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1 Il bilancio. 1) Perché si fa. Dopo tanti studi, e tutti appassionati, dovreste ormai avere imparato che il bilancio d’esercizio ha, principalmente, questi scopi: a) evidenziare, riassunta per voci principali, la struttura patrimoniale (impieghi e fonti) che l’azienda ha alla fine dell’esercizio (= alla fine del periodo di tempo considerato, solitamente al 31/12 di un anno) e così anche determinare il valore del capitale netto; ciò viene fatto nello “Stato Patrimoniale”. b) evidenziare, riassunta per voci principali, la struttura economica aziendale (ricavi e costi) che ha caratterizzato l’azienda nell’esercizio (= nel periodo di tempo considerato, solitamente l’anno) ; e così anche determinare il valore del risultato economico dell’esercizio; ciò viene fatto nel “Conto EconomicoDovreste ormai anche avere capito che il capitale netto e il risultato economico (per i più distratti: il risultato economico è poi il reddito) sono strettamente correlati fra loro, in quanto il reddito è sia la differenza fra ricavi e costi del periodo (meglio: fra valore della produzione ottenuta e valore di ciò che si è consumato e perso mentre si è prodotto [1]), sia la differenza fra il valore finale e il valore iniziale del capitale netto (nell’ipotesi che non siano stati fatti apporti o prelievi [2]). Il reddito ha questo duplice significato perché se produco beni che valgono più di ciò che ho usato (distrutto, consumato) per produrli, allora ho immesso nell’universo un valore una ricchezza, una capacità di soddisfare bisogni che prima non esisteva, e questa creazione di ricchezza viene segnalata dall’incremento di valore dell’azienda produttrice, vale a dire dall’incremento del suo capitale netto (la frase “nulla si crea e nulla si distrugge” è vera in fisica, non in economia; ciò perché la ricchezza non è una grandezza materiale, reale, e quindi non è misurabile in modo oggettivo, dipendendo la sua quantità – e cioè il suo valore – dalla psicologia umana). Poiché il presente è il frutto di ciò che è accaduto nel passato, il bilancio è il risultato ultimo e riassuntivo della rilevazione e registrazione di tutti i fatti che sono accaduti in azienda, fatti che sono stati ordinatamente memorizzati allo scopo di conoscere quale è la situazione aziendale e quale è il percorso che ha portato a quella situazione, in modo da poter prendere le decisioni più giuste perché, come dice il saggio, “nulla si può governare (e quindi nemmeno l’azienda) se non lo si conosce”. [1] A 17 o 18 (19, 20, 21 ecc.) anni, è ormai tempo di superare gli insegnamenti dell’infanzia e quindi non credere più alla cretinata che “il guadagno è uguale al ricavo di vendita meno la spesa d’acquisto”. Il guadagno, inteso come reddito e quindi anche come incremento di ricchezza, non dipende dalle vendite e dagli acquisti, e ancor meno dagli incassi e dai pagamenti. Se l’AIRPADANIA nel gennaio 2016 inizia l’attività di vettore aereo comprando dei jumbo per 300 milioni di euro e impegnandosi a pagarli fra un anno (o anche pagandoli in contanti), non diventa per questo più povera, bensì trasforma soltanto il suo patrimonio: prima era senza aerei e senza debiti (o con più denaro in cassa) e ora ha aerei e debiti di valore equivalenti e opposti; diventerebbe più povera se i jumbo precipitassero o arrugginissero fermi negli hangar, e questo anche se non avesse pagato ancora l’acquisto. I costi sono il consumo dei fattori produttivi (e l’eventuale perdita dei valori attivi patrimoniali) , non sono gli acquisti; (ditelo, a chi vi ha insegnato la corbelleria del guadagno uguale al ricavo di vendita meno la spesa d’acquisto!) Se la Boeing (azienda produttrice di aerei) nel gennaio 2016 vende dei jumbo per 300 milioni di euro all’ AIRPADANIA, non diventa per questo più ricca, bensì trasforma soltanto il suo patrimonio: prima aveva più aerei in magazzino (prodotti, ipotizziamo, nel 2015) e meno crediti, e ora ha meno scorte di prodotti e più crediti. I 300 milioni di ricavi (di componenti positivi del reddito) li ha ottenuti nel 2015 costruendo gli aerei, e se per costruirli ha utilizzato lavoro, materiali e altri input per 260 milioni allora si è arricchita, nel 2015, di 40 milioni (anche se, come vedremo a pagina 7, per il principio della prudenza non può evidenziare questo utile nel bilancio del 2015 ma dovrà attendere il 2016). L’elemento positivo del reddito è il valore di ciò che si produce (e l’eventuale incremento di valore dei beni patrimoniali) non le vendite; (riditelo a chi vi ha distorto le idee con la corbelleria di G uadagno = R icavo vendita – C osto acqisto !) [2] Reddito del periodo dal 1.1.2016 al 31.12.2016 = C. N. 31/12/16 – C. N. 1/1/2016 + Prelievi 2016 – Apporti 2016 . La formula risulta più comprensibile se, cambiando il segno dei termini che spostiamo da una parte all’altra dell’= (come avete imparato in matematica) viene vista in questo modo: C.N. 31/12/16 = C.N. 1/1/2016 + Reddito 2016 + Apporti 2016 – Prelievi 2016 . Messa così, la si legge: la ricchezza aziendale alla fine dell’anno è pari alla ricchezza aziendale che c’era all’inizio + la ricchezza creata dall’azienda nell’anno + l’eventuale ricchezza proveniente dall’esterno e immessa in azienda nell’anno (gli apporti) e meno l’eventuale ricchezza estratta dall’azienda durante l’anno (i prelievi).

