Il bilancio. 1) Perché si fa. - Carlo Massa...

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1 Il bilancio. 1) Perché si fa. Dopo tanti studi, e tutti appassionati, dovreste ormai avere imparato che il bilancio d’esercizio ha, principalmente, questi scopi: a) evidenziare, riassunta per voci principali, la struttura patrimoniale (impieghi e fonti) che l’azienda ha alla fine dell’esercizio (= alla fine del periodo di tempo considerato, solitamente al 31/12 di un anno) e così anche definire il valore del capitale netto; ciò viene fatto nello “Stato Patrimoniale”. b) evidenziare, riassunta per voci principali, la struttura economica aziendale (ricavi e costi) che ha caratterizzato l’azienda nell’esercizio (= nel periodo di tempo considerato, solitamente l’anno) ; e così anche definire il valore del risultato economico dell’esercizio; ciò viene fatto nel “Conto EconomicoDovreste ormai anche avere capito che il capitale netto e il risultato economico (per i più distratti: il risultato economico è poi il reddito) sono strettamente correlati fra loro, in quanto il reddito è sia la differenza fra ricavi e costi del periodo (meglio: fra valore della produzione ottenuta e valore di ciò che si è consumato e perso mentre si è prodotto [1]), sia la differenza fra il valore finale e il valore iniziale del capitale netto (nell’ipotesi che non siano stati fatti apporti o prelievi [2]). Il reddito ha questo duplice significato perché se produco beni che valgono più di ciò che ho usato (distrutto, consumato) per produrli, allora ho immesso nell’universo un valore una ricchezza che prima non esisteva, e questa creazione di ricchezza viene segnalata dall’incremento di valore dell’azienda produttrice, vale a dire dall’incremento del suo capitale netto (la frase “nulla si crea e nulla si distrugge” è vera in fisica, non in economia; ciò perché la ricchezza non è una grandezza materiale, reale, dipendendo la sua quantità e cioè il suo valore dalla psicologia umana). Il bilancio è quindi il risultato ultimo e riassuntivo della rilevazione e registrazione di tutti i fatti che sono accaduti in azienda, fatti che sono stati ordinatamente memorizzati allo scopo di conoscere quale è la situazione aziendale e quale è il percorso che ha portato a quella situazione, in modo da poter prendere le decisioni più giuste perché, come dice il saggio, “nulla si può governare (e quindi nemmeno l’azienda) se non lo si conosce”. [1] A 17 o 18 (19, 20, 21 ecc.) anni, è ormai tempo di superare gli insegnamenti dell’infanzia e quindi non credere più alla cretinata che “il guadagno è uguale al ricavo di vendita meno la spesa d’acquisto”. Il guadagno, inteso come reddito e quindi anche come incremento di ricchezza, non dipende dalle vendite e dagli acquisti, e ancor meno dagli incassi e dai pagamenti. Se l’AIRPADANIA nel gennaio 2014 inizia l’attività di vettore aereo comprando dei jumbo per 300 milioni di euro e impegnandosi a pagarli fra un anno (o anche pagandoli in contanti), non diventa per questo più povera, bensì trasforma soltanto il suo patrimonio: prima era senza aerei e senza debiti (o con più denaro in cassa) e ora ha aerei e debiti di valore equivalenti e opposti; diventerebbe più povera se i jumbo precipitassero o arrugginissero fermi negli hangar, e questo anche se non avesse pagato ancora l’acquisto. I costi sono il consumo dei fattori produttivi (e l’eventuale perdita dei valori attivi patrimoniali) , non sono gli acquisti; (ditelo, a chi vi ha insegnato la corbelleria del guadagno uguale al ricavo di vendita meno la spesa d’acquisto! ) Se la Boeing (azienda produttrice di aerei) nel gennaio 2014 vende dei jumbo per 300 milioni di euro all’ AIRPADANIA non diventa per questo più ricca, bensì trasforma soltanto il suo patrimonio: prima aveva più aerei in magazzino (prodotti, ipotizziamo, nel 2013) e meno crediti, e ora ha meno scorte di prodotti e più crediti. I 300 milioni di ricavi (di componenti positivi del reddito) li ha ottenuti nel 2013 costruendo gli aerei, e se per costruirli ha utilizzato lavoro, materiali e altri input per 260 allora si è arricchita, nel 2013, di 40 milioni (anche se, come vedremo a pagina 7, per il principio della prudenza non può evidenziare questo utile nel bilancio del 2013 ma dovrà attendere il 2014). L’elemento positivo del reddito è il valore di ciò che si produce (e l’eventuale incremento di valore dei beni patrimoniali) non le vendite; (riditelo a chi vi ha distorto le idee con la corbelleria di G uadagno = R icavo vendita – C osto acqisto !) [2] Reddito del periodo dal 1.1.2013 al 31.12.2013 = C. N. 31/12/13 – C. N. 1/1/2013 + Prelievi 2013 – Apporti 2013 . La formula risulta più comprensibile se, cambiando il segno dei termini che spostiamo da una parte all’altra dell’= (come avete imparato in matematica) viene vista in questo modo: C.N. 31/12/13 = C.N. 1/1/2013 + Reddito 2013 + Apporti 2013 – Prelievi 2013 . Messa così, la si legge: la ricchezza aziendale alla fine dell’anno è pari alla ricchezza aziendale che c’era all’inizio + la ricchezza creata dall’azienda nell’anno + eventuale ricchezza proveniente dall’esterno e immessa in azienda nell’anno (gli apporti) e meno l’eventuale ricchezza estratta dall’azienda durante l’anno (i prelievi).

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Il bilancio.

1) Perché si fa.

Dopo tanti studi, e tutti appassionati, dovreste ormai avere imparato che il bilancio d’esercizio

ha, principalmente, questi scopi:

a) evidenziare, riassunta per voci principali, la struttura patrimoniale (impieghi e fonti) che

l’azienda ha alla fine dell’esercizio (= alla fine del periodo di tempo considerato, solitamente al 31/12 di un anno) e

così anche definire il valore del capitale netto; ciò viene fatto nello “Stato Patrimoniale”.

b) evidenziare, riassunta per voci principali, la struttura economica aziendale (ricavi e costi) che

ha caratterizzato l’azienda nell’esercizio (= nel periodo di tempo considerato, solitamente l’anno); e così anche

definire il valore del risultato economico dell’esercizio; ciò viene fatto nel “Conto Economico”

Dovreste ormai anche avere capito che il capitale netto e il risultato economico (per i più distratti:

il risultato economico è poi il reddito) sono strettamente correlati fra loro, in quanto il reddito è sia la differenza

fra ricavi e costi del periodo (meglio: fra valore della produzione ottenuta e valore di ciò che si è consumato e perso mentre

si è prodotto [1]), sia la differenza fra il valore finale e il valore iniziale del capitale netto (nell’ipotesi che non

siano stati fatti apporti o prelievi [2]). Il reddito ha questo duplice significato perché se produco beni che

valgono più di ciò che ho usato (distrutto, consumato) per produrli, allora ho immesso nell’universo un valore

– una ricchezza – che prima non esisteva, e questa creazione di ricchezza viene segnalata dall’incremento

di valore dell’azienda produttrice, vale a dire dall’incremento del suo capitale netto (la frase “nulla si crea e

nulla si distrugge” è vera in fisica, non in economia; ciò perché la ricchezza non è una grandezza materiale, reale, dipendendo la

sua quantità – e cioè il suo valore – dalla psicologia umana).

Il bilancio è quindi il risultato ultimo e riassuntivo della rilevazione e registrazione di tutti i fatti

che sono accaduti in azienda, fatti che sono stati ordinatamente memorizzati allo scopo di conoscere quale

è la situazione aziendale e quale è il percorso che ha portato a quella situazione, in modo da poter prendere

le decisioni più giuste perché, come dice il saggio, “nulla si può governare (e quindi nemmeno l’azienda) se non

lo si conosce”.

[1] A 17 o 18 (19, 20, 21 ecc.) anni, è ormai tempo di superare gli insegnamenti dell’infanzia e quindi non credere più alla cretinata che “il guadagno è uguale al ricavo di vendita meno la spesa d’acquisto”. Il guadagno, inteso come reddito e quindi anche come incremento di ricchezza, non dipende dalle vendite e dagli acquisti, e ancor meno dagli incassi e dai pagamenti.

Se l’AIRPADANIA nel gennaio 2014 inizia l’attività di vettore aereo comprando dei jumbo per 300 milioni di euro e impegnandosi a pagarli fra un anno (o anche pagandoli in contanti), non diventa per questo più povera, bensì trasforma soltanto il suo patrimonio: prima era senza aerei e senza debiti (o con più denaro in cassa) e ora ha aerei e debiti di valore equivalenti e opposti; diventerebbe più povera se i jumbo precipitassero o arrugginissero fermi negli hangar, e questo anche se non avesse pagato ancora l’acquisto. I costi sono il consumo dei fattori produttivi (e l’eventuale perdita dei valori attivi patrimoniali), non sono gli acquisti; (ditelo, a chi vi ha insegnato la corbelleria del guadagno uguale al ricavo di vendita meno la spesa d’acquisto!) Se la Boeing (azienda produttrice di aerei) nel gennaio 2014 vende dei jumbo per 300 milioni di euro all’

AIRPADANIA non diventa per questo più ricca, bensì trasforma soltanto il suo patrimonio: prima aveva più aerei in

magazzino (prodotti, ipotizziamo, nel 2013) e meno crediti, e ora ha meno scorte di prodotti e più crediti. I 300 milioni di ricavi (di componenti positivi del reddito) li ha ottenuti nel 2013 costruendo gli aerei, e se per costruirli ha utilizzato lavoro, materiali e altri input per 260 allora si è arricchita, nel 2013, di 40 milioni (anche se, come vedremo a pagina 7,

per il principio della prudenza non può evidenziare questo utile nel bilancio del 2013 ma dovrà attendere il 2014). L’elemento positivo del reddito è il valore di ciò che si produce (e l’eventuale incremento di valore dei beni patrimoniali) non le vendite; (riditelo a chi vi ha distorto le idee con la corbelleria di Guadagno = Ricavo vendita – Costo acqisto!)

[2] Reddito del periodo dal 1.1.2013 al 31.12.2013 = C. N.31/12/13 – C. N.1/1/2013 + Prelievi2013 – Apporti2013 . La formula risulta più comprensibile se, cambiando il segno dei termini che spostiamo da una parte all’altra dell’= (come avete imparato in matematica) viene vista in questo modo:

C.N.31/12/13 = C.N.1/1/2013 + Reddito2013 + Apporti2013 – Prelievi2013 . Messa così, la si legge: la ricchezza aziendale alla fine dell’anno è pari alla ricchezza aziendale che c’era all’inizio + la ricchezza creata dall’azienda nell’anno + eventuale ricchezza proveniente dall’esterno e immessa in azienda nell’anno (gli apporti) e meno l’eventuale ricchezza estratta dall’azienda durante l’anno (i prelievi).

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2) Perché lo si rende pubblico.

E’ l’esigenza di conoscere, l’esigenza di avere e di dare informazioni, che porta alla redazione

del bilancio. Il bilancio viene redatto dagli amministratori, approvato dall’assemblea dei soci (se l’azienda

veste l’abito giuridico di società) e reso pubblico per dare informazioni a chiunque sia interessato, e i soggetti

che sono maggiormente interessati al bilancio sono:

a) i soci (i proprietari dell’azienda), che anche sulla base del bilancio valutano le capacità degli

amministratori e, in assemblea, decidono se conservare o togliere loro l’incarico;

b) lo stato, che anche sulla base del bilancio determina quante imposte l’azienda deve pagare;

c) le banche, che anche sulla base del bilancio stabiliscono quanto credito concedere all’azienda;

d) i fornitori, che anche sulla base del bilancio decidono quanto credito di fornitura concedere al cliente.

Oltre a questi soggetti, possono poi essere interessati a conoscere il bilancio anche:

e) i risparmiatori, per valutare l’opportunità di investire la loro liquidità diventando soci (azionisti)

oppure creditori (obbligazionisti) dell’azienda;

f) i dipendenti e i loro sindacati, anche al fine di meglio modulare le pretese salariali;

g) i concorrenti, anche per meglio pianificare la propria attività;

h) i clienti, per valutare l’affidabilità del loro fornitore;

i) i giornalisti, i curiosi e altri rompicoglioni, per le ragioni più varie.

In considerazione del fatto che vi è un interesse generale alla conoscenza dei bilanci, la legge

impone (anche se alle sole società di capitali, perché le società di persone a ancor più le ditte individuali di solito gestiscono

aziende di dimensioni minori e anche perché nelle aziende operanti con la veste giuridica di società di persone o di ditta

individuale i debiti aziendali sono “garantiti” anche dal patrimonio personale dei soci o dell’imprenditore) di renderli

pubblici attraverso il loro deposito nel “Registro delle imprese” tenuto dalla C.C.I.A.A. (camera di commercio,

per i pignoli Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura, ente pubblico della cui inutilità tutti, tranne me e pochi

altri incorreggibili, fanno finta di non accorgersi). Al prezzo di pochi euro chiunque può accedere, anche via

Internet, ai bilanci depositati.

3) Un esempio di bilancio “ufficiale” (nel senso di reso pubblico)

E’ evidente che se c’è un bilancio “ufficiale” allora ce n’è anche uno “ufficioso”, e in effetti il

bilancio che si deposita in CCIAA affinché gli interessati possano leggerlo (i soggetti visti prima alle lettere da a)

ad i)) è diverso da quello “interno” conosciuto solo da una ristretta cerchia di persone (in genere gli

amministratori, i soci più importanti e i principali collaboratori, sia dipendenti che autonomi, dell’azienda).

Non dovete, però, subito pensar male: il bilancio “interno” non di rado non differisce da quello

divulgato, nel senso che entrambi non di rado indicano uno stesso utile e un identico capitale netto, e anche

tutti gli altri dati che appaiono in quello depositato trovano conferma nel bilancio “interno”. Ciò non toglie

che quest’ultimo sia diverso perché contiene più dati e più dettagliati, informazioni che la legge non

impone di evidenziare e che quindi l’azienda si guarda bene dall’esporre (perché la loro conoscenza da parte, ad

esempio, dei suoi concorrenti la danneggerebbe, come la suddivisione delle vendite per aree geografiche o per canale

distributivo, oppure il mark up (= il ricarico sul costo di acquisto) per linea di prodotto ecc.).

