IL BUCCOLICUM CARMEN DEL PETRARCA Dispense · 3 FRANCESCO PASTONCHI, Il manoscritto originale della...

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FILOLOGIA MEDIEVALE E UMANISTICA A.A. 2016-2017 I L B UCCOLICUM CARMEN DEL P ETRARCA Dispense a cura di Claudia Corfiati

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Page 1: IL BUCCOLICUM CARMEN DEL PETRARCA Dispense · 3 FRANCESCO PASTONCHI, Il manoscritto originale della Divina Commedia, in «Corriere della sera» del 27 novembre 1949 (terza pagina)

FILOLOGIA MEDIEVALE E UMANISTICA

A.A. 2016-2017

IL BUCCOLICUM CARMEN DEL PETRARCA Dispense

a cura di Claudia Corfiati

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MICHELE BARBI, La nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori, da Dante a Manzoni, Firenze 1938 p. VIII Anche allora grande incertezza d’idee e non felice applicazione di quelle che s’avevano per migliori: c’era sì fra i giovani un grande interesse e diciamo pure un grande entusiasmo, per questi studi [di filologia], e maestri quali il Carducci, il Bartoli, il Monaci, il Rajna, incoraggiavano il movimento con l’esempio e con buone iniziative; era un correre di città in città e da biblioteca a biblioteca, per dare alla luce scritti antichi con quello stesso ardore con cui gli umanisti correvano a liberare i classici dagli ergastoli dei barbari, e non mancò chi si spingesse fino in Inghilterra per togliere dalla clausura degli ultimi Britanni il fiorentissimo Sacchetti. Un Molteni e un Mazzatinti non erano di meno dei più fervidi scopritori del Quattrocento. p. X Noi uscivamo [dalla scuola del Rajna] con la giusta idea che ogni testo ha il suo problema critico, ogni problema la sua soluzione e che quindi le edizioni non si fanno su modello.

GIORGIO PASQUALI, Cattedre di Filologia Italiana, Romanza, Medievale, in «Lo Spettatore Italiano» (settembre 1949) All’uscita dall’Università uno scolaro sufficiente di latino e greco, purché abbia avuto maestri non dico eminenti ma a modo, sa, anzi per assuefazione sente che ha il dovere di interpretare ogni testo antico parola per parola, studiandosi di rivivere il valore stilistico di ogni locuzione, riesce anche di regola a leggere un apparato critico e a rendersi conto, informandosi, qualora sia necessario, nella prefazione critica, se la coincidenza di determinati manoscritti in una determinata lezione garantisca la scrittura dell’archetipo, sicchè ogni altra lezione non possa essere se non o errore o congettura (recensio chiusa) o se e in che limiti l’editore e il lettore abbiano diritto a scegliere tra le varianti, regolandosi con i criteri del significato, dell’usus scribendi, della lectio difficilior e pesando ciascuno di questi contro tutti gli altri (recensio aperta); sa anche giudicare quanto in un certo scritto valga una tradizione, se cioè e in che limiti vi sia il diritto, cioè il dovere di congetturare. Diversamente un laureato in lettere moderne non sa quasi mai rendersi ragione dei particolari, non sa interpretare… L’italianista non si degna nemmeno di chiedersi cosa sia un testo e come si costituisca… L’insegnamento della filologia italiana nelle Università perlomeno insegnerebbe agli scolari a non credere ai maestri ciecamente, ma invece a discutere con loro liberamente, perché i filologi, sia classici sia romanzi, non sono dogmatici e sono tolleranti: filologo in Platone, quando la filologia non esisteva, significa amator della discussione…

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FRANCESCO PASTONCHI, Il manoscritto originale della Divina Commedia, in «Corriere della sera» del 27 novembre 1949 (terza pagina) Chi avesse potuto, quel mattino, da una fessura, vedere nel suo studio il professor Eusebio Calanzi, il più insigne studioso di Dante e il più citato, le cui affermazioni facevano legge, l’uomo che fin dalla giovinezza – se giovinezza fu la sua, trascorsa nel chiuso della biblioteca – non si era concesso altri svaghi, altri viaggi, altri entusiasmi, infine altro amore che non toccasse il Divino poema, ricercandone e compulsandone le centinaia di codici sparsi nel mondo per riuscire a darne una precisa classifica e rintracciarne le ascendenze e le varie famiglie, e, pubblicato il colossale volume di tutte le varianti comparate e discusse, risalire così al più probabile testo originale, chi avesse potuto osservarlo, presso un enorme cassone, donde traboccavano confusamente antiche ingiallite carte, davanti alla tavola su cui stava aperto un infolio, agitarsi, gesticolare, convulso e ora chinarsi a voltare una pagina e un poco leggervi e quindi rilevatosi alzar le braccia gettando sospiri e mettersi a saltabeccare in giro allo studio con rotte esclamazioni, per tornare all’infolio e di nuovo piegato su di esso sfogliarlo affannosamente e mormorare: “non è possibile, non è possibile, eppure sì, è certo…” e allora correre all’uscio e tentarlo ad assicurarsi che fosse ben chiuso e ancora accostarsi alla tavola, premersi tra le mani la testa canuta quasi in atto disperato e a un tratto ergersi nella piccola persona e quasi ingrandire in aspetto raggiante, ma subito poi ricadere prostrato: quegli non avrebbe certo riconosciuto in lui così trasfigurato, l’ometto che s’era soliti incontrare rasente muro, con sempre un libro sotto braccio, la persona incurvata, la testa bassa, il passo schivante, come a dissimularsi, estraneo a tutti, temente di venir trattenuto e interrotto nelle sue elucubrazioni […] Insomma col procedere nella consultazione Eusebio Calanzi vedeva profondarsi tutti i testi architettati dagli studiosi e soprattutto il suo. La testa gli ronzava, dovette smettere la lettura, confuso, annichilito. Stava lì sospeso del come fare. Divulgare la scoperta distruggendo il suo onore di studioso? Il sogghigno dei colleghi strisciò lungo gli scaffali della biblioteca, danzò grottescamente sull’infolio della Commedia e sulle sue povere sudate carte. Egli pensò, e con insolita tenerezza, alla moglie e

soprattutto a quelle terribili figlie che questa volta non si sarebbero divertite e non avrebbero riso. Rinascondere il manoscitto lasciando che altri, lui morto, lo scoprissero? Ma dove nasconderlo? E in qual modo sopportare un tanto seguito? E se avesse dato la notizia della scoperta, accompagnandovi la confessione del proprio fallimento, comune infine a quello di tanti altri interpreti? Muoia Calanzi e tutti i filistei! Ritirarsi, sparire dal mondo? Follia! Deliberò infine di soprassedere differendo ogni decisione, e riprendere l’esame, esaurirlo, preparare un’edizione definitiva. Gli parve di potersi acquietare in questa promessa d’attesa fatta a se stesso. Illusione. Col passare dei giorni crebbe l’angoscia e, tenendola in sé chiusa tanto più lo rodeva. Dalle pareti dello studio i suoi libri lo irridevano ironici. Le mura della casa lo opprimevano. Prese ad errare per le strade senza meta, sempre più curvo, parlottando a gran gesti. In famiglia si sforzava di parer calmo, ma, se non la moglie, astratta, lo atterrivano le figliole nella loro sfidante bellezza. Le notti insonni gli si riempivano d’incubi. Un mattino tuttavia lo invase una strana allegrezza: balzò dal letto con passo di danza. […] Lo costrinsero al letto, prima si ribellò, poi vi si assopì vaneggiante. Si avvicinava l’inverno e già nelle alte stanze di quel vecchio palazzo stagnava il freddo. Un giorno Eusebio Calanzi levatosi d’impeto corse nell’attiguo studio e si mise a vuotare gli scaffali e a scaraventare con rabbia i suoi cari libri qua e là sul pavimento: vi finì anche il fatale manoscritto scioltosi dalla custodia e sfasciato: un misero scartafaccio. La moglie accorse a tanta rovina, invocò le figliole che l’aiutarono a riportarlo in camera e metterlo a letto. Subitamente ammansito egli vi si lasciò ricondurre piagnucolando come un bambino. Poi le ragazze tornarono nello studio per riordinarlo alla meglio. “Qui si gela. Se facessimo una fiammata…”, propose Lia. Ma la legna, già preparata nel camino era umida e il fuoco stentava ad appigliarvisi. “Ci vorrebbe un po’ di carta…”. “Prendiamo queste”, disse Matelda, accennando allo scartafaccio. “Che cos’è?” – “Aspetta che guardo…: un Dante! Uno dei tanti…” – “Maledetti! Sono i maggiori colpevoli dello stato di papà” – “Allora dammi” – “È vecchio e sdrucito, ma ha una carta spessa… brucierà bene”. Cominciarono a strapparne i fogli e a gettarli via via nel camino, alla fiamma

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TEOCRITO, Idilli, trad. a cura di M. Cavalli, Milano 1991.

I. Tirsi o la canzone

TIRSI Dolce, capraio, il mormorio del pino che canta alla sorgente; è dolce il suono della tua zampogna. Avrai il secondo premio, dopo Pan. Se a lui spetta il caprone, a te la capra; e se la capra sarà premio a lui, a te poi la capretta. È buona la sua carne, se ancora non è munta.

CAPRAIO Ma più dolce è il tuo canto, pastore, che non l’acqua risonante che stilla dalla roccia. E se alle Muse spetterà la pecora, tu avrai l’agnello cresciuto nel recinto; e se poi loro vorranno l’agnellino, tu avrai la pecora.

TIRSI Vuoi, per le Ninfe, vuoi, capraio, sederti qui sul pendìo fiorito di mirice e suonare la zampogna? Guarderò io le capre.

CAPRAIO Non si può, pastore, non si può suonare a mezzogiorno. Io temo Pan: perché questa è l’ora in cui stanco della caccia si riposa. È collerico, e l’aspra bile è sempre pronta per montargli al naso. Ma tu, Tirsi, i dolori di Dafni sai cantare e nella musa bucolica sei grande. Dunque sediamo sotto quest’olmo, davanti a Prìapo e alle Ninfe delle fonti: ci son le querce e la panca dei pastori. E se tu canti come quel giorno che hai fatto a gara con il libico Cromi, io ti darò, da mungere tre volte, una capra, madre di due capretti, che pure avendo i piccoli riempie di latte ben due secchi. E una coppa di legno ti darò, odorosa di cera, nuova nuova e profumata del cesello. Intorno al bordo l’edera si avvinghia, screziata di elicriso; e a lei s’intreccia l’elice, superba del suo frutto color di croco. Dentro, un’immagine di donna - forma divina - ornata di peplo e di diadema; accanto a lei due uomini dai bei riccioli fanno a gara per convincerla: ma i loro sforzi non toccano il suo cuore. Lei li guarda - ora l’uno, ora l’altro - e ride: loro hanno gli occhi gonfi di passione, ma è affanno inutile. C’è poi un vecchio pescatore e una scabra roccia, sulla quale a fatica tira la sua rete il vecchio, con enorme sforzo; pesca - lo vedi - con tutto il suo vigore, e gli si gonfiano i muscoli del collo: bianchi i suoi capelli, ma la sua forza è giovane. Più in là, accanto al vecchio che il mare ha logorato, una vigna dai bei grappoli bruni: la guarda un ragazzino, seduto sul muretto. Ma ecco due volpi; una si aggira tra i filari e ruba i grappoli maturi; l’altra ha di mira la sacca del ragazzo: «Io sono furba» dice, «gli faccio fuori il pranzo, e me ne vado». Lui intreccia giunchi e gambi d’asfodelo, e fa una rete per le cavallette: poco gli importa del pranzo e delle viti, tanta è la gioia di quel che sta facendo. Tutto intorno alla coppa si snoda il molle acanto. È uno

spettacolo - per noi pastori - questo prodigio che ti tocca il cuore. Me l’ha venduta un barcaiolo di Calidne, al prezzo di una capra e di un formaggio bianco. Le labbra ancora non mi ha mai sfiorato: la serbo intatta. Con tutto il cuore te la donerò, se vuoi intonare la canzone che io amo. Non ti prendo in giro. Avanti, amico! Il tuo canto non tenerlo per l’Ade che tutto fa scordare.

TIRSI Intona, amata Musa, intona il canto del pastore. Sono Tirsi dell’Etna, e dolce è la mia voce. Dove eravate, Ninfe, dove, mentre Dafni moriva? Forse nella bella valle del Penèo o sul Pindo? Qui no, non eravate qui, né all’ampia corrente dell’Anàpo, né in cima all’Etna, né all’onda sacra dell’Acis.

Intona, amata Musa, intona il canto del pastore. Lo piangeva il lupo e lo sciacallo lo piangeva; Dafni moriva, e pianse nelle selve anche il leone.

Intona, amata Musa, intona il canto del pastore. E le mucche ai suoi piedi, e i tori, e giovenche e vitelli lo piangevano.

Intona, amata Musa, intona il canto del pastore. Venne Ermes dai monti e disse: «Dafni, chi ti consuma? Chi è che ami tanto?»

Intona, amata Musa, intona il canto del pastore. E vennero i mandriani e i pastori, e i caprai vennero. Tutti gli chiedono: «Qual è il tuo dolore?» E venne Prìapo e disse: «Dafni infelice, non tormentarti. Di fonte in fonte, di bosco in bosco corre la fanciulla,

- intona, amata Musa, intona il canto del pastore – cercando te. Ma tu sei timido e non sai proprio amare. Eri mandriano, e adesso sembri semmai un capraio: che quando vede montare le sue capre, ha le lacrime agli occhi per l’invidia di non essere caprone.

Intona, amata Musa, intona il canto del pastore. Così tu, quando vedi giocare le fanciulle, hai gli occhi umidi, perché non danzi insieme a loro». Ma Dafni non rispose, e il suo crudele amore, si compì, si compì sino al termine fatale.

Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. E venne Cipride; rideva, ma in segreto rideva, e in viso era molto adirata. Disse: «Tu ti vantavi, Dafni, di piegare Eros: e non sei tu, ora, dal terribile Eros piegato?»

Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Rispose Dafni: «Cipride dura, Cipride odiosa, Cipride, nostra nemica! Credi che il sole ormai per me sia tramontato? Anche nell’Ade, Dafni darà tormento ad Eros!

Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Non dicono forse che il mandriano ti ha... Vattene via, vai sull’Ida, da Anchise; là ci sono le querce e il cìpero, e le api ronzano intorno all’alveare:

Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Anche Adone è bello, eppure

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guarda il gregge, cattura lepri e va a caccia di animali. Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Vai da Diomede, affrontalo, digli:

"Ho vinto Dafni, il bifolco; forza, combatti!".

Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Addio lupi, sciacalli, e tu, orso, che vivi nelle grotte là sui monti, addio! Il vostro Dafni mai più vedrà foreste né boscaglie, ormai - non più. Addio, Aretùsa, addio bei fiumi che scorrete al Tibri.

Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Io sono Dafni, quello che pascolava qui; Dafni, quello che abbeverava qui i suoi tori.

Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Pan, dovunque tu sia - sugli alti monti del Liceo, oppure sul gran Menalo - vieni in Sicilia, lascia la rocca d’Elice e la scoscesa tomba dei Licaònidi, che gli dei stessi ammirano.

Basta, Musa, interrompi il canto del pastore. Vieni, signore, prendi la mia zampogna legata con la cera, odorosa di miele, facile al labbro: ormai, l’amore mi trascina all’Ade.

Basta, Musa, interrompi il canto del pastore. Rovi, spineti, fiorite di violette, e tu, narciso, risplendi sui ginepri; che tutto sia al contrario: produca pere il pino - poi che Dafni muore - e il cervo insegua il cane, e voi, gufi dei monti, sfidate l’usignolo!»

Basta, Musa, interrompi il canto del pastore. Dafni ha finito, tace. Tenta Afrodite di sollevarlo: ma il filo delle Moire si è spezzato e Dafni è già nel gorgo di Acheronte, lui che le Muse, lui che le Ninfe amarono.

Basta, Musa, interrompi il canto del pastore. E ora dammi la coppa, dammi la capra: col latte munto liberò alle Muse. Salve,

mie Muse, salve mille volte: un canto ancor più dolce vi canterò domani.

CAPRAIO Miele per la tua bocca, Tirsi, e i dolci fichi di Égilo: tu canti meglio delle cicale! Prendi la coppa, amico; senti come profuma: sembra lavata alla fonte delle Ore. Vieni, Cissèta, qui; mungila pure, Tirsi. E voi caprette, basta con quei saltelli, che non vi monti il capro.

ECLOGHE DI VIRGILIO SCHEMA

N. Cfr. Personaggi Contenuto I Melibeo, Titiro Autobiografico

Encomiastico Dialogo

II Coridone

Erotico Monologo

III Th. IV Menalca, Dameta, Palemone

Gara di canto con giudice

Dialogo

IV Poeta

Encomiastico Monologo

V Th. I Menalca, Mopso Gara di canto Encomiastico (?)

Dialogo

VI Sileno

Didascalico Diegetica

VII Melibeo (Tirsi e Coridone)

Gara di canto Diegetica

VIII Th. II Damone, Alfesibeo

Erotico Dialogo

IX Licida, Meri

Autobiografico Dialogo

X Poeta (Gallo)

Erotico Diegetica

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VIRGILIO, Bucoliche, a cura di A. La Penna, trad. di L. Canali, Milano 1978, Buc. I MELIBOEUS Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi silvestrem tenui Musam meditaris avena; nos patriae finis et dulcia linquimus arva. nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra formosam resonare doces Amaryllida silvas. 5 TITYRUS O Meliboee, deus nobis haec otia fecit. namque erit ille mihi semper deus, illius aram saepe tener nostris ab ovilibus imbuet agnus. ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum ludere quae vellem calamo permisit agresti. 10 MELIBOEUS Non equidem invideo, miror magis; undique totis usque adeo turbatur agris. en ipse capellas protenus aeger ago; hanc etiam vix, Tityre, duco. hic inter densas corylos modo namque gemellos, spem gregis, ah, silice in nuda conixa reliquit. 15 saepe malum hoc nobis, si mens non laeva fuisset, de caelo tactas memini praedicere quercus. sed tamen iste deus qui sit da, Tityre, nobis. TITYRUS Urbem quam dicunt Romam, Meliboee, putavi stultus ego huic nostrae similem, cui saepe solemus 20 pastores ovium teneros depellere fetus. sic canibus catulos similes, sic matribus haedos noram, sic parvis componere magna solebam. verum haec tantum alias inter caput extulit urbes quantum lenta solent inter viburna cupressi. 25

MELIBEO Titiro, riposando all’ombra d’un ampio faggio, studi su un esile flauto una canzone silvestre; noi lasciamo le terre della patria e i dolci campi, fuggiamo la patria: tu, o Titiro, placido nell’ombra, fai risuonare le selve del nome della bella Amarilli. TITIRO O Melibeo, un dio mi ha donato questa pace. Infatti lo considererò sempre un dio, e spesso un tenero agnello dei nostri ovili tingerà il suo altare. Egli, vedi, ha permesso alle mie giovenche di errare, e a me di suonare sul flauto campestre le predilette canzoni. MELIBEO Non t’invidio, certo, piuttosto mi stupisco: dovunque nei campi è scompiglio. Ecco, io stesso affranto mi spingo innanzi le capre; questa, o Titiro, la trascino a stento. Lì tra i folti noccioli, poc’anzi, sgravata di una coppia di capretti, speranza del gregge, li ha lasciati sulla nuda pietra. Ma spesso questa sventura, se non fossimo stati stolti, ricordo ce la predissero le querce colpite dal fulmine celeste. Tuttavia, o Titiro, dimmi qual sia questo dio. TITIRO V’è una città che chiamano Roma. Io stolto, o Melibeo, la credetti simile alla nostra, dove noi pastori spesso usiamo avviare la tenera prole del gregge: così conoscevo i cuccioli simili ai cani, i capretti alle madri: così solevo paragonare il piccolo al grande. Ma questa città sollevò tanto il capo tra le altre, quanto sogliono i cipressi tra i molli viburni

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MELIBOEUS Et quae tanta fuit Romam tibi causa videndi? TITYRUS Libertas, quae sera tamen respexit inertem, candidior postquam tondenti barba cadebat, respexit tamen et longo post tempore venit, postquam nos Amaryllis habet, Galatea reliquit. 30 namque - fatebor enim - dum me Galatea tenebat, nec spes libertatis erat nec cura peculi. quamvis multa meis exiret victima saeptis pinguis et ingratae premeretur caseus urbi, non umquam gravis aere domum mihi dextra redibat 35 MELIBOEUS Mirabar quid maesta deos, Amarylli, vocares, cui pendere sua patereris in arbore poma. Tityrus hinc aberat. ipsae te, Tityre, pinus, ipsi te fontes, ipsa haec arbusta vocabant. TITYRUS Quid facerem? neque servitio me exire licebat 40 nec tam praesentis alibi cognoscere divos. hic illum vidi iuvenem, Meliboee, quot annis bis senos cui nostra dies altaria fumant, hic mihi responsum primus dedit ille petenti: “pascite ut ante boves, pueri, submittite tauros”. 45 MELIBOEUS Fortunate senex, ergo tua rura manebunt et tibi magna satis, quamvis lapis omnia nudus limosoque palus obducat pascua iunco. non insueta gravis temptabunt pabula fetas nec mala vicini pecoris contagia laedent. 50 fortunate senex, hic inter flumina nota et fontis sacros frigus captabis opacum;

MELIBEO E quale grande ragione ti spinse a vedere Roma? TITIRO La libertà, che benché tardi mi degnò d’uno sguardo, dopo che a me inerte, nel radermi, la barba cadeva imbianchita: mi guardò tuttavia e venne dopo lungo tempo, da quando mi tiene Amarilli, e mi lasciò Galatea. Infatti, lo confesso, finché mi tenne Galatea, non avevo speranza di libertà né cura del guadagno: sebbene dai miei recinti uscissero molte vittime e premessi grasso formaggio per l’avara città, non tornavo mai a casa con danaro che mi gravasse la mano. MELIBEO E io mi stupivo, o Amarilli, perché invocavi mesta Gli Dei e per chi lasciavi pendere all’albero i frutti. Titiro era lontano da qui! Persino i pini, o Titiro, persino le fonti e gli arbusti invocavano te. TITIRO Che fare? No potevo uscire di servitù né trovare con la mente altrove Dei abbastanza propizi. Là, o Melibeo, ho visto quel giovane per il quale Annualmente fumano dodici volte i nostri altari. Là egli prevenendomi mi diede il responso alla mia domanda: “Pascete come prima i buoi; allevate i torelli”. MELIBEO Fortunato vecchio! Dunque i campi resteranno tuoi, e grandi abbastanza per te, sebbene nude pietre e palude invadano tutti i pascoli con fangosi giunchi. Ma pascoli inconsueti non nuoceranno alle pecore gravide, non ti arrecherà danno il contagio d’un armento vicino. Fortunato vecchio, qui tra noti fiumi e sacre fonti godrai una frescura ombrosa;

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hinc tibi, quae semper, vicino ab limite saepes Hyblaeis apibus florem depasta salicti saepe levi somnum suadebit inire susurro 55 hinc alta sub rupe canet frondator ad auras, nec tamen interea raucae, tua cura, palumbes nec gemere aeria cessabit turtur ab ulmo. TITYRUS Ante leves ergo pascentur in aethere cervi et freta destituent nudos in litore pisces, 60 ante pererratis amborum finibus exsul aut Ararim Parthus bibet aut Germania Tigrim, quam nostro illius labatur pectore vultus. MELIBOEUS At nos hinc alii sitientis ibimus Afros, pars Scythiam et rapidum cretae veniemus Oaxen 65 et penitus toto divisos orbe Britannos. en umquam patrios longo post tempore finis pauperis et tuguri congestum caespite culmen, post aliquot, mea regna, videns mirabor aristas? impius haec tam culta novalia miles habebit, 70 barbarus has segetes. en quo discordia civis produxit miseros; his nos consevimus agros! insere nunc, Meliboee, piros, pone ordine vites. ite meae, felix quondam pecus, ite capellae. non ego vos posthac viridi proiectus in antro 75 dumosa pendere procul de rupe videbo; carmina nulla canam; non me pascente, capellae, florentem cytisum et salices carpetis amaras. TITYRUS Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem fronde super viridi. sunt nobis mitia poma, 80 castaneae molles et pressi copia lactis, et iam summa procul villarum culmina fumant maioresque cadunt altis de montibus umbrae.

da un lato la siepe sul vicino confine di sempre, delibata dalle api iblee nel fiore del salice, spesso con lieve sussurro ti concilierà il sonno; dall’altro ai piedi di un’alta rupe canterà all’aria il potatore; ma frattanto le roche colombe, tua cura, e la tortora non cesseranno di gemere dall’alto dell’olmo. TITIRO Dunque pascoleranno in cielo leggeri i cervi e le acque lasceranno in secco sulla riva i pesci, e avendo errato a lungo l’uno nei territori dell’altro, l’esule Parto berrà nell’Arari, il Germano nel Tigri, prima che l’immagine di lui svanisca dal mio cuore. MELIBEO Noi invece di qui andremo tra gli Africani assetati, parte verremo alla Scizia e parte all’Oassi turbinoso d’argilla, e agli estremi Britanni esclusi da tutto il mondo. Giammai fra lungo tempo rivedendo la terra dei padri, e il tetto del povero tugurio elevato con zolle d’erba – era il mio regno – potrò ammirare le spighe? Un empio soldato possiederà maggesi così coltivati? Un barbaro queste messi? Ecco dove la discordia ha trascinato gli sventurati cittadini; per costoro seminavamo i campi. Innesta i peri, o Melibeo, disponi in filari le viti. Andate, o mie capre, gregge un tempo beato: d’ora in avanti non vi vedrò più, sdraiato in una verde grotta, pendere su un’erta spinosa: non canterò più canzoni; non sarò il pastore, o capre, quando brucherete il citiso in fiore e gli amari salici. TITIRO Tuttavia stanotte potevi riposare qui con me su un giaciglio di verdi frasche; abbiamo frutti maturi, tenere castagne e latte rappreso in abbondanza. E già lontano fumano i tetti dei casolari E più lunghe dall’alto dei monti discendono le ombre.

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SERVII GRAMMATICI Qui feruntur in Vergilii Bucolica et Georgica commentarii, recensuit G. Thilo, Hildesheim 1961 Bucolica, ut ferunt, dicta sunt a custodibus boum, id est ajpo; tw``n boukovlwn: praecipua enim sunt animalia apud rusticos boves, huius autem carminis origo varia est. Nam alii dicunt eo tempore, quo Xerses, Persarum rex, invasit Graeciam, cum omnes intra muros laterent nec possent more solito Dianae sacra persolvi, pervenisse ad montes Laconas rusticos et in eius honorem hymnos dixisse: unde natum carmen bucolicum aetas posterior elimavit. Alii dicunt Orestem, cum Dianae Facelitidis simulacrum raptus ex Scythia adveheret et ad Siciliam esset tempestate delatus, completo anno Dianae festum celebrasse hymnis, collectis nautis suis et aliquibus pastoribus convocatis, et exinde permansisse apud rusticos consuetudinem. Alii non Dianae, sed Apollini Nomio consecratum carmen hoc volunt, quo tempore Admeti regis pavit armenta. Alii rusticis numinibus a pastoribus dicatum hoc asserunt carmen, ut Pani, faunis, nymphis ac satyris. Et hic est huius carminis titulus. Qualitas autem haec est, scilicet humilis character. Tres enim sunt characteres, humilis, medius, grandiloquus: quos omnes in hoc invenimus poeta. Nam in Aeneide grandiloquum habet, et in georgicis medium, in bucolicis umile pro qualitate negotiorum et personarum: nam personae hic rusticae sunt, simplicitate gaudentes, a quibus nihil altum debet requiri. […] Intentio poetae haec est, ut imitetur Theocritum Syracusanum, meliorem Moscho et ceteris qui bucolica scripserunt, - unde est “prima Syracosio dignata est ludere versu nostra” – et aliquibus locis per allegoriam agat gratias Augusto vel aliis nobilibus, quorum favore amissum agrum recepit. In qua re tantum dissentit a Theocrito: ille enim ubique simplex est, hic necessitate complusus aliquibus locis miscet figuras, quas perite plerumque etiam ex Theocriti versibus facit, quos ab illo dictos constat esse simpliciter. Hoc autem fit poetica urbanitate: sic Iuvenalis “Actoris Aurunci spolium”; nam Vergilii versum de hasta dictum figurate ad speculum transtulit.

