IL DISMORFISMO CORPOREO NELLA CHIRURGIA ESTETICA...altre patologie: disturbo ossessivo-compulsivo,...
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UNIVERSITÀ TELEMATICA “e-Campus”
Facoltà di Psicologia
Corso di Laurea in Scienze e Tecniche Psicologiche
IL DISMORFISMO CORPOREO NELLA CHIRURGIA ESTETICA
Relatore Candidata:
Prof. Gian Mauro Manzoni Federica de Pompeis
Matricola n°4008706
Anno Accademico 2015/2016
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I N D I C E
Introduzione ............................................................................................................... pag.4
Capitolo primo
La dismorfia nell’errore dell’immagine
1.1 Definizione e inquadramento diagnostico ........................................................... pag.8
1.2 La costruzione sociale della rappresentazione del corpo................................... pag.12
1.3 L’immagine corporea: il rapporto con lo specchio ............................................ pag.15
Capitolo secondo
Il problema della spersonalizzazione
2.1 Dalla psichiatria alla psicopatologia individuale .............................................. pag.22
2.2 Criteri diagnostici per il Disturbo da Dismorfismo corporeo ........................... pag.25
2.3 Fenomenologie associate al dismorfismo: anoressia e bulimia ......................... pag.31
Capitolo terzo
Corpo, bellezza e chirurgia estetica
3.1. Estetica e non estetismo .................................................................................... pag.36
3.2 La postbellezza e l’estetica dell’esistenza ......................................................... pag.4
3.3 Il ruolo dei media nella promozione della chirurgia estetica............................. pag.41
Conclusioni .............................................................................................................. pag.49
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A B S T R A C T
Il dismorfismo corporeo nella chirurgia estetica
L’elaborato redatto tratta un tema molto attuale nella nostra epoca, il disformismo corpo-
reo, il rapporto con il propio corpo e la crisi generata da una falsa percezione di questo
correlata ad una bassa autostima, il dismorfofobico che scambia la forma per il contenuto
dominato da una persistente insoddisfazione del propio aspetto.
Nel primo capitolo si definisce la psicopatologia dalle origini ad oggi, si parla dell’evo-
luzione dell’inquadramento diagnostico del disturbo DDC che e’stato inserito nel DSM-
IV classificato tra disturbi Somatoformi. Si tratta di una psicopatologia dell’immagine
del corpo o parti di esso che determina sofferenza, solitudine e insoddisfazione ed induce
a forme di comportamento di tipo ossessivo.
Nel secondo capitolo viene affrontato il problema della distorsione percettiva, della sper-
sonalizzazione, quindi della sensazione del non appartenersi, degli strumenti sul piano
metodologico per la rilevazione del disturbo ed il passaggio dalla psichiatria alla psico-
patologia Una parte e’dedicata anche alla diagnosi dei disturbi del comportamento ali-
mentare, DCA piu’conosciuti con il nome di Anoressia e Bulimia.
Nel terzo capitolo la chirurgia estetica diventa il tema centrale insieme all’idea di bel-
lezza, estetica ed estetismo. Il ruolo dei Media e dei modelli, il difetto fisico ed il bisogno
di apparire,il rapporto cliente/paziente, chirurgo estetico.
E’ anche una chirurgia il cui senso è nell’impegno per un corpo tutelato e difeso nella sua
integrità, pro-ageing e non anti-ageing, con l’obbligo di arrestarsi ‘di fronte ad un impos-
sibile.
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I N T R O D U Z I O N E
Il presente lavoro di tesi ha per oggetto il dismorfismo corporeo, una psicopatologia
dell’immagine del corpo, le esatte cause non sono note ma si ipotizza generata da un
alterata elaborazione degli stimoli visivi, che determinano una preoccupazione ossessiva
per ogni difetto fisico, determinano sofferenza, solitudine ed insoddisfazione inducendo
i soggetti affetti da questo disturbo a ricorrere in modo istintivo e spontaneo alla chirurgia
estetica come via di risoluzione.
La prospettiva che intendo esporre è quella di una chirurgia basata su principi etici, ed
obiettivi condivisi, i cui interventi maturino all’interno di una relazione paziente-medico:
in pratica, una chirurgia che rispetti la soggettività, l’autenticità della persona ed assuma
il significato di chirurgia estetica esistenziale.
Nel primo capitolo sarà delineato l’excursus storico del concetto e l’inquadramento dia-
gnostico, nell’ambito della psichiatria come disformofofobia e, successivamente, nel
DSM- IV, come dismorfobia. Questa manifestazione affatto rara può presentare rapporti
con altre patologie (disturbo ossessivo compulsivo, disturbo delirante, dell’umore, del
comportamento alimentare).
Del DDC saranno esposti i diversi approcci teorici, ed in particolare quello sociologico e
psicologico nelle sue varie declinazioni; tuttavia, negli ultimi anni esistono diagnosi pro-
venienti dalla neurobiologia e dalla genetica.
Per la sociogenesi, il disagio del corpo è di natura sociale, determinato dalle influenze e
dall’esposizione ai modelli forniti dai media, nella consapevolezza che la cultura contri-
buisce a dare forma ai corpi, ne tratta la superficie e suggerisce i modi di essere. Al chi-
rurgo è rivolta la richiesta specifica di quel naso, quelle labbra, quel seno. In psicologia,
gli studi sull’immagine del corpo sono stati fondati sul concetto di schema corporeo, sulla
Teoria del Sé, la percezione soggettiva del corpo e sull’identità. Lo specchio, se ha la
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funzione di attestare l’identità di una persona è anche un nemico insidioso quando l’im-
magine oggettiva, reale, non corrisponde a quella ideale, creata dal soggetto. Pertanto, il
rapporto viscerale tra corpo, aspetto, identità e senso di sé, si incrina tanto più prevale la
percezione soggettiva sull’evidenza oggettiva.
La clinica ha riscontrato che la caratteristica peculiare dei soggetti dismorfici è quella di
passare ’eccessivo tempo’ ad esaminare se stessi, a mettere in atto un costante checking
behaviours, richieste di rassicurazioni e confronti. Inoltre, che quando l’insight è scarso
o assente, un meccanismo difensivo li trascina a ‘flirtare’ continuamente con il pensiero
che la loro vita comincerà quando avranno risolto il problema estetico. In questi soggetti
la forma è il contenuto; essi, quando si guardano si identificano in un corpo percepito
come difettoso, guidati da una voce interiore critica e disapprovante.
Fra gli atteggiamenti ossessivi è da includere l’“overtraining syndrome”, la sindrome da
super allenamento dei dipendenti da sport, la cui attenzione ossessiva per la forma fisica
e lo sviluppo dei muscoli, è indicata con i termini di vigoressia/bigoressia o dismorfismo
muscolare.
Nel secondo capitolo, viene affrontato il problema della spersonalizzazione, ovvero la
sensazione di non appartenersi, nel passaggio dalla psichiatria alla psicopatologia o psi-
cologia dinamica, la quale si è orientata nella investigazione della realtà psicomorbosa
dei casi clinici tradizionali di srealizzazione e dei disturbi di coscienza del corpo. Il pro-
blema viene attualizzato con le esperienze vissute dal preadolescente, il quale riporta a la
sua identità all’esterno (moda, gli Altri) allo scopo di far corrispondere la sua immagine
all’ideale atteso.
Sul piano metodologico, per la rilevazione del disturbo dell’immagine corporea saranno
illustrati i molteplici strumenti che sono stati messi a punto: dalle prime procedure di
distorsione percettiva di specifiche parti o dell’intero corpo, come il Distorting Mirror del
1964 a quelle virtuali che consentono una immersione nelle condizioni desiderabili per il
soggetto. Ad esempio il Figure Rating Sale e il Body Image Assessment del 1999.Un
paragrafo a parte è dedicato alla dispercezione nella diagnosi dei disturbi del comporta-
mento alimentare, DCA. L’anoressia e la bulimia sono considerate delle sindromi cultu-
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rali impostesi all’osservazione clinica solo nei nostri anni, attirando su di sé anche l’at-
tenzione dei mass media. Nella dissociazione tra esigenze del soma e della psiche, in
ambedue i disturbi la psiche ha il sopravvento e tutte le energie vitali della persona sono
rivolte all’idea di raggiungere un’ideale psichico. I criteri diagnostici di valutazione del
disturbo sono incentrati, quasi del tutto, su determinanti di ordine comportamentale e psi-
chico: digiuni, esercizio fisico stressante, l’alternanza di comportamenti di abbuffate e
purgativi o di compensazione, costante monitoraggio del peso, ‘sedute allo specchio’ e
‘prove di vestiario’. Rientra fra i disturbi dell’alimentazione non altrimenti specificati
della bulimia, il non purging bulimics. I soggetti vivono una minore compromissione psi-
chica, ma soffrono soprattutto di insoddisfazione per l’aspetto fisico e bassa autostima, è
costante l’attenzione ai regimi dietetici.
Le terapie per i disturbi alimentari sono guidate dalla storia del paziente e possono con-
sistere in criteri medici, psicosociali, psicoterapeutici, familiari, di gruppo.
Nel terzo capitolo vengono poste diverse questioni riguardo la chirurgia estetica e la bel-
lezza del corpo .La prima consiste nella distinzione tra estetica ed estetismo, intendendo
con quest’ultimo, la ricerca di una bellezza di apparenza, senza poggiare su criteri di
oggettività della diagnosi e dell’indicazione di intervento; La seconda, verte sulla distin-
zione tra interventi di chirurgia ricostruttiva, atti a ripristinare una parte lesa o rovinata
del corpo e di chirurgia migliorativa finalizzati a modificare una parte sana del corpo per
ragioni di preferenza estetica.
Nella post- modernità è cresciuta nella società del benessere la ‘ricerca’ del corpo e del
volto bello, e la bellezza ha acquisito il significato di benessere psico-fisico, per cui la
chirurgia estetica, nel significato etico detto, ha un senso se si impegna a consegnare al
paziente un profilo che lo caratterizzi, dove il suo impegno non è il recupero di un ‘appa-
renza’ persa durante gli anni, mediante una chirurgia estetica anti-ageing, ma pro-ageing,
per un corpo tutelato e difeso nella sua integrità sostanziale.
Questa impostazione della chirurgia estetica, basata su precetti etici, non disconosce l’in-
clinazione naturale della ricerca della bellezza del corpo, ma ha l’obbligo di arrestarsi di
‘fronte ad un impossibile’.
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In questo discorso hanno valore determinati precetti tra cui la relazione del chirurgo con
il cliente/paziente per capire le sue motivazioni ed aspettative e valutarne la ragionevo-
lezza, la sensibilità del chirurgo, la corresponsabilità fronte al rischio di assecondare il
conformismo estetico che ha luogo alla biotipologia chirurgica seguendo i canoni dei me-
dia, la chirurgia estetica così come è stata esposta non vuole la negazione della biodiver-
sità; e perciò può essere chiamata una estetica dell’esistenza nell’era della post-bellezza.
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CAPITOLO PRIMO
La Dismorfia nell’errore dell’immagine
1.1 Definizione e inquadramento diagnostico
Con il termine “Dismorfismo”, dal greco“dysmorfia”, si è fatto riferimento ad una “al-
terazione della forma”, espressione che venne tradotta con “Dismorfismo corporeo”
(Faccio, 2007). A livello soggettivo, l’errata percezione della propria immagine rappre-
senta una “Dismorfofobia”, termine utilizzato in psichiatria da Enrico Morselli, il quale
la inserì fra le idee fisse della mente che si preoccupa in modo morboso della propria
integrità personale (Morselli, 1891). Più tardi, Pierre Janet (19031 in Morselli, 1950) iden-
tificò la“Dismorfofobia”come una sindrome che induce la persona a vivere la vergogna
del proprio corpo.
Per Morselli (1891), la bruttezza del volto era considerata soprattutto una fobia, una pa-
tologia psichiatrica e, a distanza di circa un secolo, il DSM-III-R adottò il termine “Di-
sturbo di Dismorfismo Corporeo” (DDC) in sostituzione di Dismorfismo, eliminando la
distinzione tra le varianti deliranti e non (Faccio, 2007). Riconosciuta sempre di più come
sindrome autonoma, la dismorfofobia è stata inserita nel DSM-IV tra i Disturbi Somato-
formi (Persichetti e al. 2012).
I criteri diagnostici si basano su atteggiamenti tipici, riscontrati nella quasi totalità dei
soggetti, che consistono nella preoccupazione eccessiva per un supposto e immaginario
difetto dell’aspetto fisico, e che causa un disagio nella vita di tutti i giorni, lavorativa e
familiare. Inoltre, per la diagnosi, il paziente deve comunicare una persistente convin-
zione di bruttezza personale ed essere certo dell’evidenza delle sue mancanze estetiche
1Janet P., 1903, L’automatismo psicologico, Cortina,Milano ed.2013.
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(Faccio, 2007).
Gli psicopatologi odierni hanno segnalato, da subito, il fatto che il disturbo a seconda
dell’intensità (dalla minima preoccupazione, all’ossessione) è sempre centrata
sull’aspetto del corpo. Si tratta di una manifestazione morbosa che presenta rapporti con
altre patologie: disturbo ossessivo-compulsivo, dell’umore, ipocondria, disturbi del com-
portamento alimentare, fobia disturbi di personalità.
Nell’ambito della psicodiagnostica dei test, la Machover, 19512 ha utilizzato il test della
figura umana come proiezione dell’immagine corporea e, di riflesso, come immagine di
sé. Nella Figura umana il soggetto si autorappresenta ed esprime il suo approccio verso
la vita, il livello di autostima, oltre ad aspetti inconsci del Sé (Faccio, 2007).
