ritornarvi quando si fanno più

vecchi, forse per paura della morte.

Nel caso di Paco, la morte era arrivata molto

prima della vecchiaia. E Don Mosè lo stava

ricordando nella sagrestia mentre, assorto in quel

pensiero, aspettava il momento di cominciare la

Messa.

Le campane continuavano a suonare e, ad un

tratto, irruppe il chierichetto:

- Don Mosè, è appena entrato in Chiesa don

Valeriano.

Il curato, con gli occhi socchiusi e la testa

appoggiata sulla solita macchia del muro, non si

mosse. Il chierichetto riprese mormorare il suo carme.

Stava Paco sul monte

nascosto tra il gregge.

Conségnati alla legge

se vivere vuoi ancor.

Don Valeriano si avvicinò alla sagrestia e disse:

- E' permesso?

Era vestito come i signori della città, con un

panciotto che aveva più bottoni del solito ed una

grossa catena d'oro, sulla quale erano appesi alcuni

gingilli che tintinnavano al movimento dei passi.

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Aveva una fronte stretta e gli occhi sfuggenti; i

baffi gli pendevano da ambo i lati, coprendo la

connessura delle labbra. Quando parlava di soldi, era

solito usare la parola esborso, che gli sembrava più

raffinata.

Quando si accorse che Don Mosè continuava a

tenere gli occhi chiusi e non gli dava ascolto, si

sedette e disse:

- Don Mosè, domenica scorsa dal pulpito lei

disse che bisognava dimenticare. Lei sa che non è

facile. Comunque, io...

Il curato, senza aprire gli occhi, acconsentì con

un cenno della testa.

Don Valeriano, posando il cappello su una sedia,

aggiunse:

- Vorrei pagarla io questa Messa, se non c'è

qualcuno che si oppone. Mi dica quanto le debbo.

Il curato, ancora con gli occhi socchiusi, fece un

cenno di diniego.

Ricordava che don Valeriano era stato uno di

quelli che maggiormente avevano influito sulla

disgraziata fine di Paco. Era amministratore del duca

e, inoltre, aveva dei terreni di sua proprietà.

Soddisfatto - come sempre - del suo

comportamento, Don Valeriano continuò il suo

discorso:

- Lo dico senza rancore: in queste cose

assomiglio molto al mio defunto padre.

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Cap. 8

Don Mosè ascoltava nel suo ricordo la voce di

Paco. Riandò al giorno in cui questi si era sposato.

Non era stata una decisione affrettata, come nel caso

di tanti altri ragazzi, presi da una precoce esplosione

del desiderio; anzi, aveva fatto le cose per bene e con

calma.

Per prima cosa, la famiglia era preoccupata per

la faccenda della leva: c'era la probabilità che uscisse

un numero basso, nel qual caso, sarebbe dovuto

partire per il servizio militare. La madre aveva parlato

con il prete e questi le aveva consigliato di chiedere a

Dio questo favore e di meritarlo con azioni

caritaritevoli.

Perciò, aveva raccomandato al figlio di

partecipare, nella prossima Pasqua, alla processione

del Venerdì Santo con un abito da penitente, come

facevano gli altri, trascinando a piedi nudi due catene

legate alle caviglie.

Queste erano lunghe almeno sei metri e

stridevano maledettamente sul selciato della strada ed

anche sulla terra battuta producendo un cupo

frastuono. Quelli che volevano espiare, in questo

modo, i loro peccati: dovevano avere, per ordine del

prete, il viso scoperto, affinché tutti potessero

riconoscerli. Quelli che partecipavano per chiedere

una grazia, se volevano, potevano coprirsi il viso.

Quando, verso sera, la processione ritornava alla

Chiesa, i penitenti avevano le caviglie sanguinanti;

avanzavano lentamente, prima con un piede,

caricando il peso del corpo sul lato opposto, quindi

portando avanti l’altro; ed erano curvi come bestie

esauste.

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Durante la processione, le voci degli inni sacri,

mescolandosi con lo sferragliare delle catene,

producevano un curioso contrasto.

Quando alla fine i penitenti entravano nella

Chiesa, il rumore delle catene rimbombava ancora di

più sotto la volta del tetto; e, intanto, dal campanile

scendeva rauco il suono delle raganelle.

Paco aveva notato che i penitenti più vecchi

avevano sempre il viso scoperto; le donnicciole li

guardavano e di ognuno dicevano cose tremende.

Soprattutto la Jeronima.

Mentre il penitente sudava trascinando le

catene, ella diceva:

- Guarda quello; è Giovanni, del vicolo Santa

Anna. Ricordate? Rubò in casa della vedova del sarto.

Altre donne, portandosi la mano sulla bocca,

dicevano:

- Quello è Manolo, quello delle vacche; quello

che diede il sublimato a sua madre per ereditare più in

fretta.

Il padre di Paco, nonostante la sua indifferenza

nei confronti della religione, aveva deciso anch'egli di

legarsi le catene ai piedi: si era vestito con un abito

nero con cappuccio, cingendosi nella vita un cordone

bianco.

Don Mosè non riusciva a capire

quell'atteggiamento; ed anzi aveva detto a Paco:

- L'azione di tuo padre non ha alcun merito

davanti a Dio; egli fa questo per poterlo raccontare al

giudice nel caso che tu venga estratto per il servizio

militare.

Paco aveva ripetuto il discorso a suo padre e

questi, che stava ancora curandosi le ferite con il sale

e l'aceto, così gli rispose:

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- Vedo che a Don Mosè piace parlare più del

necessario.

Per fortuna, a Paco toccò in sorte un numero

molto alto. In casa erano tutti contenti, ma cercavano

di non mostrare all'esterno la loro allegria, per

rispetto di coloro che avevano estratto un numero

basso.

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Cap. 9

Paco aveva una fidanzata che, a detta di tutti i

compaesani, era diligente e laboriosa. Egli l'aveva

corteggiata per oltre due anni: ogni mattina quando si

recava in campagna, si fermava di fronte alla casa

della ragazza. Benché fosse di mattina presto, la

biancheria del letto era già stesa sulle finestre e la

strada davanti la casa non solo era pulita ma, d'estate,

anche irrigata e fresca.

A volte capitava anche che Paco vedesse la

ragazza; allora, lui la salutava ed ella gli rispondeva.

Durante quei due anni i saluti divennero sempre

più espressivi. Cominciarono anche a scambiarsi

qualche parola, però, niente di personale. Per

esempio, un giorno di febbraio ella chiese:

- Hai già visto le tortore?

- No, però non tarderanno; l'erica ha già

cominciato a fiorire.

Spesso Paco, temendo di non trovarla alla porta

o affacciata alla finestra, annunciava il suo arrivo

gridando forte alla mula e, se non era sufficiente,

cantando.

Dopo circa un anno e mezzo ella, che si

chiamava Agata, aveva già il coraggio di stargli di

fronte e di sorridergli. Quando c'era una festa ella si

faceva accompagnare da sua madre e ballava solo con

Paco.

Più tardi c'era stato un incidente che aveva fatto

molto scalpore. Il sindaco aveva proibito la

circolazione oltre una certa ora, perché aveva saputo

che nel paese c'erano due bande rivali, per cui

potevano verificarsi delle violenze. Nonostante il

divieto, Paco era uscito lo stesso, con alcuni suoi

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amici. Una pattuglia li sorprese, disperse la comitiva,

ma arrestò solo lui, costringendolo a trascorrere una

notte nella prigione. Paco, con un colpo di mano,

aveva disarmato i gendarmi e si era impossessato dei

loro fucili. In verità, i due poliziotti, essendo amici di

Paco, non si aspettavano quel suo comportamento. E

Paco si era portato a casa i loro fucili.

Il giorno dopo, tutti in paese sapevano della

bravata. Don Mosè andò dal ragazzo, e gli disse che

si trattava di un fatto molto grave, non solo per lui,

ma per tutto il villaggio.

- Perché? domandò Paco.

Il prete gli ricordò che un fatto analogo era

successo tempo addietro in un altro villaggio e che il

Governatore aveva deciso di lasciare tutto il paese

senza gendarmi.

- Ti rendi conto? - gli diceva il prete con aria

spaventata.

- A me non importa niente di restare senza

gendarmi.

- Ma non essere stupido!

- No! Dico la verità, Don Mosè.

- Tu credi che un paese può vivere senza

gendarmi? Sappi che nel mondo c'è molta

delinquenza.

- Io non lo credo. E la gente che vive nelle

catapecchie? Invece di mandare gendarmi, farebbero

meglio ad eliminare le catapecchie.

- Illuso! Sei un illuso.

Quell'avvenimento, tra riflessioni serie e parole

di scherzo, fu considerato solo un incidente. Il

sindaco riebbe i fucili e Paco tornò a casa. Però,

intanto, si era fatta la fama di ragazzo terribile. Ad

Agata faceva quasi piacere, ma ne temeva le

conseguenze.

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Finalmente i due fecero il fidanzamento

ufficiale.

Si vide subito che la nuora aveva più personalità

della suocera; e, sebbene questa assumesse sempre

atteggiamenti umili e rispettosi, le due donne non

andavano molto d'accordo.

La madre aveva detto a Paco:

- E' acqua cheta, figlio mio. Fai attenzione alle

acque tranquille.

Paco lo prendeva per scherzo.

- E' la gelosia delle madri - diceva ridendo.