[Trad. Corfiati] “Bucolica” – si dice – deriva dai guardiani dei buoi, ossia dai ���������. Presso i contadini infatti i buoi sono animali di particolare importanza, ma l’origine di questa poesia è incerta. Alcuni infatti dicono che in quel tempo in cui Serse, re dei Persiani, invase la Grecia, dal momento che tutti si nascondevano all’interno delle mura delle città né potevano secondo il costume usuale officiare i sacrifici alle dea Diana, i contadini Spartani si recarono sui monti e recitarono inni in suo onore, e l’età successeiva non fece che rifinire ad arte questa poesia nata in questo modo. Altri dicono che Oreste, mentre stava trasportando, dopo averlo sottratto dalla Scizia, il simulacro di Diana Facelitide, fu sbattuto da una tempesta sulle coste delle Sicilia, e alla fine dell’anno celebrò una festa per Diana con canti, dopo aver riunito insieme i suoi marinai e alcuni pastori, e da allora è rimasta presso i contadini questa consuetudine. Altri ancora non a Diana, ma ad Apollo Nomio vogliono sia consacrato questo carme, nel tempo in cui pascolò le greggi di re Ameto. Altri ritengono che questa poesia fu dedicata dai pastori ai numi delle campagne, come Pan, i fauni, le ninfe e i satiri. E questa è la denominazione di questa poesia. La caratteristica poi è questa, ovvero uno stile umile. Tre infatti sono gli stili: umile, medio e alto, e tutti questi li troviamo in questo poeta. Infatti nell’Eneide fu alto, e nelle Georgiche medio, nelle Bucoliche umile in base alla qualità delle funzioni e dei protagonisti: infatti i protagonisti sono qui contadini, che godono delle cose semplici, e dai quali non bisogna aspettarsi niente di alto. Scopo del poeta è questo: di imitare Teocrito Siracusano, meglio di Mosco e degli altri che scrissero bucoliche, e perciò “prima Syracosio dignata est ludere versu nostra” (Buc. VI 1) – e in alcuni luoghi servendosi di allegoria ringraziare Augusto e altri nobili uomini, grazie al cui favore recuperò i campi perduti. E in questo si discosta molto da Teocrito: quello infatti è sempre semplice, schietto, lui spinto da necessità inserisce in alcuni luoghi immagini, che con maestria per lo più anche dai versi di Teocrito recupera, che è chiaro che da quello sono detti in maniera schietta. Ma questo è fatto per una forma di eleganza poetica: come in Giovenale III 100 “Actoris Aurunci spolium”, dove utilizza il verso di Virgilio sull’asta riferendolo in maniera figurata ad uno specchio.

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Et causa scribendorum bucolicorum haec est: cum post occisum III. Iduum Maiarum die in senatum Caesarem Augustus eius filius contra percussores patris et Antonium civilia bella movisset, victoria potitus Cremonensium agros, qui contra eum senserant, militibus suis dedit. Qui cum non sufficerent, etiam Mantuanorum iussit distribui, non propter culpam, sed propter vicinitatem, unde est “Mantua vae miserae nimium vicina Cremonae”. Perdito ergo agro Vergilius Romam venit et potentium favore meruit, ut agrum suum solus reciperet. Ad quem accipiendum profectus, ab Arrio centurione, qui eum tenebat, paene est interemptus, nisi se praecipitasset in Mincium: unde est allegoricos “ipse aries etiam nunc vellera siccat”. Postea ab Augusto missis tribus viris et ipsi integer ager est redditus et Mantuanis pro parte. Hinc est, quod in prima ecloga legimus eum recepisse agrum, postea eum querelantem invenimus, ut “audieras, et fama fuit; sed carmina tantum nostra valent Lycida, tela inter Martia, quantum Chaonias dicunt aquila veniente columbas”. Nec numerus hic dubius est nec ordo librorum, quippe cum incertum tamen est, quo ordine scriptae sint. Plerique duas certas volunt ipsius testimonio, ultimam, ut “extremum hunc” et primam ut in georgicis “Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi”; alii primam illam volunt “prima Syracosio dignata est ludere versu”. Sane sciendum, VII eclogas esse meras rusticas, quas Theocritus X habet. Hic in tribus a bucolico carmine, sed cum excusatione discessit, ut in genetliaco Salonini et in Sileni theologia, vel ut ex insertis altioribus rebus posset placere, vel quia tot varietates implere non poterat. […] ECLOGA PRIMA 1. Tityre tu patulae r. sub t. fagi inducitur pastor quidam iacens sub arbore securus et otiosus dare operam cantilenae, alter vero quomodo cum gregibus ex suis pellitur finibus: qui cum Tityrum respexisse iacentem, ita locutus est. Et hoc loco Tityri sub persona Vergilium debemus accipere; non tamen ubique, sed tantum ubi exigit ratio. Quod autem eum sub fago dicit iacere, allegoria est onestissima, quasi sub arbore glandifera, quae fuit victus causa: antea enim homines glandibus vescebantur, unde etiam fagus dicta est ������������� ���������[…]

E il motivo per cui scrisse bucolica è questo: quando dopo la morte in senato di Cesare il 13 Maggio Augusto suo figlio contro gli uccisori del padre e contro Antonio ebbe condotto la guerra civile, guadagnata la vittoria diede ai suoi soldati i campi dei Cremonesi, che avevano parteggiato contro di lui. Ma poiché questi non erano sufficienti, ordinò che fossero distribuiti anche quelli dei Mantovani, non perché responsabili di qualcosa, ma a causa della vicinanza, e perciò “Mantua vae miserae nimium vicina Cremonae” (Buc. IX 28). Virgilio dunque dopo aver perduto la campagna se ne venne a Roma e si ingraziò il favore dei potenti, in modo da recuperare da solo il suo campo. Partito per prenderne possesso, da un centurione Arrio, che lo teneva, fu quasi ucciso, se non si fosse buttato nel Mincio; e perciò “ipse aries etiam nunc vellera siccat” (Buc. III 95). In seguito dopo che Augusto ebbe mandato tre uomini e a lui fu restituito per intero il campo e ai Mantovani una parte. Da ciò deriva ciò che leggiamo nella prima ecloga, che lui recuperò il campo, e in seguito lo troviamo che si lamenta, quando dice “audieras, et fama fuit; sed carmina tantum nostra valent Lycida, tela inter Martia, quantum Chaonias dicunt aquila veniente columbas” (Buc. IX 11). E non ci sono dubbi né sul numero né sull’ordine dei carmi, benché tuttavia sia incerto in che ordine siano state scritte. I più vogliono che due sono certe per la testimonianza dell’autore, l’ultima, che fa “extremum hunc” (Buc. X 1) e la prima, perché nelle Georgiche (IV 566) dice “Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi”; alcuni vogliono che la prima sia quella che comincia “prima Syracosio dignata est ludere versu” (VI). Certo bisogna sapere che sette ecloghe sono propriamente rurali, mentre Teocrito ne ha dieci. Questo in tre si discosta dal carme bucolico, ma con una ragione, come nel genetliaco di Salonino e nella teologia di Sileno, sia perché potesse creare diletto inserendo argomenti più alti, sia perché non poteva altrimenti soddisfare la varietas. ECLOGA PRIMA v. 1. Tityre tu patulae… introduce un pastore che sta seduto al riparo sotto un albero e in ozio è impegnato in un canto, un altro poi che in qualche modo con il suo gregge viene cacciato dalle sue terre, il quale dopo aver visto Titiro che se ne sta seduto, gli parla in questo modo. E in questo luogo sotto le vesti di Titiro dobbiamo vedere Virgilio, non tuttavia sempre, ma soltanto lì dove ve ne è ragione. Il fatto poi che dice di stare seduto sotto un faggio, è una bellissima allegoria, perché vuol quasi dire che si trova sotto un albero che produce ghiande, e questo in ragione degli alimenti; in passato infatti gli uomini si nutrivano di ghiande, e perciò anche il faggio è detto da � ��������

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5. Resonare doces Amaryllida s. id est carmen tuum de amica Amaryllide compositum doces silvas sonare. Et melius est, ut simpliciter intellegamus: male enim quidam allegoriam volunt, tu carmen de urbe Roma componis celebrandum omnibus gentibus. Plus enim stupet Meliboeus, si ille ita securus est, ut tantum de suis amoribus cantet.

5. Resonare doces Amaryllida s. cioè “insegni alle selve a risuonare il tuo carme composto sull’amante Amarillide”. E sarebbe meglio, per interpretare in maniera semplice: infatti alcuni fanno male a volere l’allegoria. “Tu componi un carme sulla città di Roma da far recitare a tutti i popoli”. Più si sarebbe stupito Melibeo infatti, se quello fosse stato così tranquillo, da cantare soltanto dei suoi amori.

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VIRGILIO, Bucoliche, a cura di A. La Penna, trad. di Luca Canali, Rizzoli, Milano 1978, Buc. X Extremum hunc, Arethusa, mihi concede laborem: pauca meo Gallo, sed quae legat ipsa Lycoris, carmina sunt dicenda: neget quis carmina Gallo? Sic tibi, cum fluctus subterlabere Sicanos, Doris amara suam non intermisceat undam; 5 incipe; sollicitos Galli dicamus amores, dum tenera attondent simae uirgulta capellae. Non canimus surdis: respondent omnia siluae. Quae nemora aut qui uos saltus habuere, puellae Naides, indigno cum Gallus amore peribat? 10 Nam neque Parnasi uobis iuga, nam neque Pindi ulla moram fecere, neque Aonie Aganippe. Illum etiam lauri, etiam fleuere myricae; pinifer illum etiam sola sub rupe iacentem Maenalus et gelidi fleuerunt saxa Lycaei. 15 Stant et oues circum (nostri nec paenitet illas, nec te paeniteat pecoris, diuine poeta: et formosus ouis ad flumina pauit Adonis); uenit et upilio; tardi uenere subulci; uuidus hiberna uenit de glande Menalcas. 20 Omnes "Vnde amor iste" rogant "tibi?" Venit Apollo: "Galle, quid insanis?" inquit; "tua cura Lycoris perque niues alium perque horrida castra secuta est." Venit et agresti capitis Siluanus honore, florentis ferulas et grandia lilia quassans. 25 Pan deus Arcadiae uenit, quem uidimus ipsi sanguineis ebuli bacis minioque rubentem: "Ecquis erit modus?" inquit "Amor non talia curat, nec lacrimis crudelis Amor nec gramina riuis nec cytiso saturantur apes nec fronde capellae." 30 Tristis at ille: "Tamen cantabitis, Arcades, inquit,

Permettimi, Aretusa, quest’ultima fatica; m’urge di dire pochi versi per il mio Gallo, ma li legga Licori stessa; chi negherebbe versi a Gallo? Così quando scorrerai sotto i flutti di Sicilia, possa la salmastra Dori non mischiare le tue acque alle sue. Incomincia: canteremo gli ansiosi amori di Gallo mentre le capre camuse brucano i teneri virgulti. Non cantiamo per sordi: le selve riecheggiano tutto. Quali boschi o balze vi tenevano fanciulle Naiadi, mentre Gallo moriva per eccesso d’amore? Infatti non vi fecero indugio i gioghi del Parnaso e neanche quelli del Pindo, né l’aonia Aganippe. Lo piansero perfino gli allori, perfino le tamerici, lo piansero il Menalo folto di pini e le rupi del gelido Liceo, mentre giaceva ai piedi d’una roccia solitaria. Gli erano intorno le pecore (esse non sdegnano noi, e tu non sdegnare il gregge, o divino poeta: anche il bellissimo Adone pasce le pecore al fiume); e venne il pecoraio, vennero i lenti porcai, venne Menalca bagnato dal cogliere ghiande d’inverno; e tutti: «Di dove un simile amore ti venne?», chiedono. E venne Apollo: «O Gallo, perché ti stravolgi? Licori, il tuo amore, ha seguito un altro fra le navi e gli orridi accampamenti». E venne Silvano ornato il capo di fiori campestri, scuotendo canne fiorite e grandi gigli. Venne anche Pan, dio dell’Arcadia, che vedemmo rosseggiante di sanguigne bacche di sambuco e di minio. «Quale sarà la misura?» disse «Amore non cura simili cose. Amore crudele non si sazia di lagrime, né l’erba di rivi, le api del citiso, le capre di fronde». Ma egli angosciato diceva: «Almeno voi, o Arcadi, canterete il mio dolore alle vostre montagne,

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montibus haec uestris, soli cantare periti Arcades. O mihi tum quam molliter ossa quiescant, uestra meos olim si fistula dicat amores! Atque utinam ex uobis unus uestrisque fuissem 35 aut custos gregis aut maturae uinitor uuae! Certe siue mihi Phyllis siue esset Amyntas, seu quicumque furor (quid tum, si fuscus Amyntas? et nigrae uiolae sunt et uaccinia nigra), mecum inter salices lenta sub uite iaceret: 40 serta mihi Phyllis legeret, cantaret Amyntas. "Hic gelidi fontes, hic mollia prata, Lycori; hic nemus; hic ipso tecum consumerer aeuo. Nunc insanus amor duri me Martis in armis tela inter media atque aduersos detinet hostis. 45 Tu procul a patria (nec sit mihi credere tantum) Alpinas, a, dura, niues et frigora Rheni me sine sola uides. A, te ne frigora laedant! a, tibi ne teneras glacies secet aspera plantas! Ibo et Chalcidico quae sunt mihi condita uersu 50 carmina pastoris Siculi modulabor auena. Certum est in siluis inter spelaea ferarum malle pati tenerisque meos incidere Amores arboribus: crescent illae, crescetis, Amores. Interea mixtis lustrabo Maenala Nymphis, 55 aut acris uenabor apros; non me ulla uetabunt frigora Parthenios canibus circumdare saltus. Iam mihi per rupes uideor lucosque sonantis ire; libet Partho torquere Cydonia cornu spicula; tamquam haec sit nostri medicina furoris, 60 aut deus ille malis hominum mitescere discat! Iam neque Hamadryades rursus nec carmina nobis ipsa placent; ipsae rursus concedite, siluae. Non illum nostri possunt mutare labores, nec si frigoribus mediis Hebrumque bibamus, 65 Sithoniasque niues hiemis subeamus aquosae, nec si, cum moriens alta liber aret in ulmo, Aethiopum uersemus ouis sub sidere Cancri. voi soli esperti nel canto. Con quanta dolcezza mi riposerebbero le ossa se le vostre siringhe un giorno canteranno i miei amori. Oh fossi stato uno di voi, un guardiano

del vostro gregge, un vendemmiatore d’uva matura! Certo se avessi una passione per Filli o per Aminta, o per chiunque altro (che importa se Aminta è bruno? Anche le viole sono scure e foschi i giacinti) giacerebbero con me tra i salici all’ombra d’una vite flessuosa, Filli coglierebbe serti per me, Aminta canterebbe. Qui fresche sorgenti e molli prati, o Licori, e il bosco; qui mi consumerei con te nel trascorrere del tempo. Ora un amore dissennato ti trattiene fra le armi del duro Marte, fra i dardi, di fronte al nemico: tu lontana dalla patria (ah potessi non crederlo!), sola, senza di me, vedi le nevi delle Alpi e i ghiacci del Reno. Ah che il gelo non ti offenda, e tagliente qual è non ferisca le tue tenere piante! Andrò, e quei canti che ho composto in verso calcidico li voglio modulare sul flauto del siciliano pastore. E’ certo: meglio soffrire nelle selve, fra le spelonche delle fiere, e incidere i miei amori nella tenera corteccia degli alberi. Questi cresceranno, e anche voi amori crescerete. Frattanto misto alle Ninfe errerò per il Menalo, e caccerò i feroci cinghiali; i freddi non mi impediranno di circondare di cani le erte balze del Partenio. Già mi sembra di andare fra le rupi e i boschi sonanti, e godo nello scagliare frecce cidonie con l’arco di Partia. Come se questo medicasse la nostra follia, o quel Dio si lasciasse addolcire dalle sventure degli uomini! Già non mi allietano più le Amadriadi, e neanche le stesse canzoni; del resto allontanatevi anche voi, o boschi. I nostri affanni non potranno mutare il Dio, neanche se nel colmo del freddo bevessi le acque dell’Ebro o affrontassi le nevi e le piogge dell’inverno sitonio, o quando morendo si secca la corteccia sugli alti olmi pascolassi le pecore degli Etiopi sotto la costellazione del Cancro.

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Omnia uincit Amor: et nos cedamus Amori." Haec sat erit, diuae, uestrum cecinisse poetam, 70 dum sedet et gracili fiscellam texit hibisco, Pierides: uos haec facietis maxima Gallo, Gallo, cuius amor tantum mihi crescit in horas, quantum uere nouo uiridis se subicit alnus. Surgamus: solet esse grauis cantantibus umbra, 75 iuniperi grauis umbra; nocent et frugibus umbrae. Ite domum saturae, uenit Hesperus, ite, capellae.

Tutto vince l’Amore, e noi cediamo all’Amore». O Dee Pieridi vi basti che il vostro poeta mentre siede e intreccia un cestello di gracile ibisco abbia cantato questo, che voi renderete bellissimo per Gallo, l’amore del quale tanto mi cresce nel tempo, quanto al rinnovarsi della primavera s’innalza il verde ontano. Alziamoci. L’ombra di solito nuoce a coloro che cantano, nociva è l’ombra del ginepro. L’ombra nuoce alle messi. Tornate sazie alle stalle, capre, Espero sorge.

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CALPURNIO SICULO, Ecloga III (da Ecloghe, a cura di M. A. Vinchesi, Milano 2002) IOLLAS Numquid in hac, Lycida, vidisti forte iuvencam valle meam? solet ista tuis occurrere tauris, et iam paene duas, dum quaeritur, eximit horas; nec tamen apparet, duris ego perdita ruscis iam dudum nullis dubitavi crura rubetis 5 scindere, nec quicquam post tantum sanguinis egi. LYCIDAS Non satis attendi: nec enim vacat. uror, Iolla, uror, et inmodice: Lycidan ingrata reliquit Phyllis amatque novum post tot mea munera Mopsum. IOLLAS Mobilior ventis o femina! sic tua Phyllis: 10 quae sibi, nam memini, si quando solus abesses, mella etiam sine te iurabat amara videri. LYCIDAS Altius ista querar, si forte vacabis, Iolla. has pete nunc salices et laevas flecte sub ulmos. nam cum prata calent, illic requiescere noster 15 taurus amat gelidaque iacet spatiosus in umbra et matutinas revocat palearibus herbas. IOLLAS Non equidem, Lycida, quamvis contemptus abibo. Tityre, quas dixit, salices pete solus et illinc, si tamen invenies, deprensam verbere multo 20 huc age; sed fractum referas hastile memento.

IOLLA Non hai per caso visto in questa vallata la mia giovenca, o Licida? Ha l’abitudine costei di farsi incontro ai tuoi tori, e già mi ha fatto perdere quasi due ore a cercarla, ma di lei non si scorge traccia. Quanto a me, già da un pezzo mi sono rovinato le gambe fra i duri pungitopo lacerandomele, senza alcun riguardo, ad ogni rovo; ma dopo tanto sangue versato non sono venuto a capo di niente. LICIDA Non vi ho affatto badato, non ho tempo per questo. Un fuoco, un fuoco smisurato mi divora, Iolla! Fillide, l’ingrata, ha lasciato Licida ed ama, dopo tanti doni che le ho fatto, un nuovo innamorato, Mopso. IOLLA O donna, più mutevole del vento! Così dunque la tua Fillide, lei che, lo ricordo bene, ogni volta che tu partivi da solo giurava che senza di te anche il miele le pareva amaro. LICIDA Mi sfogherò più a fondo, Iolla, se un giorno avrai tempo di ascoltarmi. Ora piuttosto va’ verso questi salici e piega a sinistra, sotto gli olmi. Quando i prati sono caldi è là che il mio toro preferisce riposare; se ne sta disteso, vasto com’è, sotto l’ombra fresca e rumina nella giogaia l’erba del mattino. IOLLA No certo, non me ne andrò, Licida, anche se tu non mi tieni in alcun conto. Va’ tu, Titiro, da solo, verso i salici che lui ha detto e, se la troverai, portala via di là a suon di nerbate e conducila qui; e ricordati, voglio che mi riporti il bastone rotto.

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nunc age dic, Lycida, quae vos tam magna tulere iurgia? quis vestro deus intervenit amori? LYCIDAS Phyllide contentus sola (tu testis, Iolla) Callirhoen sprevi, quamvis cum dote rogaret: 25 en sibi cum Mopso calamos intexere cera incipit et puero comitata sub ilice cantat. haec ego cum vidi, fateor, sic intimus arsi, ut nihil ulterius tulerim. nam protinus ambas diduxi tunicas et pectora nuda cecidi. 30 Alcippen irata petit dixitque: ‘relicto, improbe, te, Lycida, Mopsum tua Phyllis amabit’. nunc penes Alcippen manet ac ne forte negetur, a! vereor; nec tam nobis ego Phyllida reddi exopto quam cum Mopso iurgetur anhelo. 35 IOLLAS A te coeperunt tua iurgia; tu prior illi victas tende manus; decet indulgere puellae, vel cum prima nocet. si quid mandare iuvabit, sedulus iratae contingam nuntius aures. LYCIDAS Iam dudum meditor, quo Phyllida carmine placem. 40 forsitan audito poterit mitescere cantu; et solet illa meas ad sidera ferre Camenas. IOLLAS Dic age; nam cerasi tua cortice verba notabo et decisa feram rutilanti carmina libro.

Ed ora su, Licida, dimmi, che litigio cosi grave vi ha travolto? Quale dio si è interposto nel vostro amore? LICIDA Pago della sola Fillide - tu ne sei testimone, Iolla -, respinsi Calliroe, benché mi richiedesse con una dote. Ed ecco che assieme a Mopso quella si mette a unire le canne con la cera e in compagnia del ragazzo canta sotto il leccio. Quando io vidi ciò, tanto profondamente ne bruciai, lo confesso, da non tollerare più oltre. Immediatamente, feci a pezzi le sue due tuniche e le percossi il petto nudo. In preda all’ira lei se ne è andata da Alcippe, dicendo: «Malvagio Licida, la tua Fillide ti lascia e amerà Mopso». Ed ora se ne sta da Alcippe e temo, ahimè, che forse otterrò un rifiuto. Ma non tanto desidero che mi sia resa Fillide, quanto che lei venga a litigio con quel Mopso tutto ansante d’ amore. IOLLA Da te è partito il litigio, sii tu il primo a protenderle le mani vinte. E’ bello mostrare indulgenza nei confronti di una ragazza, anche quando è lei la prima a fare un torto. Se ti farà piacere affidarmi qualche incarico, raggiungerò, zelante messaggero, le orecchie della fanciulla adirata. LICIDA E’ da un pezzo che vado provando una canzone con cui rabbonire Fillide. Forse sentendo la musica potrà raddolcirsi: è solita portare alle stelle la mia Musa. IOLLA Suvvia, canta; annoterò le tue parole sulla scorza del ciliegio e dopo averla ritagliata porterò a lei la tua canzone su quel libro rosseggiante.

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LYCIDAS ‘Has tibi, Phylli, preces iam pallidus, hos tibi cantus 45 dat Lycidas, quos nocte miser modulatur acerba, dum flet et excluso disperdit lumina somno. non sic destricta macrescit turdus oliva, non lepus, extremas legulus cum sustulit uvas, ut Lycidas domina sine Phyllide tabidus erro. 50 te sine, vae misero, mihi lilia nigra videntur nec sapiunt fontes et acescunt vina bibenti. at si tu venias, et candida lilia fient et sapient fontes et dulcia vina bibentur. ille ego sum Lycidas, quo te cantante solebas 55 dicere felicem, cui dulcia saepe dedisti oscula nec medios dubitasti rumpere cantus atque inter calamos errantia labra petisti. a dolor! et post haec placuit tibi torrida Mopsi vox et carmen iners et acerbae stridor avenae? 60 quem sequeris? quem, Phylli, fugis? formosior illo dicor, et hoc ipsum mihi tu iurare solebas. sum quoque divitior: certaverit ille tot haedos pascere quot nostri numerantur vespere tauri. quid tibi, quae nosti, referam? scis, optima Phylli, 65 quam numerosa meis siccetur bucula mulctris et quam multa suos suspendat ad ubera natos. sed mihi nec gracili sine te fiscella salicto texitur et nullo tremuere coagula lacte. qui sibi tunc felix, tunc fortunatus habetur, vilia cum subigit manualibus hordea saxis. 85

LICIDA «Questa preghiera, o Fillide, questa canzone a te la offre, ormai pallido, Licida; la suona, infelice, nel corso aspro della notte, mentre piange e rovina, insonne, i suoi occhi. Non così si strugge il tordo quando l’oliva viene spiccata dal ramo, non la lepre dopo che il raccoglitore ha portato via le ultime uve, come consunto vado errando, io, Licida, senza Fillide, signora del mio cuore. Senza di te, ohimè misero, i gigli mi paiono neri, le sorgenti non hanno più sapore, e il vino, quando lo bevo, si fa aceto. Ma se tu ritorni, candidi diverranno i gigli, e le sorgenti ritroveranno il sapore e il vino sarà dolce a bersi. Io sono quel Licida, le cui canzoni, eri solita dirlo, ti rendevano felice, quel Licida a cui spesso hai dato dolci baci e che non esitavi a interrompere nel mezzo del canto e a cercarne le labbra, erranti di canna in canna. Oh dolore! E dopo ciò ti è potuta piacere la voce secca di Mopso, il suo canto senza nerbo e gli stridii di un flauto acerbo? Che uomo vai seguendo? Che uomo fuggi, Fillide? Si dice che io sono più bello di lui e questo tu stessa me lo hai giurato molte volte. Sono anche più ricco: scenda a gara con me, provi a pascolare tanti capretti quanti sono i tori che conto la sera. Che dirti che già non conosci? Tu sai, adorabile Fillide, quante sono le vacche che vengono munte per i miei secchi e quante quelle che tengono i loro piccoli appesi alle poppe. Ma senza di te non intreccio più cesti con il salice sottile e non più tremola il latte cagliato. Ché se tu temi ancora, Fillide, le mie brutali percosse, ecco ti porgo le mie mani: ti consento, sì ti consento di legarle dietro la schiena con ritorto vimine o con la flessuosa vitalba, così come Titiro legò una notte le mani malfattrici di Mopso e appese il ladro in mezzo all’ovile. Eccole, non esitare: l’una e l’altra mano hanno meritato la punizione. Eppure con queste mani, con queste medesime mani più volte nel tuo grembo ho deposto colombe, più volte anche un leprotto spaurito, sottratto con l’inganno alla madre; da me tu hai avuto, all’inizio della stagione, gigli e rose, e non appena l’ape cominciava a suggere i fiori; tu eri cinta di ghirlande. Ma forse con te vanta regali d’oro quel bugiardo, che dicono raccolga, sul finir della notte, i lupini amari come la morte e sostituisca il pane con legumi cotti: lui che si ritiene felice, che si ritiene fortunato quando mette sotto la mola a mano del vile orzo.

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quod si turpis amor precibus, quod abominor, istis obstiterit, laqueum miseri nectemus ab illa ilice, quae nostros primum violavit amores. hi tamen ante mala figentur in arbore versus: "credere, pastores, levibus nolite puellis; 90 Phyllida Mopsus habet, Lycidan habet ultima rerum"‘.- Nunc age, si quicquam miseris succurris, Iolla, perfer et exora modulato Phyllida cantu. ipse procul stabo vel acuta carice tectus 95 vel propius latitans vicina saepe sub horti. IOLLAS Ibimus: et veniet, nisi me praesagia fallunt. nam bonus a dextro fecit mihi Tityrus omen, qui venit inventa non irritus ecce iuvenca.

Ma se un amore indegno si opporrà - dio non voglia - a queste mie preghiere, legherò, sventurato, la corda a quel leccio che per primo ha violato il nostro amore. E tuttavia prima sulla pianta maledetta saranno incisi questi versi: "Non fidatevi, pastori, delle fanciulle incostanti. Mopso possiede Fillide, Licida lo possiede la fine di tutto"». Orsù dunque, Iolla, se vuoi procurare un qualche soccorso agli sventurati, porta questa canzone a Fillide e supplicala con melodioso canto. Io me ne starò discosto al riparo del carice tagliente o, nascosto da presso, sotto la siepe del giardino vicino. IOLLA Andrò, e verrà, se non mi ingannano i presagi: ché Titiro, venendo da destra mi fornisce un auspicio favorevole; eccolo che torna, compiuta la missione, con la giovenca ritrovata.

