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Sanitanova Srl. La “malattia dolore” secondo la Legge 38/2010: riconoscerla, curarla e gestirla in rete – Modulo 7 1 Il dolore: una malattia da riconoscere, curare e gestire Responsabili scientifici: Dr Sergio Mameli, Responsabile U.O.C. Terapia del Dolore, Presidio Ospedaliero A. Businco, ASL 8 Cagliari Dott. Michele Fanello, Senior Executive Consultant di Sanitanova, società di consulenza e formazione in sanità Sanitanova è accreditato dalla Commissione Nazionale ECM (accreditamento standard n. 12 del 07/02/2013) a fornire programmi di formazione continua per tutte le professioni. Sanitanova si assume la responsabilità per i contenuti, la qualità e la correttezza etica di questa attività ECM. Data inizio corso: 20/12/2015; ID evento: 12-145403 Modulo 7 - Il dolore cronico degenerativo Autore: Dr.ssa Claudia Laterza, pediatra ed esperta in cure palliative, Bari Obiettivi formativi Al termine del modulo didattico, il discente dovrebbe essere in grado di: comprendere l’eziologia del dolore di origine neoplastica; valutare le opzioni terapeutiche; conoscere le più comuni sindromi dolorose. Riassunto Esistono diverse tipologie di dolore non oncologico, a seconda delle cause scatenanti: c’è quello nocicettivo (periferico, che può derivare da un trauma o da malattie infiammatorie come l’artrite reumatoide o l’artrosi), oppure un dolore di tipo neuropatico (interessa le strutture del sistema nervoso centrale o periferico), o un dolore di tipo algo-disfunzionale o da sensibilizzazione centrale, come nel caso della fibromialgia, in cui il meccanismo che genera la sintomatologia dolorosa è legato a un’alterata soglia della percezione di stimoli periferici. Le malattie reumatiche costituiscono la principale causa di dolore cronico non neoplastico. Keywords Malattie reumatiche, fisiopatologia del dolore reumatico, osteoartrosi, artrite reumatoide, mal di schiena, low back pain, lombalgia, fibromialgia, osteoporosi, dolore neuropatico, nevralgia posterpetica, neuropatia diabetica, sindromi dolorose regionali complesse, Complex Regional Pain Syndrome, CRPS, CRPS I, CRPS II, distrofia simpatica riflessa, causalgia Introduzione Non esiste un termine unanime e formalmente riconosciuto per definire il dolore cronico non-oncologico, per il quale sono utilizzati spesso i termini di “Dolore Cronico Degenerativo” o “Dolore cronico benigno”; questa condizione spazia dal dolore in corso di malattie reumatiche (MR), al dolore neuropatico

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Sanitanova Srl. La “malattia dolore” secondo la Legge 38/2010: riconoscerla, curarla e gestirla in rete – Modulo 7 1

Il dolore: una malattia da riconoscere, curare e gestire Responsabili scientifici: Dr Sergio Mameli, Responsabile U.O.C. Terapia del Dolore, Presidio Ospedaliero A. Businco, ASL 8 Cagliari Dott. Michele Fanello, Senior Executive Consultant di Sanitanova, società di consulenza e formazione in sanità

Sanitanova è accreditato dalla Commissione Nazionale ECM (accreditamento standard n. 12 del 07/02/2013) a fornire programmi di formazione continua per tutte le professioni. Sanitanova si assume la responsabilità per i contenuti, la qualità e la correttezza etica di questa attività ECM. Data inizio corso: 20/12/2015; ID evento: 12-145403

Modulo 7 - Il dolore cronico degenerativo Autore: Dr.ssa Claudia Laterza, pediatra ed esperta in cure palliative, Bari

Obiettivi formativi Al termine del modulo didattico, il discente dovrebbe essere in grado di:

comprendere l’eziologia del dolore di origine neoplastica;

valutare le opzioni terapeutiche;

conoscere le più comuni sindromi dolorose.

Riassunto Esistono diverse tipologie di dolore non oncologico, a seconda delle cause scatenanti: c’è quello nocicettivo (periferico, che può derivare da un trauma o da malattie infiammatorie come l’artrite reumatoide o l’artrosi), oppure un dolore di tipo neuropatico (interessa le strutture del sistema nervoso centrale o periferico), o un dolore di tipo algo-disfunzionale o da sensibilizzazione centrale, come nel caso della fibromialgia, in cui il meccanismo che genera la sintomatologia dolorosa è legato a un’alterata soglia della percezione di stimoli periferici. Le malattie reumatiche costituiscono la principale causa di dolore cronico non neoplastico.

Keywords Malattie reumatiche, fisiopatologia del dolore reumatico, osteoartrosi, artrite reumatoide, mal di schiena, low back pain, lombalgia, fibromialgia, osteoporosi, dolore neuropatico, nevralgia posterpetica, neuropatia diabetica, sindromi dolorose regionali complesse, Complex Regional Pain Syndrome, CRPS, CRPS I, CRPS II, distrofia simpatica riflessa, causalgia

Introduzione Non esiste un termine unanime e formalmente riconosciuto per definire il dolore cronico non-oncologico, per il quale sono utilizzati spesso i termini di “Dolore Cronico Degenerativo” o “Dolore cronico benigno”; questa condizione spazia dal dolore in corso di malattie reumatiche (MR), al dolore neuropatico

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(Neuropathic Pain, NP), al dolore in corso di sindromi dolorose regionali complesse (Complex Regional Pain Syndrome, CRPS). Differenziare il dolore cronico di natura oncologica da quello non oncologico può apparire artificioso in quanto non vi sono sostanziali differenze dal punto di vista fisiopatologico; inoltre di fatto vengono utilizzati gli stessi farmaci per il trattamento, seppure con modalità diverse, e anche l’approccio normativo (Legge 38/2010, prescrivibilità SSN…) è analogo, in quanto è garantito al cittadino il sollievo dal dolore di qualsiasi origine e il miglioramento o mantenimento di una dignitosa qualità di vita. Differente sarà ovviamente l’approccio terapeutico a seconda della patologia responsabile della sintomatologia dolorosa, dei tempi previsti per la risoluzione completa della sintomatologia algica, dei percorsi riabilitativi o degli interventi di prevenzione di eventuali ricadute e diverso potrà essere l’approccio terapeutico in relazione all’età dell’assistito e alla sua patologia. Esistono diverse tipologie di dolore non oncologico, a seconda delle cause scatenanti: c’è quello nocicettivo, periferico, che può derivare da un trauma o da malattie infiammatorie come l’artrite reumatoide o l’artrosi, oppure un dolore di tipo neuropatico che interessa le strutture del sistema nervoso centrale o periferico, o un dolore di tipo algo-disfunzionale o da sensibilizzazione centrale, come nel caso della fibromialgia, in cui il meccanismo che genera la sintomatologia dolorosa è legato a un’alterata soglia della percezione di stimoli periferici. Le malattie reumatiche costituiscono la principale causa di dolore cronico non neoplastico e in occasione del 52° Congresso Nazionale della Società Italiana di Reumatologia (SIR), tenutosi a Rimini dal 25 al 28 novembre 2015, è stato ribadito che “il dolore è un sintomo molto importante in reumatologia, che deve essere sempre tenuto in grande considerazione, dal momento che la maggior parte dei pazienti che accedono a un ambulatorio di reumatologia ha un problema di dolore articolare, extra articolare o diffuso”.