Ne consegue che l’immagine corporea non è mai né stabile né definitiva, ma continua ad
autocostruirsi ed autodistruggersi a seconda della storia personale, e, soprattutto, nel caso
in cui una persona ha subito dei traumi, delle menomazioni, delle malattie. In ragione di
questi aspetti, il DDC è stato, negli ultimi due secoli, oggetto di indagine e definito in
base al paradigma di riferimento di specifiche discipline. Infatti, con il mutamento delle
teorie ed a seconda del centro di interesse, sono state assegnate, di volta in volta, confi-
gurazioni diverse alle fenomenologie psicopatologiche ed al rapporto con il roprio corpo
(Faccio, 2007).
I principali ambiti di studio del dimorfismo corporeo, dalla medicina, alla sociologia e
alla psicologia sociale e le recenti ricerche neurologiche hanno considerato le influenze
socioculturali, la formazione del Sé, il valore del corpo percepito e vissuto, il corpo sano-
patologico e le implicazioni degli studi genetici.
La sociogenesi ha interpretato il disagio psicologico del corpo in chiave sociologica, per
2 Machover K., in Falcone 2008, Il disegno della figura umana, O.S., Firenze, 1951.
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cui anche la bulimia nervosa e l’anoressia sarebbero delle sindromi culturali. Elena Fac-
cio, 2007 in Le identità corporee 3scrive che nonostante non siamo tutti esposti alle me-
desime influenze, siamo interattivamente esposti: alle immagini normalizzanti relative
alla femminilità ed ai modelli codificati della bellezza femminile. Lo stesso processo di
normalizzazione avvenne tra l’Ottocento ed il Novecento quando la scienza impose la
medicalizzazione dei corpi nella distinzione normale/patologico per dare un senso di
identificazione e di ‘rappresentazione della realtà sociale’ (Faccio, 2007). Infatti, la me-
dicina, ha avuto bisogno di riferirsi ad un determinato prototipo (suggerito dal contesto
storico e normativo) al fine di sviluppare un processo di simbolizzazione collettivo e,
come furono in quel tempo costruite le categorie di donne ‘isteriche’ di Charchot o le
‘indemoniate’ dei processi di stregoneria, così il disagio del corpo è stato sottoposto sto-
ricamente a diverse etichette fra cui ‘disturbo funzionale’,‘psicosomatico’, ‘vegeta-
tivo’,sindrome da stress’,‘distonia neurovegetativa’,‘nevrosi vegetativa’ (Faccio, 2007).
Nel tempo, le sindromi psichiatriche del corpo inserite nel DSM, se nella prima edizione
del 1952 elencava sessanta categorie di sindromi, la quarta edizione DSM IV ne contem-
pla trecentocinquanta. Al suo interno è incluso il BED, Binge Eating Disorder, o disturbo
da alimentazione incontrollata. Una peculiarità attitudinale del disordine dismorfico
(BDD) è quella di passare eccessivo tempo ad esaminare se stessi allo specchio, oppure
la grande preoccupazione per la taglia e la forma di qualche parte del corpo. Classificata
come disordine, l’ipotesi dell’insoddisfazione per il proprio corpo, in base a ripetute ri-
cerche, sembra che rappresenti ormai la norma: su di un campione di oltre 400 studenti
universitari è emerso che il 98% delle studentesse riferisce di provare disagio per almeno
una parte o caratteristica del proprio corpo, insieme al 90% dei maschi (Faccio e Fusa,
20054).
Negli studi sull’autoreferenzialità, ovvero la capacità individuale di rappresentare il pro-
prio corpo, è stato riscontrato, nei discorsi di numerose ricerche e inchieste, il ruolo delle
informazioni fornite dai mass media (pubblicità, riviste) responsabili di costruire i bisogni
corporei direttamente o indirettamente. Tale rispecchiamento deriva dal fatto che noi ci
3 Faccio E., Le identità corporee, Giunti Milano, 2007.
4Faccio e Fusa 2005 in Faccio, 2007, Control in bulimic experience at the beginning and at
end of treatement, in via di pubblicazione.
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esprimiamo col corpo e in esso ciò che sentiamo, ma anche il nostro corpo innesca in noi
e negli altri rilevanti pensieri, emozioni e comportamenti; tali manifestazioni possono
essere genuine o più o meno consapevolmente falsificate, mascherate, oggetto di cosmesi
e artefatti (Faccio, 2007).
Roland Barthes, 19985 negli anni Novanta, nell’ambito degli studi semiologici, ha messo
in evidenza l’osmosi tra natura e cultura, la quale plasma il corpo disciplinandolo in base
a regole sociali che stabiliscono ciò che è permesso e ciò che è interdetto, perché il nostro
corpo è sempre un corpo ‘situato in un determinato contesto. L’autore ha suggerito di
imparare a prendere consapevolezza della nostra fragilità e vulnerabilità, quando l’aspetto
fisico e l’immagine si divaricano talmente tanto da produrre l’idea di un corpo sbagliato
capace di travolgere e far soffrire (Faccio, 2007).
La Faccio, in linea con l’approccio sociologico, denuncia la ‘tirannide’ normativa ed este-
tica del nostro sistema culturale, il quale impone al corpo dei prezzi molto elevati in ter-
mini di fatica e di stress e che sono vissuti, a livello individuale, con un angoscioso senso
di non essere belli o di essere disapprovati. Configurati come una situazione pre-clinica,
questi stati d’animo costituiscono il terreno di coltura di altri specifici disturbi (anoressia,
bulimia, binge eating) che vengono poi affidati a specialisti (Faccio, 2007).
Nell’approccio interazionista, il corpo è l’espressione dei rapporti interpersonali e alla
cui costruzione concorre un processo dialogico tra voci narranti individuali, interpersonali
e sociali di contesto, oltre al potente influsso di un simbolismo del corpo proveniente
dalla comunicazione mediale a cui talvolta il corpo cede e tende, per soddisfare la ‘propria
fame di conferme sociali’ (Faccio, 2007). Negli stessi anni, dalla fenomenologia sono
stati tratti i concetti di ‘corporeità’, di ‘empatia’, di ‘mondo della vita’, al fine di riscoprire
il valore della coscienza del proprio corpo nella unità di Körper e Leib, dove il Leib è il
corpo esperito dalla coscienza del soggetto e per cui, oltre avvertire sensazioni di dolore
o di piacere, egli pensa e valuta il proprio corpo soggettivamente, vissuto.
Inoltre, nel più recente paradigma bio-medico-sociale della salute, la corporeità e il
mondo della vita personale hanno un ruolo fondamentale, in quanto i segni del proprio
5 Barthes R., in Faccio, 2007, Scritti, Società, Testo, Comunicazione, Einaudi, Milano, 1998.
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corpo, percepiti, descritti e comunicati, aiutano nella diagnosi, dal momento che il corpo
è, oramai, inteso come una struttura simbolica capace di mediare dei significati che, in
quanto culturali, esprimono il rapporto positivo o negativo di una persona con il suo
mondo reale (Faccio, 2007). In questa prospettiva di analisi, da un lato, la realtà sociale è
il supporto esterno della condizione psico-fisica, dall’altra il corpo è il suo riflesso, l’am-
bito in cui si rivelano le contraddizioni e le aporie, soprattutto le esigenze ed i modelli
normativi richiesti (Faccio, 2007). Lo studio della neurobiologia del DDC è ai suoi inizi
e, a tutt’oggi, gli studi di genetica, sulla familiarità hanno dimostrato la probabile azione
di aspetti genetici nello sviluppo del Dismorfismo coporeo.6 I pochissimi studi con neu-
roimmagini e neuroanatomici hanno messo a confronto alcuni casi clinici, cioè dei sog-
getti con DDC con altrettanti casi non clinici, con il risultato che sia la risonanza magne-
tica che la tomografia computerizzata hanno rilevato nei primi delle asimmetrie, delle
irregolarità di perfusione che sono compatibili con l’alterazione della percezione corpo-
rea. Per ultimi, i dati degli studi di neurochimica hanno fornito un’evidenza indiretta
sull’eziologia e suggeriscono un ruolo a carico della serotonina; mentre studi neuropsi-
cologici indicano che la patogenesi del disturbo potrebbe coinvolgere disfunzioni esecu-
tive (Faccio, 2007). Negli stessi test delle figure di Rey-Osterrieth, 19737 i soggetti DDC
tendevano a concentrarsi su piccoli particolari, anziché sulla figura globale intera, mo-
strando, così, un possibile meccanismo di alterata elaborazione dell’informazione alla
base della eccessiva focalizzazione su singoli dettagli.
1.2 La costruzione sociale della rappresentazione del corpo
Sulla base dell’esperienza clinica è consolidata la convinzione che la dismorfofobia, ov-
vero la errata percezione di sé stessi in senso negativo, è un disturbo comportamentale
effetto della società contemporanea, associato al desiderio di possedere l’immagine cor-
porea adeguata agli standard vigenti, ritenuti indispensabili per un’esistenza relazionale
e lavorativa gratificante e di successo. I dismorfobici si deprimono facilmente per difetti
6 Uno studio di genetica molecolare ha rilevato un’associazione fra il gene acido gamma-
aminobutirrico e la comorbilità DDC-DOC. Déttori D., 2009 in Faccio 1999, I disturbi
dell’immagine corporea. Diagnosi e trattamento, Mc-Graw-Hill, Milano. 7 Rey-Osterrieth, in Faccio, 2007, Il disegno del bambino, Armando Editore, Roma, 1973.
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lievi o immaginari dei lineamenti del viso o per l’acne, le rughe, cicatrici, asimmetrie o
sproporzioni del viso o di parti del corpo; ed a causa del loro disagio o per altre ragioni,
evitano di descriversi in dettaglio e tendono a generalizzare la loro bruttezza, con un lin-
guaggio volto a comunicare una situazione “intensamente dolorosa”, “tormentosa”, o
“devastante”. Molte persone trovano le loro preoccupazioni difficili da controllare, al
punto da provare forti sentimenti di vergogna che li induce all’evitamento, cioè, a chiu-
dersi in se stessi e nascondersi agli altri. (Liotti, Monticelli, 20088). In altri casi, i soggetti
davanti allo specchio mettono in atto un costante checking behaviours, al fine di porre
rimedio al loro presunto ‘difetto’ che rende loro impossibile l’esistenza. Il ‘difetto’ di-
venta il concentrato di tutto quello che nel soggetto non va. E non è da trascurare un
ambiente pubblico come la palestra, dove il dismorfobico esibisce rituali legati alla puli-
zia (es. eccessi nel pettinarsi, nell’eliminazione dei peli, applicazioni meticolose di co-
smetici, manipolazione della pelle) come comportamenti di controllo. I più tipici sono
l’ispezione davanti allo specchio, pesarsi continuamente, tastare ripetutamente alcune
parti del corpo. Essi, spesso, richiedono rassicurazioni riguardo il proprio aspetto, che,
tuttavia portano sollievo solo temporaneo, in quanto sono continuamente assorbiti a con-
frontare la parte ‘brutta’ del loro corpo con quella degli altri.
Le emozioni sperimentate più intensamente sono correlate preminentemente a due sistemi
motivazionali interpersonali, il sistema di rango (vergogna, invidia, tristezza da sconfitta,
paura da giudizio) e il sistema di attaccamento (rabbia, tristezza da perdita), tanto che per
il dismorfobico uno specifico difetto, ben circoscritto (poco importa se del tutto inesi-
stente o lievemente presente) è indicativo di tutto quello che nel soggetto non va, tanto
da vivere in modo angoscioso eventi importanti (Faccio, 2007). Tutta la sua identità ed
il suo valore sono messi in gioco e, se non riesce a controllare questa angoscia dirom-
pente, può sopraggiungere qualcosa di simile all’umore pre-delirante (Faccio, 2007).
Nelle palestre, da diversi anni, sono stati osservati atteggiamenti ossessivi nei confronti
del proprio corpo e che si manifestano con il sottoporsi a sforzi eccessivi. Si tratta di una
8 Liotti, Monticelli in Faccio, 2007, I sistemi motivazionali nel dialogo clinico, Cortina, Mi-
lano, 2008.
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vera e propria patologia, chiamata overtraining syndrome, ovvero sindrome da super al-
lenamento. Chi ne soffre non permette al proprio organismo di recuperare energie, rica-
ricandosi a livello fisico e psicologico come dovrebbe, ma si costringe a sforzi fisici in-
tensi e troppo ravvicinati. I dipendenti da sport soffrono, spesso, anche di disturbi ali-
mentari e l’anoressia e la bulimia nervosa sono alla base delle stesse motivazioni di con-
trollo del peso e dell’aspetto fisico (Faccio, 2007).
L’attenzione ossessiva per la forma fisica e lo sviluppo dei muscoli è conosciuta come
vigoressia/bigoressia o dismorfismo muscolare e coinvolge tutti, ma, soprattutto gli uo-
mini. Indicatori del disturbo sono osservabili dal numero di ore trascorse in palestra, per
sottoporsi a esercizi di potenziamento muscolare; scrutarsi continuamente allo specchio
per valutare lo sviluppo dei singoli muscoli; essere sempre insoddisfatti del proprio
aspetto; sottoporsi a diete iperproteiche, pesarsi in continuazione, utilizzare integratori e,
nei casi più gravi, farmaci anabolizzanti: in pratica vivere lo sport come mania. Tra questi
body builders, dediti all’esercizio fisico in modo compulsivo, è frequente l’abuso di ste-
roidi anabolizzanti, delle sostanze che sono state ritenute analoghe a quelle di cui si può
far abuso per perdere peso, le slim balls o anoressanti (Faccio, 2007).
Quando l’insight è scarso o assente, può subentrare un delirio stimolato da un meccani-
smo difensivo che gli permette di salvare la propria identità con un ragionamento del
tipo: “non sono io che non vado bene, è la mia cicatrice che mi rende orribile e inaccet-
tabile e se riuscirò a eliminarla tutto andrà a posto” (Faccio, 2007 p. 117).