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DANTE ALIGHIERI, Le egloghe, testo, traduzione e note a cura di Giorgio Brugnoli e Riccardo Scarcia, Ricciardi, Milano-Napoli 1980 DANTES ALAGHERII JOHANNI DE VIRGILIO Vidimus in nigris albo patiente lituris Pyerio demulsa sinu modulamina nobis. Forte recensentes pastas de more capellas tunc ego sub quercu meus et Melibeus eramus. Ille quidem, cupiebat enim consciscere cantum, «Tityre, quid Mopsus? quid vult? edissere» dixit. Ridebam, Mopse; magis et magis ille premebat. Victus amore sui, posito vix denique risu, «Stulte, quid insanis?» inquam: «tua cura capelle te potius poscunt, quanquam mala cenula turbet. Pascua sunt ignota tibi que Menalus alto vertice declivi celator solis inumbrat, herbarum vario florumque inpicta colore. Circuit hec humilis et tectus fronde saligna perpetuis undis a summo margine ripas rorans alveolus, qui, quas mons desuper edit, sponte viam, qua mitis eat, se fecit aquarum. Mopsus in his, dum lenta boves per gramina ludunt, contemplatur ovans hominum superumque labores: inde per inflatos calamos interna recludit gaudia sic ut dulce melos armenta sequantur, placatique ruant campis de monte leones, et refluant unde, frondes et Menala nutent». «Tityre, » tunc «si Mopsus» ait « decantat in herbis ignotis, ignota tamen sua carmina possum, te monstrante, meis vagulis prodiscere capris». Hic ego quid poteram, cum sic instaret anhelus? «Montibus Aoniis Mopsus, Melibee, quot annis, dum satagunt alii causarum iura doceri, se dedit at sacri nemoris perpalluit umbra. Vatificis prolutus aquis, et lacte canoro viscera plena ferens et plenus ad usque palatum,

DANTE ALIGHIERI A GIOVANNI DEL VIRGILIO Vedemmo nei neri solchi che il candido campo sopporta musica soave stillata per noi dal seno delle Pieridi. Chiamando le capre pasciute pur come d’uso alla conta, io e il mio Melibeo ci accoglievamo allora sotto una quercia. Ed egli, che ardeva meco conoscere questo canto «Titiro,» disse «che vuole Mopso? Che dunque? Racconta». Io ne ridevo, o Mopso; ma quello più e più incalzava. Mi vinse l’affetto di lui e cessato alfine il sorriso, «Sciocco, che t’arrovelli?» gli dissi «le capre a te affidate pretendon la tua cura, benché il magro pasto or ne turbi. I pascoli ti sono ignoti che il Menalo con l’alta sua cima copre d’ombre allor che li cela al sole cadente, trapunti del vario colore dell’erbe e dei fiori. Ad essi scorre d’attorno, cupo e coperto di fronde di salcio, con onde perpetue facendo dall’orlo ricolmo molli le rive, un picciol canale, che alveo si rese da sé di quante acque il monte sgorga di sopra, così che tranquillo ne scenda. Ivi, Mopso, nel mentre posano i buoi ruminando nel prato, lieto contempla gli affanni degli uomini e dei sovrani: quindi soffiando sulla siringa schiude l’interna esultanza, sì che all’armonico umore tengano dietro gli armenti e mansueti irrompano pei campi dal monte i leoni, e rifluiscano addietro le onde e crollino la cima le fronde del Menalo». «Titiro», allora ei mi disse «se Mopso riecheggia il suo canto tra ignote verzure, pur ignoti potrei tali versi, se me ne additi i sensi, far udire alle erranti mie capre». Che far potevo, quando sì ansioso mi domandava ? «Mopso ai monti Aonii, o Melibeo, tanti anni, quanti altri assai si consumano per la dottrina del foro e del giure, tutto si diè e pallido si fece all’ombra del sacro bosco. Intinto dell’acque onde soli si fanno i poeti e recando le viscere piene del latte dolcissimo e pieno finanche la gola,

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me vocat ad frondes versa Peneyde cretas». «Quid facies?» Melibeus ait: «tu tempora lauro semper inornata per pascua pastor habebis ? » «O Melibee, decus vatum, quoque nomen in auras fluxit, et insomnem vix Mopsum Musa peregit», retuleram, cum sic dedit indignatio vocem: «Quantos balatus colles et prata sonabunt, si viridante coma fidibus peana ciebo! Sed timeam saltus et rura ignara deorum. Nonne triumphales melius pexare capillos et patrio, redeam si quando, abscondere canos fronde sub inserta solitum flavescere Sarno?» Ille: «Quis hoc dubitet? propter quod respice tempus Tityre, quam velox; nam iam senuere capelle quas concepturis dedimus nos matribus hircos». Tunc ego: «Cum mundi circumflua corpora cantu astricoleque meo, velut infera regna, patebunt, devincire caput hedera lauroque iuvabit: concedat Mopsus». «Mopsus» tunc ille «quid?» inquit. «Comica nonne vides ipsum reprehendere verba, tum quia femineo resonant ut trita labello, tum quia Castalias pudet acceptare sorores?» ipse ego respondi, versus iterumque relegi, Mopse, tuos. Tunc ille humeros contraxit et «Ergo quid faciemus» ait «Mopsum revocare volentes?» «Est mecum quam noscis ovis gratissima» dixi «ubera vix que ferre potest, tam lactis abundans; rupe sub ingenti carptas modo ruminat herbas; nulli iuncta gregi nullis assuetaque caulis, sponte venire solet, nunquam vi, poscere mulctram. Hanc ego prestolor manibus mulgere paratis, hac inplebo decem missurus vascula Mopso. Tu tamen interdum capros meditere petelcos et duris crustis discas infigere dentes». Talia sub quercu Melibeus et ipse canebam, parva tabernacla nobis dum farra coquebant.

m’invita alle fronde che nacquero dalla conversa Peneide». «E che farai?» Melibeo mi disse: «tu sempre pastore trarrai tra i paschi le tempie non orne di lauro?». «O Melibeo, l’onor dei poeti, e il nome pur anche nell’aura svanì e a stento si volse la Musa alle veglie di Mopso», già avevo risposto, quando sì mi si fece sul labbro lo sdegno: «Quanti belati replicheranno i colli ed i prati, se con verde chioma susciterò sulle corde un peana! Ma ch’io tema le balze e le campagne che non conoscon gli dei. Non sarà meglio acconciare i capelli al trionfo e, se mai io ritorni, nasconderli bianchi sotto un serto di fronde allor che soleano farmisi biondi in su le sponde del Sarno paterno?». Ed egli: «Chi mai ne potrà dubitare? Però guarda, Titiro, il tempo come sen fugge; che già le capre invecchiarono, alle cui madri i becchi offerimmo che ne ingravidassero! ». Ed io: «Quando i corpi che al mondo ruotano attorno e chi nelle stelle ha dimora si sveleranno al mio canto, come i regni d’inferno, grata cosa sarà di ricingermi il capo di edera e lauro: Mopso vi assenta». «Mopso», mi disse «perché?». « Non vedi com’ei ne rimproveri le parole volgari, e perché le ripetono logore labbri di femminette e perché le sorelle Castalie d’averne offerta han vergogna?». Così gli risposi e i versi tuoi, Mopso, di nuovo rilessi. Ma quegli restrinse le spalle e «Dunque che cosa faremo» disse «se a Mopso vogliamo dar voce?». Risposi: «Tu sai quella pecora, che ho prediletta, che reca le mamme a fatica, cotanto abbonda di latte; al pie’ d’una rupe grande l’erbe or ora brucate si rumina, né a gregge alcuno congiunta né a recinto alcuno assuefatta, da sé, giammai con la forza, suole venire a richiedere la sua mungitura. E a mungerla adesso mi accingo, con pronte mani, con essa dieci cupelle empirò per farne viatico a Mopso. Tu bada frattanto a distogliere i capri dal dare di cozzo e sulle dure croste apprendi a infiggere i denti». Così sotto una quercia io e Melibeo parlavamo, mentre cuoceva per noi la capanna un pugno di farro.

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Da Jean-Louis Charlet, L’Architecture du Bucolicum carmen de Pétrarque, in «Res Publica Litterarum», XXVII, 2004, pp. 30-41

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PETRARCA Fam. X 3 (da Opere, Sansoni, Firenze 1975, trad. E. Bianchi) Io voglio, o fratello a me più caro della luce, por fine al mio lungo silenzio, che a torto tu crederesti indizio di un animo oblioso; più difficilmente io dimenticherei me stesso che te. Finora, ho avuto scrupolo di turbare la quiete del tuo noviziato; sapevo che tu rifuggivi dallo strepito e amavi il silenzio, e che invece io, una volta incominciato a parlarti, non facilmente avrei cessato; tanto ti voglio bene, tanto ammiro la tua vita. Perciò, tra due estremi sceglievo non quello che a me era più gradito, ma quello che a tè era più caro; ma ora, per dire il vero, mi induco a scriverti non per far piacere a te, ma a me. Che bisogno hai tu delle mie chiacchiere, che entrato nella via che mena al cielo, di continuo ti ricrei degli angelici colloqui? veramente felice e fortunato nella tua scelta, tu che nel fior dell’età potesti abbandonare il mondo proprio quanto più ti lusingava e passare sicuro con le orecchie chiuse attraverso il canto delle Sirene. Scrivendoti, io procuro dunque il mio vantaggio, sperando che alla fiamma tua sacra il mio misero cuore reso torpido e gelido da lunga inerzia si riscaldi; e perciò le mie parole, se non utili, non ti saranno almeno importune. Poiché tu non sei più un coscritto, come un tempo, ma ormai un soldato di Cristo agguerrito da lunga milizia; e grazie ne siano rese a Colui che ti degnò di tanto onore e, come è solito, accolse sotto le sue bandiere un nobile disertore togliendolo dalle schiere dei nemici. Dapprima, mi peritavo a rivolgerti inopportuni consigli; ora sicuro io ti parlo. A chi comincia tutto fa paura, molte cose che da fanciulli tememmo ora ci fanno ridere; ogni rumore spaventa il soldato novellino, chi è abituato alla guerra a nessuno strepito si commuove; il navigante novello si spaventa al primo sussurro di vento, il vecchio nocchiero, che tante volte ricondusse in porto la nave sconquassata e disarmata, dall’alto della poppa guarda tranquillo il mare irato. Io spero dunque in Colui che dal seno della madre ti incamminò per questo sentiero faticoso, sì, ma glorioso, perché attraverso a varie difficoltà tu giungessi in patria; nessuna cosa ormai ti svierà, non le disgrazie, né i dolori, né le malattie, né la vecchiezza, né la paura, né la fame, né la povertà, «né la morte o gli affanni, ombre terribili» e neppure «il guardiano dell’Orco, che nell’antro sanguinoso sulle ossa rose giace», né tutto quello che a spaventare il cuore degli uomini inventò l’ingegno dei poeti. Né di maggior coraggio contro ogni cosa paurosa può aver fatto dono al suo Ercole quel Giove che lo generò per adulterio, che non a te il Figlio della Vergine, eterno padre di tutti, che vede e conforta i giusti voleri di quelli che sperano in lui. Così stando le cose, tu puoi ormai senza timore ascoltare le parole dei tuoi e, se un po’ di tempo libero ti apparirà tra le tue sante

occupazioni, potrai anche brevemente rispondere. E lascia che io mi valga teco dell’autorità di scrittori profani, citati da Ambrogio e dal nostro Agostino e da Girolamo, e che anche l’apostolo Paolo non disdegnò di nominare; e non voler chiuder la porta della tua cella a ciò che è degno che io dica e non indegno che tu ascolti» […] Ma io debbo ora, o mio Dio, entrare in controversia con te, se tu me lo permetti. Perché mai, dimmi, mentre io e mio fratello eravamo presi nel medesimo laccio su tutti e due si abbatte la tua mano, ma non ambedue fummo insieme liberati? egli se ne volò via, e io non più tenuto ad alcun laccio ma ancora ricoperto dal vischio delle male abitudini, non riesco a spiegare le ali, e dove ero legato, ivi sebbene sciolto rimango. Qual è la cagione per la quale, ugualmente rotti i nostri lacci, non ci toccò insieme «l’aiuto nel nome del Signore?». Perché questa davidica cantilena così armoniosamente cominciata terminò con voci così discordi? La volontà di Dio non è mai senza causa, poiché tutti dipendono da lei, che è fonte di tutte le cause. Mio fratello cantò in tono con l’animo rivolto al ciclo, io invece pensando a cose terrene e curvo verso terra; e forse non vidi la destra liberatrice, forse sperai nelle mie proprie forze; questa o altra è la cagione perché, rotto il laccio, io non sono libero. Abbi compassione di me, o Signore, perché sia degno di una maggior compassione; che senza la grazia della tua misericordia in nessun modo l’umana miseria può ottenere misericordia. PETRARCA Fam. X 4 (da Opere, Sansoni, Firenze 1975, trad. E. Bianchi) Al medesimo, sullo stile dei Padri della Chiesa e sulle relazioni tra la teologia e la poesia, con una breve esposizione della prima egloga del suo Carme Bucolico, a lui inviata. Se ben conosco la pietà dell’animo tuo, tu avrai provato orrore nel ricevere il carme unito a questa lettera, così discordante con la tua professione e contrario i tuoi propositi. Ma non far giudizi temerari; che v’è infatti di più stolto che giudicare di ciò che non si conosce? […] Or sono tre estati, mentre ero in Francia, il caldo mi indusse a recarmi alle sorgenti della Sorga, che un tempo, tu lo sai, noi scegliemmo come nostra dimora; ma a te per dono divino si preparava una sede più sicura e più tranquilla, a me neppur di quello fu dato di godere, trascinandomi la fortuna tant’alto che è troppo. Là dunque io mi trovavo, in questa disposizione d’animo: che frastornato

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da tante brighe, non osavo intraprendere nulla di grande, e tuttavia non sapevo stare in ozio, abituato come sono fin dall’infanzia a fare qualche cosa, se non sempre buona. Scelsi allora una via di mezzo: di rimandare ad altro tempo le cose più gravi, e comporre qualcosa che mi distraesse in quel soggiorno. L’aspetto stesso del luogo e i boschi solitari, dove spesso pieno di gravi pensieri io penetravo all’alba e donde soltanto l’avvicinarsi della notte mi richiamava, mi spinsero a cantare qualcosa di silvestre. Cominciato dunque a scrivere un carme bucolico diviso in dodici egloghe, che da un pezzo avevo in mente, è incredibile a dire in quanto pochi giorni lo terminai; tanto quel luogo eccitava l’animo mio. E poiché nessun soggetto avevo in mente che più mi stesse a cuore, scrissi la prima egloga su noi due, la quale facilmente m’indussi a mandarti, non so se per tuo diletto o per impedimento del tuo diletto. Ma poiché è questo un componimento, che se non è spiegato da chi lo scrisse, non si può capire, perché tu non ti stanchi inutilmente, ti spiegherò brevemente, prima che cosa io dico, poi quel che intendo dire. Sono introdotti due pastori; poiché pastorale è lo stile, e perciò messo in bocca a pastori. I nomi dei pastori sono Silvio e Monico. Silvio, vedendo Monico solo e felice, in una quiete degna di invidia sedere sotto un antro, gli parla quasi ammirando la sua fortuna e deplorando la propria, perché egli, lasciati il gregge e i campi, abbia trovato il riposo, lui stesso invece vada ancora aggirandosi con gran disagio tra aspri colli; e tanto più si duole che così grande sia la differenza della loro fortuna, in quanto, come dice, una sola fu la madre di ambedue, perché si capisca che i due pastori son fratelli. Monico in risposta ritorce tutta la colpa della fraterna disdetta su lui stesso, dicendogli che da nessuna forza costretto, egli erra di sua volontà per monti e per selve; e Silvio gli risponde che cagione del suo errare è l’amore, ma soltanto l’amor delle Muse e non d’altro. E perché questo sia chiaro, comincia a narrare una favola piuttosto lunga, di due pastori, che dolcemente cantavano, l’uno dei quali egli si ricorda di aver udito nella sua puerizia, l’altro più tardi, e che preso dal loro diletto ogni altra cosa ha trascurato; e mentre per i monti anelando li segue, ha ormai imparato a cantare, sì da esser lodato dagli altri, anche se non ancora è soddisfatto di sé. Perciò si è proposto di aspirare alla perfezione e di raggiungerla o morire. Monico cerca di persuadere Silvio a entrare nel suo antro, per udirvi un canto più soave, ma subito lascia a mezzo il suo discorso, come se veda sul viso di Silvio segni di turbamento. Quello a sua volta si scusa, e Monico termina il suo discorso, alla fine del quale Silvio meravigliato domanda chi sia quel pastore dal canto così dolce, del quale ora per la prima volta ode far menzione. Monico con rozzezza veramente pastorale non

ne fa il nome, ma ne descrive la patria e, come soglion fare i villani, che spesso errano ne’ nomi, parla di due fiumi che nascono da una stessa sorgente, e subito dopo, quasi accorgendosi del suo errore, cambia le parole, e non più di due, ma di un sol fiume seguita a parlare, che nasce da due sorgenti; l’una e l’altra in Asia. Silvio dice di conoscer questo fiume, e ne dà prova ricordando che in esso un irsuto giovane lavò Apollo. Di là soggiunge Monico essere oriundo quel cantore; e ciò udendo, Silvio subito lo riconosce e ne critica la voce e il canto, esaltando due suoi pastori, mentre Monico ricopre di lodi il suo. Alla fine, Silvio, come se si rassegnasse, dice che a suo tempo tornerà e dimostrerà quanto dolcemente canti quello che è con lui, ma che ora ha fretta. Meravigliato, Monico domanda la ragione di quella fretta, e si sente rispondere che, tutto preso da un canto che ha preso a comporre intorno a un giovane egregio, di cui brevemente narra le gesta, Silvio non può ora occuparsi d’altro; sicché Monico termina il colloquio dicendo addio a Silvio e in ultimo esortandolo a considerare il rischio e il danno dell’indugio. Questo è il sunto del componimento; quanto al suo significato, eccolo. I pastori che parlano siamo noi due, io Silvio, tu Monico. Quanto alla ragione dei nomi, del primo, poiché l’azione si svolge nelle selve, e perché in me è insito fin dall’infanzia l’odio delle città e l’amore delle selve, per il quale molti nostri amici nei loro scritti mi chiamano più spesso Silvano che Francesco; del secondo, perché, chiamandosi uno dei Ciclopi Monico quasi monocolo, un tal nome mi parve in certo modo convenirti, come a colui che dei due occhi di cui ci serviamo noi mortali per guardare con l’uno le cose celesti con l’altro le terrene, tu ti sei privato di quello che guarda le cose terrene contentandoti di quello migliore. L’antro dove Monico vive solitario è Montreux, dove tu ora conduci vita monastica tra spelonche e boschi, o anche in quello in cui Maria Maddalena fece penitenza, vicino al tuo monastero; poiché in esso tu ti confermasti, con l’aiuto di Dio che rinsaldò il tuo cuore vacillante, nel santo proposito, di cui lungamente avevi meco ragionato. La campagna e il gregge, di cui è detto che abbandonasti ogni cura, intendili come la città e gli uomini, che lasciasti fuggendo in solitudine. Che una sola fu la madre di ambedue, anzi ambedue i genitori, non è allegoria ma pura verità. Il sepolcro è l’ultima dimora; che te aspetta il cielo, me, se Dio non m’aiuta, l’inferno; ma si può anche più semplicemente intendere come suonano le parole; che tu hai ormai una sede stabile e perciò una più sicura speranza di sepolcro, io sto ancora vagando e tutto è per me incerto. La vetta inaccessibile, alla quale Monico rimprovera Silvio di tendere con grande sforzo, è l’altezza della fama, che è rara e cui pochi conseguono. I deserti, nei quali Silvio si aggira, sono gli studi, oggi

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davvero deserti, perché abbandonati o per cupidigia di lucro o per pigrizia d’ingegno. Gli scogli muscosi sono i potenti e i ricchi, coperti dalle ricchezze come dal musco; fonti sonanti possono essere chiamati i letterati e gli oratori, dal cui ingegno, come da sorgenti, scaturiscono i fiumi delle scienze con piacevole mormorio. Quello che Silvio fa in nome di Pale, è un giuramento da pastori, poiché Pale è la dea dei pastori; da noi può significare Maria, non dea, ma madre di Dio. Partenia è Virgilio, ed è nome non da me ora inventato, poiché nella vita di lui si legge che meritò di esser chiamato Partenia, come dire integro per il suo modo di vivere; e perché questo da sé il lettore intendesse, è ivi aggiunto un passo nel quale è detto che il Benaco, lago della Gallia Cisalpina, genera un figlio a sé somigliante, ed è questo il Mincio, fiume di Mantova, che è la patria di Virgilio. Il nobile pastore venuto di fuori è Omero, nella descrizione del quale quasi tutte le parole hanno un particolare significato. Infatti quel poi, cioè dopo, non è detto senza occulta cagione, poiché a Virgilio ancor fanciullo io mi accostai, e poi, cresciuto in età, ad Omero; poiché devi sapere che quella che porta volgarmente il nome di Omero è un’operetta di non so quale scolastico, sebbene contenga un riassunto dell’lliade d’Omero. Dissi poi che veniva da paesi stranieri, perché non è italiano né si serve della lingua latina; perciò dissi che non cantava nella nostra favella, essendo egli greco. E giustamente gli compete l’epiteto di generoso pastore, poiché chi mai più generoso della lingua e dell’ingegno d’Omero? Fu aggiunto non so qual valle perché del luogo dov’egli nacque varie sono le opinioni che qui non è il caso di enumerare; infine che Virgilio bevesse al fonte omerico è cosa nota a tutti quelli che si dedicano alla poesia. L’amica, della quale ambedue son degni, è la fama, per la quale cantino i poeti, come per l’amica gli amanti. L’orrida selva e gli aerei monti che Silvio si meraviglia che non seguano il dolce canto dei pastori sono il volgo ignorante e i principi potenti. La discesa dalla cima del monte al fondo delle valli e la salita dal fondo delle valli ai monti di cui parla Silvio a proposito di se stesso, sono l’alterno passaggio dall’altezza della teorica all’esercizio della pratica secondo il variare dei nostri affetti. La fonte che applaude colui che canta è il coro degli studiosi; le aride rocce sono gli idioti, sui quali, come l’eco sulle rocce, batte la nuda voce e si riflette indietro senza esser da essi compresa; le ninfe dee delle fonti sono i divini ingegni degli studiosi. La casa, dentro la quale Monico invita Silvio, è l’ordine dei Certosini, nel quale nessuno entra ingannato, come avviene per altri ordini, nessuno malvolentieri. Il pastore, il cui canto Monico preferisce a quello di Omero e Virgilio, è David stesso, a cui propriamente conviene il verbo salmeggiare a cagione dei suoi Salmi; e la mezzanotte è ricordata per la mattutina salmodia, che soprattutto in quell’ora si

ode nelle nostre chiese. I due fiumi con una sola sorgente, intorno ai quali Monico dapprima prende errore, sono il Tigri e l’Eufrate, noti fiumi dell’Armenia; il fiume dalle due sorgenti è il Giordano della Giudea, e di ciò fanno fede molti autori, tra i quali Girolamo, che spesso e a lungo abitò in quel paese. I nomi delle sorgenti sono: Ior e Dan, dalle quali deriva il fiume stesso e il suo nome; e si narra che sfoci nel mare di Sodoma, dove si dice esistano ancora i campi di cenere a cagione dell’incendio di quella città, in questo fiume si ricorda che Cristo fu lavato col battesimo da Giovanni. Poiché quel giovane irsuto è Giovanni Battista: giovine vergine, puro, innocente, irsuto, incolto, coperto di folte pelli, coi capelli arruffati, con la faccia bruciata dal sole. Quanto ad Apollo, esso è detto figlio di Giove e dio dell’ingegno; e per esso io intendo Gesù Cristo, vero Dio e vero figlio di Dio, signore di ingegno e di sapienza, poiché, secondo i teologi, ha gli attributi della somma e indivisibile Trinità, al figlio è attribuita la sapienza ed egli stesso è detto la sapienza del Padre. Quanto alla voce rauca di David e alle frequenti lacrime e al nome di Gerusalemme spesso ripetuto, essi vogliono indicare lo stile di lui, a prima vista aspro e flebile, e il fatto che nei Salmi ricorre, storicamente e allegoricamente, menzione di quella città. A questo punto si accenna sommariamente a quel che cantano i poeti che Silvio preferisce; fare una vera e propria trattazione sarebbe stato troppo lungo, ma a chi è provetto negli studi tutto è chiaro e manifesto. Monico gli contraddice giustificando la davidica raucedine e con uguale brevità esponendo il suo tema. Il giovane, del quale Silvio cominciò a riferire un canto, è Scipione Affricano, che sul lido d’Affrica abbattè Polifemo, cioè Annibale duce dei Cartaginesi; poiché come Polifemo anche Annibale fu monocolo, dopo aver perduto un occhio in Italia. I leoni libici, di cui come si sa abbonda l’Africa, sono gli altri capitani dei Cartaginesi, che Annibale vincitore sbalzò dal potere. Le tane incendiate sono le navi bruciate, nelle quali era riposta ogni speranza, dei Cartaginesi; narra la storia romana che ben cinquecento Scipione ne bruciò sotto i loro occhi. Questi è anche chiamato giovane celeste sia per l’eroico valore onde rifulse, che da Virgilio è chiamato ardente e da Lucano igneo, sia per l’opinione della sua origine celeste, che per l’ammirazione di tanto uomo avevano allora i Romani. Lui lodano gl’Italici dall’opposto lido, poiché il lido italico è di contro al lido africano, non soltanto per la reciproca inimicizia, ma anche per la posizione geografica; Roma è infatti di fronte a Cartagine. Ma di questo così lodato giovane nessuno canta; così io dissi perché, sebbene ogni storia sia piena delle lodi e delle gesta di lui, e non vi sia dubbio che Ennio a lungo scrisse di lui «in uno stile rozzo e trascurato» come dice Valerio Massimo, non esiste su tal personaggio un componimento poetico veramente degno. Di esso

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dunque io mi proposi di scrivere come potevo, perché proprio di lui tratta l’opera mia che s’intitola Africa, che Dio voglia io possa felicemente terminare da vecchio come animosamente incominciai da giovane. Quanto poi al grave pericolo di differire un saggio divisamento e ai gravi e inattesi casi della vita presente, da cui le ultime parole di Monico consigliano di guardarsi, non c’è bisogno neppur di parlarne. Il resto capirai bene meditandolo. Addio. Padova, il 2 di dicembre, di sera [1349].

PETRARCA, Epistola a Barbato da Sulmona (Var. 49, da Epistuale de rebus familiaribus et variae, ed. G. Fracassetti, III, Firenze 1863) Ti recherà questa lettera il mio carissimo ed intrinseco amico Lelio, che volgarmente chiamano Lelio di Pietro Stefano, uomo di recente ma nobilissima romana origine, e d’indole e di natura veramente romano all’antica. E a te, fratello mio, con tutto il cuore, con tutta l’anima lo raccomando, e per la santa amicizia nostra ti prego che in quelle bisogne sue, delle quali ti parlerà Messer l’Arcivescovo di Trani, piacciati di fare in suo pro né più né meno di quanto faresti se si trattasse delle mie cose o dell’onor mio. E quello che a te scrivo fa che come a sé scritto abbialo il nostro Giove, cui raccomanda tu il suo Mercurio il quale è pronto sempre e parato ad eseguire ogni paterno di lui comando. Addio fratello. - Quantunque la nausea delle faccende che m’ho in questa Curia mi abbiano messo addosso una tal quale pigrizia, e la gravissima soma delle mie occupazioni fatto m’abbia restio ad ogni fatica, non son potuto star saldo contro il volere di questo Lelio, che mi costrinse a copiare colle stanche mie dita una almeno delle diverse Egloghe or ora da me composte nel solitario ritiro della mia Valchiusa: quella cioè con cui intesi d’onorare la eterna memoria del nostro santissimo Re. Egli dice che quantunque piccolo, deve questo dono tornare accettissimo a voi due, ed a Maestro Niccolò d’Alife, ai quali vuol che io lo mandi per avervi ben disposti a secondare del consiglio e dell’opera i suoi desiderii. Fate dunque che non cadano a vuoto le sue speranze: io ve ne prego e riprego quanto so e quanto posso. Or perché aperto a te si paia il senso di questa Egloga, rammentane l’argomento che dianzi io ti esposi. Nell’occhiuto pastore ravvisa l’avvedutissimo Re che a guidare i suoi popoli era tutt’occhi: sotto il nome d’Ideo intendi il nostro Giove nutrito a Creta sull’Ida: in Pitia conosci il mio Barbato, che così chiamai per dar gloria alla sua amicizia, della quale non volendo pur io arrogarmi il vanto, anzi che dirmi Damone, scelsi chiamarmi Silvio, e perché innato è in me l’amore per le selve, e perché quel poetico mio lavoro, siccome dissi, fu da me composto nel silenzio de’ boschi. Il resto è chiaro. Addio di nuovo. Dall’inferno de’ vivi. Ai 18 di gennaio 1347

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PETRARCA, Epistola a Cola di Rienzo (Var. 42, da Epistuale de rebus familiaribus et variae, ed. G. Fracassetti, III, Firenze 1863) Dal procelloso mare di questa Curia che chiaman Romana, in mezzo al quale navigando invecchiai, e pur mi sento rozzo ancora e inesperto del navigare, al porto della consueta mia solitudine, che è quanto dire, dalle mura di Avignone al luogo che secondo sua natura detto è Valchiusa, mi riparai. E sebbene di quindici sole miglia da quella città quanto altra mai turbolenta, e dalla sinistra sponda del Rodano sia questo luogo lontano, tanta in così piccola distanza corre fra loro la differenza, che quante volte dall’una partendo mi reco all’altro, dall’ultimo occidente al punto estremo d’onde nasce il sole parmi d’aver fatto viaggio. Tutto è diverso dal cielo in fuori: uomini, acque, terre diverse. Limpida e fresca per cristalline onde meravigliose scorre per letto come puro smeraldo trasparente e tra tutti i fiumi bellissima la Sorga, or tumida e gonfia come torrente, or come fonte cheta e tranquilla, che veggo con meraviglia da Plinio fra le cose piu memorabili della Narbona annoverata, perocché veramente è sul territorio di Arles. Ho qui una villetta in cui fuori d’ltalia, per legge d’inesorabile necessità, io mi trattengo, luogo a miei studi del mattino e della sera acconcissimo più ch’altro mai per colli ombrosi, per valli apriche, per nascosti ricetti, e per la solitudine che tutta intorno vi regna grata e tranquilla: nel quale d’altri animali meglio che d’uomini l’orme si stampano, né per altro mai che per lo mormorare delle acque correnti, pel muggito de’ buoi che pascolano lungo le rive, o pel cantar degli augelli il grave e lungo silenzio avvien che si rompa. In questo luogo pertanto, del quale altro non dico perché dalle naturali sue qualitadi e da miei versi venuto in fama già fu per ogni dove celebrato e notissimo, non appena avidamente io mi ridussi, sia perché le orecchie e la mente stanche del cittadino tumulto qui potessero trovare alcun conforto, sia per dar l’ultima mano ad alcuni lavori che mi tengono in faccende ed in pensiero, all’aspetto di queste selve mi venne in fantasia di cantare alcun che d’incolto e di pastorale. Ed a quel carme bucolico che nella scorsa estate aveva composto, un capitolo, o per parlare come di poetiche cose conviensi poeticamente, un’egloga aggiunsi, e seguendo la legge che in quella specie di componimenti vieta d’uscir dalle selve, indussi a colloquio fra loro due pastori germani fratelli, e a te degli studi amantissimo in sollievo delle gravi e molteplici tue cure questo mio componimento volli inviato. Ma perché di cosiffatto genere di poesia proprio è che ove l’autore stesso non ne mostri la chiave, altri possa per avventura congetturando indovinare, ma tutto per intero il riposto significato a comprenderne non riesca, io che te intento a pubblici e gravissimi negozi della