Le malattie reumatiche Le malattie reumatiche (MR) comprendono un eterogeneo gruppo di condizioni, la maggior parte delle quali presenta un andamento ingravescente e cronico, a esito spesso invalidante, tanto da comportare un significativo peggioramento della qualità di vita per tutta la durata del loro decorso; hanno maggiore prevalenza nel mondo occidentale, con un indice di morbilità, sul totale delle patologie, pari a circa il 20%. Ad oggi sono più di cento le malattie reumatiche riconosciute; ciò che le accomuna è l’impegno articolare, i cui sintomi prevalenti sono il dolore di diversa entità e la ridotta capacità funzionale. Le malattie reumatiche rappresentano la prima causa di assenza dal lavoro e la seconda di invalidità e ciò richiede un approccio terapeutico sempre più attento, consapevole, precoce e continuativo. Nell’estesa indagine europea del 2006, denominata “Pain In Europe”, già citata nel Modulo 4, l’incidenza del dolore cronico nei diversi paesi del continente appare piuttosto elevata, con una prevalenza generale del 19% e un range compreso fra il 30% della Norvegia e l’11% della Spagna; l’Italia si pone al terzo posto con una prevalenza totale pari al 26%. La stessa indagine ha evidenziato il carattere insidioso del dolore cronico, tanto che i soggetti intervistati hanno mostrato una vasta eterogeneità di risposte circa la considerazione del proprio stato: da un’elevata percentuale di soggetti che si sentono “stanchi per la maggior parte del tempo” (60%), che “non si ricordano quando sono stati liberi dal dolore” e che si considerano “più anziani di quanto non siano in realtà” (30%), si arriva al 10% dei soggetti che riferiscono che “il dolore è così insopportabile da desiderare la morte”. Lo stato di dolore cronico, come peraltro atteso, ha comportato non solamente profonde modificazioni delle situazioni lavorative (per il 17-28% delle persone il lavoro è stato perso o cambiato in peggio), ma ha comportato l’esordio di depressione in oltre il 20% dei casi, con necessità di intraprendere una terapia con psicofarmaci. Lo studio, fra le molteplici altre valutazioni, ha infine confermato che le MR croniche compongono il gruppo di affezioni con maggiore prevalenza di dolore cronico, attestandosi al 52% di tutto il campione studiato, rappresentativo della popolazione europea nella sua totalità. Dati più recenti diffusi dall’EULAR (European League Against Rheumatism),in Europa sono oltre 120 milioni (circa un quarto dei cittadini europei) le persone colpite da MR, sommando quelle a carattere degenerativo, come l’osteoporosi, e quelle a carattere infiammatorio, come i vari tipi di artriti e artrosi e le malattie sistemiche del connettivo; a soffrirne è il 10% della popolazione italiana, secondo i dati ISTAT, che riconoscono nella maggioranza dei casi una patologia degenerativa osteoartrosica e solo nel 2% artriti infiammatorie (artrite reumatoide, artrite psoriasica e spondiliti) che, senza trattamento precoce e

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adeguato, evolvono fino a causare gravi deficit funzionali delle articolazioni interessate, con conseguente invalidità. Secondo i dati 2015, presentati al congresso dell'ANMAR (Associazione Nazionale Malati Reumatici) si stimano dodici ore di lavoro perse, a persona, ogni settimana e oltre 200 euro spesi per cercare di porre fine al dolore causato da queste patologie, con un costo sociale pari a 1,7 miliardi di euro annui, se si valutano le giornate lavorative perse, la ridotta efficienza produttiva e i costi delle pensioni di invalidità erogate (attribuite nel 27% dei casi a malattie reumatiche). Le diverse forme terapeutiche attualmente in uso hanno profondamente cambiato l’evoluzione di alcune patologie e ciò è particolarmente vero quando vengono affrontate all'insorgere dei primi sintomi, cioè prima che si stabiliscano modificazioni articolari irreversibili e invalidanti; nonostante le malattie reumatiche vengano contemplate nei documenti di programmazione sanitaria dal 2008, solo alcune Regioni hanno purtroppo dato loro la giusta rilevanza nei propri piani sanitari e pertanto, anche in virtù del progressivo invecchiamento della popolazione, sarà indispensabile un diffuso impegno per eliminare le differenze nell'accesso alle cure, implementando il collegamento tra territorio e medici specialisti ospedalieri, al fine di assicurare il massimo grado di appropriatezza degli interventi e delle prestazioni, minimizzando il grado di progressione di queste patologie. Il dolore nelle malattie muscoloscheletriche, in particolare in corso di fibromialgia e di artrite reumatoide, assume un ruolo primario, non solo come indice di attività e di severità della malattia, ma anche nel contesto di una valutazione prognostica a lungo termine, condizionando le richieste assistenziali del paziente (numero di visite, rischio di ospedalizzazione, richiesta di farmaci), la compliance e il grado di aderenza al trattamento. Molteplici fattori influenzano la percezione e l’espressione esteriore dell’esperienza algica da parte del paziente e ciò rende particolarmente complessa la misurazione di tale fenomeno e l’interpretazione dei risultati; è ben noto come l’esperienza del dolore cronico muscoloscheletrico determini significativi riflessi sulla sfera cognitiva, affettiva e soprattutto su quella comportamentale (comportamento espressivo e motorio, turbe del sonno, interazioni sociali e familiari, dipendenza eccessiva dalla famiglia e dai caregiver, farmacodipendenza, disturbi affettivi, irritabilità, livelli di attività e conseguenze socio-economiche e lavorative), comportando una profonda mutazione della qualità della vita del paziente. Uno stile “maladattivo” nell’affrontare la propria condizione morbosa viene denominato “comportamento anomalo di malattia”ed è inteso come una modalità di malapprendimento nel percepire, valutare e agire in rapporto al proprio stato di salute che causa un abbassamento della soglia di percezione del dolore e un ulteriore peggioramento della qualità di vita, in un circolo vizioso dal quale diviene complicate uscire. È pertanto raccomandabile che, per una valutazione complessiva del dolore, debbano essere incluse misure della disabilità funzionale, dello stato globale di salute e di altre variabili, raccolte mediante appositi strumenti di autovalutazione “paziente-centrici” che possano orientare i curanti a un approccio personalizzato della terapia, che comprenda trattamenti farmacologici e non farmacologici del dolore.

Fisiopatologia del dolore articolare

La conoscenza delle basi fisiopatologiche dell’amplificazione e della cronicizzazione del dolore, dei neurocircuiti preposti alla ricezione, alla trasmissione e alla processazione degli stimoli provenienti dalla periferia e dei sistemi complessi dell’interazione tra una neurolesione e la psiche del soggetto, sono considerati elementi fondamentali in chiave patogenetica. Come già accennato, sostanzialmente tutte le MR croniche sono caratterizzate dalla presenza di una sintomatologia dolorosa persistente che accompagna i pazienti lungo la loro esistenza, peggiorandone la qualità in un circuito che si autoalimenta e che comporta una profonda modificazione della percezione dello stato di salute: la costante presenza del dolore diventa, di per sé, malattia tout court! L’esistenza stessa del dolore cronico appare in grado, come documentato nello studio epidemiologico europeo, di condizionare l’esordio della depressione che diventa, a sua volta, motivo di ridotta compliance al trattamento terapeutico stesso, riducendo la soglia del dolore e aggravando il quadro clinico e terapeutico. In modo schematico e finalizzato a comprendere meglio la fisiopatologia del dolore cronico non neoplastico, possiamo suddividere le MR in quattro gruppi:

degenerative: esempio l’osteoartrosi (OA), in cui è presente una componente infiammatoria ma il dolore è da imputare alla degenerazione articolare;

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infiammatorie: esempio le artriti (artrite reumatoide e spondiloartriti sieronegative), in cui prevale l’infiammazione;

funzionali: esempio il low back pain (LBP) e la sindrome fibromialgica (FM), con meccanismi algici complessi;

strutturali: esempio l’osteoporosi (OP) conclamata, con fratture vertebrali. L’articolazione è una struttura complessa costituita da tessuti articolari (capsula, sinovia, menischi e legamenti) e tessuti non articolari (osso adiacente, cartilagine, legamenti, borse, mucose e vasi). L’innervazione è costituita dai meccanorecettori Aβ che rispondono agli stimoli pressori non nocicettivi e ai movimenti articolari e i meccano-nocicettori Aδ e C che rispondono agli stimoli pressori nocicettivi e ai movimenti che oltrepassano il limite della mobilità articolare; in più sono presenti i recettori silenti, che non rispondono ad alcuno stimolo meccanico, ma che possono attivarsi in presenza di flogosi. I nocicettori sono localizzati nelle capsule, nei legamenti, nell’osso e periostio, nelle borse mucose e nei vasi sanguigni, ma non nella cartilagine articolare. L’aumentata sensibilità al dolore viene attribuita a:

• Sensibilizzazione periferica: aumento della sensibilità dei nocicettori articolari agli stimoli meccanici applicati all’articolazione. Viene indotta da mediatori dell’infiammazione come bradichinina, prostaglandine e citochine.

