Il Diavolo e La Rossumata - Sveva Casati Modignani

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Il libro

9 4 3 , M I L A N O   È   S O T T O   L E   B O M B E   D E G L I   A L L E A T I . U N A   F A M I G L I A   È

sfollata in una cascina fuori città. Una bambina affidata alle cure dei nonni cresceimmersa in un universo rurale, dove ha inizio il suo apprendistato alla vita.

La bambina protagonista di questo libro è Sveva Casati Modignani, la quale affida

per la prima volta a un racconto autobiografico i ricordi della sua infanzia, che si

intrecciano con la memoria di cibi e sapori.

Sono anni di fame, di mercato nero e di succedanei. Le donne si ingegnano a cucinare con

fantasia i pochi ingredienti di cui dispongono. Nel racconto i ricordi dell’infanzia spaziano

tra ricette golose e le attività solitarie della bambina che osserva silenziosa il mondo degli

adulti sempre indaffarati: tra questi una nonna amorevole e un po’ ruvida, che la crede

posseduta dal Diavolo, e una mamma che, incapace di esprimere altrimenti il suo amore,cuce per lei abitini raffinati e cucina cibi gustosi.

Il libro include un ricettario, con i piatti della cucina lombarda rivisitati dalle consuetudini

di famiglia, tutti singolarmente commentati dall’autrice che rievoca con rara autenticità

una cultura gastronomica radicata nel territorio, in un mondo di tradizioni e sapori

dimenticati.

Il Diavolo e la rossumata è un racconto personale, intenso, ironico, al quale non mancano

tuttavia momenti intimi e a tratti drammatici, in cui Sveva Casati Modignani svela ai suoi

lettori qualcosa di sé.

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L’autore

Sveva Casati Modignani è una delle firme più amate della narrativa contemporanea: i

suoi romanzi sono tradotti in venti Paesi e hanno venduto oltre undici milioni di copie.L’autrice vive da sempre a Milano, nella casa in cui è nata e che apparteneva già a sua

nonna, e dove si svolge in parte questo racconto. Visita il sito dedicato all’autrice,

www.svevacasatimodignani.it , o collegati a facebook su “Sveva Casati Modignani pagina

ufficiale”.

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«Madeleines»

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Sveva Casati Modignani

Il Diavolo e la rossumata

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 Avvertenza per i lettori

Per le parole e le frasi in dialetto milanese è stata adottata una grafia semplificata più vicina alla pronuncia effettiva.

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Dedico questi ricordi gastronomici, e non solo, al mio amatissimo fratello Carlo, detto Lucio,ma anche Jack. Lui è nato dieci anni dopo di me e non ha vissuto il fascismo, la guerra,

l’occupazione tedesca, i bombardamenti, le fughe nei rifugi e gli sfollamenti dalla città, laLiberazione, la fame. Ora gli racconto tutto questo, scherzandoci sopra come usiamo fare tranoi, e gli disvelo qualcosa della nostra famiglia con il piglio giocoso che ho imparato da lui,

che ha il senso ludico della vita.

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Premessa

Questo racconto sul cibo di una volta nasce da un’idea di Stefano Peccatori, un caro amico,

al quale parlai di quello che si cucinava in casa mia quand’ero bambina e c’era la guerra.Molti alimenti come la farina, lo zucchero, il tè, il caffè, le carni, le uova e il burro eranospesso introvabili. Chi poteva permetterselo li acquistava alla “borsa nera” a prezzi vertiginosi. Chi abitava nelle grandi città era costretto a sfollare per sottrarsi aibombardamenti. Chi aveva un giardino lo trasformava in “orto di guerra” e poteva ancheallevare polli e conigli.

In generale il cibo era pessimo, perché sul mercato si trovavano succedanei di dubbiaprovenienza – come l’ovolina al posto delle uova, il caffè di cicoria, la farina di semola – chenon si sapeva che cosa contenessero, o il burro fatto con il grasso degli animali. Le donne

dispiegavano tutta la loro creatività per mettere in tavola piatti appetibili. C’era chi dava lacaccia ai passerotti per mangiarli con la polenta. I gatti erano scomparsi, perché chi netrovava uno lo catturava, lo accoppava e lo mangiava, tanta era la fame.

Eppure tutto questo, per me che ero nata in quel periodo, era la normalità. Quando laguerra finì, mi sentii privata di un elemento vitale e domandai a mio padre: «Com’è lapace?». Mi rispose: «È come il pane bianco che stai mangiando adesso. È una cosa buona eti piacerà».

Sono trascorsi molti decenni da allora e io non so se questi episodi, che non seguono unordine temporale, ma piuttosto l’associazione dei ricordi, corrispondano pienamente alla

realtà, ma sono nitidi nella mia mente e hanno segnato la mia esistenza nel bene e nel male.

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Il Diavolo e la rossumata

Per quanto andasse a messa tutte le domeniche e recitasse le orazioni ogni sera, non sose la nonna credesse in Dio, ma so per certo che credeva nel Diavolo, il quale entrava diprepotenza in tutte le sue sfuriate, anche con i nomi di Berlicche, Satana, Satanasso,Maligno e brüt Demòni.

Nella soffitta della memoria mi rivedo come una bambina curiosa, riflessiva,costantemente preoccupata di compiacere la mia famiglia. Ma pare che non ci riuscissi,perché sia la mamma sia la nonna mi trascinarono più volte da don Giuseppe, il parrocodella chiesa di Santa Maria Rossa, chiedendogli di benedirmi, perché avevo addosso ilDiavolo.

L’immagine del Diavolo mi veniva dai racconti della nonna che lo descriveva come unessere terrificante, vestito di rosso, con le corna sulla fronte, una lunga coda bovina, losguardo maligno e irridente, e un tridente in mano per sospingere i dannati nelle fiammedell’inferno.

Il papà mi raccontò che Satana era stato un angelo del Signore, il più bello e il piùintelligente, ma aveva peccato di superbia e Dio lo aveva relegato «nelle profondità degliinferi». Disse ancora: «Come tutti gli angeli, ha grandi ali, ma invece di proteggerti, vuole iltuo male. Quando senti una vocina che ti incita a fare qualcosa di sbagliato, sappi chequella è la sua voce e tu non devi ascoltarla».

A me quella vocina piaceva tantissimo, perché di solito mi spronava a fare cose moltodivertenti e, per quanto mi sforzassi, non sempre riuscivo a osteggiarla. Come quella voltache la voce suadente mi indusse a inventare un gioco sconveniente.

All’epoca non avevo ancora sei anni. Eravamo a Milano, la guerra volgeva alla fine e,come una belva ferita a morte, sventagliava la sua coda colpendo il mondo all’impazzata.La nonna scoprì che avevo fatto una cosa terribile e mi trascinò dal parroco.

Doveva essere estate, perché mi pavoneggiavo in un bel vestitino di shantung arancione,con una cintura marrone che si chiudeva a fiocco sulla schiena. La nonna vestiva il solitoabito blu punteggiato di bianco e, camminando di buon passo nel sole pieno del mattino,

l’ombrellino aperto a proteggerla da una deprecabile abbronzatura, imprimeva alla gonnaun fruscio cadenzato e setoso, musicale come un’allegra marcetta.Di quell’anziano parroco, dai tratti aristocratici, mi affascinavano gli occhi celesti, i

paramenti ricchi di ricami floreali che indossava per le funzioni solenni e la gestualità concui offriva ai fedeli l’ostia consacrata, che io non potevo ricevere perché ero troppo piccola.

Anche noi avevamo in casa le ostie che la nonna comperava in farmacia. Le inumidiva,ci versava sopra una polverina digestiva, richiudeva l’ostia a formare una cialda e laingoiava dopo aver mangiato la “cassœula” con le verze.

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Avendole trovate in uno stipo della cucina, decisi di imitare il parroco e officiare il ritodella comunione con Murcìss che, per essere un gatto scontroso, con me era moltotollerante.

Levai al cielo la cialda del farmacista, che era tanto più grande di quella consacrata, erecitai in un latino astruso: «Colpus tristi, santadevigenetri». Imitando don Giuseppe,tracciai nell’aria il segno della croce e addentai l’ostia, lasciandone un pezzetto per Murcìss,

che la apprezzò.«Non capisco... ho comperato un sacchetto di ostie l’altra settimana e adesso non ce n’è

quasi più», si meravigliò la nonna che aveva l’abitudine di parlare da sola. Oggi misorprendo spesso a fare la stessa cosa e non mi dispiace, perché questo comportamento mela fa sentire ancora presente.

Comunque, in quella mattina d’estate, lei scoprì che fine avevano fatto le sue ostie.«Sacrilegio!», urlò avvampando di collera. E mi definì una “brütta vialba”. Allora non lo

sapevo, e probabilmente non lo sapeva neppure la nonna, ma “vialba” era un’ingiuriaterribile e nasceva dal fatto che a Milano, in via Alba, c’era un sanatorio in cui erano

ricoverate le donne affette da tubercolosi, e si diceva che questa malattia colpisse leprostitute.

Mentre mi sgridava, mi sculacciava con rabbia. Alla fine decretò: «Tu hai addosso ilDiavolo!».

Il parroco, sprofondato in una poltrona, teneva tra le mani il breviario e forsepregustava la delizia di un pranzo con il coniglio al forno, preparato dalle due anzianeperpetue, sue parenti. Dalla cucina, infatti, proveniva il sentore del cibo che sfrigolavadolcemente nel forno, impregnando il vasto soggiorno immerso nella penombra creatadalle persiane socchiuse da cui filtravano lame di sole che proiettavano un pulviscolo

dorato su una parete costellata di tele sacre, ma anche profane, di scuola lombarda.Don Giuseppe Roncoroni proveniva da una famiglia facoltosa. Il buon gusto e l’eleganza

si riflettevano nella sua persona e nella casa arredata con mobilia di pregio e tappetibellissimi. L’irruzione della nonna, che gli ingiungeva di scacciare il demone che mi abitava,dovette irritarlo, perché la guardò storto.

«Mi benedica questa scimmietta, perché ha addosso il Diavolo. El gà de savè, sciurprevòst...», prese a dire, sospingendomi verso di lui con fare minaccioso.

«Quello che devo sapere, me lo dirà la bambina», la interruppe alzandosi a fatica e dimalavoglia dalla poltrona. Poi si rivolse a me: «Andiamo di là».

Appoggiandosi al bastone, mi precedette nel suo studio e sedette su uno scranno, dietrouna scrivania monumentale su cui spiccavano un crocifisso infilzato su una mezza sfera di vetro celeste e un telefono di bachelite nera che non suonava mai, perché i parrocchiani chedisponevano di quella “moderna diavoleria”, come lo definiva la nonna, erano pochissimi.

Tirò fuori una stola da un cassetto, la baciò e se la infilò al collo. Emise un sospirorassegnato, congiunse le mani in preghiera, chiuse gli occhi e mi lasciò lì, in piedi, dall’altraparte della scrivania. Quindi, con voce appena percettibile, domandò: «Che cosa haicombinato?».

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«Boh», risposi io, che non avevo tanta voglia di confessare un fatto di cui non coglievo lagravità.

Lui teneva sempre gli occhi chiusi e pensai che si fosse addormentato. Invece, dopo unbel po’, disse: «Non far perdere la pazienza anche a me».

Dondolandomi sulle gambette lunghe e secche, spifferai: «Ho mangiato le ostie dellanonna e ne ho date anche al gatto, facendo finta che io ero il prete e facevamo la

comunione».Don Giuseppe si portò alle labbra le mani giunte e mi sembrò che volesse nascondere un

sorriso, ma non ne ero sicura, perché era un tipo imprevedibile. Per esempio, durante lefunzioni serali di maggio, quando noi bambini scorazzavamo per la chiesa, luiinterrompeva la recita del rosario, scendeva dall’altare con un’agilità insospettata e cipiombava addosso distribuendo scappellotti duri, e intanto sorrideva come se ci regalassecaramelle. Poi tornava all’altare e andava avanti a guidare la recita. Così, feci un passoindietro, casomai afferrasse il bastone per colpirmi.

Invece non si mosse e domandò: «E dopo?».

«Dopo ho preso tante sculacciate», risposi, sperando che quella conversazione finissepresto.

Stavolta fui certa che si fosse addormentato, perché il suo respiro si fece pesante. Allora,facendolo sobbalzare, urlai: «La nonna dice che ho addosso il Diavolo. È vero?».

Lui spalancò su di me i suoi piccoli bellissimi occhi celesti e urlò a sua volta: «Quantestupidaggini!».

Poi la voce si addolcì e soggiunse: «Adesso recitiamo l’Angelo di Dio».«Angelo di Dio che sei il custode mio...», prese a dire con me. Poi lasciò che finissi la

preghiera da sola. Mi benedisse e mi riconsegnò alla nonna.

«Sarà il caso di iscrivere la bambina al catechismo», le ordinò ruvido.«Ma se non va ancora a scuola?», obiettò la nonna.«Allora iscrivetela alla scuola e dopo andate a farla benedire dalla maestra, perché il

Diavolo non abita nei bambini, ma nei grandi che vedono il male dappertutto», replicò,indicandole la porta con un gesto risoluto.

«A scuola la iscriveremo quando avrà l’età, e le piante storte vanno raddrizzate mentresono piccole», precisò la nonna con voce sferzante, decisa ad avere l’ultima parola.

Quando fummo sulla via inondata di sole, mi domandò: «Te l’ha data sì o no questabenedizione?».

«Sì», dissi io.Allora sorrise soddisfatta.Tornammo a casa e, mentre preparava la tavola, mi promise: «Oggi, a merenda, ti faccio

la rossumata».La rossumata era una delle tante merende consolatorie che la nonna mi offriva

quand’era di luna buona. La preparava con un uovo sbattuto con lo zucchero fino a farlodiventare una spuma gonfia e lieve e poi la colorava di un bel rosso prugna con l’aggiuntadi mezzo bicchiere di Barbera d’Asti Cascina Castlèt.

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Le mie merende cambiavano a seconda delle stagioni, dell’umore della mamma e dellanonna, della disponibilità di cibo. Capitava che mi offrissero pane e mela, oppure pane epera, ma anche mirtilli o fragole cosparsi di zucchero e irrorati con Amarone Bolla.

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Sant’Antonio e le crocchette di patate

A casa nostra il vino era una costante e mi veniva somministrato anche come farmaco.

D’inverno, quand’ero raffreddata, mi mettevano a letto temendo che il malanno evolvessein polmonite e mi facevano bere il “vin brülé”, vino rosso scaldato sul fuoco, speziato concannella e chiodi di garofano, addolcito con lo zucchero.

A Natale, nel piatto dei ravioli in brodo, si aggiungeva uno spruzzo di Brunello BarbiColombini, un vino superbo che compariva sulla tavola unicamente per quella grandefesta. Poi, a fine pranzo, ricevevo la mia fetta di panettone che inzuppavo nel bicchiere diMoscato d’Asti Gancia.

A Capodanno il papà stappava una bottiglia di Prosecco Carpené Malvolti. Ne bevevoanch’io e dopo mi abbuffavo di zuppa inglese fatta con il pan di Spagna affogato nel

Marsala Pellegrino.Quando arrivavano in visita alcune signore, la nonna offriva subito un “vermutino”

Gancia e ne dava un bicchierino anche a me, allungandolo con l’acqua.C’era la guerra, c’era penuria di cibo, tuttavia in casa nostra non mancavano vini e

liquori.Il vino entrava come ingrediente fondamentale anche nella preparazione di risotti, carni,

sughi, zabaioni.Per non parlare dei giorni in cui non c’era quasi niente da mangiare e, a merenda, la

mamma spruzzava un po’ di grappa Nardini su una fetta di pane e me la offriva con una

spolverata di zucchero.Quand’ero ormai ragazza, di fronte alle mie ribellioni sconsiderate, la mamma urlava:«Sei una deficiente!».

Io, che nel frattempo ero diventata quasi astemia e tale continuo a essere, replicavo: «E tistupisci? Pensa a tutto l’alcol che mi hai fatto bere da bambina».

Ho trascorso la prima infanzia tra la casa di Milano e due stanze nella Cascina Mezzettaa Trezzano sul Naviglio, in un vasto complesso rurale, in mezzo alle risaie.

Non so in base a quale criterio i miei genitori, che stavano quasi sempre in città,

decidessero i miei “sfollamenti”, ma so che, per periodi più o meno lunghi, venivo affidataai nonni e mi immergevo felicemente nella vita dei campi.La Cascina Mezzetta era delle zie Oldani, parenti del nonno, che ci ospitavano in una

casa dei loro famigli, avendo messo subito in chiaro che dovevamo pagare un affitto perl’alloggio e arrangiarci da soli per il mangiare. In nome della parentela, ci offrivano patate a volontà.

«Di queste ce n’è finché volete, le diamo anche ai maiali», disse la zia Alina che citrattava con sufficienza e, quando aveva ospiti a cena, ci chiedeva di non entrare in casa

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sua.Con quelle patate la nonna preparava piatti celestiali: patate fritte, patate arrosto, purè

di patate, gnocchetti di patate, sformato di patate, passato di patate e, soprattutto, lecrocchette di patate.

Da adulta ho cercato più volte di rifare le sue crocchette, chiedendole anchesuggerimenti quando lei era già anziana e malata. Non sono mai venute buone come le sue.

«Dipende dalla qualità delle patate. Non ci sono più quelle bianche, farinose, morbideche c’erano una volta», mi consolava lei che, a mio avviso, era una cuoca più abile dellamamma.

Le prime crocchette di cui ho memoria comparvero sul tavolo alla Cascina Mezzetta lasera in cui Sant’Antonio operò il miracolo di far ritrovare le oche smarrite.

A me era permesso accedere alla casa padronale a condizione che mi rendessi invisibile.Sedevo in disparte e, avida com’ero di conoscenza, osservavo e ascoltavo tutto in silenzio.

Quella casa era la centrale di comando del complesso rurale che contemplaval’allevamento di mucche da latte, maiali, tacchini, polli, oche, la scuderia dei cavalli e la

coltivazione a riso delle marcite. La zia Alina, moglie dello zio Ettore, era il generale. Suasorella Amalia era il colonnello.

La zia Alina era sulla quarantina. Profumava di Coty, la cipria con cui si impolverava il viso e si imbellettava le guance. Sembrava un clown, con i capelli radi color stoppa, raccoltisulla testa in una piccola crocchia. Vestiva abiti dai colori sgargianti e sul petto debordanteportava un “brillò” che mandava bagliori.

Mi guardava con occhi ironici e taglienti, quasi a dirmi: «Guarda che se mi combini unmalanno, ti caccio a pedate nel sedere». Sentivo di non piacerle, come lei sentiva di nonpiacere a me.

Lei e lo zio Ettore formavano una strana coppia, perché lui era alto, magro, biondo,elegante. Calzava stivali color tabacco e indossava giacche di velluto da gentiluomo dicampagna. Da giovane era stato corazziere del re e conservava la divisa d’ordinanza, con laspada e l’elmo da cui pendeva una lunga coda di cavallo, in una teca della saletta.Chiamavano così la sala da pranzo dove mangiavano solamente quando ricevevano ospitidi riguardo. Era arredata con pesanti mobili liberty che mi ricordavano le lapidi di pietradei cimiteri. Su una “servente” c’era l’oggetto dei miei desideri: il Duomo di Milano in legnotraforato, con una luce rossa all’interno che dava suggestione alle guglie e alle vetrate. Una volta allungai una mano, alzandomi sulla punta dei piedi, per sfiorare quella meraviglia e la

zia Alina mi disse: «Guardare e non toccare è una legge da imparare».Fin da allora desideravo accarezzare le cose che ancora oggi mi piacciono, i gingilli dibella fattura, ma anche le sete, i velluti, le sculture e, soprattutto, i libri.

Assistevo curiosa ai battibecchi tra la zia e lo zio. Lei lo rimproverava di essere un“fanigutùn”, uno scansafatiche. Lui la accusava di avere il cervello di un’oca.

La nonna diceva di lui: «È entrato in casa Oldani e l’ha tacàa sü el capèll», volendo direche non possedeva niente di suo.

Ogni giorno lo zio andava in calesse per i campi e controllava il lavoro dei contadini,

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riceveva il fattore nel suo studio e, insieme, scrivevano numeri su un grande registro. Lasera guidava tutta la comunità nella recita del rosario che si teneva nel giardino della casapadronale, davanti a una statua della Madonna dal manto celeste, collocata nella cavità diuna roccia artificiale che si ergeva su uno spiazzo in fondo al vialetto d’ingresso.

Quello era un momento di gioia, perché potevo giocare a nascondino tra i cespugli fioriticon tutti i bambini della corte, mentre i grandi infilavano una serie interminabile di

Avemaria e Salveregina.Di quel giardino ricordo le opulente rose scarlatte che, con le ombre della sera,

emanavano un profumo soave, e la vasca dei pesci rossi in cui immergevo le barchette dicarta che, regolarmente, si piegavano e affondavano.

La zia Amalia era la zitella di casa. Piccola, secca come un chiodo, le gambe sottili earcuate, le scarpette nere con il tacco alto e grandi occhi azzurri da basedowiana. Diceva disé: «Mi gò nient de bell, ma ho due bellissimi occhi».

Come sua sorella, vestiva abiti di seta vivace che mortificava con l’eterno grembiule neroannodato in vita. Con me era di una dolcezza distratta. Di lei, più tardi, seppi che aveva

avuto un fidanzato il quale aveva avanzato certe pretese, ma lei, fanciulla di buoni principi,le aveva respinte e lui era sparito nel nulla. Si sussurrava che anche la zia Alina avesse avutouna brutta storia che l’aveva resa acida e gretta e che lo zio Ettore fosse stato un marito diripiego: poteva considerarsi fortunata, perché quel matrimonio l’aveva salvata agli occhi delmondo.

La zia Amalia trascorreva ore nella “casascia”, una grande stanza adiacente alla cucina,con madie stracolme di legumi e cereali, le pareti ricoperte di pentole, padelle, setacci eutensili di ogni tipo, file di salumi penzolanti dalle travi del soffitto, mensole cariche diformaggi messi lì a stagionare, olle di terracotta in cui veniva conservato lo strutto con i

ciccioli e un camino nel quale la zia cuoceva il pastone per i suoi maiali con grandi quantitàdi granturco, patate, mele. Si era diplomata in calligrafia ed era compito suo scrivere aparenti e amici biglietti di condoglianze per un lutto, e letterine di felicitazioni per unanascita, un matrimonio o un compleanno.

Doveva essere una sera d’autunno quando il fattore fece irruzione nella “casascia” perannunciare che si erano smarrite le oche. Senza perdere tempo, le zie si precipitarononell’aia. Lo zio invece si diresse con tutta calma verso la saletta, dicendomi: «Vieni con me,recitiamo un rosario alla Madonna, perché interceda presso Sant’Antonio. Lui ritroverà lenostre oche».