Repubblica non voglio costringere a meditar le parole di un rozzo pastore, né che tu spenda in cosiffatte bazzecole pur una briciola di cotesto ingegno divino, brevemente ti farò manifesto il mio pensiero. I due pastori pertanto sono due specie di cittadini nella medesima patria loro abitanti, ma nel sentire della Repubblica fra loro a gran pezza discordi. Marzio è uno che è quanto dire bellicoso ed inquieto, il quale preso il nome da Marte cui fecer gli antichi padre di Romolo, tutto pietoso e compassionevole si dimostra alla sua genitrice. E questa è Roma. L’altro fratello è Apicio, che tu ben sai essere stato maestro della cucina: nel quale sono da ravvisarsi i voluttuosi e gli inerti. Gran contesa è fra loro intorno agli uffici di pietà che all’annosa madre sono dovuti, e spezialmente si tratta di ristorarle la casa antica, cioè a dire il Campidoglio, ed il ponte per lo quale alle campagne sue solea tragittarsi, che è il ponte Milvio, sotto cui scorre il rivo, ossia il Tevere, che giù discende dai gioghi dell’Appennino. In quella strada che porta agli orti antichi e alle case di Saturno intendi quella che guida ad Orta antica ed a Sutri: e nell’ombrosa Tempe ravvisa l’Umbria ove sono Narni, Todi, ed altre molte città: siccome più innanzi è la Toscana, il cui popolo discendere dalle genti dei Lidi è a te ben noto. E in quel pastore, del quale ivi si narra che sorpresi i ladri li uccidesse sul ponte, ravviserai di leggieri M. Tullio Cicerone, che tu sai bene aver sul ponte Milvio scoperta la congiura di Catilina. Perché console, lo dissi pastore: lo dissi arguto, perche fu principe nella eloquenza. La selva cui la rovina del ponte minaccia ruina e la scarsa greggia, sono figure del popolo di Roma: le mogli e i figli, de’ quali, senza curar della madre, tanto pensiero si dà Apicio, sono le terre ed i vassalli e le spelonche delle quali ivi è parola, sono le rocche dei baroni, entro le quali riparandosi insultano alla pubblica miseria. E vuole Apicio che il Campidoglio non si restauri perché Roma si sbrani e partasi in due, ed a vicenda or dall’una ed or dall’altra parte si prenda il comando. L’altro, ch’è vago dell’ unità dell’impero, rammenta per lo restauro del Campidoglio le materne dovizie, e tuttora potente nella concordia de’ figli vuol che sia Roma nutrice del gregge e dei giovenchi, che è quanto dire dell’umile volgo e del popolo più robusto. E fra gli altri avanzi dell’ antiche ricchezze gli vien pur fatto di rammentare il sale nascosto: il che, quantunque della gabella del sale, che a quel che dicono rende assaissimo, possa intendersi detto, meglio però sarà da te interpretato per la Romana sapienza lungamente soffocata dalla tirannide. E mentre que’ due così garriscon fra loro, ecco venir un Veloce, che è la Fama, di cui, secondo Virgilio:

Altro male non avvi al par veloce. E questi delle vane cure e del piatire inopportuno fatta prima rampogna, annunzia

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loro che la madre li sconosce, e che per volere di lei un minor germano gli imprese a fabbricare la casa; il quale e delle selve tiene il governo, e a dolce canto sciogliendo la voce, alle greggie degli animali impone silenzio, che è quanto dire: leggi promulga, e quel che nuoce allontana. Delle quali cose parlando o i nomi, o l’indole, o gli stemmi di alcuni infra i tiranni nel nome delle fiere accortamente nascosi. Quel germano minore infino ad ora sei tu. Il resto è chiaro di per se stesso. - Addio , grand’ uomo, e ti sovvenga di me. PETRARCA Fam. XXII 2 (da Opere, Sansoni, Firenze 1975, trad. E. Bianchi) A Giovanni da Certaldo, che spesso scrivendo gli accade di errare in quel che meglio sa; e sulla legge dell’imitazione. Appena tu fosti partito, sebbene addolorato, tuttavia, poiché non so stare senza far nulla - sebbene, a dire il vero, tutto quello che fo sia nulla o al nulla molto simile - trattenni presso di me il nostro amico per compiere insieme con lui il lavoro cominciato insieme con te: rivedere le copie del Carme bucolico, che avevi portato teco. E mentre ne discorrevo con quel brav’uomo tagliato all’antica, amico veramente caro, tardo nel leggere, mi accorsi di alcune parolette ripetute più spesso che non avrei voluto e di altre cosette ancor bisognose di lima. Perciò ti avvisai di non affrettarti a trascriverlo e a darne copia al nostro Francesco, non ignaro dell’interesse che voi dimostrate a ogni cosa mia e soprattutto ai miei scritti, che, se l’amore non vi facesse travedere, non sarebbero degni né delle vostre dita né dei vostri occhi; pensavo di poter far comodamente le correzioni in poche ore, appena tornato in campagna, come mi proponevo di fare il primo di luglio; ma m’ingannai. Poiché i frequenti e quasi annuali moti della Liguria mi trattennero in città, sebbene tanto ami la campagna e odi la città; ultimamente però, poiché il timore era più grande del pericolo, ai primi di ottobre, tardi ma in tempo, vinta dal desiderio la trepidazione dell’attesa, venni alle rive dell’Adda, dove da qualche tempo ho il mio solitario rifugio. Qui mi trovo ormai da otto giorni, e la pioggia continua e un pessimo autunno, o piuttosto un precoce inverno, mi fanno sperare un breve riposo. Tuttavia di questa dimora, che breve mi promettono le condizioni del tempo e l’aspetto del cielo, io ho approfittato per rivedere quel carme, e mi sono accorto che all’ingegno di chi corregge giova la lentezza di chi legge. È un fatto che come a render piacevole ciò che si legge conferisce un lettore elegante, spedito, intelligente, così a scoprire e mettere in vista gli errori più si confà un lettore lento, esitante, ottuso. Così del resto accade

in questa come in ogni altra cosa. Consegna un cavallo a un cavaliere agile e pratico: non ti avvedrai dei suoi vizi; consegnalo a un inesperto: subito ti saranno palesi. Affida una causa ingiusta a un bravo avvocato: ne nasconderà con arte l’ingiustizia; fa’ salire in tribuna un avvocato dappoco: con l’imbecillità del difensore si paleserà l’iniquità della causa. Dimentichi forse che Catone il Censore stimò doversi al più presto licenziare l’accademico Carneade, capo di un’ambasceria filosofica mandata a Roma dagli Ateniesi, addicendo come ragione che, quando costui parlava, non era facile comprendere in un affare che cosa ci fosse di vero o di falso? Così è: l’abilità degli artefici cela gli errori, l’ignoranza li svela. Mentre il nostro amico leggeva, vidi quel che, leggendo te, non avevo veduto; e ora ho imparato che quando in un libro si ricerca il diletto, occorre un lettore pronto e piacevole, quando la correzione, tardo e sgradito. Quali mutamenti intenda fare in quel carme ho segnato a parte, per non empire questa lettera di segni e richiami. Ma una cosa voglio dirti, che a me fin a oggi era ignota e ora mi meraviglia e stupisce. Quando tutti noi scriviamo qualcosa di nuovo, spesso erriamo in ciò che più ci è familiare e che proprio mentre scriviamo c’inganna; mentre siamo più sicuri in ciò che più lentamente imparammo. ‘Che dici mai? ‘ tu mi domandi; ‘non è questa una contraddizione? Non è possibile che due cose tra loro contrarie sian vere: che ciò che meglio sappiamo si sappia meno e ciò che più negligentemente imparammo più saldamente riteniamo. Che sfinge, che enigma è questo?’ Ecco. Questo avviene anche in altre cose, per esempio, che un padre di famiglia abbia meno a mano quel che più diligentemente nascose e che ciò che più profondamente seppellisce più difficilmente si tragga alla luce; ma questi sono esempi di cose materiali, e ad esse non mi riferisco. Per non tenerti sospeso con chiacchiere, eccoti un esempio adeguato. Io ho letto una volta sola Ennio, Plauto, Felice Capella, Apuleio, e li ho letti in fretta, in essi soffermandomi come in territorio altrui. Così scorrendo, molte cose vidi, poche notai, pochissime ritenni, e come roba comune le riposi in luogo aperto, come a dire nell’atrio della memoria; sicché, ogni volta che mi capitò di udirle o riferirle, subito mi accorsi che non erano mie e ricordai di chi erano; appartengono ad altri, e io come d’altri le possiedo. Ho letto Virgilio, Orazio, Boezio, Cicerone, non una volta ma mille, né li ho scorsi ma meditati e studiati con gran cura; li divorai la mattina per digerirli la sera, li inghiottii da giovane per ruminarli da vecchio. Ed essi entrarono in me con tanta familiarità, e non solo nella memoria ma nel sangue siffattamente mi penetrarono e s’immedesimarono col mio ingegno, che se anche in avvenire più non li leggessi, resterebbero in me, avendo gettato le radici nella parte più

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intima dell’anima mia, ma talvolta io dimentico l’autore, poiché per il lungo uso e per il continuo possesso quasi per prescrizione essi son divenuti come miei, e da così gran turba circondato io non ricordo più di chi sono e se sono miei o d’altri. Questo volevo intendere quando ti dicevo che le cose più note c’ingannano; che quando talvolta ci tornano alla mente, accade che all’animo fortemente preoccupato e intento in altro pensiero esse si presentano non solo come tue, ma, ciò che ti farà meraviglia, come nuove. Ma perché dico che ti meraviglierai? Son certo che anche tu hai notato in te qualche cosa di simile. A scoprir tali plagi io duro non poca fatica; poiché chiamo a testimone il nostro Apollo, unico figlio del sommo Giove, e Cristo, vero Dio di sapienza, che io non sono avido di preda e mi astengo dal ricercare le spoglie così dei patrimoni come degl’ingegni altrui. Se si troverà nei miei scritti qualcosa di contrario a quel ch’io dico, ciò deriverà, per gli autori che non ho letti, da quella somiglianza d’ingegno di cui ti parlai nella mia lettera precedente, per gli altri, da errore o dimenticanza, come or ora ti ho detto. È mia intenzione, lo dichiaro, ornar degli altrui pensieri e consigli la mia anima, non il mio stile; se pur non lo faccia citando l’autore o modificando profondamente il concetto, per ricavare un unico concetto da molti, a mo’ delle api. Altrimenti, preferisco avere un mio stile, che sia pur rozzo e incolto, ma mi si adatti come una tunica, fatto a misura del mio ingegno, e non uno stile altrui, più elegante e più adorno, ma derivato da altri, che da ogni parte mi scivoli, non essendo adatto alla umile statura del mio ingegno. Ogni veste si adatta all’istrione, ma non ogni stile a chi scrive; ognuno deve formarsene uno proprio e conservarlo, perché non accada che ridicolmente vestito dell’altrui e spogliato da quelli che rivogliono le loro penne, rimanga come la cornacchia scornato. Tutti abbiamo una propria personalità, come nel volto e nel gesto così anche nella voce e nella parola, che è più facile, più utile e più bello coltivare e migliorare, che mutare. ‘E di te che pensi?’ dirà qualcuno; non tu, amico mio, che mi conosci a fondo, ma uno di quelli che taciti e chiusi nel loro silenzio e sicuri dei critici osservano gli altri e sanno da ogni nostra parola cavare un dardo. Mi ascoltino, giacché si fanno arme soltanto di quel che ascoltano. Io non mi giudico come quello che Giovenale descrive: Di vena non volgare egregio vate, Che non ripeta mai quel che altri disse Né di bassa moneta impronti i carmi; e che lo scrittore stesso intendeva non di mostrare ad altri, ma solo immaginare col pensiero; non, come Orazio, Di libere orme io primo impressi il suolo,

e neppure: I parii giambi io primo al Lazio diedi; né come Lucrezio: Ignoti campi delle Muse io calco, Da nessuno calcati; o con Virgilio: A me piace salir per dolce piaggia E per sentier non mai prima calcato Alla fonte Castalia. Dunque? Io intendo seguire la via dei nostri padri, ma non ricalcare le orme altrui; intendo servirmi dei loro scritti non di nascosto ma pregandoneli, e, quando posso, preferisco i miei; mi piace l’imitazione, non la copia, e un’imitazione non servile, nella quale splenda l’ingegno dell’imitatore, non la sua cecità o dappocaggine; e preferisco non avere una guida, piuttosto che esser costretto a seguirla in tutto. Voglio una guida che mi preceda, non che mi tenga legato a sé, e che mi lasci libero l’uso degli occhi e dell’ingegno, non m’impedisca di porre il piede dove mi piaccia e ad alcune cose passar oltre, altre inaccessibili tentare, e mi permetta di seguire una via più piana, e d’affrettarmi, e di fermarmi e di dilungarmi, e di tornare indietro. Ma io meno il can per l’aia e ti fo perder tempo. Quel che oggi ti voglio dire è che in un certo luogo della mia decima egloga avevo scritto: «solio sublimis acerno», poi, quando lo rileggevo, mi accorsi che eran parole molto simili a quelle di Virgilio, che nel libro VIII del suo divino poema dice: «Solioque invitat acerno». Farai dunque una correzione e scriverai: «e sede verendus acerna». Poiché io son convinto che il trono degl’imperatori romani fosse d’acero, perché d’acero era secondo Virgilio il cavallo di Troia; e così come in teologia il legno fu cagione prima dell’umana miseria e poi della redenzione, così anche in poesia il legno in genere e quell’albero in particolare fu cagione della rovina dell’impero e della sua risurrezione. T’ho accennato il mio pensiero, e non mi dilungo di più. In quella medesima egloga si leggeva un altro passo che – vedi cosa strana – essendomi molto noto m’era sfuggito, e in esso errai, mentre, se meno l’avessi conosciuto, non sarei incorso in errore; e non era un passo ad altro simile, ma identico; avevo fatto come chi ha davanti agli occhi un amico, e non lo vede. Il passo diceva: «Quid enim non carmina possunt?». Rientrato in me, mi accorsi che quella finale di verso non era mia; di chi fosse non seppi a lungo riconoscere, perché, come ho già detto, l’avevo nella memoria come cosa mia; ma in fine ricordai che era nel VII libro delle Metamorfosi d’Ovidio. Anche questo tu

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cambierai, e vi sostituirai: «quid enim vim carminis equet?», verso non inferiore all’altro né per le parole né per il concetto. E questo sia mio, se pure anche così corretto è mio; l’altro sia restituito al suo padrone, e appartenga a Ovidio; ch’io neppur se volessi glielo potrei rubare, né se potessi lo vorrei. Poiché, sebbene io sappia che alcuni antichi e sopra gli altri Virgilio (come quando si vanta di aver tolto la clava a Ercole) non solo tradussero molti versi dal greco al latino ma li trasportarono tali e quali dalle opere altrui nelle loro, non per ignoranza – che in tanti e chiari esempi tolti di qua e di là non si può ammettere – né, come si comprende, per volontà di rubare, ma solamente per emulazione, tuttavia diremo che essi avevano o meno scrupoli o mente ben diversa; io per me, se la necessità mi costringe, potrò anche volontariamente valermi della roba altrui, ma non farmene bello; e se a questo proposito senza volerlo venissi meno, fa’ ch’io lo sappia: riconosco la tua buona fede, e restituisco quel che ho rubato. Cosi è dei due versi di cui or ora parlavo; se altri ne troverai, correggili da te o avvertimi amichevolmente. Poiché nulla di più gradito tu o i miei amici potete farmi, che dimostrare col correggermi un animo a me veramente amico e libero e intrepido. Nessuna riprensione mi è di questa più cara, salvo quella che riguardi i miei costumi; e son pronto a conformare di buona voglia il mio stile e la mia vita non solo ai consigli degli amici, ma anche ai latrati degli emuli, purché tra le tenebre dell’invidia risplenda una scintilla di verità. Vivi felice e ricordati di me. PETRARCA Fam. XXIII 6 (da Opere, Sansoni, Firenze 1975, trad. E. Bianchi) A Giovanni vescovo di Olmütz, cancelliere dell’Impero, che quanto più uno ci ama, tanto meno si deve prestar fede alle sue lodi Onde avviene che il mio maestro e signore mi chiami suo signore e maestro? non da altro che dal suo grande amore, il quale dimentico di sé, non pensa che a colui che ama, e se lo immagina quale vorrebbe che fosse, e cerca di inalzarlo; e se questo non gli è dato, egli stesso si abbassa, in modo da mettersi alla pari con lui. Se tu non riesci a sollevare dalla polvere i tuoi amici e collocarli sopra il tuo capo, non ti pare di aver fatto nulla per loro; ma io, quanto più alto mi porrai, tanto più mi farò umile; né mai il favore di un tant’uomo mi renderà dimentico della mia condizione. Un tempo io ti elessi mio signore; maestro ti rese a me non la mia volontà, ma la tua intelligenza e il tuo valore. Fa’ ora di me quel che ti piace; son cose tue, e tu puoi collocarmi in alto o in basso; a me rimane conoscere me stesso e le cose mie, e sul fatto mio non credere ad altri più che a me stesso; e

soprattutto tanto meno fidarmi delle lodi quanto più chi mi loda mi ama. Ti ringrazio a ogni modo di così benigno affetto e di sì cortese degnazione, e considero te felice per tanta bontà d’animo, me per così benevolo giudizio. Molte cose mi vengono in mente, ma grandi sono le mie occupazioni, breve il tempo, e poi credo che dovrò spesso e con lunghe lettere a Cesare occupare i tuoi occhi e la tua lingua; la quale, come credo, insinuandola in quelle sacre orecchie, vorrei che si mostrasse binigna a questa mia penna ardente e importuna, se troppo liberamente morde il freno. Ti mando anche il mio Bucolicum carmen, che a nessuno finora ho donato, ma che molti videro; al quale vorrei unire la chiosa, anzi il chiosatore; ma questo io non spero che avvenga prima che il nostro Cesare alle mie grida e di tutto il mondo non riscuota. Il resto saprai da colui che ti consegnerà questa letterina, il quale conosce tutte le cose e specialmente le mie. Non ti dico altro di lui, ché tutto tu sai; salvo forse questa, che tra i banditori della tua fama, che son molti, nessuno ha una tromba più sonora della sua. Addio e sii felice, o gloria nostra. Milano, 21 marzo 1361 PETRARCA Sen. II 1 (da Le Senili, a cura di Ugo Dotti, Torino 2004) Ad Iohannem de Certaldo, obiectorum stilo criminum purgatio [1] Bisognava, per scampare ai latrati di Scilla, o tacere o nascondersi; meglio anzi non essere nati. Non è uno scherzo uscire in pubblico: ecco subito i cani assalirti, i grossi col morso, i piccoli con l’abbaio: di lì il pericolo, di qui il fastidio. Mi ero si proposto di evitare entrambe le cose con il silenzio e lo starmene appartato, ma l’urgere degli eventi mi ha spinto dove non avrei voluto. Fattomi ormai spettacolo al mondo, ecco che sono mostrato a dito proprio da coloro ai quali, il non essere conosciuto, è la cosa migliore. [2] Non sono Scipione contro il quale, quando saliva di notte sul Campidoglio, i cani non osarono abbaiar mai: proprio come ricordo d’aver letto di lui, anche se non manca chi ritiene che ciò si può ottenere in grazia di farmaci o incantesimi. Dovunque invece mi diriga, e in pieno giomo, sono circondato da una turba di cagnacci ululanti; dovunque mi volga spuntano fuori da ogni quartiere. Se fossero almeno di razza poco m’importerebbe, sia perché sono pochi sia perché non assalgono se non aizzati. Ma questi sono senza numero, fremebondi, striduli, tipici cani che non riuscendo ad aggredire le persone col morso, le assordano con un latrato immortale. Seneca, che dovette anch’egli sopportare qualcosa di simile, si espresse con finezza quando disse:

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«Abbaiate come botoli che incontrino uno sconosciuto»; e questi sono davvero dei botoli che mi hanno sicuramente gia visto ma mai conosciuto. [3] I cani, di solito, latrano o mordono per paura, ma qui la paura non c’entra dato che io non ho i denti di Teone e loro, per non essere morsi, si sono mirabilmente ingegnati a rimanere sempre muti e nascosti. E non considerano l’arroganza e la sfrontatezza di chi pretende di giudicare gli altri senza essere a sua volta giudicato, anche se è difficile far giudizio di chi si avvolge in un ostinato silenzio. [4] Nuova genia! Antica anzi, e infesta non soltanto a me che sono l’ultimo degli uomini, ma ai primi e ai maggiori e soprattutto a Gerolamo il quale, parlandone agli amici, disse: «Guardatevi dal mettere in pubblico un libro o dall’approntare cibo agli schifiltosi; cercate di evitare il cipiglio di coloro che senza far nulla sanno soltanto sputare sentenze sul lavoro altrui». Io però credo che sia proprio questo loro comportamento a farne giustizia; e cioè che la prova della loro ignoranza sia proprio ciò che escogitano per coprirla, e che insomma quanto più cercano di coprirsi tanto più si scoprono dal momento che, mentre col silenzio credono di sviare il giudizio degli uomini, vengono in realtà bollati dal silenzioso giudizio dei dotti. Se dunque un Gerolamo ne ebbe timore e ci consigliò di starne lontani, cosa dovremo fare io o gli altri? [5] A dir vero non è stato tanto per paura quanto per loro disprezzo e ripugnanza (oltre che per non offrire materia e ragione di esercitare le loro lingue pruriginose), se ho spesso ammonito me stesso e gli amici: me stesso di non scriver più niente di nuovo, gli amici di non divulgare ciò che avessi eventualmente già scritto. Né è poi degli altri che in realtà debbo lamentarmi; sono io che non mi sono ubbidito. Che se tanto m’ero acceso del fuoco dello scrivere, dovevo scrivere e distruggere di modo che, giacché questa è la mia indole, pur godendo del piacere delle lettere avrei evitato i morsi e i latrati dell’invidia. Cosa che probabilmente sarebbe avvenuta se alla gioia che mi spingeva con solerzia al comporre non avesse corrisposto la pena che mi rendeva tardo al distruggere: io infatti compativo quelle innocenti mie pagine e - ben duro è uccidere chi si ama! - mi sembrava d’essere sul punto di infierire con le stesse mie mani proprio sulla mia prole, vale a dire sul frutto del mio ingegno. [6] Pure vi infierii, e come Abramo ritenne che il sacrificio del figlio fosse gradito al Dio del cielo, cosi io, per usare non un linguaggio cattolico ma uno poetico, ritenni che il sacrificio dei miei scritti potesse essere caro a Febo e a Pallade, certo al contempo che alla rabbia dei miei detrattori poteva venire sottratta molta libidinosa protervia. Se poi avessi saputo o non scrivere più nulla o bruciare ciò che avevo scritto, a loro avrei procurato un’etema raucedine, a me un etemo riposo. Ma non seppi. E se infine avessi potuto nascondere quegli scritti che,

frutto di una lima piu severa, ancora mi rimanevano, sin quando almeno rimanevo in vita sarei rimasto in pace; ma neppur questo ho potuto, spinto da questa mia indole che nulla sa negare agli amici o tenere loro nascosto. Di qui la radice prima di quanto di sgradevole devo sopportare. […] [80] Se dovessi commuovermi alla quarta e non so se ultima accusa, dovrei commuovermi al riso. Dicono che nelle mie Bucoliche il mio stile si leva piu alto di quanto convenga allo stile pastorale. Magari mancasse d’ogni altra menda tutto ciò che ho scritto o potrei scrivere: ne sarei ben lieto, pur sapendo che tre sono gli stili dei poeti e degli oratori e che non è senza colpa chi adopera l’uno al posto dell’altro. [81] Del resto il valore dell’alto, del medio e del basso non vale tanto in senso assoluto quanto in relazione a un confronto, onde in una pianura svettano colli anche piccoli, mentre monti pur alti vengono nascosti da monti ancora più alti. Lo stesso Olimpo, vincitore delle nubi, è vinto dal cielo e la luna, altissima rispetto a noi, è inferiore rispetto alle altre stelle. [82] Quel libro lo scrissi da giovane, «reso audace dalla giovinezza» come delle sue Bucoliche scrive Virgilio, e credetti poi di poter scrivere qualcosa (e gia vi diedi mano) con cui sperare - né oggi dispero - di giungere tanto in alto da far apparire quel mio primo lavoro, nel confronto, notevolmente umile e basso. [83] C’è poi da dire, per fare a meno di qualsiasi paragone, che c’è un valore assoluto e uno relativo, onde molte cose appaiono alte o basse a seconda di chi le giudica; tant’è vero che nel salmo è scritto:

«Per i cervi sono gli altissimi monti» e, subito dopo: «La pietra è il rifugio dei conigli». Così la talpa, quando sia salita in superficie, non va più su, mentre tra gli uccelli, per volare in alto, l’aquila sale sulle nubi, il pavone sui tetti, il gallo su di un mucchio di concime. [84] A che farla lunga? Assolvo volentieri quello stile il cui unico vizio sia quello di innalzarsi e, se necessario, mi sottoporrò con piacere a questo biasimo. Ma a mio giudizio non è necessario. Coloro cui è parso muovermi tale censura sono forse di troppo bassa levatura e, per ciò che ne penso io, in quella mia opera non c’è nulla di piu alto di quanto convenga o abbia voluto. [85] E venisse finalmente il momento in cui questi nostri detrattori si decidessero a parlare o a scrivere in latino, sì da non doverli ascoltar sempre eruttare in volgare, negli angoli tra donnicciuole e lavapanni, le loro sofisticherie. E in queste scuole che filosofeggiano, in questi tribunali che sentenziano senza giustizia o discernimento: l’assente è subito colpevole; non c’è scampo per nessuno; si condanna senza difesa; si fa strazio d’ogni buon nome antico e nuovo;

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si falsifica ogni buona fama conquistata a prezzo di lunghe vigilie. [86] Poni di fronte a questi grassatori un uomo colto: li vedrai ammutolire e diventare di sasso quasi si fosse loro accostata la palladia Gorgone. Scrivano un solo rigo, li prego, e si accorgeranno, se così deve essere, che anche noi abbiamo i denti. Ma che chiedo? La loro ignoranza e la loro invidia non sono da meno della loro furbizia. A porsi al sicuro hanno provveduto una volta per sempre e di lì, sempre acquattati e sibilanti - per concludere con le parole di quel Gerolamo che dovette sopportare molte offese di tal fatta -, «si credono colti solo in questo: nel mordere il prossimo». Addio. Venezia, 13 marzo 1363 PETRARCA, Lettera a Benintendi Ravagnani, cancelliere della Repubblica di Venezia (da N. Manni, «O deus, qualis epistola!» A New Petrarch Letter, «Italia Medioevale e Umanistica», XVII, 1974, pp. 242-243) Copia cedule ad insignem virum cancellarium Venetiarum Benintendi, nostri amantem et honestis actibus ac studiis bene intentum, ostendenda Venetiis Donato primum, Florentie Iohanni, Mediolani Nerio, Petro et Modio meis, et per hos aliis opusculum illud habentibus, si qui sunt. Nudius tertius dum ad me venisses et ex more omnis ferme de literis sermo esset, optasti ut Bucolici carminis mei, quod non legi tantum sed scribi etiam dignum censuisti, decimam eglogam tibi percurrerem, et quid ibi sensissem brevi oratione dissererem, eo presertim quod ceteris longior sit et in singulis obscurior videretur. Parui; dumque inciperem supervenit ille vir nobilis et nostri literarum amantissimus Zacharias Contarinus, qui sermonem ceptum non ut plerique supervenientum interrupit sui presentia, sed adiuvit. Tandem cum verborum finis esset, dixisti credere te ad unum omnes qui omnibus terris ac seculis fuissent poetas ea narratione comprehensos. Negavi, dicens id quod erat: non me illud dum scriberem cogitasse, tum quia longum et difficile, tum quia minime necessarium. Tu tamen, urbanitate illa tua potius quam quod ita sentires, in sententia perstitisti, nullum te unquam nomen audivisse quod ibi suo more non esset. Ita inde discessum est. Ego vero cum domi solus remansissem, cogitare institi an quod tu factum dixeras fieri posset. Quidvis? caput meum nosti: collegi omnes pene qui deerant, illos dico quos noveram, ita ut pauci, nisi me frustretur memoria, sint dimissi, qui scilicet inserti nitescere non poterant, quos Ars poetica vult omitti. Has additiones tibi mitto: quas si supervacue videbuntur, abice, et sine

his quidem plena sententia est; si placebunt, suscipe hunc laborem «inque meis culpis», ut ait Ausonius, «tu tibi da veniam» qui materiam prebuisti. Non potest autem apte fieri, nisi quaternus ultimus operis mutetur, et ita sit ut iste, quem exempli gratia ad te misi. Multa quidem addidi, nil mutavi nisi quod convinctionem unam dempsi: ubi enim erat decorum et, abstuli illud et, ut vitem concidentiam unius Horatiani versus. Preterea sic noster iste sonantior. Item in fine ubi erat moderatius opta, deprehendi finem esse unius Ovidiani versiculi; ideo dixi quod honestius opta. Non est autem grave peccatum si nil additum aut mutatum sit. Misi tamen hec tibi, comunicanda cum amicis penes quos libellus is meus est: legite omnes et eligite quicquid censueritis; ex nunc probo. [1364] PETRARCA Fam. XXIII 19 ((da Opere, Sansoni, Firenze 1975, trad. E. Bianchi) A Giovanni da Certaldo, di un giovane che lo aiuta a trascrivere; e che nulla è corretto fino a tal punto che non gli manchi qualcosa. Un anno dopo la tua partenza, mi capitò un giovinetto d’egregia indole, che mi dispiace tu non conosca, sebbene egli conosca benissimo te, che vide spesso a Venezia nella mia casa che è come tua e presso il nostro Donato, e, come è costume della sua età, osservò attentamente. Perché sia noto anche a te, per quanto è possibile da lontano, e lo veda attraverso questa mia lettera, sappi ch’egli nacque sul mare Adriatico, nel tempo in cui, se non erro, tu vivevi presso l’antico signore di quel paese, avo di colui che ora lo governa. Umile è l’origine e la condizione di questo giovane, ma grande la modestia e la gravità degna di un vecchio, acuto e agile l’ingegno, rapida la memoria e pronta e, ciò che più importa, tenace. In undici giorni l’uno dopo l’altro imparò a memoria e ritenne il mio Bucolicum carmen, che è composto, come sai, di dodici egloghe, sicché ogni giorno, a sera, mi recitò tutto d’un fiato e senza errori un’egloga, e l’ultimo due. Possiede inoltre, cosa rara ai tempi nostri, gran vivacità d’invenzione e un nobile estro e un cuore devoto alle Muse, e già, come dice Virgilio, compone versi, e se vivrà e, come spero, crescerà col tempo, «diverrà qualcosa di grande», come d’Ambrogio predisse il padre. Molte cose potrei dir di lui; mi contenterò di poche. Una l’hai già udita; ascolta ora un ottimo fondamento di virtù e di scienza: il volgo non ama tanto e desidera il denaro, quanto egli lo disprezza e rifiuta; è vana fatica fargli accettar denaro; accetta soltanto il necessario per vivere; gareggia con me nel desiderio di solitudine, nel digiuno e nelle veglie e spesso mi vince. Che più? Con