• Sensibilizzazione centrale: aumento della sensibilità dei neuroni nocicettivi con input articolare nel midollo spinale e nelle aree cerebrali nei confronti di stimoli meccanici applicati all’articolazione. Quindi la sensibilizzazione centrale, indotta dall’input proveniente dai nocicettori articolari sensibilizzati e accompagnata da meccanismi di amplificazione centrale.

Osteoartrosi

L’osteoartrosi (OA) rappresenta la più comune forma di MR a carattere degenerativo. È relativamente rara nei giovani e fino ai 50 anni ha uguale frequenza tra i due sessi,: l’incidenza e in numero di articolazioni colpite aumentano con l’età e diviene più frequente nelle donne. L’osteoartrosi, o osteoartrite nella sua presentazione clinica, è un disordine delle articolazioni sinoviali caratterizzato:

da aree di infiammazione e distruzione focale delle cartilagini articolari che si evidenziano all’indagine ecografica o risonanza magnetica come assottigliamento e irregolarità dello spessore delle superfici delle cartilagini articolari;

da rimodellamento dell’osso subcondrale che si esprime radiologicamente con la sclerosi, la formazione di cisti e di osteofiti;

dall’infiammazione cronica della sinovia e dalla retrazione fibrotica della capsula articolare nelle fasi avanzate.

I sintomi principali dell’osteoartrosi sono il dolore a riposo, che migliora con il movimento e il massaggio; la rigidità di breve durata, all’inizio del movimento e la deformazione progressiva dell’articolazione stessa. L’inizio è insidioso e l’andamento è progressivamente ingravescente: quando compare il dolore, questo è ascrivibile a strutture diverse dalle cartilagini articolari, quali la capsula articolare, le inserzioni tendinee, le borse, i legamenti e l’osso articolare, scoperto a seguito della distruzione della cartilagine articolare. Più che con fattori generici come l’età (invecchiamento), il sesso e l’ereditarietà, essa è correlata con determinanti biomeccaniche quali il danno articolare, con le conseguenti anomalie delle superfici articolari, e l’obesità, soprattutto per l’artrosi localizzata alle grandi articolazioni degli arti inferiori (coxartrosi e gonartrosi). Talvolta si osservano forme di OA generalizzata ma per lo più i sintomi sono generalmente limitati (OA localizzata) colpendo raramente polso, gomito e articolazione tibiotarsica e più spesso anca, ginocchio, articolazioni metatarsali e delle dita dei piedi e mani. Particolarmente frequente, infine, è l’interessamento del rachide – in tutti i segmenti – con i quadri caratteristici di cervicalgia, dorsalgia e lombalgia. Il primo e

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il terzo, inoltre, possono manifestare segni d’interessamento radicolare per schiacciamento, fino alla lesione conclamata delle radici nervose periferiche, con quadri che vanno dalle parestesie fino a un vero e proprio dolore neuropatico e sintomi neurologici. La mano è il distretto più frequentemente colpito; nei giovani adulti la malattia colpisce con una percentuale variabile fra il 6 e il 20% mentre l’80% delle persone anziane presenta artrosi alle mani. Di norma sono colpite contemporaneamente più articolazioni e spesso in modo simmetrico. La malattia determina un progressivo deterioramento delle articolazioni, che limita il funzionamento della mano e soprattutto delle dita, con dolore, rigidità, deformità, impotenza funzionale e difficoltà progressiva nell’eseguire il proprio lavoro e i comuni gesti della vita quotidiana. Spesso sono presenti dei noduli artrosici sia alle articolazioni interfalangee distali (noduli di Heberden), sia a quelle interfalangee prossimali (noduli di Bouchard), ritenuti segni clinici patognomonici della malattia. Una significativa localizzazione dell’OA alla mano è rappresentata dalla rizoartrosi o artrosi del pollice che interessa l’articolazione trapezio metacarpale, provocando dolore e limitazione funzionale con progressiva perdita di forza delle pinze e delle prese, sino a importanti restrizioni dell'uso della mano. È frequente la comparsa, anch’essa progressiva, di un gonfiore e di una "sporgenza" alla base del pollice. La Società Italiana di Reumatologia (SIR) ha deciso di sviluppare delle nuove raccomandazioni sul trattamento dell’OA della mano, a partire dalle raccomandazioni EULAR del 2006, con lo scopo di contestualizzare, aggiornare e facilitare la diffusione delle proposizioni all’interno del contesto italiano: il trattamento ottimale dell’artrosi della mano richiede una combinazione di trattamenti farmacologici e non farmacologici personalizzati in accordo alle esigenze del paziente e tale indirizzo può essere esteso anche ad altre localizzazioni di OA. Il trattamento dell’artrosi della mano secondo le recenti linee guida SIR (2013) deve essere personalizzato tenendo presente:

1) il tipo di artrosi (nodale, erosiva, posttraumatica); 2) i fattori di rischio (età, sesso, fattori meccanici dannosi); 3) la localizzazione e il grado di danno strutturale; 4) la presenza di infiammazione; 5) il livello di dolore, di disabilità e di impatto sulla qualità di vita; 6) la presenza di comorbidità e di trattamenti concomitanti (comprendente l’artrosi in altre sedi); 7) le aspirazioni e le aspettative del paziente.

La Figura 1 rappresenta le principali alteraioni articolari dell’artrosi. Figura 1. Alterazioni anatomopatologiche articolari dell’artrosi

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Artrite reumatoide

L’artrite reumatoide (AR) è una malattia infiammatoria cronica autoimmune ad eziologia sconosciuta e probabilmente multifattoriale, che colpisce primitivamente le articolazioni diartrodiali (che hanno una gamma libera di movimento attorno a un asse). È caratterizzata da dolore articolare, tumefazione e distruzione articolare, disabilità funzionale, coinvolgimento sistemico (cute, occhio, polmone, rene, cuore, arterie, ecc.) e compromissione della durata e della qualità della vita. La malattia colpisce più frequentemente il sesso femminile (4:1) e tra i fattori di rischio sembrano particolarmente importanti la familiarità e il fumo di sigaretta. L’AR rappresenta un importante problema di salute pubblica per via della sua prevalenza, del fatto che colpisce in genere soggetti in età lavorativa (in particolare tra i 30 e i 60 anni) e dei considerevoli costi del trattamento. II danno articolare si manifesta radiologicamente nel 70% dei casi nei primi 2 anni; nel 50% dei casi, con metodiche più sensibili come la risonanza magnetica, già dopo 6 mesi sono evidenti alterazioni morfologiche articolari. Il primum movens della malattia è l’infiammazione della membrane sinoviale con conseguente proliferazione cellulare e formazione del “panno sinoviale”, ricco di enzimi proteolitici che intaccano la cartilagine articolare, distruggendola. Compaiono quindi erosioni ossee sui margini articolari dove si riflette la sinovia e l’osso non è più protetto dalla cartilagine, fino a distruzione dell’osso e comparsa di deformità irreversibili nelle forme più gravi e avanzate.