Come tutti i giovani, continuava a girare di notte

e, alla vigilia di San Giovanni riempì di fiori le

finestre, le porte, il tetto e perfino il camino della casa

della fidanzata.

Le nozze si celebrarono nel modo che tutti

speravano: tanta roba da mangiare, musica e balli.

Prima della cerimonia, già tante camicie erano

macchiate di vino, perché i paesani si ostinavano a

bere dai porrones. Le mogli protestavano e

scherzosamente dicevano che bisognava ubriacare

quelle camicie per poi darle ai poveri.

Con l'espressione: darle ai poveri, volevano

significare che essi non si sentivani tali,

Durante la cerimonia, Don Mosè tenne loro un

breve sermone: ricordò a Paco che egli lo aveva

battezzato, cresimato e dato la Prima Comunione.

Sapendo che i due fidanzati non erano molto addentro

alle cose della religione, ripeté loro che la Chiesa è la

nostra madre comune e la fonte della vita, non solo

temporale, ma anche di quella eterna.

Come sempre succede ai matrimoni, alcune

donne piangevano e si soffiavano il naso

rumorosamente. Il prete terminò il discorso con

queste frasi:

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- Questo umile ministro del Signore, che ha

benedetto il vostro letto natale, oggi benedice il

vostro letto nuziale e, se Dio lo vorrà, anche quello

mortale, in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito

Santo. E mentre diceva queste parole, alzando il

braccio faceva il segno della Croce.

Paco pensava che non era il caso di fare cenno al

discorso del letto mortale.. Gli faceva venire in mente

i rantoli di quel povero uomo che aveva visto quando

aveva accompagnato Don Mosè a dargli l'estrema

Unzione.

In effetti, era quello l'unico letto mortale che

aveva visto. Ma questo non era un giorno per

ricordare cose tristi.

Dopo la cerimonia, uscirono sulla strada. Fuori

della porta era in attesa un gruppo di musici con

chitarre, raganelle, clarinetti, tamburelli e trombe che

cominciò a suonare rumorosamente.

Dal campanile giungeva il suono della campana

più piccola.

Una ragazza, con una brocca appoggiata all'anca,

incontrando il corteo nuziale disse:

- Guarda un po'. Qui tutte si sposano, solo io no.

Tutti andarono a casa dello sposo.

Le due consuocere continuavano a piagnucolare.

Don Mosè entrò nella sagrestia e si svestì in

fretta per partecipare al banchetto.

Nei pressi della casa di Paco incontrò il

ciabattino, tutto vestito a festa. Era piccolo di statura

e, come tutti quelli che stanno sempre seduti, aveva le

anche molto ampie.

Don Mosè, che dava del tu a tutti, al calzolaio

dava del lei: gli chiese se era stato nella Casa di Dio.

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- Guardi, Don Mosè, se quella è la casa di Dio,

io non sono degno di entrarvi; e se non lo è, perché

andarvi?

Ma, prima di separarsi, il calzolaio trovò un

momento per dire al prete delle cose davvero

sconcertanti: aveva appreso da buona fonte che a

Madrid il trono era traballante. E se fosse caduto,

molte cose sarebbero cambiate.

Siccome il ciabattino emanava un forte odore di

vino, il curato non fece caso alle sue parole; ma

questi gli andava ripetendo con una rara esultanza:

- A Madrid si stanno già preparando, signor

curato.

Forse c'era qualcosa di vero in quelle parole; ma

al ciabattino piaceva tanto parlare, che c'era solo una

persona a cui si poteva paragonare in quel momento:

la Jeronima.

Il calzolaio era come un vecchio gatto: non era

né amico né nemico di nessuno; però parlava con

tutti.

Don Mosè ricordava che il principale quotidiano

della provincia non nascondeva le sue perplessità

circa quello che stava succedendo a Madrid; e adesso

non sapeva che cosa pensare.

Da una paarte vedeva il solenne atteggiamento

degli sposi; gli invitati più giovani che facevano

chiasso; quelli più vecchi discretamente allegri.

Dall'altra, non poteva fare a meno di pensare alle

parole del calzolaio.

Questi aveva indossato, a quanto egli stesso

diceva, l'abito del suo matrimonio: ed era possibile,

perché puzzava di canfora.

Intorno a lui si erano raggruppati sette o otto

invitati, tutti scarsi frequentatori della parrocchia.

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Probabilmente, pensava Don Mosè, stavano

parlando della prossima caduta del re e che a Madrid

stava per succedere qualcosa.

Intanto, cominciarono a servire il vino. Su una

tavola c'erano dei peperoni preparati con spezie varie,

del fegato di pollo e dei ravanelli sotto aceto, come

aperitivi.

Il calzolaio, mentre si serviva, guardava le

bottiglie che erano intorno a lui. La madre dello

sposo, mostrandogliene una disse:

- Questo vino è di quelli che grattano la gola.

Nell'altra sala c'erano le tavole apparecchiate.

Nella cucina la Jeronima trascinava a stento i suoi

reumatismi: era già vecchia, ma faceva ancora ridere i

più giovani.

- Non mi lasciano uscire dalla cucina, diceva, perché

temono che con il mio alito rendo acido il vino. Ma

per me è lo stesso: in cucina ci stanno le cose

migliori. Anche io so vivere. Non mi sono sposata,

però dietro la chiesa mi potevo portare tutti gli uomini

che mi piacevano.

- Zitella, si zitella, ma col fare di monella.

Le ragazze ridevano scandalizzate.

Si presentò nella casa anche il signor Càstulo

Pérez, la cui presenza causò un certo stupore, perché

non era atteso. Aveva con se due vasi da fiore di

porcellana, avvolti in un foglio di carta ed

accuratamente legati con un nastro.

- Non so che cosa vi sia qua dentro, disse

consegnando il pacchetto alla madre della sposa. E'

un pensiero della mia signora.

Poi vide il curato, gli si avvicinò e disse:

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- Don Mosè, sembra che a Madrid stanno

girando la frittata.

Del calzolaio si poteva dubitare, ma del signor

Càstulo, no. Costui era un uomo molto prudente.

Forse, era venuto per cercare l'appoggio di Paco. Ma

con quale scopo?

Il parroco aveva sentito che si parlava di elezioni

e volle domandarlo al signor Càstulo. Però, a quella

domanda, questi gli rispose evasivamente:

- E' un run run che corre...

Quindi, dirigendosi verso il padre dello sposo,

gridò festosamente:

- L'importante non è se tolgono o lasciano il re,

ma sapere se la rugiada è propizia alla vigna. E se no,

che lo dica Paco.

- Chi sa quanto gliene importa della vigna a Paco

in un giorno come questo, rispose uno degli invitati.

Nonostante le sue apparenze semplici, il signor

Càstulo aveva un carattere forte: lo si vedeva dagli

occhi freddi e scrutatori. Quando si dirigeva al

parroco, prima di dire ciò che aveva in mente, di

solito cominciava con questo preambolo:

- Con i dovuti rispetti...

Ma si capiva subito che questi rispetti non erano

molti.

Intanto, arrivavano altri invitati; ora sembrava

che ormai fossero già tutti presenti.

Senza rendersene conto, avevano tutti scelto il

loro posto seguendo una precisa gerarchia.

Si erano fermati tutti in piedi, tranne il sacerdote,

allineati al muro, intorno a tre lati della sala. Tutti

avevano scelto il loro posto senza che nessuno glielo

assegnasse; ne era risultata una gerarchia naturale,

secondo la quale l'importanza di ciascuno, misurata in

base alle ricchezze ed alla reputazione che possedeva

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nel villaggio, determinava la vicinanza o la

lontananza dalla parete principale della stanza, dove

erano sistemate due sedie a dondolo ed una vetrina

con mantelline di Manila e ventagli di madreperla,

cose di cui la famiglia era molto orgogliosa.

Quì, in un lato c'era Don Mosè seduto su una

poltrona. Poco distante, c'erano i due sposi in piedi

che, mentre accettavano i saluti ed i complimenti di

quelli che arrivavano, presero a patteggiare il prezzo

del viaggio fino alla stazione del treno, con il padrone

dell'unica automobile da noleggio che c'era nel

villaggio.

Il padrone dell'auto, che effettuava anche il

servizio postale, diceva che gli era vietato portare più

di due passeggeri: egli era già in parola con un altro,

così sarebbero stati tre se avesse portato entrambi gli

sposi

Allora, intervenne il signor Càstulo, offrendosi

di accompagnare lui gli sposi alla stazione con la sua

auto.

Ascoltando questa offerta, il parroco drizzò le

orecchie: non immaginava che Càstulo fosse tanto

amico della famiglia.

Approfittando dell'andirivieni delle ragazze che

servivano, la Jeronima inviò al calzolaio un

messaggio indisponente; e questi si giustificò con

coloro che gli stavano più vicini:

- La Jeronima ed io abbiamo un telegrafo

amoroso.

In quel momento, un gruppo di musici cominciò

a cantare nella strada:

Negli occhi degli sposi

brillano cento pensieri amorosi.

Ella è un fiore assai carino,

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lui soltanto un rosmarino

Dopo un po' di tempo, durante il quale c'erano

stati degli allegri balletti, si sentì ancora una canzone

allusiva del matrimonio, come era naturale:

Tiene Paco una voglia che scoppia

di formare con Agata coppia

Se ieri erano solo fidanzati,

oggi lo può, perché sono sposati.