Vero è, però, che i dati “ufficiali” sono altrettanto non di rado diversi da quelli “interni”, e questo

capita soprattutto per due diverse ragioni: 1. per pagare meno imposte; 2. per ottenere più facilmente

credito. Quando l’obiettivo è l’1. allora si mostra ai terzi un’immagine peggiore di quella che si ritiene di

avere realmente, e quindi si sottovaluta l’attivo patrimoniale e si nascondono dei ricavi o ci si inventa dei

costi. Quando invece l’obiettivo è il 2. allora si cerca di gonfiare l’attivo patrimoniale e conseguentemente

nascondere dei costi e/o gonfiare dei ricavi. Nel caso 1. il capitale netto e l’utile ufficiale saranno minori di

quelli che si ritiene corretti, nel caso 2. saranno maggiori.

Qui sotto vi riporto il bilancio depositato qualche anno fa (è relativo all’esercizio chiuso il 31/12/2009)

da un’azienda che commercia nel settore informatico.

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Situazione patrimoniale al 31/12/2009 - attivo - 2009 2008

A) CREDITI V/SOCI PER VERSAM. DOVUTI zero Zero

B I) Immobilizzazioni immateriali

4) Concessioni, licenze e diritti simili 93.659 83.585

fondo ammortamento - 85.520 - 79.526

Concessioni e licenze nette 8.139 4.060

7) Altre immobilizzazioni immateriali 16.205 16.205

fondo ammortamento - 16.205 - 16.205

Altre immob. Immateriali nette - -

B I) Totale immobilizzazioni immateriali 8.139 4.060

B II) Immobilizzazioni materiali

1) Fabbricati 1.292.545 1.292.545

fondo ammortamento - 52.331 - 13.555

Fabbricati netti 1.240.214 1.278.990

2) Impianti e macchinari 71.948 67.084

fondo ammortamento - 64.640 - 62.756

Impianti e macchinari netti 7.308 4.328

3) Attrezzature 1.291 1.291

fondo ammortamento - 1.291 - 1.291

attrezzature nette - -

4) Altri beni 189.008 173.688

fondo ammortamento - 155.968 - 145.773

altri beni netti 33.041 27.915

B II) Totale immobilizzazioni materiali 1.280.562 1.311.232

B III) Immobilizzazioni finanziarie

1a) Partecipazioni in controllate 1 1

1b) Partecipazioni in collegate 495.000 495.000

Altre partecipazioni 29 29

B III) Totale immobilizzazioni finanziarie 495.030 495.030

B) TOTALE IMMOBILIZZAZIONI 1.783.731 1.810.322

C I) Rimanenze

4) Merci 707.064 456.191

C I) Totale rimanenze 707.064 456.191

C II) Crediti

1) Crediti v/clienti 5.139.825 6.025.155

di cui esigibili oltre i 12 mesi - -

fondo svalutazione crediti - 28.276 - 35.000

Crediti v/clienti netti 5.111.549 5.990.155

2) Crediti verso imprese controllate 98.342 154.568

3) Crediti verso imprese collegate 289.349 280.597

4b) Crediti tributari 6.517 6.541

5) Altri crediti < 12 mesi 7.714 3.501

C II) Totale crediti 5.513.470 6.435.362

C IV) Disponibilità liquide

1) Conti correnti bancari e postali 3.646 3.798

2) Assegni - -

3) Cassa 304 247

C IV) Totale disponibilità liquide 3.950 4.045

C) TOTALE ATTIVO CIRCOLANTE 6.224.484 6.895.597

D) Ratei e risconti

a) Ratei attivi

b) Risconti attivi 13.139 12.957

D) TOTALE RATEI E RISCONTI 13.139 12.957

TOTALE ATTIVO (A+B+C+D) 8.021.354 8.718.875

Situazione patrimoniale al 31/12/2009: passivo e netto. 2009 2008

A) Patrimonio netto

I Captale sociale 50.000 50.000

Riserva di rivalutazione DL 185/2008 1.174.112 1.174.112

IV Riserva legale 25.847 25.847

VII Altre riserve 196.189 185.669

di cui per versamenti soci a fondo perduto 121.570 121.570

VIII Perdite portate a nuovo -

IX Risultato dell'esercizio - 30.213 10.520

A) TOTALE PATRIMONIO NETTO 1.415.935 1.446.148

B) TOTALE FONDI PER RISCHI ED ONERI zero Zero

C) Trattamento di fine rapporto

Fondo t.f.r. dipendenti 127.560 96.708

C) TOTALE TRATTAMENTO di FINE RAPPORTO 127.560 96.708

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D) Debiti 2009 2008

4a) Debiti v/banche < 12 mesi 2.212.534 2.314.772

4b) Debiti v/banche > 12 mesi 336.890 434.759

4) Totale debiti v/banche 2.549.425 2.749.531,26

6) Acconti (anticipi da clienti) - -

7) Debiti v/fornitori 3.669.168 4.126.796

12) Debiti tributari 91.985 143.849

13) Debiti v/istituti previdenziali 27.087 19.010

14) Altri debiti 134.769 131.408

D) TOTALE DEBITI 6.472.434 7.170.595

E) Ratei e risconti

1) Ratei passivi 5.425 5.425

2) Risconti passivi - -

E) TOTALE RATEI E RISCONTI 5.425 5.425

TOTALE PASSIVO E NETTO (A+B+C+D+E) 8.021.354 8.718.875

Conto conomico esercizio 1/1/2009 - 31/12/2009 2009 2008

A) Valore della produzione

1) Ricavi delle vendite e delle prestazioni 15.092.583 15.435.710

2) Variazione di servizi in corso di lavorazione - -

5) Altri ricavi e proventi 45.267 33.963

A) TOTALE VALORE DELLA PRODUZIONE 15.137.851 15.469.673

B) Costi della produzione

6) Merci, materie sussidiarie e di consumo 13.506.631 13.683.815

7) Servizi 698.874 733.484

7a) di cui servizi industriali 507.261 433.265

altri servizi 191.613 300.219

8) Godimento beni di terzi 55.274 58.622

9) Personale 871.107 567.921

9a) di cui salari e stipendi 683.026 405.533

9b) oneri sociali 153.399 134.050

9c) trattamento di fine rapporto 34.131 27.877

9e) altri costi 552 461

10a) Ammortamenti immobilizzazioni 58.300 22.250

di cui amm.immob.immateriali 5.994 4.853

amm.immob.materiali 52.306 17.398

10b) Svalutazione crediti commerciali 27.686 27.382

11) Variazione rimanenze materie -250.873 173.415

14) Oneri diversi di gestione 23.723 22.238

B) TOTALE COSTI DELLA PRODUZIONE 14.990.722 15.289.128

Differenza tra valore e costi produz. (A - B) 147.129 180.545

C) Proventi e oneri finanziari

16) interessi e altri proventi finanziari - 1.282 - 130

di cui:

interessi attivi banca e posta - 40 - 130

interessi attivi diversi a) 1.242 0

16 bis) Proventi su cambi - -

17) Interessi e altri oneri finanziari 113.429 106.997

di cui:

costi per finanziamenti bancari in euro 113.429 106.997

altri costi per finanziamenti

C) TOTALE PROVENTI E ONERI FINANZIARI 112.147 106.867

D) RETTIFICHE di VALORE di ATTIVITA' FINANZ. zero - -

E) Proventi e oneri straordinari - -

E) TOTALE PROVENTI E ONERI STRAORDINARI - -

RISULTATO PRIMA DELLE IMPOSTE 34.981 73.678

22) Imposte sul reddito d'esercizio 65.194 63.158

23) RISULTATO DELL'ESERCIZIO - 30.213 10.520

Il prsidente del C.d.A.

Reggio nell'Emilia, 31 marzo 2010

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4) Sulla correttezza e l’attendibilità dei bilanci.

Quello riportato sopra è un esempio di bilancio “ufficiale” che, nei risultati finali, si discosta

veramente di pochissimo da quello “interno”, e ciò perché quest’azienda non aveva (i dati sono relativi a qualche

anno fa) particolari problemi né in termini di imposte da pagare (le imposte calcolate non ne mettevano a rischio la

sopravvivenza, come invece sempre più spesso capita (comunque vi faccio notare che, facendo la media dei due anni, questa azienda pagava

64.000 € di imposte sul reddito quando il suo reddito lordo medio era di circa 58.000, quindi per lei l’aliquota REALE era di oltre il 110%! E poi sul

libri, sui giornali e alla televisione vi raccontano che l’aliquota sul reddito d’impresa è del 31,4%!)), né dal punto di vista dell’accesso al

finanziamento bancario e di fornitura (l’azienda, ben nota nel settore da molti anni e da sempre puntualmente rispettosa

degli impegni contrattuali, godeva di un elevato “standing creditizio”, come si può dedurre dal basso tasso di interesse che le

banche le applicavano (circa il 4,1% come media dei due anni, e nella riga sotto lascio lo spazio per riportare i dati e i calcoli da cui risulta questo numero

................................... ........................................................................................................................ ....................................................................................................................................................................................................................) ed era quindi tra le non molte aziende che in quel periodo

(ma anche in questo ...) potevano rendere pubblica l’immagine risultante da valutazioni fatte in buona fede).

Notate che mai mi sono espresso, riferendomi al bilancio, con gli aggettivi “corretto”, “vero”,

“reale” o “esatto”, e già sapete il motivo: semplicemente, il bilancio vero e reale non esiste e non è

conoscibile.

L’unico bilancio “vero”, “esatto”, “reale” che si può fare è quello dell’azienda che non esiste più

perché già morta e “liquidata”, cioè trasformata in denaro contante. Già quando eravate piccoli, in terza,

dopo avervi raccontato le drammatiche vicende dell’azienda “Pierinoceronti” vi scrivevo:

“… se diamo l’incarico a 10 diversi periti, tutti ugualmente capaci ed onesti, di stabilire quale è il patrimonio netto di

una certa azienda in un certo momento, o qual è l’utile di un certo periodo, riceveremo 10 risposte diverse, e tra di

loro anche fortemente differenziate.

Questo perché le risposte sono pesantemente influenzate da valutazioni e stime che dipendono necessariamente da considerazioni e modi di ragionare assolutamente personali: quanto valgono i prodotti già finiti ma che non siamo ancora riusciti a vendere? Quanto valgono, adesso, le attrezzature acquistate l’anno scorso per 145.000 euro e che, forse, potremo utilmente adoperare ancora per cinque anni? Quanto vale il brevetto da noi depositato, che ci permette di adottare in esclusiva nei prossimi 10 anni un certo processo produttivo? Quanto vale, ammesso che valga ancora qualcosa, il credito di 200.000 euro che vantiamo verso quel cliente che ha delle difficoltà finanziarie? Quale è il valore (negativo) del risarcimento che saremo costretti a dare a quella casalinga di Voghera che ci ha fatto causa perché è rimasta sfregiata al volto a causa di un difetto di fabbricazione di un nostro frullatore? ecc. ecc. ......

In effetti, una valutazione oggettiva (certa e esatta) del capitale netto può essere fatta unicamente dopo aver “liquidato” l’azienda, cioè dopo aver:

a) venduto tutti i beni attivi aziendali, b) incassato il prezzo di vendita, e c) aver saldato tutti i debiti;

in pratica, dopo avere trasformato l’intero patrimonio in denaro contante. Il denaro che rimane in cassa dopo queste operazioni darà la misura – questa volta, finalmente, certa – del patrimonio netto che l’azienda durante la sua vita aveva accumulato: soltanto dopo la liquidazione, infatti, non c’è più la necessità di fare delle stime e delle considerazioni soggettive, essendo il valore del denaro contante un dato certo.

Ed allora è anche vero che l’unico periodo di cui può essere calcolato con certezza l’utile è quello che va dalla nascita alla liquidazione dell’azienda, cioè il periodo che copre l’intera vita dell’impresa: questo perché è l’unico periodo di tempo dei cui due estremi sono noti, con certezza, gli importi del capitale netto.

Vi faccio notare, però, che liquidare un’azienda significa farla morire, ed uccidere un organismo per verificare con l’autopsia se era sano o malato, cioè se stava producendo utili od accumulando perdite, se stava quindi creando o

distruggendo ricchezza, è cosa assai poco ragionevole.

Necessariamente, allora, occorre fare delle verifiche periodiche durante la vita dell’azienda, e queste verifiche le si fa redigendo il cosiddetto “bilancio” aziendale.”

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Quando si dice che il bilancio è la descrizione, l’immagine dell’azienda [la sua fotografia in un certo

istante (questo è lo stato patrimoniale) e il filmato di ciò che ha fatto in un certo periodo (e questo è il conto economico)] lo si

dice per semplicità, ma chi ha compreso la ragioneria sa che questa immagine invece di uno scatto

fotografico è un quadro dipinto, e invece di un filmato ripreso è un racconto scritto.

Chi sa di ragioneria e di economia sa che la rappresentazione di una azienda non può che essere

offerta che per “valori”, e che questi valori sono tutti non oggettivi [con le sole eccezioni delle banconote in €, dei

saldi attivi di c/c (ma nel caso di gravi crisi finanziarie globali nemmeno questi possono essere considerati valori oggettivi, perché i depositi bancari cessano

di essere sicuri), e dei debiti pure in euro] in quanto frutto di stime e di impressioni di chi si è assunto il compito e la

responsabilità di fare il bilancio, allo stesso modo in cui la “Gioconda” è la rappresentazione di Monna Lisa

Gherardini così come la mente di Leonardo la vedeva, o il “De bello Gallico” riporta i fatti accaduti più di

duemila anni fa nella Gallia nel modo in cui Giulio Cesare li ricordava.

Chi sa di ragioneria sa quindi che, non esistendo il “giusto prezzo” delle cose, non si può

pretendere un bilancio “giusto”, e sa anche che ciò che legittimamente si può e si deve pretendere è

unicamente un bilancio fatto bene e onesto, che vuol dire fatto senza errori causati da incapacità

professionale e redatto con l’intento di informare correttamente i terzi, e non quindi con la volontà di far

credere loro cose diverse da quelle che chi lo redige, in coscienza, pensa siano vere (ma che potrebbero rivelarsi

anche piuttosto diverse da come le vede e le rappresenta nelle varie voci di bilancio).