La diagnosi della malattia è squisitamente clinica: l’AR si distingue dall’OA per le caratteristiche del dolore, in questo caso tipicamente infiammatorio con insorgenza durante il riposo (specie durante le ore notturne), rigidità mattutina prolungata (oltre 1 ora), coinvolgimento di più sedi articolari (>3) soprattutto le piccole articolazioni metacarpo-falangee, interfalangee prossimali (a differenza di quanto avviene in corso di artrite psoriasica, dove si osserva l’interessamento delle articolazioni interfalangee distali) e dei polsi con tumefazione simmetrica delle medesime sedi (destra e sinistra). La sintomatologia riflette la patogenesi dell’artrite: durante il riposo articolare, la sinovite

determina produzione di liquido sinoviale che aumentando le dimensioni dell’articolazione, distende la capsula articolare con sollecitazione dei nocicettori; durante il movimento, al contrario, si verifica il riassorbimento del liquido sinoviale, con detensione della capsula e riduzione del dolore. L’obbligatoria presenza della sinovite nella AR consente di osservare come questa patologia non possa interessare il rachide (essendo questo privo di membrane sinoviali eccetto che nell’articolazione nell’articolazione atlanto-epistrofeica, in cui la presenza di sinovia sul dente dell’epistrofeo può condizionare una sinovite localizzata, con dislocazione atlanto-occipitale e temibili compressioni bulbari. La necessità di una diagnosi precoce di artrite e, conseguentemente, l’attenzione alle fasi d’insorgenza di una flogosi articolare cronica, si è imposta da quando la letteratura degli ultimi 10 anni ha dimostrato che il danno articolare si produce molto precocemente e che un intervento terapeutico nelle fasi iniziali della malattia rappresenta un’opportunità da non lasciarsi sfuggire (window of opportunity) per modificare sostanzialmente il decorso dell’artrite reumatoide. Infatti, il trattamento precoce (entro 3-6 mesi) permette di rallentare, se non interrompere, la progressione del danno articolare; alcuni trial, inoltre, indicano che la terapia con Disease Modifying Anti-Rheumatic Drug (DMARD, quali glucocorticoidi a basso dosaggio, inibitori del TNF-alfa e altri farmaci biotecnologici), attuata precocemente, rallenta l’evoluzione del danno radiologico e riduce la velocità di progressione della malattia che, non trattata, non solo conduce alla distruzione completa dell’articolazione, ma manifesta l’interessamento di molteplici organi e apparati. È frequente un’anemia associata a riduzione del ferro circolante con ferritinemia elevata; è temibile l’interessamento renale (con esito in insufficienza renale e amiloidosi a esito infausto); è possibile la documentazione di sierositi (pericarditi e pleuriti) e di un interessamento polmonare. L'esposizione cronica degli endoteli vascolari alle citochine, agli immunocomplessi e ai mediatori dell’infiammazione, accelerano i processi arteriosclerotici che compromettono il sistema cardiovascolare dei pazienti con AR e sono spesso causa di precoce comparsa di accidenti cerebro-cardio-vascolari. Il trattamento ideale richiede, comunque, un approccio multispecialistico con la collaborazione tra medici reumatologi, medici di medicina generale, ortopedici, fisiatri (per la terapia sia fisica sia occupazionale),

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psicologi. La terapia della malattia, riducendo il processo infiammatorio, riduce anche il dolore che comunque va trattato secondo le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, facendo uso di paracetamolo, FANS e coxib e di oppioidi nelle categorie in cui questi farmaci siano controindicati (vedi al riguardo il Modulo 8) o inefficaci o in presenza di dolore persistente moderato-severo. Recentemente, la task force dell’EULAR ha formulato 12 raccomandazioni per il trattamento dell’AR con DMARD sintetici e biologici in grado di bloccare l'azione di talune citochine pro-infiammatorie che svolgono un ruolo patogenetico centrale nell'automantenimento dell'infiammazione reumatoide (vedi al link: http://ard.bmj.com/content/early/2010/05/04/ard.2009.126532.abstract). In generale, in base alle raccomandazioni EULAR, il trattamento dell’AR dovrebbe seguire tre fasi (step) decisionali successive; tali raccomandazioni sono state recepite e modificate da una consensus italiana che ha portato a stilare le linee guida per la regione Toscana e possono essere approfondite all’indirizzo web: http://www.snlg-iss.it/cms/files/LG_Reumatologia_2015_ok.pdf

Mal di schiena

Una patologia di grande rilevanza epidemiologica è costituita dalla lombalgia (Low Back Pain, LBP). Alla colonna vertebrale sono imputate funzioni di supporto, di motilità e di protezione delle strutture nervose in essa contenute: ne consegue la necessità di una struttura complessa che associa la resistenza alla possibilità di movimenti in più direzioni. La colonna vertebrale deve essere valutata nel suo insieme ma, per motivi pratici, si suole considerare il concetto di unità funzionale, costituita da due vertebre adiacenti, il disco intervertebrale e il complesso ligamentoso di rinforzo e sostegno. I peduncoli vertebrali di due vertebre adiacenti delimitano il forame intervertebrale attraverso cui esce dal canale vertebrale la radice nervosa corrispondente. Ognuna delle strutture che compongono l’unità funzionale è riccamente innervata da terminazioni nervose, che si raccolgono in fibre mieliniche (che sono maggiormente interessate nel dolore acuto) o non mieliniche (responsabili del dolore cronico mal localizzato, spesso urente). In un’elevata percentuale dei casi, la sintomatologia dolorosa alla schiena è legata a una compressione delle radici nervose e/o a un’instabilità dei normali rapporti tra le singole componenti dell’unità funzionale, nella posizione statica ma soprattutto in occasione del carico e movimento. Il dolore cronico lombare, comunemente chiamato mal di schiena o LBP è la causa più frequente di disabilità muscolo-scheletrica con un’incidenza del 5% sull’intera popolazione mondiale; il 98% della popolazione mondiale, almeno una volta nella vita, ha sofferto di questo disturbo con un picco di prevalenza tra i 35 e i 55 anni. Nel 50% dei casi migliora in un periodo di tempo inferiore a 10 gg e non supera le 6 settimane (lombalgia acuta), mentre l’80% migliora entro le 12 settimane (lombalgia subacuta); una percentuale tra il 6 e il 10% presenta invece una sintomatologia dolorosa continuativa per un periodo superiore ai 6 mesi, con frequenti recidive. La miglior condotta terapeutica nel trattamento della sintomatologia dolorosa del rachide lombare non può prescindere da un’accurata diagnosi. Il LBP può conseguire a un disordine primitivo del rachide (spondiloartrosi, polientesopatia iperostosante dismetabolica, spondiliti, ernie discali, stenosi canalari, sindromi delle faccette articolari, ecc.), ma può essere anche espressione di una patologia extra-rachidea (aneurismi dei vasi arteriosi addominali, processi espansivi degli organi addominali), così come essere localizzazione di lesioni ripetitive eteroplastiche metastatiche. La richiesta di accertamenti diagnostici (TAC, Rx, RMN, indagini di laboratorio…) va riservata ai casi in cui anamnesi ed esame obiettivo fanno sospettare la natura infettiva, neoplastica o traumatica (vedi Tabella 1) della lombalgia quindi in totale a non più del 4% dei pazienti. La strategia terapeutica in presenza di lombalgia acuta, dopo avere escluso le citate condizioni patologiche causali, comprendono strategie comportamentali (corretta postura, rapida ripresa dell’attività lavorativa, rassicurazioni sulla natura benigna del LBP, attività aerobiche a basso impatto come cammino e nuoto) e terapia del dolore con paracetamolo (1000 mg per 3 volte al dì) o FANS e coxib nelle classi non a rischio (vedi Modulo 8) o oppioidi per il dolore moderato-severo e nelle classi di pazienti a rischio per FANS e coxib, preferendo l’uso di un basso dosaggio di oppioidi forti somministrati per os, da sospendere gradualmente al miglioramento del quadro clinico. Poco utili si sono dimostrati nei vari studi i miorilassanti e gli antidepressivi; gli steroidi sono indicati a dosi piene e per brevi periodi, in presenza di interessamento radicolare. La manipolazione, consigliata in acuto per controllare i sintomi nel breve termine della lombalgia senza segni radicolari, va somministrata da personale sanitario qualificato. Corsetti, trazioni,

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Tens, mezzi fisici, mesoterapia e infiltrazioni articolari non presentano studi a evidente supporto della loro efficacia. Ovviamente nel caso in cui compaiano, persistano oltre le 4 settimane o peggiorino i sintomi neurologici agli arti inferiori è indispensabile una approfondita rivalutazione. L’adesione alle raccomandazioni descritte, nella pratica clinica, riportate in modo pressoché concorde nelle linee guida sull’argomento, è efficace nel ridurre la disabilità e migliorare la funzionalità fisica del paziente con LBP. Tabella 1. Segni e sintomi di allarme- Semafori rossi all’anamnesi