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Il bilancio.

1) Perché si fa. Dopo tanti studi, e tutti appassionati, dovreste ormai avere imparato che il bilancio d’esercizio

ha, principalmente, questi scopi:

a) evidenziare, riassunta per voci principali, la struttura patrimoniale (impieghi e fonti) che

l’azienda ha alla fine dell’esercizio (= alla fine del periodo di tempo considerato, solitamente al 31/12 di un anno) e

così anche determinare il valore del capitale netto; ciò viene fatto nello “Stato Patrimoniale”.

b) evidenziare, riassunta per voci principali, la struttura economica aziendale (ricavi e costi) che

ha caratterizzato l’azienda nell’esercizio (= nel periodo di tempo considerato, solitamente l’anno); e così anche

determinare il valore del risultato economico dell’esercizio; ciò viene fatto nel “Conto Economico”

Dovreste ormai anche avere capito che il capitale netto e il risultato economico (per i più distratti:

il risultato economico è poi il reddito) sono strettamente correlati fra loro, in quanto il reddito è sia la differenza

fra ricavi e costi del periodo (meglio: fra valore della produzione ottenuta e valore di ciò che si è consumato e perso mentre

si è prodotto [1]), sia la differenza fra il valore finale e il valore iniziale del capitale netto (nell’ipotesi che non

siano stati fatti apporti o prelievi [2]). Il reddito ha questo duplice significato perché se produco beni che

valgono più di ciò che ho usato (distrutto, consumato) per produrli, allora ho immesso nell’universo un valore

– una ricchezza, una capacità di soddisfare bisogni – che prima non esisteva, e questa creazione di

ricchezza viene segnalata dall’incremento di valore dell’azienda produttrice, vale a dire dall’incremento del

suo capitale netto (la frase “nulla si crea e nulla si distrugge” è vera in fisica, non in economia; ciò perché la ricchezza non è una

grandezza materiale, reale, e quindi non è misurabile in modo oggettivo, dipendendo la sua quantità – e cioè il suo valore – dalla psicologia

umana).

Poiché il presente è il frutto di ciò che è accaduto nel passato, il bilancio è il risultato ultimo e

riassuntivo della rilevazione e registrazione di tutti i fatti che sono accaduti in azienda, fatti che sono stati

ordinatamente memorizzati allo scopo di conoscere quale è la situazione aziendale e quale è il percorso che

ha portato a quella situazione, in modo da poter prendere le decisioni più giuste perché, come dice il

saggio, “nulla si può governare (e quindi nemmeno l’azienda) se non lo si conosce”.

[1] A 17 o 18 (19, 20, 21 ecc.) anni, è ormai tempo di superare gli insegnamenti dell’infanzia e quindi non credere più alla cretinata che “il guadagno è uguale al ricavo di vendita meno la spesa d’acquisto”. Il guadagno, inteso come reddito e quindi anche come incremento di ricchezza, non dipende dalle vendite e dagli acquisti, e ancor meno dagli incassi e dai pagamenti.

Se l’AIRPADANIA nel gennaio 2016 inizia l’attività di vettore aereo comprando dei jumbo per 300 milioni di euro e impegnandosi a pagarli fra un anno (o anche pagandoli in contanti), non diventa per questo più povera, bensì trasforma soltanto il suo patrimonio: prima era senza aerei e senza debiti (o con più denaro in cassa) e ora ha aerei e debiti di valore equivalenti e opposti; diventerebbe più povera se i jumbo precipitassero o arrugginissero fermi negli hangar, e questo anche se non avesse pagato ancora l’acquisto. I costi sono il consumo dei fattori produttivi (e l’eventuale perdita dei valori attivi patrimoniali), non sono gli acquisti; (ditelo, a chi vi ha insegnato la corbelleria del guadagno uguale al ricavo di vendita meno la spesa d’acquisto!) Se la Boeing (azienda produttrice di aerei) nel gennaio 2016 vende dei jumbo per 300 milioni di euro all’