Questi soggetti tendono a ‘flirtare’ continuamente con il pensiero che la loro vita comin-
cerà quando avranno risolto il problema estetico, quando avranno fatto i giusti ritocchi
per poter essere presentabili al mondo (Faccio, 2007).
Nello stesso tempo, però, si innesca quel processo che li impegna in un ulteriore pensiero:
si può sempre essere meglio di quel che si è. E nonostante l’esercizio fisico eccessivo, la
dieta, i trattamenti dermatologici, odontoiatrici o chirurgici, possono esserne ancora in-
soddisfatti.
Il confronto sociale ha rappresentato un quadro teorico utile nella spiegazione della genesi
dell’insoddisfazione per la propria immagine. Richiamandosi alla Teoria del Confronto
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Sociale in Festinger, 19549 vi sono due tipi di confronto, quello downward, nei confronti
di soggetti meno fortunati che per qualche aspetto possono favorire il nostro valore per-
sonale, e quello di tipo upward, coloro che sono percepiti socialmente migliori e più for-
tunati nella loro apparenza fisica (Festinger 1954). L’esposizione ai media, poi, produce
una maggiore valutazione negativa del proprio aspetto fisico ed un declino dell’autostima
(Faccio, 2007).
Per questi motivi, il DDC, il cui esordio avviene solitamente durante l’adolescenza con
un decorso pressoché continuativo, può ritrovarsi associato con Disturbo Depressivo,
Maggiore, Fobia Sociale o Disturbo Ossessivo-Compulsivo. In accordo con la Teoria del
confronto sociale, recenti studi hanno mostrato come le persone depresse o con bassa
autostima presentino una maggiore tendenza al confronto (Faccio, 2007).
1.3 L’immagine corporea: il rapporto con lo specchio
Nel 1968 Carl Rogers (Faccio, 2007) fondatore del Centro per lo studio della persona
sviluppò una teoria del Sé basata sulla percezione soggettiva della realtà.
Il sé è un aspetto dell’esperienza fenomenologica costituito da due diverse dimensioni:
un sé reale, un sé ideale; e tanto più è distante il sé attuale tanto più è grande la delusione.
In ambito psicologico le immagini corporee sono state descritte dallo psicoanalista Paul
Schilder, 195110 il quale ha potuto diagnosticare che il quadro mentale che ci facciamo
del nostro corpo è qualcosa di più di una percezione, in quanto include aspetti non tanto
percettivo-spaziali, attribuibili allo schema corporeo, quanto emotivi, cognitivi ed affet-
tivi. La tesi è stata confermata da Allamani e coll.199011 i quali, dei risultati di una ricerca
9 Festinger L., in Faccio, 2007, La dissonanza cognitiva, Il Mulino, Bologna, 1954.
10 Schilder P., in Faccio, 2007, Immagine di sé e schema corporeo, Franco Angeli, Milano,
ed. 1973.
11 Allamani, e coll. in Faccio, 2007, Immagine corporea: dimensione e misure, Una ricerca
clinica, “Archivio di Psicologia Neurologia Psichiatria”, 2, 171-195, 1990.
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clinica del 1990 riportano che:” …e immagini corporee sono strettamente legate al mondo
emotivo interno ed alla storia personale. Sono mutevoli nel tempo, si generano, e si orga-
nizzano sul piano sensoriale, emotivo, immaginario ed ideativo.” E dal momento che il
corpo non è oggettivabile, cioè non è possibile conoscerlo come si conoscono le cose del
mondo reale, rimane il corpo percepito in quanto corpo vissuto e creato da quella parti-
colare versione soggettiva del sentire se stessi in relazione alla propria esperienza ed dai
modelli e canoni tipizzati in una data realtà storico-sociale.
Tale immagine è propria di ciascuna persona perché è legata al singolo individuo e alla
sua storia; è la sintesi vivente delle nostre esperienze emozionali e rappresenta in ogni
momento la memoria inconscia di tutto il vissuto relazionale (Faccio, 2007). Parallela-
mente all’identità personale che non è data, ma costruita, il valore ed il significato
dell’aspetto corporeo e della sua controparte psicologica, necessita di un doppio processo
di valutazione e di conferma, quello individuale e quello sociale.
Nel campo della psicoanalisi infantile, la distinzione tra schema ed immagine del corpo
è stata oggetto di una ricerca di Francoise Dolto, 200112.
Lo studioso, P.D. Slade, 1994 13 fornisce una definizione maggiormente articolata
dell’immagine corporea - tenendo presente la persona nella sua globalità - come costituita
da quattro componenti:
< percettiva (come la persona visualizza la taglia e la forma del proprio corpo)
< attitudinale (cosa pensa la persona, cognitivamente, del proprio corpo)
< affettiva (i sentimenti verso il corpo)
< comportamentale (alimentazione, attività fisica)
12 Dolto F., in Persichetti e al. 2012, L’immagine inconscia del corpo, Bompiani, Firenze,
2001.
13 Slade P.D., in Faccio, 2007, What is body imagine? Behavior Research and Therapy, 1994.
16
Dall’origine dell’interessamento medico-scientifico, le rappresentazioni corporee sono
state indicate con i concetti di schema corporeo e immagine corporea, cenestesi, che è
l’insieme delle sensazioni tramite le quali la persona avverte e percepisce il corpo come
proprio. Lo schema corporeo è un costrutto concettuale di ordine neurovegetativo intro-
dotto da P. Bonnier, 190514 agli inizi del Novecento, il quale ne diede, prima, una conce-
zione statica di rappresentazione topografica e spaziale, ed in seguito, una concezione
dinamica come organizzazione complessa e articolata, olistica. Lo studioso suppose che
il nostro cervello disegni e aggiorni continuamente una sorta di mappa del nostro proprio
corpo al quale contribuiscono dati percettivi e reazioni motorie. E da tali disegni dipen-
dono giudizi di unità somatica, come ‘il corpo è uno’ e di identità, per dire ‘io sono quel
corpo, solo quello, sempre quello dalla nascita alla morte’. Fra i disturbi dello schema
corporeo l’otologo francese A. Paré, ha riscontrato, nel 1500 la sindrome dell’arto fanta-
sma degli amputati che corrisponde all’illusione dell’esistenza di parti del corpo in realtà
mancanti. Per analogia, il phantom fat è il modo di chiamare quei pazienti che sottoposti
a chirurgia bariatrica hanno la sensazione di essere ancora grassi come prima (Persichetti
e al, 2012).
Il concetto di schema corporeo, viene confuso, a volte, con quello più fluido di immagine
corporea o corpo vissuto, il quale è più pertinente per analizzare il rapporto conflittuale
con le immagini dei disagi dismorfofobici, che hanno un substrato psicologico più che
neurologico (Faccio, 2007). L’immagine del proprio corpo è associata con il senso
dell’identità personale che richiama quelle parti del corpo portatrici di un valore culturale
specifico per ogni persona e che concorrono a definire la relazione tra aspetto di sé e
identità (Faccio, 2007).
In questa relazione, si è inserita fin dall’antichità, un codice transculturale, lo specchio,
la cui funzione è quella di attestare l’identità di chi vi si accosta, lo distingue dagli altri
oggetti, gli conferisce un potere forte e anche magico e, diventa, addirittura, un nemico
insidioso quando nell’immagine riflessa si frappongono importanti processi di media-
zione emotiva, cognitiva e simbolico-culturale (Faccio, 2007).
14 Bonnier P. in Faccio, 2007, L’aschematie, “Revue Neurologique”, 13.
17
Inoltre, lo specchio è lo strumento dello sdoppiamento dell’identità e quando manca la
notitia, il riconoscimento del proprio aspetto fisico, non c’è l’identità e la conferma del
sé, poiché il corpo rappresentato nella mente non trova riscontro di sé nell’immagine allo
specchio (Faccio, 2007).
Elena Faccio, analizzando il tormento generato dal confronto con lo specchio, focalizza
il problema nel divario tra l’idea che una persona ha di sé con quella che vorrebbe posse-
dere, per cui il corpo reale, immaginato o desiderato, può essere l’origine, ma anche il
punto di arrivo delle diverse forme di disagio psicologico che si manifesta con sentimenti
di insoddisfazione, insicurezza e, soprattutto, bassa autostima. Il rapporto viscerale tra
corpo, aspetto, identità e senso di sé si incrina tanto più la percezione soggettiva prevale
sull’evidenza oggettiva. La crisi del vissuto corporeo è la crisi di identità. Ne consegue,
che la persona che vive un disagio corporeo non soffre per il proprio corpo o per come è
fatto, ma soffre il proprio corpo e la sua condizione (Faccio, 2007).
Gli Altri, con il loro giudizio, nella costruzione dell’identità hanno un ruolo fondamentale
e fungono da specchi autorevoli dell’autorappresentazione: se non si trova negli occhi
degli altri, metaforizzati negli specchi, la conferma della forma del corpo condiviso, ecco
che si mette in moto il gioco delle identità possibili e della loro reversibilità, cioè le
persone di fronte allo specchio progettano l’immagine del proprio corpo, lo cambiano,
coltivano illusioni o aberranti percezioni se non forme di autoinganno volte a mantenere
in equilibrio il proprio senso dell’identità.
Secondo questo approccio i disagi legati all’aspetto somatico sono dei cattivi sentimenti
verso se stessi, che raccontano della distanza tra sembiante - ciò che di noi appare - ed
una istanza esteriore o voce narrante che predica come dovrebbe. Ma quando il senso/si-
gnificato del proprio valore personale viene catturato da una voce interna, autocritica e
disapprovante capace di annientare ogni prova contraria e scatenare comportamenti irra-
zionali e atteggiamenti fuori controllo la psicologia clinica attesta il Disturbo corporeo.
Fra i disagi dell’identità corporea, quando la forma è il contenuto, la dismorfofobia rap-
presenta l’esempio estremo della totale identificazione in un corpo percepito come’
grottesco’ o ‘ridicolo’ ed inadatto perché non corrisponde al modello di corpo in cui si
vorrebbe ‘abitare’. Elena Faccio scrive che: “la persona dismorfofobica, ad esempio, vede
18
il proprio viso come gli altri, ma vi nota un qualcosa di anomalo, di irregolare, di non
desiderato, come se a guidarlo fosse, più che l’occhio, una voce interiore, critica e disap-
provante, che può trasformarsi in sensazione molesta ed infelice verso le parti disgraziate
di sé che prese a bersaglio riassumono e condensano un senso di insofferenza” E che: ”la
correzione chirurgica in genere non placa la disaffezione verso il proprio corpo, ma sem-
plicemente la sposta su altre parti che ‘non vanno, e per questo ritenute da cambiare”
(Faccio, 2007).
In questa relazione, si è inserita fin dall’antichità, un codice transculturale, lo specchio,
la cui funzione è quella di attestare l’identità di chi vi si accosta, lo distingue dagli altri
oggetti, gli conferisce un potere forte e anche magico e, diventa, addirittura, un nemico
insidioso quando nell’immagine riflessa si frappongono importanti processi di media-
zione emotiva, cognitiva e simbolico-culturale.
Inoltre, lo specchio è lo strumento dello sdoppiamento dell’identità e quando manca la
notitia, il riconoscimento del proprio aspetto fisico, non c’è l’identità e la conferma del
sé. Da queste considerazioni, ne consegue che il corpo, allora, è quello rappresentato nella
mente e non una proprietà immutabile degli individui; ed è uno tra gli elementi fonda-
mentali che concorrono a definire il ‘sé’.
Elena Faccio, analizzando il tormento generato dal confronto con lo specchio, focalizza
il problema nel divario tra l’idea che una persona ha di sé con quella che vorrebbe posse-
dere, per cui il corpo reale, immaginato o desiderato, può essere l’origine, ma anche il
punto di arrivo delle diverse forme di disagio psicologico, il quale si manifesta con sen-
timenti di insoddisfazione, insicurezza e, soprattutto, bassa autostima. Il rapporto visce-
rale tra corpo, aspetto, identità e senso di sé si incrina tanto più la percezione soggettiva
prevale sull’evidenza oggettiva. La crisi del vissuto corporeo è la crisi di identità.
Per la Faccio, la persona che vive un disagio corporeo non soffre per il proprio corpo o
per come è fatto, ma soffre il proprio corpo e la sua condizione (Faccio, 2007).
Gli Altri, con il loro giudizio nella costruzione dell’identità, hanno un ruolo fondamentale
e fungono da specchi autorevoli dell’autorappresentazione: se non si trova negli occhi
degli altri, metaforizzati negli specchi, la conferma della forma del corpo condiviso, ecco
19
che si mette in moto il gioco delle identità possibili e della loro reversibilità, cioè le
persone di fronte allo specchio progettano l’immagine del proprio corpo, lo cambiano,
coltivano illusioni o aberranti percezioni se non forme di autoinganno volte a mantenere
in equilibrio il proprio Sé.
Secondo la prospettiva del Sé riflesso nello specchio, i disagi legati all’aspetto somatico
sono dei cattivi sentimenti verso se stessi, che raccontano della distanza tra sembiante -
ciò che di noi appare - ed una istanza esteriore o voce narrante che predica come dovrebbe.
Ma quando il senso/significato del proprio valore personale viene catturato da una voce
interna, autocritica e disapprovante capace di annientare ogni prova contraria e scatenare
comportamenti irrazionali e atteggiamenti fuori controllo la psicologia clinica attesta il
Disturbo corporeo.
Fra i disagi dell’identità corporea, quando la forma è il contenuto, la dismorfofobia rap-
presenta l’esempio estremo della totale identificazione in un corpo percepito come’
grottesco’ o ‘ridicolo’ ed inadatto perché non corrisponde al modello di corpo in cui si
vorrebbe ‘abitare’. Estremizzando il discorso, anche le sole lenti a contatto, il reggiseno
imbottito, o la protesi dentaria sono piccole forme di trasformismo corporeo,tutte indi-
cative del desiderio di possedere una nuova identità per nuove approvazioni e di una
tendenza ad un atteggiamento favorevole nei confronti delle manipolazioni chirurgiche.