Fuori c’era un gran trambusto di gente che correva da ogni parte e io avrei tanto volutoessere con loro, ma non osai oppormi all’ordine dello zio e lo seguii. Lui cavò di tasca ilrosario e, girando lentamente intorno al tavolo, prese a biascicare una serie infinita diorazioni. Di tanto in tanto, alzava il tono della sua bella voce baritonale, supplicando:«Sant’Antoni, famm truvà i occh».

Poi si girava verso di me che lo seguivo e mi spronava: «Dill anca ti». Dillo anche tu.Ubbidivo, sebbene non mi importasse niente delle oche e il pensiero rincorresse le zie, i

famigli, il fattore e gli altri bambini che, beati loro, stavano vivendo una grande avventura,

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mentre nel cielo si addensavano le ombre della sera.Tallonando lo zio, avevo macinato anch’io centinaia di passi intorno al tavolo della

saletta. Infine dall’aia arrivarono voci concitate e festanti, sottolineate dal forsennato “qua-qua” delle oche.

La zia Alina irruppe accaldata nella saletta, rivolse al marito uno sguardo di brace esibilò: «Grazie tante per l’aiuto! Le oche sono a casa, io ho i piedi che non me li sento più da

tanta strada che ho fatto, e tu sei il solito Michelass, te manget, te bevet e te veet a spass».Lo zio, che aveva ancora nel pugno la corona del rosario, le regalò uno sguardo di

compatimento, mentre replicava: «Sempre acida, sempre incapace d’essere felice perqualcosa. Le oche sono tornate e dovresti essere contenta. Invece no! La differenza tra te euno specchio è che lo specchio riflette senza parlare e tu parli senza riflettere».

Infilò in tasca il rosario, andò in cucina, sedette al tavolo e proseguì: «Intanto il fornello èspento e la zuppiera è vuota».

Io non perdevo un solo respiro di quella scena che mi sembrava molto interessante.Vidi la zia avvampare come un pomodoro maturo mentre, mettendosi le mani sui

fianchi, lo sfidava: «Che cosa vorresti dire, fanigutùn?».«Che i occh jn turnaa indré perché hu pregàa Sant’Antoni, altrimenti finivano in

fanteria, e adesso dammi da mangiare», rispose lui, sfoderando il piglio del padrone.Ero convinta che lo zio avesse ragione, che Sant’Antonio avesse operato il miracolo e mi

meravigliai che la zia lo sbeffeggiasse, replicando: «Per mangià, rivolgess a San Galdìn, ch’elte farà cumparì minestra e vin».

Poi prese a salire la scala che portava alle camere da letto, dove la zia Amalia si era giàrifugiata, probabilmente per farsi un pediluvio.

«T’è vist? Mia moglie è la dimostrazione lampante che l’ignoranza è una brutta bestia e

la mancanza di fede l’è ancamò püssee brütta», mi ammonì.Da fuori venne la voce della nonna che mi chiamava per la cena. Guardai lo zio che

sedeva davanti al tavolo spoglio e dissi: «Vuoi venire a mangiare con me?».Lui aveva tutta la mia solidarietà e io volevo dimostrargliela invitandolo a spartire il mio

cibo.«Vai, vai», ripose lui.Uscii sull’aia, salii di corsa la scala di legno, attenta a non incespicare nel buio. Sul tavolo

della nostra cucina, dove aleggiava un profumo molto stuzzicante, trovai un trionfo dipolpette dorate. Erano le mie prime crocchette di patate e, quando le assaggiai, mi parve di

non aver mai gustato un cibo migliore.

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Il cigutìn e la frittata con le ortiche

Ogni pretesto era buono per infilarmi nella casa degli zii che tolleravano la mia presenza, a

condizione che non dessi fastidio.Quando mi incrociava sul suo passaggio, la zia Alina diceva: «Tusetta, stamm minga in

mezz ai pee». Non mi chiamava neppure per nome.La zia Amalia, costantemente indaffarata, se mi vedeva ciondolare nell’angolo di una

stanza, mi metteva in mano uno strofinaccio e mi ordinava: «Fa’ giò la pulver». Iostrofinavo tutto quello che avevo a portata di mano.

Lo zio Ettore mi trattava come un cagnolino, mi scompigliava i capelli quando glipassavo accanto o mi ordinava di seguirlo quando ispezionava le stalle e confabulava con ibergamini.

«Ti guarda e impara, che quand te sareet granda, te faroo spusà un bravo famej». I“famigli” erano gli abitanti della corte alle sue dipendenze. Io sapevo che da grande avreisposato il mio papà, ma non dicevo niente.

Se mi vedeva sulla strada, quando era in calesse e andava a controllare i lavori deicontadini o delle mondine, mi ordinava: «Monta su».

Io non ci andavo volentieri, perché appena gli sedevo accanto prendeva a sfottermi,chiamandomi Oca Padovana, perché la mia casa milanese era adiacente a via Padova.Oppure mi diceva: «Diventerai una grossa oca, come tutte le donne, come le tue zie». Poi,quando passavamo accanto a un filare di querce, fermava il calesse e mi invitava a

scendere: «Aspettami qui, intanto raccogli le ghiande per i maiali. Dopo passo a prenderti».Mi allungava un cestino e io passavo un tempo infinito a raccogliere quei frutti legnosi,aspettando di veder ricomparire il calesse sulla linea dell’orizzonte. Nell’attesa inseguivo i voli delle libellule dalle ali iridescenti. Avrei voluto avere anch’io ali così belle e provarel’ebbrezza del volo. Facevo un mazzolino con i fiori selvatici che crescevano sull’argine deifossi per portarlo alla nonna. Ascoltavo il cinguettio dei passeri e guardavo incantata le filedi rondini che si posavano su un lungo cavo aereo e mi immalinconivo chiedendomiquando avrei rivisto la mamma. Quando finalmente tornava, lo zio mi riprendeva con sésul calesse, ma non mi diceva che ero stata brava a raccogliere tante ghiande.

Un giorno le zie partirono per il santuario della Madonna di Loreto. A questo propositoc’erano state discussioni tra loro e lo zio Ettore il quale sosteneva che, dati i tempi, non eraproprio il caso di affrontare un viaggio così lungo. Avrei voluto che mi portassero con loro.Non lo fecero e mi sentii trascurata. Senza la loro presenza, la casa padronale non avevaattrattive. Stavo sull’aia ad annoiarmi. Venne una bambina. Domandò: «Vuoi giocare abambola con me?».

Si chiamava Iside, aveva lunghe trecce nere come il vestito che indossava. Calzava

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zoccoletti rossi e la invidiai, perché a me non era consentito averli. In estate mi mettevano isandaletti bianchi, e nei giorni di festa le scarpe bianche “Lola”. Di tanto in tanto alzavo losguardo al balcone e mi sentivo rassicurata, perché la nonna era lassù e non mi perdeva di vista.

Lo zio Ettore venne dalla stalla, dove aveva discusso con un bergamino.«Vieni con me», disse, passandomi accanto.

Guardai la nonna, sperando che mi volesse accanto a sé, invece lei mi fece un cenno perdirmi che potevo seguire lo zio. Io non avevo voglia di andare a raccattare ghiande, tuttavialo seguii docile. Invece lui entrò nella “casascia” e gli vidi comparire in mano un coltellino aserramanico.

Alzò le braccia verso una collana di cacciatorini che pendevano da una trave e ne tagliòtre.

Una contadina, accucciata davanti al focolare, rimestava nel “caldàr” il pastone per imaiali.

«Portami in cucina il pane e il vino», le ordinò lo zio.

I miei dicevano: «Il salame riscalda» e, raramente, ne ottenevo una fetta sottile comeun’ostia.

Lo zio prese un tagliere, sedette al tavolo e cominciò ad affettare quel piccolo salame chechiamavamo “cigutìn”. Subito si sprigionò un profumo così invitante che mi si aprì lostomaco.

«Vuoi assaggiarlo?», domandò lui, mentre la contadina gli metteva davanti una bottigliadi vino, una brocca d’acqua e due bicchieri. Non risposi, perché ero impreparata a quellagenerosità improvvisa. Evidentemente, i miei occhi parlavano per me.

«Che festa è?», chiesi.

«Siediti. Me pias no mangià in de per mi», disse lui, e mi mise davanti una fetta di paneripiegata in due, farcita di salame. Ne addentai subito un morso e mi sentii in paradiso.

«El te pias el cigutìn», constatò lui.Annuii, continuando a mangiare. Avevo capito che quell’invito estemporaneo era

dovuto all’assenza delle zie che, sebbene avessero il cervello di un’oca, davano un senso allasua quotidianità. Prese a parlar male di loro, perché così si sentiva meno solo.

«Quelle due lì sono convinte che un’azienda come questa si amministra curando i maialie tastando il culo alle galline per vedere se hanno l’uovo pronto. E non si accorgono che ilbergamino ruba. Quando tornano, mi sentono», prese a dire.

Io mi preoccupavo solamente di fare una bella scorpacciata di pane e salame. Ogni tantoportavo alle labbra il bicchiere con il vino annacquato.A mezzogiorno la nonna mi chiamò.«Siediti a mangiare», mi disse quando salii in casa.Io avevo la pancia piena, ero mezza ubriaca e assolutamente felice. Così dissi: «Non ho

fame, ho sonno».Quel giorno imparai che la felicità dura poco e ha un retrogusto amaro.«Sei smorta come uno straccio lavato», osservò la nonna. E soggiunse: «Devi mangiare,

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altrimenti la tua mamma dirà che ti faccio morire di fame».In quel momento mi sentii morire davvero, non di fame, ma di nausea.«Non mi sento bene», sussurrai.Sentivo su di me lo sguardo indagatore della nonna.«Se te gh’eet?».«Ho la febbre».

Lei mi toccò la fronte con il palmo della mano e decretò: «Te gh’eet la fever bertulascia».Era un modo di dire dialettale e significava che non avevo niente.

Io però mi sentivo malissimo e, in risposta alla sua sentenza, vomitai sul pavimento ilsalame e il vino.

«Il Diavolo fa le pentole, ma non i coperchi!», strillò lei spaventata e arrabbiatissima. Misostenne il capo mentre rigettavo l’anima.

Dopo mi lavò, mi fece indossare un pigiamino pulito, mi mise a letto e, mentre il nonnopuliva il pavimento, mi costrinse a bere una camomilla.

Ormai sollevata e vinta dalla spossatezza, mi addormentai respirando il profumo delle

lenzuola pulite. Mi svegliai quand’era pomeriggio pieno.I nonni erano sul balcone. Lei sferruzzava e lui leggeva il solito libro dalla copertina nera.

Era la Bibbia, che il nonno chiamava “libro sacro”.«Ho fame. Cosa c’è di merenda?», domandai.«Te la do io la merenda!», sibilò lei.Posò il lavoro a maglia, mi afferrò per un braccio e mi sculacciò a freddo, con

determinazione. Era la punizione per aver mangiato troppo. Poi, sicura d’aver adempiutoal suo dovere di educatrice, concluse: «Piangi pure, così ti vengono gli occhi belli».

Seppi che aveva fatto una partaccia allo zio Ettore e lui, per scusarsi, le offrì un cesto di

uova.Da allora non ho mai più mangiato il salame crudo.Quella sera, trovai squisito il solito minestrone di verdure e una frittata di un bel giallo

dorato con striature verdi, che aveva un profumo delizioso. Era fatta con le punte delleortiche che raccoglievo nei campi e fritta nella padella di ferro con il burro fatto in casa. Ilburro lo facevo io.

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Il burro e il segnùn

Alla Cascina Mezzetta tutte le bambine facevano il burro. Era un lavoro noiosissimo, ma

alla fine ci dava una bella soddisfazione. La storia andava così: al tramonto i bergamini,dopo aver munto le vacche spremendo il latte dentro i secchi di zinco, si piazzavano sullasoglia della stalla seduti su uno sgabello a un solo piede, legato in vita con una cintura, einiziavano la distribuzione del latte pescandolo dai secchi con mestoli di varia grandezza.

La nonna mi metteva in mano un contenitore di alluminio e un bastone di legno. Ioporgevo il contenitore al bergamino che lo riempiva e dopo, con un coltellino a falcetto,incideva sul bastone una o più tacche, a seconda della quantità di latte fornito a credito.Alla fine della settimana la nonna mi dava i soldi per saldare il debito.

Il bergamino contava le tacche sul bastone, controllava il denaro e, a quel punto, con lo

stesso coltello appianava le tacche, cancellando il debito.La nonna travasava il latte dentro una ciotola che posava sul davanzale della finestra. Il

mattino dopo raccoglieva con un cucchiaio la panna che era affiorata durante la notte e lametteva in un altro contenitore che riponeva nella ghiacciaia. Dopo alcuni giorni, quandoriteneva che ci fosse abbastanza panna, la versava dentro un fiasco svestito. Tappava il collodella bottiglia, me la metteva in mano e diceva: «Sgigòta». Agita.

Una mano sul collo e l’altra sul fondo del fiasco, io prendevo ad agitare il contenuto eandavo avanti a forza di braccia per un tempo infinito. Svolgevo quel lavoro sull’aia, conaltre bambine che facevano la stessa cosa.

Qualche volta le braccia rallentavano il ritmo e allora la nonna, che mi seguiva sempre,si impossessava del fiasco e lo “sgigottava” con maggior vigore, per darmi il tempo diriposare. Quando la panna cominciava a rapprendersi, rilasciando un liquido trasparente,mi riconsegnava il fiasco per regalarmi la soddisfazione di completare il lavoro.

Alla fine, attraverso il vetro trasparente si vedevano galleggiare nel siero limpido grumigiallastri di burro. Allora salivamo in casa, la nonna stappava la bottiglia e versava il sieroche chiamavano “lacètt” dentro una scodella. Poi, a furia di spinte, riusciva a far passaredalla strettoia del collo anche i grossi grumi di burro che raccoglieva su un piattino e conun cucchiaio gli dava una bella forma tonda. Infine mi premiava con una fetta di pane,

burro e zucchero.Non ho mai più mangiato un burro così saporito.Tuttavia, anche questa medaglia aveva il suo rovescio. Il mattino dopo, a digiuno, ero

costretta a bere il siero del latte che era aspro e repellente.«Questa è una medicina», diceva la nonna e mi spiegava che il “lacètt” mi aiutava a

crescere sana. Credo che il siero contenesse fermenti lattici e facesse bene all’intestino.Dovendo scegliere tra il “lacètt” e una scarica di sculacciate, sceglievo il lacètt, avendo

ormai acquisito la consapevolezza che le medicine avevano un gusto pessimo, ma facevano

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bene alla salute. Non ci volle molto però a scoprire che mi sbagliavo. Un giorno me ne venne prescritta una che mi piacque tanto.

La storia andò così. Si presentò alla Cascina Mezzetta un personaggio atteso da tempo.Era un “segnùn”, un uomo che, con parole e segni magici, guariva tanti malanni.

Arrivò in automobile, una Fiat nera che andava a gas. Grandi e bambini fecero ressaintorno all’auto. Timida come sempre, io mi tenni in disparte, ma ero eccitata e incuriosita.

Mi aspettavo di veder scendere dall’auto un personaggio paludato e solenne, invece neemersero tre uomini vestiti come tutti, di aspetto ordinario. Lo zio li invitò nel suo studio,accanto alla saletta, mentre le zie placarono l’eccitazione dei contadini con una minaccia:«Se non vi mettete tranquilli, il segnùn non darà udienza a nessuno».

Mi chiedevo chi dei tre personaggi fosse il taumaturgo e lo scoprii quando la nonna misospinse dentro lo studio dello zio.

Era il più anziano, tarchiato, asmatico, e profumava di menta.«Che cos’ha la piscinina?», domandò lui, che sedeva su una sedia imbottita e teneva in

mano un portafogli di pelle nera.

«L’è anemica e la mangia pocch».Mangiavo poco, anzi per niente, le cose che non mi piacevano. Quanto all’anemia, credo

che nessun medico me l’avesse mai diagnosticata. Era un vezzo di quegli anni, quando ci sinutriva male e le proteine nobili scarseggiavano. La carne, infatti, compariva raramente intavola e io la mangiavo solo se costretta. Non mi piacevano il pollo, né gli altri animali a duezampe, l’odore del coniglio arrosto mi faceva scappare, le bistecche di manzo erano durecome le suole delle scarpe, il maiale entrava nella mia alimentazione solo sotto forma diprosciutto, crudo o cotto. In compenso mi piacevano le scaloppine di vitello con il marsala,che quella sera assaggiai per la prima volta.

Il segnùn allargò le gambe e mi mise ritta davanti a sé. Con una mano mi bloccò unaspalla e con l’altra brandì il portafogli gonfio come un cuscino.

«Qui ci sono le immagini di tutti i santi», spiegò lui, parlando in italiano. E proseguì:«C’è anche quello che fa al caso tuo». Calò il portafogli e mi colpì la fronte, poi il petto,infine le spalle, tracciando il segno della croce, mentre pronunciava sottovoce paroleincomprensibili.

Ripeté quel segno più e più volte, sempre più velocemente, senza smettere dipronunciare parole arcane, con il fiato che sapeva di menta e si faceva sempre più corto,mentre il suo viso si imperlava di sudore. Sudava tanto che uno dei due uomini che lo

avevano accompagnato uscì dal cono d’ombra e gli asciugò la fronte. Infine il segnùn smisedi agitarsi e io, che avevo subìto quella segnatura con estrema compunzione, mi misi apiangere.

La nonna mi attirò a sé e mi circondò le spalle con il suo braccio, mentre domandavaall’uomo: «Perché piange la mia nipotina?».

«Perché il santo è entrato in lei», rispose lui.Tra le lacrime mi chiesi che razza di corpo fosse il mio, che veniva abitato a volte dal

Diavolo e a volte da un santo. Avrei ancora voluto sapere quale santo, ma capii che quello

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sarebbe rimasto per sempre un mistero.«Allora, guarirà?», lo interrogò la nonna.«Non è malata. Datele un cucchiaio di Ferro-China Bisleri, prima dei pasti,

mezzogiorno e sera».«Quanto devo pagare?», si preoccupò ancora la nonna.«A vostro piacere. Date a lui», disse ancora il segnùn, indicando uno dei suoi assistenti.

Quel Ferro-China Bisleri, che comparve immediatamente sulla credenza della cucina,smentì la convinzione mia e della nonna che le medicine fossero tutte cattive. Era liquoroso,squisitamente aromatico e dolce. Era tanto buono che anche la nonna cominciò la cura e,per quanto ricordo, la portò avanti molto a lungo.

La sera, oltre all’inevitabile minestrone di riso, ebbi anche le scaloppine al marsala.La carne la portarono da Milano i miei genitori che erano arrivati fin lì sul tandem. Il

papà davanti, con un cesto di provviste sul manubrio, e la mamma dietro, avevanopedalato come matti per arrivare fin lì.

La mamma indossava un abito di seta rosso con fantasie cachemire, direi oggi, ma

all’epoca mi sembravano grosse virgole con arzigogoli neri, gialli e blu. Non glielo avevomai visto prima e mi parve bellissimo.

Come scese da quella curiosa bicicletta a due sellini e quattro pedali – anche quella erauna novità – le corsi incontro e le abbracciai i fianchi. Dopo tanto tempo che non la vedevo,respirai il suo profumo e mi sentii felice.

«Non fare troppe smancerie. Non vedi che mi rovini il vestito?», disse gelida, staccandole mie braccia dai suoi fianchi.

«Scusa», balbettai, sul punto di piangere.La nonna notò i miei occhi lucidi e disse: «Oggi l’ha vista il segnùn e lei si è messa a

piangere».All’improvviso mi sentii sollevare da terra e venni presa in braccio da mio padre, che mi

apostrofò: «Cosa sono queste lacrime? Adesso ti faccio piangere io».Lo disse stringendomi forte, ridendo, e fece quello che volevo e temevo: strofinò la sua

guancia un po’ ispida di barba contro la mia che era tenerissima, facendomi male, ma iosmisi di piangere e allora mi scoccò due grossi baci sulle gote arrossate. Subito dopo mi issòsulle sue spalle, io gli circondai la fronte con le braccia e lui prese a correre sull’aia,recitando: «Trotta, galoppa, Piemonte Reale, non si capisce qual è l’animale». Alloracominciai a ridere. «Ancora, papà, ancora», lo spronai.

Volevo che tutti mi vedessero a cavalcioni delle spalle di papà che era forte, bello esapeva di buono. La mamma ci raggiunse e gli ordinò: «Mettila giù».Papà non la assecondò e allora lei si rivolse a me: «Non lo vedi che il papà è stanco? Ha

pedalato fin qui da Milano e tu lo affatichi ancora».Aveva fatto leva sul mio senso di colpa. Lui era stanco e io lo costringevo a correre

sull’aia.«Voglio scendere», dissi allora.Lui mi rimise a terra e io corsi via, ricominciando a piangere. Anni dopo, con la

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consapevolezza dell’età adulta, capii che le coccole di mio padre erano un surrogato diquelle materne che non ho mai avuto né dato, e soltanto quando la mamma era ormaimolto anziana e un po’ fuori di testa, riuscii finalmente ad abbracciarla come avrei sempre voluto e lei rideva felice, come se fosse la mia bambina e io la sua mamma. Quanto migliorisarebbero state le nostre vite se lei mi avesse presa in braccio e baciata quand’ero bambina.Ma non è mai successo.

Mi guardava come un oggetto estraneo da tenere a debita distanza. Soffermava losguardo su di me e nei suoi occhi leggevo un vago interesse distaccato e critico. La mammaaveva grandi occhi grigi, mortificati dalle lenti da miope, che mi dicevano quanto poco lepiacessi, perché assomigliavo tanto a papà. Lei voleva bene a papà, ma non era l’uomo deisuoi sogni. Così, sia a lui sia a me dimostrava il suo affetto in altra maniera. Per me tagliava,cuciva e ricamava abitini deliziosi, per lui, ma anche per me, preparava cibi squisiti.

Quel giorno aveva portato da Milano un bel pezzo di fesa di vitello che papà avevatrovato chissà dove e, aiutata dalla nonna, cucinò le scaloppine al marsala. Risento ancora ilprofumo invitante della carne cotta lentamente nel vino siciliano fino a farne evaporare

l’alcol, lasciando integro il profumo dell’uva che impregnava la carne con un lieve aroma dilimone e di prezzemolo fresco.

Di tanto in tanto le cucino ancora ma, invece del marsala, uso il vino bianco secco.

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L’“omlètconfitü” e il clistere

In un altro cassettino della memoria ho ritrovato intatto il sapore esotico e insolito della

mia prima omelette alla marmellata, che la mamma chiamò “omlètconfitü”, con la u allafrancese. Non so se collocare l’episodio a Milano o a Trezzano, ma risento nitida la vocedella mamma che annuncia: «Questa sera, per cena, farò l’omlètconfitü».

Soltanto molti anni più tardi scoprii che l’omelette alla marmellata, come le crêpessuzette, non era un secondo piatto, ma un dessert.