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tali pregi così mi è divenuto caro, ch’io l’amo come un figliuolo, e forse anche più, perché un figliuolo, com’è uso del nostro tempo, vuol comandare, questo invece ama obbedire, né pensa al suo piacere ma al mio vantaggio, e ciò non per cupidigia o speranza di guadagno, ma solo per affetto e forse con la speranza di farsi migliore praticandomi. Son già due anni che è con me, e così fosse venuto più presto! Ma non gli sarebbe stato possibile per l’età. Le mie lettere familiari in prosa, delle quali vorrei che grande fosse il pregio come grande è il numero, che per la confusione degli esemplari e le molte mie occupazioni avevo quasi abbandonate e che quattro miei amici, dopo avermi promesso il loro aiuto, avevano lasciato a mezzo, costui da solo riuscì a riordinare, non tutte, ma quante possono esser contenute in un volume di non gran mole; e se vi aggiungerò questa, saranno trecentoquarantacinque. Un giorno, se Dio ci aiuta, tu le vedrai trascritte da lui, non con quella scrittura adorna e pomposa, quale è quella degli scrittori o meglio pittori del nostro tempo, la quale da lontano piace all’occhio, ma da vicino lo confonde e affatica, come se a tutt’altro fosse destinata che a leggerla e come se ‘lettera’ non significasse ‘lettura’, come dice il principe de’ grammatici, ma con altra ben diversa e corretta e chiara, che attrae l’occhio e cui non manca né una virgola né altro segno ortografico. E basti di ciò. Per dirti in ultimo quel che avevo intenzione di dirti per primo, sappi che costui è soprattutto proclive alla poesia, nella quale se col tempo si affermerà, non potrà a meno di suscitare in te meraviglia e contento. Data la sua giovane età, egli è ancora incerto, né sa bene quel che voglia; ma tutto quel che vuole esprimere, lo esprime con gravità ed eleganza. Spesso gli avviene di compor versi non solo armoniosi, ma gravi, adorni e concettosi, che tu stimeresti d’un vecchio, se non ne conoscessi l’autore. Si formerà io spero, l’animo e lo stile, e tra tanti ne troverà uno suo proprio, riuscendo non dirò a evitare, ma a celare l’imitazione, così da non apparire simile a nessuno, e dir si possa che tra tanti vecchiumi, egli «abbia portato nel Lazio» qualcosa di nuovo. Ammira soprattutto Virgilio, e giustamente; poiché, se molti dei nostri poeti sono degni di lode, quegli solo è degno d’ammirazione. Innamorato della sua dolcezza, spesso egli inserisce nei suoi versi passi dei versi di lui; e io, che lo vedo con gioia crescermi a fianco e vorrei che divenisse tale quale io stesso vorrei essere, familiarmente e paternamente lo ammonisco, che guardi a quel che fa: l’imitatore deve cercare di esser simile, non uguale, e la somiglianza deve esser tale, non qual è quella tra l’originale e la copia, che quanto più è simile tanto più è lodevole, ma quale è tra il padre e il figliuolo. Questi infatti, sebbene spesso siano molto diversi d’aspetto, tuttavia un certo non so che, che i pittori chiamano aria e che si rivela soprattutto nel viso e negli occhi,

produce quella somiglianzà, la quale fa sì che subito, vedendo il figliuolo, si ricordi il padre, sebbene, se si scendesse a un esame particolare, tutto apparirebbe diverso; ma v’è tra loro qualche cosa di misterioso, che produce quell’effetto. Così anche noi imitando dobbiamo fare in modo che se qualcosa di simile c’è, molte cose siano dissimili, e quel simile sia così nascosto che non si possa scoprire se non con una tacita indagine del pensiero, e ci accada piuttosto intuirlo che dimostrarlo. Si può valersi dell’ingegno e del colorito altrui, non delle sue parole; poiché quell’imitazione rimane nascosta, questa apparisce, quella è propria de’ poeti, questa delle scimmie. Bisogna insomma seguire il consiglio di Seneca, che fu prima dato da Orazio, che si scriva cosi come le api fanno il miele, non raccogliendo fiori ma mutandoli in miele, in modo da fondere vari elementi in uno solo, e questo diverso e migliore. Di ciò parlando io spesso con lui ed egli ascoltandomi attento come un figliuolo ascolta il padre, accadde poco fa che, mentre io secondo il solito lo ammonivo, egli così mi rispondesse: ‘comprendo bene e ammetto che sia come dici; ma ad appropriarmi di espressioni altrui, poche e rare, io sono stato indotto dall’esempio di molti, e soprattutto dal tuo’. E io pieno di meraviglia: ‘Se trovi qualche cosa di simile nei miei carmi, sappi figliuol mio, che proviene da errore, non da volontà. Poiché, sebbene mille volte si riscontri ne’ poeti che l’uno abbia fatto uso di espressioni d’un altro, io tuttavia nulla cerco con più cura quando scrivo e nulla mi riesce più difficile, quanto di evitare le mie orme e soprattutto quelle di coloro che mi precedettero. Ma dov’è il passo che ti ha indotto a quell’arbitrio? ‘ ‘Nella sesta egloga del tuo Bucolicum carmen, dove, presso la fine, un verso termina così: atque intonat ore’. Rimasi male; poiché capii, mentr’egli parlava, quel che non avevo capito quando scrivevo, che quella era la fine d’un verso di Virgilio, nel sesto libro della sua opera divina; e ho voluto scrivertelo, non perché sia più possibile correggere, essendo quel mio carme ormai largamente noto e diffuso, ma per rimproverarti, se hai lasciato che altri prima di te mi segnalasse un mio errore, o, se per caso fosse sfuggito anche a te, per fartelo conoscere, ed anche per ricordati che non a me solo, uomo di studio sebben povero d’ingegno e di dottrina, ma neppure a qualunque più dotto è dato di esser così pari all’intento, che molto non manchi alla sua perfezione, poiché questa è soltanto di Colui, al quale dobbiamo quel che sappiamo e possiamo; e ancora per invitarti a pregar meco Virgilio, che mi perdoni e non si sdegni se, com’egli molte cose rapì a Omero, Ennio, Lucrezio, e tanti altri, io gli abbia non rapito, ma preso qualcosa senza volerlo. Addio. Pavia, il 28 di ottobre.

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PETRARCA, Lettera al Boccaccio (Var. 65, da Epistuale de rebus familiaribus et variae, ed. G. Fracassetti, III, Firenze 1863) Perché tu vegga come in mezzo alle gravi, incessanti, e forse al tutto vane ed inutili cure di cose maggiori io non lascio di attendere anche alle più piccole delle mie cose, sappi che or fa già un anno, mentre io era occupato nel fare quelle grandi giunte che tu ben sai alla mia bucolica, passeggiando un giorno lungo il lido dell’Adriatico, che coll’alternar dei suoi flutti or mi bagnava il piede destro ora il sinistro, ed avendo a tutt’altra cosa intento il pensiero, mi venne in mente di aggiungere agli altri un verso. E poco fidandomi alla memoria indebolita dagli anni, perché non avessi a dimenticarlo lo scrissi sul margine dell’Africa mia, che per caso aveva allora con me, facendo ragione che segnato in quel luogo avrei potuto quando volessi sicuramente ritrovarlo. E’ m’avvenne però quel che suole soventi volte accadere alle buone massaie, che per la smania di mettere in serbo nascondon le cose, e poi cercandole non le ritrovano. Passato qualche giorno, mi feci a ricercare quel verso, e cercandolo sempre dove non era, non mi fu mai possibile raccapezzarlo, finché ieri alla fine mentre io badava a tutt’altro, né quello più mi girava per capo, tra riso e rabbia me lo vidi capitar sotto gli occhi. Lo mandai subito agli amici di Milano, che hanno quella mia operetta, come pure al nostro Donato, ed ora a te lo mando con questa lettera, perché a tuo senno o lo aggiunga agli altri, o se ti sembri opportuno, non ne faccia alcun conto. Gli altri quantunque tardi arrivato, lo accolsero e gli fecero buon viso: intendo dire di que’ di Milano, poiché da Donato non ebbi risposta e non l’aspetto, essendo io già sulle mosse per andare ov’egli si trova. Il verso dunque è se non errro, il 267 dell’Ecloga X; e dopo quello: Ilion eversum Troiamque a stirpe revulsam, deve seguire: Quique nurum dotemque Iovi convexit opimam. Linquo senem etc… Dopo otto, anzi dopo nove mesi da che fu scritta, tornò questa lettera in mano mia non senza molte mie minacce e querele. Non ti parrà dunque soperchia una sola giunterella nel corso di due stagioni estive da me passate in questo luogo. Ai 2 di settembre.

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Francesco Petrarca, Le postille del Virgilio Ambrosiano, a cura di M. Baglio, A. Nebuloni Testa e M. Petoletti, Padova 2006 Sul foglio di guardia: Titire. Melibeus a finibus suis discedens ac Tytirum sub fago caloris estum vitantem videns et admirans ait: «Titire tu» et cetera. Et pronomen hoc ‘tu’ hic discretionem importat, quasi dicat ‘tu’, ita quod nullus alius, sive mantuanus ut Servio, sive poeta ut Donato, sive ut nobis videtur et mantuanus sit qui loquitur et poeta. «Nos patrie» mantuanus. ‘Tu’, Virgili, agros tuos in pace possides, ‘nos’ non sic, sed «liquimus patrie fines» et cetera et intelliguntur singula ut sonant. Poeta. Tibi permissum est romanam ystoriam et quicquid libet scribere, nobis non sic, atque omnium comunis patria est, et «dulcia arva», idest studia et carmina nostra, in quibus agricolarum more poete exercentur laborando, excolendo, inutilia extirpando inserendoque utilia et dulces fructus colligendo iuxta laboris quantitatem et ingenii ubertatem et sic id nobis quod agricolis sunt arva. Mantuanus simul et poeta, utrunque mixtim, primum simpliciter, secundum allegorice. Per ‘fagum’ intelligi Cesarem Augustum non alienum est, propter fecunditatem scilicet alimoniamque ac presertim propter renovationem aurei seculi. Et bene additum est ‘patule’ seu tempus LVII annorum quibus imperavit seu magnitudo consideretur imperii. Amarillis et Galathea amice pastorum fuisse memorantur quod, sive verum sit et translata sunt earum nomina ad condignam eis materiam pastoralem sive non, sed conficta sunt noviter a poeta, utrunque tamen certa cum ratione factum est. Amarillis enim interpretatur sine obstaculo, a ‘a’ quod est sine, et ‘marilloy’, vel ‘lon’ vel ‘los’, quod est obstaculum, pro qua Romam intelligimus, que ab ortu solis usque ad occasum obstaculum non invenit. Galathea candida seu lactea dea interpretatur: ‘gala’ enim lac, ‘thea’ dea est, per quam Mantuam intelligi voluit, sive propter Manthus conditricis virginitatem ac divinationem, quod magis reor, sive propter solam natalis soli dulcedinem decorum illi nomen imposuit. Postille al testo delle Bucoliche I 9: Pro bobus carmen bucolicum accipimus, duo cornua, idest geminum sensum,

habens: licteralem scilicet, et allegoricum I 14: Corilus arbor est cuius fructus exterius durus, interius molis est: cuiusmodi sunt versus, auditu duri primum, intellectu deinde suavissimi I 17: Decreto Cesaris Augusti, qui, cum pro deo nobi sit, merito et aulam eius ‘celum’ et iram ‘tempestatem’ et decreta ‘fulmina’ vocamus I 38-39: Secundum Socratis disciplinam in tres partes dividitur unaqueque res publica: primates, scilicet militesque; sapientes studiososque et eos quos cupidinarios vocat, sub quibus et mercatores et agricole et mechanici, omnes victui querendo dediti; ceteri quoque, quicunque sint, preter superiora duo genera hominum, continentur. Nunc ergo per pinus primos, per fontes secundos, per arbusta tertios intelligo. I 46: Senex non annis, quia ostare illud Georgicon IV Audaxque iuventa Tytire te patule cecini sub tegmine fagi, sed scentia senex et morbus vel senex futurus eternitate nominis et tunc presagum verbum est, ut in glosa I 51 flumina: Discipulos tecum versatos I 52 fontes sacros: Magistros ex quibus flumina sunt I 57 palumbes: Mecenas et uxor propter castitatem I 58 turtur: Pollio I 74 capelle: libelli I 80 fronde super viridi: Studio lauream promerituro I 81 castanee: Satyrica yrsuta de se – lactis: vel moralis scientia vel ars aliqua ex multorum preceptorum ad unum finem tendentium vel preter romana ystoria aliqua ex multorum actuum quadam velut coagulatione composita

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PETRARCA Fam. IV 7 (da Opere, Sansoni, Firenze 1975, trad. E. Bianchi) A Roberto, re di Sicilia, intorno alla sua laura e contro i lodatori degli antichi che sempre disprezzano le cose presenti Era da un pezzo noto al mondo di quanto fossero a te debitori, o decoro dei re, gli studi liberali e umani, dei quali tu ti facesti signore, se non mi inganno, assai più famoso che non per la corona del regno terreno. E ora con un nuovo beneficio hai gratificato le abbandonate Muse, alle quali hai solennemente consacrato questo mio ingegno, per modesto che sia; e di più, hai rallegrato con gioia insperata e con inusitate fronde la città di Roma e il deserto palazzo del Campidoglio. Piccola cosa, dirà qualcuno; ma certo cospicua per la sua novità, e celebrata dal plauso e dalla letizia del popolo romano; il costume della laurea, non solo interrotto per tanti secoli, ma ormai quasi del tutto dimenticato, mentre altri e ben diversi affetti e studi avevano il sopravvento, è stato in questa nostra età rinnovato sotto la tua guida e per mio mezzo. Conosco alcuni ingegni nobilissimi, in Italia e all’estero, che dall’aspirare a quest’onore erano soltanto impediti dalla lunga disusanza e dal timore di una novità, che è sempre sospetta; io spero che da ora in poi, fatta in me esperienza, tra breve gareggiando negli studi potranno conseguire e cogliere il romano alloro. Chi, con l’auspicio di Roberto, esiterà a indirizzare per quella via l’animo esitante? A me gioverà essere stato il primo di questa schiera, della quale esser ultimo non stimo inglorioso. Senza dubbio, lo confesso, sarei stato impari a tanto onore, se la tua benevolenza non mi avesse aggiunto forza e coraggio. E così con la tua augusta presenza avessi tu potuto adornare quel giorno di festa! Io so, come tu stesso dicevi, che se l’età te lo avesse consentito, la regia maestà non avrebbe potuto trattenerti. Per molti indizi ho capito che a te piacevano assai alcuni atteggiamenti di Cesare Augusto, quello soprattutto d’essersi mostrato non solo placato, ma benevolo e amico con Orazio, figlio di un liberto e prima suo avversario, e di non aver disprezzato l’origine plebea di Virgilio, del cui ingegno si compiaceva. Ottima cosa; perché nulla c’è di meno regale che cercare il suffragio d’una nobiltà avventizia in coloro che la virtù o l’ingegno raccomandano, quando non manchi la vera nobiltà e il darla sia in tuo potere. So bene quel che contro ciò dicono i letterati del tempo nostro, razza superba e ignava: che Virgilio e Orazio son morti, e che è vano oggi farne le lodi; gli uomini eccellenti da un pezzo non son più; i mediocri sono scomparsi poco fa; e, come accade, la feccia è rimasta in fondo. Lo so quel che dicono e pensano; né mi affatico a contraddirli perché mi sembra che un detto di Plauto possa adattarsi

non tanto alla sua età, che appena cominciava a gustare la poesia, quanto a questa nostra: Visse in quel tempo de’ poeti il fiore che se n’andaron dove tutti vanno. Molto più a ragione noi di questo ci lamentiamo, perché allora non erano ancora venuti quelli di cui si pange la scomparsa. Ma veramente iniqua è l’intenzione di costoro: essi non piangono la fine delle scienze, che in cuor loro desiderano morte e sepolte, ma cercano di distogliere con la disperazione i loro coetanei, cui non sanno imitare. Li distolga pure la loro disperazione, e a me sia di sprone; e donde a loro vengono freni e impacci, venga a me impeto e stimolo a cercare di divenire tale e quale essi stimano che nessuno sia mai esistito, se non chi fu celebrato dagli antichi. Sono rari, lo confesso, e pochi, ma qualcheduno ce n’è; e chi vieta esser tra quei pochi? Se tutti spaventasse la loro scarsezza, tra poco non ce ne sarebbero più pochi, ma nessuno. Sforziamoci, speriamo, e ci sarà forse concesso giungere a tanto. Virgilio stesso dice: Possono, perché credono di potere. Anche noi, credi a me, potremo, se crederemo di potere. Che pensi tu? Plauto compassionava l’età sua, piangendo forse la morte di Ennio e di Nevio; e perfino l’età di Virgilio e di Orazio non si mostrò equa verso così grandi ingegni, l’uno de’ quali, poeta di divina ispirazione finché visse fu continuamente tormentato dalle critiche degli emuli e ripreso come plagiario delle opere altrui; all’altro si rimproverò quel suo sembrar di nutrire scarsa ammirazione per gli antichi. Accadde e accadrà sempre che la venerazione si volga all’antichità, e l’invidia al tempo presente. Ma a te, o ottimo tra i re e primo tra i filosofi e i poeti, fisso è nella mente, come da te medesimo ho udito, quel che Svetonio dice d’Augusto: «Favorì in ogni nodo i grandi ingegni dell’età sua». Anche tu in ogni modo favorisci quelli dell’età tua, e li proteggi con la tua umanità e benevolenza. Riporto anche, dopo averne fatta esperienza le parole che seguono: «Tu li ascolti benigno e paziente, mentre recitano non solo poesie o storie, ma anche orazioni e dialoghi; ma ti offendi se si compone qualcosa su te, se non sia con seria intenzione e da’ più grandi». In tutto ciò tu imiti Augusto, e sei nemico soltanto di coloro che ogni cosa disprezzano, salvo quelle che l’impossibilità rende preziose. Con queste maniere, con questa cortesia, molti hai beneficato e me poco fa, per non so quale singolare e immeritata fortuna; né a questo si sarebbe fermata la tua regale degnazione, se come ho detto, la tua vecchiezza fosse stata meno grave o Roma più vicina. Ma questo rappresentante della tua maestà, che in nome tuo intervenne a tutte le cerimonie, ti dirà a viva voce tutte le gioie e i pericoli che mi

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sopravvennero in Roma e quando di là fui partito. Quanto al resto io mi ricorderò sempre della ultime tue parole con le quali m’invitavi a tornare da te; verrò, lo giuro davanti a Dio, attirato non tanto dallo splendore della tua reggia quanto da quello del tuo ingegno. Altre ricchezze io aspetto da te, che non quelle che si sogliono sperare dai re. E prego che ti dia lunghi anni di vita e in fine ti accolga dalla reggia mortale all’eterna Colui che è fonte di vita, re dei re, e Signore dei dominatori. Pisa, il 30 di Aprile PETRARCA Fam. VI 5 (da Opere, Sansoni, Firenze 1975, trad. E. Bianchi) A Barbato di Sulmona, della morte miserabile e indegna del re Andrea. Ahimé! come violenti, come inevitabili appaiono i casi della fortuna, anche se previsti! Spesso, come sai, mio diletto Barbato, della fortuna e di altre simili cose io soglio parlare come ne parla il volgo, perché, parlando in pubblico, non voglio sembrar singolare; ma se ne fossi richiesto a quattr'occhi, risponderei in modo ben diverso. Ma lasciamo andare; che se mi trattenessi su quest'argomento mentre sto per trattar di ben altro, m'impiglierei e distrarrei in questioncelle inopportune. Per seguir dunque il mio proposito, la sorte onnipotente e il fato immobile potrebbero sembrare, non soltanto col volgo, ma con uomini grandi e dotti e soprattutto con Virgilio, se Uno solo non fosse onnipotente e il nome del fato non sonasse sospetto in bocca d'un cattolico. Ma qualunque sia quella forza, che per giudizio o permissione di Dio governa le umane vicende, essa è senza dubbio grande e ineluttabile, e contro di lei invano contrastano i nostri deboli sforzi; poiché con facile assalto la grandezza del male sopraffà l'umano consiglio e l'invitta necessità rende vano ogni mortale rimedio. Questo, se mai in altri tempi, ora soprattutto è manifesto ed evidente. Che mai di nuovo, che d'improwiso ora accade? chi non lo previde? e che giovò il prevederlo? Così profondamente in tutti i recessi del regno s'era insinuato il terribile veleno della perfidia, che ormai non poteva non essere mortale; tanto avevano preso il sopravvento l'audacia e la licenza de' malvagi, tanta era la disperazione e il dolore del buoni. Numerosi dappertutto erano gl'indizi dell'imminente tempesta, una nube oscura velava le fronti pensose, e venti furiosi agitavano i petti inquieti; gli occhi ardenti balenavano, le bocche minacciose parlavano tonando, e le empie mani quasi scagliavano fulmini; il mare delle coste già si gonfiava, e già la sonante marea, e i flutti incalzantisi, e uccelli di malaugurio e strani prodigi si riversavano sul nostro

lido. Sembrava che con la morte del re fosse mutata la faccia del regno e con l'anima di un solo uomo fosse caduto ogni vigore, ogni prudenza. Tutto questo noi vedevamo, e ci addoloravamo dei mali futuri come se fossero gia presenti; ma chi avrebbe osato parlare, quando appena era libero il pensiero e pronta la morte non solo alle parole, ma anche ai cenni? Sicché tutti eravamo muti in pubblico; nelle case, solo qualche mormorio, mesti presagi, e - auguri silenziosi - la paura e il dolore, messaggeri di mali iniminenti; insomma, tutti a occhi aperti stavano cosi attoniti, come se li abbagliasse l'orrida luce d'un fulmine vicino. Nessuno più di me, io credo, più palesemente temé e piu liberamente si dolse; nessuno più acutamente conobbe le enormità di quella corte, più insistentemente la colpì con la parola o con gli scritti. Come grande e manifesta è la verita de' proverbi! «Chi vuole esser vero profeta, profetizzi disgrazie», e poi: «II male non viene mai solo». Così è; così imparammo dagli antichi, così vediamo co' nostri occhi; grande è la schiera delle disgrazie; le sventure sono sempre accompagnate; e chi in una incolse, sappia d'essere caduto in molte. Così, come in tanta abbondanza di mali molti sono necessariamente infelici, così in tanta scarsezza di beni pochi sono i felici, e tutto è pieno d'infelici e dei loro gemiti e lamento. Per contrario, chi non vede quanto sia rara negli uomini la felicità, quando, se tu ben consideri e spogli la fortuna di tutti i suoi orpelli, in questo sentiero della vita non mai ci sia dato di incontrare uno che si possa dire veramente felice e abbia raggiunto il suo voto, e presso gli storici si legga che quel Metello, da tutti considerato felice, a mala pena riuscì a trovare un suo simile laggiù nei piu nascosti recessi dell'Arcadia? Così stando le cose, chi si meraviglierà, se le profezie fatte su tale massa di mali, come una freccia scagliata contro una moltitudine, colgano nel segno, e che come quella nel vivo, così quelli penetrino nel vero? Tu ben ricordi, o amico, come io una volta a voce, quando era ancora vivo il re - quel re, dico, che solo veramente meritò questo nome -, e poi, quando fu morto, per lettera, e poco dopo ancora una volta a voce, ti dichiarai il mio pensiero e i miei presentimenti per l'avvenire, come se già fossi certo del futuro; poiché io vedevo esser tolto al regno il suo fondamento, e avevo sotto gli occhi la grave condizione di quella reggia cadente; ma non credevo, lo confesso, che primo di ogni altro dovesse cadere sotto le rovine questo innocuo giovinetto, qualche cosa m'impediva di far così funesta profezia, nascondendomi quello che era il più grande de' mali; sebbene, come mi par di ricordare, io dicessi - e così non fosse stato tanto certo l'augurio! - che l'agnello era alla mercè del lupo. E veramente io pensavo allora ai morsi dei lupi, alle loro rabbie e a tutte le malvagità degli uomini perduti; al disprezzo, all'odio, all'invidia, all'inganno, al ratto, al carcere, all'esilio; una morte cosiffatta di un tale

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uomo io non sapevo né immaginare né temere, poiché in nessuna tragedia ricordavo d'aver letto insidie così truci e nefande. Ed ecco che questa nostra età, così fertile di delitti, uno ne commise, di cui potrebbe l'antichità gloriarsi, la posterità consolarsi; e perché ogni età abbia la sua scusa, in questa nostra si assommò tutta la crudeltà e la barbarie. O Napoli così presto cambiata, o infelice Aversa! veramente Aversa, di nome e di fatto, aversa, dico, da ogni umanità e fedeltà, ch'eran dovute, la prima all'uomo, la seconda al re legittimo suo signore; in te fu sprezzata la reverenza verso l'uno e l’altro, e rotto il patto sacro innanzi al mondo; poiché in te per empia frode perì il tuo re, che meglio sarebbe morto di ferro o d'altra morte virile, sì che dalle mani degli uomini dovesse credersi ucciso, e non lacerato dagli artigli e dai denti delle belve. O città fondata sotto cattiva stella, tracciata da funesto aratro, costruita con cemento impastato di sangue, e abitata da uomini con faccia di serpenti, maestra di crudeli esempi! sarebbe già stato un empio delitto, straziante con atto così atroce e superbo il sacro viso del primo degli esseri viventi, fatto a immagine di Dio; ma tu questo delitto non osasti in un uomo qualunque, ma ferocemente dilaniasti il piu mite e innocente degli uomini, il tuo signore, di te in così tenera età tanto sollecito e amante, giovinetto di rara indole, re di grandi speranze. Ma non tu; furono quei feroci e selvaggi - li chiamerò uomini, o belve, o mostri di nuovo genere? - che con barbarica crudeltà macchiando la nostra Italia, uccisero il loro re, non con la spada, non col veleno, che è pur dura ma consueta morte dei re, ma con un laccio infame, come se fosse un incendiario e un ladrone, e una fune e nodi indegni strinsero intorno al collo di colui, sul capo del quale così lungamente avevano indugiato a porre il dovuto e sperato diadema; e non parlo del ludibrio indegno fatto al suo corpo, che ben si meritava altro genere d'esequie e vita più lunga, perché ho speranza che per il mio silenzio possa rimanere ignoto ai posteri. Tu, infelice città, che tali atrocità sopportasti nel tuo seno, le quali col loro triste ricordo contamineranno tutte le età e tutto il mondo, sei senza dubbio senza colpa; se non che la pazienza d'un delitto è spesso vicina al consenso, e se non potevi né impedirlo né vendicarlo, sei più degna di pietà che di odio. Ma tu, o Cristo, sole di giustizia, che tutto vedi e coi tuoi eterni raggi tutto illumini, perché hai permesso che questa nuvola d'infamia sulla nostra terra si stendesse, mentre tanto facilmente avresti potuto - se i nostri delitti non te ne avessero distolto - col vivace splendore dell'amor tuo disperdere i pestiferi vapori dell'odio, formatisi nel freddo di una notte tenebrosa. E tu, o Roberto, primo dei re del tempo nostro, che - così credo - da qualche parte del cielo vedi e compiangi le nostte miserie, con che occhi guardasti questo nefando delitto? con che animo

sopportasti questa così grave ingiuria fatta al tuo sangue? E non potevi con le tue preghiere allontanare una tanta sciagura? o forse potevi, ma non volevi? Grave dubbio; che sebbene sia più che probabile che tu, pieno di gioia celeste, non ti commuova ai terreni dolori, ma forse senti ancora in parte l’affetto dei tuoi e l'innata pietà? Comunque sia, felice te che questo giorno non vedesti mentre eri in vita ma, te vivo, un così triste giorno non sarebbe mai sorto, né mai l'odio avrebbe osato tanto. Che veramente la tua regia fronte fu la salvatrice del regno, la pacificatrice degli animi; essa richiamò la giustizia e cacciò la perfidia, e parve come ombra salutare al tuo gregge, cara ai pastori e funesta ai serpenti. Che se l'umana virtù non poteva contrastare ai divini decreti, ben desiderabile e opportuna a te giunse morte, per liberare da così triste spettacolo i tuoi occhi, quegli occhi, i quali per legge di natura erano ancora capaci di orrore e di lacrime. Oh dolore! quel tuo bello e caro e pio e dolce pegno, da coloro ai quali tu l'avevi affidato perché lo proteggessero e onorassero fu perduto, non perché fossero vinti da sonno o pigrizia, ma sotto lo stimolo di odio violento e di livore. O giustizia vendicatrice dei delitti! A lui non giovarono né l’innocenza, né la nobile stirpe, né la maestà; non gli furono d'aiuto uomini o dei, e neppure la memoria tua, che pur si poteva credere efficacissima. Quelle tue ultime parole e ammonizioni di padre santo e di ottimo re, con le quali tu morendo avevi, per quanto è dato a umano consiglio, provveduto ai futuri casi del tuo regno e della tua famiglia, furono portate via da un vento di irrefrenabile e disperata malvagità e sepolte nell'oblio di ogni diritto divino e umano. Ma basti ormai il pianto, se pure dove immaginiamo che sia la fine non sorga il principio; poiché, se è vero, come dicevo, che i mali giungono spesso e a schiera, e rari e a un per volta i beni, a questo vedo tener dietro altri affanni, che voglio tacere, per non essere ancora nunzio di sventura più veritiero di quel che vorrei. Possa tutto conchiudersi più felicemente, di quel che io non speri, né rechi danno allo stato il furore di pochi, che in quelli in cui divampa non resterà, io spero, impunito; ché se spesso la divina giustizia cede alla misericordia, ciò avviene tuttavia in chi si vergogna e si pente del suo peccato, non in chi si vanta del suo delitto. Questo io scrivo anche a te il dì primo d'agosto, a notte fonda, dalla sorgente della Sorga, dove un'altra volta io mi son rifugiato, come in un porto, da tanto naufragio della nostra Italia, dolente del passato e trepido dell'avvenire.