AIRPADANIA, non diventa per questo più ricca, bensì trasforma soltanto il suo patrimonio: prima aveva più aerei in

magazzino (prodotti, ipotizziamo, nel 2015) e meno crediti, e ora ha meno scorte di prodotti e più crediti. I 300 milioni di ricavi (di componenti positivi del reddito) li ha ottenuti nel 2015 costruendo gli aerei, e se per costruirli ha utilizzato lavoro, materiali e altri input per 260 milioni allora si è arricchita, nel 2015, di 40 milioni (anche se, come vedremo a

pagina 7, per il principio della prudenza non può evidenziare questo utile nel bilancio del 2015 ma dovrà attendere il 2016). L’elemento positivo del reddito è il valore di ciò che si produce (e l’eventuale incremento di valore dei beni patrimoniali) non le vendite; (riditelo a chi vi ha distorto le idee con la corbelleria di Guadagno = Ricavo vendita – Costo acqisto!)

[2] Reddito del periodo dal 1.1.2016 al 31.12.2016 = C. N.31/12/16 – C. N.1/1/2016 + Prelievi2016 – Apporti2016 . La formula risulta più comprensibile se, cambiando il segno dei termini che spostiamo da una parte all’altra dell’= (come avete imparato in matematica) viene vista in questo modo:

C.N.31/12/16 = C.N.1/1/2016 + Reddito2016 + Apporti2016 – Prelievi2016 . Messa così, la si legge: la ricchezza aziendale alla fine dell’anno è pari alla ricchezza aziendale che c’era all’inizio + la ricchezza creata dall’azienda nell’anno + l’eventuale ricchezza proveniente dall’esterno e immessa in azienda nell’anno (gli apporti) e meno l’eventuale ricchezza estratta dall’azienda durante l’anno (i prelievi).

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2) Perché lo si rende pubblico.

E’ l’esigenza di conoscere, l’esigenza di avere e di dare informazioni, che porta alla redazione

del bilancio. Il bilancio viene redatto dagli amministratori, approvato dall’assemblea dei soci (se l’azienda veste

l’abito giuridico di società) e poi reso pubblico per dare informazioni a chiunque sia interessato, e i soggetti che sono

maggiormente interessati al bilancio sono:

a) i soci (i proprietari dell’azienda), che anche sulla base del bilancio valutano le capacità degli amministratori e, in

assemblea, decidono se conservare o togliere loro l’incarico;

b) lo stato, che anche sulla base del bilancio determina quante imposte l’azienda deve pagare;

c) le banche, che anche sulla base del bilancio stabiliscono quanto credito concedere all’azienda;

d) i fornitori, che anche sulla base del bilancio decidono quanto credito di fornitura concedere al cliente.

Oltre a questi soggetti, possono poi essere interessati a conoscere il bilancio anche:

e) i risparmiatori, per valutare l’opportunità di investire la loro liquidità diventando soci (azionisti, in caso di

azienda con forma giuridica di S.p.A.) oppure creditori (obbligazionisti, la veste più usuale dei finanziatori non aziende di credito) dell’azienda;

f) i dipendenti e i loro sindacati, anche al fine di meglio modulare le pretese salariali;

g) i concorrenti, anche per meglio pianificare la propria attività;

h) i clienti, per valutare l’affidabilità del loro fornitore;

i) i giornalisti, i curiosi e altri rompicoglioni, per le ragioni più varie.

In considerazione del fatto che vi è un interesse generale alla conoscenza dei bilanci, la legge

impone (anche se alle sole società di capitali, perché le società di persone a ancor più le ditte individuali di solito gestiscono aziende di dimensioni minori

e anche perché nelle aziende operanti con la veste giuridica di società di persone o di ditta individuale i debiti aziendali sono “garantiti” anche dal patrimonio

personale dei soci o dell’imprenditore) di renderli pubblici attraverso il loro deposito nel “Registro delle imprese” tenuto

dalla C.C.I.A.A. (camera di commercio, per i pignoli Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura, ente pubblico della cui inutilità tutti,

tranne me e pochi altri, fanno finta di non accorgersi). Al prezzo di pochi euro chiunque può accedere, anche via Internet, ai

bilanci depositati.

3) Un esempio di bilancio “ufficiale” (nel senso di reso pubblico)

E’ evidente che se c’è un bilancio “ufficiale” allora ce n’è anche uno “ufficioso”, e in effetti il

bilancio che si deposita in CCIAA affinché gli interessati possano leggerlo (i soggetti visti prima alle lettere da a) ad i)) è

diverso da quello “interno” conosciuto solo da una ristretta cerchia di persone (in genere gli amministratori, i soci più

importanti e i principali collaboratori, sia dipendenti che autonomi, dell’azienda).