Amai subito quella ricetta per il suo nome suggestivo. In seguito l’ho rifatta per miofiglio, quand’era bambino.

Sul mio piatto, quella sera, comparve una frittata con un vago sentore di limone,ripiegata in tre a formare un grosso cannolo. Quando vi affondai la forchetta per tagliarla,

ne uscì una densa marmellata di ciliegie che impresse un bel contrasto cromatico sul giallodell’uovo.

La marmellata l’aveva fatta la nonna. Le ciliegie le avevo snocciolate anch’io, a una auna, e per giorni avevo avuto le dita scurite dal loro succo.

Anche quello, come la trasformazione della panna in burro, era un lavoro tedioso, ma lanonna sapeva come raggirarmi.

«Tu hai i ditini piccoli e riesci a levare i noccioli meglio di me», aveva detto, mettendomidavanti un secchio colmo di ciliegie piccole e rosse come amarene.

Dopo un po’ che snocciolavo, le mie gambe avevano voglia di correre e saltare. La nonna

se ne accorse e disse: «Adesso snoccioliamo insieme. Intanto ti racconto una storia».Le storie della nonna erano sempre avvincenti, ma il lavoro era appena a metà e ripresi adare segni di stanchezza. Lei lo capì e allora mi ingolosì per tenermi buona: «Ti piacerebbeavere degli zoccoletti?».

Sapeva che mi piacevano e che mi erano preclusi. Così non risposi e lei continuò:«Pensavo che, andando al mercato, potrei comperartene un bel paio».

«Rossi», dissi subito e ripresi a lavorare di gran lena.«Rossi», garantì lei. E mantenne la promessa.Dopotutto, nonostante avessi il Diavolo in corpo, credo di essere stata una bambina

docile e rispettosa dell’autorità dei grandi.Infatti, parlando di me, il papà diceva: «Mia figlia è una pasta di bambina».«Aspetta che cresca e ti accorgerai di che pasta è fatta», lo zittiva la mamma, con quel

suo sguardo d’acciaio.La nonna mi coinvolse anche nella cottura della marmellata e mi rivelò il trucco per

conservarla a lungo senza dover sbollentare i vasetti. Bastava tapparli quando lamarmellata era ancora bollente. Raffreddandosi, il composto creava un vuoto d’aria e laconserva durava all’infinito.

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Con la marmellata di ciliegie la nonna faceva anche la torta di pane, un dolce di cui eromolto golosa.

In casa nostra non si buttava niente, nemmeno un pezzo di spago o un chiodoarrugginito. Figuriamoci il cibo! Era sacro e come tale non poteva essere sprecato. Con gliavanzi del risotto si faceva il riso al salto, che era buonissimo. Con gli avanzi dellapastasciutta si faceva la pasta fritta. Con gli avanzi dell’arrosto o del lesso la nonna faceva i

“mundeghili”, polpettine di carne squisite. Il pane secco grattugiato serviva per leimpanature e il pantrito. Tagliato a fette si utilizzava per la zuppa pavese. Ammollato inacqua o nel latte, serviva per i ripieni di carne ma anche per la torta di pane.

La nonna ammollava nel latte il pane secco, poi aggiungeva zucchero, marmellata,uvetta, cacao oppure scaglie di cioccolato, nocciole o noci se ne avevamo, altrimenti lepiccole mandorle contenute nei noccioli delle albicocche, perché neanche queste mandorleamarognole dovevano essere sprecate. Infine aggiungeva un uovo e metteva il composto inforno. Ne usciva una torta deliziosa.

La mamma diceva che soltanto le persone ordinarie buttano il cibo. Per la verità la

mamma definiva “ordinario”, cioè volgare, tutto quello che non corrispondeva al suometro di valori.

Quindi le famiglie operaie erano ordinarie, le botteghe del nostro quartiere eranoordinarie, anche alcuni prodotti alimentari erano ordinari. Per esempio, a Natale ilpanettone doveva essere quello delle Tre Marie, oppure Vergani, come il torrone.Concedeva una parvenza di eleganza ai prodotti Alemagna, ma quelli Motta o Pavesi eranoordinari. Del resto, lei spendeva molto poco per cucinare.

«La gente ordinaria sciala perché è ignorante», diceva.La guerra era già finita da alcuni anni, ma i supermercati erano ancora di là da venire e

lei, snobbando le botteghe vicine a casa, una volta alla settimana mi trascinava daFaccincani, in viale Abruzzi, dove, a suo dire, si trovavano i prodotti migliori a prezzi moltoconvenienti.

Anche per gli acquisti degli abiti e degli oggetti di casa bisognava andare in centro. Ilfatto è che le piaceva mettersi elegante e passeggiare nelle vie storiche della città. Non si èmai rassegnata alla nostra casa di periferia che invece io amo moltissimo.

Mi portava con sé costringendomi a tenere in mano un bambolotto, perché cosìandavano a passeggio le bambine perbene.

Io, che non amavo quel bambolotto in abiti maschili, ubbidivo di malavoglia. Ci

recavamo da Mani di Fata in via Santa Margherita per i pizzi e i merletti, da Galtrucco inpiazza del Duomo per i tessuti di lana, alle telerie Ghidoli in piazza Fontana per lenzuola,asciugamani e tovaglie, al Bianco e Nero in corso Venezia per le sete. Se eravamo in centrocomperava perfino il pane in via Agnello. Dalla signora Elsa Mariani, in via Salvini,acquistava qualche gioiello.

La mamma economizzava su tutto, ma non badava ai soldi per curare l’apparenza.Dopo aver speso una fortuna per un tessuto, che poi la sarta Viganò avrebbe trasformato inabito, tailleur o cappotto, diceva: «Chi più spende, meno spende». Io avrei voluto che mi

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comperasse la liquirizia nera, le caramelle all’anice, le brioche o i cioccolatini. «Il denaronon si butta», diceva allora.

La mamma era un cumulo di contraddizioni e per quanto, una volta adulta, mi siasforzata di capirla, è sempre rimasta indecifrabile.

Ricordo un periodo in cui il cibo scarseggiava in tutte le case, e mangiavamo la carnebovina soltanto quando il papà riusciva a trovarla alla borsa nera.

Alla Cascina Mezzetta capitava che la nonna ottenesse dalle avarissime zie un po’ di“giambùn”, il prosciutto cotto che mi piaceva tanto, in cambio di una montagna dicrocchette di patate, “imboragiate” nell’uovo e nel pangrattato e fritte nel burro che avevoprodotto io.

Con quello stesso burro a volte facevamo la “pult” per cena. Era una polenta molle comeuna crema, cui la nonna aggiungeva una noce di burro e una fetta di stracchino.Probabilmente cuoceva la farina gialla nel latte, ma non ne sono sicura. Quella, comunque,era una buona cena, migliore del “riselatte” o della “semulina”, che non mi piacevano.

D’inverno cenavamo anche con la minestra di castagne. Compravamo le castagne

secche già pelate e le mettevamo in ammollo nell’acqua per lavarle e farle un po’ rinvenire,poi le cuocevamo a fuoco basso nel latte con l’aggiunta di sale. Le castagne fresche invece simangiavano abbrustolite in padella e poi sbucciate.

Una volta la mamma fece anche i “marrons glacés”, con le castagne fresche lessate e poiintinte nello sciroppo di zucchero, ma non ebbero successo.

Ebbe successo, invece, il castagnaccio della nonna. Aveva fatto la torta mettendonell’impasto l’uva passa, i pinoli, lo zucchero, l’uovo e il cacao. Credo fosse una botta dicalorie e io ne mangiai fino a scoppiare, anche perché non c’era altro, in quel momento.Stetti male e, alla fine, la nonna e la mamma decisero che avevo bisogno di un clistere.

Le due aguzzine non perdevano occasione per infliggermi quella lavanda intestinale checonsideravo una tortura.

Non appena emettevano la diagnosi: «La tusetta l’è infesciada», la bambina èimbarazzata, io scappavo strillando prima ancora di veder comparire una delle due conquella grossa pera di gomma rossastra in mano, riempita con acqua calda e bicarbonato,oppure con sapone sciolto.

Mi facevano distendere sul letto e una mi teneva ferma mentre l’altra, con un piaceresadico, eseguiva l’intervento. Per quel giorno non potevo più mangiare, ma soltanto bere unbrodino caldo, colorato con un poco di vino rosso perché l’alcol mi sostenesse.

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La jatte d’argento e il respiro dell’albero

Nonostante la guerra, l’autarchia, la penuria di cibo, il tesseramento per l’acquisto del pane

e di altri alimenti, in casa nostra non sono mai mancati vino e liquori dei miglioriproduttori. Erano conservati in una stanza della cantina e rappresentavano il ricordo di uncommercio cui mio padre era stato molto legato, quello dei vini appunto.

Mia madre, però, non si sentiva neanche lontanamente imparentata con il lavoro delmarito, che pure aveva dato buone messi. Tanto aveva detto e tramato, che il papà avevafinito per cedere la sua attività e investire il denaro in un’azienda di macchine per produrrefiale di vetro. Il suo socio era lo zio Giovanni, fratello della mamma, una figura indecifrabilequasi quanto lei e del quale conservo un buon ricordo. Insomma, la mamma voleva chepapà diventasse un industriale e lui, per amor suo, ci provò con tutte le sue forze. Era un

gran lavoratore, assolutamente privo di senso pratico e dotato di un’onestà specchiata. Lasocietà non decollò e perdemmo i nostri soldi. La mamma non ammise mai la suaresponsabilità in questo disastro.

Dell’antico “splendore” ci rimaneva una cantina ben fornita e poiché il vino buono eraconsiderato una specie di ricostituente della salute, compariva regolarmente sulla nostratavola, sia per i grandi, sia per me che ero bambina. Mi veniva offerto allungato con l’acquae con l’aggiunta di una fetta di limone. Quando la riserva aurea finì, il papà la rinnovòrivolgendosi a un produttore piemontese di Castel Rocchero, il signor Benasso, che erastato uno dei suoi fornitori e anche un amico.

Il signor Benasso aveva una figlia molto vivace e poco avvenente, e si crucciava perché,sulla soglia dei trent’anni, non aveva ancora trovato marito. La mamma individuò in lei un“partito” eccellente per suo fratello Giovanni, che a quarant’anni era ancora scapolo. Cosìbrigò per combinare un incontro tra lui e la vivace zitella. Benasso e figlia arrivarono a casanostra quando la nonna e la mamma erano stremate di fatica per aver messo insieme unpranzo con i fiocchi: dal consommé con l’uovo affogato, al risotto con pesche e limone, allesso di gallina con la salsa verde e la mostarda di frutta, ai formaggi che chissà come papàera riuscito a reperire, fino alla zuppa inglese. La signorina Benasso conobbe lo zioGiovanni che era bello quanto lei era brutta, ma preferì restare zitella.

Tuttavia, qualche anno dopo, ricevemmo una partecipazione di nozze. La zitella avevatrovato marito. Allora si decise che bisognava farle un regalo e il papà andò da Calderoni acomperare una “jatte” d’argento bella pesante. La mamma la vide, la soppesò e rimproveròil marito: «Sei un incosciente! Hai speso una fortuna per una che ha rifiutato mio fratello».

A proposito della nostra enoteca privata nella casa di Milano, ricordo il giorno in cui cifu una grande agitazione. Lo zio Giovanni e il papà erano in cantina armati di mattoni ecemento. La mamma e la nonna infrattarono anche i materassi di lana, che avevano

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arrotolato e legato, chiudendoli poi in sacchi di carta da pacco. Ci fu un andirivieni tra casae cantina, perché bisognava nascondere tutto ciò che i tedeschi in fuga avrebbero potutorazziare nelle case mentre la guerra stava finendo con la sconfitta del Terzo Reich.Infilarono bottiglie di liquori, oro e altre suppellettili in un vespaio che venne murato.

Per un certo periodo dormii su un materasso di crine. I tedeschi non vennero mai a casanostra, ma il muro in cantina venne abbattuto solo molto tempo dopo la Liberazione.

Mentre il vespaio veniva vuotato, la mamma mi affidò una bottiglia di Marsala Pellegrino,perché la portassi in casa.

«Stai attenta a non romperla», si raccomandò.Io ci stetti attenta, ma la bottiglia mi scivolò dalle mani e si frantumò. Allora venni

pesantemente sculacciata e piansi non solo per la punizione, ma anche perché il miobellissimo vestitino di organza rosa a pallini bianchi era irrimediabilmente chiazzato diliquore appiccicoso. Era un abitino che amavo perché, invece del solito modello con ilcorpetto corto, era stretto in vita e aveva una bella cintura con il fiocco.

Ricordo la prima volta che lo sfoggiai. Ero alla Cascina Mezzetta e lo indossai una

domenica mattina per andare alla messa grande nella chiesa di Trezzano. Avevo anche unpaio di scarpine nuove, bianche, alla bebè, e la nonna mi aveva fatto le calzine bianche erosa con un filo sottile di cotone perlé. Mi pavoneggiavo come una principessa e andavo ingiro per l’aia mostrandomi alle bambine della corte che volevano toccare le scarpe e l’abito,ma io dicevo: «No, che me lo sporcate!».

Salii sul calesse con le zie, la mamma e la nonna, tutte in pompa magna, tutte con ilcappellino e la veletta.

Il calesse, guidato dallo zio Ettore, filava via lungo la strada sterrata. Il vento mi venivaincontro e mi solleticava il viso, e gli zoccoli del cavallo imprimevano un ritmo di danza alla

fuga verso il paese. Ero felice.In quella terra piatta, che era tutta un lago d’acqua in cui crescevano le piantine di riso,

ricordo anche un bosco di faggi. Non so come fossi arrivata un giorno in quella faggeta, maricordo che qualcuno mi disse: «Se appoggi l’orecchio alla pianta, la senti respirare. Lei ècome noi, vive e respira».

Allora abbracciai un tronco e premetti l’orecchio sulla sua corteccia.«Lo senti che respira?», mi chiesero.Non sentii niente e ci rimasi male. Come sempre, mi misi a piangere.«Cos’hai da piangere?», mi domandò mio padre.

«Non lo so», risposi.Invece lo sapevo benissimo. Mi sentivo molto stupida per due ragioni: se era vero chel’albero respirava, tutti lo sentivano tranne me. Se non era vero, significava che gli altri miprendevano in giro. Il senso d’inferiorità e la diffidenza non mi hanno ancora del tuttoabbandonata. Del resto, fin da bambina, mi sentivo spesso derisa per la mia sconfinatacredulità. Credevo a tutto quello che mi veniva detto e più la cosa era improbabile, più miaffascinava e mi sembrava vera.

I miei cugini, per esempio, mi avevano detto che nella mia stanza, in mia assenza,

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entravano tanti ometti piccoli come Pollicino, che facevano razzie dei miei tesori: nastri diseta per i capelli, mozziconi di matite colorate, perline di vetro. Soltanto più tardiconfessarono che erano loro a sottrarmi quelle povere cose e li detestai, non per queiridicoli furti, ma perché mi avevano privata di un mondo immaginario popolato di esseriminuscoli che volevo incontrare e amare.

Mi davano anche della bugiarda quando giuravo che di notte le stelle intrecciavano

danze. Invece, nelle notti d’estate, con la finestra spalancata sul cielo, io mi svegliavo, miaffacciavo a guardare nel buio e vedevo le stelle ballare sull’accompagnamento della solamusica che conoscevo: il valzer. Anche adesso, quando vado in montagna e di notte guardoil cielo, vedo il Grande e il Piccolo Carro intessere danze intorno alla Luna.

Un altro ricordo del periodo della Cascina Mezzetta è legato a una bottiglia d’olio d’olivacomparsa un giorno sulla tavola. Fino ad allora, il solo olio che conoscevo era il Sasso nellalattina verde, con cui la nonna condiva l’insalata matta che io raccoglievo nei campi con ilcrescione e le punte d’ortica. Per tutti gli altri cibi la nonna usava il burro, il lardo o lo

strutto. L’olio d’oliva lo aveva portato la mamma da Milano dopo averlo acquistato allaborsa nera.

«Che cosa ce ne facciamo di tutto questo olio?», domandò la nonna, quasi scandalizzata.«Lo adoperiamo al posto del lardo per il minestrone. Viene più buono», rispose la

mamma.«Te seet scema! L’oli el sa de cavèi», l’olio ha il sapore dei capelli, ribattè la nonna. Prese

la bottiglia e la mise sul davanzale della finestra ma, potendo, l’avrebbe buttata.La mamma la rimise sul tavolo e disse: «Stasera si fa il minestrone con l’olio».Allora la nonna si mise a sbraitare accusando la mamma d’essere diventata una

“terrona”.«A te, i bombardamenti ti hanno dato alla testa», dichiarò.C’erano alimenti mediterranei che la nonna, di cultura austroungarica, disprezzava.

Guardava con diffidenza le melanzane e le definiva “i ball di fraa”, i testicoli dei frati.Ne nacque un litigio furibondo. Fino a quando la mamma mise un filo d’olio in una

tazzina, ci aggiunse un pizzico di sale, vi intinse un pezzo di pane e me lo diede damangiare.

«Com’è?», mi chiese.«Buono», dissi io e ne volli ancora.

Da quella volta l’olio entrò ufficialmente nella nostra cucina.

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Quel “brüt Demòni” e i perini fritti

La mamma tornò in città e la nonna relegò la bottiglia dell’olio d’oliva sotto il lavandino,

dove c’erano la bombola del gas, il veleno per i topi e la scorta dei nastri appiccicosi percatturare le mosche.

In casa nostra, come in tutte le altre case, le mosche erano considerate il nemico daabbattere con ogni mezzo, anche il più subdolo, come quello rappresentato da lunghestrisce di carta impregnate di una sostanza appiccicosa, che venivano srotolate e appese ailampadari sopra i tavoli della cucina e della sala da pranzo. Probabilmente attrattedall’odore del nastro mieloso, le mosche vi si posavano sopra e, a quel punto, finivanoimprigionate per sempre nella sostanza vischiosa. Per quanto agitassero le ali, le lorozampette non si staccavano più dalla superficie del nastro sul quale morivano a decine.

Quando la striscia giallognola era diventata nera di cadaveri, si toglieva, si buttava e se neappendeva una nuova. Noi mangiavamo avendo sulla testa quella lunga appendiceschifosa e non ce ne importava niente.

Un altro modo per debellare le mosche, ma anche le zanzare, era il “flit”. Non so benequale veleno contenesse il piccolo barattolo saldato a una pompa di latta che funzionava astantuffo. Credo che fosse altamente tossico, ma ogni sera la nonna stantuffava il flit in tuttele stanze e poco dopo trovavamo sui mobili e sui letti i cadaveri degli insetti.

Ma c’erano anche altri insetti ugualmente fastidiosi e molto dannosi: erano le pulci, lecimici e i pidocchi.

Le pulci e le cimici si sterminavano con il fuoco. Mi capitò di vedere sull’aia le retimetalliche dei letti che le donne disinfestavano con le torce infuocate. Come disinfestasseroi materassi non lo so. In casa nostra, sia alla Cascina Mezzetta sia a Milano, non abbiamomai avuto né le une né le altre. Quanto ai pidocchi, invece, risento la voce della nonna chemi sussurra: «Non stare con quella bambina, perché ha i pidocchi».

Ma una volta sentii l’urlo di mia madre mentre mi pettinava: «Oh Signur, te seet pienade lendin!».

Le lendini sono le uova dei pidocchi e la mia testa ne era infestata.Si rivolse disperata alla nonna: «E adesso, che cosa facciamo? Se ce le ha lei, le abbiamo

anche noi».«Intanto le facciamo una bella melonata. Dopo si vedrà».Sull’aia, sotto gli occhi di tutti, venni rapata a zero, mentre lacrime silenziose mi

rigavano le guance per la vergogna. Ero mortificata d’avere i pidocchi, ma soprattutto didover mostrare la melonata, mentre la nonna e la mamma si accapigliavano per via deimiei pidocchi. La mamma accusava sua madre di non aver abbastanza cura di me e suamadre le rinfacciava di lasciarmi troppo a lungo sola.

Poi disse una cosa che mi colpì: «Tu non l’hai mai voluta questa figlia! Speravi di

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abortirla come gli altri venuti prima, invece il Signore te l’ha fatta nascere e adesso te la devitenere tu».

Quelle parole mi mandarono in confusione, perché avevo colto chiaramente due notizie:la mamma non mi voleva e, prima di me, aveva rifiutato altri bambini. Dov’erano? Perchénon ne sapevo niente?

Per lungo tempo mi tenni dentro questa inquietudine. Soltanto molti anni dopo,

quand’ero ormai adulta, domandai alla mamma: «Hai avuto altre gravidanze prima dellamia?».

«Non sono domande da fare a una madre», rispose lei con fare scostante. E non ne parlòpiù.

È un fatto che, dopo l’episodio dei pidocchi, non passò molto tempo e mi ritrovai nellacasa di Milano. La Cascina Mezzetta era un capitolo chiuso, sebbene la guerra non fosseancora finita.

È possibile che il passaggio brusco dalla tutela della nonna a quella materna, molto piùsevera e restrittiva, mi abbia procurato qualche disagio, ma di questo non ne ho memoria.

Ricordo, invece, la profonda malinconia che mi prendeva soprattutto la sera, dopo cena,nella casa di Milano.

Quando eravamo ancora riuniti intorno alla tavola si iniziava la recita del rosarioguidata dalla mamma, che si concludeva con una serie di suppliche e una di queste eral’invocazione divina su tutti coloro che morivano “in quest’ora”. Io capivo che il pensieroandava a coloro che morivano “in questura” e poiché sapevo che la questura era un luogoin cui la gente veniva portata a forza per rispondere di misfatti, maturai la convinzione che,una volta lì dentro, tutti quanti morissero. Subito dopo i miei cominciavano a parlare traloro e io diventavo sempre più triste, più sola, e piangevo.

«Ecco, questa qui ha sonno», diceva la mamma. Allora qualcuno mi prendeva in braccioe mi portava su, a dormire. Sola nel mio letto, nel buio della sera, ripensavo alle sere di veglia nella stalla della Cascina Mezzetta e risentivo le voci arcane dei vecchi cheraccontavano storie di misteri e prodigi nell’afrore delle bestie mansuete che dormivanorassicurate dalle nostre presenze. Ripensavo alla notte in cui qualcuno ci richiamò sull’aiaper guardare in lontananza il cielo infuocato sopra Milano devastata dalle bombe,ricordavo le preghiere delle donne, lo sgomento degli uomini, lo stupore muto di noibambini. «Cesare, ho paura che abbiano bombardato anche la nostra casa», disse la nonnaal nonno. «E chissà se mia figlia è ancora viva», soggiunse. Un bombardamento così

massiccio non c’era mai stato prima.«Vado a vedere», annunciò lui.«Ci andiamo insieme, col calesse», aggiunse lo zio Ettore.Partirono nel cuore della notte, mentre la nonna piangeva, pregava e indirizzava

moccoli a quel “brüt Demòni” che ci aveva portato alla rovina. Inutile specificare chi fosse il“brutto Diavolo”. Lo detestavano tutti quanti.