Sindrome della cauda equina (sindrome dovuta a compressione o lesione del fascio di fibre nervose al termine del midollo spinale caratterizzata da deficit motorio agli arti inferiori, ipo-anestesia “a sella”, disturbi sfinterici)

Traumatismo Febbre Rapida perdita di peso Tumore precedente Patologia autoimmunitaria – abuso di droghe – HIV Uso prolungato di cortisone Età di insorgenza < 20 anni o > 55 Deficit neurologico sensitivo-motorio

Fibromialgia

La fibromialgia o sindrome fibromialgica è una patologia idiopatica caratterizzata da dolore cronico muscolo scheletrico diffuso e da generalizzati punti di sensibilità, che colpisce il 2-8% della popolazione adulta e due milioni di italiani secondo i dati diffusi in occasione del 52° congresso della SIR (2015). La fibromialgia ha una prevalenza maggiore nelle donne durante l'età fertile, con un aumento dopo la quarta, quinta decade. In dettaglio, questa sindrome è caratterizzata da dolore cronico diffuso al quale possono associarsi numerosi altri sintomi quali affaticamento, disturbi del sonno, sindrome dell’intestino irritabile, cefalea, depressione e ansia; i pazienti che sviluppano fibromialgia spesso hanno storie di dolore cronico in tutto il corpo, per tutta la vita, e una storia di affaticabilità, stanchezza cronica, cefalea ricorrente, dismenorrea, disturbi dell’articolazione temporomandibolare, sindrome del colon irritabile e altri disturbi gastrointestinali funzionali, cistite interstiziale, sindrome della vescica dolorosa e altre sindromi dolorose regionali (soprattutto mal di schiena e dolore al collo). La patogenesi non è chiara nonostante negli ultimi anni siano stati pubblicati numerosi studi sull’argomento: sono state identificate alterazioni del sistema serotoninergico e noradrenergico, dei sistemi di elaborazione del dolore così come dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), fondamentale per la gestione dello stress, che possono riflettere alcuni dei meccanismi fisiopatologici alla base di questa patologia. Anche fattori ambientali sembrano coinvolti nello sviluppo della fibromialgia e diversi “fattori stressanti” sono stati correlati con l’esordio della sindrome: le infezioni (per esempio virus da epatite C, HIV e malattia di Lyme), gli eventi catastrofici, le malattie autoimmuni e altre condizioni dolorose. Anche lo stress psicologico sembra avere un ruolo nello scatenamento della fibromialgia e nelle pazienti con fibromialgia è frequente il riscontro di depressione (22%), distimia (10%), attacchi di panico (7%), fobie (12%), disfunzioni sessuali. Inoltre la fibromialgia è presente nel 25% di pazienti affetti da artrite reumatoide, nel 30% dei pazienti con lupus e nel 50% di quelli affetti da sindrome di Sjögren. Diversi studi indicano invece un decisivo ruolo della sensibilizzazione centrale nella eziopatogenesi di questa patologia; ciò non implica che l’imput nocicettivo periferico (cioè danno o infiammazione) non possa contribuire al dolore di questi pazienti, ma piuttosto che essi sentano più dolore di quanto sarebbe normalmente atteso sulla base del grado di input nocicettivo. Un individuale “Set point” o “controllo di volume” per il dolore è regolato da una varietà di fattori, che include il livello di neurotrasmettitori che facilitano la trasmissione del dolore(turnup the gain o volume control) e quelli che riducono la trasmissione del dolore; questi fattori centrali possono anche causare fatica e alterazione della memoria, del sonno e disturbi dell’umore, probabilmente perché gli stessi neurotrasmettitori che controllano il dolore e la

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sensibilità sensoriale sono coinvolti anche nel meccanismo di regolazione di queste funzioni. Alcuni sintomi come l’ipersensibilità alle luci, ai rumori forti e agli odori e molti sintomi viscerali suggeriscono iperreattività sensoriale globale Spesso questi pazienti vengono erroneamente etichettati come “somatizzatori” mentre l’apparente somatizzazione va inquadrata nella loro iperreattività sensoriale generalizzata. La diagnosi si basa sulla combinazione della storia del paziente, dell’esame fisico, della valutazione degli esami di laboratorio e spesso è una diagnosi di esclusione di altre possibili cause. Nel 2010, l’American College of Rheumatology (ACR) ha definito 3 condizioni necessarie per porre diagnosi di fibromialgia negli adulti:

1) dolori diffusi presenti da almeno 3 mesi; 2) assenza di patologia che spieghi altrimenti i dolori; 3) WPI (indice di dolore diffuso): ≥ 7 e SS (Scale Score) ≥ 5; in alternativa WPI 3-6 e SS ≥ 9.

I criteri del 2011 per la rilevazione della fibromialgia rappresentano un metodo alternativo per valutare la malattia e comprendono un sondaggio self-report che i pazienti compilano: la scheda traccia le zone di dolorabilità, così come la presenza e la gravità di fatica, sonno e di altri eventuali disturbi. Una larga varietà di farmaci sono stati impiegati nel trattamento della fibromialgia ma gli attuali trattamenti disponibili (antidepressivi milnacipran e duloxetina; anticonvulsivanti gabapentin e pregabalin; oppioidi) permettono di controllare il dolore solo parzialmente, trattandosi di un dolore la cui gestione resta complessa a causa del coinvolgimento del sistema nervoso centrale; alla luce di quanto esposto è recente impegno degli specialisti reumatologi valutare le nuove strategie terapeutiche farmacologiche e non-farmacologiche disponibili o ancora in fase sperimentale, che evitino approcci inappropriati e che migliorino significativamente la qualità di vita di questi pazienti. Tra i farmaci in via di sperimentazione che appaiono promettenti come dichiarato dalla SIR (2015) vanno ricordati il TD-9855, farmaco sperimentale, inibitore della ricaptazione della noradrenalina e serotonina (NSRI) da somministrare in un’unica somministrazione quotidiana oppure l’anticonvulsivante mirogabalin , DS-5565, efficace a dosaggi inferiori rispetto a gabapentin e pregabalin; tra i miorilassanti, un recente studio ha dimostrato l’efficacia di 8 settimane di trattamento con basse dosi (1-4 mg) di ciclobenzaprina su dolore, depressione, sonno e qualità della vita ed è in via di sperimentazione una nuova formulazione sublinguale di basse dosi di ciclobenzaprina. Tra i farmaci sperimentali, l’IMC1 è risultato efficace nel ridurre il dolore e l’astenia in un trial clinico randomizzato, condotto su 143 pazienti affetti da fibromialgia; è da verificare la combinazione di un nucleoside anti-herpes virus e il celecoxib e infine, è in corso un trial clinico di fase II per testare la sicurezza e l’efficacia della neurotropina. In fase di definizione anche le terapie non farmacologiche che abbiano mostrato efficacia come i complessi approcci di tipo cognitivo-comportamentale e psico-educazionale, oppure la terapia iperbarica che sembrerebbe, da un recente studio, migliorare i sintomi e la qualità della vita dei pazienti. Come dimostra lo studio spagnolo pubblicato da Gonzalez sulla rivista Reumatologia Clinica, il dolore del paziente affetto da fibromialgia richiede un approccio multidisciplinare, per il quale devono essere attivate più competenze, non soltanto del reumatologo, ma anche del medico che si occupa dell’apparato muscolo scheletrico, dell’algologo, dello psichiatra, dello psicologo, ecc.