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FRANCESCO PETRARCA, Il Bucolicum carmen e suoi commenti inediti, a cura di Antonio Avena, Società Cooperativa Tipografica, Padova 1906 Francesco Piendibeni da Montepulciano (Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Pal. 1729) Monice tranquillo Istius egloge, prime in ordine libri, titulus est «Parthenias», quod nomen interpretatur omni vita probatus. Nam et Virgilius Parthenias vocatus est qui in hac egloga principalis et primus pastor introducitur. Potest preterea dici, quod egloga ista vocetur Parthenias, nam per totam ipsam infrascripti collocutores disputant de ista theologia poesy, in qua precipuus David introducitur, et poesy deorum gentilium. Vita vero humana ex activa et contemplativa vita constat. Introducuntur autem duo pastores, Monicus et Silvius. Per Silvium ipse poeta huius operis auctor intelligi debet, eo quod silvam et solitudinem diu pro suo ocio incoluit; vel Silvius e Silva, idest civitate, nam silva pro civitate per totum istud opus debet intelligi. Per Monicum frater Gherardus, cartusiensis monacus, ipsius Silvij germanus intelligi debet, et dicitur Monicus a monos quod est unus, quasi unam gerens curam seu contemplativam; nam activam liquerat vitam, et contemplativam solummodo sequebatur. Tibi conditus ad utilitatem tuam, cella orationis et monasterij. Gregis rerum temporalium, civitatis et hominum. curas solicitudines. imo felix es, sed ego non. pererro lustro in valle clausa; ubi morabatur. gemellis quia tu felix, ego infelix. sepulchri quia vaco temporalibus. Devia seu scientiam poeticam; devia, quia pauci, vel nulli incedunt per viam poetarum. - inaccessum quia nullus ad Parnasi cacumen ascendit. deserta studia, que hodie derelicta sunt; quia in silvis poeta continue morabatur scopulos propter fontis Helyconis undas. Fontes que Helyconis, qui in Parnaso monte Boetie est, ubi poete morabantur. Vel intelligit de Sorgia, fonte apud Vallem Clausam, ubi poeta morabatur. Hic est secundus dialogus et Silvius excusat se, quod, amore ductus, hoc agit, seu poetice artis. Pales Virgo Maria; Pales dea pastorum, sed per eam intelligit Virginem Mariam. Parthenias Virgilius probatus. venerat ostendit quod alius pastor sibi apparuit in fortiore etate, seu Homerus. per opacam obscura poemata. feris ab hominibus malivolis et detractoribus et obloquentibus in poesim. novo homerico, quia carmina heroica cepi agere ad instar Maronis et Homeri.

GUIDO CAVALCANTI, Rime, ed. R. De Robertis, Torino 1986 In un boschetto trova' pasturella più che la stella - bella, al mi' parere. Cavelli avea biondetti e ricciutelli, e gli occhi pien' d'amor, cera rosata; con sua verghetta pasturav'agnelli; discalza, di rugiada era bagnata; cantava come fosse 'namorata: er'adornata - di tutto piacere. D'amor la saluta' imantenente e domandai s'avesse compagnia; ed ella mi rispose dolzemente che sola sola per lo bosco gia, e disse: «Sacci, quando l'augel pia, allor disìa - 'l me' cor drudo avere». Po' che mi disse di sua condizione e per lo bosco augelli audìo cantare fra me stesso diss'i': «Or è stagione di questa pasturella gio' pigliare». Merzé le chiesi sol che di basciare ed abracciar, - se le fosse 'n volere. Per man mi prese, d'amorosa voglia, e disse che donato m'avea 'l core; menòmmi sott'una freschetta foglia, là dov'i' vidi fior' d'ogni colore; e tanto vi sentìo gioia e dolzore, che 'l die d'amore - mi parea vedere.

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FRANCESCO PETRARCA, Il Bucolicum carmen e suoi commenti inediti, a cura di Antonio Avena, Società Cooperativa Tipografica, Padova 1906 Dal ms. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. 33 Plut. 52 Monice. Titulus huius Egloge prime est «Parthenias», quo nomine vocatus est Virgilius. Nam «parthenias» grece vir bonus et probatissime vite. Et quia Virgilius talis fuit, ideo dictus est Parthenias; et quia autor in principio huius egloge de Virgilio loquitur, hoc nomine intitulavit. - Collocutores sunt Monicus et Silvius. Monicus intelligitur frater Gherardus, monacus certose, vir sancte et religiose vite et germanus ipsius auctoris. Dicitur enim monicus quasi monoculus, idest habens solum unum oculum. propter quod sci, quod mortales dicuntur habere duos oculos, unum cum quo terrena inspiciunt, idest divitias, potentias, gloriam vanam, dominationes et inanes circumvolutiones, alterum vero habent, cum quo solum inspiciunt celestia et optima, et cum quo deum contemplantur. Alii in utranque partem se revolvunt; sed, ad bene et optime peragendum, non est opus nisi unius oculi, cum quo deus et optima conspiciuntur. Et, cum Gherardus talem possideat oculum solum, alio derelicto seu terreno, dicitur monicus quasi monoculus; vel monicus potest etiam dici quasi monacus. Silvius est ipse Franciscus Petrarca, et dicitur silvius, quia tunc temporis silvas colebat et solitarius vivebat, abhorrens civitates et civitatum impedimenta. ipse Silvius loquitur fratri, interrogans eum quomodo inducere potuit ad se reducendum in dicto monasterio, et sic incipit: «Monice, solus conditus tibi», quia cum deo contemplaris et solo contemplationis oculo deum inspicis; quia aliarum cura rerum in te submersa est et alius oculus cecatus est, et potuisti spernere gregis curam, hominum conversationem secularcm et ruris, idest civitatis. Ast ego, seu franciscus, dumosos colles, idest potentes viros et principes et dominos qui dumosi, spinosi et asperi sunt; quia ipse Franciscus semper cum principibus, regibus et proceribus conversatus fuit. Quis fata neget diversa gemellis? quasi dicat: quamvis simus fratres et germani, et ex uno et eodem utero editi fuissemus, tamen magna inter nos diversitas est vivendi; ideo dicit: quis neget, idest negare poterit fata, idest dispositiones, non tantum fratribus in diverso tempore natis, sed gemellis uno tempore natis, quorum alter bonus, malus alter erit?

(Trad. C. Corfiati) Monice. Il titolo di questa prima ecloga è Parthenias, nome con il quale è chiamato Virgilio. Infatti parthenias in greco significa uomo buono e di vita onestissima. E poiché Virgilio fu tale, perciò è stato detto Parthenias; e poiché l’autore nella parte iniziale di questa ecloga parla di Virgilio, la intitolò con questo nome. I personaggi sono Monico e Silvio. Per Monico si intende frate Gherardo, monaco certosino, uomo santo e di vita religiosa e fratello dello stesso autore. È detto poi monico come monocolo, cioè che ha un solo occhio. E la ragione è questa – impara: si dice che i mortali hanno due occhi, uno con il quale vedono le cose terrene, ossia ricchezze, potere, gloria vana, regni e vuote sciocchezze, ma ne hanno un secondo, con il quale vedono solamente le cose celesti e ottime, e con il quale contemplano Dio. Alcuni si voltano da entrambe le parti; ma per comportarsi bene e ottimamente, non vi è bisogno che di un solo occhio con il quale guardano Dio e le cose ottime. E, dal momento che Gherardo possiede tale occhio soltanto, avendo lasciato l’altro, ossia il terreno, è detto monicus o monocolo, oppure monicus potrebbe anche essere detto come se fosse monaco. Silvio è lo stesso Francesco Petrarca, ed è detto silvio, perché in quel tempo abitava i boschi e viveva solitario, provando orrore per le città e i fastidi connessi. Lo stesso Silvio parla al fratello, interrogandolo sul modo in cui potè decidersi a chiudersi in quel monastero, e così inizia: «Monice, solus conditus tibi», per il fatto che contempli dio e guardi dio con il solo occhio della contemplazione, la cura delle altre cose è in te sparita e l’altro occhio è stato accecato, e hai potuto disprezzare la cura del gregge e la frequentazione secolare degli uomini e della campagna, ossia della città. Ast ego ovvero Francesco dumosos colles ossia uomini potenti e principi e signori che sono dumosi, spinosi e aspri; per il fatto che Francesco stesso sempre frequentò principi, re e nobili. Quis fata neget diversa gemellis? Come se dicesse: benché siamo fratelli e nati da un medesimo utero, tuttavia vi è una grande diversità nelle nostre vite; perciò dice: chi negherà, ovvero potrebbe negare che i destini, cioè le inclinazioni, non soltanto per i fratelli nati in momenti diversi, ma per i gemelli nati in un unico momento, di cui uno sarà buono e l’altro cattivo?

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Una fuit genitrix, seu nobis; sed non spes una sepulcri. Nam tu, o Monice, iam elegisti sepulcrum tuum, ego vero ubi sepeliar ignoro. Silvi. nunc Monicus respondet: o Silvi quid queris? (pro conqueris.) tu tibi causa es omnium malorum et laborum. quasi dicat: si velles mecum morari, requiesceres. Ideo subiungit: quis te per devia cogit? omne quod in hoc mundo agitur, preter deum diligere et venerari, devium est, idest extra rectam viam et nichil boni agitur, deum colere preter. Quis vel inaccessum tanto sudore cacumen montis adire iubet? quis te cogit ire ad inaccessum cacumen montis, idest Parnasi, et poetarum et philosophorum altitudinem, que inaccessibilis est, idest ad quam dificulter pervenitur et cum magno sudore et labore, in tantum quod paucis contingit, quia via ardua et laboriosa est? - Vel per deserta vagari? idest per inania et inutilia respectu divine contemplationis? Omnes scientie, tota philosophia et poesis et cetera studia inania sunt preter deum colere. – Muscosos scopulos: Muscus, sci, est herba saxis et scopulis adherens. Per hos scopulos intelliguntur homines potentes et divites, qui rudes et intractabiles sunt; muscosos, idest habentes aurum et divitias que de visceribus terre extrahuntur et, sicut muscus adheret cautibus, ita divitie herent potentibus. Fontesque sonantes idest poetas canentcs carminibus. quando dicit fontes, intelligit istos principales: Virgilinm et Homerum, quos ipse autor sequebatur, qui aliorum autorum fontes sunt.

Una fuit genitrix ossia a noi; ma non spes una sepulchri Infatti tu, Monico, già ha i scelto il tuo sepolcro, io invece non so dove sarò seppellito. Silvi Monico risponde: O Silvi quid queris (per conqueris). Tu sei la causa di tutti i tuoi mali e delle fatiche. Come se dicesse: se volessi restare con me, troveresti riposo. E per ciò aggiunge: quis te per devia cogit? Tutto quello che si fa in questo mondo, eccetto amare dio e venerarlo, è strada fuori mano, cioè lontano dalla retta via e non si fa niente di buono se non si ama Dio. Quis vel inaccessum tanto sudore cacumen? Chi ti costringe ad andare fino alla vetta impervia del monte, ossia di Parnaso, e all’altezza dei poeti e dei filosofi, che è inaccessibile, cioè alla quale con difficoltà si arriva e con grande sudore e fatica, tanto che tocca a pochi, perché è una strada difficile e faticosa? Vel per deserta vagari? Ossia per luoghi vuoti ed inutili rispetto alla contemplazione di Dio? Tutte le scienze, tutta la filosofia e la poesia e gli altri studi sono vuoti, eccetto la venerazione di Dio. Muscosos scopulos il muschio, sappi, è un erba che si attacca ai sassi e agli scogli. Per questi scogli si intendono gli uomini potenti e ricchi, che sono rozzi e intrattabili; pieni di muschio, ossia che hanno oro e ricchezze, che si estraggono dalle viscere della terra, e come il muschio è attaccato alle pietre, cosè le ricchezze ai potenti. Fontesque sonantes ossia poeti che compongono canti. Quando dice fontes intende questi principali: Virgilio e Omero, che lo stesso autore seguiva, e che sono le fonti degli altri autori.

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GIOVANNI BOCCACCIO, Epistole e lettere, a cura di Ginetta Auzzas, Mondadori, Milano 1992 Epistola XXIII [1370-1372] Al reverendo padre in Cristo fra Martino da Signa dell'ordine degli eremiti di s. Agostino, lettore di sacra Scrittura. Teocrito, poeta siracusano, come sappiamo dagli antichi, fu il primo ad inventare nella poesia greca lo stile bucolico, non dando però significato diverso da quello che mostra la corteccia delle parole. Dopo di lui in latino compose Virgilio, il quale però nascose sotto la scorza qualche senso, benché non abbia sempre voluto che si intenda alcunché sotto il nome degli interlocutori. Dopo di lui scrissero altri, ma ignobili, del tutto trascurabili, eccettuato l'inclito mio maestro Francesco Petrarca, il quale sollevò lo stile alquanto oltre l'usato e secondo la materia delle sue egloghe continuamente pose dei significati sotto il nome degli interlocutori. Fra tutti questi io fui seguace di Virgilio, e perciò non mi curai di celare un senso sotto tutti i nomi dei personaggi; e poiché tu desideri il senso tanto dei titoli come anche dei nomi degli interlocutori delle mie egloghe, non voglio che tu ti meravigli, ottimo maestro, se qualcuno dei nomi troverai privo di significato: non è così, invece, dei titoli, perché li posi tutti con accuratezza. E venendo ora al tuo desiderio dico: Delle prime due egloghe, dei loro titoli o degli interlocutori, non voglio ti preoccupi: infatti sono di nessun momento, e quasi le mie giovanili lascivie scoprono nella corteccia. Il titolo della terza egloga è Fauno, perché trattandovisi di Francesco Ordelaffì già capitano di Forlì, che, amando sommamente le selve e i boschi per congenito diletto della caccia, io ero molto spesso usato chiamare «Fauno» in quanto i poeti chiamano fauni gli dei delle selve, decisi di intitolare l'egloga Fauno. Ai nomi poi degli interlocutori non detti alcun significato, non mi parendo per niente opportuno. Il titolo della quarta egloga è Doro per la ragione che si tratta in essa della fuga di Lodovico re di Sicilia; e poiché è da credere che l'aver abbandonato il proprio regno sia stato per questo re amarissimo, come abbastanza si vede nel progresso dell'egloga, la denominai dall’amarezze, che in greco si dice «doris» e in latino «amaritudo». Gli interlocutori sono Doro, cioè il re venuto in amarezza, e Montano per cui può prendersi qualsiasi volterrano, perché Volterra è posta in monte e il detto re, ad essa venendo, fu accolto dai Volterrani; il terzo è Fizia, per cui intendo il Gran Siniscalco che mai lo abbandonò, e Fizia lo chiamo in virtù della sua integerrima amicizia verso il medesimo re: e il significato di questo nome lo tolgo da Fizia amico di Damone, del quale Valerio dove dell'amicizia. Il titolo della quinta egloga è La selva cadente, trattandosi in essa della

decadenza e in qualche modo della caduta della città di Napoli dopo la fuga del predetto re Lodovico; la qual città, in linguaggio bucolico, chiamo «selva», perché, come nelle selve dimorano gli animali bruti, così nelle città abitano gli uomini, i quali nello stile predetto talora si chiamano «pecore» «capretti» e «buoi». Gli interlocutori sono due. Calliope e Panfilo. Per Calliope intendo uno che descrive nel modo più efficace i danni della desolata città, dacché «caliopes» in greco vale quanto «bona sonoritas» in latino, il quale buon suono non può trovarsi in alcuno se le cose da dire non si espongono con il dovuto ordine. Per Panfìlo poi si può prendere chi ci aggradi tra i Napoletani il quale sia completamente devoto alla sua città, essendo che in greco si dice «pamphylus» e in latino «totus amor». La sesta egloga è chiamata Alcesto, perché parla del ritorno del suddetto re nel suo regno, il quale re io qui chiamo «Alcesto» affinchè per questo nome s'intenda che verso la fine della sua vita aveva abbracciato costumi di ottimo e virtuoso principe: e vien detto Alcesto da «alce», cioè «virtus», e «estus », cioè «fervor». Gli interlocutori sono due, Aminta e Melibeo, ai quali non assegno significato riposto. La settima egloga si intitola La contesa, perché tratta delle contese tra la nostra città e l'imperatore. Due gli interlocutori, Dafni e Florida. Per Dafni intendo l'imperatore, perché Dafni, come si legge nelle Metamorfosi di Ovidio, fu figlio di Mercurio e primo pastore: allo stesso modo l'imperatore tra i pastori del mondo, ossia i re, è solitamente primo. Florida è Firenze, etc. Il titolo dell'ottava egloga è Mida: fu infatti Mida re di Frigia avarissimo, e poiché in quest'egloga si parla di un certo avarissimo signore, mi piacque chiamare lui «Mida» e così anche intitolare l’egloga. Due sono gli interlocutori, Damone e Fizia, cioè due grandissimi amici come furono quelli, dei quali Valerio nel luogo di cui sopra. Il titolo della nona egloga è Lipis, nella quale quasi per tutta la sua lunghezza è ricordata l'ansia della nostra città per l'incoronazione dell'imperatore, e per ciò è chiamata Lipis, perché «lipis» in greco vale «anxietas» in latino. Due sono gli interlocutori, Batracos e Arcade. Per Batracos intendo il costume dei Fiorentini, i quali siamo oltremodo loquaci, ma in guerra niente valiamo, e perciò dico Batracos perché il greco «batracos» significa in latino «rana»; e sono in effetti le rane molto loquaci quanto timidissime. Arcade, poi, si può prendere per qualsiasi straniero, donde che non ho voluto dare al nome alcun speciale significato. La decima egloga s'intitola La valle oscura, trattandosi in essa dei luoghi infernali, dove non brilla quasi mai nessuna luce. Gli interlocutori sono due, Licida e Dorilo. Licida voglio sia uno già tiranno, il qual Licida chiamo da «lyco», che in latino significa «lupus»: come il lupo infatti è un rapacissimo animale, così anche i tiranni sono i più rapaci tra gli uomini. Dorilo, poi, è un prigioniero sprofondato in un continuo dolore, così

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chiamato da «doris» che vale «amaritudo», e uso il diminutivo Dorilo perché non voglio che un plebeo ed un re abbiano lo stesso nome. L'undicesima egloga prende il nome Pantheon da «pan», che significa «totum», e «theos», che vuoi dire «deus», perché vi si tratta soltanto di cose attinenti il divino. In essa parla unicamente l'autore riferendo alcuni detti di certi interlocutori, che sono due, Mirtile e Glauco. Per Mirtile intendo la Chiesa di Dio, che così chiamo dal «mirto», per il fatto che il mirto ha le fronde di due colori, sanguigne di sotto, verdi di sopra, cosicché per questi colori intendiamo le persecuzioni e le tribolazioni già sopportate da santi uomini e la loro fermissima speranza in una superiore mercede ad essi promessa da Cristo. Per Glauco, poi, io intendo l'apostolo Pietro; Glauco, infatti, fu un pescatore che, dopo aver gustata una certa erba, d'un tratto si gettò in mare, diventandone uno degli dei: così anche Pietro fu pescatore, e assaporata la dottrina di Cristo spontaneamente si gettò tra le onde, ossia le minacce e i terrori dei nemici del nome cristiano, predicando il nome di Cristo, per la qual cosa divenne dio, cioè santo; tra gli amici di Dio in Cielo. La dodicesima egloga s'intitola Saffo, in quanto su di Saffo verte interamente il discorso; e Saffo io intendo per la poesia, perché Saffo, fanciulla di Lesbo, moltissimo risplendette nella poesia all'età sua. Due sono gli interlocutori. Calliope ed Aristeo. Con Calliope, come ho altrove avvertito, voglio significare il «buon suono», perché nella corretta ed eloquente esposizione in veste poetica sembra quasi tutta consistere la virtù della poesia. Aristeo pongo in luogo di me avido di diventare poeta, e mi denomino in tal modo da Aristeo, che fino all'adolescenza ebbe la lingua a tal punto impedita da porer appena alcunché esprimere in maniera sufficientemente chiara; ma finalmente, sciolta la lingua, diventò eloquente. La tredicesima egloga prende il nome Laurea dalla corona d’alloro, che è il segno distintivo dei poeti, ed è così chiamata perché in essa si parla soprattutto dell'onorificenza propria della poesia. Gli interlocutori sono tré, Dafni, Stilbone e Criti. Per Dafni io prendo un qualche illustre poeta, per il fatto che i poeti vengono onorati con la medesima corona, quella d'alloro, con la quale fu consuetudine onorare i cesari vittoriosi e trionfatori, che sono anche i primi pastori, come Dafni di cui sopra. Stilbone è un tal mercatante genovese, con cui ebbi già in Genova una certa questione, della quale molto discorro nell'egloga; e lo chiamo «Stilbone» da Mercurio dio dei mercanti, che è detto anche Stilbone. «Critis» in greco vale «iudex» in latino, e si pone qui per colui che fu assunto come giudice nella contesa. La quattordicesima egloga si chiama Olimpia da «olympos», parola greca che in latino si dice «splendidum» o «lucidum», donde il «cielo» è chiamato «Olimpo»; e per questo all'egloga è stato dato il nome di Olimpia, perché

in essa si parla diffusamente della regione celeste. Gli interlocutori sono quattro, Silvio, Camalo, Teraponte e Olimpia. Per Silvio intendo me stesso, e così mi chiamo perché in una certa selva ho avuto la prima idea di quest'egloga. Il greco «Camalos» in latino suona «hebes» o «torpens», per il fatto che in questo personaggio sono mostrati i costumi di un servo ottuso. Non pongo il significato di «Teraponte» perché non me lo ricordo, a meno che non riveda il libro da cui l'ho ricavato, e perciò scusami: sai quanto la memoria degli uomini sia labile, e specialmente dei vecchi. Per Olimpia intendo la mia fìglioletta da gran tempo morta a quell'età in cui crediamo che quelli che muoiono diventino cittadini del cielo: e per questo lei, che da viva si chiamava Violante, da morta chiamo «celeste» ovvero «Olimpia». La quindicesima egloga s'intitola Filostropo, trattandovisi della conversione all'amore delle cose celesti dall'amore allettante di quelle terrene; infatti Filostropo deriva da «phylos», che significa «amor», e «tropos», che vuoi dire «conversio». Due sono gli interlocutori, Filostropo e Tiflo. Per Filostropo io intendo il mio glorioso maestro Francesco Petrarca, le cui esortazioni moltissime volte mi persuasero a rinunciare al godimento delle cose temporali e a dirigere invece la mente a quelle eterne, e in tal modo i miei amori, sebbene non completamente, abbastanza, pur tuttavia, volse in meglio. Tiflo voglio sia preso per me stesso e per qualsiasi altro annebbiato dalla caligine delle cose mortali, perché il greco «typhius» vale «orbus» in latino. La sedicesima ed ultima egloga s'intitola Aggelos, quasi sia l’araldo e la guida di quelle che la precedono e l'oblatrice all'amico cui le invio: infatti «aggelos» del greco corrisponde a quello che noi in latino chiamiamo «angelus», mentre «angelus» in latino significa anche «nuntius». Due sono gli interlocutori, Appennino ed Angelo. Per Appennino intendo l'amico mio al quale mando la mia opera, e lo chiamo «Appennino» perché è nato e cresciuto alle radici dei monti Appennini. Per Angelo, come ho già avvertito, intendo l'egloga stessa, che a mo' di nunzio conduce le altre e parla per esse. E questo per ora basti, che brevissimamente scrissi confidando nella tua intelligenza. Di grazia, padre mio, la lettera qui unita per qualcuno dei tuoi frati, prima che puoi, cerca di mandare al nostro comune signore il nostro vescovo; e ricordati, dacché avete il vicario provinciale, che non occupi il convento di San Geminiano, il quale di diritto pertiene al tuo convento. Quel bugiardo di frate Giovanni molto pane mandò ai suoi, nella scorsa quaresima, da questo paese! Mi auguro tu stia lungamente bene, e ricordati di me. Certaldo 10 ottobre.