Solo quando le valutazioni non sono fatte “in buona fede” ma, al contrario, con “dolo”, cioè con

l’intento di nascondere e camuffare quella che si ritiene l’immagine realistica, allora il bilancio che ne

risulta è un bilancio “falso”.

Quando, invece, le valutazioni sono fatte sì in buona fede, ma sono basate su considerazioni

inusuali e frutto di percorsi scarsamente logici o troppo fantasiosi, allora il bilancio che ne risulta è un

bilancio “inattendibile”.

Considerando la natura tendenzialmente ottimista, visionaria e volitiva degli imprenditori [il

rischio d’impresa è ineliminabile (a meno di avere agganci con la politica) e i pessimisti difficilmente si avventurano in iniziative che

non garantiscono risultati positivi, ed ecco perché li si trova più spesso fra i lavoratori dipendenti, e i più prudenti fra essi si

concentrano fra i dipendenti pubblici; se poi il pessimista è anche visionario e volitivo, allora lo si incontra spessissimo fra

coloro – ahimè sempre troppi – che vivono di politica, cioè alle spalle di chi, imprenditore o dipendente che sia, vive di economia]

risulta evidente come il confine fra bilancio falso e bilancio inattendibile sia inevitabilmente nebuloso: per

l’imprenditore i 2 milioni di euro che l’azienda ha speso nel 2013 (fra stipendi e altri costi) in ricerca e

sviluppo del prodotto innovativo che sarà lanciato sul mercato il prossimo anno sono un investimento, ed è

in buona fede quando li mette in “dare” dello stato patrimoniale tra le attività immobilizzate, cioè tra i

fattori produttivi in grado di offrire utilità in futuro (assimilandoli in questo modo a una attrezzatura o a un camion

che, acquistati nel 2013, saranno usati nei prossimi anni), e quindi li toglie dal “dare” del conto economico, cioè li

toglie dai costi di competenza del 2013 (per non metterli insieme agli stipendi e agli altri costi relativi ai prodotti venduti

nell’anno, proprio perché quei 2 milioni sono un costo relativo alle vendite che si otterranno nei prossimi anni). Se, però, nel

2014 il mercato non risponde come ottimisticamente riteneva l’imprenditore e boccia il prodotto che così

viene ritirato, allora ne risulta che i 2 milioni di euro inseriti nell’attivo patrimoniale nel bilancio 2013

erano fasulli: la loro reale natura era di “costo” e non di “investimento”, e quindi nel bilancio 2013

dovevano apparire nel conto economico. Solo ora, nel 2014, è certo che il bilancio del 2013 è stato

sbagliato, ma chi può dire se la causa è stata un errore di valutazione commesso in buona fede (nello stimare

le potenzialità del nuovo prodotto) o piuttosto se c’era l’intenzione di convincere le banche a continuare a

finanziare l’azienda ben sapendo che i 2 milioni si erano già volatilizzati?

Sicuramente la verità sta da una qualche parte fra questi due estremi, ma chi è in grado di

stabilire se, nel caso concreto, nella mente di chi redigeva il bilancio prevaleva l’ottimismo e la buona fede

oppure la malizia e l’intento di ingannare i creditori?

Solo chi è massimamente presuntuoso o chi ha un forte istinto prevaricatore può pensare di

riuscire a capirlo, e infatti questo ruolo è affidato ai magistrati, categoria che più di ogni altra assomma in

sé entrambe le caratteristiche.

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5) I due princìpi base della valutazione: la prudenza e la continuità.

Per cercare di ridurre le potenziali conseguenze negative derivanti da un eccesso di ottimismo o

da un difetto di onestà in chi redige il bilancio, e quindi per cercare di tutelare chi lo legge, la ragioneria ha

stabilito che le valutazioni debbano rispettare il

“principio della prudenza”. In base a questo principio:

o la creazione di valore (l’utile) derivante dall’attività svolta in un periodo può essere considerata

nel bilancio di quel periodo solo se ciò che è stato prodotto è stato anche venduto nel periodo.

Così, se – grazie alla casuale scoperta della pietra filosofale – nel 2013 sono riuscito a trasformare senza altri

costi un chilo di piombo (acquistato a 2 €) in un chilo d’oro (il cui valore di mercato è 28.000 €), ma al 31

dicembre non ho ancora venduto l’oro prodotto, nel bilancio 2013 non posso segnalare l’utile di 27.998

€, non posso cioè inserire i 28.000 € di valore dell’oro al 31.12.2013 nel “dare” del conto patrimoniale

“scorte di prodotti” (e nell’”avere” del conto di reddito, cioè nel valore della produzione, alla voce “variazione delle

scorte di prodotti”); dovrò, invece, valutare le rimanenze finali di prodotti solo 2 €, perché non avendolo

ancora venduto, quell’oro deve essere prudentemente valutato al minore fra il costo di produzione (2 €) e

il valore di mercato (28.000). In questo modo, e supponendo che l’oro sia poi venduto nel 2014 proprio a

28.000 €, i 27.998 € di utile realizzato (di valore creato) nel 2013 saranno evidenziati nel bilancio del

2014 (28.000 € di ricavi di vendita meno 2 € di costi (le rimanenze iniziali (al 1.1.2014) di scorte di prodotti che, nel 2014,

usciranno dal dare del conto patrimoniale “scorte di prodotti” per finire nel dare del conto di reddito “variazione delle scorte

di prodotti”), mentre nel bilancio 2013 l’operazione “pietra filosofale” chiuderà in pareggio (2 € di valore della

produzione e 2 € di costi della produzione).

o Le distruzioni di valore (le perdite) devono essere segnalate in bilancio anche quando sono solo

temute e non si è ancora certi di averle subite. Se nei confronti di un cliente abbiamo un credito di

100.000 € che scade a fine giugno 2014, garantito da una fidejussione bancaria a prima chiamata (o, se il

cliente è estero, da una lettera di credito stand by) di 60.000 €, e prima della redazione del bilancio 2013

veniamo a conoscenza del fatto che quel cliente è in difficoltà finanziarie, allora dobbiamo già mettere

in bilancio quantomeno la perdita di 40.000 €, anche se non l’abbiamo ancora subita e le possibilità che

in giugno il cliente paghi esistono ancora.

La ratio (si legge razio, e sta per “ragion d’essere”, per “fine che si prefigge”) del principio di prudenza è

chiaramente quella di fare in modo che chi vuole farsi un’idea della salute di un’azienda abbia più

probabilità, leggendone il bilancio, di ricavarne un’immagine meno attraente di quanto probabilmente sia, e

quindi adotti comportamenti più cauti nel relazionarsi con essa.

L’altro principio basilare cui occorre attenersi nelle valutazioni di bilancio è quello della

“continuazione dell’attività aziendale”, vale a dire che nel valutare gli elementi patrimoniali e reddituali

dell’azienda bisogna ipotizzare che essa sia destinata a operare per un tempo indefinito (se, invece, si fa il

bilancio dell’azienda nella consapevolezza che la sua attività cesserà, allora occorre evidenziare data e causa della futura morte e

adottare i criteri valutativi più adeguati al caso, criteri che spesso portano a valori significativamente differenti da quelli che si

sarebbero ottenuti in caso di continuazione).

Supponiamo che a metà dicembre 2013 un taxista acquisti un’auto nuova per 20.000 € e poi nelle

due successive settimane spenda altri 2.000 per adattarla all’attività (installazione dell’insegna, colore vistoso,

tassametro, rice-trasmittente) e altri 8.000 per il sedile posteriore anti rapina (con carica esplosiva per l’espulsione

rapida del passeggero-rapinatore). Il valore al 31.12.2013 del taxi nuovo, cioè il valore dell’investimento fatto, lo

possiamo stimare in 30.000 € (20.000 + 2.000 + 8.000) solo se ipotizziamo che quell’auto sarà utilizzata negli

anni futuri come fattore produttivo all’interno dell’attività del taxista, cioè solo se supponiamo che

quell’azienda continui a operare: se manca questa ipotesi, allora il valore di quell’auto, per essere onesto e

prudente, sarà certamente inferiore a 20.000 €, in quanto a quella cifra si compra lo stesso modello di auto

senza tutte quelle modifiche che la deprezzano agli occhi dei potenziali acquirenti (anche agli occhi dei taxisti

concorrenti, ché nessuno di loro dà al sedile espellibile un gran valore). Insomma: se siamo nell’ottica della

“continuazione dell’azienda” allora, tenendo conto che quel particolare automezzo sarà utilizzato nei

prossimi anni per lo scopo per il quale lo abbiamo appena acquistato, nel bilancio al 31.12.2013 lo

valutiamo 30.000 € (e, nei bilanci successivi, gradualmente sempre meno registrandone l’ammortamento); se, invece,

usciamo dall’ottica della continuazione dell’azienda, se ipotizziamo cioè che cesseremo l’attività di taxisti,

allora dobbiamo valutare l’automezzo in vista della sua vendita, e quindi non possiamo certamente dargli

un valore, al 31 dicembre 2013, superiore a 20.000 €.

8

6) A cosa serve l’analisi di bilancio.

Nella forma in cui viene reso pubblico, il bilancio non è del tutto adatto a offrire informazioni

che rispondano efficacemente a domande del tipo “quell’azienda riuscirà a pagare i suoi debiti?”, oppure

“è efficiente la sua struttura produttiva?”, o anche “quanto è opportuno pagare per diventarne proprietario

di una quota?” o altre analoghe curiosità che albergano nella mente dei curiosi incontrati a pagina 2.

Per agevolare a trovare le risposte a tali domande si procede così con “l’analisi del bilancio”.

L’analisi di bilancio è l’attività che, attraverso l’elaborazione dei dati di bilancio e la loro

comparazione nel tempo (il confronto fra i dati di anni diversi) e nello spazio (il confronto con i dati di altre aziende)

porta a ottenere informazioni sulla impresa e sulla sua gestione.

L’analisi di bilancio è soprattutto utile ai terzi (nel senso di soggetti esterni rispetto l’azienda), in quanto

gli amministratori hanno a disposizione informazioni e strumenti (ricavati dalla contabilità analitica, dai budget e,

in generale, dal controllo di gestione) ben più efficaci della elaborazione dei dati evidenziati dal bilancio reso

pubblico.

I terzi, cioè tutti quei soggetti visti a pagina 2 da a) a i) (a parte b), ché allo stato non gliene frega niente di

come sta l’azienda avendo come unico scopo quello di spennarla il più possibile), invece, per formulare un giudizio

sulla “salute” dell’azienda spesso non hanno altri dati da utilizzare se non quelli resi pubblici con il

deposito del bilancio d’esercizio. E così, avendo poche informazioni disponibili, è opportuno cercare di

usarle nel modo più efficace, e per far questo si incomincia con la riclassificazione del bilancio (vedi il

prossimo paragrafo) per poi approdare alla determinazione degli indici di bilancio (che vedremo al paragrafo 9)).

7) La riclassificazione del bilancio.

Ho già scritto che per meglio analizzare un bilancio è opportuno rielaborarne le voci, sia dello

stato patrimoniale che del conto economico, in modo da poterne più agevolmente trarre valide informazioni

utili anche per fare confronti.

Gli scopi della riclassificazione del bilancio d’esercizio sono quindi principalmente tre:

1) Ricercare alcune grandezze espressive della gestione (come, ad esempio, il valore aggiunto o il reddito

operativo) che non appaiono tra i dati del bilancio ufficiale;

2) Rendere omogenei i dati per consentire il loro confronto nel tempo e nello spazio, e quindi

consentire l’individuazione dei trend di medio periodo e il confronto con altre aziende;

3) Separare gli elementi attinenti la gestione caratteristica e ordinaria dell’impresa da quelli che si

riferiscono alle gestioni atipica e straordinaria.

Queste ultime righe vi dovrebbero essere chiare dopo aver studiato questo e il prossimo

paragrafo. Per ora cominciamo a vedere in cosa consiste la riclassificazione dello stato patrimoniale. Qui

sotto trovate un esempio, assolutamente scolastico, di stato patrimoniale riclassificato in cui appaiono le

voci più sintetiche possibili.

STATO PATRIMONIALE RICLASSIFICATO (ULTRASINTETICO)

IMMOBILIZZAZIONI 1.000.000 CAPITALE PROPRIO 600.000

CAPITALE CIRCOLANTE 3.000.000 DEBITI A MEDIO/LUNGO TERMINE 500.000

DEBITI A BREVE TERMINE 2.900.000

CAPITALE INVESTITO 4.000.000 TOTALE FONTI 4.000.000

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7.1) La riclassificazione dello Stato Patrimoniale.

Per quanto riguarda lo Stato Patrimoniale, la riclassificazione consiste nella riorganizzazione

delle poste (cioè delle voci) dell’attivo e del passivo secondo criteri di liquidità e di esigibilità (= estinguibilità).

In pratica questo significa che si distinguono i crediti e anche i debiti in base alle loro scadenze [i

debiti (e i crediti) con scadenza a breve vengono separati dai debiti (e i crediti) con scadenza più lontana nel tempo], ma in realtà

è tutto l’attivo che viene ordinato in base al tempo che deve presumibilmente passare prima che si trasformi

in denaro (criterio di liquidità), così come sono tutte le fonti di finanziamento che vengono ordinate in base al

momento in cui provocheranno una uscita di denaro (criterio di esigibilità).

7.1.1) La riclassificazione dell’attivo

In questo modo nell’attivo appaiono per prime le immobilizzazioni, poi le rimanenze (scorte),

poi i crediti (a breve) verso i clienti e gli altri crediti a breve e per ultime le attività liquidite (cassa e c/c bancari).

Le immobilizzazioni (come i macchinari, i brevetti, le partecipazioni in altre aziende ecc.) sono beni la

cui utilità si protrae per molto tempo e che pertanto non sono destinati alla vendita e non si trasformano

quindi direttamente in liquidità: la loro capacità di generare entrate monetarie è solo indiretta, in quanto il

loro valore si trasferisce gradualmente nel corso degli anni nei beni che contribuiscono a produrre e che,

quando a loro volta saranno venduti e se ne otterrà l’incasso dal cliente, genereranno un introito monetario.