Non dovete, però, subito pensar male: il bilancio “interno” non di rado non differisce da quello

divulgato, nel senso che entrambi non di rado indicano uno stesso utile e un identico capitale netto, e anche

tutti gli altri dati che appaiono in quello depositato trovano conferma nel bilancio “interno”. Ciò non toglie

che quest’ultimo sia diverso perché contiene più dati e più dettagliati, informazioni che la legge non

impone di evidenziare e che quindi l’azienda si guarda bene dall’esporre al pubblico (perché la loro conoscenza da

parte, ad esempio, dei suoi concorrenti la danneggerebbe, come la suddivisione delle vendite per aree geografiche o per canale distributivo, oppure il mark up

(cioè il ricarico sul costo di acquisto) per linea di prodotto ecc.).

Vero è, però, che i dati “ufficiali” sono altrettanto non di rado diversi da quelli “interni”, e questo

capita soprattutto per due diverse ragioni: 1. per pagare meno imposte; 2. per ottenere più facilmente

credito. Quando l’obiettivo è l’1. allora si tende a mostrare ai terzi un’immagine peggiore di quella che si

ritiene di avere realmente, e quindi si sottovaluta l’attivo patrimoniale e si nascondono dei ricavi o ci si

inventa dei costi. Quando invece l’obiettivo è il 2. allora si cerca di gonfiare l’attivo patrimoniale e

conseguentemente nascondere dei costi e/o gonfiare dei ricavi. Nel caso 1. il capitale netto e l’utile

ufficiale saranno minori di quelli che si ritiene corretti, nel caso 2. saranno maggiori.

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Qui sotto vi riporto il bilancio depositato qualche anno fa (è relativo all’esercizio chiuso il 31/12/2009) da

un’azienda che commercia nel settore informatico.