Osteoporosi (OP)

L’OP rappresenta una condizione in cui lo scheletro è soggetto a perdita della massa ossea con diminuzione della naturale resistenza dello scheletro che espone il paziente a un maggior rischio di fratture spontanee o da trauma minimo, che implicano la comparsa di dolore cronico. L’osteoporosi può essere prevenuta, diagnosticata (prima delle complicanze) e trattata per ridurre il rischio di incorrere in una frattura. L’incidenza dell’osteoporosi e le fratture correlate aumentano con l’aumentare dell’età fino a colpire una donna su tre e un uomo su cinque nell’arco della vita. L’osteoporosi viene distinta in primaria (post-menopausale o senile) e secondaria (legata a diverse patologie e all’assunzione di farmaci). L’osteoporosi post-menopausale è legata al calo degli estrogeni che si verifica appunto in menopausa e colpisce dal 5 al 29% delle donne in questo periodo della vita. La causa dell’OP è da attribuire alla perdita dell'equilibrio fra osteoblasti e osteoclasti: i primi intervengono nella formazione dell’osso, i secondi nel riassorbimento; una prevalenza dell’attività degli osteoclasti porta a una perdita della resistenza e della tenuta dell’osso. La maggiore attività degli osteoclasti è causata, in menopausa, dalla diminuzione del livello degli estrogeni che porta a un innalzamento delle citochine con attivazione degli osteoclasti, e

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impoverimento della densità ossea, soprattutto a livello di vertebre dorso-lombari, femore e il polso. La maggiore frequenza delle fratture vertebrali è funzione del fatto che l’osso delle vertebre è costituito da osso trabecolare (ad alto turnover), a differenza dell’osso dello scheletro appendicolare (corticale, a basso turnover). L’osteoporosi senile colpisce entrambi i sessi e si verifica in età più avanzata, interessando fino al 6% della popolazione; interessa tanto la colonna vertebrale quanto le ossa lunghe (es. femore), il bacino e altre sedi, provocando fratture a carico delle vertebre, del collo femorale, del polso e dell’omero. L’osteoporosi secondaria si verifica in corso di malattie endocrine (morbo di Cushing, malattie della tiroide e delle paratoroidi), di neoplasie (può essere facilitata anche da alcuni trattamenti antitumorali), di malattie croniche (bronco-pneumopatia cronica ostruttiva, diabete mellito, scompenso cardiaco), di alcune malattie reumatiche (es. artrite reumatoide) e gastrointestinali (es. morbo di Crohn, celiachia) e per assunzione cronica di alcuni farmaci (es. cortisonici, antiepilettici, immunosoppressori, ormoni tiroidei). I nervi penetrano nella diafisi ossea attraverso un canalicolo, si ramificano nel canale midollare e nella compatta diafisaria, raggiungendo le epifisi prossimale e distale, distribuendosi nella spongiosa e nella compatta sino al confine delle cartilagini articolari. Quindi anche la compatta e la spongiosa, un tempo ritenuti quasi privi di innervazione sensitiva, sono in realtà ricche di nocicettori. In definitiva l’osso provoca dolore quando sono stimolati meccanicamente il periostio, la compatta, la spongiosa o il canale midollare. Nella spongiosa e nel canale midollare si evoca dolore quando aumenta la pressione all’interno di queste strutture, come nel caso di ematomi e nell’osteomielite, o quando le lamelle ossee sono fratturate o microfratturate. Il danno del periostio può essere prodotto quindi dalle fratture o dalle microfratture: queste ultime sono la principale causa del dolore da OP interessando sia il periostio, sia la compatta sia la spongiosa. Per prevenire l’osteoporosi, è bene “costruire” ossa sane e robuste durante gli anni dell’adolescenza e proseguire per tutta la vita tenendo sotto controllo i fattori di rischio e adottando tutte le misure che favoriscano la salute dell’osso. Una serie di misure generali aiutano a contrastare l’osteoporosi: seguire una dieta ricca di calcio (fabbisogno giornaliero variabile per età e sesso), limitare l’assunzione di sale, garantire un’adeguata assunzione di vitamina D (800-1000 UI/die) e ricorrere, se necessario, a supplementi vitaminici al di sopra dei 50 anni o in presenza di carenza di vitamina D, all’esposizione quotidiana al sole (per almeno 10 minuti), allo svolgimento di regolare attività fisica; occorre inoltre evitare fumo, alcol e sottoporsi agli esami preventivi quando indicato (densitometria ossea) per attuare una terapia precoce. La prevenzione delle fratture invece passa soprattutto attraverso la prevenzione delle cadute nelle persone anziane, favorendo il più possibile una deambulazione “sicura” di questi pazienti, fornendo loro eventuali dispositivi “di protezione” quali bastoni da passeggio o stampelle. Nel caso di fratture traumatiche, il trattamento dipende principalmente dall’entità del danno, dall’età del paziente, dalla presenza o meno lesioni ai nervi; nella maggior parte dei casi il trattamento è chirurgico. Fino a vent’anni fa le fratture da osteoporosi si curavano con riposo a letto, antidolorifici e un busto per alcuni mesi; oggi, vertebroplastica, cifoplastica e tecniche percutanee mininvasive offrono un’alternativa valida soprattutto per i pazienti provati dal dolore alla schiena, nei quali la terapia conservativa non ha dato benefici. Queste procedure hanno il pregio di poter essere eseguite in anestesia locale nell’80% dei casi e di rimettere il paziente in piedi nell’arco di 24 ore, evitando l’allettamento prolungato con le conseguenze negative che può comportare per l’anziano. La vertebroplastica (vedi Figura 2) consente la stabilizzazione della frattura con l’iniezione di cemento acrilico, per mezzo di una piccola cannula, nel corpo vertebrale. La cifoplastica (vedi Figura 3) si esegue inserendo nel corpo vertebrale un palloncino, gonfiandolo fino a dilatare il corpo vertebrale ristabilendone la normale altezza, quindi iniettando cemento o osso sintetico per consolidare e stabilizzare la frattura ripristinando la morfologia originale del corpo vertebrale.

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Figura 2. Vertebroplastica

Figura 3. cifoplastica

Il dolore neuropatico (NP) Il dolore neuropatico è dovuto a un danno primario o una lesione al sistema nervoso centrale o periferico. La sede della lesione non può essere utilizzata a discriminazione della patologia, in quanto i meccanismi alla base del dolore neuropatico possono espandersi durante la malattia e coinvolgere sia la patofisiologia centrale sia quella periferica al punto che alcuni Autori considerano il dolore neuropatico come una malattia nervosa progressiva. In seguito al danno a un nervo periferico, il segnale di dolore origina inizialmente dal sito assonale lesionato, ma con il tempo sono afflitte altre porzioni: dai gangli delle radici dorsali (DRG) alle corna dorsali, ai neuroni di ordine superiore, fino a livello corticale. Il dolore neuropatico quindi è indicativo di un danno che si è verificato a carico dei sistemi di conduzione o delle stazioni di integrazione e trasmissione del sistema nervoso centrale o periferico oppure, in assenza di una lesione tissutale, è dovuto a disturbi di conduzione e trasmissione a carico del sistema nervoso periferico o centrale. L’estensione dei fenomeni che generano il dolore è dovuta alle lente reazioni biochimiche del sistema nervoso e studi recenti chiamano in causa modifiche strutturali a livello molecolare nel tessuto nervoso per mutazioni genetiche di canali ionici oppure attivazione della microglia nel corno dorsale del midollo spinale1. Una classificazione fenomenologica si riferisce al tipo di danno che causa il disordine neuropatico e distingue:

danno meccanico a un nervo (es. sindrome del tunnel carpale, ernia del disco vertebrale); malattie metaboliche (es. polineuropatia diabetica); malattie virali neurotrofiche (es. HIV, herpes zoster); neurotossicità (es. chemioterapia o radioterapia); meccanismi infiammatori e/o immunologici (es. sclerosi multipla); ischemia focale al sistema nervoso (es. dolore post-stroke); iatrogeno (es postchirurgico: toracotomia 40%, chirurgia del cancro mammario 50% ) disfunzione multipla del sistema neurotrasmettitoriale, es. la sindrome di dolore complesso

regionale (CRPS).