[Poiché un’immobilizzazione si trasforma (indirettamente) in denaro in un lasso di tempo pari approssimativamente al suo

periodo di ammortamento (ad esempio 10 anni), e quindi un analista fanatico e ossessionato dal concetto di duration che la volesse inserire nell’attivo patrimoniale nel corretto ordine di liquidità la dovrebbe considerare al livello dei crediti che

hanno scadenza pari a circa la metà del suo periodo di ammortamento (nell’esempio 10 ÷ 2 = 5 anni) ].

Le immobilizzazioni in genere le si suddivide, in base alla loro natura, fra:

1) Immobilizzazioni materiali, cioè tangibili (= palpabili, come impianti, attrezzature, automezzi ecc.);

2) Immobilizzazioni immateriali, cioè non tangibili, come brevetti, marchi, avviamento;

3) Immobilizzazioni finanziarie, cioè gli investimenti nella proprietà – intera o per quota – di

altre aziende (e questi investimenti prendono il nome di “partecipazioni”) che si intende conservare a lungo,

nonché i crediti di finanziamento (ad es. obbligazioni) e di funzionamento (= di fornitura, cioè verso clienti, sebbene

questi crediti raramente abbiano scadenza superiore all’anno) con scadenza superiore a 12 mesi.

Le rimanenze (di materie prime, di componenti e di prodotti finiti) si trasformano in denaro in un arco

temporale più breve: per le rimanenze di prodotti finiti occorre attendere la loro vendita e l’incasso del

credito conseguente, per le scorte di materie prime e di componenti bisogna anche aggiungere il tempo

necessario per trasformarli in prodotti vendibili.

I crediti a breve (a volte definiti anche “liquidità differite”) si considerano a breve termine se

scadono entro 12 mesi; salvo casi particolari i crediti commerciali (i crediti verso clienti) sono quindi a breve

termine, dal momento che i più usuali modi di pagamento prevedono tempi compresi fra i 30 e i 180 giorni;

si considerano crediti commerciali anche i – non frequenti – crediti verso fornitori per anticipi. Oltre a

quelli commerciali possono a volte essere presenti altri crediti a breve, come i crediti fiscali (ad esempio per

IVA), crediti verso soci per apporti non ancora effettuati e altri di minore importanza.

La liquidità (o, se i crediti sono stati chiamati “liquidità differite” “liquidità immediata”) è costituita

dai saldi attivi sui conti correnti bancari, dal contante in cassa, nonché da tutti i titoli di credito (libretti di

deposito, assegni ecc.) con scadenza a vista.

Nell’attivo patrimoniale dei bilanci ufficiali, oltre alle “Immobilizzazioni” (voce “B”) e all’

“Attivo circolante” (voce “C”) si leggono spesso altre due voci: “Crediti verso soci” (voce “A”) e “Ratei e

risconti” (voce “D”). Nella prima si evidenziano eventuali impegni dei soci ad effettuare degli apporti,

mentre i ratei e risconti attivi, come certamente ricorderete, sono crediti che hanno la particolarità di

crescere gradualmente nel tempo per poi morire brutalmente (i ratei) o di nascere già adulti come Venere

per poi declinare pian piano e scomparire dopo un’agonia lunga l’intera vita. Quasi sempre tutti questi

crediti particolari hanno vita breve, inferiore ai 12 mesi, e pertanto il più delle volte li si considera nel

capitale circolante.

Rimanenze, crediti a breve e liquidità formano, insieme, il “capitale circolante”. Come già si

è visto nello schema super sintetico riportato alla fine della pagina precedente, capitale circolante e

immobilizzazioni sono le due macro voci in cui si suddivide l’intero attivo patrimoniale.

10

7.1.2) La riclassificazione delle fonti.

Le fonti di finanziamento, come già detto, si evidenziano in ordine crescente di esigibilità e

pertanto, non esistendo alcun obbligo di rimborsarlo e quindi essendo a esigibilità nulla, per primo appare

il capitale proprio. Il suo valore ad una certa data si è formato nel tempo, a partire dalla

nascita della società, grazie agli apporti dei soci (al netto di eventuali prelievi) e dagli utili prodotti e non

distribuiti. Formalmente, il capitale proprio è suddiviso in capitale sociale, riserve e utile dell’esercizio (=

periodo) di cui si sta facendo il bilancio. La distinzione in queste sub voci risponde unicamente a esigenze

giuridico-formali, e infatti avvocati e magistrati la ritengono importantissima, ma nella sostanza il capitale

proprio, non potendo che essere definito come la differenza fra l’attivo e i debiti (siano, quest’ultimi,

espliciti o mascherati da “fondi”), è un valore assolutamente omogeneo. Ecco perché chi capisce la

ragioneria (e quindi non gli avvocati e i magistrati, per natura e per studi impossibilitati a comprenderla) si disinteressa

della distinzione fra capitale sociale, riserve e utile.

L’unica distinzione sensata e necessaria è quella fra la parte dell’utile ottenuto nel periodo e che

si sa già essere destinata a essere distribuita ai soci e la parte che, invece, l’assemblea ha deciso debba

rimanere a finanziare la società: la parte da distribuire, infatti, ha natura di debito (di debito a breve, visto che

generalmente i “dividendi” sono pagati ai soci nella prima parte dell’anno successivo a quello in cui l’utile è stato ottenuto).

I debiti. Al di fuori del capitale netto tutte le altre voci che appaiono tra le “fonti” sono debiti:

come dicevano già i latini e come ancora tutti (tranne voi) dicono in tutto il mondo, tertium non datur.

Se però diamo un occhio alle voci che appaiono nei bilanci, allora troviamo che oltre alle due

categorie naturali [ Patrimonio netto (voce “A”) e Debiti (voce “D”) ] ne troviamo altre tre [ “Fondi per rischi e

oneri” (voce “B”), “Trattamento di fine rapporto” (voce “C”) e “Ratei e risconti” (voce “E”)].

Non dovete però farvi ingannare, anche se chiamati “t.f.r.”, “fondi” e “ratei e risconti” passivi,

sono tutti comunque debiti, almeno se – come logicamente si deve fare e come vi ho sempre detto fino da

quando eravate piccoli – diamo al termine debito il significato ampio di “impegno da assolvere”.

Che il t.f.r. sia un debito (verso chi, come i dipendenti, operando nell’azienda guadagna un compenso che gli

sarà però corrisposto solo alla fine della collaborazione) lo sanno anche gli oranghi, e che i ratei e i risconti passivi

siano debiti lo sai anche tu se hai letto la pagina precedente, perché analogamente ai ratei e risconti attivi

visti prima tra i crediti, quelli passivi sono debiti con l’unica particolarità di crescere gradualmente e morire

di colpo (i ratei) o di nascere di colpo e morire gradualmente (i risconti). Resta quindi da chiarire la natura

di debito di ciò che viene inserito nella voce “fondi”.

I “fondi per rischi e spese” (è questo il nome completo assegnato a questi debiti dal legislatore) sono debiti

che hanno la particolarità di essere incerti o nell’ammontare, o nel soggetto che ha diritto ad esigerli o per

entrambi gli aspetti.

Ad esempio: essendo estremamente probabile che, a causa della folle complessità e nebulosità

della normativa fiscale, anche il più ligio degli imprenditori prima o poi verrà aggredito dal fisco con

sanzioni, pene pecuniarie ed imposte arretrate, allora ogni azienda dovrebbe prudenzialmente stimare

questo “debito” verso l’erario; ma, essendo un debito non del tutto certo nell’esistenza e ancor meno

nell’ammontare, allora invece di metterlo insieme ai debiti normali lo si inserisce nel passivo alla voce

“fondi rischi e spese”; oppure: in questa voce la Fiat inserisce il valore stimato di tutte le riparazioni in

garanzia che prevede di dover effettuare in futuro (in sostanza è un debito nei confronti dei suoi clienti che

hanno un auto nuova) o la Mulinex gli indennizzi che potrebbero pretendere le massaie che rimanessero

sfregiate dal frullatore di cui si è detto a pagina 5. Ma di fondi torneremo a parlare più avanti.

Dovrebbe essere superfluo, comunque ritengo prudente segnalare che c’entrano nulla coi fondi

rischi e spese, avendo natura affatto diversa, i fondi ammortamento e i fondi svalutazione. Queste voci,

non a caso, non appaiono infatti tra le fonti di finanziamento bensì sono inseriti, con valore negativo, fra le

attività aziendali: infatti sono importi che vanno a diminuire dei valori attivi quali le immobilizzazioni (nel

caso dei fondi ammortamento) o i crediti (nel caso dei fondi svalutazione) per tenere conto del loro diverso

valore che si ritiene abbiano alla data del bilancio rispetto a quello storico che avevano al momento in cui

vennero acquisiti. Si chiamano tutti “fondi” solo per creare confusione nelle teste degli studenti e poterne

così bocciare qualcuno in più.

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In qualunque modo i debiti siano chiamati, per ordinarli in funzione dell’esigibilità li si distingue

fra “passività consolidate” (o debiti a medio/lungo termine) e “passività correnti” (o debiti a breve).

Le passività consolidate sono gli impegni da assolvere oltre l’esercizio successivo (e quindi con

scadenza più lontana di 12 mesi dalla data del bilancio); si trovano qui, pertanto e principalmente:

a) la maggior parte dei mutui bancari (la maggior parte perché frequentemente i mutui sono finanziamenti

pluriennali e quindi sono meno le rate scadenti entro un anno rispetto a quelle da rispettare nel

medio/lungotermine);

b) gli impegni verso i dipendenti e altri collaboratori per compensi da corrispondere alla fine

del loro rapporto con l’azienda (i “Fondi T.F.R.”). La collocazione dei debiti per T.F.R. tra le

passività consolidate è generalmente corretta in quanto il “turn over” annuo in uscita dei

collaboratori (n. collaboratori usciti / n. collaboratori), per quanto possa essere elevato, difficilmente si

avvicina all’unità (il che imporrebbe di considerare il fondo TFR fra le passività a breve), essendo

generalmente inferiore al 10% (un turnover del 10% renderebbe il TFR assimilabile a un debito + o – a 5 anni

(e non a 10 anni), e ora prova a riflettere sul motivo, così dai un’utile rinfrescata al concetto di tasso di rotazione (che hai

incontrato nel “magazzino”), poiché lo ritroveremo parlando di indici di bilancio nel paragrafo 9));

c) la maggior parte delle obbligazioni eventualmente emesse (quelle con scadenza entro i dodici mesi

vanno, ovviamente, tra i debiti a breve);

d) eventuali finanziamenti a medio-lungo termine ottenuti da società appartenenti allo stesso

gruppo aziendale (tipico è la holding – o società capogruppo – che finanzia le sue “partecipate”, cioè le società

che controlla grazie al possesso di una percentuale elevata di azioni o di quote del loro capitale sociale).

Le passività correnti, ossia i debiti con scadenza entro l’esercizio successivo (e quindi con

scadenza non superiore ai 12 mesi), possono essere:

a) debiti commerciali, vale a dire verso le aziende fornitrici di fattori produttivi (che, come già visto

quando si è parlato dei crediti, usualmente hanno scadenze comprese fra i 30 e i 180 giorni);

b) acconti ricevuti da clienti in anticipo rispetto allo svolgimento dell’impegno assunto; il

pagamento anticipato è in genere piuttosto raro, ma è invece usuale quando si lavora “su

commessa” (cioè quando si è incaricati dal cliente di fornirgli un bene con caratteristiche particolari, adatte solo a

lui e che pertanto rendono quel bene difficilmente commerciabile, nel senso di vendibile ad altri) e ci si vuole

cautelare dal rischio che il cliente, per un qualsiasi motivo, non lo ritiri;

c) debiti per finanziamenti bancari a breve termine (come l’anticipo s.b.f. di ri.ba. e di fatture,

l’anticipazione bancaria su titoli o su merci) o “a vista” (come l’apertura di credito in c/c, cioè

l’impegno assunto dalla banca (quasi sempre per un tempo indeterminato) di effettuare pagamenti su richiesta del

cliente correntista anche quando il saldo del suo conto è negativo: la possibilità che la banca ha di

recedere in un qualunque momento da questo impegno e di chiedere il “rientro” al cliente nel giro di

pochissimi giorni fa inserire questi debiti fra le passività correnti anche se, di norma e salvo situazioni

patologiche, all’atto pratico con questo sistema di finanziamento le banche continuano a finanziare

l’azienda per un periodo anche lunghissimo di tempo);

d) i mutui a breve termine e le rate scadenti entro un anno dei mutui a medio-lungo termine;

e) eventuali finanziamenti a breve termine ottenuti da società appartenenti allo stesso gruppo

aziendale;

f) altri debiti a breve diversi dai precedenti, come i debiti per imposte, debiti verso enti

previdenziali per contributi, debiti verso dipendenti per stipendi e ratei di 13 e altri debiti

residuali.

12

Partendo dallo schema di stato patrimoniale adottato nei bilanci ufficiali (nel senso di depositati per

renderli pubblici) e utilizzando le notizie che si possono trovare nella “Nota integrativa” (terzo documento, dopo

la situazione patrimoniale e il conto economico, che deve essere reso pubblico attraverso il deposito del bilancio) non è

difficile arrivare a una situazione patrimoniale riclassificata nel modo visto in queste ultime tre pagine, e

cioè con le voci dell’attivo e delle fonti ordinate, rispettivamente, in funzione della loro liquidità ed

esigibilità.

In genere è sufficiente e opportuno ricorrere a queste quattro operazioni:

1) nel caso i debiti bancari (voce 4 dello schema ufficiale) e quelli verso fornitori (voce 7) non siano già

stati distinti fra quelli con scadenza entro l’esercizio successivo e quelli con scadenza, invece, superiore a

12 mesi, occorrerà leggere la Nota Integrativa per recuperare questi dati;

2) verificare, sempre leggendo la nota integrativa, che i criteri di valutazione adottati (in particolare

per le rimanenze) siano gli stessi da un anno all’altro e, nel caso non sia così, cercare di rendere omogenei tali

valori in modo da poter fare confronti temporali corretti.