Queste tecnologie del sé sono state descritte come la testimonianza di una concezione
nuova, post moderna della libertà, dalle cui implicazioni non si sono astenuti filosofi e
psicoanalisti. Sarsini, 200315 scrive: “se da un lato considerano la moda la dea mani-
polatrice dell’identità, dall’altro sottolineano che nessuno è esente dalle forme del
trasformismo corporeo, nella certezza che ognuno è un po’ un replicante, corpo-
rimodellato e dalle identità alternative” (Faccio, 2007, pag. 211).
Esiste una relazione tra la stima di sé e il corpo; la personalità con basso livello di stima
‘non si piace’, intrattiene con se stessa dei dialoghi in cui proietta un giudizio inadeguato
da parte degli altri ed il senso di insoddisfazione è tanto più intenso quanto più assolutizza
uno dei codici di lettura del corpo e più di tutti quello estetico che spesso sopravanza
15 Sarsini D., Il corpo in Occidente, Carrocci, Roma, 1999.
20
qualsiasi discorso etico. Per il dismorfobico non si può amare un corpo che in quanto
brutto diventa immeritevole e indegno (Faccio, 2007).
Il corpo mette in scena la personalità. Se la psicologia clinica possiede un alfabeto del
corpo standardizzato dalla psichiatria, per cui il vuoto depressivo si associa a trasforma-
zioni del vissuto corporeo ed il depresso, mediante indici analogici, segnala in modo in-
diretto disturbi del comportamento e della personalità; mentre, al contrario, il comporta-
mento maniacale è euforico ed iper-efficiente e nella schizofrenia la vicinanza dell’altro
viene percepita come una minaccia, una distruzione della propria soggettività, nella di-
smorfofobia quando il naso, i fianchi, o le caviglie diventano il punto focale di una non
auto-accettazione ed il giudizio diviene una determinata percezione di sé che dilaga sem-
pre, possono manifestarsi forme psichiatriche che richiedono l’intervento clinico.
Oscar Wilde, 199216 ha affermato: “che le malattie dello spirito vanno curate con
il corpo e le malattie del corpo con lo spirito” (Persichetti e al., 2012, pag. 214). Nella
sua lezione letteraria ci ha insegnato che il soggetto che ha una fobica attenzione su ogni
imperfezione del corpo, non fa altro che parcellizzare e guardarsi a pezzetti e proprio per
questo si vedrà sempre brutto.
16 Wilde O., Aforismi, New Compton, Milano, 1992.
21
CAPITOLO SECONDO
L’identità corporea in crisi
2.1 Dalla psichiatria alla psicopatologia individuale
Nel 1950, Enrico Morselli, l’eminente psichiatra italiano impegnato nel rinnovamento
della psichiatria fuori dalla cosiddetta ‘tecnica manicomiale’, riporta l’attualità, tramite
una casistica di casi clinici, sui quesiti inerenti la spersonalizzazione, al congresso inter-
nazionale di psichiatria tenutosi a Parigi. Questa patologia, con la rivalutazione della psi-
copatologia comprensiva e del punto di vista soggettivo, ha dato una direzione qualitativa
alla psichiatria clinica (Morselli, 1950).
Questa psichiatria di indirizzo dinamico, totalitario e gestaltista, iniziava a studiare con
interesse gli stati d’animo e le esperienze individualmente vissute, mirando all’esplora-
zione dei fatti di coscienza come tali. I disturbi della coscienza, dell’ego, della Dasein-
sbewusstsei jaspersiana, si trovano, in certo modo, al centro dei fenomeni soggettivi della
psiche e la loro indagine è essenziale più che mai per la psicopatologia moderna, impe-
gnata nella investigazione della realtà psicomorbosa sotto tutti gli aspetti, teorici, diagno-
stici e terapeutici, e con tutti i mezzi (Morselli, 1950).
Per Karl Jaspers (194817 in Morselli 1950) la coscienza dell’io ingloba la coscienza
dell’identità, del corpo, una sensazione organica, un sentimento di sé che riceve la tonalità
del mio, dell’io, del personale, che si può chiamare personalizzazione. Se questi atti psi-
chici sono accompagnati dalla sensazione di non appartenenza si tratta di fenomeni di
spersonalizzazione, i quali apparivano nelle Riviste di Feniatria degli anni Trenta sotto il
nome di ‘dissociazione mentale’ (Morselli, 1950).
17 Jaspers K., “Allgemeine Psychipatologie”, Ed. Springer, Heidelberg, 1948.
22
Le stesse riviste pubblicavano alcuni casi clinici mostrando i legami coi fenomeni di srea-
lizzazione, coi disturbi della coscienza del corpo e coi nichilisti (Morselli, 1950).
Ad uno stato di coscienza primitivo tipici stati di spersonalizzazione psichica e corporea
si concretizzano in idee deliranti con allucinazioni plurisensoriali, oppure in uno stato
cosiddetto ‘crepuscolare’ il soggetto mostra una personalità che appare dissociata e alter-
nante (Morselli, 1950).
Le turbe della gnosi corporea, ossia il sentirsi mutato, la difficoltà o l’incapacità di attri-
buirsi, di riferire a sé il proprio psichismo e la propria corporeità vengono descritte come
parti del corpo estranee, come membra fantasmi, mentre in quelle tipicamente spersona-
lizzanti il soggetto si sente estraneo a se stesso ed è convinto di non avere più coscienza
di sé (Morselli, 1950).
Jaspers anticipò che nel concetto di coscienza dell'Io fosse presupposta la coscienza del
corpo, ossia la capacità di percepire e unificare in un quadro di riferimento significativo
una serie di sensazioni che, nell’insieme, forniscono una rappresentazione mentale del
nostro corpo ed evocano in noi un sentimento del nostro 'essere corporeo’ (Faccio, 2007).
Ne consegue che, in una dinamica psicologica sana, la coscienza dell'Io non può prescin-
dere da una percezione del corpo e dal senso di identità (Faccio, 2007).
Pensando che la conquista da parte del bambino della propria identità esige un tempo
della scoperta e pertanto un tempo dell’attesa, in tal senso, molte inquietudini vissute dal
preadolescente sono dovute sicuramente al rapporto che egli instaura con il proprio
corpo, il quale è soggetto a quell’età a svariate trasformazioni sul piano fisico e biologico,
avvertendosi in un corpo che sente come estraneo in quanto impegnato nel costruirsi una
nuova identità, rispetto alla quiete in cui viveva nell’età infantile (Faccio, 2007).
La coscienza di sé tende a svilupparsi proprio a partire dall’immagine corporea che agisce
da ‘intermediaria’ nei rapporti interpersonali (Faccio, 2007). L’autovalutazione dell’ado-
lescente è spesso non equilibrata, viene riproposta in maniera ossessiva e ricorre alle con-
ferme dei compagni. La sua identità, in questa fase del ciclo di vita, è demandata
all’esterno, all’apparire, alla forma del corpo, dettata dai canoni di moda; è impegnata
nello sforzo di trovare una corrispondenza tra il sé ideale ed il sé reale riscontrabile in
23
determinati discorsi sulle imperfezioni somatiche e comportamenti di controllo della cre-
scita e della trasformazione del proprio corpo, in particolare il cosiddetto checking allo
specchio (Faccio, 2007). Questa considerazione spinge alla necessità di contestualizzare
quel fitto intreccio di variabili che influiscono sul livello di adattamento psicologico pro-
prio di questa età (Faccio, 2007).
La maturazione fisica e sessuale, la mutazione dei processi di pensiero in senso più
astratto, l’aumento dell’autonomia rispetto al contesto familiare, sono le influenze sul
sistema di auto percezione, dato che cambia il modo di descrivere se stessi; nascono le
nuove aspettative su come gli altri dovrebbero comportarsi in rapporto alla nuova identità,
così come la si viene via via ritagliando su di sé (Faccio, 2007).
L’immagine del proprio corpo è vissuta con maggior intensità proprio perché, nell’ado-
lescenza, accanto ai radicali cambiamenti fisici, si accentua la capacità di introspezione;
il confronto con i propri compagni si fa più intenso ed ognuno tende a paragonarsi con un
modello ritenuto ideale. Elementi quali un peso minore, o, più spesso, superiore alla
norma, uno scarso sviluppo muscolare, un seno troppo piccolo oppure aspetti esteriori
quali la dimensione e la forma del naso o delle orecchie, possono creare la sensazione di
inadeguatezza che li fa apparire ‘diversi’ rispetti alla norma e,allora, scoprono di non
essere accettati, si sentono inferiori e infelici. Questo vissuto è innescato a favore del
modello desiderato che porta gli adolescenti ad attribuire un importanza notevole
all’aspetto fisico, ed è naturale che tanto più conta il corpo, ad esso si dedica la maggior
parte del tempo per migliorarlo con tutte le strategie disponibili. Il costante monitoraggio
di sé è associato al timore del giudizio sociale sul proprio corpo a sua volta correlato ad
una condizione depressiva, cioè al tono basse dell’umore.
Il concetto di coscienza dell'Io-corpo, implica la consapevolezza dell'esistenza di una
realtà personale e di una realtà esterna, come distinte tra di loro anche se entrambe in-
scritte in un continuum spazio temporale. E’ la presa d'atto della propria soggettività e di
una certa unitarietà e continuità dei processi psicofisici che la caratterizzano, cioè la pro-
pria identità che rappresenta il fondamento stesso dell'attività psichica (Faccio, 2007).
24
2.2 Criteri diagnostici per il Disturbo da Dismorfismo corporeo
La dismorfofobia non associava i problemi legati all’esperienza corporea, come l’auto-
attribuzione di caratteristiche corporee molto diverse da quelle reali o la disistima per il
proprio corpo ai disturbi alimentari, considerati, i sintomi di questi ultimi, solamente
come conseguenze secondarie degli altri disturbi. Oggi, invece, questi temi, sono il centro
del disturbo e sono possibili la diagnosi e la rilevazione clinica dei ‘corpi fuor di misura’
attraverso diversi criteri diagnostici (Faccio, 2007).
La dismorfofobia come disturbo percettivo è tra le più accreditate ipotesi elaborate al
fine di spiegare il meccanismo patogenetico della dispercezione (Faccio. 2007). Questo
modello prende in considerazione la percezione sensoriale e il costrutto di schema corpo-
reo definendo dismorfoestesico colui che non riesce ad avere una corretta percezione og-
gettiva del corpo (Faccio, 2007). Nell’affermare che l’auto-percezione è sempre soggetta
all’eteropercezione, si vuole rilevare il ruolo dei modelli sociali ed il sottostante processo
di identificazione con essi (Faccio, 2007). L’ipotesi percettiva, guida molti studiosi nelle
diagnosi del disturbo del comportamento alimentare, quali l’anoressia, l’obesità (Faccio.
2007). La dismorfofobia come disturbo cognitivo è generata da una falsa interpretazione
della propria apparenza, nel senso che gli schemi mentali su di sé sono diventati delle
convinzioni reiterate, dei pensieri automatici ed infalsificabili (Faccio, 2007). Queste
forme di autovalutazione implicano la produzione di giudizi negativi del tipo ‘sono inde-
siderabile’ e sono prontamente innescati da uno stimolo anche vago e superficiale, ma
pur sempre capace di trarre la stessa conclusione. La ricorsività dei modelli cognitivi fa
sì che i soggetti siano impermeabili alle invalidazioni esterne, tanto è forte il peso dei
giudizi sociali (Faccio 2007). Per la rilevazione del disturbo dell’immagine corporea
sono stati introdotti, in questi ultimi anni, molti strumenti psicometrici, di natura quanti-
tativa, dai test, ai questionari, self-report e tutti in grado di misurare alcune parti del corpo
o il corpo nella sua totalità (Faccio, 2007).
Le prime procedure di distorsione percettiva di specifiche parti sono state: 1) la Moving
Caliper Tecnique di Slade e Russell (Faccio, 2007); 2) l’Image Marking Procedure
(IMP) di Askevold (Faccio 2007); 3) Il Body Image Detection device (BIDD) di Ruff e
25
Barrios (Faccio, 2007); e 4) il Subjective Body Dimension Apparatus di Gila et al., (Fac-
cio, 2007); uno strumento, quest’ultimo, che funge da ponte tra i metodi di stima di
specifiche parti del corpo e i metodi di stima dell'intero corpo (Faccio, 2007).
La prima e più importante tecnica di stima globale della forma corporea è il Distorting
Mirror di Traub e Orbach (Faccio, 2007). Nei compiti di stima della forma corporea, non
veniva offerto nessun termine di confronto, alcun elemento visivo, ma solo l’uso di uno
specchio, regolabile e manipolabile dal soggetto finché l’immagine riflessa non coinci-
desse con quella reale (Faccio, 2007). I metodi percettivi di stima della forma corporea,
sono metodi diretti e presentano dei limiti, per cui possono essere considerati solo varia-
zioni del classico metodo psicofisico, non più in uso, dei limiti quando la forma viene
modificata dallo sperimentatore, e dell’aggiustamento, quando è la persona a modificarla,
finché non corrisponderà a quella desiderata (Faccio, 2007). Altre procedure, metodolo-
gicamente più sofisticate, sono state ispirate alla metodologia del Distorting Mirror, sem-
pre fondate sull’assunto che la vista, i giudizi visivi, riflettessero la percezione del proprio
corpo e, di conseguenza anche il disturbo (Faccio, 2007).
Le tecniche più recenti chiedono al soggetto di regolare la dimensione della propria im-
magine corporea correggendo le distorsioni manipolate in diversi sensi, verticale ed oriz-
zontale, che appaiono su di uno schermo attraverso l'uso di un mouse o una tastiera fino
a che essa non coincida con la propria immagine reale o ideale. La differenza, tra le due
misure costituisce l'indice individuale di insoddisfazione corporea (Faccio, 2007).