Il nonno e lo zio tornarono quand’era giorno pieno. Erano stanchi e smarriti. Gliabitanti della corte gli si fecero intorno e il nonno informò subito la nonna: «A casa tutto

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bene, ma c’è mancato poco. È caduta una bomba in via Toselli. Se cadeva cento metri più inlà...». La nonna si portò le mani al viso e pianse, mentre il nonno taceva e lo zio Ettoreraccontava di macerie sotto le quali si sentivano voci che imploravano aiuto.

I due sul calesse avevano attraversato una città distrutta, dove le case sventrate ancorabruciavano, la gente e i topi vagavano smarriti in un silenzio attonito, reso ancora piùagghiacciante dal rumore dei picconi degli uomini che scavavano tra le macerie per portare

in superficie cadaveri di donne, bambini e vecchi.Per me, in quella prima infanzia, gli sfollamenti, le devastazioni, la ferocia del nemico, le

fughe, la paura, la caccia al cibo erano parte integrante del vivere quotidiano. I nonniinvocavano l’arrivo degli americani che stavano risalendo la Penisola e il papà una voltadisse alla mamma: «Se ci salviamo da questa guerra, andiamo a vivere in America». Per lui,tutto quello che riguardava l’America aveva qualcosa di grandioso e smargiasso, madecisamente divertente, tanto che di fronte a una notizia sbalorditiva, quasi incredibile,commentava: «Questa è un’americanata».

Nella casa di Milano ripensavo spesso alla Cascina Mezzetta, cui mi legavano tantimomenti belli. Ricordavo per esempio i perini fritti che la nonna cucinava in estate. Eranopomodori San Marzano caduti ancora verdi dalla pianta. La nonna mi mandò a raccoglierlie dichiarò: «Questi, anche se li metti al sole, non maturano più». Li lavò e li tagliò per illungo, li spolverizzò di zucchero, li infarinò e affogò nell’uovo sbattuto, poi li passò nelpangrattato e li frisse nel burro. Avevano un che di asprigno e soave.

Secoli dopo, quando vidi un film delizioso, Pomodori verdi fritti alla fermata del treno,mi tornarono in mente quelli che mi offriva la nonna in quel periodo di grande crisi: forsela ricetta era una sua invenzione e gli americani l’avevano copiata.

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L’acqua delle rane e le melanzane alla parmigiana

Qualcuno pensa che i bambini cresciuti in un’economia rurale a contatto con gli animali

conoscano la vita e i segreti della procreazione. Nonostante i lunghi periodi trascorsi incampagna, io ero all’oscuro di tutto. La mia famiglia si preoccupava di tenermi lontana daogni situazione scabrosa e io non avevo nessuna curiosità in questo senso. A dieci anni nonsapevo ancora come nascessero i bambini, anche se non credevo più alla storia dellacicogna.

Alla Cascina Mezzetta, quando giocavo con i figli dei contadini, la nonna era sempre allemie spalle. Discreta, silenziosa, apparentemente occupata a “fare l’uncinetto”, non siallontanava mai e la sua presenza mi dava sicurezza. Mi lasciava soltanto quando misapeva nella casa degli zii.

Quando vidi una contadina con il ventre enorme le domandai: «Perché quella signoraha la pancia così grossa?». Lei rispose: «Perché ha bevuto l’acqua delle rane». L’acqua dellerane era quella delle risaie, dove le donne e i bambini andavano a caccia delle poverebestiole con cui anche la nonna faceva il risotto.

Affermavano che il “ris e ran” fosse una prelibatezza. Io mi sono sempre rifiutata dimangiarlo, come rifiutavo il “ris e lümach”, cucinato con le lumache che io stessaraccoglievo dopo i temporali estivi.

Ricordo con quanto gusto i nonni succhiavano le coscette di quelle simpatiche bestioline verdi, mentre mi dicevano: «Assaggia, prima di dire che non ti piace». «Blah!», rispondevo

io, disgustata.Un giorno incrociai una giovane contadina, la Tilde, che ostentava un gremboprominente. La Tilde mi era simpatica e così le chiesi: «Perché bevi l’acqua delle rane?Guarda che pancione ti è venuto».

Mi fissò attonita, poi sorrise e dichiarò: «Lo so che fa male, ma avevo sete e, lì per lì, lame pareva bona e la me piaseva anca». Era una dichiarazione amara della sua condizione echiaramente esplicita del desiderio che aveva prodotto la conseguenza evidente.

Una mattina la nonna annunciò: «Andiamo a trovare la Tilde e le portiamo in regalo unpo’ di patelli per la bambina che la cicogna le ha portato stanotte». La Tilde era a letto e

accanto a sé teneva una neonata che dormiva. Il ventre enorme si era miracolosamenteappiattito e io pensai che fosse guarita per via del bel dono della cicogna.«Anche a me mi ha portato la cicogna?», domandai alla Tilde.«E chi, se no?», disse lei.Allora mi perdevo a fantasticare del mio arrivo nella casa di Milano, del volo silenzioso

di questo strano uccello dal lungo becco che planava dal cielo reggendo un fagottino in cuiero stata avvolta, e sparavo domande a raffica. Perché proprio a casa nostra e non in quella

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dei vicini? Quanto era durato il volo? Dov’ero prima di essere stata consegnata allacicogna? Perché non vedevo volare le cicogne?

La nonna aveva una risposta esauriente per ogni curiosità. Ero nata sulla Luna, perchéera lì che nascevano tutti i bambini ed erano proprio i bambini, nel linguaggio misteriosodel firmamento, a dire in quale famiglia volevano abitare e crescere.

«Per cui, se qualche volta ti lamenti dei tuoi genitori, sappi che sei stata tu a sceglierli»,

mi assicurava.Pensai che avrei scelto volentieri un’altra mamma, una dolce e burrosa come la Tilde,

per esempio. Ma lo pensai soltanto e non lo espressi mai. Il rapporto tra me e mia madreera già irrimediabilmente compromesso, anche se ancora non lo sapevo.

All’epoca non avevo alcuna cognizione della mia fisicità in rapporto a quella dei maschi.In famiglia non avevo mai visto qualcuno spogliato.

Il massimo della liberalità era mostrarsi in camicia da notte o in pigiama. Non sapevocom’erano fatti i maschi e non mi ponevo neppure l’interrogativo. Avevo imparato che nonsta bene mostrarsi nudi e il senso del pudore non mi ha mai abbandonata.

Un giorno, ed ero già grandicella, seppi che il ventre grosso non era dovuto all’acquadelle risaie, ma al fatto che racchiudeva un bambino. Ci rimasi male per la bugia che mi erastata detta, ma non ne parlai con le donne di casa: avevo capito da un pezzo che c’eranoargomenti che andavano taciuti. Invece, alla compagna di scuola che mi aveva svelatol’arcano, domandai: «E dopo, come fa il bambino a uscire dalla pancia?».

Lei ci pensò su e poi sparò decisa: «Dalla bocca».Convenni che non ci fosse altro modo per portare alla luce un figlio. Nessuna di noi due

si interrogò su come una donna si ritrovasse con un figlio nel grembo.Ormai era assodato che mamma e nonna mentivano e, se avevo delle curiosità, le tenevo

per me. Ma ne avevo poche, in questo senso. Quando, a dieci anni, vidi la mamma con lapancia grossa, seppi che aspettava un secondo figlio, ma lei non me lo disse. Una notte ilpapà la caricò in macchina e la portò in clinica. Dopo una settimana la mamma tornò conil mio fratellino tra le braccia.

C’erano tuttavia argomenti, come quelli della cucina, che meritavano spiegazioniesaustive e sincere.

Una sera la mamma annunciò: «Domani cucino la parmigiana di melanzane. Ora tifaccio vedere come si preparano».

Tagliò le verdure a rondelle, le mise nello scolapasta, le cosparse di sale grosso, le coprì

con un piatto, ci mise sopra un peso di bronzo e le piazzò nel lavello. Durante la notte, ilsale avrebbe fatto uscire l’acqua amara dalle melanzane. Il mattino seguente sarebbero statepronte per essere fritte nella padella di ferro.

Mi spiegò che il nome “parmigiana” era dovuto all’ingrediente fondamentale: ilformaggio parmigiano, che in casa chiamavamo grana e usavamo per le minestre, i risotti ele pastasciutte.

In quegli anni non conoscevamo le classificazioni tra parmigiano reggiano, granapadano o trentino, né esistevano i marchi DOC  e DOP. C’era il formaggio grana. Punto.

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Inoltre la crosta del grana, così come la conosciamo oggi, di un colore giallino con lestampigliature a fuoco, è un’invenzione dei decenni recenti. Quand’ero bambina, la crostaera rivestita da una poltiglia secca e untuosa, nera come la pece, che veniva eliminataraschiandola con la lama del coltello, fino a quando affiorava la crosta color paglierino. Lanonna la lavava sotto l’acqua e la buttava nel minestrone di verdura che sobbolliva sulfuoco. Poi me la metteva nel piatto con la minestra. Era buonissima. Oppure la

abbrustoliva sulla fiamma e me la porgeva infilzata sulla forchetta.Quelle melanzane alla parmigiana, fritte nell’olio, piacquero a tutti, anche alla nonna. Le

accompagnammo con un fresco Pinot di Borgonato dei Fratelli Berlucchi. Vista la nostra voracità, a un certo punto la mamma levò la teglia dalla tavola, dicendo: «Uccide più la golache la spada e domani l’è ancamò de sto mes». Voleva dire che il cibo era prezioso e,avendo mangiato il giusto, quello che rimaneva sarebbe stato ottimo per il giorno dopo.

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Il Diavolo ladro e la “cervèla”

Ero a Milano. Continuavano i bombardamenti degli americani sulla città e la nostra

cantina era stata trasformata in rifugio. Il nonno, mio padre e lo zio Giovanni avevanorinforzato la tenuta del soffitto con pali di legno grossi come tronchi.

Quando il silenzio della notte veniva lacerato dal suono straziante della sirena che daval’allarme, in pochi istanti eravamo tutti fuori dal letto. Le tre donne di casa, mamma, nonnae io, scendevano per prime in cantina, mentre gli uomini, nonno, papà e zio, spalancavanotutte le finestre per via della “contraerea” che altrimenti avrebbe frantumato i vetri. Io lachiamavo “contraria”. Il nonno apriva la porta di casa per ospitare in cantina altre personeche abitavano nelle villette vicine.

Chiusi sotto terra come topi, aspettavamo di sentire il sibilo delle bombe che cadevano,

tra preghiere, pianti, urla di spavento. Non so se avevo paura, ma certamente avevo sonnoe, forse, mi addormentavo tra una bomba e l’altra.

Le bombe sganciate dagli aerei sibilavano fino alla deflagrazione sul bersaglio da colpire.Il tutto durava pochi secondi, quanto bastava perché le preghiere riprendessero vigore e lanonna dicesse: «Questa è per noi, Dio misericordioso ti supplico di accogliere la mia animae quelle della mia famiglia».

La bomba cadeva altrove, tuttavia i muri della cantina tremavano, i pali, come colonnedoriche a sostegno del soffitto, sussultavano, e c’erano istanti di silenzio prima che ci sirendesse conto che eravamo ancora vivi e la casa non era stata toccata.

Quando il rombo degli aerei, che faceva vibrare paurosamente l’aria, si allontanava, eratutto un «sia lodato Gesù Cristo», accompagnato da esitanti sospiri di sollievo. E siaspettava con ansia che la sirena suonasse il “cessato allarme”. A quel punto la nonnaaveva il tempo di pensare alla chioccia che era alloggiata al sicuro in uno stanzino accantoal bagno.

«Sperèm che la pitta l’abbia minga ciapà un stremissi».«È proprio il caso di tirare in ballo la pitta!», la sfotteva mia madre. Proseguendo: «Mi

pensi alla mia pell e a quella della mia tusetta».«Se la pitta smette di covare, mi vanno a puttane i pulcini», proseguiva la nonna

imperterrita.A fare da controcanto ai loro battibecchi, si scatenava la lite tra due vicine di casa perchéuna rinfacciava all’altra d’aver fatto un bell’arrosto con il suo gatto e l’altra l’accusavad’essersi accompagnata a un tedesco in cambio di un certo quantitativo di carne in scatola.

«Puttana sarà lei!», inveiva la prima.Allora si alzava feroce la voce del nonno.«Donne, non fatemi aprire il libro delle bestemmie!», minacciava.Ma non era tanto il suo ammonimento, quanto il rombo cupo di un altro stormo di

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aerei in avvicinamento, a chiudere le dispute e a imprimere nuovo vigore alle voci orantiche tentavano di sovrastare il frastuono delle vibrazioni grevi di morte.

A quel punto lo zio Giovanni annunciava: «Donne, state zitte ché arriva Tamarindo!».Tamarindo era un personaggio del “Corriere dei Piccoli” che faceva tante asinate, e alla fineil suo capo, Sor Cipolla, gli diceva: «Alla prima che mi fai, ti licenzio e te ne vai».

Quando una bomba cadeva vicina a casa, lui declamava: «Per stavolta è andata così, ma

alla prossima ti licenzio e te ne vai». Scherzava per vincere la paura.E la giovane vicina di casa che si era accompagnata a un tedesco in cambio di un po’ di

carne in scatola, rincarava: «Peccato che questa bomba non ci sia caduta in testa,accoppando questa schifosa mangiatrice di gatti».

C’erano anche notti tranquille. A turbare una di queste ci pensò il nonno che, nel sonno,si ruppe un piede sferrando un gran calcio contro il comodino, nella convinzione di colpireil Diavolo che si era accostato al suo letto, aveva infilato una zampa pelosa sotto il suocuscino e gli aveva sfilato il portafogli.

Si destò urlando per il dolore e svegliò tutti. Giurò e spergiurò che il Diavolo lo avevaderubato, tant’è che il suo portafogli era sparito. Piangeva come un bambino non solo per ildolore al piede, che si era fratturato, ma anche per il furto del suo denaro.

«T’el chi el to portafoej», sbottò la nonna che lo aveva recuperato nella fessura tra ilmaterasso e la testiera.

«Allora è stato un sogno... Però mi l’ho propri vist chel brüt Demòni», garantì lui, unamano posata sul piede che si andava colorando di scuro e l’altra a stringere il suo tesoro.«Famm cüntà i danee», concluse.

«Te seet ti el brüt Demòni», inveì la nonna, sapendo che l’incidente al piede avrebbe

complicato la vita di tutti.Il nonno nutriva una venerazione maniacale per i soldi, tanto che la sera, prima dicoricarsi, scaldava sulla fiamma del gas il ferro da stiro, stirava le banconote a una a una epoi le riponeva con cura nel portafogli, dal quale non si separava mai.

I bottegai del quartiere, dove faceva personalmente la spesa perché diffidava di quellasciupona di sua moglie, lo avevano soprannominato “el sciur Marenghinatt”, il signore checollezionava marenghi, convinti che fosse un uomo ricco e avaro. In realtà, il nonno cercavadi amministrare i suoi pochi risparmi, per non dover chiedere aiuto ai figli.

Ricordo le baruffe domenicali tra lui e la nonna, al momento di uscire di casa per andare

a messa.In chiesa, durante la predica del mio amato don Giuseppe, il sacrestano passava tra ibanchi con una lunga pertica dalla cui estremità pendeva il sacchettino di pelle nera delleofferte. Il nonno non voleva mai dare più di due lire, la nonna invece voleva che ne dessecinque.

«Non voglio fare la figura di quella che la se taca sü per pend giò». Letteralmente: nonfarmi appendere per pendere, cioè: non voglio essere compatita dalla gente.

Allora, quasi si strappasse il cuore dal petto, il nonno aggiungeva altre due lire.

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«Jn minga assé», non sono sufficienti, martellava lei.Mordendosi la lingua per tenere a freno le male parole, il nonno aggiungeva altri

cinquanta centesimi.«Hu dit cinq franc», insisteva la nonna.Alla fine le otteneva con l’accompagnamento di una serie lunghissima e fantasiosa di

improperi che iniziavano con “brütta sguangia” e si concludevano con “disgrazia della mia

 vita”.Con quel viatico, uscivano a braccetto e si avviavano verso la chiesa, dove avrebbero

chiesto perdono a Dio per i loro peccati. Io non mi perdevo mai la sceneggiata domenicaleche mi divertiva tantissimo. Al confronto, le liti di oggi in tivù sono noiosissime.

Erano tempi difficili. Il nostro giardino di Milano era diventato un orto di guerra. Ilnonno ci coltivava insalata, cipolle, carote, piselli, sedano, cornetti, pomodori, basilico,prezzemolo, zucchine e verze per l’inverno. Ma c’erano anche alcuni alberi da frutto: unpero, un susino, un fico generoso, un pesco e un albicocco. Avevamo assicurata la scorta difrutta e verdura. La nonna e la mamma, invece, curavano le galline e i conigli, che erano la

nostra riserva di proteine.Io rifiutavo il coniglio, perché l’odore della sua carne mi dava la nausea.«Questa bambina è verde come una lucertola», si preoccupava la mamma.«Per forza, non le dai da mangiare», diceva la nonna.«Deve abituarsi ad accettare quello che passa il convento», replicava lei, detestandomi

perché spesso preferivo il cibo poco nutriente della nonna al suo.A volte era così irritata che mi mandava a dormire senza cena. «Domani sarai tu a

 volere quello che oggi rifiuti», diceva.Non sapeva che, nel cuore della notte, la nonna mi dava un bel pezzo di pane e

formaggio, o un budino alla vaniglia.La mamma non è mai riuscita ad avere ragione della mia caparbietà e, l’ho capito dopo,

questa sua impotenza la irritava tantissimo. Comunque erano tutti concordi nel dire cheero una bambina inappetente. Oggi qualche terapeuta si sarebbe allarmato e avrebbeparlato di anoressia.

Un giorno la mamma mi fece trovare nel piatto qualcosa di molto invitante, a giudicaredal profumo di burro fritto e dal colore dorato di certe palline dalla superficie croccante.Ne infilzai una con la forchetta, che penetrò in una sostanza morbida. La addentai e avvertiisul palato una consistenza scivolosa, grassa, disgustosa… La sputai, strillando: «Blah, che

schifo!».La mamma mi colpì con uno schiaffo secco come una frustata, mentre urlava: «Mi gominga el bursìn de Giüda! Questa cervèla, che costa come l’oro, adesso te la mangi tutta».

Per nutrirmi era riuscita a trovare un cervello di vitello e lo aveva impanato e fritto nelburro. La mangiai davvero tutta quella roba rivoltante, soffocando lacrime e conati di vomito. Mentre lei annuiva soddisfatta, io mi precipitai in giardino e diedi di stomaco.

Tanti anni dopo seppi che le cervella sono, con il midollo, un alimento micidiale, una vera bomba di colesterolo.

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La collana d’aglio e il pranzo di Natale

Non so quanto a lungo si sia protratta la nostra economia rurale nella casa di Milano ma,

finché durò, ebbi il compito di sradicare le erbe infestanti che proliferavano tra le piccoleaiuole di pomodori e insalata. Era un lavoro di nessuna soddisfazione e tuttavia imparai adistinguere le erbe grame da quelle buone, a separare, insomma, il grano dal loglio.

Nel nostro pollaio di città, oltre alle galline ovaiole, c’era un gallo dal piumaggioiridescente. In estate compariva anche un cappone che la nonna metteva all’ingrasso ed eradestinato al sacrificio per allietare il pranzo di Natale.

Il nonno lo sgozzava qualche giorno prima della grande festa e la nonna raccoglieva inuna scodella il sangue caldo che defluiva dal taglio sul collo, mentre la povera bestiascuoteva ancora le ali. Provavo pena per lui, ma il nonno mi rincuorava: «Io non ammazzo

per divertimento, come fanno quei malnati dei cacciatori. Ricordati che chi va a caccia persport è un assassino, chi uccide per mangiare segue una legge di natura».

Al sangue raccolto la nonna aggiungeva del pangrattato, sale, qualche spezia e friggeva iltutto in padella. Assaggiai quella poltiglia scura e amara e la trovai disgustosa. Credo chenon piacesse a nessuno, perché la mangiava soltanto il nonno.

Il cappone, ormai cadavere, veniva subito spennato. Nonostante il freddo pungente, lanonna sedeva in cortile con un grande canovaccio sul grembo e, penna dopo penna, lometteva a nudo.

Rimanevano comunque piccole piume che venivano bruciate passando velocemente il

cappone sulla fiamma del gas. Ne scaturiva un lezzo disgustoso che si accentuava quandoabbrustoliva anche le zampe. Queste venivano pelate, lavate e aggiunte al minestrone chesobbolliva, insieme con la testa, le ali e una parte del collo. Schizzinosa come sempre, iorifiutavo il minestrone. Subito dopo la mamma e la nonna eseguivano un intervento di altachirurgia sul corpo del cappone estraendone il cuore, lo stomaco, i polmoni, il fegato e gliintestini. Gli intestini erano la sola parte che veniva buttata. Il resto veniva triturato e cottonel minestrone del giorno dopo.

Non volevo mangiare neppure quello e, ormai rassegnati al fatto che io fossi una“scarusa”, una cui non andava mai bene niente, mi propinavano il “ris in cagnùn”, un riso

lessato e condito con burro e salvia.Dopo aver ripulito il grosso volatile, mamma e nonna lo disossavano. Erano bravissimea far affiorare tutta la carcassa e a sfilare i femori. Poi riempivano le cavità con un impastodi prosciutto crudo, amaretti sbriciolati, pinoli, uva sultanina, uovo, formaggio, sale e nocemoscata, prezzemolo tritato e scorza di limone grattugiata. Infine lo ricucivano e loimmergevano nel brodo di verdura, per lessarlo. Nello stesso brodo, la mattina di Natalecuocevano i ravioli.

A tavola, dimenticavo la mia pena per il cappone e facevo man bassa di tutto, tranne che

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della mostarda di Cremona che la mamma si ostinava a preparare in casa e che nonpiaceva a nessuno, sebbene la mangiassero tutti, perché niente doveva essere buttato. Ilpranzo si concludeva con una fetta di panettone intinta in un dolce e frizzante Moscatod’Asti Gancia. Mentre gli uomini, ormai sazi, si sbottonavano la cintura dei pantaloni e lamamma e la nonna rigovernavano, io ciondolavo su una sedia, piacevolmente stordita dalcibo e dal vino, e non avevo neppure voglia di giocare con i doni che Gesù Bambino aveva

lasciato ai piedi del mio letto.Il mio letto era di ferro battuto, laccato di un bel rosa intenso, e aveva una trapunta a

riquadri bianchi e rosa. La mattina di Natale, la mamma era dolce con me e mi portava aletto il latte caldo con l’Ovomaltina e i biscotti Oswego. Analizzava i doni ricevuti, come se li vedesse per la prima volta, e mi raccomandava di non sciuparli.