Quindi il gruppo seguitò a suonare e cantare con

molta frenesia, proprio come sogliono fare i contadini

che hanno le mani dure e i cuori calorosi.

Quando i musici credettero di avere suonato

abbastanza, entrarono in casa, formando un gruppo a

parte, all'altro lato della sala, dove bevendo qualcosa

chiacchieravano fra loro. Dopo passarono nella sala

da pranzo.assieme agli altri.

A capotavola c'erano, naturalmente, gli sposi.

Poi, sedutui, c'erano i padrini, Don Mosè, il signor

Càstulo e qualche altro lavoratore.

Il curato parlava dell'infanzia di Paco e

raccontava le sue diavolerie, sottolineando la sua

atrocità, quando di notte, ammazzava i gufi e i gatti

randagi; ma anche dei suoi buoni sentimenti, come

quello di visitare i poveri che abitavano nelle

catapecchie e di aiutarli.

Al toccare questo argomento, si avvide che gli

occhi di Paco erano diventati drammaticamente seri;

allora cambiò discorso e, sorridendo, ricordò

l'incidente del revolver e le sue avventure allo stagno.

Nel pranzo non mancarono né le pernici, né le

trote al forno, né il cappone ripieno; correvano di

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mano in mano le bottiglie, i porrones e le caraffe, con

i vini di diverse annate.

La notizia del matrimonio arrivò anche alla

piazzetta, dove le vecchie filande bevvero alla salute

degli sposi con il vino che avevano loro portato la

Jeronima e il ciabattino. Costui era più allegro del

solito e, dato l'ambiente, poteva parlare anche con più

libertà. Tra l'altro disse che i preti sono le uniche

persone che tutti chiamano padre, eccetto i propri figli

che, di solito, li chiamano Zio.

Le vecchie facevano discorsi allusivi, che

avevano per oggetto gli sposi:

- Le notti si stanno facendo più fresche.

- Per questo, sono diventate adatte per dormire in

compagnia.

- Quando mi sposai io, c'era la neve fino al

ginocchio

- Ma questo per lo sposo deve essere stata una

tragedia

- Perché?

- Con il freddo, i suoi attributi si saranno

rintanati fino ai reni.

- Tu, culo di botte, disse la Jeronima, quando

diventi vedova, fammelo sapere.

Il ciabattino sciorinando una serie di insulti

rivolti alla Jeronima, più con la intenzione di fare

ridere i presenti che per offenderla, andava dicendo:

- Taci, patacca del diavolo, piede dell'arrotino,

ficcanaso, attaccabrighe, panno straccio. Adesso ti do

io una buona notizia: Sua Maestà il re è caduto in una

trappola e lo hanno cacciato via.

- E a me?

- Sappi che nella repubblica non impennacchiano

le streghe.

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Ella stessa qualche volta aveva detto di sapere

volare come una strega; però non permetteva che

glielo dicessero gli altri.

Stava per rispondere quando il calzolaio

continuò:

- Ti dico anche che sei la feccia della società,

pettegola, zuccona, portaborse, folletto, banderuola,

sciancata, cisposa, straccio, faina, e tante altre cose

ancora.

La fattucchiera si fece da parte, mentre lui

continuava con le sue contumelie.

Le vecchie della piazzetta ridevano a crepapelle;

e, prima che si facessero sentire le reazioni della

Jeronima, che era rimasta un po' confusa sotto quella

gragnuola di improperi, il ciabattino preferì ritirarsi,

come vincitore del duello. Però, durante il cammino

teneva le orecchie bene tese a ciò che gli dicevano

dietro. Si udì la voce della Jeronima:

- Chi lo avrebbe detto che questo indemoniato

avesse tanto veleno nello stomaco.

Poi, le vecchie continuarono a parlare degli

sposi. Dicevano che Paco era il ragazzo meglio

fornito di tutto il villaggio ed aveva scelto la sposa

che meritava. E continuarono a fare illazioni sulla

prima notte degli sposi, con espressioni salaci.

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Cap. 10

Erano passati sette anni dal giorno del

matrimonio: Don Mosè, seduto sulla vecchia poltrona

della sagrestia, lo stava ricordando; e non apriva gi

occhi per evitare di parlare con don Valeriano, il

sindaco: gli era stato sempre difficile parlare con lui,

perché costui non sapeva ascoltare.

Nella Chiesa si udì il rumore degli scarponi di

don Gumersindo: erano inconfondibili, perché nel

villaggio non ce n'erano altri uguali; perciò, Don

Mosè si diede conto che era lui, ancora prima che

arrivasse nella sagrestia.

Era vestito di nero; e, quando vide il prete che

aveva gli occhi socchiusi, salutò don Valeriano a

bassa voce. Chiese il permesso di fumare e prese

dalla tasca la borsa del tabacco.

Allora, il prete aprì gli occhi e domandò:

- E' venuto nessun altro?

- No, signore, disse don Gumersindo, quasi

scusandosi, come se fosse sua la colpa. No, non ho

visto anima viva nella Chiesa.

Don Mosè appariva stanco; chiuse di nuovo gli

occhi e riappoggiò la testa sulla macchia scura del

muro. In quel momento apparì il chierichetto al quale

don Gumersindo domandò:

- Ragazzino, sai per conto di chi si celebra

questa Messa?

Il ragazzo, per rispondere, si mise a cantare un

brano della canzonetta:

Già lo portano col canto

sulla via del camposanto.

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Non continuare con questo canto, se no il

sindaco ti porta in prigione.

Il chierichetto guardò don Valeriano, impaurito;

e questi, con gli occhi perduti nel soffitto, disse:

- Ogni scherzo richiede il suo tempo e il suo

luogo.

Cadde, allora, un silenzio tenebroso. Don Mosè

riaprì gli occhi ed incontrò il viso di don Gumersindo

che stava mormorando:

- Veramente, non so se debbo offendermi per

quello che costui dice.

Il prete intervenne:

- Non c'è nessuna ragione di offendersi.

Poi, rivolto al chierichetto, gli ordinò di uscire

sulla piazza e vedere se sul sagrato c'era gente che

aspettava per la Messa.

Molte persone, soprattutto uomini, hanno

l'abitudine di trattenersi sul sagrato che finisca il

suono delle campane prima di entrare in Chiesa.

Però il prete voleva evitare che il chierichetto

recitasse l'altra strofa della canzonetta, che conosceva

anche egli e che parlava di lui:

E fu chi lo battezzò

che quel dì lo confessò

dentro un'auto. E ha liberato

la sua anima dal peccato.

Don Gumersindo sempre parlando - come si dice

- della sua magnanimità, ricordava che alcuni erano

soliti ripagare il bene con il male. Quel discorso gli

sembrava opportuno in quel momento ed in quel

posto, di fronte, cioè, al prete e a don Valeriano.

D'un tratto, fu preso da un attacco di generosità:

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- Mi ascolti, Don Mosè. Ecco due duri; intendo

pagare la Messa di oggi.

Con gli occhi ancora semichiusi, il prete rispose

che la stessa offerta gli era già pervenuta da don

Valeriano; ma egli voleva celebrare questa messa

senza ricevere soldi da nessuno.

Ci fu un grande silenzio. Don Valeriano faceva

volteggiare la sua catenina attorno all'indice e dopo la

riavvolgeva nell'altro senso, mentre i gingilli appesi

in fondo emettevano suoni: uno conteneva una ciocca

di capelli della sua defunta sposa; l'altro una reliquia

del santo Padre Claret, ereditata dal suo trisavolo.

Sempre a voce bassa, parlava dei prezzi della

lana e delle pelli, ma nessuno lo stava a sentire.

Don Mosè continuava a ricordare, con gli occhi

socchiusi, il giorno delle nozze di Paco: nella sala da

pranzo, una signora aveva perduto un orecchino e due

uomini li cercavano insistentemente.

In ogni matrimonio c'è sempre una donna che

perde un orecchino, che lo cerca e quasi mai lo trova.

Ricordava la sposina che, scomparso il pallore

delle prime ore della mattinata, dovuto al sonno

perduto nella notte precedente, aveva ripreso i suoi

colori e, di tanto in tanto, domandava l'ora al marito.

Poi, nel pomeriggio inoltrato, il signor Càstulo li

portò alla stazione con la sua auto.

La maggior parte degli invitati era uscita in

strada a salutare gli sposi, con applausi e scherzi vari.

Molti da lì ritornarono direttamente alle proprie

case; i più giovani si fermarono per il ballo.

Don Mosè indugiava in quelle memorie per

evitare di ascoltare quello che dicevano don

Gumersindo e don Valeriano che, come al solito,

parlavano ma non si ascoltavano.

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Cap. 11

Tre settimane dopo, Paco e Agata tornarono dal

viaggio di nozze, in tempo per partecipare alle

elezioni, indette per la domenica successiva.

I nuovi candidati erano per lo più giovani e,

secondo don Valeriano, era gente di estrazione

popolare, tranne qualcuno.

Il padre di Paco si era reso subito conto che

molti di quelli che, come lui, erano stati scelti come

candidati, si consideravano contrari al duca e

parlavano male del sistema d'affitto dei pascoli.

Ascoltando questi discorsi, Paco si sentiva

felice: credeva, per la prima volta, che la politica

potesse servire a qualcosa. E ripeteva:

- Andiamo a togliere l'erba al duca.