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GIOVANNI BOCCACCIO, Egloga a Checcho di Meletto Rossi ((da Bucolicum Carmen, Tutte le opere, V.1 a cura di G. Velli, Milano 1992) Egloga Iohannis de Certaldo cui nomen Faunus incipit Tempus erat placidum, zephyrus quoque missus ab antro Eolio frondes flores et gramina glebis mulcebat lenis. Tunc silvis omnia leta pace quiescebant; pastores ludus habebat vel sonnus facilis; paste sub quercubus altis 5 ac patulis passim recubabant lacte petulcis ubera prebendo natis distenta capelle. Delphycus interea summum scandebat Olimpi et minimas terris prestabat corporis umbras, otia cum subito rupit vox improba meste 10 Testilis, «O! — clamans — que te dementia cepit? Quid sequeris diros montana per ardua, Faune, ursos setigerosque sues fulvosque leones? Non te cura tui retinet? non parva tuorum edis mista cohors cornu ludentibus ultro natorum? non matris amor? non coniugis? heu, heu! 15 non te cura tenet pecudum quibus ipsa recenti vigmine composui septam? Dic, obsecro, nescis qualis in has rabies circumstrepat alta luporum, insidie quorum nondum quater ubere lac tu 20 ex his mulsisti postquam patuere? Quid ergo? Me, dic, posse putas tantis obstare periclis? Femina sum trepidans paucis sotiata molosis». Ultima reddebat fundis ex vallibus echo. Deditus ipse tamen ludis per pascua flores; 25 grandia querebam, serto iam fronde parato consertare volens. Animum sed clamor hanelum traxit et e manibus flores cecidere reperti; florilegum liqui studium, que Testilis alte dixerat accipiens, mecum post dicta revolvens; 30

Comincia l’ecloga di Giovanni Boccaccio che si intitola Fauno Il tempo era piacevolmente calmo, e in più Zefiro, uscito dall'antro di Eolo, lieve accarezzava le foglie, i fiori, l'erbetta sulla zolla. Allora ogni cosa lieta per le selve riposava in pace. Dei pastori chi s'era dato al gioco, chi al facile sonno. Tutt'intorno sotto le alte e ampie querce riposavano le pasciute caprette porgendo ai loro piccoli irrequieti le mammelle gravide di latte. Frattanto il sole percorreva la parte più alta del cielo e in terra faceva che ogni corpo proiettasse ombra cortissima: quand'ecco d'un tratto la voce insistente di Testili addolorata rompe la quiete: «Quale follia ti ha preso? Perché, o Fauno, per le cime del monti ti metti a inseguire gli orsi crudeli, i cinghiali setolosi e i fulvi leoni? Non ti trattiene la preoccupazione per la tua sicurezza? Non la piccola schiera dei tuoi figli, mista ai capretti dal corno lascivo? Non l'amore di tua madre? Non della sposa? Ahimè, non ti trattiene la cura delle pecorelle per le quali io stessa ho costruito un recinto con fresco vimine? Ti prego, dimmi, ignori quanto feroce la rabbia dei lupi tutt'intorno si scateni su di esse, dalle cui mammelle meno di quattro volte hai munto latte dopo che di questi apparvero le insidie? E allora? Dimmi, pensi che io sola possa far fronte a sì grandi pericoli? Sono una donna paurosa, protetta da pochi molossi». E l'eco dal fondo delle valli rimandava le ultime parole. Quanto a me, tutto dato allo svago, ero alla ricerca di fiori: per gli ampi prati, volendoli intrecciare in una ghirlanda già fatta di foglie. Ma il clamore attrasse a sé il mio spirito intento e i fiori che avevo trovato mi caddero di mano; afferrando quanto detto da Testili ad alta voce e poi ripensandoci attentamente tra me stesso, abbandonai la ricerca dei fiori;

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hinc oculis silvam repeto totamque sonantem audio, nil aliud cernens. Sed Meris, ut opto, affuit et baculum forsan de stipite querno gestabat leva caput intectumque galero, nescio quid meditans secum. Sed tunc ego primus 35 inquio: «Mi nemorum fulgor, salveris, o Meri! En optate venis. Si quis nunc nunctia nostris rumor inest silvis. Nostin que Testilis ire?». Risit tunc Meris; post hec sic ille: «Menalca, salve! — inquit — Tu solus ades cui iurgia non sunt 40 Testilis et Fauni notissima. Pande sed, oro, quid solus peragas tanto in discrimine silve». «Serta michi lauri pulcro distincta iacinto querebam, servanda tamen, dum fistula gratos nostra ciet modulos Mopso, cui timpora lectis 45 nectere concessum pastoribus. Hec michi grata munera carminibus servantur, dummodo fatis hoc placeat. Sed si qua meis prestanda fides est verbis, iuro tibi, nunc iurgia magna dolentis Testilis ignoro. Sed tu modo pone galerum 50 et baculum mecumque sede lucemque severam hanc fugias rogito. Sunt nobis dulcia poma, lac pressum mellisque favus cererisque polenta; hic nemus et gelidi fontes et mollia prata, hic edere viridis tectum nigrisque corimbis 55 amtrum, quo magnus condam residebat Aminctas. Et quamvis cantare vetes, nemus omne cicadis dedecus in nostrum milvis corvisque relictum affirmans gravitate tua (neque ipse negabo), non tamen interea nos hic requiescere fas est 60 torpendo, tamquam virtus subfulta favore fortune vigeat seu forsan blanda requirat ora virûm: virtus per se valet ipsa vigetque. Si nostros montes colles vallesque recusant versus, quid? Nobis, Mopso Musisque canamus. 65

quindi volgo lo sguardo alla selva e la sento tutta risonare, pur non vedendo altro. Ma ecco, secondo il mio desiderio, apparve Meri la sinistra appoggiata a un bastone apparentemente di querciolo e il capo ricoperto di un cappuccio, tutto assorto. Gli parlo per primo: «Salute, mio Meri, luce dei boschi. Proprio te volevo. Dimmi che voce s'è sparsa nelle nostre selve. Conosci il motivo dello sdegno di Testili? ». Allora Meri si mise a ridere: «Salve - rispose - Menalca. Tu solo ignori le ragioni, note a tutti, del rancore tra Testili e Fauno. Ma dimmi che vai facendo da solo in un momento così difficile per la nostra selva». «Volevo intrecciare per me una corona di lauro con qualche bel giacinto qua e là: da tener da parte, finche la mia zampogna non produrrà suoni che possan risultare graditi a Mopso, le cui tempie a illustri pastori fu dato d'incoronare. Questa grata ricompensa è in serbo per i miei canti, fintanto che piacerà ai fati. Ma se le mie parole meritano fede alcuna, ti giuro, non conosco affatto i motivi del gran risentimento di Testili affranta. Ma tu metti ora giù cappello e bastone, siedi con me, fuggi questa luce accecante. Ho con me dolci pomi, formaggio fresco, miele e polenta di grano; qui un boschetto, sorgenti fresche fra prati lussureggianti, qui ricoperta dai grappoli neri dell'edera verde la grotta in cui soleva trovar rifugio il grande Aminta. E benché tu ritenga non si debba cantare (autorevolmente infatti asserisci - io su questo non posso contraddirti -che tutto il bosco e stato abbandonato, per nostra vergogna, a cicale, sparvieri e corvi), non par lecito intanto a noi pigramente tacere, come se la virtù avesse solo forza quando è appoggiata dal favore di fortuna oppure richieda forse il plauso carezzevole della gente. La virtù invero vale e ha forza per se stessa. Se i nostri monti, colli e valli rifiutano i nostri versi, che vuol dire? Cantiamo per noi, per Mopso e per le Muse.

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Hec etenim vive resident in culmine sacri Parnasi sanctumque nemus fontemque sonorum observant Cirramque colunt desertaque rura; non, testor, victe, sed parvi temporis usum Pyeridis prestant. Ideo, Meri, ha! nisi fallor, 70 tempus adhuc veniet, nobis cecinisse iuvabit. Set quia propositum tibi forsan nolle Camenis deservire, gregem spectans inmergere lymphys dum calor arva tenet, sit; nullis denique cantes hortabor precibus; saltem quesita recense». 75 Consedit Meris turbata fronte parumper. «Ipsene — ait — Musis sistam servire, Menalca? Absit. Nam longe primo de fluctibus orni Neptunni surgent, venient ad pabula tigres. innocue, fugiet pavidus lupus ipse capellas 80 quam michi non animo Musis servire moretur, quamquam cura gregis parvi per plana vagantis me teneat multum. Stipula sed promere versus nunc tempus prohibet, dum talia, qualia nuper ipse petis, maneant. Que si.vis, tolle, docebo». 85 «Dic, age, mi Meri: et nam, nunquid arundine versus decantare decens vel non, servabimus». Ille: «Ut tibi quam grandis fuerit, si nostra meretur musa fidem, pateat silvis venerabilis Argus pastorique decus, paucis presummere verbis, 90 dum stes, intendo, demum venturus ad omne quesitum.» Tunc ipse: «Volo». Sic ille resumpsit; «Nescio si montes umquam nemorasaque plana nosti, que gemino resident contermina ponto Auxonico, magno condam disiuncta Peloro 95 exiguoque freto, Sylle locus atque Caribdis. His Argus pastor, merito cantandus ubique, vivus erat silvis. Niveos hunc mille per arva, per montes collesque leves camposque per omnes audivi servare greges et pabula cunctis 100 et rivos umbrasque simul prestabat apricas.

Ché queste sono ben vive sulla cima del Parnaso, custodi del sacro bosco e della fonte sonora, di Cirra e delle sue deserte pendici. Ti assicuro, non sconfitte: solo per poco esse cedono il campo alle Piche. Verrà tempo, se non m'inganno, o Meri, che avremo caro di aver cantato. Pure, se, come pare, hai deciso di rifiutare il tuo servizio alla Camene, badando piuttosto a che il tuo gregge s'immerga nelle acque mentre la calura grava sui campi, così sia. Non ti spingerò oltre a cantare: almeno rispondi alla mia domanda». Per un po’ Meri, turbato, tacque. Poi: «Cesserò di servire alle Muse? - disse - Mai. I frassini nasceranno dai flutti del mare, le tigri verranno ai pascoli mansuete, il lupo impaurito fuggirà dinanzi alle caprette prima che mi succeda di abbandonare il servizio delle Muse: anche se mi assorbe molto la custodia di un piccolo gregge che vaga per la pianura. E’ un fatto però che il tempo impedisce di produrre canti con la zampogna almeno, finché permangono le condizioni di cui chiedi. Ecco, allora, se vuoi, te le chiarisco». «Dimmi dunque, Meri: convenga o meno produrre canti con la nostra zampogna, faremo bene a serbarli». E lui: «Se insisti, in poche parole voglio ti sia chiaro, se il canto mio è degno di fede, quanto grande fosse il venerando Argo, onore di selve e pastori; potrò rispondere ad ogni interrogativo alla fine». Ed io: «Certo», e lui ricominciò: «Non so se hai conosciuto i monti e le pianure selvose che si stendono tra i due mari italici, un tempo separate dal grande Peloro per uno stretto varco di mare, dimora di Scilla e Cariddi. In queste selve viveva il pastore Argo, degno di esser celebrato dal canto per ogni dove. Custode di mille candidi greggi, così udii, per campi, monti, altipiani, per ogni pianura. A tutti egli dava pascoli, ruscelli, fresche ombre.

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Nec melius quisquam frondes novisse salubres aut soles imbresque graves seu flumina dira et pecori fetuque novo fertur (quia novi, hoc ideo refero); nec rerum reddere causas 105 Silenus potuit melius, non maximus Athlas cognovit celum potius, non poma dracone pervigili servata magis. Que plura requires, dic, bona pastori? Non Argum vivere talem invenies, totas si lustres undique silvas. 110 O! tibi si quanto tangebat carmine colles exprimerem, vix ipse feres. Nam iudice certent Amthiopa satyroque satus, qui menia Thebis inposuit plectro, vel magnus Tracibus olim vates dulciloquus, silvas qui traxit et annes. 115 Ysmenus Dirceque ferent: si saxa revulsit hic muris cythara, divos disvelleret Argus; Ysmarus et Rodope dampnabunt vocibus Orphea. Quid tibi nunc referam? Noster, cui tura paramus, amfrisius pastor vix quiret tendere secum 120 vocibus aut calamo vel nervis. Aspice quantus ergo fuit silvis Argus, cui nemo secundus. Hunc igitur mors seva tulit, que singula vincit; nec rediturus abit, silvas carosque relinquens pastores gratosque greges se condit in astris. 125 Fleverunt montes Argum, flevere dolentes silvarum colles cripte longique recessus et satyri faunique leves nymphe driadesque et tauri pecudesque breves grandesque molosi, stagna lacus fontes rivique et flumina queque, 130 Cirrei latices flevere et flevit Apollo et Mopsus Phytiasque suus vel magnus Ydeus, cespite qui viridi tumulum struxere peremnem per lacrimas Argo, foliis ac floribus omnem complentes tumuloque super post addere carmen 135 intenti, ne nulla quidem deduceret etas.

E’ fama che nessuno meglio di lui conoscesse le benefiche fronde o i soli o le piogge dannose o le acque malefiche per le pecore e i loro piccoli (riporto quanto mi fu detto). Sileno non fu in grado di spiegar meglio le ragioni ultime delle cose, né con maggior profondità conobbe Atlante il cielo, né più custoditi furono i pomi sotto lo sguardo insonne del drago. Dimmi, si possono pretendere, per un pastore, meriti più numerosi? Se ricerchi per tutte le selve, non troverai un altro Argo. Oh, se io fossi capace di esprimerti con che canti faceva echeggiare i colli: a tanta bellezza non potresti resistere. Stiano a giudizio il figlio di Antiope e del satiro, colui che costruì le mura di Tebe con l'armonia del suo plettro e il grande soave vate dei Traci che si trascinò dietro selve e fiumi; dovranno sopportarlo Ismeno e Dirce: se quegli richiamò con la sua cetra i sassi per le mura, quelle, benché divine, Argo distruggerebbe; e l'Ismaro e il Rodope dovranno apertamente condannare Orfeo. Cos'altro ho da aggiungere? Il nostro pastore Anfrisio, per cui son sempre pronti gl'incensi, avrebbe difficoltà a sfidarlo al canto, alla zampogna, alla cetra. Vedi dunque quanto grande fosse Argo nelle selve, quanto solo, senza pari. Orbene, morte crudele, cui niente sfugge, se l’è portato via: Argo è partito né tornerà e abbandonando le selve, i cari pastori, gli amati greggi, s'è trovato una dimora celeste. Piansero Argo i monti, lo piansero affrante le selve montane, le grotte, gli anfratti e i satiri e i fauni leggeri, le ninfe e le driadi e i tori e le minute pecorelle e i grandi molossi, gli stagni i laghi le fonti e i rivi e i fiumi, piansero le acque di Cirra e pianse Apollo e Mopso e Pizia suo e il grande Ideo, che di verde cespite costruirono lagrimando un eterno tumulo per Argo colmandolo di foglie e di fiori, con l’intento poi d'iscrivervi un epitaffio a sua eterna memoria.

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Sed tu quid defles? Oro, responde, Menalca, ante magis tendam; dic, Meris si tibi cure est.» «Quidne fleam queris? Que narras ipse ego novi, confiteor, nec cuncta refers que noverat Argus. 140 Ex grege nempe fui pulcro, sed iunior olim; hunc igitur demptum lacrimor. Sed tu modo perge quo tendis, mi Meri, rogo.» Tunc ille secutus: «Hic armenta boum pecudes parvasque bidentes et montes silvasque et pascua ruraque cuncta, 145 heu! condam moriens iuveni commisit Alexi, qui, male dum cautus armenta per arva trahebat, in gravidam fortasse lupam rabieque tremendam incidit; et Phebes radios tunc nube tegebat, unde levis iuvenis nullo cum lumine lustrum 150 nescius intravit; cuius sevissima guctur dentibus invasit, potuit neque ab inde revelli. donec et occulto spiraret tramite vita. Hoc fertur; multique ferunt quod silva leones nutriat hec sevasque feras, quibus.ipse severus 155 occurrit venans mortemque recepit Adonis. Si tibi cuncta velim que tunc gessere propinqui pastores narrare, dies non, solis ab ortu usque domi sature redeunt cum nocte capelle, sufficeret spatio. Sed postquam Tityrus ista 160 cognovit de rupe cava, que terminat Hystrum, flevit et innumeros secum de vallibus altis Danubii vocitare canes durosque labore pastores cepit; limquensque armenta suosque saltus infandam tendit discerpere silvam 165 atque lupam captare petit flavosque leones inmanesve feras, quarum iam mitis Alexis egregius sanguis forsan per guctura fluxit, ut penas tribuat meritis. Nam frater Alexis Tytirus iste fuit. Nunquid vidisse furentem 170

Ma tu perche piangi? Rispondi, ti prego, Menalca, prima che io continui. Dimmelo, se ami Meri». «Mi chiedi perche piango? So bene quanto stai narrando, lo confesso, né puoi dire appieno quanto Argo sapeva. Che feci parte, da giovane, del suo bel gregge; e ora ne piango la perdita. Ma tu, continua, Meri mio». Allora lui: «Questi morendo, ahimè, lasciò al giovane Alessi le mandrie del buoi, le pecore e gli agnellini, i monti, le selve, i pascoli e i campi tutti: il quale Alessi, mentre conduceva poco attento le mandrie al pascolo, scontrò una lupa forse gravida e terribile nella sua rabbia; proprio allora la luna aveva i suoi raggi ricoperti da una nube, per cui poco saggio e inconsapevole il giovane al buio s'inoltrò nel bosco. La lupa ferocemente gli si lanciò alla gola né poté egli liberarsi dal morso, finché la vita non lo abbandonò in un sentiero appartato. Questo è quello che si dice. Dicono poi molti che quella selva ospiti leoni, fiere selvagge, che egli volle intrepido cacciare ma ne ebbe la morte di Adone. Se ti volessi ora narrare tutto quello che poi fecero i vicini pastori non basterebbe un'intera giornata, dall'alba fino all'ora in cui a notte ritornano sazie all'ovile le caprette. Ma dopo che laggiù nel fondo della sua grotta bagnata dall’Istro Titiro seppe tutto ciò, ne pianse. Si diede poi a chiamare a gran voce dalle valli profonde del Danubio cani in gran numero e fece raccolta di pastori induriti dalla fatica. E lasciando gli armenti e i suoi boschi viene ora a distruggere l'iniqua selva e cerca di catturare la lupa, i fulvi leoni e le bestie feroci, per la gola delle quali forse fluì il nobile sangue di Alessi innocente, perché tutti paghino il fio. Questo Titiro è infatti fratello di Alessi. Non rammenti di aver visto passare per questa via e attraversare il bosco lui furioso

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mente tenes nuper lato venabula ferro gestantem manibus, multos et retia post hunc portantes humeris, iaculis multisque sagiptis et canibus fultos, ira rabieque frementes, hac olim transire via silvamque per omnem?». 175 Tunc ego: «Sic memini. Sed que nunc Testilis ire?». «Ecce tene. Multi per devia Titiron istum pastores nostri canibus sumptisque secuntur, inter quos Faunus noster iam carpere colles cernitur. Inde dolet tristem solamque relictam 180 Testilis in silvis cernens se; namque luporum insidie plures estant, prout ipsa fatetur.» His dictis, animus qui iam torpore rigebat surexit floresque meos sertumque reliqui aiens: «Meri decus; Faunum post ire paratus 185 sum; sed dum venio mulge tu, care, capellas».

con spiedi di larga lama, e dopo di lui molti con reti sulle spalle equipaggiati con saette e cani, frementi d'ira e di rabbia?». Ed io: «Sì, ricordo. Perché però ora Testili si adonta?». «Siamo al punto. Molti nostri pastori coi loro cani seguono questo Titiro per strade fuori mano e con essi si può vedere il nostro Fauno che si appresta a scalare le alture. Perciò Testili vedendosi triste, sola e abbandonata nelle selve se ne duole; ché molte sono – come lei stessa dice – le insidie dei lupi». Aveva concluso. Il mio animo che già torpido languiva si riscosse. Lasciai i miei fiori e la corona e dissi: «Illustre Meri, sono pronto a seguire Fauno; fino al mio ritorno, mungi tu, mio caro, le caprette».

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BOCCACCIO Buc. III (da Bucolicum Carmen, Tutte le opere, V.2 a cura di G. Velli, Milano 1992) Comincia la terza, intitolata Fauno; interlocutori Palemone, Panfilo e Meri. PALEMONE Tu, Panfilo, mollemente giaci qui nella grotta paterna mentre il bosco tutto freme, percosso dalle urla della disperata Testili; e di nulla t'importa nella tua inerzia. PANFILO (Secondo me, questo qui s'è spaventato al tonfo del cantaro che aveva l'ansa troppo logora). Va' a fermare i maiali, se no col grugno sradicano l'erba dai campi. E lascia perdere le selve risonanti. PAL Ma cosa credi, che ti stia parlando ancora fradicio della sbornia di ieri? L'ho smaltita nel sonno. Stammi a sentire piuttosto, ammesso che te lo consenta il torpore, o la tua fida Licisca. PANF. Buono, per favore: sta' seduto e smettiamola di litigare. E di quello che hai saputo ti prego, Palemone, metti al corrente anche me. PAL. Bene. Era l’ora del piacere: i pastori stavano a suonare o a gustarsi un dolce sonno, le capre, dopo il pascolo sparpagliate a riposare sotto le querce alte e larghe, offrendo ai vispi cuccioli le poppe gonfie di latte; io invece ero intento a ornare con fiori di acanto un serto, da serbare però per quando la nostra zampogna effonderà canzoni gradite a Mopso: quel Mopso a cui fu concesso col lauro cingere le tempie e legare le chiome a chi ne sia degno. D'improvviso la quiete fu rotta dalle escandescenze della povera Testili: «Ohi, ma che pazzia t'ha preso? - gridava - che senso ha, Fauno, andar dietro agli orsi sui monti scoscesi? non ti trattiene la cura di te stesso, non la schiera dei tuoi bimbi che si mischia ai capretti ruzzanti nei campi, non l'amore della mamma? Pensa, ti scongiuro, alla rabbia velenosa dei lupi allobrogi che ringhia contro di loro. O credi che io, una donna, sia in grado di fronteggiare pericoli così gravi, con pochi molossi al mio fianco? ». PANF. Per affrontare balze scoscese e botri dirupati e dare la caccia a mostri più micidiali, Fauno ha sempre una passione. Ma infine, la predica è riuscita a trattenerlo?

Psi. E quello che volevo sapere venendo qui. Ma ecco appunto che arriva Meri, col suo passo lento, puntellandosi sul bastone ricurvo, tra sé meditando qualcosa. Stammi bene, amico; arrivi in buon punto. Sai dirmi, per favore, che è questo fracasso che dianzi rintronava le nostre selve? perche Testili era tanto arrabbiata? MERI Ma che domande fai: tutto il mondo conosce le frequenti baruffe di Testili e Fauno. Le querce non ne possono più, le fronde marciscono rovinate dagli urli; e tu vieni a chiedermi se l'usignolo canta e se il becco rumina. PANF. Una volta, mi ricordo, queste chiassate mi facevano ridere. Ma tu, Meri, che sei il nostro vanto, adesso metti via berretto e bastone, siedi qui con me e deponi il tuo severo cipiglio. Non scende ombra dai monti, le lucertole hanno cercato ricovero nei pertugi del suolo; qui invece abbiamo il bosco e fresche sorgenti e morbidi prati, e una tettoia di verde edera, una grotta adorna di corimbi: ci riposò un giorno il grande Aminta, e noi tutti canteremo insieme al suono della zampogna. M. Io cantare in queste selve? Ma se tutto il bosco, a nostro disdoro, è in balia di cicale e sparvieri e corvi! PANF. E allora? Ai corvi ci badino i porcari; noi cantiamo per noi e per Mopso e per le Muse, e le stelle si terranno in grembo il nostro dolce canto. PAL. Ma lui si preoccupa del suo piccolo gregge, e forse gli preme rinfrescarlo nell'acqua finché dura l'afa nella campagna: così non se la sente di compiacere col canto le Muse e noi. Lascia pure che torni dalla sua Cidipe, il dissennato, e badi ai suoi smunti capretti. M. La mia Cidipe, sì: è lei che raduna per l'abbeverata i candidi agnelli e prepara il trifoglio, e le foglie di salice per le vacche. E prima su dalle onde del mare svetteranno alti i pini, e mansuete verranno agli ovili le tigri, e il leone si asterrà dalle cerve e il lupo dalle capre, prima che io mi scordi di servire le Muse. Ma infine, se hai tanto desiderio di sapere che cosa abbia sconvolto le selve, te lo dirò in breve, dopo esserci seduti nella grotta. Non so se avete mai conosciuto le montagne e le boscose pianure abitate dagli Ausonii e confinanti con l'uno e l'altro mare, e che furono un tempo disgiunte dal grande Peloro. Su questi campi viveva il pastore Argo, giustamente famoso in ogni dove. Mille auree greggi, ho saputo, egli pascolava; e mai nessuno al mondo meglio di lui conobbe le arsure e i

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temporali e il fogliame e i fiumi benefici alla mandria e alle tenere figliate; e così grande fu a toccare del suo canto le valli che il nostro pastore d'Anfriso, a cui dedichiamo il vertice di Nisa, stenterebbe a contendere con lui nella voce, nella zampogna e nella lira. Ma l'orrida Parca infine l'ha rapito e, come meritava, riposto tra gli astri. Argo piansero i monti, piansero dolendo i Satiri e i Fauni leggeri, e pianse Apollo. Ma nel morire egli affidò le selve al giovane Alessi; e questi, mentre con poca cautela guidava gli armenti nei campi, finì con l'imbattersi in una lupa gravida, tremendamente rabbiosa: senza paura, nel buio piu completo, era entrato nella tana. D'un balzo quella, piena di ferocia, gli azzannò la gola, né egli riuscì a staccarsene prima di spirare nella cieca imboscata. Questo si racconta. Ma molti vogliono che tale selva nutra leoni e belve crudeli, le quali egli affrontò in implacabile caccia: e trovò la morte di Adone. Se ora io volessi narrare tutto ciò che fecero i pastori vicini, non basterebbe lo spazio d'una giornata, dal sorgere della luce fino a quando, con la sera, tomano a casa sazie le capre. Dirò solo che Titiro, dopo che venne a sapere il fatto dall'alto della cava roccia che delimita l'Istro: egli pianse, e dalle profonde valli del Danubio chiamò a raccolta torme innumerevoli di cani e i duri bovari, e digrignava i denti; lasciò i suoi armenti e le sue balze, e ora corre a sterminare la selva nefanda e a catturare la lupa e i fulvi leoni per punire i colpevoli; perché questo Titiro era il fratello di Alessi. Non ti ricordi d'averlo visto or non è molto, che brandiva furioso spiedi dal ferro acuminato, e una folla al suo seguito che recava in spalla le reti schiumando di rabbiosa collera? Passarono proprio di qua, traversando tutta la selva. PAL. Tu parli di calcidici e istri. Che guai possono procurare, scusa, a chi ha le sue terre lungo l'Eridano? M. Te lo spiego subito: dietro a questo Titiro, con cani e armi, per vie traverse, ci vanno molti dei nostri. E tra loro ci va Fauno; e invano lo richiama Testili, triste angosciata piangente, percuotendo delle sue grida la selva intera: lui se ne va, e non si cura di quel piangere né dei suoi cari. Si vede la polvere: guarda la collina. PANF. Chi ha poco senno va sempre in cerca di guai; e Fauno mal sopporta la quiete. Ma tempo verrà, se ora non m'inganna le orecchie il sibilo di Austro, che Testili cadrà tra le braccia di Espero: vorrà resistere, ma non ne troverà la forza. Ma che egli possa tornare, e il mio augurio, con miglior sorte! PAL. Nessuno sa frenare gli ardori dei giovani. La quiete s'addice ai vecchi, a sedere

sulla soglia ci stiano le madri: ma il Narizio non seppe alteporre altra gloria a quella che s’acquista fuori di casa. Io sono pronto a seguirlo; tu per favore, se hai intenzione di restare qui, tra grotte e bosco, pascola le nostre greggi; e finché non mi avvenga di tornare a queste selve, tienti da solo la mia Criside. PANF. Amico mio, parti pure tranquillo. Fa’ conto che tutto sarà a posto quando vorrai ritornare.

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BOCCACCIO Buc. XII (da Bucolicum Carmen, Tutte le opere, V.2 a cura di G. Velli, Milano 1992) Incipit egloga XII, cui titulus est Saphos, collocutores autem Caliopes et Aristeus. CALIOPES. Quid, puer, has inter lauros, stultissime, queris, nunc has nunc illas carpens? Temerarie, nescis sacrilegum violare nemus nisi conscia Quiris optatas frondes merito concesserit ante? ARISTEUS. O scelus! ex minimis tris forsan captus odore 5 excerpsi. Seu nympha loci seu sis dea, nostras excute tu quercus ac omnes collige glandes. CALIOPES. Cogis ut in risum veniam. Sic, obsecro, quercus equiparas lauris? Non illas Iuppiter olim extulit in tantum, quanquam sibi prisca dicarit 10 illas religio. Nescis, stolidissime, porcis serventur glandes et laurea serta poetis? quos nemori fontique sacro pulchrisque Camenis et cytharis plectrisque suis prefecit Apollo. ARISTEUS. Ergo sacrum Phebi nemus hoc, pulcherrima virgo? 15 Nescius optatum teneo. Quis denique prestet quo visurus eam laudatam carmine Mopsi egregiumque gregem vatum nymphasque canentes? CALIOPES. Quid queris, nemorisque mei quid conspicis umbras? ARISTEUS. Ut videam Saphon. Nostin? Da, nympha, recessus 20 quis nunc lenta diem vertat ludendo per herbas. CALIOPES. Quid tibi cum Saphu, cum sis puer atque subulcus?

Comincia la dodicesima, intitolata Saffo: interlocutori Calliope e Aristeo. Calliope. Cos'è che cerchi, stoltissimo giovane, tra questi lauri, or questi ora quelli cogliendo? Temerario! non sai che violare il bosco è sacrilegio se prima la Quirite, consenziente, non abbia concesso per giusto merito le ambite fronde? Aristeo. Sai che delitto: tre ne avrò recisi, dei piu piccoli, attratto dal profumo. Tu in compenso, ninfa del luogo o dea che tu sia, scrolla pure le mie querce e raccogli tutte le ghiande. C. Mi fai davvero ridere. Non vorrai, dico, eguagliare le querce ai lauri? Neanche Giove le esaltò a tal punto, benché la religione primitiva le avesse consacrate a lui. Se non lo sai, povero sciocco, le ghiande vanno destinate ai porci, i serti di lauro invece ai poeti, cui Apollo affidò il bosco, la sacra fonte, le belle Camene, le sue cetre, i suoi plettri. A. Allora, o vergine bellissima, è questo il sacro bosco di Febo? Senza saperlo ho realizzato il mio desiderio. Chi può infine indicarmi dove posso vedere colei che fu lodata dal carme di Mopso, e il gregge egregio dei vati, le Ninfe canore? C. Cos'è che cerchi? perche scruti le ombre del mio bosco? A. Per vedere Saffo. La conosci? Mostrami, o ninfa, i recessi dove ella ora trascorre mollemente la giomata giocando nell'erba. C. Sei un ragazzo e un porcaro: che c'entri tu con Saffo?

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ARISTEUS. Heu, quid? Quid iuveni credis cum virgine pulchra? Uror et amplexus cupio, turmasque reliqui invisam ut videam, nec quorsum querere novi. 25 CALIOPES. Tu cupis amplexus Saphu? Nunc sydera lambant quos trahis ipse sues volitentque per ethera vulpes, grux trahat ac anser pariter per rura quadrigas! Si memini, tu nuper haras mundare solebas, et scabiem morsusque canum seu vulnera veprum 30 nunc manibus purgare palam nunc gurgite turpi, unguine nunc vario succisque potentibus atque galbaneis fumis nigrique bituminis offa; viribus ellebori stillaque dolentis amurce vel potu tristes alvi depellere sordes, 35 ac herbis variis formare volutabra porcis: et nunc Saphon amas? Expectet te quoque Pallas! ARISTEUS. Erras; Argus erat. Sed quid non Saphon amarem? Me Galathea diu, me quondam Phyllis amavit, et mollis lanugo genas nunc serpere cepit, 40 tradidit et calamos nobis Pan doctior olim et cantus docuit. Nec plebis fece creatus: Cyrenes genitrix est nobis, thessala nympha; nomen Aristeus; glandes et mella vetusti archados accipio nemoris. Te nosse putabam. 45 CALIOPES. Nunc ego te teneo. Sic est, novisse decebat. Ysmarius tu grandis eras, tu Critis es Yde! Non ego te vidi pridem vulgare canentem in triviis carmen, misero plaudente popello?