Una volta mi regalò un salottino in legno, con il divano e le poltrone imbottite e rivestitedi seta lucente. Ci giocai soltanto il giorno di Natale, poi me lo requisì, dicendo: «Adesso lomettiamo via, altrimenti lo rovini. Tanto lo sai che è tuo».

Fece la stessa cosa anche con un’intera batteria da cucina in miniatura, perché in quelle

bellissime pentole io volevo mettere a cuocere qualcosa sul gas. Mi lasciò giocare soltantocon un servizio di piatti e tazzine in bachelite rosa. Le ruppi presto, a dimostrazione delfatto che lei aveva ragione.

Il giorno di Santo Stefano si mangiavano gli avanzi di Natale con l’aggiunta di unagallina lessata e servita con la salsa verde. Considerandole una squisitezza, si lessavanoanche la lingua e la coda di manzo. Io le rifiutavo entrambe.

Una volta il papà insistette: «La coda e la lingua sono una prelibatezza. Assaggiale,almeno».

«No, mi fanno schifo», dissi imbronciata.

«Perché?», mi domandò.«Perché la coda è attaccata al culo e la lingua è stata nella bocca del manzo», spiegai con

una logica inoppugnabile.Mi risparmiai un ceffone soltanto perché era giorno di festa.La sera il nonno metteva in funzione il grammofono che andava a manovella e sceglieva

tra una serie di pesanti dischi di bachelite nera qualche romanza cantata da Tito Schipa oBeniamino Gigli. Ma c’erano anche, con il marchio La voce del Padrone, canti popolarizeppi di allusioni piccanti che io non coglievo.

Sempre durante il periodo bellico, quando ero tornata nella casa di Milano, il papà e lo

zio si isolavano in sala ad ascoltare la radio in gran segreto, mentre una voce monocordescandiva frasi strampalate, aperte e chiuse da un funereo gong. Era Radio Londra cheforniva informazioni sull’avanzata dell’esercito alleato e sui bombardamenti imminenti.Dopo aver ascoltato la radio, capitava che il papà annunciasse: «Stanotte si va a Pioltello».Se aveva sentore di un bombardamento imminente, al tramonto montavamo in calesse euscivamo dalla città. Percorrevamo una strada tra i campi e arrivavamo in una cascinadove eravamo attesi.

«Sono arrivati i milanesi», dicevano i bambini, venendoci incontro festanti.

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Eravamo accolti dagli amici di papà. Di quelle poche fughe notturne ricordo soltanto iletti altissimi che raggiungevo inerpicandomi su una sedia e il caffellatte del mattino, fattocon il caffè vero, che in casa nostra non si beveva già da tempo, in cui spezzettavo il panebianco, cui non ero abituata, perché in città trovavamo soltanto il pane giallo fatto con lafarina di mais, che aveva una crosta nera e amara.

Rammento anche un mattino d’estate in cui mamma e nonna mi scrutarono

preoccupate e diagnosticarono: «La tusetta la gà i vermi». Infilarono su uno spago sottiletanti spicchi d’aglio, ne fecero una lunga collana e me la misero al collo.

«Puzza», dissi io.«Così fa scappare i vermi», rispose la mamma.«Dove scappano?», domandai.«Nel vasino, quando ti ci siedi sopra», spiegò.Tornai a giocare, ma non mi sentivo bene. A un certo punto scesi dall’altalena, il mio

gioco preferito, mi nascosi dietro un cespuglio e vomitai tutta la colazione. La nonna mi vide e disse: «Hai vomitato i vermi, che invece di uscire da un buco sono usciti dall’altro».

Ma io continuavo a star male, mi sentivo rigida come un baccalà e non riuscivo quasi arespirare. Allora nonna e mamma si allarmarono. Mi tolsero la collana, mi misero a letto,mi massaggiarono braccia e gambe e io ripresi a respirare.

«Che sia stato l’aglio?», chiese la mamma.«Non so», fu la risposta della nonna.Sembravano spaventate. Non sapevano della mia intolleranza a questo alimento. Credo

che, all’epoca, l’intolleranza alimentare fosse una patologia sconosciuta. Per fortuna in casanostra l’aglio si usava raramente e sempre in quantità minime. Da quel giorno loeliminarono anche dal minestrone e dal soffritto. Del resto, non piaceva nemmeno a loro.

Sono cresciuta in una famiglia dove si cucinava tutto, anche il pesto alla genovese, senzaaglio e, alla fine, la mamma decise che quello era un ingrediente “ordinario”, anche per glieffetti olfattivi devastanti.

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Le farfalle e le tonsille

Ricordo che un giorno, sul finire della guerra, la nonna spezzò un filone di pane e prese a

inveire contro «chel brüt Berlicch del prestinee».«Vende la farina buona alla borsa nera e fa il pane con la crusca, la segatura e la polvere

di marmo», disse il nonno.«Portaglielo indietro e fatti dare il pane giallo», ordinò la nonna.«Non voglio litigare con quel fascistone», replicò il nonno.«Benissimo, vado io a cantargli la messa», decise lei e dopo poco tornò a casa con la

solita pagnotta di pane di mais. Gli americani erano ormai alle porte della città, i tedeschierano spariti lasciando soltanto ricordi orribili, ma la penuria di cibo continuava.

A me non piaceva il pane giallo e tuttavia dovevo mangiarlo e dovevo masticare la crosta

nera, secca e dura, soprattutto quando avevo mal di gola e le tonsille gonfie. Gli antibiotici,che in America erano ormai diffusi, qui non esistevano ancora e poiché soffrivo di tonsillitiaccompagnate da febbre alta, mi curavano con il chinino di Stato per abbassare la febbre, ilpane giallo e le pastiglie di Streptosil, che era un sulfamidico. Il tutto accompagnato dapreghiere a San Biagio, protettore della gola.

Ogni anno, il 3 febbraio, giorno di San Biagio, la mia mamma mi portava in chiesa apregare perché il santo mi risparmiasse dalla solita tonsillite e il prete mi imponeva sullagola due candele benedette. A casa, poi, facevo colazione con il latte e il panettone messo daparte a Natale per questa giornata. Il panettone, ormai rinsecchito, riprendeva vigore

gonfiandosi nel latte caldo e mi regalava il piacere di affondare il cucchiaio in quel morbidopastone da cui si sprigionava l’aroma della vaniglia.Ma ci fu un anno in cui San Biagio ignorò preghiere e benedizioni, perché quando tornai

dalla chiesa avevo la febbre alta, le tonsille dolenti e di notte non riuscii quasi a respirare, néa deglutire. Neppure la crosta di pane giallo riuscì a lacerare le tonsille sempre più gonfie.Allora la mamma si decise a far venire il medico.

Chiamò il dottor Finzi, che era un bell’uomo dai tratti severi. Era tornato da poco inItalia dopo la fuga da un campo di concentramento in Germania. Raccontava d’avermacinato chilometri a piedi, nascondendosi di giorno e marciando di notte, nelle settimane

che avevano preceduto la fine del Terzo Reich. Al Brennero aveva incontrato gli americani,che lo avevano curato e nutrito. Arrivato a Milano, aveva subito riaperto il suo studio in viadella Spiga. La mamma si fidava più di lui che del nostro medico di famiglia, perché dicevache aveva guarito i suoi compagni di prigionia dalla dissenteria, somministrando loro lapolvere del carbone.

Il dottor Finzi venne a casa, sedette sul bordo del mio lettino, constatò la condizionedisastrosa della gola e disse alla mamma: «Mi servono due bastoncini di legno e un po’ dibambagia».

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Era inverno, c’era la neve, la mamma scese in giardino e recise due rami secchi diun’ortensia. Il dottore avvolse un’estremità dei rametti nella bambagia, me li infilò in gola eschiacciò le tonsille.

«Sto facendo uscire il pus», spiegò.Io stavo così male che mi lasciai scorticare senza fare storie.«Bisognerà fargliele levare queste brutte tonsille», aggiunse poi. La febbre scese

rapidamente, io succhiavo beata una pastiglia di Streptosil ed ebbi anche un bicchiere dineve irrorata con lo sciroppo di menta.

Dopo qualche giorno ero guarita ed ero anche molto arrabbiata con San Biagio, perchénon mi aveva aiutata. Mi convinsi che il santo non avesse i poteri taumaturgici che gli venivano attribuiti. Lo confidai alla mamma, che replicò severa: «Le tue parole sono unabestemmia. Chi ti credi di essere, per mettere in discussione il potere dei santi?».

Per l’asportazione delle tonsille il dottor Finzi ci consigliò uno specialista che era statosuo compagno di prigionia e di fuga, il dottor Bruno Santagostino, il quale operava in unalussuosa clinica milanese, la Capitanio.

Mi ricoverarono lì e ricordo una sala operatoria gelida, un lettino dalla spalliera rialzata,le cinghie che mi imprigionavano il busto e i polsi, un lenzuolo legato intorno al collo e unamonaca che mi teneva buona mentre il dottor Santagostino tagliava e il sangue sgorgava afiotti. Ebbi la consapevolezza che stavo morendo e sperimentai la quieta accettazione dellamia fine.

Rimasi in clinica per alcuni giorni, vomitando sangue rappreso. La nonna e la mamma venivano a trovarmi e veniva anche il chirurgo che, ogni volta, diceva: «Apri la bocca,stella».

La nonna, che era appena salita dall’amministrazione, dove aveva patteggiato una

parcella da capogiro, gli fece il verso.«Apri il portafogli, stella».Eravamo dei morti di fame, ma per alcune cose ci comportavamo come se fossimo

ricchi. Così come facevamo acquisti nei negozi più prestigiosi, da ammalati ci curavamonelle cliniche private, convinti che lì saremmo stati trattati meglio che in ospedale.

Dopo un giorno di dieta con acqua fredda zuccherata, mi venne servito un tè al limonecon biscotti secchi. Non avevo mai bevuto del tè prima d’allora e non mi piacque.

L’elenco delle cose che non mi piacevano e che ancora non amo è infinito. La mammadiceva che ero “schizzinosa”, la nonna mi definiva “smorbia”, una bella parola milanese

che racchiude due aggettivi: capricciosa e selettiva, ma anche una che si burla degli altri.Del resto era infinita anche la serie di aggettivi negativi che mi riguardavano: oltre chesmorbia ero disubbidiente, testarda, distratta, bruttina, posseduta dal Diavolo,“cinciapetta”, altro aggettivo delizioso che sta per pettegola e spocchiosa, e rana dalla boccalarga.

Era il papà a definirmi rana dalla bocca larga e me lo diceva con aria divertita, quasifosse un complimento, fino al giorno in cui questa mia incapacità di tacere sotto la spinta diun evento elettrizzante mi costò dolore e lacrime cocenti.

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Non ricordo se fosse settembre, e la guerra andava avanti, o se fosse primavera estessimo ancora affrontando il grande sfacelo. So che faceva caldo, ma l’aria era frizzante.La mamma, che possedeva davvero due mani fatate quando si trattava di tagliare, cucire ericamare gli abitini per me, trovò in un baule che traboccava di pizzi, sete e flanelle, un belpezzo di taffetà di seta nero.

«Questo è un tessuto come non se ne trovano più in commercio», disse accarezzandolo.

Me lo drappeggiò addosso, poi lo spianò sul tavolo, lo ripiegò in due e, armata di metro,spilli e gessetto disegnò la gonna, il corpetto, le maniche. Tagliò, imbastì, mi fece una prova,poi una seconda e, a sera, il mio abitino era pronto. Me lo fece indossare, mi fece piroettare,e infine concluse: «È troppo triste. Sembra un abito a lutto».

Ravanò di nuovo nel baule e trovò dei ritagli di seta rosa. Ne ricavò alcune grosse farfalleche prima spillò e poi cucì con santa pazienza intorno alla gonna. Disse che quella era unaguarnizione. Era la prima volta che sentivo la parola “guarnizione” e mi piacque molto. Ci vollero alcuni giorni per applicare le farfalle rosa sul taffetà nero, ma il risultato la convinse.E convinse anche me, la prima volta che indossai il vestito.

«Posso tenerlo?», chiesi speranzosa.«Non ancora. Ci vogliono le calzine rosa e le scarpine di vernice nera», fu la risposta.Le calze le fece la nonna con il solito filo di cotone perlé. Le scarpe di vernice nera non le

ebbi, perché costavano troppo.In quei giorni le galline ovaiole avevano smesso di produrre uova. Probabilmente la

nostra dispensa stava languendo. È un fatto che, dopo aver confabulato con papà, unamattina la mamma annunciò: «Puoi metterti il vestitino nero. Vai in campagna con il papàa fare un po’ di spesa».

Ricordo la nostra corsa sul tandem. Il papà davanti a pedalare e io dietro, sul sedile

posteriore, le mani strette al manubrio, le gambe penzoloni, perché non arrivavo ai pedali.Alla Gobba passammo davanti alla garitta del daziere che scambiò un saluto con il papà efilammo via. Andavamo a Brugherio a comperare cibo dai contadini. L’aria gonfiava il mioabitino di taffetà e le farfalle intrecciavano una danza. Io mi misi a cantare: «Cavallino corrie va, che nessun ti fermerà. Corri corri con ardor, dalla bimba del mio cuor. Cavallino corrie va». Papà, allegro come sempre, fece il controcanto. Era una gita fantastica.

Arrivammo su un’aia dove c’erano animali da cortile, volavano libellule e c’era unnugolo di bambini intorno a un cane biondo, disteso a terra, che aveva una poltiglia scurasulla testa.

«Che cos’ha in testa?», domandai a una bambina.«La pece», rispose lei.«Perché?», volli sapere.«Per guarirlo dal cimurro».A me sembrava mezzo morto, ma non dissi niente, subito distratta da tutto il bendidio

che papà stava infilando nel cesto della nostra bicicletta.Quando ripartimmo, chiesi: «Cos’hai trovato?».«Di tutto e di più. Una forma di stracchino, una di quartirolo, farina, uova e un

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prosciutto crudo bello stagionato. Con questo prosciutto siamo tranquilli per almeno duemesi», disse lui. E soggiunse: «Quando arriviamo al dazio, non fare la rana dalla boccalarga».

Ero felice per via del sole, dell’aria frizzante, dei campi in fiore, della vicinanza del miopapà, del mio abitino con le farfalle danzanti e del prosciutto crudo che mi piaceva gustaresul pane spalmato di burro. Non vedevo l’ora di mostrare alla mamma tutto il cibo che

avevamo rimediato.Arrivati al dazio della Gobba, papà frenò e mise giù le gambe dal tandem. Ricordo che,

in fondo ai pantaloni, portava due anelli a molla per impedire al tessuto di impigliarsi esporcarsi con la morchia della catena.

Papà prese a confabulare con il daziere. Sentii che diceva: «La mia bambina è un po’anemica e ha bisogno di cibo sostanzioso».

«Alla borsa nera ci pelano, ma per i figli...», convenne il daziere, che poi, ricordandosiche doveva far rispettare la legge, venne al dunque: «Che cos’hai trovato?».

Vendere e comperare alla borsa nera era un reato per il quale si rischiava la prigione, ma

questo io non lo sapevo. Sentivo invece nel petto un delirante solletico di gioia per la messeabbondante che avremmo riversato sul tavolo di cucina. Papà stava spiegando al daziere,che probabilmente era un suo conoscente: «Niente di che... qualche uovo, un po’ diformaggio, un po’ di farina bianca...».

«E un prosciutto crudo intero, bello stagionato», trillai, gonfia d’orgoglio, dimenandomifiera sul sellino posteriore del tandem.

Ci fu un istante di silenzio glaciale che io al momento non colsi, poi una risata deldaziere che disse al papà: «Ho capito. Fila via, prima che ci ripensi».

Papà non si fece ripetere l’invito. Io ripresi a cantare, mentre ci allontanavamo dal dazio

e papà pedalava come un forsennato. A un certo punto, quand’eravamo ormai lontani estavamo costeggiando la Martesana, frenò bruscamente, scese dalla bicicletta, la appoggiòcon il suo carico a una sponda, mi sollevò per le ascelle, mi mise a terra e, in silenzio, miprese a sculacciate, brevi, secche, pesanti. Mi rimise sul sellino e tornammo a casa.

«Riempi un catino d’acqua fredda e falle un semicupio», ordinò poi alla mamma, che milevò il bel vestito rigato di pianto e non fece domande sulle mie natiche rosse e scorticate.

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Dieci e lode e le uova con gli asparagi

Aveva ragione la nonna: avevo addosso il Diavolo e non c’era verso di cacciarlo. L’avevo

sentita benissimo la vocina dolce, insinuante, del Demonio che si era contrapposta allaraccomandazione del papà di non fare la rana dalla bocca larga. «È troppo grande la tuagioia, tirala fuori, non tenerla per te, non hai motivo di tacere. Devono saperlo tutti che ilpapà ha fatto incetta di cibo squisito», mi diceva il Diavolo. E io avevo seguito il suosuggerimento.

Il giorno dopo, la mamma mi trascinò da don Giuseppe, per farmi benedire.«Mio marito ha rischiato di essere denunciato e magari di finire in galera o, peggio,

deportato in Germania, per la lingua lunga di mia figlia che ha addosso il Diavolo e non c’è verso di fare di lei una bambina timorata di Dio e dei genitori».

Insomma spiattellò al parroco tutta la storia del prosciutto, mentre io avevo ilfondoschiena coperto di piaghe e non riuscivo a stare seduta.

Non so che cosa mi disse don Giuseppe, sapevo invece d’essere una pianticella storta cheniente e nessuno avrebbe mai potuto raddrizzare. Ormai andavo per la mia strada con laconsapevolezza che ogni errore ha un prezzo e io pagavo tutte le volte. Ma non micrucciavo più di tanto e trovavo sempre in me la voglia di sorridere e di scoprire ognigiorno nuove meraviglie, perché tutto mi sembrava bellissimo e nuovo.

Più avanti nel tempo trovai meravigliosa la maestra che mi insegnava a leggere escrivere, meravigliosi la mia prima gita sul lago di Como, il gusto e il profumo della prima

banana, o degli asparagi che non conoscevo e che la mamma preparò con l’uovo al burro eun’abbondante spolverata di grana grattugiato. Scoprii le cicche americane, la Coca-Cola,la Nutella, gli album delle figurine Panini, il cinema all’aperto, la mia prima biciclettaVelox, il sillabario e la mia voglia di leggere e scrivere.

Sul finire della prima elementare feci il primo dettato senza un errore e portai a casa un“dieci e lode”.

Lo mostrai alla mamma e dissi con fierezza: «Sono stata la più brava».La mamma mi guardò con severità e mi colpì la guancia con uno schiaffo secco.«Ricorda! Chi si loda s’imbroda», sentenziò.

Fu una lezione salutare, perché imparai che era meglio tenere il profilo basso se volevomigliorare.Smisi di considerare la mia casa il centro dell’universo e scoprii quanto fossero più

stimolanti le case degli altri e i loro abitanti.Un giorno, un’amica della mamma, riferendosi a me, le disse: «È proprio bella la tua

bambina».«Ha la bellezza dell’asino», replicò lei.Non trovai il nesso tra me e un asino, ma seppi che ero bruttina prima ancora che me lo

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confermasse la mamma.«Hai il naso lungo come quello del tuo papà. Sei bruttina», mi avvertì, mentre cucinava il

“viteltonnè”, un’altra novità culinaria che apprezzai subito e mi piace ancora.Quando finì la guerra la carne comparve sulla tavola quasi ogni giorno e la mamma

dispiegava tutto il suo talento di cuoca per cucinarla in modi diversi. Mi offriva anche lebistecchine alla pizzaiola, gli uccellini scappati con la polenta, gli involtini con il prosciutto,

le lasagne con il ragù, i cannelloni ripieni, i conchiglioni con la ricotta e gli spinaci, la pizzanapoletana cotta in un forno elettrico che si chiamava Petronilla, le pesche al forno con gliamaretti sbriciolati, le pere a funghetto con l’amaretto infilzato sul picciolo e ricoperte conla glassa di cioccolato, il croccante di zucchero con i noccioli delle albicocche, lo strudel dimele con l’uvetta e le noci, la cioccolata calda in tazza con i savoiardi.

La mamma aveva imparato a cucinare quand’era ragazza e frequentava il ristorantedello zio Peppino, un fratello della nonna. Nel ristorante, che era in corso Venezia, cilavoravano anche la moglie dello zio Peppino, la zia Luigia, e i loro figli. La domenica lamamma andava da loro e dava una mano in cucina, imparando dallo zio i segreti culinari e

da sua cugina Maria, che poi io chiamai zia, l’arte di distinguere le cose e le personeraffinate dalle cose e dalle persone ordinarie.

La mamma nutriva una profonda ammirazione per questa cugina che aveva poi fattoun buon matrimonio sposando Alfonso Pettinaroli, dell’omonimo negozio che esistetuttora in corso Venezia. Il negozio di Pettinaroli stampava biglietti da visita, carte dalettera, partecipazioni di nascite, cresime, matrimoni e morte, vendeva stampe sacre eprofane e l’Arcivescovado era tra i suoi clienti. Ricordo questa cugina della mamma per lasua voce nebbiosa, la figura burrosa e la bocca simile a un’acquasantiera, con il labbroinferiore turgido e prominente. Si credeva imparentata con Dio, era di casa in

Arcivescovado, era dama di San Vincenzo e, come gli altri parenti ricchi, era moltoparsimoniosa. Mi fece un unico dono, per la mia prima comunione: una piccolariproduzione della Madonna del cardellino. È ancora appesa al muro della mia camera daletto.

Periodicamente la mamma, la nonna e io andavamo in pellegrinaggio dalla zia Mariache abitava in via Vivaio. A me la zia non piaceva, perché mi notava soltanto per criticarmi.

Una volta mi offrì un biscotto e io dissi: «Grazie, no. Sono piena».Fece una partaccia alla mamma perché non mi stava insegnando a parlare

decentemente.

«Avresti dovuto dire che eri sazia», mi spiegò allora la mamma.Ci accoglieva in un salotto azzurrino, con i divanetti azzurri in stile Luigi qualcosa. Lacameriera ci offriva acqua e sciroppo di lampone, poche gocce, giusto per colorare ilbicchiere. Lei, la mamma e la nonna parlavano senza sosta. Io mi annoiavo e non vedevol’ora di andar via. Quand’era estate, tutte e tre si rinfrescavano con il ventaglio, mentre lazia offriva alle due parenti povere suggerimenti per la mia educazione, per le nostre magrefinanze, per la sistemazione della nostra casa. E non perdeva occasione per dire che SuaEminenza, l’arcivescovo, l’aveva ricevuta, le aveva offerto qualche incarico, le aveva

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proposto alcune iniziative. La mamma e la nonna parlavano in punta di forchetta ependevano dalle sue labbra ad acquasantiera.