Il risultato delle elezioni aveva lasciato tutti un

po' meravigliati; lo stesso curato era rimasto alquanto

perplesso, perché nessuno degli eletti frequentava la

Chiesa. Allora, aveva chiamato Paco e gli aveva

chiesto:

- Che cosa è questa storia dei monti e del duca?

- Niente! La verità è che stanno venendo tempi

nuovi.

- Ma che novità sono queste?

- Che il re se ne è andato, serenamente. Per me,

che faccia buon viaggio!

Paco aveva pensato che il prete stesse parlando

con lui perché non aveva il coraggio di rivolgersi a

suo padre. Ed allora aveva aggiunto:

- Don Mosè, dica la verità: lo sa che da quel

giorno che portammo l'Olio Santo in quella

catapecchia, io ed altri amici, abbiamo sempre

pensato di fare qualcosa per rimediare a quella

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vergogna? Soprattutto adesso che se ne presenta

l'occasione.

- Quale occasione? Queste sono cose che si

fanno con il danaro, con tanto danaro. Dove intendete

prenderlo?

- Dal duca! Sembra che l'epoca dei duchi sia

arrivata al suo San Martino.

- Ma sta zitto, Paco! Io non dico che il duca

abbia sempre ragione: è un essere umano e, come

tutti, può anche sbagliare. Però, in queste cose

bisogna andare con i piedi di piombo, non aizzare la

gente, stuzzicando le loro basse passioni.

Dell'incontro del giovane con il curato si era

saputo anche alla piazzetta. Qui, dopo il commento

della gente, risultò che Paco avrebbe detto

pressappoco queste cose:

- Uccideremo i re, i duchi e i preti, come si fa

con i maiali a San Martino.

Nella piazzetta i commenti erano sempre

esagerati.

Presto si seppe che il re era davvero fuggito dalla

Spagna.

La notizia non era piaciuta né al curato, né a don

Valeriano. Neanche don Gumersindo voleva crederla

e diceva che era una sciocchezza inventata dal

ciabattino.

Don Mosè non era uscito dalla canonica per due

settimane e andava in Chiesa per la porta del

giardino, per evitare di incontrarsi con la gente.

Nella prima domenica dopo l'avvenimento,

molta gente era andata a Messa con la speranza di

conoscere la reazione del parroco; ma questi non fece

nessuna allusione alla vicenda, per cui, la domenica

successiva la Chiesa risultò completamente vuota.

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Paco andò in cerca del ciabattino e quando lo

trovò, questi era taciturno e riservato.

Frattanto, la bandiera tricolore sventolava sul

balcone della casa concistoriale e sul portone della

scuola. Don Valeriano e don Gumersindo non si

facevano vedere in giro.

Don Càstulo era andato alla ricerca di Paco e si

era fatto vedere insieme con lui; era chiaro che faceva

il doppio gioco. E, quando incontrò il prete, gli disse

sottovoce:

- Don Mosè, ma dove andremo a finire di questo

passo?

In quel villaggio fu necessario ripetere l'elezione,

perché vi furono degli incidenti e, secondo don

Valeriano, non poteva considerarsi legale.

Nella seconda votazione, il padre di Paco si

dimise lasciando il posto al figlio. Ed il ragazzo

risultò eletto.

A Madrid furono soppressi, per legge, i latifondi,

che erano di origine medievale, e diventarono

proprietà demaniale, gestiti dai Municipi.

Sebbene il duca sostenesse che i suoi monti non

potessero essere classificati in quella categoria, tutti i

cinque comuni in cui questi erano ubicati, per

iniziativa di Paco, si misero d'accordo di non pagare

fino a quando i tribunali non avessero sentenziato al

riguardo.

Quando Paco comunicò personalmente a don

Valeriano la nuova situazione, questi restò come

imbambolato, guardando il soffitto e giocando con il

medaglione di sua moglie defunta.

Alla fine, negandosi di accettare la realtà, chiese

che il municipio glielo comunicasse per iscritto.

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La notizia fece subito il giro del paese. Nella

piazzetta si diceva che Paco avesse addirittura

minacciato don Valeriano.

Al ragazzo veniva attribuito ogni genere di

arroganza e di insolenza che non si osava attribuire

agli altri.

Tutti quelli della piazzetta volevano bene alla

famiglia di Paco; ed anche alle altre come la sua, i cui

uomini lavoravano da sole a sole, sebbene qualcuno

avesse anche un po' di terra di proprietà.

Le donne della piazzetta, andavano regolarmente

in Chiesa; tuttavia, si divertivano a sentire la

Jeronima quando cantava quella canzone che diceva:

Il curato diceva alla padrona:

siediti pure comoda in poltrona.

Al riguardo di quelli che vivevano nelle

catapecchie, non si sapeva esattamente che cosa il

Municipio stesse pianificando; e la speranza della

gente umile cresceva. Paco voleva affrontare

seriamente il problema e lo riproponeva in tutte le

sedute della Giunta.

Paco inviò a don Valeriano la decisione del

Municipio e l'amministratore la trasmise al suo

padrone. La risposta del duca fu telegrafica:

"Ordino alle mie guardie di vigilare sui miei

monti e di sparare su ogni cosa o animale che tenti di

entrarvi. Pertanto, il Municipio è avvertito e deve

rendere noto questo avvertimento, onde evitare la

perdita di beni, animali e vite umane".

Dopo avere letto quella risposta, Paco propose al

sindaco di destituire le guardie forestali e di

trasferirle, con una paga migliore, nella sezione

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irrigazione, per migliorare la distribuzione dell'acqua

agli orti.

Le guardie in totale erano tre ed accettarono la

proposta di buon grado. Le loro carabine furono poste

in un angolo della sala delle riunioni; e le bestie del

popolo poterono entrare nei pascoli del duca senza

difficoltà.

Don Valeriano, dopo essersi consultato varie

volte con il prete, decise di convocare Paco, che

volentieri accettò di recarsi a casa sua.

La casa era bella, grande, ben riparata dal caldo,

con balconi bene esposti e l'ingresso per le vetture

con le porte.

Don Valeriano, che si era proposto di essere un

ragionevole mediatore, lo invitò a colazione.

Gli parlò del duca in una maniera familiare e

accomodante. Sapeva che Paco lo accusava di non

essere mai stato nel paese. Il che non era vero: negli

ultimi due anni era venuto tre volte a vedere la sue

proprietà. E' vero che non aveva dormito nel suo

villaggio, ma solo perché aveva pernottato in

quell'altro lì vicino.

Don Valeriano ricordava ancora che quando il

signor duca e la signora duchessa ebbero un colloquio

con la guardia più anziana dei forestali e questi

ascoltava con il cappello in mano, successe un fatto

memorabile: la signora duchessa gli chiese notizie su

ciascuna persona della sua famiglia; e, quando gli

chiese del figlio più grande - don Valeriano ricordava

esattamente il colloquio ed ora ridendo, lo ripeteva a

Paco con le stesse parole - la guardia rispose:

- Chi Miguel? Michelino ha avuto un bel culo:

ora è a Barcellona e guadagna nove pesetas al giorno.

Anche Paco rise un poco, ma subito diventò

serio e disse:

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- La duchessa può essere una buona persona, non

lo metto in dubbio. Del duca ho sentito cose diverse.

Ma ciò non ha niente a che vedere con l'argomento di

cui stiamo parlando.

- Questo è vero. Quindi, parliamo di cose che ci

riguardano: il duca sembra disposto a negoziare con

lei.

- A proposito del monte?

Don Valeriano assentì con un gesto della testa.

- Su questo non c'è nulla da negoziare: deve

piegare la testa.

Don Valeriano non diceva niente. Allora Paco

azzardò:

- Sembra che il duca voglia negoziare come ai

vecchi tempi.

Don Valeriano continuava a tacere, guardando il

soffitto. Paco aggiunse.

- Noi, qui, cantiamo un altro tipo di canzone.

Finalmente don Valeriano rispose:

- Parli di abbassare la testa? Chi deve abbassare

la testa? Solo i buoi abbassano la testa

- Oppure gli uomini d'onore, quando c'è una

legge.

- Certamente. Ma credo che l'avvocato del signor

duca la pensi in maniera differente Vi sono leggi e

leggi!.

Paco si versò del vino dicendo tra i denti:

- Con permesso?

Questa piccola libertà offese l'amministratore,

che però sorrise e disse:

- Prego, si serva pure - quando Paco aveva già

riempito il bicchiere.

- E come vorrebbe negoziare il duca? Non vi

sono alternative. Deve lasciare il monte e non

pensarci più.

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Don Valeriano guardava il bicchiere di Paco; e,

intanto, andava lisciandosi i baffi, che erano talmente

ben curati che sembravano finti. Paco mormorò:

- Bisognerebbe vedere quali documenti ha il

duca su questi monti. Può darsi anche che non ne

tenga affatto.

Don Valeriano cominciava a perdere la pazienza:

- Anche su questo stai sbagliando. Sono secoli

che li possiede; e questo ha una certa importanza.

Non si può distruggere in un giorno ciò che è stato

accumulato durante quattrocento anni. I monti non

sono bottiglie di vino, aggiunse quando vide che Paco

versava ancora altro vino. Ma sono editti, di re.

- Quello che gli uomini fecero, gli uomini

possono disfare. Almeno credo.

- Si, però c'è differenza tra un uomo e l'altro!

Paco, facendo segni di diniego, bevve il secondo

bicchiere, schioccò la lingua e disse:

- Dica al duca che su questo argomento, se crede

di avere qualche diritto, venga egli stesso a difenderlo

in Municipio. E si porti un fucile nuovo, perché quelli

delle guardie ora li abbiamo noi.