3) se nell’attivo vi sono immobili (= fabbricati o terreni, e questo anche nel caso essi siano utilizzati in virtù di

un contratto di leasing) o partecipazioni, può essere necessario correggere la valutazione che di essi è stata

fatta in bilancio; ciò perché è possibile che il loro valore reale sia significativamente diverso da quello

contabile: può capitare che il valore reale sia maggiore rispetto a quello di bilancio, soprattutto per effetto

dell’aumento dei prezzi immobiliari e azionari che non di rado si verifica nel corso degli anni e di cui, per

il principio della prudenza imposto dalla legge, è vietato tener conto nei bilanci.

A questo proposito, in realtà, c’è da dire che negli ultimi anni i legislatori di quasi tutti i paesi

hanno concesso la possibilità di “rivalutare” il valore di bilancio delle immobilizzazioni e delle

partecipazioni, e questo proprio per evitare che gli amministratori di tantissime aziende (il cui capitale proprio,

diminuito pesantemente per effetto delle perdite accumulate negli anni della crisi (finanziaria prima ed economica poi) era diminuito

fino a divenire negativo) fossero costretti all’antipatica scelta fra dichiarare il fallimento dell’azienda o

chiedere nuovi e impegnativi apporti di capitale fresco ai proprietari (i quali in questo caso si sarebbero

probabilmente ritrovati nell’impossibilità di trovare la liquidità necessaria per far fronte all’apporto richiesto, e quindi – in caso

di intervento di nuovi soci – avrebbero perso il controllo della società).

Ecco perché di questi tempi è più probabile trovare bilanci “ufficiali” in cui immobili e

partecipazioni sono evidenziati con un valore ottimisticamente gonfiato, piuttosto che bilanci in cui il

capitale netto risulta sottostimato per effetto di valutazioni prudenziali di queste voci.

4) Se nell’attivo vi sono immobilizzazioni immateriali, controllare che negli altri documenti del

bilancio (la nota integrativa e la relazione degli amministratori) ne sia descritta in modo chiaro e convincente la

natura. Se, al contrario, natura e valore di tali immobilizzazioni immateriali risultassero non del tutto

convincenti, allora è prudente diminuire drasticamente tali valori o cancellarli del tutto: è probabile che si

tratti di valori “gonfiati” o dall’ottimismo per il futuro, tipico dell’imprenditore (in buona fede), oppure dalla

disperazione dell’imprenditore che teme il fallimento dell’azienda, e quindi per la morte della sua creatura.

13

7.2) La riclassificazione del Conto Economico.

Quando si passa al Conto Economico la questione della riclassificazione si fa più complicata;

ciò, al fondo, perché è più difficile fare un buon film che una buona foto, essendo più facile descrivere una

sagoma piuttosto che un movimento.

Se, partendo dal documento reso pubblico con il deposito in Camera di Commercio, vogliamo

ottenere una descrizione efficace di quello che l’azienda ha fatto nell’ultimo periodo e di come lo ha fatto,

allora dobbiamo impegnarci di più di quanto è necessario per la rielaborazione della sua situazione

patrimoniale.

Le tre tappe principali da percorrere nella riclassificazione del conto economico sono:

a) la distinzione dell’attività aziendale (svolta nel periodo di cui si sta analizzando il conto economico) fra

la parte tipica (o “caratteristica”) e la parte atipica (o “extra-caratteristica”) dell’attività;

b) la distinzione fra attività ordinaria (nel senso di abituale) e straordinaria (non abituale);

c) la riorganizzazione delle voci in modo da evidenziare la formazione progressiva di vari

risultati intermedi tra il valore della produzione e il reddito netto.

a) Rientrano nell’attività (o gestione) caratteristica le operazioni che sono tipiche e usuali per le aziende del settore in cui opera quella il cui conto economico stiamo riclassificando, cioè quelle

attività senza le quali l’azienda difficilmente potrebbe operare in quel settore. Così, ad esempio, per un bar

l’acquisto di caffè e del servizio di pulizia della vetrina avviene all’interno della gestione caratteristica; ma

se, nei momenti della giornata in cui vi è meno clientela, l’imprenditore è solito impegnarsi nel videopoker

utilizzando risorse aziendali, allora i costi e i ricavi di questa attività, sebbene sia abituale, non possono

essere confusi con quelli tipici di un bar, e pertanto vanno da essi distinti relegandoli nella “gestione extra-

caratteristica”.

b) Come già scritto, la distinzione fra attività ordinaria e straordinaria sta nella abitualità;

un esempio di operazione straordinaria ma frutto della gestione tipica (o caratteristica) potrebbe essere la

vendita di un ramo aziendale: se CEPU nel 2014 vende a un concorrente per 10 milioni di euro il settore

umanistico dei suoi corsi per concentrarsi sui settori scientifico e professionale, la straordinarietà sta nella

impossibilità di ripetere nel tempo operazioni analoghe; il ricavo della vendita, però, sarebbe pur sempre da

collegare con l’attività tipica di CEPU; quei 10 milioni di valore che sono finiti nei ricavi del 2014 sono

stati generati dall’azienda per mezzo della sua attività ordinaria negli anni precedenti quando, dal nulla, ha

creato il ramo “corsi umanistici”. Nonostante questo occorre però escludere dal valore della produzione

del 2014 quei 10 milioni perché tale valore non è stato prodotto nel 2014, essendo frutto dell’attività di tutti

gli anni precedenti in cui CEPU si è affermata sul mercato anche dei corsi di latino, greco, storia e italiano.

Per chiarire meglio i due concetti di gestione “caratteristica o extra-caratteristica” e di gestione

“ordinaria o straordinaria” segnalo che la vendita per 20.000 € dei cuccioli che, ogni anno, nascono dai 12

mastini napoletani che fanno la guardia alla sede del CEPU (per difendere gli amministratori dalle ire dei clienti

bocciati), ripetendosi ogni anno (i mastini napoletani sono molto passionali e hanno sane inclinazioni sessuali) rientra

nell’attività ordinaria ma non in quella caratteristica, perché ben poco ha che fare con l’attività tipica delle

aziende operanti nel settore istruzione.

c) Quando si parla di valore della produzione, di risultati intermedi e, in generale, di

riclassificazione del conto economico, si è concentrati solo sulla gestione ordinaria e tipica dell’azienda:

eventuali componenti positivi o negativi di reddito provenienti da operazioni straordinarie e/o di natura

diversa dalla gestione tipica sono tagliate fuori dall’analisi, non interessano in quanto l’obiettivo principale

è valutare l’efficienza produttiva del nucleo produttivo aziendale.

Ecco allora che occorre depurare sia il valore della produzione sia i costi della produzione che

appaiono nel bilancio depositato dall’eventuale presenza di operazioni straordinarie (anche se inerenti l’attività

tipica aziendale) e di operazioni ordinarie che però nulla hanno a che fare con la gestione tipica.

14

La maggiore complessità della riclassificazione del conto economico rispetto allo stato

patrimoniale ha fatto sì, tra l’altro, che mentre lo schema di riclassificazione del patrimonio è

sostanzialmente unico (e lo abbiamo conosciuto al paragrafo 7.1), i modi per ordinare il conto economico sono vari.

Tra questi ci sono:

il conto economico a costo e ricavi del venduto (che qui meno ci interessa perché la sua elaborazione, oltre

a essere più complessa, richiede la conoscenza di troppi dati disponibili solo a un analista interno all’azienda) e

il conto economico a valore aggiunto (il cui schema puoi vedere in questa pagina).

Lo schema che la legge impone nei bilanci che vengono resi pubblici è in parte riconducibile a

quello a costi e ricavi del venduto, ma se ne differenzia profondamente perché nel conto economico

civilistico non si distinguono i costi in base alla loro destinazione (industriali, commerciali,

amministrativi).

Qui sotto trovate un esempio (inventato) di conto economico “a valore aggiunto”, sicuramente

nella maggior parte dei casi più adatto ai fini di una buona analisi di bilancio (non per niente il legislatore – che

non sa nemmeno distinguere il capitale netto dalla cassa – ha imposto uno schema diverso).

CONTO ECONOMICO SCALARE A VALORE AGGIUNTO

Ricavi di vendita + 14.800.000 98,43%

+ aumento ( – diminuzione) scorte prodotti finiti. + 300.000 2,36%

+ aumento ( – diminuz.) scorte prodotti in corso di lavoraz. - 100.000 - 0,79%

VALORE DELLA PRODUZIONE (1) 15.000.000 100,00%

Acquisti di beni e servizi (compreso uso beni di terzi) 8.250.000 55,00%

- aumento ( + diminuzione) scorte materie e componenti - 750.000 5,00%

- diminuzione scorte materie e componenti

altre spese di gestione tipica 300.000 2,00%

(diverse dalle successive)

VALORE AGGIUNTO (2) 7.200.000 48,00%

- Costi del personale - 5.000.000 33,33%

MARGINE OPERATIVO LORDO (M.O.L.) o E.B.I.T.D.A. (3) 2.200.000 14,67%

- Ammortamenti immobilizzazioni - 700.000 4,67%

- Svalutazioni - 100.000 0,67%

- Accantonamenti - 200.000 1,33%

RISULTATO (o REDDITO) OPERATIVO o E.B.I.T. (4) 1.200.000 8,00%

Saldo gestione finanziaria - 300.000 - 2,00%

(+ proventi finanziari – oneri finanziari)

Saldo gestione straordinaria + 1.000 0,01%

(+ proventi straordinari - costi straordinari)

REDDITO (o UTILE) LORDO o E.B.T. (5) 901.000 6,01%

- Imposte - 750.000 5,00%

RISULTATO DI ESERCIZIO (o REDDITO NETTO) (6) 151.000 1,01%

(1) per gli anglofoni: EBITDA = Earnings Before Interests Taxes Depreciation and Amortization

[quiz di allenamento: si tratta di un’azienda produttrice di beni o servizi? Perché? Industriale o mercantile? Perché?]

Nei prossimi paragrafi vedremo il significato dei vari risultati intermedi dello schema evidenziati

dalle voci numerate da 2 a 5 .

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7.2.1) Il valore della produzione.

Può essere opportuno ricordare che il “valore della produzione” (voce (1) dello schema) di un

periodo (ad esempio dell’anno 2013) non coincide con il valore delle vendite di quel periodo per un duplice

motivo: a) nel 2013 io posso aver prodotto cose che poi venderò nel 2014 (o anche dopo); b) nel 2013 posso

aver venduto cose che avevo prodotto nel 2012 (o anche prima). Ecco allora che, per determinare il “valore

della produzione” del 2013, si parte dalle vendite del periodo (l’anno 2013) e poi si aggiunge il valore delle

rimanenze finali (le scorte di prodotti finiti o in corso di lavorazione presenti alla mezzanotte del 31.12.2013 e che

(presumibilmente) sono stati prodotti nel 2013) e si toglie il valore delle rimanenze iniziali (le scorte di prodotti finiti o in

corso di lavorazione che erano presenti al mattino del 1.1.2013 e che furono prodotti nel 2012 (o prima ancora)).

Chiamando “variazione scorte” la differenza “ scorte finali meno scorte iniziali ” ne deriva che il

“valore della produzione” è uguale a ricavi di vendita + variazione scorte .

E’ anche utile ricordare che, per quanto detto al paragrafo 7.2) e in particolare al punto c), i

ricavi di vendita e le altre voci del conto economico riclassificato devono essere depurati da eventuali

ricavi e costi derivanti dalla gestione straordinaria e/o atipica. Questi ricavi e questi costi li si re-inserisce

poi alla fine, appena prima della determinazione del reddito lordo, indicandone sinteticamente la somma

algebrica alla voce “Saldo della gestione straordinaria”.

7.2.2) Il valore aggiunto.

Ora cerchiamo di capire perché questo schema di conto economico (quello nella pagina precedente) è

detto “a valore aggiunto”.

Per valore aggiunto si intende il valore che l’azienda aggiunge, con l’impiego dei fattori

produttivi “interni”, al valore dei fattori produttivi (beni e servizi) a breve ciclo di utilizzo che acquista

da altre aziende di produzione.

Questi beni e servizi acquistati da altre aziende di produzione sono principalmente:

a) componenti, materie prime, energia, merci (acquisti + la diminuzione delle loro rimanenze o – il loro aumento);

b) le prestazioni di servizi (lavorazioni esterne, trasporti, riparazioni, consulenze, pubblicità, servizi telefonici,ecc.);

c) i costi per il godimento di beni di terzi (affitti, noleggi e canoni di leasing).

Si può esprimere lo stesso concetto in quest’altro modo: se dalla ricchezza prodotta nel periodo

dall’azienda (dico “ricchezza” e non “incremento di ricchezza”, e questo perché sto parlando di valore della produzione e non

di utile) togliamo quella acquistata (e quindi prodotta) da altre aziende, troviamo la ricchezza prodotta

internamente all’azienda, valore che chiamiamo “valore aggiunto”.

La logica di questo modo di determinare il “valore aggiunto” non è certo del tutto rigorosa,

soprattutto per il motivo che all’interno di tale voce resta il valore del consumo delle immobilizzazioni

acquistate da altre aziende (in pratica il valore degli ammortamenti), e non ha molto senso trattare in modo

diverso il valore che da questi input si riversa sull’output rispetto al valore che proviene dal consumo degli

input ugualmente “esterni” ma a breve ciclo di utilizzo.

Il difetto di logica che sta dietro a questa definizione di valore aggiunto risulta evidente se si

pensa a due aziende in tutto identiche tranne per il fatto che la prima ha acquistato direttamente le

immobilizzazioni materiali, mentre la seconda le ha acquisite in leasing: pur avendo la medesima struttura

produttiva (stesse immobilizzazioni, stesso capitale circolante, stessa tecnica di produzione, stessi dipendenti, stessa rete di

vendita, stessi prodotti, stessa politica commerciale ecc.), la prima evidenzierà un valore aggiunto significativamente

superiore della seconda.