1 Per approfondimenti consultare anche:

http://iasp.files.cms-plus.com/AM/Images/GYAP/Neuropathic/underlying_mechanisms_of_neuropathic_pain.pdf

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Può essere continuo o subcontinuo o presentarsi con esacerbazioni parossistiche e viene descritto come lancinante o urente (che brucia), con episodi a tipo scossa elettrica o puntura trafittiva; può essere accompagnato ad alterazioni della percezione sensitiva sia di tipo negativo (cioè una riduzione della risposta paragonata a quello che viene definito lo standard normale es: ipoestesia, ipoalgesia) sia di tipo positivo (cioè una risposta esagerata es: disestesia, allodinia). Risulta difficoltoso definire con precisione i confini della sua localizzazione topografica e le differenti componenti che concorrono al suo determinismo e altrettanto difficoltosa risulta la gestione del dolore neuropatico, che richiede spesso terapie complesse soprattutto in situazioni in cui il quadro doloroso è frutto dell’intreccio di due o più meccanismi differenti, alcuni a prevalente componente nocicettiva, altri invece a genesi neuropatica (dolore misto). Il dolore neuropatico è presente in circa il 31% dei pazienti neoplastici in corso di radioterapia, nel 50% di pazienti con insulti traumatici dei nervi periferici, nel 35% dei diabetici e nel 39% di pazienti con pregresso ictus (vedi Figura 4).

Figura 4. Prevalenza del dolore neuropatico in diverse popolazioni Nessuno dei farmaci attualmente impiegati nella terapia del dolore neuropatico è in grado di agire sulle cause del dolore stesso e dunque l’approccio terapeutico alla sintomatologia algica è sintomatologico e non causale. La relazione tra eziologia, patogenesi e sintomi del dolore neuropatico è complessa e la scelta del farmaco in una specifica situazione morbosa deve essere fatta privilegiando gli agenti la cui efficacia è stata dimostrata nell’ambito di sperimentazioni cliniche controllate. In accordo con le linee guida EFNS, l’efficacia degli antidepressivi triciclici per la cura delle mono, multi e polineuropatie dolorose, si è dimostrata lievemente superiore, per cui l’impiego del gabapentin e del pregabalin dovrebbe essere riservato a quei pazienti con controindicazioni agli antidepressivi triciclici (amitriptilina, clomipramina) e alla carbamazepina o nei quali l’impiego di questi farmaci risulti inefficace, anche in considerazione del fatto che per questi pazienti, nella pratica clinica, non ci sono alternative farmacologiche. L’impiego del gabapentin nel dolore post-ictus o da lesione midollare è raccomandato dalle linee guida del NICE sulla sclerosi multipla, insieme alla carbamazepina e agli antidepressivi triciclici, tenendo conto che, al pari degli altri principi attivi, le evidenze su gabapentin sono rappresentate da trial di bassa qualità o studi osservazionali, mentre per il pregabalin sono disponibili trial randomizzati controllati e metanalisi (vedi Modulo 8).

Approfondimento: Il nerve trunk pain Il nerve trunk pain è un dolore profondo neurogeno non neuropatico dovuto alla flogosi dell’interstizio neurale con attivazione dei nerva nervorum che costituiscono l’innervazione intrinseca del nervo.

La Nevralgia post-erpetica (PHN)

La PHN è una sindrome dolorosa neuropatica che compare come complicanza nel 20% di soggetti con herpes zoster (HZ), malattia virale causata dalla riattivazione del virus della varicella zoster (VZV) rimasto latente nei gangli nervosi dall’infezione primaria (varicella). L’HZ è caratterizzato da eruzione cutanea vescicolare, talora pruriginosa, nel territorio corrispondente alla zona innervata da un singolo ganglio

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sensoriale e presenta dolore intenso che precede e accompagna i fenomeni cutanei; si parla di neuropatia posterpetica quando il dolore persiste in corrispondenza dei dermatomeri interessati, oltre tre mesi dopo la guarigione delle lesioni cutanee erpetiche. Questa probabilmente è causata dai danni arrecati al sistema nervoso (deafferentazione, sensibilizzazione centrale o periferica, distruzione della guaina mielica dei tronchi nervosi, infiammazione e alterata afferenza cerebrale) a seguito della proliferazione e della diffusione del virus durante l’infezione erpetica acuta. Utile la vaccinazione per prevenire la varicella o la riattivazione del virus erpetico già presente nell’organismo del soggetto adulto immunocompetente; opportuna la somministrazione di farmaci antivirali prescrivibili a carico del SSN con Nota AIFA 84 (aciclovir 800 mg x 5 die; valaciclovir 1000 mg x 3 die; famciclovir 250-500 mg x 3 die; brivudin 125 mg x 1 die) e di analgesici (FANS o oppioidi) per ridurre il dolore acuto e diminuire il rischio di sviluppare una neuropatia post-erpetica. Esistono due trattamenti locali approvati dalla FDA per il trattamento della neuropatia post-erpetica: la lidocaina al 5% in cerotti come terapia di prima linea e la capsaicina all’8% in cerotti, come terapia di seconda linea. I gabapentinoidi con eventuale successiva aggiunta di antidepressivi triciclici possono essere utilizzati in caso di dolore severo in fase acuta e l’AIFA (nota 4) autorizza la prescrizione a carico del SSN di gabapentin e pregabalin limitatamente ai pazienti con dolore grave e persistente da documentata pregressa infezione da HZ.

Figura 5. Manifestazione cutanea dell’herpes zoster

Neuropatia diabetica

La causa più comune di neuropatia periferica è il diabete; la NP, infatti, può essere presente in ben uno su cinque pazienti con diabete. La polineuropatia sensomotoria diabetica (DSPN) è il tipo più comune di neuropatia diabetica, è associata con una ridotta qualità della vita, significativa morbilità e aumento dei costi sanitari. I pazienti riferiscono sintomi di dolore intermittente o continui come bruciore lancinante, formicolio, intorpidimento, sensazione di caldo, freddo o prurito con distribuzione da distale a prossimale, di solito con inizio dai piedi. Il dolore è tipicamente simmetrico e peggiora durante la notte. Una volta stabilita la diagnosi di PDN, devono essere attuati trattamenti che hanno come obiettivo i sottostanti processi fisiopatologici per prevenire la perdita di fibre nervose e trattamenti sintomatici che mirano ad alleviare i sintomi dolorosi e comprendono duloxetina, gabapentin, pregabalin (vedi Nota AIFA 4) e tapentadolo a rilascio prolungato.

Sindromi dolorose regionali complesse (CRPS) Le sindromi dolorose regionali complesse (Complex Regional Pain Syndrome, CRPS) sono malattie multifattoriali spesso sottodiagnosticate e sottotrattate, che riconoscono diversi meccanismi patogenetici e si presentano con una notevole l’eterogeneità di segni e sintomi; il termine “complesse” fa appunto riferimento ai diversi sintomi clinici che si accompagnano al dolore, mentre “regionale” fa riferimento alla

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distribuzione regionale dei segni/sintomi della sindrome, che usualmente si irradiano in senso distale nell’arto affetto. Ad oggi, solo pochi studi clinici hanno valutato l’efficacia a lungo termine delle terapie specifiche per la CRPS. La Sindrome Dolorosa Regionale Complessa di Tipo I (Complex Regional Pain Syndrome, CRPS I) identifica attualmente quella che una volta era definita Distrofia Simpatica Riflessa (RSD), mentre la Sindrome Dolorosa Regionale Complessa di Tipo II (Complex Regional Pain Syndrome, CRPS II) corrisponde alla causalgia: l’esigenza di dare una nuova definizione a tali sindromi è derivata dal fatto che la loro patogenesi non sempre è correlata a un ipertono simpatico così che, proprio a causa del difficile inquadramento patogenetico, anche la IASP le considera sindromi a patogenesi multifattoriale sconosciuta.