- Sembra impossibile! Chi poteva immaginare

che un uomo pieno di problemi e con solo una

pariglia di muli osasse parlare in questo modo. Dopo

questo, non c'è null'altro da vedere nel mondo.

Quando don Valeriano riferì al duca il contenuto

dell'intervista, questi ricominciò ad inviare ordini.

L'amministratore si trovò, così, tra due fuochi e, non

sapendo cosa fare, scelse di lasciare il villaggio dopo

avere incontrato Don Mosè ed avergli raccontato,

naturalmente a modo suo, quello che era successo.

Aveva detto che il popolo era adesso governato

con le chiacchiere della piazzetta. Attribuì a Paco

minacce ed insulti; e sottolineò il dettaglio del

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bicchiere e della bottiglia. Il prete a volte lo ascoltava

a volte no.

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Cap. 12

Nella sagrestia Don Mosè ricordava quel tempo,

dondolando la testa con angoscia.

Il chierichetto era appoggiato alla porta e,

siccome non sapeva stare fermo, strofinava le scarpe

tra loro.

Guardando il curato, recitava qualche strofa

della canzone:

Era stato tanto fiero:

ora sta nel cimitero.

Madri, voi che avete figli

che il buon Dio ve li conservi

e a ciascuno, vile o prode,

metta un angelo custode.

La canzone continuava con la storia di altri

condannati che morirono in quegli stessi giorni dei

quali, però, il chierichetto non ricordava i nomi. Tutti

erano stati assassinati, ma la canzone non diceva così;

c'era scritto "sentenziati".

E il curato andava avanti con i ricordi: negli

ultimi tempi. La fede religiosa di don Valeriano si era

alquanto indebolita. Era solito dire che un Dio che

permetteva queste cose, non meritava tanti riguardi. E

ricordando queste cose, si rammaricava.

Don Valeriano, anni addietro, aveva regalato una

ringhiera in ferro battuto per la Cappella di Cristo.

Anche il duca aveva pagato le spese per la

riparazione della volta in due occasioni. Don Mosè

non poteva parlare di ingratitudine.

Nella piazzetta si diceva che con l'affitto dei

pascoli, i cui proventi adesso sarebbero andati al

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Municipio, si sarebbero potuto pianificare

miglioramenti per la vita del paese.

Dicevano tutti bene di Paco; ma l'elogio più

frequente tra quelle donne era che il ragazzo aveva

ottimi attributi

Nel villaggio confinante avevano già iniziato a

costruire l'acquedotto potabile, per portarlo fino alla

piazza centrale.

Paco aveva altri piani. Pensava che il problema

dell'acqua non era prioritario nel suo villaggio:

c'erano prima le catapecchie! Che, naturalmente, egli

immaginava umide, senza fuoco, senza luce e senza

nemmeno l'aria per respirare, all'interno delle quali

giacevano vecchi agonizzanti.

Nelle proprietà del duca c'era un vecchio eremo,

nel quale, in un giorno dell'estate, si celebrava una

festa con una processione. In quel giorno, i pellegrini

portavano dei regali al parroco e il Municipio pagava

la Messa.

Quell'anno il sindaco non diede il permesso e i

contadini disertarono l'appuntamento.

Don Mosè si lamentò con Paco, ma questi gli

rispose che era un'ordinanza del Municipio.

- Il Municipio? E che cosa è il Municipio? disse

il prete molto irritato.

A Paco dispiaceva vedere Don Mosè arrabbiato.

Gli disse che, siccome quei terreni ed anche l'eremo

erano stati del duca e, siccome la gente era contro di

lui, si poteva capire l'indifferenza del popolo nei

riguardi anche della processione.

In un momento di esasperazione, Don Mosè

esplose:

- Ma chi sei tu, per dire al duca che se viene sui

monti, nelle sue proprietà, non farà più di tre passi,

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perché tu lo aspetti con la carabina di una guardia?

Ma lo sai che queste sono minacce da codice penale?

Paco non aveva detto nulla di tutto questo.

Evidentemente don Valeriano gli aveva raccontato

una bugia. Però, il curato non voleva sentire ragioni.

In quei giorni anche il ciabattino era nervoso,

disorientato: se qualcuno gli chiedeva qualcosa,

rispondeva:

- Ho le traveggole.

Nella piazzetta si burlavano di lui, ma egli

rispondeva:

- Se un vaso cade sulla pietra o una pietra cade

su un vaso, chi ci rimette è sempre il vaso.

Queste parole misteriose non chiarivano la sua

situazione.

Il ciabattino aveva trascorso la sua vita sperando

che questo accadesse; ed ora che si stava avverando,

non sapeva più cosa fare, cosa pensare.

Alcuni consiglieri della giunta gli avevano

offerto l'incarico di giudice delle acque, che

riguardava la competenza nell'uso dell'acqua per

l'irrigazione e la relativa ripartizione

- Grazie, disse lui. - Io mi attengo al proverbio

che dice: - Ciabattino, alle tue scarpe!

Paco, a poco a poco si stava riavvicinando al

parroco. Per il calzolaio era naturale essere contrario

a chiunque fosse al potere, senza distinzione né della

dottrina, né del colore politico

Anche don Gumersindo se ne era andato in città,

ed il parroco sentiva la sua mancanza. Spesso

esclamava:

- Tutti vanno via. Ma io, anche se potessi, non

me ne andrei; mi sembrerebbe una diserzione.

A volte sembrava che il parroco volesse capire le

ragioni di Paco; ma poi presto cominciava a parlare di

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mancanza di rispetto del popolo e delle sue

sofferenze. I suoi discorsi con Paco finivano sempre

con la stessa espressione:

- Bisogna offrirsi come vittima propiziatoria.

Paco rideva:

- Don Mosè, qui nessuno vuole uccidere

nessuno!

La risata di Paco innervosì il parroco, che si

dominava con grande difficoltà.

Quando la gente si era ormai dimenticata di don

Valeriano e di don Gumersindo, questi ritornarono al

villaggio e, spavaldamente, si facevano vedere

assieme al parroco quasi tutti i giorni; sembravano

sicuri del fatto loro.

Il signor Càstulo, curioso, tentava di fare parte di

quella combriccola, ma non riuscì a scoprire nulla

perché gli altri non si fidavano di lui.

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Cap. 13

Un giorno del mese di luglio, la polizia del paese

ebbe l'ordine di concentrarsi in un certo posto dove,

secondo quanto si diceva, si sarebbe unita a quella

proveniente dagli altri distretti.

I consiglieri comunali percepirono quest'ordine

come una minaccia, ma non riuscirono a spiegarsene

il motivo.

All'improvviso, arrivò al villaggio un gruppo di

giovinastri con spranghe e pistole. Sembravano

persone poco dabbene: alcuni gridavano come

isterici. Non si era mai vista gente così svergognata.

Normalmente, quei tipi così rasati e leziosi come

donne, nella piazzetta li chiamavano rammolliti. Però

essi, per prima cosa, inflissero al ciabattino una

tremenda bastonata; e a nulla gli valse che fosse

politicamente neutrale.

Poi, uccisero sei contadini, di cui quattro di

quelli che vivevano nelle catapecchie e lasciarono i

cadaveri nella cunetta della strada che va dal villaggio

alla piazzetta.

Siccome i cani accorrevano a leccare il sangue

delle vittime, misero una delle guardie del duca a

vigilare perché i cani stessero lontano.

Nessuno capiva niente; nessuno faceva

domande; nessun poliziotto aveva tentato di impedire

a quei forestieri di compiere quegli atti.

Don Mosè annunciò che nella Chiesa sarebbe

stato esposto il Santissimo, giorno e notte. Poi

protestò con don Valeriano - che nel frattempo quei

giovinastri avevano nominato sindaco - chiedendogli

perché fossero stati uccisi sei contadini, senza

nemmeno dare loro il tempo di confessarsi.

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Il curato trascorreva il giorno e parte della notte

recitando preghiere. Il popolo era spaventato; nessuno

sapeva cosa fare. La Jeronima era meno loquace del

solito e gironzolava senza meta; ma quando stava

nella piazzetta gridava aspre parole contro i forestieri,

implorando per loro tremendi castighi. Tuttavia,

quando incontrava il ciabattino parlava di legna, di

barre di metallo, insomma, di tutto quelle cose che

potevano alludere alla bastonata.

Domandava di Paco, ma nessuno sapeva

risponderle. Si sapeva solo che era sparito e che ora lo

cercavano.

Il giorno dopo che la Jeronima si era burlata del

ciabattino, questi fu trovato morto nella solita cunetta,

vicino agli altri, con la testa mozzata.

La povera donna si commosse; coprì il corpo con

un lenzuolo e si chiuse in casa, senza uscire per tre

giorni.

Poi, a poco a poco decise di venire fuori e,

naturalmente, si recò alla piazzetta, dove fu accolta da

insulti e rimproveri. La poverina piangeva - nessuno

l'aveva mai vista piangere - dicendo che meritava di

essere uccisa a sassate, come una biscia.

Passarono solo pochi giorni ed ella ritornò nella

piazzetta, dove continuò con la sue buffonate

intercalandole con giuramenti e minacce.

Nessuno sapeva quando la gente veniva

ammazzata. Cioè, lo sapevano, però nessuno li

vedeva: lo facevano di notte. Anzi, di giorno il

villaggio sembrava tranquillo.