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Il “valore aggiunto”, oltre a essere definibile per differenza, è anche definibile per somma: è la

somma dei compensi che vanno a coloro, diversi dalle altre aziende di produzione, che hanno contribuito

alla produzione dell’output. Infatti, il valore aggiunto si ripartisce fra:

1) i dipendenti, cui spettano stipendi, contributi e quote di T.F.R. maturate nell’anno;

2) chi ha finanziato l’attività attraverso il capitale di debito, meritandosi gli interessi;

3) il supremo grassatore (lo stato), che preleva le imposte (nei libri di testo, il cui scopo è forgiare bravi cittadini

sempre disposti a rispettare le leggi qualunque cosa impongano e quindi anche a vivere facendosi tosare come pecore, trovate la

storiella secondo cui le imposte devono considerarsi il prezzo per i servizi di carattere generale (giustizia, ordine pubblico ecc.)

che lo stato eroga gratuitamente beneficiando tutti e quindi risultando utili anche per l’attività aziendale);

4) chi ha finanziato l’attività attraverso il capitale di rischio, a cui va la parte di utile netto eventualmente

distribuita;

5) l’azienda stessa, sotto forma di “autofinanziamento”. Il concetto di autofinanziamento comprende:

5a) l’autofinanziamento proprio cioè l’utile netto che non viene prelevato dai soci (vedi precedente punto 4)),

e che quindi viene “accantonato a riserva” e va a incrementare il capitale proprio;

5b) l’autofinanziamento improprio che è costituito dagli ammortamenti e dagli accantonamenti.

Tra le componenti del “valore aggiunto” appena elencate la voce “autofinanziamento” necessita

più delle altre di spiegazioni. Fra tre o quattro pagine il capitolo 8) dovrebbe servire a questo.

7.2.3) Dopo il valore aggiunto.

Si è già visto che il valore aggiunto, determinato per differenza, è dato da:

valore della produzione meno acquisto di materie prime, componenti e merci meno

diminuzione di (o più aumento di) rimanenze materie prime, componenti e merci meno acquisti di

servizi meno costi per godimento beni di terzi.

Se dal valore aggiunto togliamo il costo del personale (stipendi + contributi + quota annua T.F.R.) si ottiene il

“Margine Operativo Lordo” (M.O.L.) che oggi va di moda chiamare “E.B.I.T.D.A.”, acronimo che sta

per Earnings Before Interests, Taxes, Depreciations (in italiano: svalutazioni e accantonamenti) and Amortizations.

Se poi dal Margine Operativo Lordo si sottraggono gli ammortamenti, gli accantonamenti e le svalutazioni,

si ottiene il Reddito Operativo, in inglese E.B.I.T. (e, rispettoso della vostra intelligenza, non sto a scrivere cosa significa).

Infine, se dal Reddito Operativo si tolgono gli interessi si ha il Reddito Lordo, o “Utile prima delle

imposte” detto all’inglese E.B.T. (albionamente Earnings Before Taxes).

L’EBIT o Reddito (o Risultato) Operativo è il frutto della gestione tipica dell’impresa, e quindi

dà la misura della ricchezza generata (se l’EBIT è positivo) o assorbita (se l’EBIT è negativo) dalla attività

specifica aziendale, prescindendo (= senza tenere conto) dalla situazione finanziaria, da eventi di natura

straordinaria e dalla famelicità dello stato.

Il reddito operativo è quindi un dato di fondamentale importanza in quanto esso, essendo

influenzato solo dai componenti di reddito inerenti l’attività tipica e ordinaria, è il dato più significativo

della efficienza produttiva aziendale.

Meno semplice è capire la significatività dell’EBITDA o Margine Operativo Lordo, che pure

va tanto di moda. Sui libri si legge che esso “esprime la ricchezza in termini di risorse finanziarie

generata dall’attività caratteristica e ordinaria”.

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La differenza tra questa definizione di EBITDA e quella del risultato operativo (EBIT) sta

nell’aggiunta “in termini di risorse finanziarie” che qualifica la creazione di ricchezza misurata.

In effetti, la differenza di valore fra EBITDA e EBIT è data dall’ammontare degli ammortamenti,

degli accantonamenti e delle svalutazioni, vale a dire da componenti negativi di reddito che non hanno

causato nell’esercizio alcun esborso finanziario, in quanto l’esborso finanziario o ci fu in precedenza

(quando si acquisirono quelle immobilizzazioni e quei beni di cui ora misuriamo, con gli ammortamenti e le svalutazioni, la

diminuzione di valore) o ci sarà in futuro (quando si dovranno pagare i debiti che sono stati camuffati con la voce “fondi

rischi e spese”, e questa parentesi la dovresti comprendere meglio dopo aver letto il capitolo 8) alle pagine 19 – 21).

Ecco allora che se al risultato operativo (che ci dice quanta ricchezza l’attività aziendale ordinaria e tipica

è riuscita a creare, ricchezza aggiuntiva che è destinata a beneficiare lo stato (che vi attingerà pesantemente con le imposte), i

finanziatori (che si arricchiranno con gli interessi) e i proprietari (cui rimarrà l’utile netto)) aggiungiamo i costi non finanziari

(cioè i costi, come ammortamenti e svalutazioni, che non fanno diminuire la liquidità o aumentare i debiti nel periodo di cui si fa

il conto economico) troviamo la capacità dell’azienda di migliorare la sua situazione finanziaria nell’esercizio

(cioè durante il periodo analizzato dal conto economico). Il discorso avrebbe senso, e quindi il dato dell’EBITDA

sarebbe realmente utile, se le immobilizzazioni non dovessero essere mai sostituite e i debiti mai pagati, ma

ovviamente non è così: nessuna azienda può essere efficiente con impianti e attrezzature obsoleti e mal

funzionanti, e nessuna azienda può esimersi dall’assolvere i propri impegni.

7.2.3a) Sulla significatività dell’EBITDA

Viene quindi da chiedersi perché oggi si dia tanta enfasi (= importanza) all’EBITDA: sono tutti

scemi gli autori dei testi e l’unico intelligente è chi scrive, o è il contrario? Né la prima cosa e né (spero)

l’altra. In realtà ritengo che tutto sia nato, principalmente, dalla necessità per gli analisti di trovare una

giustificazione ai prezzi sempre più alti ai quali nell’ultima ventina d’anni venivano compravendute le

aziende, prezzi che, soprattutto per le aziende in perdita, non trovavano giustificazione con i tradizionali

criteri di valutazione.

Per comprendere questo fatto è però prima necessario correggere un’idea sbagliata ma piuttosto

diffusa. Il profano spesso crede che a stabilire quale sia il valore di un’azienda (così come di una casa o un

terreno o qualsiasi altro bene da investimento) siano gli esperti, i “periti”. In realtà, a svolgere l’attività di

valutazione è, quasi per intero, il mercato: il giudizio del perito (sia esso il geometra di Cadelbosco che stima la

villetta a schiera o il mega studio di sapienti commercialisti milanesi che valuta la quota di maggioranza della S.p.A.) incide

solo sui dettagli. E’ un po’ come facciamo noi per valutare un’auto usata: partiamo dal valore che il

mercato dà ai modelli di quel tipo e di quell’anno (leggendolo sulle riviste specializzate che lo rilevano e aggiornano

periodicamente) e poi lo correggiamo un po’, o in diminuzione per tenere conto di eventuali ammaccature, o

in aumento nel caso di un ottimo stato di manutenzione.

Come per le auto usate e praticamente per tutti i beni, anche per le aziende il prezzo lo fa il

mercato: se metto in vendita la mia azienda o una sua quota riceverò varie offerte, e tra queste individuerò

la migliore; può darsi che io la ritenga insoddisfacente, cioè reputi il prezzo offerto inferiore al valore che

io ritengo abbia, ma a questo punto non venderò e quel prezzo (per me “giusto” ma per il mercato eccessivo) non

si formerà.

Ricordate: il valore è soggettivo (e quindi non esiste il valore giusto), a essere oggettivo è il prezzo, e

questo si forma sul mercato.

In caso di compravendita di un’azienda si richiede l’intervento dei periti non tanto al fine

dell’individuazione del prezzo (ché quello in sostanza lo stabiliscono il mercato e le abilità contrattuali delle due parti),

quanto per pararsi il culo (save one’s ass, per i linguisti più raffinati) in caso di possibili future contestazioni sul

prezzo da parte di terzi, in particolare da parte 1) del fisco, sempre famelico (che potrebbe ritenere troppo basso il

prezzo dichiarato per pretendere più imposte), 2) dei magistrati, spesso invasati (che, convinti di sapere loro il “vero”

valore della compravendita, potrebbero sospettare chissà quali imbrogli), 3) di qualche socio dell’azienda venduta o di

quella acquirente (che, ritenendo di essere stato ingiustamente danneggiato dall’operazione, potrebbe attivare un magistrato

invasato). Una volta stabilito con la controparte il prezzo della compravendita in X €, vale quindi la pena,

per ridurre il rischio e le conseguenze negative di eventuali contrasti con questi soggetti, pagare una

profumata parcella a un professionista a cui, in sostanza, si dà l’incarico di costruire una bella perizia dalla

quale risulterà che il valore dell’azienda compra-venduta è (guarda caso ...) proprio X €.

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Ora mettetevi nei panni del perito che riceve l’incarico: deve mettere la sua firma su un

documento attestante che il valore corretto dell’azienda è quello che (in modo esplicito e brutale o con un po’ più

di grazia) gli è stato indicato dal suo cliente, e deve arrivare a questo valore con un percorso per quanto

possibile logico, comprensibile e riconosciuto valido dalla generalità degli esperti (suoi colleghi o meno).

Per far questo ha a disposizione un mucchio di testi, manuali e trattati in cui dottamente si

disquisisce di vari criteri di valutazione, tutti raffinatissimi e ben impreziositi da formule matematiche

inoppugnabili, ma che, al fondo, si basano sul banale concetto che l’appetibilità di un’azienda, e quindi il

suo prezzo, è collegato sia al valore del suo capitale netto sia all’ammontare dell’utile che è in grado di

generare nel tempo: se le aziende A e B hanno un capitale netto simile, ma A è prevedibile che produca utili

doppi di B, è ovvio che per acquistare A si sia disposti a pagare un prezzo più alto (ma meno del doppio) di

quanto si pagherebbe per B.

Così, da sempre, il sistema più o meno esplicitamente usato dagli analisti per stimare il valore di

un’azienda sostanzialmente consiste nel partire da una cifra basata sul valore del capitale netto e poi

aggiungere un importo pari a un multiplo dei presumibili futuri utili annui. Ad esempio:

Azienda

Capitale

netto

Utile netto

Tasso di attualizzazione

degli utili

Fattore moltiplicativo equivalente

Valore attuale degli utili futuri

Valore della azienda

A 1.500 200 20% 5 1.000 2.500

B 1.500 100 20% 5 500 2.000

Come però ho già detto, dalla fine degli anni ’90 il valore che il mercato (la cui vista è da allora

sempre più annebbiata dai tassi artificialmente bassi generati dall’eccesso di denaro messo in circolazione dalle autorità

monetarie) ha dato alle aziende si è andato discostando sempre di più da quello ottenibile con i tradizionali

criteri di stima.

Per un po’ gli analisti (commercialisti, società di revisione, insigni cattedratici ecc.) se la sono cavata

abbassando il tasso di attualizzazione degli utili futuri, in ciò giustificati dal generale abbassamento dei

tassi d’interesse. Questo sistema, però, non serve se l’azienda è da anni in perdita e non è credibile che

possa mettersi a macinare utili nel giro di poco tempo.

E’ per questo che gli analisti, alla disperata ricerca di dati positivi in grado di giustificare gli

elevati prezzi che il mercato assegnava anche in presenza di perdite economiche, hanno cominciato a

prendere in considerazione non più l’utile ma il risultato operativo (e, fin qui, la cosa poteva ancora apparire

ragionevole anche a un osservatore vecchio e outdated come me), per poi arrivare all’EBITBA, risalendo così sempre

più su verso la parte alta del conto economico, alla disperata ricerca di sufficienti valori positivi da

capitalizzare.

E ora che occorre, per non essere costretti a evidenziare bilanci con il capitale netto negativo (e

quindi dichiarare il fallimento o essere costretti a immettere nell’azienda vagonate di capitali a titolo di apporto), tenere

vergognosamente alti i valori delle immobilizzazioni finanziarie costituite dalle partecipazioni in altre

aziende (valori vergognosamente più alti di quelli a cui realisticamente si riuscirebbe a venderli, cioè più alti del cosiddetto

“fair value”), già qualcuno, scarseggiando in pudore, comincia a guardare al “valore aggiunto” positivo, pur

in presenza di EBITDA negativo, come giustificazione valida per dare a un’azienda un valore superiore al

suo capitale netto. (Ancora nessuno si è spinto a considerare “appetibile” un’azienda che evidenzi un valore aggiunto negativo, magari

basandosi sul fatto che comunque ha ricavi di vendita maggiori di zero; attendiamo fiduciosi).

Il discorso si allaccia sempre alla reale natura della crisi finanziaria che si è manifestata sei anni

fa (ma le cui origini risalgono a una decina d’anni prima), legata all’artificiale abbassamento dei tassi provocato

dalle politiche monetarie eccessivamente espansive delle banche centrali (FED in primis, ma BCE e tutte le altre a

ruota). I tassi più bassi hanno indotto il mercato a valutare sempre di più i beni da investimento (e quindi

anche le aziende, oltre agli immobili e alle obbligazioni a tasso fisso), e hanno quindi obbligato i periti a innovare in

modo piuttosto ardito i tradizionali criteri di valutazione per inseguire i prezzi di mercato.

L’illogicità di capitalizzare in positivo un risultato operativo negativo è la stessa, vista da altra

angolazione, riscontrabile nel considerare gli ammortamenti e gli accantonamenti come

“autofinanziamento” aziendale. E’ ora quindi di comprendere il concetto di autofinanziamento.

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8) L’autofinanziamento aziendale.

A pagina 16 si è detto che la parte di “valore aggiunto” che non va a remunerare i contributi

offerti all’azienda dai dipendenti, dai finanziatori (sia a titolo di capitale di debito che di capitale di rischio) e dallo

stato (ammesso che ciò che offre abbia un valore positivo) costituisce l’autofinanziamento dell’azienda, e questo

autofinanziamento può essere suddiviso fra “proprio”, l’utile netto non distribuito ai soci, e “improprio”, a

sua volta dato dagli ammortamenti e dagli accantonamenti.

Ora è il momento di comprendere quelle righe, soprattutto il concetto di autofinanziamento

improprio, ché quello di finanziamento proprio dovreste possederlo da anni.