Esistono dispositivi tecnologici di ricerca ed intervento sul disturbo dell’immagine cor-
porea che riguardano il “settore realtà virtuale”.
Essi consistono in un superamento delle condizioni corporee attuali ed un'immersione in
quelle ritenute desiderabili per se stesse, con implicazioni associate alla resistenza al cam-
biamento (Faccio, 2007). Fra di essi, le versioni più recenti sono il Figure Rating Scale
di Thompson e Tantleff e il Body Image Assessment di Beebe e al., (Faccio, 2007) nei
quali si chiede al dismorfico di effettuare più scelte di una serie di figure che esprimono
la dimensione percettiva, cognitiva, affettiva e ideale dell'immagine corporea (Faccio,
2007). Tecnicamente, “la persona deve scegliere tra alcune figure rappresentanti il corpo
umano secondo un range che va dall'estremo sottopeso all'estremo sovrappeso quella che
26
rappresenta meglio le sue dimensioni corporee". E’ conosciuto come Utilizzo di Si-
lhouette (Faccio, 2007).
La dismorfofobia come disturbo affettivo-relazionale è sostenuta dall’approccio psicodi-
manico di cui si distinguono diverse prospettive (Faccio, 2007).
Sul versante affettivo, E. Kestemberg (197418 in Faccio, 1999) di matrice kleiniana, in-
terpreta l’anoressia come l’effetto dalla permanenza dell’individuo nella posizione schi-
zoparanoide (primitiva) a discapito del passaggio alla posizione schizoparanoide più ma-
tura, con il risultato del diniego della realtà del proprio corpo (Faccio, 1999).
Secondo i presupposti di M. Klein, (193519 in Faccio, 1999) infatti, centrare il quadro
patognomico del disturbo corporeo nella dimensione affettiva, significa aver sviluppato
una paranoia interpersonale rappresentata dal corpo minaccioso e indistruttibile della ma-
dre che nutre, mentre per D. W. Winnicott (196220 in Faccio, 1999) all’origine delle sin-
tomatologie alimentari vi è il rispecchiamento empatico negativo con la madre, un tenta-
tivo autoconsolatorio.
Il versante relazionale, invece, prende in considerazione le ipotesi interpretative secondo
la teoria dell’attaccamento di J. Bowlby (197221 in Faccio, 2007) ed i relativi modelli
operativi interni che il bambino ha sviluppato nella relazione con le figure di riferimento.
Nella cura dell’obesità, numerose osservazioni cliniche concordano con il paradigma re-
lazionale e in particolare con lo stile di attaccamento insicuro (Faccio, 1999).
Il disagio corporeo, di essere grassi, sarebbe il riflesso di una compromissione psicobio-
logia dell’individuo generata da una relazione familiare rigida che inibisce l’espressione
emotiva, mentre l’over eating sarebbe un tentativo di colmare un vuoto comunicativo e
relazionale, ma anche una richiesta di cambiamento (Faccio, 1999).
18 Kestemberg, E. La fame e il corpo, Astrolabio, Roma, 1974. 19 Klein M., Le influenze reciproche nello sviluppo dell’Io e dell’Es in Scritti 1921-1958, Boringhieri,
Torino, 1978. 20 Winnicott W.D., Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma, 1962. 21 Bowlby J., L’attaccamento alla madre, Boringhieri, Torino, 1972.
27
Nella direzione della soggettività sono stati messi a punto i metodi attitudinali 'indiretti',
non oggettivi, rivolti a definire il problema del corpo come percezione di una realtà
esterna, ma soggettivi, secondo il proprio mondo affettivo-emotivo, non ci si rivolge più
al corpo come oggetto di percezione, ma al mondo interno soggettivo (Faccio, 1999).
I metodi attitudinali più noti in letteratura sono i questionari self-report nati nel contesto
della psicologia dei tratti e focalizzati sulla variabile soddisfazione/insoddisfazione per il
proprio corpo o parti di esso (Faccio, 2007).
Il Body Checking Questionnaire (Faccio, 2007) si focalizza sulla sola componente com-
portamentale e in particolare sulla frequenza con cui la persona mette in atto taluni com-
portamenti di controllo del corpo. Esistono questionari che misurano la frequenza di pen-
sieri automatici e ossessivi o di ansia legati a varie aree corporee e strategie di coping.
Un assessment completo è il Body Image Disturbance Questionnaire di Cash e al. (Fac-
cio, 2007) il quale, attenendosi alla definizione dell’immagine corporea come costrutto
multidimensionale, estende l’indagine anche alle difficoltà nelle relazioni e nelle attività
sociali oltre il funzionamento lavorativo.
I metodi proiettivi nascono in ambito psicoanalitico per lo studio della personalità.
Il Draw-a-Persont Test (DAP) o disegno della figura umana della Karen Machover e il
Test delle macchie di Rorschach sono test applicati, fin dagli anni Cinquanta/Sessanta,
anche all’analisi dei vissuti corporei (Faccio, 2007). L’assunto teorico di fondo ipotizzava
che disegnare a mano libera una figura umana significasse proiettare la propria immagine
del corpo. In particolare, Fisher e Cleveland (Faccio, 2007) hanno proposto, utilizzando
il test delle macchie, un metodo di misurazione dei confini corporei, stabili o fragili, i
quali rappresenterebbero una sorta di struttura protettiva per la persona. Questi confini,
nello stile di vita di un individuo, sono correlati all’identità e alla percezione del corpo
propria e degli altri (Faccio, 2007).
Test successivi come il Body Prominence Test e il Body Distortion Questionnaire rile-
vano, invece, la centralità assunta dal corpo in un dato momento per il soggetto e le espe-
rienze di cambiamento nei confini corporei (Faccio, 2007).
28
Nel contesto dell’anoressia nervosa è stata utilizzata la Self Grid, focalizzata sull’auto-
stima, un fattore predisponente allo sviluppo del disturbo alimentare durante il periodo
dello sviluppo, un periodo in cui l’adolescente, in difficoltà nelle relazioni interpersonali
e nella formazione dell’identità trova nel controllo del peso e del cibo un modo per cercare
delle conferme di sé (Faccio, 2007).
Altre griglie di repertorio esplorano i significati personali rispetto a specifiche parti cor-
poree del sé, del sé ideale, somiglianze o differenze individuali tra sé (elementi di non sé)
e gli altri (Faccio, 2007).
La dismorfofobia interpretata come disturbo culturale è tale quando la persona, anziché
cambiare il criterio col quale guardare alla propria diversità fisica, cerca di adattare il
corpo ad un genere specifico, quello veicolato dal sistema culturale desiderato (Faccio,
2007).
Secondo questo paradigma la cultura ha insegnato a vedere il corpo in un certo modo; la
persona ha appreso gli standard culturali dominanti relativi al modo di percepirlo e, poi-
ché il corpo percepito, pensato, vissuto come proprio è anche un corpo non scelto e sug-
gerito dalla società, il corpo sbagliato nello scontro tra dimensioni, interna e esterna è in
scacco (Galimberti, 200922).
Nelle tecniche costruttiviste, ed in primis, le griglie di repertorio di Eric Button (Faccio,
2007) Feldman (Faccio, 2007), Ben-Tovim, e al. (Faccio, 2007) a differenza dei normali
test psicometrici, al soggetto non è richiesto di posizionarsi o pronunciarsi su scale pre-
definite dal ricercatore, ma di esprimere liberamente i suoi significati personali, senza
vincoli teorici o metodologici. Questo approccio idiografico, usato nel contesto dell’ano-
ressia da Eric Butto, può fornire una comprensione più ricca, in quanto indaga la dimen-
sione ideale (di donna ad. es.), il rapporto con il proprio corpo, l’influenza dei media su
di esso e le idee che la donna ha rispetto alle influenze subite dagli uomini verso il proprio
corpo (Faccio, 2007).
22 Galimberti U., I miti del nostro tempo, Feltrinelli, 2009.
29
Un approccio relazionale pratico, di intervento, può essere esemplificato da un inse-
gnante-istruttore, presente all’interno dei centri sportivi, il quale rileva frequentemente
alcuni dei comportamenti sopra descritti. Come prima cosa, deve creare con il soggetto
un’autentica e rispettosa relazione interpersonale, evitando, nelle sue verbalizzazioni,
giudizio e sarcasmo. Questi due elementi devono essere assenti anche quando l’inse-
gnante descrive l’aspetto di altre persone, poiché il dismorfofobico teme l’attribuzione
del medesimo giudizio anche alla propria persona.
Una volta instaurata una valida relazione è possibile mettere in atto condotte per la valo-
rizzazione degli aspetti positivi e ridimensionamento delle parti del corpo che piacciono
meno, attraverso alcuni passaggi (Elena Faccio 2007).
■ Il soggetto guarda il proprio corpo allo specchio affiancato dall’insegnante e intanto
esterna i propri pensieri ed emozioni.
■ Nello stesso contesto il soggetto viene invitato a fare delle affermazioni positive sul
proprio corpo.
■ Seguono le affermazioni positive dell’insegnante sul corpo del soggetto in esame.
■ Descrizione, da parte dell’insegnante, delle sensazioni piacevoli interne vissute dal sog-
getto in allenamento.
■ Indurre, quando possibile, un breve rilassamento (circa 10 minuti) al termine delle se-
dute di allenamento.
L’insegnante deve esprimere la propria opinione circa gli aspetti positivi rilevati nel sog-
getto e, quando possibile, avvalersi anche dell’opinione di altri.
L’insegnante deve infine saper contrastare verbalmente le affermazioni negative che il
soggetto produce sul proprio aspetto.
L’accettazione incondizionata dell’insegnante-istruttore (spesso travisato dal dismorfo-
fobico come essere perfetto e dunque autorevole) può condurre gradualmente a liberarsi
dalla paura e a riconsiderare le proprie particolarità corporee come un segno distintivo
che non pregiudicano mai un’esistenza soddisfacente (Faccio, 2007).
30
2.3 Fenomenologie associate al dismorfismo corporeo: anoressia e bulimia
Il disturbo del comportamento alimentare (DCA) conosciuto come fenomeno anoressico
o bulimico è l’esito di un processo storico di costruzioni e significati socialmente condi-
visi, ed ha avuto attribuzioni di senso diversi a seconda del contesto in cui si manifestava,
prima che la medicina e la psicologia se ne occupassero (Faccio, 1999).
La concezione della sociogenesi dei fenomeni psicopatologici attribuisce a gran parte dei
disturbi psichiatrici una matrice sociale; anche l’anoressia e la bulimia, sarebbero delle
sindromi culturali, impostesi all’osservazione clinica solo nei nostri anni, attirando su di
sé l’attenzione dei mass media (Faccio, 1999).
Nel pensiero comune, l’anoressia è certamente il prototipo dei disturbi alimentari ed è
considerata la forma più grave (Faccio, 1999). La bulimia, storicamente detta ‘fame da
bue’, viene vista come l’opposto della prima e sembra destare meno preoccupazione (Fac-
cio, 1999). Per Elena Faccio, questa differenza non coincide, in quanto le etichette dia-
gnostiche in molti casi richiamano un zig zag di comportamento da un tipo all’altro
(1999).
Da un punto di vista clinico, il ‘progetto’ anoressico coincide con quello bulimico, es-
sendo il traguardo di entrambe le condizioni (e non di un semplice corpo magro), ma,
mentre l’anoressica rimane costantemente aderente all’ideale che ottiene boicottando e
sacrificando con la volontà i bisogni del corpo, la bulimica cede all’irruenza della spinta
pulsionale e ripristina l’ideale solo a momenti alterni (Faccio, 1999).
I ‘sintomi’, riferiti al corpo, rappresentano, in realtà, un progetto di cura, una strategia
per il raggiungimento dell’obiettivo (Faccio, 1999).
Nella dissociazione tra esigenze del soma e della psiche, in ambedue i disturbi la psiche
ha il sopravvento e tutte le energie vitali della persona sono rivolte all’idea di raggiungere
quell’ideale (psichico) (Faccio, 1999).
L’astinenza dal cibo, ovvero il digiuno, emaciazione, assoluto controllo del corpo e dei
propri bisogni sono elementi che ricorrono in diverse epoche, con significati e forme con-
testuali (Faccio, 1999). Ad esempio, se nell’estasi spirituale il corpo scompare e non c’è
31
spazio per i pensieri ossessivi riferiti al cibo, l’anoressica non riesce mai a liberarsi com-
pletamente del proprio corpo, essendo agita da un Io rigido e intransigente che opera a
servizio della perfezione di se stesso (Faccio, 1999). E’ ‘amore’ di sé, mai di Altri (o
Altro), raggiunto mediante atti autodistruttivi; si tratta di una condizione narcisistica in
cui la propria identità acquista valore sottostando alle regole eccessive per rispondere ai
canoni e criteri estetici voluti (Faccio, 2007). Il rifiuto di mantenere il peso corporeo al
livello minimo normale per l’età e per la statura, è la fenomenologia dell’anoressia ner-
vosa tipica delle ragazze preadolescenti, la cui la mente alimenta il rapporto problematico
con le dimensioni del corpo. Essere in ‘linea’ vuol dire stare con il proprio corpo entro la
linea, sulla soglia di separazione tra la vita e la morte, sulla quale fermarsi in perfetto
equilibrio, senza che si prevedano cadute né in un senso né nell’altro (Faccio, 2007).
La stessa paura di ingrassare assorbe la mente della bulimica, la quale oscilla tra l’eccesso
ed il rifiuto del cibo (Faccio, 1999). All’iniziale caratterizzazione astinente dell’anoressia,
per la diagnosi di bulimia nervosa hanno fatto seguito l’innesto di alcuni comportamenti
tipici del versante opposto, (pur essendo la persona in condizioni di sottopeso) il cui di-
sagio si manifesta con comportamenti specifici come l’alternanza di comportamenti di
abbuffate e purgativi o di compensazione (Faccio, 1999). L’esordio del’anoressia ner-
vosa, come detto, si colloca in età post-puberale o adolescenziale e riguarda prevalente-
mente il sesso femminile (95%) (Faccio, 2007). Si tratta spesso di ragazze paffute che
avvertono l’impaccio dei chili in più ed il tarlo del peso diventa un’idea dominante fino
a quando la ragazza non scopre nella dieta la soluzione al proprio disagio (Faccio, 1999).