CRPS I o distrofia simpatica riflessa

In uno studio pubblicato su Pain nel 20072 gli Autori hanno dimostrato che l’incidenza della CRPS in Olanda è di 26,2 casi ogni 100.000 abitanti/anno, con un picco di incidenza ai 61-70 anni di età, più di quattro volte superiore ai risultati di un altro studio di popolazione condotto negli USA, nella contea di Olmested da Sandroni et al., nel 2003, che aveva evidenziato un’incidenza di 5,46 casi ogni 100.000 persone anno. La frattura è il più comune evento precipitante che rende ragione del 44% dei casi di CRPS. La primitiva ipotesi patogenetica, sostenuta da Bonica, ipotizza che l’input nocicettivo sia costituito da un danno tissutale che attiva il midollo innescando un ipertono simpatico riflesso, che a sua volta comporta vasocostrizione e ischemia del tessuto sede del danno, attivando un circolo vizioso per ri-eccitazione dei nocicettori iniziali. Ochoa e Cline propongono un diverso meccanismo, secondo il quale la CRPS I è causata da una persistente ipereccitabilità dei nocicettori C, determinata da un primitivo input scatenato da una lesione tissutale. Tale input sarebbe condotto dalle fibre C ortodromicamente al midollo (percezione del dolore), ma produrrebbe anche un riflesso assonico che, in senso antidromico, attiva la neurosecrezione di sostanze che causerebbero una infiammazione neurogena nella sede della lesione, con innesco di un circolo vizioso di automantenimento del dolore e del riflesso assonico. A livello del segmento interessato (mano o piede) si osserva:

1. vasocostrizione (dopo un’iniziale fase calda di vasodilatazione); 2. ipotermia cutanea; 3. ipersudorazione; 4. edema; 5. rigidità articolare; 6. disturbi trofici della cute, degli annessi (peli, unghie), dei muscoli (ipotrofia) e del tessuto osseo

(osteoporosi); 7. dolore inizialmente del segmento distale (mano o piede), che si estende all’intero arto,

sproporzionato rispetto alla lesione, con carattere urente o aching, aggravato dal movimento (incident) e dagli stati emozionali.

La fase acuta (calda o iperemica) può durare 3-6 mesi; la fase distrofica (fredda o ischemica), in cui il dolore si estende all’intero arto, può durare mesi o anni; la fase conclusiva è definita atrofica ed è caratterizzata da rigidità articolare, per trasformazione fibrosa dell’edema e protratta immobilità.

CRPS II o causalgia

È un’affezione rara (1-5% delle lesioni nervose) e prevale in giovani donne (36-42 anni); è una sindrome che si distingue dalla CRPS I in quanto la CRPS II presenta costantemente danno nervoso, che manca nell’altra. La causalgia è la somma di una distrofia simpatica riflessa e di una neuropatia periferica, cui si aggiunge, come in ogni dolore neuropatico periferico, una componente neuropatica da ipereccitabilità centrale. Altra differenza consiste nell’esordio che è esplosivo nella causalgia (pochi giorni), mentre è a lenta evoluzione nella CRPS I. I disturbi si localizzano alla mano o al piede subito dopo il trauma (spesso lesioni da proiettile a carico delle strutture nervose degli arti).

2 de Mos M, de Bruijn AG, Huygen FJ, Dieleman JP, Stricker BH, Sturkenboom MC. The incidence of complex regional

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Clinicamente si esprime come un dolore urente (da cui il nome) intollerabile e dai sintomi che correlano la CRPS I (edema ad evoluzione fibrotica, modificazioni circolatorie, della temperatura, della sudorazione e lesioni trofiche). Per connotarla come causalgia occorre dimostrare il danno nervoso: essa si accompagna a una marcatissima allodinia superficiale e profonda, che induce meccanismi di protezione da parte del paziente verso ogni contatto. L’evoluzione clinica della causalgia tende a migliorare in qualche settimana e, solitamente, non dura oltre l’anno. In rari casi, però, può protrarsi molto più a lungo e il dolore tende a estendersi dalla sede periferica all’intero arto.

Terapia delle sindromi dolorose regionali complesse

Terapia riabilitativa. Prevede un programma di riabilitazione fisica che consenta, attraverso esercizi

mirati, di mantenere in movimento l’arto colpito così da migliorare la circolazione ematica, il tono muscolare, il movimento articolare, cercando di preservare la funzionalità dell’arto colpito. A questi esercizi può favorevolmente essere associata la terapia occupazionale.

Psicoterapia. CRPS è spesso associata a severi disagi psicologici che si manifestano nei soggetti colpiti e nelle loro famiglie: possono quindi manifestarsi sintomi come depressione e ansia che aggravano a loro volta la percezione dolorosa. Un trattamento psicoterapeutico è da considerare in questi casi.

Terapia Farmacologica. Diverse classi di farmaci hanno dimostrato di essere efficaci nella CRPS, in particolare quando utilizzati precocemente nel corso della malattia. Quelli più comunemente utilizzati sono: corticosteroidi (prednisolone e metilprednisolone) indicati per il trattamento della flogosi e dell’edema, da utilizzare nelle prime fasi della malattia, farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS), farmaci per il trattamento del dolore neuropatico (es. gabapentin, pregabalin, amitriptilina e nortriptilina), oppioidi, cerotto di lidocaina 5% e capsaicina topica e anche calcitonina e bifosfonati, -bloccanti (propranololo alla dose di 40 mg ogni 6 h) e -bloccanti (fenossibenzamina alla dose di 10 mg ogni 8 h); recentemente sono state proposte anche immunoglobuline EV.

Il blocco simpatico con anestetici locali fatto tempestivamente, ovvero entro 2 mesi dall’esordio, può produrre in alcuni casi sollievo dal dolore, seppure non duraturo. Successivamente si può considerare la simpaticolisi chimica (fenolo o alcol assoluto) che appare la procedura neurolitica più efficace tra le simpaticectomie percutanee: la termorizotomia a radiofrequenza, toracica o lombare, risulta meno praticata. Tali tecniche, comprese il trattamento chirurgico, dovrebbe essere utilizzate solo nei casi in cui il blocco nervoso è risultato efficace.

Un video consente di comprendere come condurre esame obiettivo in pz con dolore neuropatico. http://www.iasp-pain.org/Education/Content.aspx?ItemNumber=3546

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Questionario ECM

1) Secondo i dati ISTAT, il dolore cronico causato dalle malattie reumatiche colpisce il 10% della popolazione con maggiore prevalenza per: a) artrite reumatoide b) osteoartrosi c) fibromialgia d) sindromi dolorose regionali complesse

2) In quale percentuale di casi, le malattie reumatiche in Italia sono causa di erogazione di pensione

d’invalidità? a) 27% b) 50% c) 70% d) 95%

3) Dolore a riposo e rigidità di breve durata sono sintomi della seguente malattia reumatica?

a) osteoartrosi b) artrite reumatoide c) osteoporosi d) fibromialgia

4) La diagnosi di fibromialgia:

a) si basa su alterazioni degli esami di laboratorio(anticorpi antinucleo) b) si basa sulla combinazione della storia del paziente, dell’esame fisico, della valutazione degli

esami di laboratorio e dall’esclusione di altre possibili cause per i sintomi attribuiti a essa c) si effettua tramite risonanza magnetica nucleare d) si effettua dopo valutazione psicologica del paziente

5) L’osteoporosi è una patologia dolorosa in quanto:

a) causa riduzione della densità del femore che richiede stabilizzazioni chirurgiche b) provoca fratture e microfratture a livello di periostio, compatta e spongiosa c) deforma le articolazioni per danneggiamento della cartilagine articolare d) tutte le risposte indicate

6) Il dolore neuropatico è dovuto a:

a) alterato funzionamento dei nervi periferici, delle radici nervose, del midollo o delle strutture sovraspinali fino alla corteccia

b) lesioni dei nervi periferici c) lesioni dei nervi cranici d) nessuna delle risposte indicate

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7) Il dolore neuropatico centrale:

a) origina da un’anomala attività dei neuroni centrali per danno anatomico o disfunzione primitiva b) è frequentemente causato da lesioni vascolari, traumi midollari, sclerosi multipla c) interessa vaste zone topografiche sia superficiali sia profonde d) tutte le risposte indicate

8) L’uso di anticonvulsivanti (pregabalin e gabapentin), secondo la nota 4 AIFA, è autorizzato per:

a) neuropatia dabetica b) neuropatia posterpetica c) dolore post-ictus o da lesione midollare d) tutte le risposte indicate

9) Le sindromi dolorose regionali complesse

a) riconoscono una eziopatogenesi multifattoriale b) oltre al dolore presentano un vasto corteo sintomatologico c) rispondono a terapie farmacologiche e non farmacologiche d) tutte le risposte indicate