Quelli di voi che ancora capiscono poco o nulla di ragioneria sono invitati a impegnarsi al

massimo: sarà un’occasione per finalmente capire e comunque per ripassare che:

a) in contabilità generale, durante l’anno, i componenti positivi (ricavi) e negativi (costi) del

reddito si registrano (con le “scritture di esercizio”) nel momento in cui se ne ha la documentazione (costituita

in genere da una fattura) che testimonia il sorgere del debito o del credito, oppure quando vi è il loro

pagamento;

b) in questo modo si commettono due tipi di errori, perché: b1) non sempre i ricavi o i costi

documentati e quindi registrati si riferiscono al periodo di cui si vorrà, in sede di bilancio, determinare il

risultato economico; b2) non tutti i ricavi e i costi hanno già avuto, alla data del bilancio, la

“manifestazione finanziaria” (in sostanza: la loro documentazione), e quindi non tutti sono stati già registrati;

c) per poter avere un bilancio che tenga conto di tutti i fatti accaduti e che contemporaneamente

non sia inquinato da fatti che non riguardano il periodo di cui si vuole determinare il risultato economico si

ricorre alle “scritture di assestamento”, cioè ad annotazioni contabili che correggono gli errori descritti

in b1) (e queste sono le scritture di imputazione, come la rilevazione degli ammortamenti e dei ratei attivi e passivi) e

in b2) (e queste sono le scritture di storno, come la rilevazione delle rimanenze finali e dei risconti attivi e passivi).

8.1) L’autofinanziamento proprio.

Circa l’autofinanziamento proprio, se solo avete capito l’abc della ragioneria, c’è nulla di

particolare da osservare, nel senso che dovrebbe risultarvi chiarissimo il motivo per cui l’utile netto viene

considerato “autofinanziamento”: quale voce del conto economico potrebbe far parte del “valore aggiunto”

in modo più chiaro e legittimo dell’utile netto? (La domanda è da intendersi come retorica, dacché nulla più dell’utile,

che è creazione di nuova ricchezza, merita di contribuire al valore aggiunto e alla funzione di fonte di finanziamento; insomma,

la risposta alla domanda dovrebbe essere un forte e corale: “NESSUUUNAAA!!).

8.2) L’autofinanziamento improprio.

Le perplessità, invece, sono legittime per quanto riguarda l’autofinanziamento improprio, cioè

quello costituito dagli ammortamenti e dagli accantonamenti ai “fondi per rischi e oneri”.

La logica vorrebbe che il valore aggiunto fosse al netto degli ammortamenti e degli

accantonamenti, in quanto:

1) gli ammortamenti, come già in precedenza accennato, altro non sono che il costo per

l’impiego di fattori produttivi (il computer, l’autocarro e tutti quegli input destinati a fornire utilità per vari anni e il cui

consumo, per semplicità, si registra solo al momento della redazione del bilancio con una scrittura di assestamento) che, al

pari delle materie prime e dei servizi, sono prodotti e acquistati da altre aziende: non si capisce perché se

acquisto un computer io debba evidenziare un valore aggiunto maggiore rispetto al caso in cui lo stesso

computer lo abbia noleggiato. Il costo per ammortamento sostituisce quello per noleggio, ma la loro natura

è sostanzialmente la stessa: si tratta pur sempre del consumo di una attrezzatura acquisita dall’esterno. E

allora non si vede perché non eliminare anche l’ammortamento dal valore aggiunto, così come da esso,

correttamente, si eliminano le spese per godimento beni di terzi.

2) gli accantonamenti ai fondi rischi e oneri (e, come già si è visto a pagina 10, questi “fondi” sono pur

sempre debiti, anche se hanno la particolarità di essere incerti nell’importo e/o nel momento in cui provocheranno una esigenza

finanziaria) nascono, come gli ammortamenti e tutte le altre scritture di assestamento, dall’esigenza di

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correggere prima della redazione del bilancio gli errori di imputazione di ricavi o di costi che

consapevolmente (per semplificare le operazioni contabili) si sono fatti durante l’anno registrando le operazioni

d’esercizio. Ben conscio che il concetto può non esservi ancora chiarissimo, riempio la pagina con esempi:

un paio relativo a errori di registrazione di ricavi e un paio a errori di registrazione di costi.

R1) errata registrazione di ricavi (sopravvalutazione): è il caso, ad esempio, dell’accantonamento

per rischi di garanzia prodotti: se nel 2013 la Nissan vende le auto garantendole per 5 anni, significa che ha

già inserito fra i ricavi del 2013 anche i servizi di riparazione che sarà costretta a svolgere “gratuitamente”

fino al 2018. In realtà le riparazioni in garanzia non sono gratis, e ciò in quanto vengono pagate in anticipo

nel momento dell’acquisto dell’auto. Infatti, se la Nissan avesse vendute le auto senza garanzia, si sarebbe

dovuta accontentare di un prezzo di vendita inferiore, e quindi avrebbe dovuto contabilizzare dei ricavi

inferiori. L’importo degli accantonamenti per rischi di questo tipo, quindi, dovrei sottrarlo dal valore della

produzione del 2013 e distribuirlo nel valore della produzione dei prossimi 5 anni, il periodo in cui

produrrò i servizi di riparazione il cui prezzo ho già considerato in anticipo tra i ricavi nel 2013. Se non

faccio così (e in effetti non si fa così), se cioè non tolgo dal valore della produzione 2013 quello dei servizi di

riparazione che ho già incassato ma che non ho ancora prodotto, per poi distribuirlo fra i vari anni in cui

effettivamente li eseguirò (dal 2014 al 2018), io gonfio indebitamente il valore della produzione del 2013 e

deprimo quello dei cinque anni successivi. La logica vorrebbe, allora, che gli accantonamenti per rischi di

questo tipo non rimanessero nel valore aggiunto, in quanto non sono nemmeno valore della produzione;

certamente più corretto sarebbe togliere l’importo di questi accantonamenti dai ricavi di vendita.

R2) Ancora errata imputazione di ricavi (sopravvalutazione): nella primavera del 2013 ho

stipulato con un mio cliente-rivenditore un contratto di 24 mesi in base al quale, alla scadenza, gli dovrò

riconoscere un premio pari al 5% del valore dei suoi acquisti nel caso questi abbiano complessivamente

superato, nel corso dei due anni, gli 800.000 €. Durante il 2013 il rivenditore ha acquistato per 200.000 €

e con un trend in buona crescita. E’ quindi probabile, ma non certo, che nel 2015, alla scadenza del

contratto, dovrò emettere una nota di accredito per qualche decina di migliaia di euro, e in questo caso

10.000 € (il 5% dei 200.000 € di vendite 2013) servirebbero per correggere l’eccesso di ricavi registrati nel 2013.

Il principio della prudenza (vedi pag. 7) mi impone di annotare fra i costi del 2013 questi 10.000 € e di

inserirli (“accantonarli”) tra i debiti nel passivo dello stato patrimoniale al 31.12.2013 (è infatti, anche se messo

fra i fondi rischi, un probabile debito che ho già maturato nei confronti del mio cliente-rivenditore).

C1) Errata imputazione di costi (sottovalutazione): il caso più frequente riguarda gli

accantonamenti per la responsabilità civile del produttore, cioè per il rischio di dovere subire in futuro degli

esborsi monetari a causa di indennizzi dovuti per il cattivo funzionamento di un bene da noi venduto. Se,

ad esempio, vendo nastri trasportatori e ho ragione di temere che qualcuno dei miei prodotti già venduti

possa, per un difetto di costruzione, provocare un temporaneo fermo produttivo a qualche mio cliente e

quindi la legittima sua pretesa di essere da me indennizzato per il danno subito, io devo considerare questo

possibile costo futuro, anche se incerto, come un componente negativo di reddito di competenza

dell’esercizio in cui ho contabilizzato la vendita del nastro trasportatore difettoso.

Se avessi stipulato una buona polizza d’assicurazione R.C.P. (Responsabilità Civile Prodotti) pagando ad

esempio 50.000 € di premio, non dovrei più considerare questo rischio (e quindi non dovrei inserire

l’accantonamento fra i costi del conto economico 2013 e nel passivo dello stato patrimoniale al 31.12.2013), ma in cambio

nel conto economico ci sarebbe, fra i costi del 2013, il premio assicurativo pagato di 50.000 € e nello stato

patrimoniale maggiori debiti (o minore liquidità) per 50.000 €.

Che un “accantonamento al fondo rischi” abbia una natura diversa da un acquisto di un servizio

assicurativo non è ragionevole: sono entrambi costi e la loro funzione è la stessa: prepararsi a fronteggiare

eventi negativi futuri e incerti causati da attività già svolte, ma nonostante questo il premio di assicurazione

riduce il valore aggiunto e l’accantonamento no.

C2) Ancora errata imputazione di costi (sottovalutazione): l’ufficio marketing mi ha convinto, per

promuovere le vendite e contemporaneamente fidelizzare la mia clientela, di dare inizio nell’ultimo

trimestre del 2013 a una “operazione a premio”. Mi sono così impegnato a consegnare dei regali (peluche di

personaggi Disneyani) ai clienti che entro il 30 giugno 2014 avranno raccolto sufficienti prove d’acquisto dei

miei prodotti. Al momento di fare il bilancio del 2013, non sapendo quanti me ne saranno richiesti, non ho

ancora provveduto all’acquisto dei peluche; sono però certo di aver già maturato, per le vendite dell’ultimo

trimestre, l’impegno alla consegna di un numero imprecisato di peluche, e questo impegno è un debito che

21

ho già il 31 dicembre nei confronti della mia clientela. Ecco allora che devo inserire nel conto economico,

fra i costi del 2013, il valore dei peluche collegabile alle vendite 2013 e, nel passivo patrimoniale, quel

debito che dovrò stimare con prudente buon senso e inserirlo alla voce “Fondi spese”.

In effetti, la ragione per la quale gli ammortamenti e gli accantonamenti non si sottraggono al

valore della produzione e quindi li si lascia nel valore aggiunto è, in realtà, soltanto riconducibile al fatto

che tali costi non sono monetari, nel senso che a questi componenti negativi di reddito non è collegabile,

nel periodo che ci interessa ai fine del bilancio (periodo in cui hanno offerto la loro utilità o comunque sono maturati)

alcuna uscita monetaria: nel caso degli ammortamenti l’uscita monetaria è relativa all’acquisto della

immobilizzazione, e quindi è stata registrata in un precedente esercizio; nel caso dell’accantonamento a

fondo rischi o oneri l’uscita monetaria la si avrà in un esercizio successivo, quando si dovranno sostenere le

spese (per le riparazioni in garanzia, per il premio di raggiungimento budget, per l’indennizzo del danno provocato e per

l’acquisto dei peluche nei quattro esempi fatti).

Questo è il motivo per cui molti considerano gli ammortamenti e gli accantonamenti una forma

di autofinanziamento aziendale, seppure aggiungendo, per pudore, l’aggettivo “improprio”.

Per meglio consolidare questo non facile concetto può essere utile fare un paio d’altri esempi,

integrandoli questa volta con le scritture contabili ad essi relative e rispiegando in parole un po’ diverse il

tutto.

Chi fosse convinto di aver già compreso pienamente la questione può saltare direttamente fino al

capitolo 9) (a pagina 23) relativo agli indici di bilancio, ché tanto ora qui non aggiungo nulla di nuovo.

Siamo la Smeg e garantiamo i nostri prodotti per 3 anni; a fine esercizio 2013 stimiamo in

2.000.000 di euro il valore dei servizi di riparazione che dovremo eseguire in garanzia nei prossimi tre anni

sui prodotti venduti quest’anno. L’annotazione contabile è: accantonamento per rischi di garanzia (R) Fondo rischi di garanzia (P)

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

| | 3.000.000 (saldo iniziale)

31/12/2013 2.000.000 | | 2.000.000 (31/12/2013)

(saldo finale) 2.000.000 | | 5.000.000 (saldo finale)

Quiz per principianti (a livello 0): cosa rappresentano i 3.000.000 di saldo iniziale (cioè al 1/1/2013) del conto “Fondo rischi di garanzia”? Quiz per principianti (livello – 1): perché non c’è alcun saldo iniziale nel conto reddituale “accantonamento per rischi di garanzia”?

Come si vede, i 2 milioni “accantonati” sono finiti in avere di un conto patrimoniale, e quindi

incrementano le fonti di finanziamento.

Allo scopo di evitare clamorosi equivoci e madornali errori di comprensione (in cui peraltro sono

soliti cadere avvocati e magistrati), può essere utile segnalare ai principianti (a livello – 2) e ai più distratti che

“accantonare 2 milioni di euro” a un fondo non significa mettere da parte 2 milioni di euro per

conservarli sul conto corrente o in un qualche altro posto (magari su un libretto di deposito o in un cassetto o dentro

la zuccheriera) fino a quando dovranno essere usati per finanziare le uscite monetarie future relative agli

indennizzi o alle riparazioni in garanzia (nel caso di fondi rischi) o all’acquisto dell’attrezzatura nuova (nel caso

di fondo di ammortamento); infatti accantonare 2 milioni di euro in un fondo (fondo rischi o fondo

ammortamento che sia) significa unicamente ridurre il risultato di esercizio di 2 milioni, e quindi ridurre di

2 milioni l’importo dell’utile disponibile per una eventuale distribuzione ai soci.

Ad esempio: senza un certo accantonamento al Fondo rischi l’utile 2013 di una certa azienda

risulterebbe pari a 10 milioni, facendo così arrivare il capitale proprio, che inizialmente magari era pari a

90 milioni, a 100 milioni; con un accantonamento di 2 milioni l’utile risulta di soli 8 milioni e così il

capitale proprio raggiunge solo 98 milioni. A fronte di questi 2 milioni di minor incremento della voce

“capitale proprio” vi è l’incremento di 2 milioni della voce Fondo rischi, anch’essa, giustamente, situata fra

le fonti di finanziamento. L’accantonamento al fondo serve proprio per rettificare di 2 milioni il

patrimonio netto aziendale, perché quegli euro non sono ricchezza creata dall’attività aziendale bensì

rappresentano un debito sorto a causa dell’attività svolta.