Ancora quattro cadaveri, quelli di quattro

consiglieri, furono rinvenuti nella cunetta della strada

che portava alla piazzetta.

Molti abitanti del villaggio erano fuori a fare

legna. Le loro mogli continuavano ad andare alla

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piazzetta e si raccontavano i nomi dei nuovi

assassinati. A volte recitavano delle preghiere, però,

subito dopo cominciavano a parlare male, con parole

insultanti, delle mogli dei ricchi, specialmente della

signora Valeriano e della signora Gumersindo.

La Jeronima affermava che la peggiore di tutte

era la moglie di Càstulo, perché fu lei la causa

dell'uccisione del ciabattino.

- Ma questo non è vero, disse una sua amica.

Sembra che il ciabattino fosse un agente della Russia.

Nessuno sapeva che cosa era la Russia: molti

credevano che fosse la mula rossiccia del mugnaio,

che la chiamavano così per il suo colore.

Erano chiacchiere senza criterio; come non

aveva alcun senso tutto quello che stava accadendo

nel paese.

Tuttavia, facendo attenzione a non alzare troppo

la voce, nella piazzetta continuavano le chiacchiere:

- La Càstulo è una verruca pelosa.

- Un fantoccio ridicolo.

- Un lendine grasso

La Jeronima, ovviamente, non era seconda a

nessuna:

- E' uno scorpione cipollaro e la sua casa puzza

di urina.

Aveva sentito dire che quei giovinastri forestieri

erano venuti per uccidere tutti quelli che avevano

votato contro il re.

La Jeronima in tutta quella catastrofe sembrava

percepire qualcosa di magico, di soprannaturale; e

sentiva dappertutto l'odore del sangue. E quando,

nella piazzetta, sentiva suonare le campane e, a volte,

anche l'incudine del ferraio che faceva da

contrappunto, non poteva fare a meno di muovere

qualche passo di danza, facendo ruotare la gonna.

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Quindi, continuando a maledire la Gumersindo, la

definiva una "zampa di porco".

Ella cercava sempre di appurare che cosa era

successo a Paco, ma nessuno sapeva dirle niente, altro

che lo stavano cercando. Comunque, preso atto di

questo, diceva:

- Non credo che sarà tanto facile acchiappare

questo ragazzo.

Alludeva, naturalmente, alle cose che aveva

visto quando da piccolo gli cambiava i pannolini.

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Cap. 14

Nella sagrestia, Don Mosè ricordava la terribile

confusione di quei giorni e si sentiva tormentato e

confuso: gli spari nella notte, il sangue, i cattivi

pensieri, le chiacchiere, la sfacciataggine di quei

forestieri che, tuttavia, quando erano calmi,

sembravano perfino dei bravi ragazzi.

Don Valeriano si lamentava di quanto stava

accadendo ma, allo stesso tempo, spingeva quei

giovinastri ad uccidere altre persone.

Il curato pensava soprattutto a Paco. Suo padre

in quei giorni era a casa. ed il signor Càstulo aveva

garantito per lui, definendolo "grano pulito".

Gli altri ricchi non si azzardavano a fare niente

contro di lui, perché speravano di mettere le mani su

suo figlio. Nessuno più che il padre poteva sapere

dove stava suo figlio.

Don Mosè andò a fargli visita a casa:

- Quello che sta succedendo in paese è orribile,

disse: non si può definire.

Il padre di Paco , un po' pallido, lo ascoltava

senza rispondere.

Mentre continuava a parlare, il prete vide la

giovane sposa di Paco che gironzolava per casa come

un'ombra, distratta, senza né piangere, né ridere.

Neanche in paese nessuno rideva e nessuno

piangeva.

Il prete pensava che senza piangere né ridere la

vita poteva diventare un incubo.

Ad un certo punto, con un movimento, forse

involontaria, di quelli che suscitano nell'interlocutore

la necessità di mostrarsi amico, il prete diede ad

intendere che conosceva il nascondiglio del ragazzo.

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Credendo di capire che Don Mosè conoscesse il

nascondiglio, il padre e la sposa sentirono il dovere di

ringraziarlo per il suo silenzio.

Il prete non aveva detto che lo sapeva, però

l'aveva fatto capire.

L'ironia della sorte volle che il povero padre

rimanesse vittima di quell'inganno: guardò il prete

pensando esattamente quello che Don Mosè voleva

che egli pensasse:

- Se lo sa e non ha fatto nessuna soffiata, all'ora

è un uomo onorato, tutto di un pezzo. Questa

riflessione lo aiutò a sentirsi meglio. E, così, durante

la conversazione, il padre gli rivelò il nascondiglio di

Paco, credendo di non dire al prete niente che già non

sapesse.

Ascoltandolo, invece, Don Mosè ebbe come un

sussulto. Disse tra se:

- Sarebbe stato meglio che non me lo avesse

detto. Perché io debbo sapere che Paco si nasconde

sui monti, negli ovili del pascolo?

Tremava dalla paura, ma non se ne spiegava il

motivo. Presto andò via; ma cominciò a sperare di

incontrare quei giovinastri con la pistola, per

dimostrare a se stesso la sua lealtà verso Paco.

Per un po' ci riuscì: invano il centurione ed i suoi

amici parlarono con lui tutto il pomeriggio.

Quella notte, il prete dormì tranquillo e recitò le

sue preghiere con la calma che da tempo non

conosceva più.

Il giorno appreso si tenne una riunione nel

municipio, nella quale quei forestieri fecero tanti

discorsi e alzarono anche la voce. Poi, bruciarono la

bandiera tricolore ed obbligarono a tutti i cittadini del

villaggio di venire in piazza e di fare il saluto con il

braccio alzato, quando lo ordinasse il centurione.

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Costui aveva un viso da pacioccone, con gli

occhiali scuri: era difficile immaginarlo come un

assassino.

I contadini, guardando quegli uomini che

facevano gesti incomprensibili, che battevano i tacchi

a comando e gridavano prima di ubbidire, li

credevano pazzi. Ma vedendo che con loro c'erano

anche Don Mosè e don Valeriano, seduti tra i posti

d'onore, non sapevano più che cosa pensare. In

effetto, a parte le uccisioni, l'unico provvedimento

che avevano adottato quegli uomini, era stato quello

di ridare i pascoli al duca.

Dopo un paio di giorni, don Valeriano era nella

canonica, seduto di fronte al prete: con i pollici

appoggiati all'incavo del panciotto - così si vedevano

meglio i suoi gingilli - lo guardava fisso negli occhi.

- Io, come si dice, non voglio il male di nessuno.

Però, non crede che Paco sia stato quello che si è

segnalato più degli altri? Quello che io dico, signor

curato, è che per molto meno altri sono caduti.

- Ma lo lasci in pace, diceva Don Mosè. Perché

versare altro sangue?

Tuttavia, gli avrebbe fatto piacere dare ad

intendere che sapesse dove Paco era nascosto.

In questo modo voleva dimostrare al sindaco che

egli era capace di essere leale e nobile.

Paco era ricercato freneticamente. Erano andati a

casa sua con i cani da caccia affinché annusassero i

suoi abiti e le sue vecchie scarpe.

In quel momento giunse il centurione, quello

pacioccone con gli occhiali scuri insieme con altri

due e, avendo udito le parole del prete, disse:

- A noi non interessano le prediche e i discorsi

rammolliti.; stiamo ripulendo il paese! E chi non è

con noi, è contro di noi.

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- Lor signori credono che io sia un rammollito

mentale?

Allora, tutti diventarono più ragionevoli.

- Le ultime esecuzioni, disse il centurione, sono

state effettuate senza negare nulla ai rei: è stata loro

offerta perfino l'Estrema Unzione. Di che cosa vuole

lamentarsi lei?

Don Mosè fece il nome di alcune persone,

certamente innocenti, che erano cadute; e si chiedeva

se era necessario continuare quella pazzia.

Allora, spazientito, il centurione trasse la pistola

dal fodero, la posò sul tavolo e domandò;

- Dica la verità! Lei sa dove si nasconde Paco,

quello del Mulino?

Don Mosè non aveva capito se il centurione

aveva fatto il gesto della pistola per intimidirlo,

oppure per liberarsi dal peso dell'arma. Era un

movimento che aveva già visto fare numerose volte.

E, intanto, pensava a Paco, al suo battesimo, al

suo matrimonio; o ad altri dettagli poco importanti

della sua vita, come quello dei gufi, o l'odore delle

pernici con la salsa.

Forse, da quella sua risposta dipendeva la vita di

Paco.

Egli voleva molto bene al ragazzo, ma il suo

affetto non era per l'uomo in sé, ma in quanto egli era

una creatura di Dio. Era un amore che andava al di là

della vita e della morte. Dunque, in quelle

circostanze, non poteva mentire.

- Lei lo sa dove si nasconde? chiesero insieme

gli altri tre uomini che accompagnavano il centurione.

Il curato rispose con un cenno della testa, che si

poteva facilmente interpretare come una

affermazione.

Ma quando se ne accorse, era già troppo tardi.

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Allora pretese che quelli gli promettessero di

non ucciderlo. Potevano fargli un processo e, se era

colpevole, condannarlo. Ma ucciderlo così, sarebbe

stato crimine.

Il centurione, assumendo un aspetto bonario,

glielo promise; ed il prete rivelò il nascondiglio di

Paco.