Poi, quando la visita stava per concludersi, lei domandava: «E di questa bambina, checosa mi dite?».

«È sempre distratta, svagata, ribelle e vuole soltanto leggere», si lamentava la mamma.«Piccola com’è, deve soltanto giocare e pregare. Mandatela in colonia. C’è un centro

balneare gestito dalle suore di...», e seguiva una lunga serie di preziosi consigli e severigiudizi sulla mia voglia incontenibile di leggere i libri che trovavo in casa.

«Finirà per leggere anche i romanzi e riempirsi la testa di grilli. Tanto, con le vostrefinanze, non illudetevi di poter farla studiare. Fatele fare la magliaia. Le comperate unabella macchina per la maglieria e la fate lavorare in casa, sotto i vostri occhi, lontana daipericoli del corpo e dell’anima».

Molti anni dopo dovetti convenire che la zia Maria aveva detto una cosa giusta: il piaceredella lettura mi aveva riempito la testa di grilli che sono ancora lì e ancora ballano la giga.

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Il Diavolo nel catino e il finto uovo in cereghino

Avevo dieci anni quando la sorte mi regalò un bellissimo fratellino e con lui cessò il mio

ruolo di figlia unica.Poiché io avevo deluso le sue aspettative, la mamma sperò di rifarsi su mio fratello,

plasmandolo a sua immagine e somiglianza. Non ci riuscì. Io, invece, cercavo un complice elo trovai.

Con il trascorrere del tempo, la mamma divenne una baciapile e, guardando il suopiccolino, se lo immaginava da adulto vestito da prete. Se non le era riuscito d’avere unafiglia santa, avrebbe almeno avuto un figlio sacerdote.

Io avvertivo tutta la sua frustrazione per la mia mancanza del “sacro timor di Dio”. Ilfatto è che rifiutavo l’idea di un Dio punitivo e vendicativo che lei voleva impormi. Quando

pregavo, percepivo un Signore smisuratamente protettivo, paterno, avvolgente, sempredisponibile a perdonarmi. Quando la mamma mi minacciava dicendomi «Dio ti punirà»,io replicavo: «Lui mi vuole tanto più bene, in quanto mi è capitata una madre come te». Epoi prendevo la fuga per sottrarmi alla sua ira e lei, pur di colpirmi, mi lanciava contro lascopa o lo spazzolone.

La sera, prima di andare a letto, recitavo con lei e con il mio fratellino le preghiere dellabuonanotte. Lo facevo di malavoglia, perché il tono enfatico della mamma mi infastidiva.Mio fratello, invece, ripeteva tutto quello che lei gli suggeriva, compresa una richiestaterrificante: «Signore, concedetemi la grazia della vocazione sacerdotale».

Ricordo ancora quando lui, ormai bambino di cinque anni, si ribellò e disse: «Non voglio fare il prete».«Come no?», domandò lei con fare minaccioso.«Il prete è cattivo e non mi piace», rispose.La mamma mi regalò uno sguardo accusatorio, sicura che fossi stata io a sobillarlo.

Invece intuii che il rifiuto del mio fratellino era nato quello stesso giorno, alla fine dei vespri,quando un altro don Giuseppe, di un’altra parrocchia, quella di San Giuseppe dei Morenti,lo aveva chiamato all’altare per fargli provare la nuova divisa dei bambini dell’asilo, ungrembiulino a quadretti bianchi e celesti, con relativo cappellino. Lui li indossò: gli stavano

a pennello. E gli piacquero. Allora il parroco affermò: «È proprio una bella divisa». E glilevò il cappellino. Mio fratello fu svelto a riagguantarlo e a rimetterselo in testa.«Guarda che non è mica roba tua. Levati anche il grembiule», gli ingiunse il prete.Mio fratello si mise a piangere, perché voleva quella divisa con tutto se stesso. Ci vollero

l’autorità materna e la determinazione del parroco per privarlo di quell’indumento.Tornando a casa, lui mi disse: «Il prete è cattivo».«Sono d’accordo», convenni.Anche la nonna commentò: «A quel punto, poteva lasciargliela».

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Eravamo tre contro una. Da quella sera, mio fratello decise che non voleva più chiederea Dio la grazia di diventare prete e la mamma vide naufragare la sua più grande ambizione.Aveva perso anche con lui.

Povera mamma, quante frustrazioni le abbiamo inflitto. Lei, che viveva nel timore dellacollera divina, aveva affidato la nostra educazione alla nonna che, invece, tremava di pauraper il Diavolo.

Mio fratello e io, conoscendo la nonna come la conoscevamo, ci divertivamo a farlaspaventare.

Un giorno saltò la corrente elettrica e lei scese in cantina, al buio, procedendo a tentoni,per riattivare il contatore. A quell’epoca avevamo una gatta nera che chiamavamo Micia.Nell’oscurità quasi totale, la nonna vide due occhi gialli che la fissavano. Lanciò un urlo erisalì, incespicando, le scale. Intanto strillava: «Gh’è el Diavul in cantina!». Mio fratello e ioci demmo di gomito. Sapevamo benissimo che in cantina c’era la Micia che cercava unposto tranquillo per sottrarsi ai nostri tentativi di fare di lei una gatta da circo equestre.

Scese in cantina il nonno. Riattivò il contatore e disse a sua moglie: «T’el chi el Diavul!».

Teneva la gatta tra le braccia.«Oh, Signur, che stremissi! L’era la Micia. Meno male. Mi gò paura del Diavul».Ormai tranquillizzata, sedette in cortile all’ombra del glicine e prese a sferruzzare. A mio

fratello parve che la scena si fosse svolta senza eccessiva drammaticità. La nonna eraserena, aveva ripreso a lavorare a maglia. E tanto per restare in tema, cantava una romanzadel Fra’ Diavolo: «Guardate un fiocco rosso, ei porta sul cappello, e di velluto indossa,ricchissimo mantel».

Micia ronronnava tra le mie braccia. Mio fratello si impadronì di un catino bianco diferro smaltato. A gesti, mi suggerì di mettere la gatta per terra e subito la coprì con il catino

capovolto. La povera bestia prese a contorcersi sotto quella cupola inespugnabile, in quantonoi tenevamo ben salde le mani sul catino. A un certo punto mollammo la presa.

Si sentì un miagolio terrificante. La nonna alzò lo sguardo, vide il catino che si muovevada solo, zigzagando per il cortile, e la sua bella voce cantante sfumò in un urlo di terrore.

La mamma e il nonno corsero fuori dalla cucina e videro quel catino pesante che simuoveva all’impazzata, mentre la nonna, ritta in piedi, piangeva e gridava: «L’è el Diavul!Gesù, Giuseppe e Maria abbiate pietà dell’anima mia».

Finalmente la gatta riuscì a scrollarsi di dosso il catino, schizzò fuori terrorizzata e silanciò come un razzo sul tronco del pino, infrattandosi tra i rami dove i suoi due aguzzini

non avrebbero potuto raggiungerla.Acquattati dietro un’ortensia, mio fratello e io eravamo assolutamente felici. Ma cisentimmo molto perfidi quando vedemmo che la nonna stava davvero male e fu messa aletto con le pezze bagnate d’aceto sulla fronte e un bicchierino di cordiale per rinfrancarla.Quella sera la mamma ci menò di brutto.

La nonna, il giorno dopo, era vispa e allegra come un fringuello. Ci chiamò in casa, nelpomeriggio.

«Vi ho preparato la merenda», disse.

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Trovammo sul tavolo due piatti con un uovo fritto per ciascuno.«L’uovo in cereghino a merenda?», domandai titubante.«L’uovo in cereghino per merenda», assentì lei.Ci aspettavamo un budino o uno zabaione. Non avevamo voglia di un uovo al tegamino.

Mio fratello e io ci scambiammo un’occhiata d’intesa. Eravamo pronti a filarcela perandare a vedere se la mamma ci offriva qualcosa di meglio. La nonna capì al volo la nostra

intenzione. Prese me e lui per un braccio e ci costrinse a sedere a tavola, dicendo: «Ieri avete voluto scherzare con me, oggi scherzo io con voi».

Affondammo la forchetta nel bianco dell’uovo, ma non era albume, era panna montata.E il tuorlo non era un tuorlo, ma mezza albicocca sciroppata. Il tutto su una base di biscottoinzuppato nel marsala. Insomma, era un uovo finto e delizioso.

«Solo che il vostro scherzo era perfido, il mio invece è buono», soggiunse la nonna.

Da allora è passata tutta una vita.Le figure che hanno animato la mia infanzia non ci sono più, ma vivono ancora nei miei

ricordi. A loro sono grata per tutto quello che mi hanno insegnato di buono e di menobuono, perché è così che ho imparato a distinguere il grano dal loglio.

I miei nonni, il papà, la mamma, lo zio Giovanni e lo zio Ettore, le zie Oldani e la ziaMaria, i contadini della Cascina Mezzetta e quelli di Pioltello, le vicine di casa, il dazieredella Gobba e il prevosto di Santa Maria Rossa vivono da tempo in un’altra dimensione emi piace immaginarli mentre continuano a fare e dire le stesse cose di quand’ero piccola.

Un giorno li raggiungerò, ma non vorrei presentarmi a loro con le sembianze attuali.Vorrei incontrarli com’ero da bambina, con l’abitino di organza rosa punteggiata di bianco,le scarpine alla bebè, l’aria tiepida di giugno che mi gonfia la gonna e il gatto Murcìss tra le

braccia. Con lui ripeterei il rito della comunione e poi aspetterei che papà mi caricasse sullespalle recitando: «Trotta, galoppa, Piemonte Reale, non si capisce qual è l’animale».Guarderei il nonno mentre stira i soldi o sogna il Diavolo che glieli ruba, e la mia mammamentre taglia e cuce per me un nuovo abitino, non sapendo dirmi in altro modo che mi vuole bene.

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Le ricette

Cosa si mangiava in tempo di guerra

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Introduzione

Sulla credenza della nostra cucina faceva bella mostra una bilancia con i piatti e i pesi inottone che, ogni settimana, venivano lucidati e brillavano come fossero d’oro. La bilanciaera usata per controllare al grammo il pane, il prosciutto, lo zucchero, la farina che siacquistavano in bottega.La mamma osservava il piccolo oblò di vetro per vedere che le due lancette dei piatticombaciassero al millimetro e, poiché le due punte non combaciavano mai, esclamava:«Chel brüt Demòni el m’a ciulà cinq gramm anche stavolta!».La nonna rincarava l’indignazione aggiungendo: «Adess pesa la carta!».Persino la carta aveva il suo peso e, secondo i loro calcoli, su cento grammi di prosciutto il

salumiere ne rubava più di dieci.Non ricordo che la bellissima bilancia sia mai servita per pesare gli ingredienti dei cibi, che venivano misurati a numero (2 uova), a cucchiai (3 cucchiai), a pugni (4 pugni di riso), abicchieri (1 bicchiere di latte), a occhio.Io stessa mi infastidisco quando, volendo riprodurre una ricetta, devo usare la bilancia.Infatti non lo faccio e misuro a occhio. Ho anche imparato dalle mie due maestre agiudicare dall’olfatto se un risotto o un sugo sono “salati giusti”, senza assaggiare.Dunque, le ricette che racconto contengono indicazioni molto approssimative: salvodiversa indicazione, sono proposte per quattro persone.

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I primi piatti

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Il minestrone di riso

Ingredienti

ortaggi vari misti: 1 cipolla, 2 patate, 1 gambo di sedano, 2 carote, 2 zucchine, il torsolo ealcune foglie di una verza, 2 pomodori, una manciata di piselli e una di fagioli, qualchefoglia di basilico, 1 rapa4 cucchiai di olio d’oliva (oppure 2 cucchiai di lardo tritato)4 pugni di riso arborio4 cucchiaini di parmigiano grattugiatosale

Preparazione

Mondate e lavate tutte le verdure, poi tagliatele a dadini e tenetele da parte. In unapentola scaldate l’olio (N.d.A.: oppure il lardo, ma a me non è mai piaciuto), aggiungete ladadolata e fatela soffriggere per qualche minuto. Quando le verdure sono rosolate uniteacqua calda fino a coprirle, versate un po’ di sale e incoperchiate, portando a leggeraebollizione per più di un’ora o finché le verdure più grosse saranno tenere. Allora buttate ilriso, mescolando di tanto in tanto perché non si attacchi sul fondo. Togliete dal fuocoquando il riso è cotto e servite spolverizzando con il parmigiano grattugiato.

Il minestrone di riso con le verdure non mi piaceva e quando me lo versavano nel piattoacevo le boccacce. «La minestra è la biada dell’uomo», diceva la nonna. Io non coglievo il 

riferimento alla biada che si dava al cavallo e mi ostinavo a rifiutare questo cibo. Allora lamamma minacciava: «O mangi ’sta minestra, o salti dalla finestra».

Il lessico della nostra famiglia era inzeppato di modi di dire che non capivo, ma che sitraducevano in una punizione se disobbedivo. Forse non amavo la minestra di riso, anchequando era senza lardo, perché mi toccava sempre il compito ingrato di pulire il riso dalla

ula. La nonna mi metteva in mano una tafferia di alluminio, su cui aveva versato tre-

quattro pugni di riso, e io dovevo agitarne il contenuto per far affiorare gli eventualisassolini e la buccia del cereale che soffiavo via. Mi era affidato lo stesso compito anchequando si decideva di cucinare le lenticchie. Se rifiutavo, mi dicevano: «Chi non lavora nonmangia». Io avrei volentieri saltato il pasto.

 Molti aggiungono l’aglio alle verdure, ma a me di questo alimento repelle perfino il nome. L’aglio altera il sapore dei cibi, riuscendo a nasconderne le peculiarità. E tralascio glieffetti olfattivi ai danni di chi, come me, lo rifiuta. È peggio di una bomba al napalm. Nonsono nemmeno convinta che faccia bene alla salute. Se così fosse, perché rischio di morire

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quando, inavvertitamente, ne assaggio solo un po’? Potendo, fonderei una lega anti-aglio ene proibirei la produzione in tutto il mondo.

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La minestra di castagne secche

Ingredienti

4 pugni di castagne secche1 litro di latte1 baccello di vaniglia1 cucchiaio di burrosale

Preparazione

Mettete le castagne a bagno in una terrina di acqua tiepida per una notte. La mattinadopo sgocciolatele ed eliminate la pellicina che le riveste. Trasferitele in una pentola ecopritele d’acqua fredda, ponete sul fuoco e portate a bollore cuocendole per circa 10minuti. Togliete dal fuoco, scolate le castagne e quindi rimettetele nella pentolaaggiungendo il latte, una presa di sale e il baccello di vaniglia. Cuocete a fuoco lento finchéle castagne risulteranno morbide. Poco prima di spegnere, aggiungete il burro e mescolatecon delicatezza. Servite la minestra ben calda.

Questa era la cena dei tempi più grami: voleva dire che non c’era davvero altro da

mangiare. La minestra di castagne non mi piaceva e, per farmela mangiare, una volta lamamma vi aggiunse un cucchiaio di zucchero. Era uno zucchero umidiccio, di color marroncino, a grani grossi. Sapeva di petrolio, ma era contrabbandato come zucchero dicanna. Fui costretta a vuotare il piatto per schivare una punizione e, subito dopo, vuotaianche lo stomaco.

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La zuppa pavese

Ingredienti

1 dado vegetale4 cucchiai di olio8 fette di pane raffermo4 uova4 cucchiai di parmigiano grattugiatosale

Preparazione

Portate a bollore 1 litro d’acqua con l’aggiunta di un dado e di una presa di sale. Nelfrattempo fate scaldare l’olio in un’ampia padella, adagiatevi le fette di pane e friggetelefinché saranno dorate e croccanti. Trasferite le fette di pane fritto (due a porzione) in unpiatto fondo e rompetevi sopra un uovo. Irrorate con un mestolo di brodo bollente in mododa far solidificare immediatamente l’albume, come nella cottura in camicia. Cospargete diparmigiano e poi... attenti a non ustionarvi la lingua.

Capitava che la mia mamma non avesse voglia di perdere tempo ai fornelli. Quando

compariva in tavola la zuppa pavese, voleva dire che si era messa in sciopero. Il suo scioperooteva durare un giorno, ma anche una settimana. Allora si mangiava anche “ris e erburìn” 

(riso e prezzemolo), fatto con il brodo di dado, riso e latte, che io rifiutavo, vermicelli al burro, tonno sott’olio e fagioli. Quando vennero aperti i primi supermercati, per cenacomparvero i sofficini, oppure i filetti di merluzzo surgelati, insalata di lattuga con carne inscatola e altre schifezze.

Lo sciopero si concludeva quando il papà sussurrava minaccioso: «Porco sciampìn(sciampìn era lo zampino del Diavolo), non si cucina più in questa casa!».

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Il risotto alle pesche

Ingredienti

3 pesche bianche, sbucciate, denocciolate e tagliate a fette3 cucchiai di olio delicatola polpa e la scorza di 1/2 limone non trattato4 pugni di riso Carnaroli1/2 bicchiere di vino bianco seccobrodo vegetale2 cucchiai di parmigiano grattugiato

salePreparazione

In una pentola fate soffriggere a fuoco dolce le fette di pesca in 2 cucchiai di olio,aggiungendo la polpa e la scorza di limone. Rosolatele bene e unite il riso, mescolandodelicatamente. Fatelo tostare, quindi sfumate con il vino bianco e lasciatelo evaporarecompletamente. Versate un mestolo di brodo bollente e portate a cottura il riso,aggiungendo altro brodo solo quando il precedente è stato del tutto assorbito, mescolandospesso. Togliete dal fuoco, aggiustate di sale e fate mantecare per pochi minuti il riso con il

restante olio e il parmigiano grattugiato. Servite subito.

La nonna faceva il risotto anche con le pere, con le fragole, con i pomodori perini moltomaturi, con i funghi, oppure senza niente, aggiungendo soltanto lo zafferano. In questo casoserviva il risotto giallo con gli ossibuchi.

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Il risotto con la zucca

Ingredienti

1 fetta di zucca di circa 500 g4 cucchiai di olio d’oliva4 pugni di riso Carnaroli1 bicchiere di vino bianco seccobrodo di carne o di dado2 cucchiai di parmigiano grattugiatosale

Preparazione

Togliete la scorza alla zucca e tagliate l’ortaggio a pezzi piuttosto grossi. Metteteli in unapadella, aggiungete un filo d’acqua e fate cuocere a fuoco basso per circa 20 minuti o finchésaranno teneri. Trasferite la zucca in una terrina, passatela con il mixer finché otterrete unapurea omogenea e tenete da parte. In una pentola fate tostare il riso in 2 cucchiai di olio,quindi aggiungete il vino bianco e fatelo evaporare completamente. Versate un mestolo dibrodo bollente e proseguite la cottura, unendo altro brodo solo quando il precedente è statodel tutto assorbito, mescolando spesso. Pochi minuti prima che il riso sia cotto, mettete la

purea di zucca e continuate a mescolare per non fare attaccare sul fondo. Quando il risottoè pronto togliete dal fuoco, aggiustate di sale, aggiungete i 2 cucchiai di olio restanti, ilparmigiano grattugiato e fate mantecare il tutto. Servite subito.

Questo risotto è davvero squisito: io ne chiedevo sempre una seconda porzione. Latradizione vuole che il soffritto per il risotto venga fatto con la cipolla: la mamma l’hasempre ignorata e con ragione, perché la cipolla involgarisce il sapore che risulterebbe“ordinario”, per dirla con le sue parole.

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Ris e ran(Il risotto con le rane)

Ingredienti

700 g circa di rane1 cucchiaio di olio4 cucchiai di burro2 cucchiai di prezzemolo tritato1 cipolla affettata sottilmente4 pugni di riso Carnarolisale

Preparazione

Procuratevi delle rane, pulitele buttando via i visceri, le zampe e la testa. Spellatele,lavatele e scottatele in acqua bollente. Con un coltellino molto affilato staccate le cosce etenetele da parte. Per preparare il brodo, pestate la parte rimanente delle rane in unmortaio, trasferite il ricavato in una pentola, versate 1 litro abbondante di acqua, salate efate bollire per 30 minuti circa. Spegnete e filtrate il brodo, separando la carne dal liquido.In una padella mettete a scaldare l’olio e 2 cucchiai di burro; quando cominciano a colorire,aggiungete 1 cucchiaio di prezzemolo. Unite le cosce e fatele insaporire senza che si

spappolino. Togliete dal fuoco. In una casseruola a parte rosolate il restante burro con lacipolla, gettatevi il riso e fatelo tostare, poi portatelo a cottura (circa 15-18 minuti)aggiungendo il brodo delle rane poco alla volta e solo quando il precedente è stato del tuttoassorbito, girando spesso. Poco prima di spegnere unite, mescolando delicatamente, lecosce. Servite subito il risotto spolverizzando ogni porzione con il prezzemolo rimasto.

Ricordo ancora con raccapriccio le bocche dei commensali, arricciate a cuore, mentretenevano delicatamente tra il pollice e l’indice le coscette microscopiche delle povere rane e lesucchiavano con avidità. Amavo le rane che trovavo sugli argini della risaia e le osservavo

saltellare con grazia, mentre allungavano a dismisura le zampette posteriori per prendere loslancio nel salto. Il loro “cra-cra-cra” era un concerto di gioia, un ringraziamento al Creatore che le aveva dipinte di un bel verde lucente. Qualche volta riuscivo a catturarneuna, la posavo sul palmo della mano e quella stava lì, buona e fiduciosa, aspettando ditornare a infrattarsi nell’erba bagnata. Le accarezzavo il capino con un polpastrello e misembrava bellissima. Solo gli adulti potevano essere così crudeli da volerla mangiare.

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Ris in cagnùn

Ingredienti

4 pugni di riso, tipo Superfino2 cucchiai di burrouna manciata di foglie di salviasale grosso

Preparazione

Mettete sul fuoco una pentola d’acqua: quando bolle versate un po’ di sale e gettatevi ilriso. Mescolate per non fare attaccare sul fondo e cuocete per almeno 16-18 minuti. Nelfrattempo, in un tegamino sciogliete il burro e fatelo soffriggere adagio insieme alle foglie disalvia finché queste ultime non sono croccanti. Scolate il riso al dente, trasferitelo in unaterrina e irroratelo con il condimento di burro e salvia. Mescolate e servite subito, bencaldo.

È un primo veloce, non molto salutare, ma tanto sfizioso. Lo preparo per me solamentequando mi sovrastano la nostalgia per la mia infanzia e la tenerezza per la bambina che eroe che per tanti anni avevo dimenticato.