Situazione patrimoniale al 31/12/2009 - attivo - 2009 2008

A) CREDITI V/SOCI PER VERSAM. DOVUTI zero Zero

B I) Immobilizzazioni immateriali

4) Concessioni, licenze e diritti simili 93.659 83.585

fondo ammortamento - 85.520 - 79.526

Concessioni e licenze nette 8.139 4.060

7) Altre immobilizzazioni immateriali 16.205 16.205

fondo ammortamento - 16.205 - 16.205

Altre immob. Immateriali nette - -

B I) Totale immobilizzazioni immateriali 8.139 4.060

B II) Immobilizzazioni materiali

1) Fabbricati 1.292.545 1.292.545

fondo ammortamento - 52.331 - 13.555

Fabbricati netti 1.240.214 1.278.990

2) Impianti e macchinari 71.948 67.084

fondo ammortamento - 64.640 - 62.756

Impianti e macchinari netti 7.308 4.328

3) Attrezzature 1.291 1.291

fondo ammortamento - 1.291 - 1.291

attrezzature nette - -

4) Altri beni 189.008 173.688

fondo ammortamento - 155.968 - 145.773

altri beni netti 33.041 27.915

B II) Totale immobilizzazioni materiali 1.280.562 1.311.232

B III) Immobilizzazioni finanziarie

1a) Partecipazioni in controllate 1 1

1b) Partecipazioni in collegate 495.000 495.000

Altre partecipazioni 29 29

B III) Totale immobilizzazioni finanziarie 495.030 495.030

B) TOTALE IMMOBILIZZAZIONI 1.783.731 1.810.322

C I) Rimanenze

4) Merci 707.064 456.191

C I) Totale rimanenze 707.064 456.191

C II) Crediti

1) Crediti v/clienti 5.139.825 6.025.155

di cui esigibili oltre i 12 mesi - -

fondo svalutazione crediti - 28.276 - 35.000

Crediti v/clienti netti 5.111.549 5.990.155

2) Crediti verso imprese controllate 98.342 154.568

3) Crediti verso imprese collegate 289.349 280.597

4b) Crediti tributari 6.517 6.541

5) Altri crediti < 12 mesi 7.714 3.501

C II) Totale crediti 5.513.470 6.435.362

C IV) Disponibilità liquide

1) Conti correnti bancari e postali 3.646 3.798

2) Assegni - -

3) Cassa 304 247

C IV) Totale disponibilità liquide 3.950 4.045

C) TOTALE ATTIVO CIRCOLANTE 6.224.484 6.895.597

D) Ratei e risconti

a) Ratei attivi

b) Risconti attivi 13.139 12.957

D) TOTALE RATEI E RISCONTI 13.139 12.957

TOTALE ATTIVO (A+B+C+D) 8.021.354 8.718.875

Situazione patrimoniale al 31/12/2009: passivo e netto. 2009 2008

A) Patrimonio netto

I Captale sociale 50.000 50.000

Riserva di rivalutazione DL 185/2008 1.174.112 1.174.112

IV Riserva legale 25.847 25.847

VII Altre riserve 196.189 185.669

di cui per versamenti soci a fondo perduto 121.570 121.570

VIII Perdite portate a nuovo -

IX Risultato dell'esercizio - 30.213 10.520

A) TOTALE PATRIMONIO NETTO 1.415.935 1.446.148

B) TOTALE FONDI PER RISCHI ED ONERI zero Zero

C) Trattamento di fine rapporto

Fondo t.f.r. dipendenti 127.560 96.708

C) TOTALE TRATTAMENTO di FINE RAPPORTO 127.560 96.708

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D) Debiti 2009 2008

4a) Debiti v/banche < 12 mesi 2.212.534 2.314.772

4b) Debiti v/banche > 12 mesi 336.890 434.759

4) Totale debiti v/banche 2.549.425 2.749.531,26

6) Acconti (anticipi da clienti) - -

7) Debiti v/fornitori 3.669.168 4.126.796

12) Debiti tributari 91.985 143.849

13) Debiti v/istituti previdenziali 27.087 19.010

14) Altri debiti 134.769 131.408

D) TOTALE DEBITI 6.472.434 7.170.595

E) Ratei e risconti

1) Ratei passivi 5.425 5.425

2) Risconti passivi - -

E) TOTALE RATEI E RISCONTI 5.425 5.425

TOTALE PASSIVO E NETTO (A+B+C+D+E) 8.021.354 8.718.875

Conto conomico esercizio 1/1/2009 - 31/12/2009 2009 2008

A) Valore della produzione

1) Ricavi delle vendite e delle prestazioni 15.092.583 15.435.710

2) Variazione di servizi in corso di lavorazione - -

5) Altri ricavi e proventi 45.267 33.963

A) TOTALE VALORE DELLA PRODUZIONE 15.137.851 15.469.673

B) Costi della produzione

6) Merci, materie sussidiarie e di consumo 13.506.631 13.683.815

7) Servizi 698.874 733.484

7a) di cui servizi industriali 507.261 433.265

altri servizi 191.613 300.219

8) Godimento beni di terzi 55.274 58.622

9) Personale 871.107 567.921

9a) di cui salari e stipendi 683.026 405.533

9b) oneri sociali 153.399 134.050

9c) trattamento di fine rapporto 34.131 27.877

9e) altri costi 552 461

10a) Ammortamenti immobilizzazioni 58.300 22.250

di cui amm.immob.immateriali 5.994 4.853

amm.immob.materiali 52.306 17.398

10b) Svalutazione crediti commerciali 27.686 27.382

11) Variazione rimanenze materie -250.873 173.415

14) Oneri diversi di gestione 23.723 22.238

B) TOTALE COSTI DELLA PRODUZIONE 14.990.722 15.289.128

Differenza tra valore e costi produz. (A - B) 147.129 180.545

C) Proventi e oneri finanziari

16) interessi e altri proventi finanziari - 1.282 - 130

di cui:

interessi attivi banca e posta - 40 - 130

interessi attivi diversi a) 1.242 0

16 bis) Proventi su cambi - -

17) Interessi e altri oneri finanziari 113.429 106.997

di cui:

costi per finanziamenti bancari in euro 113.429 106.997

altri costi per finanziamenti

C) TOTALE PROVENTI E ONERI FINANZIARI 112.147 106.867

D) RETTIFICHE di VALORE di ATTIVITA' FINANZ. zero - -

E) Proventi e oneri straordinari - -

E) TOTALE PROVENTI E ONERI STRAORDINARI - -

RISULTATO PRIMA DELLE IMPOSTE 34.981 73.678

22) Imposte sul reddito d'esercizio 65.194 63.158

23) RISULTATO DELL'ESERCIZIO - 30.213 10.520

Il presidente del C.d.A.

Reggio nell'Emilia, 31 marzo 2010

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4) Sulla correttezza e l’attendibilità dei bilanci.

Quello riportato sopra è un esempio di bilancio “ufficiale” che, nei risultati finali, si discosta

veramente di pochissimo da quello “interno”, e ciò perché quest’azienda non aveva (i dati sono relativi a qualche

anno fa) particolari problemi né in termini di imposte da pagare (le imposte calcolate non ne mettevano a rischio la sopravvivenza,

come invece sempre più spesso capita (comunque vi faccio notare che, facendo la media dei due anni, questa azienda pagava 64.000 € di imposte sul reddito quando il suo reddito lordo medio era di circa 58.000, quindi per lei l’aliquota REALE era di oltre il 110%! E poi sul libri, sui giornali e alla

televisione vi raccontano che l’aliquota sul reddito d’impresa è meno del 30%!)), né dal punto di vista dell’accesso al

finanziamento bancario e di fornitura (l’azienda, ben nota nel settore da molti anni e da sempre puntualmente rispettosa degli impegni

contrattuali, godeva di un elevato “standing creditizio”, come si può dedurre dal basso tasso di interesse che le banche le applicavano (circa il 4,1% come media dei due anni, e qui di fianco lascio lo spazio per riportare i dati e i calcoli da cui risulta questo numero ................................... ........................................................................................................................ ...........) ed era quindi tra le non molte aziende che in quel periodo (ma anche in questo ...) potevano rendere pubblica l’immagine risultante da valutazioni fatte in buona

fede).