Dopo tentò di chiedere altre assicurazioni per la

vita del ragazzo, ma quelli non lo ascoltarono

nemmeno.

Uscirono in fretta, disordinatamente; e il prete

restò solo.

Spaventato per quello che aveva fatto ma, allo

s6tesso tempo come liberato da un peso, si mise a

recitare preghiere.

Circa mezzora più tardi arrivò trafelato il signor

Càstulo e lo informò che la piazzetta era rimasta

vuota, perché quei giovinastri l'avevano ripulita con

un paio di raffiche di mitragliatrice. Alcune donne

erano morte, altre erano fuggite strillando e lasciando

strascichi di sangue, come una frotta di passeri dopo

una impallinata.

Tra quelle che si salvarono c'era la Jeronima e,

nominandola, Càstulo disse:

- Già si sa, la cattiva erba non muore mai.

Vedendo Càstulo che rideva, il prete si mise le

mani tra i capelli e diventà pallido. Eppure,

quell'uomo non aveva rivelato il nascondiglio di

nessuno. Di che cosa doveva scandalizzarsi? E riprese

a recitare le sue orazioni.

Càstulo continuò a raccontare che, oltre a quelle

che erano morte, c'erano dieci o dodici donne ferite. E

siccome il medico era in carcere, non era facile che

qualcuno le curasse.

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Il giorno dopo il centurione tornò senza Paco,

indignato. Disse che, arrivati presso gli ovili, il

fuggitivo li aveva presi a schioppettate, perché era in

possesso di una carabina delle guardie forestali.

Perciò, era pericoloso avvicinarsi; si rischiava la vita.

Chiese al curato di andare a parlamentare con

Paco. Nel suo plotone c'erano già due uomini feriti ed

egli non poteva rischiarne ancora altri.

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Cap. 15

Era passato un anno e Don Mosè ricordò quegli

episodi come se fossero accaduti il giorno prima!

Vedendo Càstulo entrare nella sagrestia, quello

stesso che un anno prima rideva della strage della

piazzetta, Don Mosè richiuse gli occhi e disse a se

stesso:

- Fui io che rivelai il nascondiglio; io li

accompagnai agli ovili; io parlamentai con lui. Ed

ora, ecco qua...

Quando aprì gli occhi vide, seduti di fronte a lui,

tre uomini: quello del centro era don Gumersindo, un

po' più alto degli altri; i tre lo fissavano impassibili.

Le campane suonarono gli ultimi tre tocchi, lenti

e gravi, e sembrò che rimanessero nell'aria un tempo

infinito.

- Col dovuto rispetto, disse Càstulo, vorrei

pagare io la Messa. E mise mano al borsellino

Il curato disse di no; poi, rivolto al chierichetto

gli richiese se c'era gente nella Chiesa. Il ragazzo,

come sempre, uscì farfugliando la solita canzonetta:

Ha smarrito un finimento

là, tra i rovi, tra gli agnelli:

Volan rapidi gli uccelli,

ma le nubi più a rilento.

Ancora una volta Don Mosè richiuse gli occhi,

con il gomito destro sul bracciolo della poltrona e la

testa appoggiata sulla mano. Sebbene avesse

terminato le sue preghiere, fingeva di continuare per

non essere disturbato.

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Don Gumersindo e don Valeriano, parlando

contemporaneamente e cercando di coprire ognuno la

voce dell'altro, tentavano di spiegare a Càstulo che

anche loro volevano pagare la Messa.

Il chierichetto ritornò molto eccitato; e, senza

potere riferire allo stesso tempo tutte le notizie che

possedeva, disse finalmente:

- C'è una mula nella Chiesa

- Come?

- Nessuna persona, ma una mula è entrata da

qualche parte ed ora gironzola tra i banchi.

I tre uomini andarono nella chiesa e, quando

tornarono, dissero che non era una mula, ma il

puledro di Paco, quello del Mulino, che era solito

girare sempre libero per le strade del paese.

Tutti sapevano che il padre di Paco era malato e

che le donne di casa erano come uscite di senno: gli

animali e gli altri beni, abbandonati.

- Hai lasciato la porta dell'atrio aperta? chiese il

prete al chierichetto.

I tre uomini assicurarono che la porta era chiusa.

Anzi, don Valeriano aggiunse con un sorriso caustico:

- Questo è uno scherzo di cattivo gusto ed una

cattiveria.

Presero in considerazione alcune ipotesi su come

il puledro fosse potuto entrare nella Chiesa: Càstulo

pensò alla Jeronima.

Don Mosè, con un gesto affaticato, chiese loro di

portare l'animale fuori dalla Chiesa. I tre uomini,

insieme con il chierichetto formarono una fila tra i

banchi e, con i gesti delle braccia, spinsero il puledro

verso la porta.

Don Valeriano sosteneva che fosse un sacrilegio

ed era del parere che bisognasse consacrare di nuovo

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la Chiesa; gli altri si limitavano a dire di no e

continuavano a spingere fuori l'animale.

Da una cancellata, quella della cappella di

Cristo, un diavolo in ferro battuto sembrava fare le

boccacce. San Giovanni, nella sua nicchia, alzando un

dito mostrava un ginocchio nudo e femmineo. Don

Valeriano e Càstulo erano così presi da quel compito

che gridavano come se fossero in una stalla. Il

puledro si divertiva a correre tra i banchi.

Rijia! Rijia!

Se la piazzetta fosse ancora vitale, le sue donne

avrebbero avuto un bello argomento per civettare.

Quando il sindaco e don Gumersindo lo

spingevano fuori, il puledro saltava tra loro e li

schivava con un allegro nitrito.

Càstulo, infine, ebbe una felice idea:

- Apriamo le due ante grandi della porta, come si

fa per la processione; l'animale vedrà l'uscita libera ed

andrà fuori da solo.

Il sagrestano corse ad eseguire quell'operazione.

Don Valeriano non era d'accordo: egli non poteva

tollerare che il signor Càstulo, in sua presenza,

potesse prendere delle iniziative.

Quando la porta fu aperta, il puledro fu attratto

da quel torrente di luce.

In fondo all'atrio si poteva vedere la piazza

centrale deserta, con una casa gialla ed un'altra

imbiancata, con i bordi azzurri.

Il sagrestano aveva richiamato il puledro verso

l'uscita; e finalmente l'animale si convinse che quello

non era un posto adatto per lui e se ne andò.

Il chierichetto continuava a recitare sottovoce:

Cominciò di nuovo il pianto

arrivando al camposanto.

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Le porte furono chiuse e la Chiesa si immerse di

nuovo nella penombra. San Michele, col braccio

nudo, alzava la spada contro il dragone e, più in là, in

un angolo, una lampada ansimava incerta sopra il

Battistero.

Don Valeriano, don Cumersindo e il signor

Càstulo presero posto in prima fila.

Il chierichetto si avviò verso l'altare, fece una

genuflessione passando davanti al tabernacolo e

scomparve nella sagrestia.

- Il puledro è uscito, Don Mosè.

Il curato continuava a pensare cosa era successo

l'anno precedente: quei forestieri con la pistola lo

avevano costretto a seguirlo sui monti. E lì,

lasciarono che da solo si avvicinasse agli ovili ed egli,

tremando, gridò:

- Paco, sono io. Non vedi che sono io?

Dall'ovile nessuno rispondeva; da una finestrella

si intravedeva la canna di una carabina. Don Mosè

continuò a gridare:

- Paco, non essere sciocco. E' meglio per te se ti

costituisci.

Dall'oscurità di quella finestra uscì una voce:

- Mi consegnerò solo dopo che sarò morto.

Vengano a prendermi se hanno coraggio.

Don Mosè avvertiva in quella voce una grande

sincerità.

- Paco, in nome di chi hai di più caro, tua madre,

tua moglie...Costituisciti.

Nessuno rispondeva. Alla fine si udì di nuovo la

voce di Paco:

- Dove stanno i miei genitori? E mia moglie?

- Dove vuoi che stiano? A casa.

- Non gli è successo nulla?

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- No!. Però, se tu continui così, chi sa cosa può

accadere.

A queste parole seguì un altro lungo silenzio. Il

prete chiamava Paco per nome, però nessuno

rispondeva. Alla fine apparve Paco stanco e pallido

ed aveva una carabina tra le mani.

Si rivolse al curato:

- Risponda alle mie domande, Don Mosè.

- Si, figlio mio -.

- Ho ucciso qualcuno di quelli che ieri sono

venuti a prendermi?

- No, figliolo.

- Nessuno? E' sicuro?

- Che Dio mi castighi se mento. Nessuno.

La situazione sembrava migliorare: Ed allora il

curato aggiunse:

- Sono venuto qui con la condizione che non ti

faranno nulla. Cioè, ti porteranno davanti a un

tribunale e ti giudicheranno. e se sei colpevole, ti

porteranno in carcere. Niente altro che questo.

- Ne è sicuro?

Il curato tardava a rispondere. Poi, alla fine,

disse:

- Questo ho chiesto. In ogni caso, figliolo, pensa

alla tua famiglia: non è corretto che essi paghino per

te.

Paco si guardò attorno, in un silenzio assoluto.

Quindi disse:

- Bene! Mi restano solo cinquanta colpi della

carabina. Potrei vendere cara la mia pelle, ma poi

sarei costretto a cedere. Dica a costoro che si

avvicinino senza paura, perché ho deciso di

costituirmi.