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I conchiglioni di ricotta e spinaci

Ingredienti

500 g di spinaci freschi250 g di ricotta200 g di parmigiano grattugiatonoce moscata400 g di conchiglioniburrosale, pepe

er la besciamella alla maniera di mia madre1 litro di latte2-3 cucchiai di fecola di patate o di maizena2-3 cucchiai di parmigiano grattugiatonoce moscatasale, pepe

Preparazione

Preriscaldate il forno a 200 °C. Mondate e lavate molto bene gli spinaci, quindi gettateliin una pentola con pochissima acqua bollente e sale (così manterranno brillante il colore verde). Quando sono cotti scolateli, lasciateli raffreddare e strizzateli molto bene pereliminare tutta l’acqua in eccesso. Tritateli con la mezzaluna e trasferiteli in una terrina,quindi unitevi la ricotta, metà del parmigiano, un pizzico di noce moscata, un po’ di sale eun giro di pepe. Mescolate bene. Nel frattempo cuocete in abbondante acqua salata iconchiglioni e scolateli molto al dente, disponendoli ad asciugare su un canovaccio pulito.Preparate la besciamella: scaldate il latte in una casseruola e incorporate poco alla volta lafecola (o la maizena) che avrete precedentemente stemperato in una tazzina con un po’

d’acqua. A fine cottura, quando il composto è liscio e uniforme, aggiungete 2-3 cucchiai diparmigiano amalgamandolo bene, quindi un pizzico di noce moscata, sale e pepe.

Riempite ogni conchiglione con un poco dell’impasto di spinaci aiutandovi con uncucchiaino o con un sac à poche  senza beccuccio, poi ungete di burro una pirofila edisponetevi su più file la pasta. Versate sui conchiglioni la besciamella, cospargendo con ilrestante parmigiano, e fate gratinare in forno per almeno 15 minuti. Serviteli caldi.

Secondo la mamma, la besciamella tradizionale “si pianta sullo stomaco” e ci vogliono

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ore per digerirla. Per questo motivo la faceva con la fecola di patate, che è leggerissima e vabene anche per i bambini. Aveva eliminato la besciamella persino dalle lasagne, sia cheossero di carne, sia di verdura o al pesto. Anch’io le cucino senza questo ingrediente un po’ 

“ordinario”, per dirla con le sue parole, e garantisco che sono deliziose. Provare per credere.

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I secondi piatti

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Il lesso misto

Ingredienti

1 gallina da circa 1 kg1 lingua di manzo1 pezzo di biancostato1 cipolla2 carote3 chiodi di garofano1 foglia di alloro

1 gambo di sedanopepe nero in graniprezzemolosale

Preparazione

Pulite e mondate le verdure, steccate la cipolla con i chiodi di garofano e tenete da parte.Portate a bollore una pentola d’acqua: ricordate infatti che se volete un buon lesso occorrefar cuocere la carne in acqua già bollente, perché questo consente di mantenere morbido e

saporito il pezzo bollito. Nel frattempo fiammeggiate la gallina per togliere eventuali piumerimaste, sciacquatela bene e mettetela nell’acqua bollente insieme agli altri pezzi di carne.Aggiungete le carote, l’alloro, il sedano e la cipolla. Dopo pochi minuti di cottura sullasuperficie dell’acqua cominceranno ad affiorare le impurità sotto forma di schiumamarroncina: sono le proteine della carne coagulate per effetto del calore. Toglietele con unaschiumarola, quindi aggiungete il pepe in grani e una piccola manciata di sale.Incoperchiate e proseguite la cottura, a bollore leggerissimo, per almeno un paio d’ore.Quando la carne sarà cotta, prelevatela e tenetela da parte in caldo. Tagliate le varie carni apezzi, disponetele su un piatto da portata e servite subito, accompagnando a piacere con la

salsa verde o con le verdure bollite. Fate raffreddare bene il brodo: sulla superficie affioreràla parte grassa che formerà una patina, da togliere con la schiumarola. Potete consumare ilbrodo così sgrassato dopo averlo riscaldato, da solo oppure con l’aggiunta di pastina o diravioli.

Nel lesso misto la nonna aggiungeva la coda di manzo, che considerava un bocconerelibato. Io la rifiutavo, come rifiutavo la lingua, perché mi dava un senso di ribrezzo

mangiare la parte dell’animale attaccata al “sedere” e quella che si trovava all’interno della

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bocca. Rifiutavo anche l’estremità posteriore della gallina, che il nonno chiamava “il boccone del prete”, la testina di vitello, di cui gli altri erano ghiotti, e la vista dello zamponedi maiale mi dava conati di vomito. In famiglia dicevano che ero “smorbia”. La verità è chenon ho mai amato la carne. Invece mi piaceva moltissimo il pesce, e mi piace ancora.

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La salsa verde

Ingredienti

1 michetta (o altro tipo di pane) raffermalatte1 grosso mazzo di prezzemolo (almeno 100 g)qualche foglia di basilico1 cucchiaio di capperi sottacetoil succo di 1 limone1 cucchiaino di aceto bianco

olio d’olivasale

Preparazione

Mettete il pane in una scodella e bagnatelo con del latte per ammorbidirlo bene. Pulite ilprezzemolo, togliendo i gambi grossi e tenendo solo le foglie più tenere, quindi lavatelo,asciugatelo e versatelo in un mixer o in un frullatore. Frullate per qualche minuto, poiaggiungete il basilico e i capperi. Azionate il mixer ancora per qualche secondo, quindiunite il pane ammollato dopo averlo strizzato, e frullate fino ad amalgamare bene gli

ingredienti. Trasferite il tutto in una piccola terrina e aggiungete l’aceto e dell’olio a filo,mescolando delicatamente, quanto basta per ottenere una salsa liscia. Aggiustate di sale.

La nonna usava l’uovo sodo al posto del pane. La mamma sosteneva che l’uovo conferisseun sapore “ordinario”. Oggi continuo a preparare questa salsa verde cui aggiungo qualcheiletto di alice sott’olio per la mia nipotina, che la gusta spalmata su una fetta di pane.

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Il cappone con gli amaretti(Cappone di Natale)

Ingredienti

1 grosso cappone di circa 1,8 kg100 g di prosciutto crudo, tritato finemente1 manciata di amaretti sbriciolati2 cucchiai di pinoli tritati2 cucchiai di uva sultaninaprecedentemente ammollata e strizzata4 cucchiai di parmigiano grattugiato

2 cucchiai di prezzemolo tritatola mollica di un panino inzuppata nel latte e strizzatala scorza grattugiata di 1 limone non trattato4 cucchiai di pangrattato2 uovaun pizzico di noce moscatasale, pepe

er il brodo vegetale1 carota, 1 cipolla, 3 gambi di sedano,1 ciuffo di prezzemolo, sale

Preparazione

Pulite e svuotate delle interiora un bel cappone, disossatelo (oppure acquistatelo giàpulito e disossato) e poi fiammeggiatelo per togliere eventuali piume rimaste. Lavatelo easciugatelo, quindi preparate la farcia: in una terrina riunite il prosciutto, gli amaretti, ipinoli, l’uva sultanina, il formaggio, il prezzemolo tritato, la mollica di pane ben strizzata, lascorza grattugiata del limone e il pangrattato. Mescolate, unite le uova, aggiungete la noce

moscata, regolate di sale e di pepe e formate un impasto consistente. Introducete il ripienonel ventre del cappone, premendo bene; poi con ago e filo da cucina richiudete il cappone.Mettetelo in una pentola, copritelo di acqua fredda e unite la carota, la cipolla, il sedano e ilprezzemolo intero; salate e portate a bollore a fuoco basso. Cuocete a ebollizione leggera peralmeno 2 ore. A cottura ultimata togliete il cappone dal brodo, lasciatelo raffreddare 15minuti, tagliatelo a pezzi e servitelo accompagnandolo con il ripieno.

Il cappone con gli amaretti, i ravioli di carne e il panettone erano i pezzi forti del pranzo

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di Natale, durante il quale si mangiava e si beveva senza riguardo alla sobrietà checaratterizzava i costumi della famiglia. Quando mi mettevano sul piatto una fetta dicappone farcito, lasciavo la carne e mangiavo il ripieno di cui ero ghiotta. Il mio papà

rendeva la carne dal mio piatto e mi dava tutto il suo ripieno. Veniva accompagnato con lamostarda di Cremona fatta in casa. Era pessima, e io lasciavo anche quella. Dopo il primo,con i ravioli in brodo, ero già beatamente stordita, perché il nonno aveva versato nella mia

ondina uno spruzzo di brunello. Ricordo che la nonna e la mamma iniziavano a prepararequesto grande pranzo alcuni giorni prima del 25 dicembre tra battibecchi furibondi, perché la nonna voleva seguire la tradizione, mentre la mamma amava apportare innovazioni.Litigavano anche perché la mamma voleva ospitare a pranzo un “martinitt” (un orfanoscelto a caso in una gloriosa istituzione milanese da cui sono usciti alcuni personaggidivenuti poi famosi nel mondo, come Angelo Rizzoli), mentre la nonna non voleva “estraneiin casa”. La mamma amava ospitare sconosciuti e nutrirli con quanto aveva di meglio. Piùdi una volta il papà, mio fratello e io ci siamo ritrovati all’improvviso a spartire il pranzocon vecchine derelitte che puzzavano, monache che chiedevano la carità, giovani mormoni

in cerca di proseliti, vagabondi un po’ avvinazzati. Andandosene, gli ospiti la riempivano dibenedizioni. Lei era felice, noi un po’ meno. Una volta sparì dal cassetto del comò il suoanello di fidanzamento con un bellissimo brillante paglierino. Il papà era sicuro che fossestato uno dei suoi “barboni” a rubarlo. Sparì anche una bella spilla d’oro giallo, a forma diconchiglia, su cui spiccava una perla giapponese notevole. La mamma non smise per questodi ramazzare gente per la strada.

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Gli uccellini scappati

Ingredienti

8 fettine di fesa di vitello o di lonza di maiale tagliate sottili100 g di pancetta tesa, in un’unica fetta100 g di pancetta arrotolata, affettata16 foglie di salvia3 cucchiai di burro1 bicchiere di vino bianco seccobrodo (facoltativo)

sale, pepePreparazione

Tagliate a dadini la pancetta tesa. Battete le fettine di carne, appiattitele leggermente estendete su ognuna una fetta di pancetta arrotolata e una foglia di salvia. Avvolgete la carnein modo da formare un involtino e infilatene due su un lungo spiedino di legno, mettendotra l’uno e l’altro una foglia di salvia e un dadino di pancetta. Proseguite così collocandodue involtini su ogni spiedino. Quando saranno pronti, trasferiteli per la cottura inun’ampia padella nella quale avrete messo a fondere il burro: quando sarà spumeggiante,

adagiate gli spiedini e fate rosolare a fuoco vivace su entrambi i lati. Salate, pepate, sfumatecon il vino e lasciate evaporare il liquido. Se necessario, perché non si attacchino sul fondo,aggiungete qualche cucchiaio di brodo bollente. Rivoltateli delicatamente: gli “uccelliniscappati” saranno pronti in 15-20 minuti. Servite ben caldo.

Nel mio dialetto questi involtini si chiamano “üsej scapà” e il nome è stato italianizzatoin “uccelli scappati”. Ma non sono affatto fuggiti via, tant’è che sono lì nel piatto, affogati nel loro squisitissimo sugo, e si mangiano con la polenta. Sono invece “scapati”, nel senso chenon hanno il “capo”. In famiglia si aggiungeva un altro ingrediente, la salsiccia, tagliata a

dadini come la pancetta. Le donne di casa preparavano gli ingredienti e poi mi ordinavano:«Falli tu, che hai le dita piccoline». La lonza di maiale, la pancetta tesa e la salsiccia eranotagliate a dadini. Munita di stuzzicadenti infilzavo, alternandole, lonza, pancetta, salsicciae una foglia di salvia. Premevo bene gli ingredienti, così che su ogni stecchino risultasseroalmeno due file di carni diverse. Durante il pranzo tralasciavo la pancetta, ma apprezzavola lonza e la salsiccia. Anche qui venivo gratificata con l’appellativo di “smorbia”. Quando,raramente, mangio carne, non riesco a farmi piacere il suo grasso.

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Gli involtini al prosciutto crudo

Ingredienti

16 olive verdi denocciolate8 dadini di parmigiano8 fettine di fesa di vitello, tagliate sottili8 fettine di prosciutto crudo, tagliate sottili3 cucchiai di olio2 bicchieri di vino biancosale, pepe

Preparazione

Tagliate le olive a metà incidendole per il lungo, quindi ricomponete le due metàinserendo all’interno un dadino di parmigiano. Disponete l’oliva “farcita” su una fetta di vitello, quindi arrotolate la carne intorno e poi a sua volta avvolgete l’involtino con una fettadi prosciutto crudo. Fermate con un paio di stuzzicadenti o spiedini di legno e trasferite inuna padella unta di olio caldo. Cuocete a fuoco vivo, rosolate bene da ambo i lati la carnerivoltandola delicatamente e sfumate con il vino lasciando evaporare il liquido. Salate,pepate, abbassate la fiamma e incoperchiate per proseguire la cottura. Gli involtini saranno

pronti in circa 20 minuti. Al momento di servire, sfilate delicatamente gli stuzzicadenti (ogli spiedini) e portate in tavola accompagnando con purè di patate e condendo la carne conil fondo di cottura.

Quand’ero bambina non si vendevano le fettine di carne, ma il pezzo intero che poi, acasa, le donne tagliavano come volevano. La mamma affettava la polpa di vitello con unalama affilatissima e ne ricavava fette sottili come un’ostia, ottenendo così, una voltacucinati, involtini della dimensione di un’albicocca. Io non riesco ad avere coltelli tantotaglienti, perché non so affilarli con l’acciarino come faceva lei, e così mi servo del vitello già

tagliato per il carpaccio. Come la mamma, preparo tantissimi involtini, a volte più di venti,erché posso conservarli in frigorifero per due o tre giorni. La preparazione di questi

involtini è un po’ lunga, ma mi sorregge il piacere di mettere in tavola qualcosa di davveroustoso. Li accompagno a un vino bianco profumato, come per esempio il Soave Bolla.

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Le scaloppine al marsala

Ingredienti

4 scaloppine di vitello1 pugno di farina3 cucchiai di burro1/2 bicchiere di marsala seccosale

Preparazione

Fate sciogliere il burro in una padella, salate e infarinate le fette di carne e mettetele arosolare girandole da entrambi i lati. Quando sono quasi cotte, innaffiatele con il marsala elasciate insaporire a fuoco alto per qualche minuto, finché il vino non si sia ridotto un po’.Trasferite le fettine su un piatto da portata, ma aggiungete qualche cucchiaio d’acqua alfondo di cottura nella padella. Mescolate e amalgamate bene, poi versate la salsa sopra lescaloppine, da servire ben calde.

Le scaloppine che facevano sia la mamma sia la nonna erano così tenere che siscioglievano in bocca. Qualche volta, al posto del marsala usavano il vino bianco secco e il 

succo di un limone. Io le preparo in questa versione e le apprezzo di più, perché quelle con il marsala conservano un retrogusto dolce che mi piace meno.

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Il viteltonnè

Ingredienti

un pezzo di fesa di vitello (noce, magatello o girello) di 1 kg circauna bottiglia di vino bianco secco2 foglie di alloro3 chiodi di garofano1 rametto di salvia1 gambo di sedano, a tocchetti6 acciughe sotto sale

300 g di tonno sott’olio, sgocciolatoi tuorli di 3 uova sode1 manciata di capperi sottaceto, finemente tritati1 cucchiaio di aceto biancoil succo di 1 limone1/2 bicchiere di oliosale

Preparazione

Il giorno prima mettete a marinare la carne in un’ampia terrina con il vino bianco, lefoglie di alloro, i chiodi di garofano, la salvia e la costa di sedano a tocchetti, e tenete infrigorifero per almeno 24 ore. Per la cottura, togliete la carne dal frigorifero, sgocciolatelabene e ponetela in una casseruola coprendola, dopo averlo filtrato, con il vino dellamarinata e aggiungendo acqua fredda, quanto basti perché la carne risulti coperta. Uniteun po’ di sale e portate a bollore, ben coperto, a fuoco moderato per almeno 1 ora.Aggiungete 2 acciughe, lavate e diliscate, e proseguite la cottura per altri 30 minuti: il brododovrà ridursi a mezzo litro circa. Fate raffreddare e filtrate il brodo. Passate in un frullatoreo al passaverdura le restanti acciughe con il tonno e i tuorli sodi e trasferite il tutto in una

piccola terrina. Aggiungete i capperi tritati, l’aceto e il succo del limone, incorporando a filol’olio. Mescolate delicatamente e diluite la salsa con un poco di brodo. Affettate sottilmentela polpa di vitello, ormai fredda, disponetela su un piatto da portata e copritela con la salsa.Servite a temperatura ambiente. In alternativa ai tuorli d’uovo potete usare la maionese,mescolandola delicatamente al tonno passato al setaccio con gli altri ingredienti. In questocaso trasferite la preparazione in frigorifero fino al momento di servire.

Io preferivo la salsa tonnata alla carne sottostante. Preparando il viteltonnè, la nonna

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metteva da parte un’aggiunta di salsa che poi versava direttamente nel mio piatto.

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La “cervèla” fritta

Ingredienti

300 g di cervella di vitello2 pugni di farina2 uovapangrattatoabbondante olio per friggeresale

Preparazione

Pulite le cervella dalle pellicole che le rivestono, se necessario sciacquando sotto un gettod’acqua. Asciugatele con carta da cucina, quindi tagliatele a pezzi; infarinateli, passatelinelle uova, precedentemente sbattute, e poi nel pangrattato. In una padella scaldate l’olio e,quando è bollente, mettetevi a friggere i pezzi di cervella finché non abbiano preso un belcolore dorato. Con una schiumarola trasferiteli a scolare su carta da cucina per toglierel’olio in eccesso, salate e serviteli ben caldi.

Le cervella, come il midollo, sono un attentato alla salute. Eppure la mamma era

convinta che questa bomba di colesterolo mi avrebbe aiutata a crescere bene. Ogni volta cherifiutavo un cibo cucinato da lei, come la “cervèla”, diventava una furia, diceva che eroun’ingrata e che Dio mi avrebbe punita. Ora capisco che respingere alcune cose che lei avevacucinato con amore era come disprezzare le sue attenzioni.

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L’uovo con gli asparagi

Ingredienti

1 mazzo di asparagi di circa 1 kg4 cucchiani di burro4 uova4 cucchiaini di parmigiano grattugiatosale

Preparazione

Per questa ricetta consiglio di usare gli asparagi milanesi: hanno la punta di colore verdetenero tendente al violaceo, e sono grossi e morbidi. Preparateli per la cotturapareggiandone la base, raschiandoli con un coltellino per togliere la parte terrosa. Passatelisotto l’acqua, legateli in mazzetti non troppo grandi e metteteli a cuocere in piedi,possibilmente in una pentola stretta (meglio ancora in quella apposita con cestello disostegno), immersi nell’acqua fino a metà gambo, affinché le punte cuociano a vapore emantengano la loro integrità. A cottura avvenuta (il tempo varia dai 12-15 minuti per gliasparagi piccoli a 18-20 per quelli più grossi), scolateli e disponeteli a raggiera su ognipiatto, possibilmente ovale, con le punte al centro e cospargeteli di parmigiano. Nel

frattempo cuocete nel burro le uova al tegamino (“in cereghìn”), salatele e versatele sugliasparagi: il condimento dev’essere caldissimo per sciogliere e legare il formaggio chericopre gli asparagi. Perché le uova possano scendere sugli asparagi senza rompersi sarebbemeglio usare l’apposito padellino con i bordi molto svasati.

L’uovo con gli asparagi era il piatto forte delle domeniche di maggio. La mamma,solitamente parsimoniosa nell’uso degli ingredienti, questa volta abbondava in burro e

armigiano. Io inzuppavo il pane nel tuorlo intriso di burro e alla fine ripulivo così bene il iatto che la mamma diceva: «Potrei evitare di lavarlo».

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La frittata con le punte d’ortica

Ingredienti

1 mazzo di punte (germogli) di ortica6 uova3 cucchiai di parmigiano grattugiato1 cucchiaio di burrosale

Preparazione

Raccogliete le ortiche (cresciute possibilmente lontano dal bordo della strada) usandodei guanti di lattice. Mondatele e lavatele (quando è lavata quest’erba perde il suo potereurticante), quindi tritate le punte (o germogli). Portate a ebollizione una pentola d’acqua,gettatevi le ortiche e riportate a bollore per pochi minuti: le punte devono essere cotte manon disfatte. Scolatele e lasciatele raffreddare. In una terrina mettete le uova, il parmigiano,un pizzico di sale e sbattete fino ad amalgamare bene il tutto. Unite le punte di ortica emescolate bene. Fate sciogliere il burro in un’ampia padella antiaderente, versatevi ilcomposto di uova, coprite con un coperchio e cuocete a fuoco lento per almeno 10 minuti.Aiutandovi con il coperchio, girate dall’altra parte la frittata e cuocete per altri 2 minuti.

Trasferitela su un piatto da portata, tagliatela a spicchi e servitela ben calda.

 Alla frittata con le punte d’ortica associo ogni volta il nome di Liz Taylor e, subito dopo,quello di una nostra vicina di casa che si vantava di assomigliarle tantissimo. Per questovezzo innocente, il circondario si burlava di lei e la mamma, che quanto a soprannomi erauna campionessa, la ribattezzò «la signora Liza-bellita-bettèu». Io, che non sapevo, credevoche si chiamasse davvero così.

Una volta si ammalò e la mamma, soccorrevole come sempre, mi mandò da lei a portarlela cena. Entrai a casa sua e, da bambina bene educata, dissi: «Le ho portato la frittata con le

unte d’ortica. Come sta, signora Liza-bellita-bettèu?».«Come mi hai chiamata?», domandò lei, che era a letto e mi scrutava con i suoi bellissimi

occhi blu che spiccavano sul volto rugoso.«Con il suo nome», risposi tranquilla.«Ripetilo», mi ingiunse.«Signora Liza-bellita-bettèu», ripetei.Lei allungò una mano a ricevere il piatto e rise.«Non trovi che io abbia un nome bellissimo?», affermò compiaciuta.

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Da quel giorno si presentò così a chi non la conosceva: «Piacere. Io sono la signoraLizabellitabettèu».

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Le crocchette di patate

Ingredienti

1 kg di patate farinose1-2 uova3 cucchiai di parmigiano grattugiato1 cucchiaino di zuccherola scorza grattugiata di 1 limone non trattato1 cucchiano di prezzemolo tritatopangrattato

abbondante olio (oppure burro) per friggeresale

Preparazione

Lavate le patate e mettetele a lessare con la buccia in acqua fredda salata per almeno 40minuti. Una volta cotte, scolatele e lasciatele intiepidire un poco per poterle maneggiarefacilmente, quindi sbucciatele. Passatele ancora tiepide in uno schiacciapatate e fate caderela purea in una terrina. Aggiungete l’uovo (oppure tutti e due, se le patate sono moltofarinose), il parmigiano, il sale, lo zucchero, la scorza di limone e il prezzemolo. Mescolate il

tutto con un cucchiaio di legno finché otterrete un impasto omogeneo e, aiutandovi con lemani, prendetene un po’ per volta formando delle palline, schiacciandole per ottenere dellepolpettine cilindriche. Passatele nel pangrattato e preparate così tutte le crocchette fino aesaurimento del composto. In una padella scaldate abbondante olio per friggere, quindituffatevi 3-4 crocchette per volta. Quando saranno ben dorate su tutta la superficieprelevatele con una schiumarola e mettetele a scolare su un piatto rivestito di carta dacucina. Servite le crocchette ben calde.