Notate che, riferendomi al bilancio, mai mi sono espresso con gli aggettivi “giusto”, “vero”,

“reale” o “esatto”, e già sapete il motivo: semplicemente, il bilancio vero e reale non esiste e quindi non è

conoscibile.

L’unico bilancio “vero”, “esatto”, “reale” che si può fare è quello dell’azienda che non esiste più

perché già morta e “liquidata”, cioè trasformata in denaro contante. Già quando eravate piccoli, in terza,

dopo avervi raccontato le drammatiche vicende dell’azienda “Pierinoceronti” vi scrivevo:

“… se diamo l’incarico a 10 diversi periti, tutti ugualmente capaci ed onesti, di stabilire quale è il patrimonio netto di una certa azienda in un certo momento, o qual è l’utile di un certo periodo, riceveremo 10 risposte diverse, e tra di loro anche fortemente differenziate.

Questo perché le risposte sono pesantemente influenzate da valutazioni e stime che dipendono necessariamente da considerazioni e modi di ragionare assolutamente personali: quanto valgono i prodotti già finiti ma che non siamo ancora riusciti a vendere al prezzo che intendevamo applicare? Quanto valgono, adesso, le attrezzature acquistate l’anno scorso per 145.000 euro e che, forse, potremo utilmente adoperare ancora per cinque anni? Quanto vale il brevetto da noi depositato, che ci permette di adottare in esclusiva nei prossimi 10 anni un certo processo produttivo? Quanto vale, ammesso che valga ancora qualcosa, il credito di 200.000 euro che vantiamo verso quel cliente che ha delle difficoltà finanziarie? Quale è il valore (negativo) del risarcimento che saremo costretti a dare a quella casalinga di Voghera che ci ha fatto causa perché è rimasta sfregiata al volto a causa di un difetto di fabbricazione di un nostro frullatore? ecc. ecc. ......

In effetti, una valutazione oggettiva (certa e esatta) del capitale netto può essere fatta unicamente dopo aver “liquidato” l’azienda, cioè dopo aver:

a) venduto tutti i beni attivi aziendali, b) incassato il prezzo di vendita, e c) aver saldato tutti i debiti;

in pratica, dopo avere trasformato l’intero patrimonio in denaro contante. Il denaro che rimane in cassa dopo queste operazioni darà la misura – questa volta, finalmente, certa – del patrimonio netto che l’azienda durante la sua vita aveva accumulato: soltanto dopo la liquidazione, infatti, non c’è più la necessità di fare delle stime e delle considerazioni soggettive, essendo il valore del denaro contante un dato certo.

Ed allora è anche vero che l’unico periodo di cui può essere calcolato con certezza l’utile è quello che va dalla nascita alla liquidazione dell’azienda, cioè il periodo che copre l’intera vita dell’impresa: questo perché è l’unico periodo di tempo dei cui due estremi sono noti, con certezza, gli importi del capitale netto.

Vi faccio notare, però, che liquidare un’azienda significa farla morire, ed uccidere un organismo per verificare con l’autopsia se era sano o malato, cioè se stava producendo utili od accumulando perdite, se stava quindi creando o

distruggendo ricchezza, è cosa assai poco ragionevole.

Necessariamente, allora, occorre fare delle verifiche periodiche durante la vita dell’azienda, e queste verifiche le si fa redigendo il cosiddetto “bilancio” aziendale.”

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Quando si dice che il bilancio è la descrizione, l’immagine dell’azienda [la sua fotografia in un certo istante

(questo è lo stato patrimoniale) e il filmato di ciò che ha fatto in un certo periodo (e questo è il conto economico)] lo si dice per semplicità, ma

chi ha compreso la ragioneria sa che questa immagine invece di uno scatto fotografico è un quadro dipinto,

e invece di un filmato ripreso è un racconto scritto.

Chi sa di ragioneria e di economia sa che la rappresentazione di una azienda non può che essere

offerta che per “valori”, e che questi valori sono tutti non oggettivi [con le sole eccezioni delle banconote in €, dei saldi attivi

di c/c (ma nel caso di gravi crisi finanziarie globali nemmeno questi possono essere considerati valori oggettivi, perché i depositi bancari cessano di essere sicuri, almeno – in

Italia ma non solo – la parte che supera i 100.000 €), e dei debiti pure in euro] in quanto frutto di stime e di impressioni di chi si è

assunto il compito e la responsabilità di fare il bilancio, allo stesso modo in cui la “Gioconda” è la

rappresentazione di Monna Lisa Gherardini così come la mente di Leonardo la vedeva, o il “De bello

Gallico” riporta i fatti accaduti più di duemila anni fa nella Gallia nel modo in cui Giulio Cesare li

ricordava.