22

Gli accantonamenti sono costi (o minori ricavi) che vengono correttamente inseriti (in sede di scritture

di assestamento) nel “dare” del conto economico in virtù della loro competenza, originando come

contropartita in avere una voce patrimoniale di bilancio che ha natura di debito o di rettifica in diminuzione

di un valore attivo patrimoniale e la cui denominazione ricorda la natura del componente economico.

Non di rado tali scritture contabili traggono origine da stime di eventi che non è nemmeno certo

accadranno; si definiscono, infatti, costi futuri incerti sia nella loro esistenza e nell’importo, oppure

soltanto incerti nel loro importo”.

Esempio del primo tipo (costo incerto sia nell’esistenza che nell’importo) e debito come contropartita (in avere):

un cliente imputa a una nostra fornitura un danno da lui subito (e che noi non abbiamo coperto da

assicurazione) e pertanto reclama il risarcimento. Al 31.12, non riconoscendo noi la nostra responsabilità,

siamo ancora nella fase del suo accertamento da parte di un collegio arbitrale (o, Dio ce ne scampi, di un

giudice statale). In base ai principi della prudenza e della competenza imposti dalla legge e dalla dottrina

aziendalistica, dobbiamo stimare un onere (un costo) da imputare all’esercizio anche se speriamo che non

lo subiremo.

Esempio del secondo tipo (costo certo nell’esistenza ma non nell’importo) e debito come contropartita (in avere): idem, ma siamo consapevoli della nostra responsabilità, e al 31.12 siamo però ancora in attesa

della determinazione da parte del collegio arbitrale del danno che dovremo risarcire.

La scrittura contabile, semplificando al massimo, in entrambi i casi può essere:

Oneri per R.C. Prodotti . R . Fondo rischi per Responsabilità Civile P

XY | | XY

Altro esempio del primo tipo (costo incerto sia nell’esistenza che nell’importo) ma con rettifica in diminuzione

dell’ attivo (del dare) come contropartita:

per esperienza sappiamo che ogni anno non ci vengono saldati crediti commerciali per un

importo compreso tra l’1 e il 3% delle vendite. A fine anno avevamo crediti verso clienti per 7 milioni di

euro. In sede di redazione del bilancio al 31.12.2013 dobbiamo stimare, con prudenza e onestà, quanti di

questi 7 milioni non ci verranno mai più pagati.

La scrittura contabile, sempre semplificando, può essere:

Svalutazione crediti R Fondo svalutazione crediti P

JK | | JK

O, meglio, quella qui sotto;

Svalutazione crediti R Fondo svalutazione crediti P .

JK | – JK |

Il risultato economico del periodo e il capitale netto finale a cui si perviene con le due scritture di

assestamento alternative sono ovviamente gli stessi, ma la differenza non è comunque puramente formale:

la seconda scrittura, infatti, evidenzia la realtà in modo più rispettoso, in quanto in questo modo (immettendo

la posta correttiva in diminuzione subito sotto il valore nominale dei crediti commerciali) si segnala un valore attivo

patrimoniale pari a quello che si ritiene corretto, mentre con la prima (che evidenzia tra le fonti il valore del fondo)

si mantiene l’attivo patrimoniale “gonfiato” di un valore che pure si ritiene probabilmente già andato perduto.

Ricordo, infine, che se si fosse a conoscenza della probabilità che uno specifico credito (la fattura n.

123/2013 verso il cliente Caio Tizio) vada in parte perso allora la scrittura corretta sarebbe:

Perdite su crediti R Cliente Caio Tizio P .

WQ | | WQ

23

9) L’analisi mediante gli “indici di bilancio”.

Breve sintesi del percorso fatto fino a ora:

Siamo partiti dalla constatazione che se vuoi farti un’idea dell’azienda Pinca Pallina il più delle

volte hai solo a disposizione – se non hai una posizione “interna” privilegiata – il suo bilancio ufficiale

depositato al Registro Imprese della CCIAA;

poi abbiamo visto che, essendo questo bilancio strutturato in modo piuttosto penoso (per infelice scelta

del legislatore, soprattutto per quanto riguarda il conto economico), è necessario rielaborarlo procedendo alla

cosiddetta “riclassificazione”, sia dello stato patrimoniale che del conto economico;

abbiamo poi verificato come la riclassificazione dello stato patrimoniale consista essenzialmente

nell’ordinare in modo più chiaro le voci dell’attivo e delle fonti in funzione – rispettivamente – della

loro liquidità e della loro esigibilità;

abbiamo dedicato più tempo alla riclassificazione del conto economico perché i limiti informativi del

conto economico ufficiale sono più gravi di quelli dello stato patrimoniale (il cui schema imposto dalla legge

è già sostanzialmente ordinato in base alla liquidità dell’attivo e alla esigibilità delle fonti), derivando questi limiti

informativi (del conto economico “civilistico”) dal fatto che non essendoci una chiara distinzione fra

componenti reddituali della gestione tipica e ordinaria e quelli invece della gestione atipica e

straordinaria non sono nemmeno leggibili i tre importanti risultati intermedi del: 1. valore aggiunto; 2.

EBITDA (o margine operativo lordo); 3. EBIT (o risultato operativo); per superare tali limiti si deve

quindi ricostruire il conto economico nella forma scalare “a valore aggiunto”.

Infine, anche per un utile ripasso dei concetti di base ragionieristici, ci siamo soffermati sul concetto di

autofinanziamento (proprio e, soprattutto, improprio).

Resta ora solo da trattare degli “indici di bilancio”.

9.1) Dalla riclassificazione agli indici.

Gli indici sono dei rapporti fra due grandezze, e così gli “indici di bilancio” sono rapporti fra

due dati del bilancio. Per poter trovare un rapporto (ratio, in inglese) occorre, e non ci vuole Newton per

capirlo, conoscere il numeratore e il denominatore. Spesso, però, i dati da mettere in rapporto non sono

esplicitamente segnalati nel bilancio depositato perché – come abbiamo visto e appena ripetuto – questo segue

obbligatoriamente una schema previsto dalla normativa civilistica (= dalla legge) che, usando un eufemismo,

non è l’ideale in termini di efficacia informativa. Ecco perché, prima di procedere con l’analisi per indici,

occorre passare dalla fase della riclassificazione del bilancio, in modo da ottenere quelle voci che, messe in

rapporto fra loro, ci daranno il valore dell’indice cercato.

Di indici se ne possono calcolare a cariolate, essendocene tantissimi e di vari tipi: ci sono indici

che mettono in rapporto due valori entrambi dello stato patrimoniale, oppure due valori entrambi del conto

economico, ma vi sono anche indici costituiti dal rapporto di un valore indicato nello stato patrimoniale e

un valore presente nel conto economico o viceversa. Il risultato di ognuno di questi rapporti potrà essere

indicativo dell’andamento economico, oppure della condizione patrimoniale o di quella finanziaria

dell’impresa (1), ma una cosa deve essere ben chiara:

nessun indice, da solo, è adeguatamente significativo!

Ogni indice, infatti, deve essere interpretato e valutato sia in una visione d’insieme, cioè con

gli altri indici (relativi alla stessa azienda) ad esso correlati, sia in una visione dinamica, cioè osservandone

l’andamento nel tempo, in modo da comprendere in quale direzione si sta muovendo l’impresa, e, infine,

in una visione spaziale, cioè confrontandolo con i valori medi delle aziende analoghe, cioè simili per

settore di attività e per dimensione.

(1) L’aspetto finanziario di un’impresa è, per come lo intendo io, una parte del più generale aspetto patrimoniale, e precisamente la parte che riguarda gli elementi patrimoniali costituiti da crediti, liquidità e debiti

24

Gli indici si possono classificare in vari modi, io qui suddivido quelli usati più spesso in cinque gruppi:

1. gli indici di struttura, tramite i quali si valuta la solidità patrimoniale dell’azienda, cioè l’equilibrio fra

impieghi e fonti;

2. gli indici finanziari, da cui trarre un giudizio sull’equilibrio finanziario dell’azienda, cioè sulla sua

capacità di far fronte in futuro ai pagamenti;

3. gli indici di rotazione (o di durata), con i quali otteniamo informazioni sulla tempistica dei

pagamenti

commerciali (sia vendite che acquisti) e sull’efficienza della gestione scorte;

4. gli indici di produttività, significativi dell’efficienza della struttura produttiva aziendale;

5. gli indici di redditività, che informano sulla capacità di creare ricchezza in rapporto al capitale

impiegato.

Gruppo Nome INDICE Significatività

Indici di

struttura

I. di indebitamento Capitale di terzi

-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Totale attivo

Più è basso e meglio è: valori vicini al 75% sono

in genere allarmanti (salvo si tratti di banche o

altre aziende del settore finanziario)

I. di indipendenza Capitale proprio

-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Totale attivo

E’ il complemento a 1 del precedente, pertanto

offre la stessa informazione. Un tempo si esigeva

almeno il 50%, ora spesso si tollera il 25%)

I. di copertura delle

immobilizzazioni (A)

Capitale proprio

-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Immobilizzazioni

Più è alto meglio è; se poi è > di 1 significa che

il capitale netto finanzia anche una parte del

capitale circolante e, di questi tempi, va di lusso.

I. di copertura delle

immobilizzazioni (B)

Capitale proprio + passività consolidate

----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Immobilizzazioni

Se < a 1 è allarmante: significa che una parte di

immobilizzazioni è finanziata da debiti a breve,

e ciò è destabilizzante (anche di questi tempi).

Indici

Finanziari

Indice di disponibilità

(all’inglese: current ratio)

Capitale circolante

--------------------------------------------------------------------------------------------------

Passività a breve termine

Offre la stessa informazione dell’ I. di co-

pertura delle immobilizzazioni “B”, e se è

< di 1 è allarmante: troppe fonti a b./t .

Indice di liquidità o

anche “prova acida”

(all’inglese: quick ratio)

Capitale circolante meno scorte

-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Passività a breve termine

In pratica cassa+crediti a b./t. in rapporto

ai debiti a b.t.: meglio se > di 1, ma valori

di poco inferiori si possono tollerare.

Indici di

rotazione

(di durata)

I. di rotazione dei crediti

Fatturato del periodo

---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Crediti commerc. medi (no iva)

Più è elevato e meglio è: un indice pari a 12

significa che i clienti ci pagano in media a un

mese dalla vendita

gg dilazione media vendite 365 ÷ I. rotazione crediti Offre la stessa informazione del precedente

I. rotazione del magazzino Fatturato del periodo

----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Valore medio scorte

Più è elevato e meglio è: segnala una gestione

del magazzino efficiente

gg medi permanenza scorte 365 ÷ I. rotazione scorte Offre la stessa informazione del precedente

I. rotazione debiti commerc. Acquisti del periodo

----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Debiti medi v/fornitori

Un indice basso (esempio 3), segnala che i

fornitori concedono tempi lunghi (4 mesi)

per pagare gli acuisti.

gg dilazione media acquisti 365 ÷ I. rotazione debiti Offre la stessa informazione del precedente

Indici di

Produttività

R.O.S.

(Return On Sale)

Risultato Operativo Lordo (EBIT)

---------------------------------------------------------------------------------------------------------

Valore della produzione

Rapportando il reddito operativo con la

produzione si individua il rendimento delle

vendite; è quindi un ottimo indicatore della

efficienza produttiva aziendale.

R.O.I.

(Return On Investiment)

Risultato Operativo Lordo (EBIT) -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Capitale investito (al netto di eventuali

valori patrimoniali riferibili ad attività extracaratt.) )

Mentre il R.O.S. evidenzia l’efficienza della

azione produttiva aziendale, il R.O.I., calco-

lando la redditività degli investimenti, misura

efficacemente l’efficienza della struttura pro-

duttiva dell’azienda.

Indici di

Reddittività

Redditività del

capitale investito

Utile netto

---------------------------------------------------------------------------------------

Capitale investito

Tenendo conto, al numeratore, anche dei com-

P ponenti reddituali atipici e straordinari, informa

nel modo più sintetico sulla redditività generale

R.O.E. (Return On Equity)

(in italiano: Redditività del

capitale proprio

Utile netto

-----------------------------------------------------------------------------------

Capitale proprio

Esprime la redditività del cap. di rischio. Va

confrontato con la redditività di investimenti

a rischio simile e a rischio 0 (Bund teutonici).

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9.2) Indici e equilibrio aziendale.

L’analisi per indici contribuisce validamente a comprendere se l’azienda è sana, efficiente ed

equilibrata.

Gli squilibri che eventualmente sono messi in luce dagli indici e che possono rendere non sana

un’azienda potrebbero essere presenti sia sul lato economico, sia su quello finanziario sia su quello

patrimoniale.

a) equilibrio economico: un’azienda è equilibrata economicamente se ottiene profitti soddisfacenti rispetto

al capitale investito;

b) equilibrio finanziario: un’azienda è equilibrata finanziariamente se ha liquidità sufficiente a far fronte

ai propri pagamenti senza dover ricorrere a svendite rovinose, a pagamenti in natura o a prestiti a tassi

eccessivi; in pratica si ha uno squilibrio finanziario se la liquidità immediata non riesce a coprire i debiti a

breve;

c) equilibrio patrimoniale: un’azienda è equilibrata patrimonialmente se non presenta:

• nell’attivo troppe immobilizzazioni;

• nel passivo troppi debiti e soprattutto troppi debiti a breve.

Gli squilibri sono spesso tra loro collegati. Ad esempio:

STATO PATRIMONIALE → CONTO ECONOMICO Troppe immobilizzazioni → Ammortamenti elevati

Troppi debiti → Interessi passivi elevati Troppi debiti a breve → Scarsa liquidità disponibile

Gli indici di struttura sono anche detti “indici patrimoniali” e, ovviamente, servono a misurare

l’equilibrio patrimoniale dell’azienda.

Tra gli indici finanziari possono essere compresi anche gli indici di rotazione, detti anche

“indici di durata”, in quanto hanno comunque a che fare con la gestione dell’attivo circolante (crediti

commerciali e scorte) e del passivo a breve (debiti di fornitura).

Gli “indici di redditività” e gli “indici di produttività” sono entrambi anche detti indici

economici, in quanto il loro scopo è valutare l’equilibrio economico aziendale: i primi (di redditività)

verificano l’economicità complessiva della gestione aziendale, quelli di produttività ne misurano più

direttamente l’efficienza produttiva.

10) La leva finanziaria e i suoi effetti.