Il regime di restrizione spesso viene autoimposto e mascherato da una copertura ipocon-
driaca (gonfiori, bruciori di stomaco), (Faccio, 2007). Durante la dieta, il soggetto, si
pesa spessissimo e dà inizio alle cosiddette ‘sedute allo specchio’, durante le quali inizia
a misurarsi il corpo, oltre le ‘prove di vestiario’ (Faccio, 2007).
L’anoressica si dedica ad una strenua attività fisica, per lei il digiuno è una consuetudine
e l’assunzione di cibo è accompagnata da veri e propri rituali, compresa la scelta dei cibi.
Si sbizzarrisce, anche, a preparare piatti o interi pranzi che poi non assaggia, attuando, in
questa lotta continua tra l’autoinganno e l’autoaffermazionedella rinuncia, un appaga-
mento illusorio (Faccio, 1999). Per quanto riguarda i criteri diagnostici, sia nell’anoressia
32
che nella bulimia, essi sono incentrati, quasi del tutto, su determinanti di ordine compor-
tamentale e psichico piuttosto che fisiopatologico (Faccio, 1999).
Nel DSM-IV, a fianco delle due categorie, compare la voce che include i disturbi dell’ali-
mentazione non altrimenti specificati e conferisce rilievo clinico a tutte quelle sindromi
definibili come parziali, ovvero a quelle forme di disturbo che ricoprono solo alcuni dei
criteri previsti per la diagnosi di anoressia o bulimia, ma che comportano una sofferenza
psicologica (Faccio, 1999). In essa rientrano tutti quei casi in cui i soggetti mettono in
atto i tipici comportamenti di abbuffata, ma non le pratiche catartiche e compensatorie; si
tratta dei non purging bulimics. (Faccio, 1999). Il raffronto purging/nonpurging ha messo
in risalto una serie di differenze di natura psicopatologica: i primi sembrano caratterizzati
da una maggiore compromissione psichica, più forte desiderio di essere magri e maggior
grado di distorsione dell’immagine corporea; i secondi, invece, soffrono di insoddisfa-
zione per l’aspetto fisico, bassa autostima, e pongono attenzione ai regimi dietetici (Fac-
cio, 1999).
I DCA sono patologie nelle quali ogni input di informazione passa attraverso un sistema
di elaborazione distorto e non solo l’immagine corporea risulta deformata, ma qualsiasi
informazione struttura un pensiero, uno schema mentale del corpo che ha precise caratte-
ristiche. Fra questi risulta: 1) che, l’essere stati ligi alle regole alimentari o averle trasgre-
dite è il criterio che definisce il modo di rapportarsi con se stessi ed il mondo: “quando
non mi abbuffo, quando sento di controllare la mia dieta sto bene con me stessa e con gli
altri; quando, invece, mangio più del dovuto sto male e non voglio vedere nessuno”, (Fac-
cio, 2007, p.88 ); 2) che il processo di interpretazione delle informazioni è caratterizzato
dal pensiero ‘tutto o nulla’, ossia la tendenza a vedere gli eventi e le situazioni solo in
bianco e nero, secondo il prevalere di un certo schema o del suo opposto; 3) la presenza
di un pensiero catastrofico come questo: “piango in silenzio dopo essermi pesata” (Fac-
cio, 2007); 4) la prevalenza di una interpretazione selettiva, per il fatto che vengono in-
terpretati solo i lati negativi del proprio aspetto; 5) ignorare o negare l’evidenza dei fatti
tipico di frasi come: “se mangio un dolce questo si trasforma in grasso” (Faccio, 2007
pag. 97); 6) la tendenza nei discorsi alla assolutizzazione, come l’idea di non poter uscire
di casa se il proprio corpo non è perfetto, o nell’uso di parole cariche di significato emo-
zionale (per definire lo stato di sazietà l’uso dell’aggettivo ‘gonfio’).
33
Il DCA è ritenuto un disturbo dell’immagine corporea che può essere indagato con la
serie degli strumenti costruiti per valutare l’immagine corporea nella componente percet-
tiva (la percezione dell’immagine corporea) e attitudinale (comportamento verso il pro-
prio corpo), (Faccio, 2007).
In particolare, secondo un approccio al disturbo di tipo affettivo-relazionale sono stati
messi a punto, per la prima componente l’Eating Disorder Inventory 1 e 2 (Faccio, 2007)
strutturato su 64 item ed otto sub scale riguardanti: a) impulso alla magrezza; b) bulimia:
c) insoddisfazione corporea: d) inadeguatezza: e) perfezionamento: f) perfezionismo: g)
sfiducia interpersonale: h) paura della maturità. Nell'EDI 2 sono presenti altre tre sub-
scale: a) ascetismo: c) impulsività: c) insicurezza sociale (Faccio, 2007).
Il Body Checking Questionnaire (Faccio, 2007) che si focalizza sulla sola componente
comportamentale e in particolare sulla frequenza con cui la persona mette in atto taluni
comportamenti di controllo del corpo (Faccio, 2007).
Il DCA è stato studiato da una vasta letteratura specialistica dal punto di vista diagnostico
ed epidemiologico (Faccio, 1999). Sono state indagate anche le relazioni tra disturbi ali-
mentari e patologie psichiatriche tradizionali, riconducendo il disturbo entro le categorie
della psicopatologia (Faccio, 1999). Inoltre, sono stati condotti studi sul ruolo della ge-
netica e sui trattamenti, cioè gli interventi terapeutici.
Ovviamente, l’incontro con la storia personale e attuale del paziente può fornire le indi-
cazioni utili nella prospettiva di un futuro intervento che può consistere in a) criteri me-
dici, quando le informazioni sullo stato fisico e psichico comprendono una potenziale o
seria minaccia alla vita, (tentato suicidio, irreversibile perdita di peso…); b) criteri psico-
sociali, quelli che riguardano una situazione di vita disturbata (disturbo familiare, isola-
mento sociale) e c) criteri psicoterapeutici, specialmente in soggetti con maggior durata
del disturbo: terapie psicoanalitiche, psicodinamiche, di gruppo, ad es. i gruppi ABA
dell’Associazione per lo studio dell’anoressia, bulimia e dei disturbi alimentari; terapie
familiari, terapie centrate sul corpo. Infine, si può ricorrere alle terapie farmacologiche
(Faccio, 2007). Entro le terapie di gruppo ABA sono compresi anche (Faccio, 2007:
- gli interventi di educazione nutrizionale
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- gli incontri a tema riguardanti gli effetti del condizionamento sociale
- lezioni di ginnastica finalizzate all’acquisizione di un maggior equilibrio psico-fisico e
consapevolezza corporea
- la terapia del movimento
- i gruppi di workshopping sulla bulimia e i gruppi di self-help.
Questo programma si è sviluppato soprattutto nell’ambito degli interventi sulla bulimia
nervosa a partire dagli anni Ottanta; al contrario, le pazienti anoressiche si sono rivelate,
in questa esperienza, poco adatte alla formula del gruppo e si sono rivelate chiuse in se
stesse, rigide ed egocentriche, centrate esclusivamente sui propri pensieri ossessivi ri-
guardanti il corpo (Faccio, 1999).
I gruppi di self-help sono costruiti sulla falsa riga dell’Anonima Alcolisti. Il loro pro-
gramma è variegato, in quanto accostano tecniche della terapia cognitivo-comportamen-
tale, attività educative, pratiche del training di rilassamento, assegnazione di compiti spe-
cifici (Faccio, 1999).
35
CAPITOLO TERZO
Corpo, bellezza e chirurgia estetica
3.1. Estetica e non estetismo
Quando la richiesta di bellezza non era ancora un fenomeno di massa, la chirurgia aveva
un fine di pertinenza medica e solo nel tempo è stato precisato il limes fra ciò che è di
pertinenza e ciò che invece esula dal campo (Persichetti e al. 2012). Storicamente, la chi-
rurgia plastica ha ricoperto un ruolo essenzialmente ancillare rispetto alle altre branche
della chirurgia, a causa del pregiudizio negativo che attirava su di sé una pratica non
indispensabile dal punto di vista della salute del paziente (Persichetti e al. 2012). In se-
guito, nel XIX secolo, grazie alla introduzione dell’anestesia e dell’antisepsi fu rilanciata
come attività clinica, sia nel campo della ricostruzione che in quello nascente dell’estetica
(Persichetti e al. 2012).
A livello sociale si diffondeva un atteggiamento nuovo verso la bellezza che getterà le
basi dell’età contemporanea; la bellezza assume il significato di aspetto fisico indipen-
dente dalla persona e rilevante in sé, un attributo molto apprezzato nella modernità nella
cui cultura urbana, l’identità individuale deriva dalla personalità e dall’autopresentazione
(Persichetti e al. 2012). Per quanto riguarda la ‘presenza’ si imposero nuovi ideali estetici
(linee più longilinee, abiti più scivolati, corpi liberati dai molti strati di sotto-
gonne…forme corporee più in mostra), che vennero a spostare il confine tra bellezza ‘na-
turale’ e ‘artificiale (Persichetti e al.2012).
L’ascesa della chirurgia estetica ha radici in un sostrato ampio e complesso, tanto da poter
affermare che il primo conflitto mondiale è stato il maggior promotore della domanda per
fini ricostruttivi; in seguito, le nuove acquisizioni scientifiche, uno spirito imprenditoriale
dei chirurghi e dinamiche di mercato inedite resero possibile le procedure chirurgiche
volte a migliorare e modellare il volto e altre zone del corpo (Persichetti e al. 2012). Negli
36
Anni Venti, ad esempio, la rinoplastica fu uno dei primi interventi richiesti ed i primi a
ricorrervi, soprattutto per ragioni di appartenenza razziale, furono - dapprima in America
e poi in Europa - gli ebrei per correggere il naso adunco; ad essa seguirono gli interventi
sulle orecchie, il colore della pelle, la forma degli occhi (Persichetti e al. 2012).
La cultura del consumismo ha affiancato alla chirurgia estetica le novità della cosmetica
con la produzione di creme, maschere, sviluppatori del seno, tutte soluzioni sostenute
dalla pubblicità e dai media, che non richiedevano di dover ricorrere alla chirurgia este-
tica, dando luogo ad un insieme di paradossi della nuova estetica del corpo. Attraverso le
strategie di marketing, l’uso degli apparecchi di bellezza di ogni tipo divenne naturale per
tutte le donne che volessero dirsi curate (Ghigi R., 2008).
La chirurgia plastica si presentava già, allora, ‘bifronte’: da finalità ricostruttive, fu ri-
chiesta dai pazienti sani per migliorare il proprio aspetto fisico e non solo femminile,
divenendo chirurgia estetica. (Persichetti e al. 2012).Nel nuovo atteggiamento verso la
bellezza, la chirurgia estetica, secondo gli autori di Cosmetica, fedele al suo statuto di arte
della cura, ha il compito di decifrare i desideri di chi a lei si rivolge e di ricondurli all’am-
bito di una relazione terapeutica. Sulla base di questo presupposto è errato e riduttivo
utilizzare l’aggettivo ‘rifatta’ per qualificare una parte del corpo segnata da un intervento
estetico, poiché il termine allude a qualcosa di artificioso e di falso, mentre il successo di
un intervento estetico non consiste nell’aver soddisfatto una richiesta, ma nell’averla ri-
condotta alla sensazione, nel significato agostiniano di aisthesis, con riferimento alla to-
talità della persona che riconduce i suoi desideri alla ragione. Nella tradizione artistica e
filosofica, la bellezza è manifestazione di qualcosa che eccede la sensazione stessa, l’ab-
bellimento deve sposarsi con la scelta del vero ed del buono (Persichetti e al. 2012).
Anche la dimensione etica dell’estetica riconosce la tendenza, l’inclinazione dell’uomo
verso la bellezza, un bene da perseguire, e nel caso del corpo esige che sia rispettata l’au-
tentica rappresentazione culturale in cui la persona coltiva se stessa. Per questo, il di-
scorso etico trova inquietante la snaturalizzazione, lo sforzo di sottrarsi al carattere vul-
nerabile della corporeità, alla sua esposizione al tempo, cercando inutilmente di imitare i
modelli perfetti e falsi proposti dai rotocalchi. (Persichetti e al. 2012).
37
Con riferimento specifico al corpo, la questione sull’eterna domanda Che cosa è la bel-
lezza? negli sviluppi all’interno della prassi medica può essere articolata attraverso di-
verse risposte, intese come tre modi diversi di affrontarla: Soggettivismo, Oggettivismo
e Relazionismo
La posizione soggettivista è legata all’esperienza della bellezza in quanto soggettiva, alla
sensazione che suscita e non è una proprietà ritrovabile nell’oggetto, ma nei significati ad
esso attribuiti. Il bello dipende da chi osserva dicevano i sofisti. L’oggettivismo stabilisce
la bellezza come dato della cosa, in alcune sue proprietà come le proporzioni, le forme,
la misura degli elementi di un oggetto.
Il Relazionismo, rappresentando l’alternativa fra le due posizioni precedenti, sostiene che
l’esperienza estetica è nella relazione tra oggetto e soggetto e la bellezza estetica nasce
da una più completa armonia tra l’oggetto e noi (Persichetti e al. 2012).