Chi sa di ragioneria sa quindi che, non esistendo il “giusto prezzo” delle cose, non si può

pretendere un bilancio “giusto”, e sa anche che ciò che legittimamente si può e si deve pretendere è

unicamente un bilancio fatto bene e onesto, che vuol dire fatto senza errori causati da incapacità

professionale e redatto con l’intento di informare correttamente i terzi, e non quindi con la volontà di far

credere loro cose diverse da quelle che chi lo redige, in coscienza, pensa siano vere (ma che altri potrebbero giudicare

anche piuttosto diversamente da come le vede e le rappresenta nelle varie voci di bilancio).

Solo quando le valutazioni non sono fatte “in buona fede” ma, al contrario, con “dolo”, cioè con

l’intento di nascondere e camuffare quella che si ritiene l’immagine realistica, allora il bilancio che ne

risulta è un bilancio “falso”.

Quando, invece, le valutazioni sono fatte sì in buona fede, ma sono basate su considerazioni

inusuali e frutto di percorsi scarsamente logici o troppo fantasiosi, allora il bilancio che ne risulta è un

bilancio “inattendibile”.

Considerando la natura tendenzialmente ottimista, visionaria e volitiva degli imprenditori [il rischio d’impresa è ineliminabile (a meno di avere agganci con la politica) e i pessimisti difficilmente si avventurano in iniziative che non garantiscono risultati

positivi, ed ecco perché li si trova più spesso fra i lavoratori dipendenti, e i più prudenti fra essi si concentrano fra i dipendenti pubblici; se poi il prudente è anche visionario e volitivo, allora lo si incontra spessissimo fra coloro – ahimè sempre troppi – che vivono di politica, cioè alle spalle di chi, imprenditore o

dipendente che sia, vive di economia] risulta evidente come il confine fra bilancio falso e bilancio inattendibile sia

inevitabilmente nebuloso: per l’imprenditore i 2 milioni di euro che l’azienda ha speso nel 2015 (fra stipendi e

altri costi) in ricerca e sviluppo del prodotto innovativo che sarà lanciato sul mercato il prossimo anno sono un

investimento, ed è in buona fede quando li mette in “dare” dello stato patrimoniale tra le attività

immobilizzate, cioè tra i fattori produttivi in grado di offrire utilità in futuro (assimilandoli in questo modo a una

attrezzatura o a un camion che, acquistati nel 2015, saranno usati nei prossimi anni), e quindi li toglie dal “dare” del conto

economico, cioè li toglie dai costi di competenza del 2015 (per non metterli insieme agli stipendi e agli altri costi relativi ai prodotti

venduti nell’anno, proprio perché quei 2 milioni sono un costo relativo alle vendite che si otterranno nei prossimi anni). Se, però, nel 2016 il

mercato non risponde come ottimisticamente riteneva l’imprenditore e boccia il prodotto che così viene

ritirato, allora ne risulta che i 2 milioni di euro inseriti nell’attivo patrimoniale nel bilancio 2015 erano

fasulli: la loro reale natura era di “costo” e non di “investimento”, e quindi nel bilancio 2015 dovevano

apparire nel conto economico. Solo ora, nel 2016, è certo che il bilancio del 2015 è stato sbagliato, ma chi

può dire se la causa è stata un errore di valutazione commesso in buona fede (nello stimare le potenzialità del nuovo

prodotto) o piuttosto se c’era l’intenzione di convincere le banche a continuare a finanziare l’azienda anche

ben sapendo che i 2 milioni si erano già volatilizzati?

Sicuramente la verità sta da una qualche parte fra questi due estremi, ma chi è in grado di

stabilire se, nel caso concreto, nella mente di chi redigeva il bilancio prevaleva l’ottimismo e la buona fede

oppure la malizia e l’intento di ingannare i creditori?

Solo chi è massimamente presuntuoso o chi ha un forte istinto prevaricatore può pensare di

riuscire a capirlo, e infatti questo ruolo è affidato ai magistrati, categoria che più di ogni altra assomma in

sé entrambe le caratteristiche.

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5) I due princìpi base della valutazione: la prudenza e la continuità.

Per cercare di ridurre le potenziali conseguenze negative derivanti da un eccesso di ottimismo o

da un difetto di onestà in chi redige il bilancio, e quindi per cercare di tutelare chi lo legge, la ragioneria ha

stabilito che le valutazioni debbano rispettare il

“principio della prudenza”. In base a questo principio:

o la creazione di valore (l’utile) derivante dall’attività svolta in un periodo può essere considerata

nel bilancio di quel periodo solo se ciò che è stato prodotto è stato anche venduto nel periodo.