A. Che c'entro? Un giovane da una bella ragazza, cosa credi che voglia? Io brucio, io sospiro i suoi amplessi. Per vedere lei che non ho mai visto ho lasciato i miei branchi; e non so dove cercarla. C. Gli amplessi di Saffo, tu? Ma allora, che sfiorino pure le stelle i porci che tu meni, che volino nel cielo le volpi, che la gru e l'oca in pariglia tirino le quadrighe attraverso i campi! Se ben ricordo, tu un momento fa spazzavi i porcili; e curavi la scabbia e i morsi dei cani e i graffi dei rovi ora con le mani, senza tante cerimonie, ora con l'acqua sporca o con un grasso qualsiasi o con gagliardi succhi e suffumigi di galbano e pillole di nero bitume; e con la virtù dell'elleboro, con una stilla di disgustosa morchia o con l'orina espellevi le triste sozzure del ventre; e con un misto d'erbe preparavi il brago ai porci. Adesso tu ami Saffo? Sta' a vedere che hai pure appuntamento con Pallade! A. No, macché: quello era Argo. Ma perché io non dovrei amare Saffo? A lungo mi ha amato Galatea, e una volta anche Filli; adesso poi la morbida lanugine comincia a invadermi le guance, e il dotto Pan a me pure ha consegnato la zampogna e insegnato il canto. E non nasco da feccia plebea: mia madre è Cirene, ninfa di Tessaglia; mi chiamo Aristeo; ghiande e miele li colgo da un'antica foresta d'Arcadia. Credevo lo sapessi. C. Oh già: ora so chi sei. E’ vero, come ho fatto a non riconoscerti? Il grande d'Ismaro eri, tu! Criti dell'Ida, sei! Per l’addietro non ti ho visto cantare nei trivii canzoni volgari, tra gli applausi del popolino miserabile?

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ARISTEUS. Vidisti, fateor. Non omnibus omnia semper 50 sunt animo, puero carmen vulgare placebat. Illud Lemniadi claudo concessimus; ast nunc altior est etas, alios que monstrat amores. CALIOPES. Ecastor! memini, nuper dissolvere linguam vix poterat Bathos; subito nunc culmina poscit 55 Parnasi, stolide captus fervore dearum, factus Aristeus. Sed quid non fecit Olympus? ARISTEUS. Quid loqueris nunc ipsa tibi? Da, nympha, precamur, virginis antra mee; crucior, me fervor adurit. CALIOPES. Querere credo putes Phyllim seu forte Lupiscam, 60 quas nemorum pomis trahitis quandoque per umbras. Hec dea, magna quidem, paucis et cognita dudum. ARISTEUS. Meonius pastor potuit vidisse Tonantis consortem natasque duas sub quercubus altis, exuviis nudas: quid non ego cernere Saphon? 65 CALIOPES. Sic illis visum. Dic, tu quo noveris illam? ARISTEUS. Minciadem Silvanus heri, qua Sorgia saxo erumpit Vallis currens per devia Clause, convenit, placidaque simul sedere sub umbra ylicis antique. Quos postquam fronde virenti 70 umbrasse esculea frontes et carmine vidi certantes ambo ferrent super ethera cantu<m>, accessi: et tacitus mediis vepretibus altis delitui, porcis Gethe siliquisque relictis.

A. Hai visto bene, sì. Non tutti arrivano sempre a capire tutto; da ragazzo mi piaceva la poesia volgare; e l'abbiamo sacrificata allo zoppo di Lemno. Ma adesso l’età è cresciuta, e mi suggerisce altre passioni. C. Castore! Lo so, fino a poc'anzi Bato stentava a spiccicar parola; d'un tratto ora pretende le cime di Parnaso, innamorato pazzo delle dee, diventato Aristeo. Miracoli di Olimpo! A. Ti metti a parlare da sola? Per favore, ninfa, mostrami le grotte della mia vergine. Io sono in croce, la febbre mi brucia. C. Ma tu, a quanto pare, credi di dar la caccia a una Filli o una Lupisca: di quelle che ogni tanto, con due pomi, vi portate nell'ombra dei boschetti. E’ una dea questa, e importante, e pochi fin qui l'hanno conosciuta. A. Se il pastore di Meonia è riuscito a vedere sotto le alte querce la sposa e due figlie del Tonante, prive di vesti, perche non posso io vedere Saffo? C. A quelle piacque così. Ma tu, insomma, dove ne hai avuto notizia? A. Ieri Silvano s'incontrò col Mincìade là dove il Sorga erompe dalla roccia per correre le solitudini di Valchiusa, e insieme sedettero nella dolce ombra d'una vecchia elce. Li vidi ornarsi la fronte con verdi foglie d'ischio, li vidi ambedue in poetica gara levare al cielo il loro canto. Allora mi avvicinai e mi nascosi in silenzio in mezzo agli alti pruneti, lasciati a Geta i porci e il loro pasto.

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Laudibus hi Saphon, resonantibus undique saxis, 75 vocibus et calamis pariter super astra ferebant. Miratus, fateor, confestim a Phyllide mentem diverti, sensique novos ambire furores intentum modulis pectus; captusque repente exquiro Saphon, cupiens quibus ipsa moretur 80 antra videre oculis. Quid si tu forsitan esses? Nam gestu facieque deam verbisque fateris. CALIOPES. Non ausim, iuvenis, Saphon me dicere, cum sim obsequiis iniuncta suis. Si inspexeris illam, longe aliud dices. Verum tibi maximus instat 85 ante labor. Nimium celsos intratis amores precipites, cum turpe nimis sit vertere gressus. ARISTEUS. Quid Saphos, si tanta tibi reverentia vultus? Non equidem silvis Phyllis, non Delia celo pulchrior. Ast nobis nomen, pulcherrima virgo, 90 pande genusque tuum, si nostras venit ad aures. CALIOPES. Caliopes vocitor, magni Iovis inclita proles, castalii nemoris custos fontisque sonori; ut reor, omnino vestris incognita silvis. ARISTEUS. Imo equidem memini: grandis sic ante canea 95 Minciades grandisque simul Silvanus in antro. Tu silvas resonare doces, tu maxima Saphu voce refers concepta sacri tibi pectoris hausta. Sed dic quas teneat sedes pulcherrima Saphos. CALIOPES. Panis nata dei celsum tenet optima Nyse 100 Saphos, gorgonei residens in margine fontis.

Con versi e musica insieme essi esaltavano Saffo, la portavano alle stelle, mentre per ogni dove facevano eco le rupi. Lo confesso: fui preso dall'entusiasmo e subito Filli mi uscì dalla mente e sentii che una passione nuova m'invadeva il cuore, catturato da quelle melodie. Subito innamorato vado in cerca di Saffo, ansioso di vedere coi miei occhi le grotte in cui essa dimora. Ma... non sarai tu, per caso? perché al gesto al sembiante alla voce, una dea ti riveli. C. Non oserei mai farmi passare per Saffo, ragazzo mio, dal momento che sono al suo servizio. Se arriverai a vederla, parlerai in tutt'altro modo. Ma prima, assai ti toccherà soffrire. Avete troppa fretta, voi uomini, d'imbarcarvi in amori sublimi; e dopo è troppo cocente lo scorno della ritirata. A. Che mai sarà Saffo se tanto è venerabile il tuo volto! Giuro che non è piu bella Filli nelle selve, o Diana nel cielo. Ma svelami, o vergine bellissima, il tuo nome e la schiatta: puo darsi che ne abbia sentito parlare. C. Calliope mi chiamo, inclita figlia del grande Giove e custode del bosco castalio e della fonte melodiosa; del tutto ignota, credo, alle vostre selve. A. No, anzi, e ora ricordo: così appunto cantava il grande Mincìade nella grotta, e il grande Silvano con lui. Tu sei quella che fa risuonare le selve, tu rendi con la voce di Saffo gli altissimi sensi del Sacro Petto da te attinti. Ma dimmi dove abita la bellissima Saffo. C. La nobile Saffo, figlia del dio Pan, sta sulla cima del Nisa e siede sull'orlo della fonte gorgonia.

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Huius sydereos oculos faciemque serenam concessum paucis dudum vidisse bubulcis; laurea serta tegunt et velum frontis honeste. Cuius in obsequium circumsumus inde sorores 105 Pyerides omnes; sibi cantat pulcher Apollo. ARISTEUS. Quid montes habitat Saphos? quid respuit urbes? quid faciem formosa tegit renuitque videri? CALIOPES. Hec sibi, dum vigilat, nemorum meditatur honores, atque sedens fuscos Plutarci visitat ortos, 110 concipiens nigre fletus et dissona silve; vel pelagi secreta notat lucosque sub undis, Phorcinidumque choros trahit et persepe napeas; vel petit elysios colles et gramina leta conspicit et placidos flores frondesque virentes 115 ac avium cantus et pulchri sydera celi, visaque sublimi complectitur omnia plectro et viridis complexa libri sub tegmine ponit. Anne putas vulgus stolidum seu garrula turba auritos tondens asinos permitteret ista? 120 Non equidem: clamore gravi, dum stringeret hyrcos, omnia turbaret. Montana ergo ocia dulci pace sibi plena expetiit mea fulgida diva; et quia quos querit frustra lasciva puella Chyroni flores pedibus calcamus euntes 125 vere novo, Saphos celso se condidit antro atque sacros lauro texit castissima vultus. ARISTEUS. Vidi ego conflantem carmen celeste Aracintho pastorem celebrem primo, tandemque cicuta sublatum; et latiis se pulsum vidit ab arvis 130 qui penos septis contriverat ante leones.

I suoi occhi di stelle, il suo volto sereno, a pochi bovari fu dato finora vederli; serti di lauro la coprono, e un velo sulla splendida fronte. Intorno a lei, pronte ai suoi ordini, stiamo noi tutte, le sorelle Pieridi; per lei canta il glorioso Apollo. A. Perché Saffo abita le montagne e rifiuta le città? perché, così bella, si copre il volto e non vuole esser vista? C. Lei, mentre veglia, pensa tra sé alla gloria dei boschi, e stando immobile visita i foschi giardini di Plutarco, percepisce i pianti e le strida della selva oscura, oppure osserva gli abissi del pelago e i boschi sommersi, guida i cori delle Forcinidi, e delle Napee molto spesso; o sale sui colli elisii e guarda i prati in rigoglio i fiori leggiadri le fronde verdeggianti gli uccelli canori le stelle del cielo sereno; e tutto ciò che vede ella raccoglie nel suo plettro sublime, e raccolto lo fissa nella custodia del verde libro. Tu credi che il volgo stolido, la folla ciarliera che tosa gli auriti asini le consentirebbero questo? No davvero: col chiasso che fa quando raduna i becchi, rovinerebbe tutto. Perciò la mia fulgida diva si è scelta la pace dei monti, la sua calma soave; e poiché in primavera noi si va a camminare sui fiori che invano chiede a Chirone la ragazza lasciva, la castissima Saffo si è rifugiata in alto, nella sua grotta, e col lauro s'è coperta il santo volto. A. Ho visto, io, un famoso pastore che sull'Aracinto dapprima modulava un carme divino, e alla fine fu estinto dalla cicuta; e si vide cacciato dai campi del Lazio colui che in precedenza aveva catturato i leoni punici.

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Sat vidisse oculis semel est mirabile quodque. CALIOPES. Sic est, sic sanctum nimio contemnitur usu. Preterea vultu quidam carpsere minaci innocuam maculisque piam depingere frontem, 135 si possent, ausi; que postergasse necesse est. ARISTEUS. Imo age, nympha, precor; maculas ostende nefandas. CALIOPES. Mendacem et stupris fedam morumque ruinam hanc plures dixere deam, scenasque colentem dixerunt alii mimamque ambire theatra; 140 soccos nonnulli damnant veteresque coturnos; hi, superum fidibus dicunt quia cantet amores et facie ficta gestus designet avitos, pellendam patria quasi regnans occupet urbes; syrenam vocitant alii lucrique voracem, 145 cum nequeant renuantque suos cognoscere cantus. His etiam commota, volens sua culmina servat. ARISTEUS. Dum porcam Cereri, Bacho dum cedimus hyrcum, forte graves vino ludentes talia quidam eructant curanda parum, pereuntque per auras. 150 CALIOPES. Non sic; conati nemorum maculare priores. ARISTEUS. Qui, precor? An sano tanta est insania cuiquam? CALIOPES. «Ericolas» tales merito dixere veterni. ARISTEUS. Non satis accipio qui sint. Tu, credo, Platoni, nympha, putes nunc verba loqui magnove Ligurgo: 155 rusticus et paucis assuetus, nympha, rudisque.

I miracoli, vederli una volta è gia assai. C. Giusto: ciò che è santo col troppo uso si svilisce. E poi certa gente con truce cipiglio ha diffamato l’innocente Saffo, ha osato provarsi a sporcare la sua fronte immacolata. Meglio non parlarne. A. Anzi, ninfa, ti prego: parlami delle infami calunnie. C. Questa dea, piu d'uno l'ha chiamata falsa, libidinosa, corruttrice dei buoni costumi; altri donna di palcoscenico, una mima che fa il giro dei teatri; altri ancora ne biasima i sandali e i coturni antichi; c'è chi vorrebbe esiliaria, quasi dominasse da tiranna le città, col pretesto che canta sulla cetra gli amori degli dei e imita, travestita, i portamenti degli avi; e chi la chiama sirena, avida di lucro, pur non essendo in grado, o rifiutandosi, di conoscere i suoi canti. Anche per questo ha deciso di abitare sulla montagna. A. Ma forse succede che certe persone, quando noi sacrifichiamo la scrofa a Cerere e il caprone a Bacco, si riempiono di vino e per scherzo ruttano fuori di queste cose: non bisogna dargli importanza, svaniscono nell'aria. C. Oh no: quelli che hanno cercato d'infamarla erano i capi dei boschi. A. Ma scusa: delle persone ragionevoli possono sragionare a tal punto? C. Non per niente gli antichi hanno chiamato «ericoli» queste persone. A. Non afferro. Mi sa, cara ninfa, che tu credi di parlare a Platone o al grande Licurgo. Ma io sono un campagnolo di poche pretese, uno zotico.

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CALIOPES. Qui nuper raptas pecudes ex ore luporum dentibus excerpunt, magnos audentque boatus vendere simplicibus; qui sese noscere causas infecti pecoris, fontes herbasque salubres, et celi mutare vices nemorumque fatentur; 160 qui superum sedes describunt voce superbi et sentire deum sensus causasque moventes in silvas fulmen, sacra atque piacula dicunt. ARISTEUS. Quid, precor, agricolis est cum pastore? Per agros ille boves terram cogit rescindere aratro, 165 hic cogit virga pecudes in pascua; cogit vinitor ut certo consistant ordine vites, lac premit iste manu quod sumpsit ab ubere pingui: rancidulus nil ergo videt de iure bubulci rusticus, et pastor nescit de more bufulci. 170 Nullum sorte sua contentum liquit Erinis; hinc peragunt rixas tauri sevique leones. Sed da, queso, viam qua possim lenius alta scandere Parnasi Saphonque videre canentem. CALIOPES. Turbavere quidem vestigia longa viarum 175 et nemorum veteres rami cautesque revulsi, implicite sentes pulvisque per ethera vectus; velleris atque fames et grandis cura peculi neglexit latos montis per secula calles. Hinc actum ut, scrobibus visis, in terga redirent 180 iam plures peterentque suos per pascua fines. ARISTEUS. Non ego convertar facilis; nam sepe nivosi conscendi rupes pedibus scopulosque Lycei. Omnia continui superant, michi crede, labores.

C. Allora: sono quelli che prima strappano le pecore dalle zanne dei lupi e poi se le sbranano, e hanno coraggio di spacciare grandi sproloqui ai semplicioni; che affermano di conoscere le cause delle epidemie del bestiame e le fonti e le erbe salutari, e di saper mutare le vicende del cielo e dei boschi; che con parole alate descrivono le dimore dei celesti e proclamano di saper tutto sulla volontà degli dei, sulle cause che fanno cadere i fulmini sopra le selve, sui sacri riti e le cerimonie d'espiazione. A. Ma gli agricoli, che hanno da spartire col pastore? quello là, nella campagna, fa solcare la terra ai bovi con l'aratro, questo con il vincastro fa pascolare le pecore; quello per fare il vino governa le viti, che assumano un certo ordine, questo rapprende il latte che ha spremuto di propria mano dalla poppa rigonfia: perciò lo schizzinoso campagnolo nulla capisce delle regole del bovaro, e il pastore nulla conosce delle usanze del bifolco. Per lascito di Erinni, nessuno è contento della propria sorte, onde promuovono risse i tori e i leoni feroci. Ma, per favore, mostrami la via che mi renda più agevole l'ascesa alle cime di Parnaso e la vista di Saffo mentre canta. C. Le tracce dei lunghi sentieri, le hanno confuse i rami secchi dei boschi, i macigni divelti, l'intrico dei pruneti, la polvere portata dal vento; e la fame di lana, la brama di un grande peculio hanno via via nei secoli negletto gli ampi calli del monte. Ond'è che già molti, alla vista dei dirupi, hanno dato di terga e riguadagnato le loro terre tra i pascoli. A. Io non mi arrenderò facilmente: più volte ho salito a piedi le rocce e i picchi del nevoso Liceo. La fatica diuturna, credimi, ha ragione di ogni ostacolo.

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CALIOPES. Vicit et ingenium vires: non talia quivit 185 exuperare labor. Frustra sudavit in altum ferreus Arpinas, calamis et voce sonorus. ARISTEUS. Mens illi non ista fuit nec carminis ardor. Nascimur in varios actus, quos optima virtus si sequitur, facili ducetur ad ultima cursu. 190 CALIOPES. Si tibi tantus amor fontis Saphuque videndi, accipe consilium: nam quenquam ducere nobis ipsa quidem vetuit Saphos, et lege perenni. Solus inaccessum potuit conscendere culmen nuper Silvanus, nobis nec carior alter 195 Minciadis post fata fuit; non pastor Opheltis, aonii pecoris stragem qui carmine pinxit. Hunc adeas; dabit ipse tibi quibus usus amicis et quibus ipse viis conscendit culmen amatum. ARISTEUS. Ibo quidem et geminos mecum portabo suellos, 200 Silvanum si forte queam divertere donis.

C. Ma sullo sforzo la vince sempre l'indole; e a tanta impresa non c'è fatica che basti. Inutilmente sudò aspirando al vertice il ferreo Arpinate, di zampogna e di voce pur sonoro. A. Ma egli non aveva la mia mente, né il fuoco della poesia. Si nasce per imprese diverse, e se ci accompagna un nobile talento, con agevole corsa questo sarà condotto alla sua meta. C. Se hai tanta passione di vedere la fonte e Saffo, accetta un consiglio: perché Saffo in persona ci ha proibito, e con legge immutabile, di condurre chicchessia. Solo è riuscito per l'addietro a salire l'inaccostata cima Silvano, di cui nessun altro ci è più caro dopo la dipartita del Mincìade: nemmeno il pastore di Ofelte, che nel suo carme rappresentò la strage del gregge aonio. Va' dunque da lui; lui ti dirà per quali amicizie e per quali strade poté scalare l'amata vetta. A. Ci andrò; e con me porterò due porcellini, sperando di commuovere Silvano con questo dono.

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Coluccio Salutati, Epistolario, a cura di F. Novati, vol. I, Roma 1891 A Giovanni Boccaccio Eliconio viro domino Iohanni Boccacio egregio cultori Pyeridum, amico karissimo Postquam recepi litteras tuas multa michi, ut in huius vite salo degentibus, imo laborantibus, assuevit, adversissima contigere. Et ut sileam cetera, conthoralis mea cui, ex ingenii bonitate legitimus me amor ardentissime conciliarat, cum partu iam ad quintum mensem concepto diem clausit extremum et repentino michi morbi impetu abrepta est. Ex quo tanto merore confectus sum, ut memet oblitus et tuarum litterarum memoriam perdiderim et honestorum studiorum lucubrationem omnino dimiserim; adeo quod institutum opusculum De vita associabili et operativa de medio michi currentis stili fervore subtraxerit. Nec mirum. Quod enim pene inauditum est, michi cum illam omnium rerum summa concordia fuit; nec toto coniugii tempore unum in quo vel solo verbo michi restiterit valeo recordari. Quamobrem hoc tanto casu prostratus et in lacrimas versus adhuc vix ad me redeo. Ante autem cum hic cartulas meas Bucolici carminis non haberem, plusculum temporis lapsum est, antequam prima eclogam, quam tibi nunc mitto, habere potuerim. Et fateor me admodum rudem bucolica meditatum, et, deficiente ocio, quamvis sex eclogas iam texuerim et processurus sim usque quo octavum numerum impleam, primam tamen et sextam solummodo lima correctionis attigit. Quarum unam tibi mitto, primam vide licet, in qua Pyrgis, qui terra ignita dici potest, pecora linquens, inducitur amore Caristes mirabiliter estuare. Cariste autem gratia Dei ex vocabuli iunctura non immerito dicitur importare; qua preveniente, Pyrgis accensus ad Silvida pastorem qui Christus, quattuor virtutum tramite, in montibus figuratarum, moliri demonstratur accessum. In qua, ut videre poteris, quedam de gratia operante, cooperante, preveniente et concomitante theologice exprimuntur. Te itaque huius mei operis iudicem facio, ut rescribas quid de illo tibi videtur et an consilium sit ad cetera properare. Non tamen mea optem inter aliorum dicta referri, quippe qui me tanti non faciam nec tali me dignor honore, ut ille ait. Vale. Claudianum meum tibi mitto; cum illo usus fueris ad votum, remitte et, si commode tibi fieri potest, destinato Macrobium De saturnalibus, quia illum librum nunquam completum habui. Vale. Luce, festine atque tediose, duodecimo kalendas februarii.

Trad. C. Corfiati Dopo aver ricevuto le tue lettere mi accaddero molte cose bruttissime, come di solito succede a chi trascorre il tempo, anzi fatica, nel mare di questa vita. E per tacere del resto, la mia compagna, alla quale mi univa un legittimo e molto intenso amore per la sua bontà d’animo, giunta ormai al quinto mese di gravidanza non ce l’ha fatta e mi è stata strappata con violenza da un improvvisa malattia. Questa cosa mi ha messo addosso una tale tristezza, che dimentico di me stesso ho perso la memoria delle tue lettere e ho trascurato del tutto gli impegni degli studi onesti; a tal punto che mi sottrasse quell’operetta iniziata De vita associabili et operativa proprio nel fervore della scrittura. E non mi meraviglio. Cosa infatti che è quasi inaudita, tra me e lei vi era una grandissima concordia su tutte le cose, né per tutto il tempo del matrimonio potrei ricordare un solo momento nel quale anche con una sola parola mi fu contraria. Per questo motivo prostrato da tanto grave lutto e immerso ancora nel pianto a stento ritorno in me. Ora poiché non avevo qui le mie cartuccelle del Bucolicum carmen, passò un po’ di tempo, prima che potessi avere la prima ecloga che ti mando. E confesso di avere lavorato in maniera alquanto rozza sulla bucolica, e in mancanza di ozio, benché abbia messo insieme già sei ecloghe e ho intenzione di andare avanti fino a che non arrivo ad un totale di otto, tuttavia la prima e la sesta soltanto sono state rifinite e corrette. Di queste due te ne mando una, cioè la prima, nella quale Pyrgis, che può essere inteso terra ignita, lasciando il gregge, è spinto dall’amore per Caristes ad ardere in maniera eccessiva. Cariste poi, ovvero gratia Dei per l’accostamento di due parole, a buon diritto si dice che è importante; al suo arrivo, Pyrgis infiammato presso il pastore Silvida, che è Cristo, per mezzo della quattro virtù, rappresentate dai monti, fa vedere che si prepara all’incontro. E in questa, come puoi vedere, si parla di teologia e si dice qualcosa della grazia operante, cooperante preveniente e concomitante. Faccio te dunque giudice di questa mia opera, perché mi risponda su cosa ti sembra di ciò e se mi consiglieresti di continuare con le altre. Non vorrei tuttavia che le mie cose fossero riferite ad altri, poiché io non sono uno che si crede di tanto valore o degno di tanto onore, come dice lui (Verg. Aen. I 335). Un saluto Ti mando il mio Claudiano; quando ne avrai fatto l’uso che vuoi, rimandamelo e, se non è cosa che ti dà disturbo, spediscimi il De saturnalibus di Macrobio, perché non riuscii ad averne uno intero. Un saluto. Da Lucca, in fretta e con stanchezza, 21 gennaio 1372

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INDICE

2 MICHELE BARBI, La nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori, da Dante a Manzoni, Firenze 1938, pp. VIII, X 2 GIORGIO PASQUALI, Cattedre di Filologia Italiana, Romanza, Medievale, in «Lo Spettatore Italiano» (settembre 1949) 3 FRANCESCO PASTONCHI, Il manoscritto originale della Divina Commedia, in «Corriere della sera» del 27 novembre 1949 (terza pagina) 4 TEOCRITO, Idilli, trad. a cura di Marina Cavalli, A. Mondadori, Milano 1991 (Idillio I) 6 VIRGILIO, Bucoliche, a cura di A. La Penna, trad. di Luca Canali, Rizzoli, Milano 1978, Buc. I 9 SERVII GRAMMATICI Qui feruntur in Vergilii Bucolica et Georgica commentarii, recensuit Georgius Thilo, Gerog Olms Verlagsbuchhandlung, Hildesheim 1961 12 VIRGILIO, Bucoliche, a cura di A. La Penna, trad. di Luca Canali, Rizzoli, Milano 1978, Buc. X 15 CALPURNIO SICULO, Ecloga III (da Ecloghe, a cura di M. A. Vinchesi, Milano 2002) 19 DANTE ALIGHIERI, Le egloghe, testo, traduzione e note a cura di Giorgio Brugnoli e Riccardo Scarcia, Ricciardi, Milano-Napoli 1980 20 J.-L. CHARLET, L’Architecture du Bucolicum carmen de Pétrarque 21 PETRARCA Fam. X 3 (da Opere, Sansoni, Firenze 1975, trad. E. Bianchi) 21 PETRARCA Fam. X 4 (da Opere, Sansoni, Firenze 1975, trad. E. Bianchi) 25 PETRARCA, Epistola a Barbato da Sulmona (Var. 49, da Epistuale de rebus familiaribus et variae, ed. G. Fracassetti, III, Firenze 1863) 26 PETRARCA, Epistola a Cola di Rienzo (Var. 42, da Epistuale de rebus familiaribus et variae, ed. G. Fracassetti, III, Firenze 1863) 27 PETRARCA Fam. XXII 2 (da Opere, Sansoni, Firenze 1975, trad. E. Bianchi) 29 PETRARCA Fam. XXIII 6 (da Opere, Sansoni, Firenze 1975, trad. E. Bianchi) 29 PETRARCA Sen. II 1 (da Le Senili, a cura di Ugo Dotti, Torino 2004) 31 PETRARCA, Lettera a Benintendi Ravagnani, cancelliere della Repubblica di Venezia (da N. Manni, «O deus, qualis epistola!» A New Petrarch Letter, «Italia Medioevale e Umanistica», XVII, 1974, pp. 242-243) 31 PETRARCA Fam. XXIII 19 (da Opere, Sansoni, Firenze 1975, trad. E. Bianchi) 33 PETRARCA, Lettera al Boccaccio (Var. 65, da Epistuale de rebus familiaribus et variae, ed. G. Fracassetti, III, Firenze 1863) 34 FRANCESCO PETRARCA, Le postille del Virgilio Ambrosiano, a cura di M. Baglio,

A. Nebuloni Testa e M. Petoletti, Padova 2006 35 PETRARCA Fam. IV 7 (da Opere, Sansoni, Firenze 1975, trad. E. Bianchi) 36 PETRARCA Fam. VI 5 (da Opere, Sansoni, Firenze 1975, trad. E. Bianchi) 38 FRANCESCO PETRARCA, Il Bucolicum carmen e suoi commenti inediti, a cura di Antonio Avena, Società Cooperativa Tipografica, Padova 1906 38 GUIDO CAVALCANTI, Rime, ed. R. De Robertis, Torino 1986 39 FRANCESCO PETRARCA, Il Bucolicum carmen e suoi commenti inediti, a cura di Antonio Avena, Società Cooperativa Tipografica, Padova 1906 41 GIOVANNI BOCCACCIO, Epistole e lettere, a cura di Ginetta Auzzas, Mondadori, Milano 1992 Epistola XXIII [1370-1372] 43 GIOVANNI BOCCACCIO, Egloga a Checcho di Meletto Rossi ((da Bucolicum Carmen, Tutte le opere, V.1 a cura di G. Velli, Milano 1992) 49 BOCCACCIO Buc. III (da Bucolicum Carmen, Tutte le opere, V.2 a cura di G. Velli, Milano 1992) 51 BOCCACCIO Buc. XII (da Bucolicum Carmen, Tutte le opere, V.2 a cura di G. Velli, Milano 1992) 59 COLUCCIO SALUTATI, Epistolario, a cura di F. Novati, vol. I, Roma 1891