La nonna le friggeva nel burro, quello che facevo io con la panna fresca e che conservava

al suo interno qualche traccia di latticello. Friggendo, il burro sparava pallottole arroventatee per questo la nonna mi allontanava dai fornelli.

Quand’ero convalescente da qualche malanno e bisognava “tirarmi su” perché erodeperita, la mamma mi dava da bere il brodo di carne molto ristretto con qualche cucchiaiodi vino rosso e la nonna mi offriva un bel piatto di crocchette, che io divoravo dopo aver rifiutato il cibo per giorni. Quelle crocchette che si scioglievano in bocca rilasciando sapore econsistenza, senza la fatica di masticare la carne che era spesso dura come una suola discarpa, mi facevano sentire in paradiso.

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I perini verdi fritti

Ingredienti

8 pomodori perini San Marzano verdi1 cucchiaio di zucchero100 g di farina2 uovapangrattatoolio per friggere (oppure burro)sale

Preparazione

Lavate i pomodori e tagliateli nel senso della lunghezza in 4 fette (se la polpa fosseacquosa disponeteli su uno scolapasta o una gratella, salateli e lasciateli così per circa 30minuti in modo che perdano parte dell’acqua di vegetazione). Spolverizzate le fette dizucchero, passatele una alla volta nella farina, quindi immergetele prima nelle uova,precedentemente sbattute, e poi nel pangrattato. In un’ampia padella scaldate abbondanteolio (oppure burro) e quando è bollente friggete i pomodori finché saranno dorati daentrambi i lati. Disponete le fette su fogli di carta da cucina per togliere l’unto in eccesso,

salate e servite subito.

Diversi anni fa riscosse tanto successo un bellissimo film americano intitolato Pomodori verdi fritti alla fermata del treno. Quando lo vidi dissi a mio marito: «I perini verdi fritti li

aceva già la mia nonna». E lui, sarcastico come sempre, replicò: «Si vede che gli americanihanno copiato la sua ricetta».

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La parmigiana di melanzane

Ingredienti

8-10 melanzaneabbondante olio per friggereabbondante parmigiano grattugiatosalsa di pomodoro salata (preparata in precedenza)qualche foglia di basilico2 mozzarelle, tagliate a fettine sottilisale grosso

Preparazione

Mondate le melanzane, lavatele e tagliatele a fette per il lungo. Mettetele in unoscolapasta, grande abbastanza per contenerle tutte, disponetele a strati e cospargete ognistrato di sale grosso. Copritele con un piatto o un coperchio e mettetevi sopra un pesoaffinché restino ben pressate. Lasciatele riposare per almeno un’ora, in modo che possanoespellere buona parte del liquido amarognolo che le caratterizza. Trascorso il temponecessario, sciacquatele sotto l’acqua corrente e asciugatele bene.

In una padella fate scaldare abbondante olio e, quando è bollente, friggetele finché

saranno dorate su entrambi i lati, poi adagiatele su un foglio di carta assorbente per toglierel’olio in eccesso. Ungete con un filo di olio il fondo di una pirofila, cospargetelo con un po’di salsa di pomodoro, poi iniziate a disporre un primo strato di melanzane una di fiancoall’altra, senza sovrapporle. Versate un po’ di sugo, stendendolo uniformemente, poispolverizzate con il parmigiano grattugiato e aggiungete qualche foglia di basilico e dimozzarella. Continuate con altri strati procedendo allo stesso modo, fino all’esaurimentodegli ingredienti. L’ultimo strato deve essere solo di salsa di pomodoro e abbondanteparmigiano. Infornate a 200 °C per almeno 40 minuti o finché sulla superficie saràcomparsa una crosticina dorata. Potete servire questa pietanza sia calda sia a temperatura

ambiente.

Nella parmigiana di melanzane la mamma aggiungeva anche la mozzarella tagliata aettine sottilissime o a dadini. Quanto al basilico, ne usava tantissimo. Io continuo arepararla allo stesso modo. Credo che le melanzane della mia infanzia fossero di gran

lunga più saporite di quelle che si acquistano oggi al supermercato. Il giorno dopo lamamma riduceva a dadini la parmigiana avanzata e ci condiva la pasta.

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I dolci

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La rossumata

Ingredienti (per 1 persona)

1 uovo1 cucchiaio di zucchero1/2 bicchiere di Barbera d’Asti Cascina Castlètsale

Preparazione

Separate il tuorlo dall’albume e tenete quest’ultimo da parte in una piccola terrina. Inuna tazzina piuttosto larga sbattete il tuorlo con lo zucchero, finché otterrete una cremagonfia e morbida. Quindi montate a neve ferma l’albume con un pizzico di sale,incorporatelo con delicatezza al tuorlo e quando il tutto sarà ben amalgamato aggiungete il vino, mescolando piano.

Potete accompagnare con pezzetti di pane secco, da intingere nella crema.

Da bambina avevo imparato a fare questa crema corroborante, che mi piaceva tanto.Ora non la preparo più da anni.

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Il croccante di albicocche

Ingredienti

300 g di zucchero300 g di noccioli di albicocche

Preparazione

Se mangiate le albicocche, tenetene da parte i noccioli: quando ne avrete un belquantitativo, rompeteli con lo schiaccianoci ed estraetene il seme, che assomiglia a unapiccola mandorla. Allora potete preparare il croccante. Sbollentate le “mandorle”buttandole in acqua bollente per alcuni secondi: scolatele e togliete le pellicine. Asciugatelecon la carta da cucina e disponetele in una placca da forno. Infornate a 180 °C affinché sitostino senza però scurirsi. Versate lo zucchero in una pentola e fatelo fondere a fuocobasso aggiungendo qualche cucchiaio d’acqua: quando sarà sciolto completamente e avràassunto un bel colore ambrato, spegnete il fuoco e incorporate le “mandorle”, mescolandoper amalgamare bene. Versate immediatamente il composto su un piano da lavororicoperto di carta forno, livellandolo con la lama di un coltello per dargli lo spessoredesiderato. Fate raffreddare.

Noi avevamo una pianta di albicocche molto generosa, che ci dava frutti dolcissimi.Poiché per una legge di famiglia non scritta nulla doveva essere buttato, conservavamo viavia i noccioli. D’inverno bruciavamo i gusci nel camino.

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L’omlètconfitü(L’omelette alla marmellata)

Ingredienti (per 1 persona)

1 uovo1 noce di burrola scorza grattugiata di 1/2 limone non trattato2 cucchiai di marmellata di ciliegie2 foglie di menta per guarniresale

Preparazione

In un piatto fondo sbattete l’uovo con il sale. Nel frattempo fate fondere il burro in unapadellina antiaderente, versate l’uovo e fate una frittatina. Quando comincia arapprendersi, mettete al centro la marmellata, richiudete i lembi fino a formare una speciedi grosso cannolo e portate a cottura. Fate scivolare l’omelette su un piatto e guarnite condue foglioline di menta fresca.

L’omelette alla marmellata, che chiamavamo “omlètconfitü”, veniva servita comesecondo piatto e farcita con tanta marmellata. Mi inorgogliva sapere che la marmellata,

seppure con l’aiuto della nonna, l’avevo fatta io. Mi guardavo bene però dall’esternarel’orgoglio, sapendo che avrei rimediato un rimprovero o, peggio ancora, una sberla.

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Le finte uova in cereghino (al tegamino)

Ingredienti

12-16 biscotti tipo Pavesini1/2 bicchiere di marsala seccooppure 2 tazzine di caffè forte1 bicchiere di panna da montare4 mezze albicocche sciroppate

Preparazione

In ogni piattino mettete 3 o 4 biscotti e irrorateli con il marsala (o con il caffè). Montateben ferma la panna e coprite i biscotti con uno strato sottile ma compatto, a imitarel’albume rappreso. Sistemate al centro mezza albicocca: sembrerà il tuorlo dell’uovo.

Quando il piatto viene servito, in un primo momento l’ospite crederà di avere davanti unuovo al tegamino.

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I funghetti di pere

Ingredienti

8 pere piccole, tutte con il picciolo1 bicchiere di vermouth bianco3 cucchiai di zucchero1 baccello di vaniglia8 amaretti

er la glassa100 g di cioccolato fondente3 cucchiai di panna fresca

Preparazione

Lavate le pere e sbucciatele, facendo attenzione a non staccare il picciolo. Sistematele inuna casseruola in modo tale che stiano in piedi e vicine. Versate il vermouth, lo zucchero eil baccello di vaniglia, coprite e cuocete a fuoco basso finché saranno cotte. Togliete le peredalla casseruola e trasferitele, sempre sistemandole in piedi, su un piatto da portata.Ammorbidite gli amaretti nel liquido di cottura una volta intiepidito, e infilateli

delicatamente a uno a uno sui piccioli, quasi a formare la cappella di un fungo. Per laglassa, mettete il cioccolato spezzettato e la panna in una piccola terrina e appoggiatela suuna pentola con acqua bollente per sciogliere il tutto a bagnomaria. Irrorate infine gliamaretti con la glassa al cioccolato: le pere sembreranno in realtà invitanti funghi porcini.

La mamma preparava questo dessert autunnale una sola volta all’anno, per Sant’Ambrogio, un santo al quale il mio papà era particolarmente devoto e, nellaraduatoria dei preferiti, veniva secondo dopo Sant’Antonio da Padova.

Una volta dissi a Giannina, la mia compagna di banco che era venuta a trovarmi: «Oggi,

a pranzo, la mia mamma ha fatto i funghetti di pere». Il papà mi corresse e mi spiegò che il asto del mezzogiorno si chiamava colazione e il pranzo era quello della sera.«E la cena?», domandai. Mi chiarì che la cena era un’usanza che si andava perdendo, perché erano pochi quelli

che cenavano al dopo-teatro.Per Sant’Ambrogio avevo il permesso di bere il caffè a fine pasto. La mamma usava

quello della Illy, sostenendo che era il migliore. Me lo zuccherava bene e mi piaceva. Diceva

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erò che il caffè non fa bene ai bambini, perché li eccita. Il vino, invece, “fa sangue” e miveniva offerto ogni sera allungato con l’acqua.

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Le pesche al forno con gli amaretti

Ingredienti

4 pesche4 cucchiai di burro1 manciata di mandorle spellate1 manciata di amaretti6 cucchiai di zucchero1 cucchiaio di cacao in polvere1 bicchiere di vino moscato

Preparazione

Preriscaldate il forno a 200 °C. Lavate bene le pesche sotto l’acqua per eliminare lapeluria e dividetele a metà, togliendo il nocciolo. Con uno scavino allargate un po’ la cavitàe conservate la polpa in una scodella. Disponete le mezze pesche in una pirofila unta conun cucchiaio di burro. Tritate finemente le mandorle e gli amaretti e metteteli in una terrinainsieme alla polpa che avete tenuto da parte; unite 4 cucchiai di zucchero e il cacao emescolate bene. Con questa miscela riempite le pesche, bordo compreso, e ponete al centrodi ognuna il burro rimasto, a fiocchetti. Irrorate il tutto con il vino, spolverizzate con il

restante zucchero e infornate per 30 minuti circa, finché le pesche risulteranno dorate.Servite a temperatura ambiente.

Era un dolce estivo, perché le pesche si trovavano solo nei mesi più caldi. Ai miei tempi(nel Paleolitico) si mangiavano soltanto frutta e verdura di stagione. Ho conservato questabuona abitudine. Rifiuto anche la frutta esotica e trasgredisco alla regola unicamente con gliananas, che apprezzo quando sono dolci e succosi.

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La torta di pane

Ingredienti

250 g di pane raffermolatte1 uovo6 cucchiai di zucchero4 cucchiai di cacao in polvere2 cucchiai di uva sultanina, precedentemente ammollata e strizzata1 manciata di nocciole tritate grossolanamente

1 manciata di noci tritate grossolanamente2 cucchiai di marmellata a piacereburrofarinazucchero a velo per decorare

Preparazione

Preriscaldate il forno a 180 °C. In una terrina ammollate il pane in tanto latte tiepidoquanto basta perché sia assorbito del tutto, poi mescolate con vigore con un cucchiaio di

legno per ottenere un impasto omogeneo. Aggiungete l’uovo, lo zucchero, il cacao,mescolando sempre, poi unite anche l’uva sultanina, il trito di frutta secca e la marmellata.Amalgamate bene gli ingredienti, quindi trasferite il tutto in una tortiera imburrata einfarinata. Infornate e cuocete per 30-40 minuti. Togliete dal forno e fate raffreddare suuna gratella, quindi sformate e spolverizzate la superficie con zucchero a velo.

Era un’altra specialità della mia nonna. La mamma non l’ha mai fatta, io ci ho provatoqualche volta, ma non mi è mai venuta buona come la sua.

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Il castagnaccio

Ingredienti

500 g di farina di castagne100 g di uva sultanina4 cucchiai di olio1 manciata di pinolirosmarinosale

Preparazione

Preriscaldate il forno a 190 °C. Lavate l’uva sultanina e mettetela ad ammorbidire inacqua tiepida per almeno 15 minuti. In una terrina setacciate la farina di castagne perchénon rimangano grumi, unite un pizzico di sale e, mescolando con un cucchiaio di legno,aggiungete 2 cucchiai d’olio e, a mano a mano, tanta acqua quanta ne serve per ottenereuna pastella morbida e liscia. Ungete con un cucchiaio d’olio uno stampo da forno daibordi bassi e versate il composto, livellatelo bene e poi cospargetelo con i pinoli, l’uvasultanina, dopo averla ben strizzata e asciugata, e gli aghi del rosmarino. Irrorate con ilrestante olio. Infornate per circa 40 minuti o finché sulla superficie si sarà formata una

crosticina croccante. Servite sia caldo sia a temperatura ambiente.

Prima di andare a scuola, la mamma metteva nella mia cartella la merenda delle 10 del mattino. Di solito era una michetta con burro e zucchero, oppure con il cioccolato fondenteLindt.

D’inverno, due volte su tre mi ritrovavo nella cartella una bella fetta di castagnaccio.Ogni tanto lo scambiavo con il panino al prosciutto cotto della mia compagna di banco, cheera golosa di castagnaccio ma non aveva una nonna che lo preparasse.

Quando andai alle medie, la nonna aveva smesso di fare il castagnaccio e, d’inverno, ne

acquistavo una fetta dal “Gigi della gnaccia”, un ambulante che sostava con il suo carrettinodavanti alla scuola.

Una volta ero senza soldi e domandai: «Gigi, me la regali una fetta?».Lui, con fare serioso, promise: «Te la regalerò la prima domenica che non è festa». Mi ci volle un po’ per capire che non me l’avrebbe mai offerta gratis.

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Lo strudel di mele

Ingredienti

1 confezione di pasta sfoglia già pronta4 mele renette1 manciata di uva sultanina1 cucchiaio di pinoli1 cucchiaino di cannella in polvere2 cucchiai di burro1 tuorlo battuto

Preparazione

Preriscaldate il forno a 180 °C. Mettete a bagno l’uva sultanina in acqua tiepida peralmeno 15 minuti, toglietela, strizzatela bene e tenetela da parte. Sbucciate le mele, togliete iltorsolo e tagliatele a fettine piuttosto sottili. Tenetele da parte. Fate sciogliere il burro inun’ampia padella, versatevi le mele e fatele cuocere dapprima a fuoco basso e poi vivace,così che si asciughino della loro acqua. Mescolate bene finché otterrete una specie di purea,quindi aggiungete l’uva sultanina, i pinoli e la cannella. Lasciate raffreddare. Stendete lapasta sfoglia su un piano da lavoro, rivestito di carta da forno, spianatela bene con l’aiuto di

un matterello e versatevi sopra il composto di mele, quindi arrotolatela con l’aiuto dellacarta da forno, che sfilerete a mano a mano che procedete. Chiudete facendo attenzione anon lasciare i bordi aperti. Trasferite il dolce su una placca da forno antiaderente.Spennellate con il tuorlo d’uovo la parte superiore dello strudel: serve a sigillarlo bene e aconferire un bel colore dorato a cottura ultimata. Infornate per 30-40 minuti. Servitetiepido.

Lo strudel di mele è un dolce adatto ai bambini, ma piace a tutti e non ho mai smesso direpararlo. È tra i dessert preferiti da mio figlio, per il quale ne confeziono in quantità

industriali. Lui lo conserva nel freezer dopo averlo affettato, e lo consuma giorno per giorno.

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La zuppa inglese

Ingredienti

200 g di pan di Spagna o di biscotti savoiardialchermes o rum

er la crema pasticcera2 tuorli d’uovo2 cucchiai di zucchero1 cucchiaio di fecola di patate1/2 litro di latte1 baccello di vanigliaciliegie candite per decorare (facoltativo)

Preparazione

Per la crema pasticcera: in una casseruola sbattete con un cucchiaio di legno i tuorli conlo zucchero e la fecola. Mescolate bene finché otterrete una crema morbida e liscia. A partefate bollire il latte con il baccello di vaniglia: quando è pronto, toglietelo e versate il lattetiepido, poco alla volta, nella casseruola dove sono state lavorate le uova. Ponete sul fuoco

mescolando in continuazione con il cucchiaio di legno, facendo attenzione perché non alziil bollore. Quando, sollevando il cucchiaio, risulta rivestito di uno strato vellutato, la cremaè cotta. Disponete sul fondo di una pirofila o di un piatto da portata uno strato di pan diSpagna tagliato a fette spesse 3 cm circa (oppure di savoiardi), bagnatelo con il liquorescelto, copritelo con un po’ di crema, distribuendola bene, quindi con altre fette di pan diSpagna (o di biscotti) e così fino al termine degli ingredienti. L’ultimo strato dovrà essere dicrema. Decorate a piacere con ciliegie candite.

La mamma preparava la zuppa inglese solo quando avevamo ospiti. Quand’ero

bambina ne facevo scorpacciate e dopo mi addormentavo, un po’ stordita dall’alcol checonteneva. In seguito l’ho fatta raramente, sostituendo il rum o l’alchermes con il caffè,erché sono diventata astemia. Soltanto in compagnia di amici mi concedo mezzo bicchiere

di vino che, quando è di ottima qualità, mi piace.

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Il tiramisù o Dolce al mascarpone

Ingredienti

1 scodella di caffè forte2 uova400 g di mascarpone4 cucchiai di zucchero24 biscotti savoiardicacao in polveresale

Preparazione

Preparate il caffè e lasciatelo raffreddare. Separate i tuorli dagli albumi: sbattete i primicon lo zucchero, quindi montate a neve ben ferma gli albumi, con l’aggiunta di un pizzicodi sale. Amalgamate ora il mascarpone ai tuorli e quindi incorporatevi delicatamente glialbumi, mescolando dal basso verso l’alto per non farli smontare, finché otterrete unacrema liscia e densa. Adagiate uno strato di savoiardi in una teglia quadrata o rettangolare.Irrorateli con metà del caffè, copriteli con metà della crema al mascarpone e spolverizzatecon un po’ di cacao. Quindi procedete con il secondo strato di biscotti, inzuppateli di caffè e

ricopriteli con la restante crema. Spolverizzate di nuovo con il cacao e mettete in frigoriferoper qualche ora.

Questo dessert al cucchiaio è velocissimo da preparare. Il caffè deve essere eccellente,erché quello di qualità scadente ne compromette il gusto. Io, come un tempo faceva la

mamma, uso il caffè Illy. “Tiramisù” è un nome acquisito più tardi, perché noi lochiamavamo “dolce al mascarpone”. Il mascarpone mi piaceva molto e la mamma, a volte,me lo serviva in una tazzina con l’aggiunta di qualche cucchiaio di caffè e poco zucchero:mescolava il tutto energicamente e io lo mangiavo con il pane.

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La mousse al cioccolato

Ingredienti

400 g di cioccolato fondente4 dl di panna fresca4 uova4 cucchiai di zuccherosale

Preparazione

Fate fondere a bagnomaria il cioccolato, con l’aggiunta di 3 cucchiai d’acqua ogni 100 gdi cioccolato. Separate i tuorli dagli albumi, quindi in una terrina sbattete i tuorli con lozucchero fino a ottenere una crema chiara e spumosa. Quando il cioccolato sarà sciolto,togliete dal fuoco e aggiungete la crema di uova e zucchero, mescolando bene. Fateraffreddare e montate la panna ben soda. Montate a neve fermissima anche gli albumi, conl’aggiunta di un pizzico di sale. Amalgamate il cioccolato fuso con la panna montata e poicon gli albumi, mescolando delicatamente dal basso verso l’alto per non rompere le bolled’aria che gli albumi hanno inglobato. Dividete la mousse nelle coppette e lasciatele infrigorifero per una notte.

È un dolce al cucchiaio davvero squisito. Mio figlio lo definiva «la prova certadell’esistenza di Dio». Ho sempre usato il fondente Lindt ma, di recente, ho scoperto il Domori, che è altrettanto eccellente.

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Elenco delle ricette

Il cappone con gli amaretti (Cappone di Natale)Il castagnaccioLa “cervèla” frittaI conchiglioni di ricotta e spinaciIl croccante di albicoccheLe crocchette di patateLe f inte uova in cereghino (al tegamino)La f rittata con le punte d’orticaI funghetti di pere

Gli involtini al prosciutto crudoIl lesso mistoLa minestra di castagne seccheIl minestrone di risoLa mousse al cioccolatoL’omlètconfitü (L’omelette alla marmellata)La parmigiana di melanzaneI perini verdi frittiLe pesche al forno con gli amaretti

Ris e ran (Il risotto con le rane)Ris in cagnùnIl risotto alle pescheIl risotto con la zuccaLa rossumataLa salsa verdeLe scaloppine al marsalaLo strudel di meleIl tiramisù o Dolce al mascarpone

La torta di paneGli uccellini scappatiL’uovo con gli asparagiIl viteltonnèLa zuppa ingleseLa zuppa pavese

Page 99: Il Diavolo e La Rossumata - Sveva Casati Modignani

7/25/2019 Il Diavolo e La Rossumata - Sveva Casati Modignani

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© 2012 Mondadori Electa S.p.A., MilanoMondadori Libri IllustratiTutti i diritti riservatiPrima edizione: settembre 2012

www.librimondadori.it

Ebook ISBN 9788851050238

Copertina

Foto di copertina: l’autrice a cinque anni

Art Director: Dario Tagliabue

Graphic Designer: Francesco Marangon