In pratica, diversi casi. Nella prospettiva oggettivista di fronte ad un naso particolarmente
brutto, il naso è effettivamente l’oggetto su cui verte il giudizio di bruttezza, e dunque,
una volta modificato, muterà anche il giudizio personale. Secondo un soggettivista, in-
vece, non è il naso in sé ad essere brutto, tanto vero che altre persone non avvertono la
necessità di modificarlo, ma è nella persona, nella percezione di sé stesso e solo modifi-
cando questa percezione il problema muta: il soggetto non sente più la necessità di ope-
rarsi. Infine, secondo il relazionista, la soluzione può consistere o agendo sul piano sog-
gettivo educando il soggetto a valutarsi diversamente, oppure modificare il naso dimoché
che cambi la relazione con questa sua parte del corpo. Ne consegue, che la medicina in
generale possiede molteplici strumenti ed ha conquistato un ruolo per modificare, almeno
parzialmente la fenomenologia ritenuta patologica, intervenendo a livello dell’oggetto
nella correzione di difetti fisici, o a livello del soggetto e della percezione di sé (Persichetti
e al. 2012).
Il soggetto dismorfofobico (nelle sue diverse declinazioni) soffre di una bruttezza tale da
non poter essere, e la medicina, per evocare un quadro teorico di riferimento per la chi-
rurgia estetica, quando parla di ‘bello’, in contrapposizione al brutto, si riferisce a qual-
cosa di mostrabile e condivisibile (Persichetti e al. 2012). L’elemento chiave della cate-
goria del bello è la naturalezza, la semplicità, per cui tutto ciò che è ostentato, imposto,non
38
è bello; se nella sua essenza la bellezza si caratterizza per la sua naturalezza, negli ultimi
decenni, va tenuto presente che il concetto di naturalezza è cambiato ed ha assunto il
significato di benessere psico-fisico, vale a dire, una ricerca di salute complessa che ri-
cade su tutto l’individuo nella sua interezza. (Persichetti e al. 2012).
La bellezza, secondo F. Nanetti (1996, pag. 124) è misura e:”…quando ostentiamo la
visibilità di alcune parti del corpo, o modi di essere, stiamo occultando ed enfatizzando
un primitivo sentimento di inferiorità”.
Questo precetto, in medicina estetica, implica la distinzione fra gli interventi di chirurgia
ricostruttiva, atti a ripristinare una parte lesa o rovinata del corpo e interventi di chirurgia
migliorativa finalizzati a modificare una parte sana del corpo, per ragioni di preferenza
estetica. (Persichetti e al.2012). La differenza fra i due interventi consiste nel fatto che la
ricostruzione restituisce alla persona una apparenza che già gli era propria, come il caso
di danni ai lineamenti del volto in seguito ad un incidente in auto, mentre la plastica mi-
gliorativa, al contrario, no. Essa, quando interviene sul labbro superiore o sugli occhi per
avere un sorriso od uno sguardo più ‘belli’, significa consegnare al paziente un profilo
che non lo caratterizza (Persichetti e al. 2012)..
Tuttavia, per quanto riguarda gli interventi migliorativi, bisogna distinguere tra il recu-
pero di un ‘apparenza’ persa durante gli anni, per l’invecchiamento, oppure l’attribuzione
di qualcosa che mai si è avuto, nemmeno da giovani: ad es., la plastica agli zigomi o alle
labbra. In entrambi i casi, la categoria del ‘bello’ se viene associata alla naturalità, pone
la medicina estetica non nella posizione anti-ageing, ossia una pratica che intenda opporsi
al cambiamento naturale dell’apparenza corporea, ma di promuovere una medicina pro-
ageing, ossia: “una prassi medica che difenda il corpo non in assoluto, ma come qualcosa
di temporalmente caratterizzato, cui compete un processo di mutamento, proprio delle
diverse età della vita, nelle quali il corpo va tutelato e difeso nella sua integrità sostan-
ziale” (Persichetti e al., 2012 pag. 26).
Intervenire opportunamente richiede una riflessione di carattere filosofico sulla nozione
di corpo in rapporto all’Io e di cui il chirurgo estetico deve tenere presente.
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Nella tradizione fenomenologica i due concetti di Leib e di Körper ci aiutano a compren-
dere la complessità della nozione di corpo e del rapporto tra corporeità e ‘io’ (Persichetti
e al. 2012). Leib indica il corpo vivente, l’esperienza cosciente di muoversi ed agire, di
essere, Körper, invece, è il corpo fisico, il substrato anatomico, quello che si ammala,
muta, si logora, si opera (Persichetti e al, 2012).
Il paziente, nella relazione con il medico, indicando certe parti anatomiche (ad es. il naso)
indica se stesso, perché il rapporto del paziente con il proprio corpo ha la forma dell’es-
sere e non dell’avere. Il paziente è il naso che ha; c’è sovrapposizione e non scissione tra
le parti del corpo e l’Io, perché il corpo è quel qualcosa che identifica nel profondo ogni
soggetto. Esperire le parti del corpo è esperire l’Io (Persichetti e al.2012).
Ne consegue, che l’intervento del chirurgo sul Körper del paziente è un intervento nel
Leib, nell’anima, ovvero nella persona nella sua complessità (Persichetti e al. 2012).
L’intervento ha sempre conseguenze etiche, psicologiche, antropologiche, in quanto il
Leib è cresciuto con la persona, tanto da affermare le parti del corpo come ‘mie’ ed il
medico non può ignorarle; anzi, deve farsi carico di queste implicazioni. Il medico deve
farsi carico della relazione del paziente con il proprio corpo ed avere presente i benefici
connessi ai due tipi di intervento,
Diverse indagini, aventi come oggetto di analisi la dimensione soggettiva dei pazienti,
cioè le valutazioni circa la qualità della vita in seguito ad interventi di chirurgia estetica,
hanno rilevato molteplici risultati in una direzione positiva, dal momento che le testimo-
nianze hanno messo in rilievo i benefici connessi con il miglioramento della vita e la
soddisfazione e, nello stesso tempo dichiarato livelli preoperatori di disagio psicologico
(Persichetti e al. 2012).
Questi dati permettono di quantificare gli effetti della chirurgia e l’eventuale successo dei
risultati in termini predittivi. Infatti, l’utilità di queste ricerche consiste nel portare
all’identificazione di valori predittivi per il successo chirurgico o lo sviluppo di criteri
standard per il supporto alle decisioni mediche (Persichetti e al. 2012).
40
3.2 La postbellezza e l’estetica dell’esistenza
Quando gli sforzi della chirurgia plastica sono rivolti alla normalizzazione dell’aspetto
fisico, intendendo una armonizzazione estetica delle parti, ovvero la restitutio ad inte-
grum della chirurgia ricostruttiva, essi esprimono, comunque, una tensione inevitabile
della ricerca della bellezza del corpo, una inclinazione naturale dell’uomo capace di pro-
durre quel piacere che coinvolge tutta la persona sul piano emotivo e razionale. Tuttavia,
la ricerca della bellezza deve arrestarsi di fronte a un impossibile, altrimenti il risultato è
una snaturalizzazione, il corpo diventa una maschera che nasconde la persona (Persichetti
e al. 2012).
La società post-moderna è anche l’epoca della postbellezza, quella per cui per essere non
basta apparire, ma occorre apparire in un certo modo, quello indotto da modelli che sono
in costante cambiamento e che si alimentano di ambivalenti e continui riferimenti al pas-
sato, vissuti tra la nostalgia della naturalità del corpo e la celebrazione del nuovo, attra-
verso il ruolo correttivo della tecnica nei confronti delle inadeguatezze del corpo. Scrive
Baudrillard (198023 in Persichetti e al. 2012, pag. 59) che: “Poiché l’ambiguità è una ca-
ratteristica essenziale del postmoderno, nel senso che coesistono gli opposti di uno
sguardo alla tradizione ed uno sguardo al futuro, la stessa osservazione si può fare a pro-
posito della bellezza del corpo. Se è essenziale la cura ossessiva del corpo, questa è anche
accompagnata dal costante timore della défaillance e del suo improvviso tradimento”.Pa-
radossalmente, la nuova estetica, dà origine ad un nuova etica della relazione con il corpo
in cui i risultati attesi devono costituire un appagamento personale, inteso come equili-
brio tra la propria personalità e il proprio aspetto esteriore.
In riferimento alle due componenti, ricostituiva ed estetica, esse, seppur sviluppatesi
come binari paralleli ed indipendenti, negli interventi chirurgici effettuati sono compre-
senti, ossia l’approccio estetico è rilevante nella risoluzione di ciascuna delle problema-
tiche, ma nella declinazione di benessere psico-fisico. “La salute, secondo la definizione
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, è uno stato di completo benessere fisico,
23 Baudrillard J., Della seduzione, Cappelli, Bologna, 1980.
41
mentale e sociale, non soltanto assenza di malattia o infermità” (Persichetti e al. 2012,
pag. 131).
Quando l’aspetto esteriore diviene indispensabile per il raggiungimento del successo
nella vita e le tecniche chirurgiche consentono, appunto, di trasformare un corpo sano in
un corpo più adeguato alle richieste sociali, subentrano alcune conseguenze per il profes-
sionista sul piano della responsabilità giuridica, professionale e morale che prendono
corpo in una normativa della materia.
Una conquista dell’evoluzione giuridica è la legittimità della chirurgia estetica, passando
dall’articolo 5 del codice civile che vietava atti di disposizione del proprio corpo, alle
ultime disposizioni della Corte di Cassazione, la quale, nel 1994, ha affermato che: “la
funzione tipica dell’arte medica, individuata nella cura del paziente, al fine di vincere la
malattia o di ridurne gli effetti pregiudizievoli o, quanto meno, di lenire le sofferenze che
produce, salvaguardando e tutelando la vita, non esclude la legittimità della chirurgia
estetica” (Persichetti e al., 2012 pag. 132). Inoltre, la Legge sancisce, per il chirurgo
estetico, l’obbligazione di risultato, e non solo l’obbligazione ‘di mezzi’ inerenti l’eser-
cizio dell’attività medica in generale, in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si
impegna non solo nell’adempimento della prestazione pattuita nella fase contrattuale, ma
anche nella realizzazione dello scopo del paziente (Persichetti e al., 2012).
Quando si sostiene che in ambito estetico l’adempimento dell’obbligazione verrebbe a
coincidere con la piena richiesta concordata, di soddisfazione e benessere psicofisico, si
assicura alla prassi una giustificazione storico-sociale ed etica.
L’atto chirurgico e della chirurgia plastica è primariamente un atto medico che trova nel
primun non nocere il suo fondamento; e di fronte agli esiti cicatriziali da intendersi quale
conseguenza imprescindibile di ogni atto chirurgico, ha assunto importanza il consenso
informato sia in sede civilistica che nella instaurazione del rapporto professionale (Persi-
chetti e al.2012). In pratica, il chirurgo plastico ha il dovere dell’informazione esaustiva
riguardo ai benefici, alle modalità di intervento, dell’eventuale possibilità di scelta tra
diverse tecniche chirurgiche, e infine dei rischi prevedibili in sede post operatoria. L’in-
formazione deve essere proposta in modo adeguato alle condizioni emotive e culturali del
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paziente e nello stile del ‘buon padre’ considerato ancora una prerogativa della profes-
sione medica (Persichetti e al.2012).
L’omissione di tale dovere di informazione nel caso si verifichi l’evento dannoso genera
una duplice responsabilità, tanto contrattuale, risarcitoria, quanto aquiliana. (Persichetti e
al. pag. 135). Implicitamente, la responsabilità del chirurgo si esplica anche nell’impegno
a trovare una soluzione anche estetica delle richieste e non solo di correzione del pro-
blema; ogni caso esige un trattamento appropriato, sempre delicato e geniale. Nello stesso
modo si pronunciò il Papa Pio XII in occasione dell’inaugurazione del reparto di chirurgia
estetica dell’ospedale romano S. Eugenio, quando associò la chirurgia plastica all’arte,
un’arte che richiede quel senso artistico che si richiede per risolvere casi singoli (Persi-
chetti e al. 2012).
Prima che diventasse un fenomeno di massa, la richiesta di bellezza fatta alla chirurgia
era giustificata con preoccupazioni economiche e psicologiche.Poter andare in giro senza
essere oggetto di speciale attenzione significava per certi pazienti ‘sani’ una possibilità di
integrazione e di riscatto sociale.
La maggior parte dei chirurghi estetici ha compreso il valore della relazione con il loro
cliente, in quanto è attraverso la relazione che essi tentano di capire le ragioni che spin-
gono una persona a rivolgersi alla chirurgia estetica e soprattutto tentano di comprendere
le aspettative per valutarne la ragionevolezza. In questa relazione, la sensibilità del chi-
rurgo coesiste con il senso di responsabilità, consistente nella capacità di prevedere le
conseguenze di quello che decide di fare; ed alla responsabilità sia oggettiva del chirurgo,
cioè di colui che esegue un intervento, che soggettiva del chirurgo, cioè di colui che
accetta di eseguire l’intervento si aggiunge la responsabilità soggettiva del pa-
ziente/cliente, per cui il discorso si sposta sul piano della corresponsabilità (Persichetti e
al., 2012).
Il cliente, per primo, deve dimostrare di avere la consapevolezza della propria richiesta,
cosa non facile poiché per lui l’unica cosa che ha senso è la sua esigenza: da un lato è
auto-prescrittore, dall’altro si rivolge al chirurgo per ottenere l’esecuzione di una auto-
prescrizione (Persichetti e al. 2012).
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Esiste il rischio di assecondare un conformismo estetico dando luogo di fatto ad una bio-
tipologia chirurgia,i cui canoni nascono dai media. I processi di interiorizzazione di mo-
delli estetici da parte di ampie masse di persone inducono le persone a rispecchiarsi in
veri e propri ‘tipi estetici’ e a sollecitare la chirurgia a dare corpo a biotipi, i quali ap-
paiono come la negazione della biodiversità (Persichetti e al 2012). Di conseguenza, in
relazione al rapporto dell’individuo con i contesti socio-culturali che sono sempre ambi-
valenti, apportando positività e negatività, subentra il richiamo all’etica della responsabi-
lità che in materia chirurgica diventa: “che il chirurgo agisca in modo che le conseguenze
dei suoi interventi siano compatibili con la vita sociale delle persone” (Persichetti e al.