Da dietro ad una siepe si udì la voce del

centurione:

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- Che butti via la carabina dalla finestra ed esca

piano piano.

E Paco ubbidì.

Dopo qualche momento, fu portato fuori

dall'ovile e trascinato a spintoni ed a calci verso il

paese, con le mani legate dietro la schiena. Paco

camminava zoppicando e quella barba di almeno

quindici giorni che gli rendeva scuro il viso, gli

conferiva un aspetto mostruoso.

Don Mosè, vedendolo in quelle condizioni, ebbe

l'impressione che fosse davvero colpevole.

Lo rinchiusero nel carcere del municipio.

Nello stesso pomeriggio, quei giovinastri

obbligarono il popolo a venire in piazza, dove fecero

dei discorsi che nessuno comprendeva: parlarono del

destino immortale, della responsabilità del comando,

della necessità dell'ordine, della fede in Dio. Seguì un

inno, che essi cantarono con il braccio alzato e la

mano distesa; quindi, ordinarono a tutti, sotto pena di

gravi minacce, di ritirarsi nelle proprie case e di non

uscire fino al giorno seguente.

Quando la piazza fu deserta, prelevarono Paco e

gli altri due contadini dal carcere e li portarono, a

piedi, fino al cimitero, dove arrivarono che era quasi

notte. Alle loro spalle c'era un fitto silenzio.

Il centurione, nel sistemarli contro il muro,

ricordò che non si erano confessati. Allora, mandò a

chiamare Don Mosè, il quale si meravigliò che erano

venuti a prelevarlo con l'automobile del signor

Càstulo. Questi, infatti, l'aveva regalato alle nuove

autorità.

L'automobile avanzò fino al punto dove era

pronta l'esecuzione.

Il prete non aveva avuto il coraggio di fare

domande e all'improvviso si trovò faccia a faccia con

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il ragazzo. Non fu per niente sorpreso; piuttosto,

provò un forte senso di avvilimento.

Si confessarono tutti i tre. Uno di essi era un

uomo che aveva lavorato a casa di Paco. Il poveretto,

senza sapere quello che stava facendo, andava

ripetendo:

- Io mi accuso, padre. Io mi accuso, padre!

L'automobile del signor Càstulo diventò un

confessionale: il prete era seduto dentro ed il reo si

inginocchiava sul predellino. Quando il prete diceva:

- Ego te absolvo...,

le guardie lo prendevano e lo trascinavano

davanti al muro.

Per ultimo arrivò Paco. Aveva un tono di voce

che il curato non aveva mai sentito. Cominciò la

confessione con queste parole:

- Don Mosè, vedo che anche lei è messo male.

Però lei mi conosce, sa chi sono io.

- Si, figliolo.

- Lei mi promise che mi avrebbero fatto un

processo e mi avrebbero giudicato.

- Hanno ingannato anche me! Che posso fare

adesso? Piuttosto tu, se puoi, dimentica ogni cosa e

pensa alla tua anima.

- Perché mi uccidono? Che cosa ho fatto? Noi

non abbiamo ucciso nessuno. Lo dica lei che non ho

fatto niente di male. Lei sa che sono innocente, che

siamo innocenti tutti i tre.

- Lo so, figliolo che siete innocenti: ma che ci

posso fare?

- Se condannano me perché mi sono difeso con

la carabina, lo posso anche capire. Ma costoro non

hanno fatto assolutamente niente.

Paco si attaccava alla sottana del curato e

ripeteva:

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- Questi non hanno fatto niente. Non hanno fatto

niente. E li uccidono!

Don Mosè, commosso fino alle lacrime andava

dicendo:

- A volte, figliolo, Dio permette che muoia un

innocente. Lo fece con suo Figlio, che era certamente

più innocente di voi tre.

Ascoltando queste parole, Paco restò muto, come

paralizzato.

Anche il prete ora taceva.

Si sentiva soltanto un lontano abbaiare di cani ed

i rintocchi di una campana: nelle due ultime settimane

non si udiva che quella campana, notte e giorno.

Allora Paco, con fermezza disperata, disse:

- Se è vero che non c'è speranza di salvezza

allora, Don Mosè, io ho una moglie, che è anche in

attesa di un bimbo. Che sarà di lei? e dei miei

genitori?

Parlava come se stesse per mancargli il fiato. E

Don Mosè gli rispondeva con la stessa frenetica

fretta, parlando fra i denti. A volte pronunciava le

parole in tal modo che era difficile capire quello che

diceva; però si potvano comprendere, perché c'era tra

loro una relazione di sottintesi. Don Mosè parlava

confusamente dei disegni di Dio; e, al termine di un

lungo sospiro, domandò:

- Ti penti dei tuoi peccati?

Paco non capì: era la prima volta che Paco non

capiva il prete. Quando il prete glielo chiese per la

quarta volta, paco rispose di si, ma soltanto col capo.

In quel momento, Don Mosè alzò il braccio e

sentenziò:

- Ego te absolvo...

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All'udire queste parole, due uomini presero Paco

per le braccia e lo spinsero verso il muro, dove

c'erano già gli altri due.

Paco gridò:

- Ma perché ammazzate anche questi due, che

sono innocenti?

Uno dei tre viveva in una catapecchia, come quel

vecchio a cui un giorno avevano portato l'Olio Santo.

All’improvviso, i fari dell'auto, quella stessa

dove era seduto il curato, si accesero.

In quel momento si sentì una scarica dei fucili,

senza che nessuno ne avesse dato l'ordine, né che si

fosse sentita alcuna voce.

I due contadini morirono subito. Paco, tutto

insanguinato, corse verso la macchina, gridando come

un matto:

- Don Mosè, Don Mosè, lei mi conosce...

Avrebbe voluto raggiungere la macchina. Era

tutto macchiato di sangue...

Il centurione prese allora una pistola e la portò

dietro l'orecchio di Paco.

- No! Non lì, disse una voce.

Allora lo trascinarono sul luogo dell'esecuzione,

mentre egli andava ripetendo:

- Domandatelo a Don Mosè, egli mi conosce.

Si udirono due o tre colpi e dopo seguì un lungo

silenzio, durante il quale si sentiva ancora Paco che

sussurrava:

- Don Mosè! E' stato lui a denunciarmi. Don

Mosè...

Il sacerdote, seduto nella macchina, con gli occhi

bene aperti, sentiva che Paco pronunciava il suo nome

ed egli non riusciva nemmeno a pregare.

Qualcuno spense le luci dell'auto. allora il

centurione chiese:

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- E' tutto pronto?

Don Mosè scese dalla macchina e, aiutato dal

chierichetto, diede l'Estrema Unzione ai tre cadaveri.

Un uomo gli consegnò l'orologio di Paco, che

era stato il regalo di nozze di sua moglie, e un

fazzoletto.

Ritornarono al villaggio.

Attraverso i finestrini Don Mosè guardava il

cielo e, ricordando la notte in cui, proprio con Paco,

erano andati a dare l'Estrema Unzione a quel vecchio

in quella catapecchia, E, intanto, avvolgeva

accuratamente l'orologio nel fazzoletto, tenendolo tra

le mani giunte. Ma non riusciva a pregare.

Passarono vicino alla piazzetta deserta;

sembrava che le grosse pietre nude volessero parlare.

Trascorsero due settimane durante le quali Don

Mosè non uscì dalla canonica, se non per celebrare la

Messa.

Pensando ai contadini morti ed alle povere

donne della piazzetta, sentiva una specie di

involontario disagio che, da un lato lo faceva

vergognare e dall'altro lo faceva sentire colpevole.

Il villaggio, muto e malinconico, sembrava una

tomba.

La Jeronima aveva ripreso ad uscire e andava di

nuovo alla piazzetta, da sola, parlando con se stessa.

Talvolta, quando credeva che nessuno potesse

sentirla, urlava; oppure, si metteva a contare i fori dei

proiettili sulla roccia.

Era passato solo un anno da tutto questo e

sembrava un secolo. La morte di Paco era tanto vicina

che Don Mosè credeva di avere ancora macchie di

sangue sul vestito.

Aprì gli occhi e domandò

- Dici che il puledro è uscito dalla chiesa?

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- Si, signore, rispose il chierichetto; e si mise a

recitare altri versi della canzonetta appoggiandosi ora

su di un piede, ora sull'altro:

Ed esalando l'ultimo respiro

si presentò dinanzi al suo Signore. \ Amen.

In un cassetto dell'armadio nella sagrestia c'era

ancora l'orologio di Paco avvolto nel fazzoletto, che

il prete non aveva avuto il coraggio di consegnare ai

genitori ed alla vedova del defunto.

Salì sull'altare e cominciò a celebrare la Messa.

In Chiesa non c'era nessun altro che don

Gumersindo, don Valeriano e il signor Càstulo.

Mentre recitava:

- Introibo ad altare Domini,

pensava a Paco. E continuava a dirsi:

- E' vero! Io lo battezzai, io gli ho dato l'Estrema

Unzione. Almeno - Dio lo perdoni - è nato ed è morto

nell'ambito di Santa Madre Chiesa.

Ora credeva di sentire il suo nome pronunciato

dalle labbra di Paco, già caduto a terra ed

agonizzante: Don Mosè, Don Mosè.

E pensava, spaventato e contemporaneamente

intenerito:

- Ora, io sto celebrando un funerale in suo

suffragio.

E i suoi nemici vorrebbero pagarmelo.