2012 pag. 93).
Ne consegue, che i più importanti imperativi categorici sono: 1) quello di non fabbricare
mostri; 2) che i simulacri possono essere un autoinganno; 3) che le brutture sono senza
senso; 4) che la chirurgia non può sempre dire di sì; 5) che il chirurgo deve farsi carico
della persone come bene supremo. In altre parole, la applicazione di quei principi, vuole
esprimere che: “la chirurgia estetica partecipa all’arte del vivere, come qualsiasi stile di
vita o come qualsiasi pratica sociale. Essa ci obbliga a riflettere sui tanti modi di costitu-
zione del soggetto e a definire una specie di estetica dell’esistenza a partire dalle sue
possibilità chirurgiche” (Persichetti e al. 2012 pag. 94).
Baudrillard, (198024 in Persichetti e al. 2012, pag. 57) ha scritto: “…la star non ha niente
di un essere ideale o sublime: è artificiale. Può essere solo un’attrice nell’accezione psi-
cologica del termine; il suo volto non è il riflesso della sua anima, è artificio e non-senso”.
In base al riconoscimento/legittimazione della chirurgia estetica nel campo della salute,
essa deve essere emancipata dai preconcetti e dai luoghi comuni che la considerano una
scienza al servizio dell’effimero e salvaguardata dalla mercificazione. L’espressione
‘pro-ageing’, anziché ‘anti-ageing, conferisce una ragionevolezza di significato alla fun-
zione di mediazione svolta dalla chirurgia tra il tempo che passa e l’esistenza dell’uomo
che cambia nel tempo. La chirurgia estetica, in questa attribuzione di senso, permette agli
individui di procedere nel tempo, senza che il tempo degradi, per quanto possibile l’uomo.
24 Baudrillard J., Della Seduzione, Cappelli, Bologna, 1983.
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Un chirurgo estetico dovrebbe sapere che dietro ad un difetto fisico c’è una complessità
di senso, in quanto il difetto, è esteticamente visibile, si manifesta anche agli altri, è iden-
tificazione. L’adesione all’influsso del simbolismo del corpo proveniente dalla comuni-
cazione mediale soddisfa molto la necessità di conferme sociali.
Il difetto fisico non è solo un problema dell’aspetto fisico che conduce all’estetismo, men-
tre la chirurgia non aspira a questo uso riduttivo, esclusivamente tecnico-estetico, perché,
in tal caso, viene tralasciata la conoscenza profonda della persona, la quale per prima deve
essere cosciente del senso di quello che fa (Ghigi, 2008).
Un altro criterio della chirurgia ideale consiste nell’aiutare le persone a dare senso a qual-
cosa, senso che rivela il bisogno autentico di poter essere in un certo modo. Si tratta di
pensare la chirurgia come una funzione estetica ampia, con funzioni maieutiche, che cura
i problemi di senso che all’uomo vengono posti dal suo aspetto fisico (Persichetti e al.
2012).
Molto spesso di una donna con il seno rifatto o un viso restaurato è stata tirata in ballo
l’inautenticità, come se l’autenticità di una persona fosse definita solo attraverso il corpo,
anziché un modo di essere in cui la bellezza si lascia intravedere e non si fa vedere a tutti
i costi. La chirurgia estetica, di fronte al dilemma autentico/inautentico ritiene che l’au-
tenticità vada collegata al bisogno che la genera e che impedisce di ‘poter essere’, un
bisogno che nella post-modernità è anche estetico, necessario per comunicare la perce-
zione e la cura di sé (Persichetti e al.2012).
3.3 Il ruolo dei media nella diffusione e nella promozione della chirurgia estetica
Che la chirurgia estetica possieda un grande valore sociale è incontrovertibile se conte-
stualizzata nel dopoguerra; tuttavia, oggi, rischia di diventare sempre di più un bene di
consumo e di mercato da quando il bisogno estetico si è privatizzato. A maggior ragione
è,nello stesso tempo, necessario il problema della sua giustificazione, nel senso di definire
un pensiero teorico che la sostenga, e che, soprattutto delinei quale esigenza o ideale guidi
la nostra società ad esprimere questo bisogno.
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La più lunga storia della materia è testimoniata fin dall’inizio del XX secolo quando la
stampa era preposta alla diffusione della nuova scienza, come rivela l’articolo, apparso
nel 1905 sul domenicale del Corriere, del dott. Teiro, uno pseudonimo, nel quale divul-
gava interventi di mastoplastica, rinoplastica, eliminazione di cicatrici accompagnati
dalla spiegazione di come si opera. Tuttavia, l’operatore esteta, non era un medico pro-
fessionista, la maggioranza degli interventi erano eseguiti dai cosiddetti ‘praticoni’ (Per-
sichetti e al, 2012).
Un momento di grande visibilità ebbe nel 1923 l’intervento di rinoplastica su Fanny
Brice, un’attrice di vaudeville e comica di successo di origine ebraica (la Fanny Girl in-
terpretata da Barbara Streisand nell’omonimo film del 1968). L’ideale di bellezza, è vero,
corrisponde sempre ad un modello estetico-culturale dominante, ad es., come quelli voluti
dai due artisti odierni Michael Jackson e Cher: passare per più giovani, più magri, più
‘caucasici’(Persichetti e al., 2012).
Nei primi decenni del secolo scorso i giornali popolari a grande tiratura e i periodici fem-
minili ricoprirono un ruolo cruciale nella diffusione e nella promozione della chirurgia
estetica sul libero mercato. La trasformazione corporea era concepita come pratica edo-
nistica e strumentale e non si sarebbe imposta nella società industrializzata senza il sup-
porto e lo spazio concesso sui media. L’idea diffusa era che le persone potevano rimodel-
lare il corpo non in base ad una patologia, ma in base ai loro stessi desideri, con motiva-
zioni sempre più legate a bisogni sociale e di realizzazione.
La presenza nei media del tempo, degli annunci pubblicitari dei chirurgi estetici, destò
molte perplessità verso una pratica non sicura circa l’esito, dando vita a più categorie di
professionisti della bellezza (medici riconosciuti, estetiste e pseudo-chirurghi) ed i gior-
nalisti scientifici informavano sulle conquiste nel campo e descrivevano le nuove meto-
dologie ed il materiale usato o la sostanza, suscitando un vivo interesse presso il pubblico.
Alcuni leit-motiv di parti del corpo (seno prosperoso, guance paffute) erano presentati e
propagandati sui mezzi di comunicazione di allora e ricorrere all’aiuto dei chirurghi, della
cosmesi era, secondo i divulgatori, una reazione naturale, tanto era convincente la loro
propaganda.
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Da questi inizi, la bellezza del corpo si è evoluta nella concezione di corpo, sano e bello.
Essa è comunicata, dagli anni Settanta/Ottanta attraverso delle riviste specializzate nella
pubblicazione dei temi della salute e della malattia, come ad es. Starbene e Viver sani &
belli, le quali hanno contribuito a determinare le nuove rappresentazioni sociali del corpo,
facendo di esso un oggetto sociale di consumo. Insieme alla pubblicità, i giornali e le
riviste hanno assunto sempre di più un ruolo nel costruire le forme dei bisogni corporei
in campo medico, estetico, diagnostico. Negli ultimi decenni, poi, la dimensione estetica
del corpo ha raggiunto un interesse alla pari di quella organica, psichica e relazionale, se
non prevalente, dettata dai diktat delle potenti industrie della moda e della bellezza. A
riguardo, vi sono state due posizioni critiche: quella di Roland Barthes (197025 in Galim-
berti, 2009 pag., 96) il quale avrebbe collocato, da diversi decenni, la chirurgia estetica
fra i miti del nostro tempo, una moda onnipotente di cui ha scritto che ha la capacità di
trasformare, rettificare il corpo reale in un corpo ideale allo stesso modo dei vestiti; preoc-
cupandosi, soprattutto,degli effetti dell’estetica sulla identità e del problema del confor-
mismo; e, quella contro il ‘mito della bellezza’ rappresentata da alcune tendenze femmi-
niste degli anni Novanta, tra cui, Naomi Wolf che, nel 1991, denunciò un ulteriore asser-
vimento della donna al sistema simbolico-culturale dominante; mentre, nel 1993, Susan
Bordo orientava, maggiormente, la sua attenzione sul canone di snellezza del proprio
corpo e la patologia dell’anoressia, ritenuta, a suo avviso, il segno, l’indicatore di un
disagio culturale. (Persichetti e al. 2012).
L’altra posizione, più inerente la pratica medica, è quella in cui V. Tambone (199926 in
Persichetti e al., 2012 pag. 8) chiedendosi quale estetica per la medicina? scrive: “il
paziente che soffre anche nella sua dimensione qualitativa e non trova aiuto nella Medi-
cina Scientifica (EBM) e non trova aiuto in tale ambito – che si vede piuttosto negato -
si rivolgerà altrove, per chiedere comprensione e conforto, a meno che questa non man-
tenga fede ai suoi presupposti gnoseologici”.
25 Barthes R., Sistema della moda, Einaudi,Torino, 1970.
26 Tambone V., Evidence Based Medicine and New Age Medicine, Medic, vol.7 n.1, 1999.
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Questa dichiarazione riporta alla chirurgia plastica come funzione maieutica, allo scopo
di estrarre l’autenticità dell’anima della persona. Ovvero, una chirurgia capace di ritro-
vare l’immagine o imago della persona, quella che rafforza la sua identità e le procura la
stima di se stessa; il simulacro, al contrario, è solo il doppio di qualcun altro. Perché la
bellezza vera non è un simulacro, un’effigie, ma è una ricerca perenne, attraverso la co-
noscenza di sé, della propria unicità (Persichetti e al. 2012).
C o n c l u s i o n i
Il corpo è ricettacolo della psiche come la psiche è ricettacolo del corpo.
Con la nascita in psicologia dell’orientamento psicodinamico il corpo e la sua immagine
non sono più concepiti come dati naturali, organismi che producono stimoli sensorio-
percettivi, ma sede di dinamiche motivazionali, desideri, aspirazioni individuali e collet-
tive. In tal senso, nella sintomatologiaorganica sono presenti molteplici componenti psi-
chiche che portano ad interrogare e prendere in considerazione la soggettività e l’espe-
rienza vissuta.
I disturbi legati all’immagine fisica, per oltre un secolo sono stati indicati con il termine
dismorfofobia e ribattezzati DDC, acronimo di Disturbo di Dimorfismo Corporeo. Rico-
nosciuto lo statuto nosografico della sindrome, il DSM II ne ha fissato i criteri diagnostici
ed i possibili rapporti con altre patologie.
La storia della psicopatologia dell’immagine del corpo è iniziata, in campo neurologico,
con le aschematie dello schema corporeo e, in seguito con l’introduzione del concetto di
immagine del corpo mutuato dalla psicologia. Tale immagine non si identifica con i limiti
anatomici del soma, ma è il prodotto delle relazioni interpersonali e dell’interazione con
la società e le sue istituzioni, in un processo di continua autocostruzione e autodistruzione.
In particolare, assumono rilievo i modelli veicolati dai media. Lo specchio, in primis, se
ha la funzione di attestare l’identità di una persona, è anche un pericolo, quando l’imma-
gine riflessa non corrisponde a quella attesa, perché in essa si frappongono importanti
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processi di mediazione emotiva, cognitiva e simbolico-culturale. Il costante checking be-
haviors se è associato ad uno scarso insight genera stati d’animo negativi da un lato e
progetti di rimedio o risoluzione del problema dall’altro, come l’isolamento o
l’evitamento, le diete ferree, i sacrifici alimentari, le ossessioni da palestra e l’intervento
di chirurgia estetica.L’intervento di chirurgia estetica nella sua funzione ricostruttiva ha
sempre avuto fin dalle prime pratiche la sua ragion d’essere, mentre per quanto riguarda
la funzione migliorativa (modificare una parte sana del corpo per ragioni di preferenza
estetica), la prospettiva di una chirurgia estetica in senso etico, e qui sviluppata, è basata
su diversi presupposti e precetti: promuova una medicina
pro - ageing, anziché anti - age, ossia, di tutela della persona nella sua totalità;
- che l’intervento del chirurgo sul Körper del paziente è un intervento nel Leib,
nell’anima, per dare benessere psico-fisico e facilitare l’integrazione nel tessuto so-
ciale;
- che la ricerca della bellezza deve arrestarsi di fronte a un impossibile, altrimenti il
risultato è una snaturalizzazione;
- l’impegno nella cura della relazione con il paziente e corresponsabilità
- che in ragione del valore sociale che sta possedendo deve rivendicare l’importanza
del valore estetico all’interno di nuove nozioni di salute, benessere, vitalità
In sintesi, per nobilitare se stessa la chirurgia estetica ha il dovere di creare una chirurgia
esistenziale, che sia per vivere meglio, il cui senso è soprattutto quello di evitare l’esteti-
smo, fare un uso riduttivo delle proprie conoscenze scientifiche e di assoggettarsi al con-
sumismo.
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B I B L I O G R A F I A
❖ Faccio E., Il disturbo alimentare, Carocci, Roma, 1999
❖ Faccio E., Le identità corporee, Giunti, Milano, 2007
❖ Galimberti U., Il corpo, Feltrinelli, Milano, 1983
❖ Galimberti U., I miti del nostro tempo, Feltrinelli, 2009
❖ Ghigi R. Piacere, Storia culturale della chirurgia,Il Mulino,2008
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fisse, Boll. Regia Accademia Scienze Mediche di Genova, 1891, VI.
❖ Morselli E., Deliri e Diagnosi corporea Arichiv. Psicologia e psichiatria, fasc. V,
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❖ Nanetti F., La comunicazione trascurata, L’osservazione del comportamento non
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