Così, se – grazie alla casuale scoperta della pietra filosofale – nel 2014 sono riuscito a trasformare senza altri

costi un chilo di piombo (acquistato a 2 €) in un chilo d’oro (il cui valore di mercato è 28.000 €), ma al 31

dicembre non ho ancora venduto l’oro prodotto, nel bilancio 2014 non posso segnalare l’utile di 27.998

€, non posso cioè inserire i 28.000 € di valore dell’oro al 31.12.2014 nel “dare” del conto patrimoniale

“scorte di prodotti” (e nell’”avere” del conto di reddito, cioè nel valore della produzione, alla voce “variazione delle

scorte di prodotti”); dovrò, invece, valutare le rimanenze finali di prodotti solo 2 €, perché non avendolo

ancora venduto, quell’oro deve essere prudentemente valutato al minore fra il costo di produzione

(2 €) e il valore di mercato (28.000). In questo modo, e supponendo che l’oro sia poi venduto nel 2015

proprio a 28.000 €, i 27.998 € di utile realizzato (di valore creato) nel 2014 saranno evidenziati nel

bilancio del 2015 (28.000 € di ricavi di vendita meno 2 € di costi (le rimanenze iniziali (al 1.1.2015) di scorte di prodotti

che, nel 2015, usciranno dal dare del conto patrimoniale “scorte di prodotti” per finire nel dare del conto di reddito

“variazione delle scorte di prodotti”), mentre nel bilancio 2014 l’operazione “pietra filosofale” chiuderà in

pareggio (2 € di valore della produzione e 2 € di costi della produzione).

o Le distruzioni di valore (le perdite) devono essere segnalate in bilancio anche quando sono solo

temute e non si è ancora certi di averle subite. Se il 31 dicemnre 2015 abbiamo crediti per 100.000 €

che scadono nel giugno 2016 e sono garantiti parzialmente da una fidejussione bancaria a prima

chiamata (o, se il cliente è estero, da una lettera di credito stand by) di 60.000 €, e prima della redazione del

bilancio 2015 (che, in genere, è completato nei mesi di marzo-aprile) veniamo a conoscenza del fatto che quel cliente

è in difficoltà finanziarie, allora dobbiamo già mettere in bilancio quantomeno la perdita di 40.000 €,

anche se non l’abbiamo ancora subita e le possibilità che in giugno il cliente paghi esistono ancora.

La ratio (si legge razio, e sta per “ragion d’essere”, per “fine che si prefigge”) del principio di prudenza è

chiaramente quella di fare in modo che chi vuole farsi un’idea della salute di un’azienda abbia più

probabilità, leggendone il bilancio, di ricavarne un’immagine meno attraente di quanto probabilmente sia, e

quindi adotti comportamenti più cauti nel relazionarsi con essa.

L’altro principio basilare cui occorre attenersi nelle valutazioni di bilancio è quello della

“continuazione dell’attività aziendale”, vale a dire che nel valutare gli elementi patrimoniali e reddituali

dell’azienda bisogna ipotizzare che essa sia destinata a operare per un tempo indefinito (se, invece, si fa il

bilancio dell’azienda nella consapevolezza che la sua attività cesserà, allora occorre evidenziare data e causa della futura morte e

adottare i criteri valutativi più adeguati al caso, criteri che spesso portano a valori significativamente differenti (e minori) da

quelli che si sarebbero ottenuti in caso di continuazione).

Supponiamo che a metà dicembre 2015 un taxista acquisti un’auto nuova per 20.000 € e poi nelle

due successive settimane spenda altri 2.000 per adattarla all’attività (installazione dell’insegna, colore vistoso,

tassametro, rice-trasmittente) e altri 8.000 per il sedile posteriore anti rapina (con carica esplosiva per l’espulsione

rapida del passeggero-rapinatore). Il valore al 31.12.2015 del taxi nuovo, cioè il valore dell’investimento fatto, lo

possiamo stimare in 30.000 € (20.000 + 2.000 + 8.000) solo se ipotizziamo che quell’auto sarà utilizzata negli

anni futuri come fattore produttivo all’interno dell’attività del taxista, cioè solo se supponiamo che

quell’azienda continui a operare: se manca questa ipotesi, allora il valore di quell’auto, per essere onesto e

prudente, sarà certamente inferiore a 20.000 €, in quanto a quella cifra si compra lo stesso modello di auto

senza tutte quelle modifiche che la deprezzano agli occhi dei potenziali acquirenti (anche agli occhi dei taxisti

concorrenti, ché nessuno di loro dà al sedile espellibile un gran valore). Insomma: se siamo nell’ottica della

“continuazione dell’azienda” allora, tenendo conto che quel particolare automezzo sarà utilizzato nei

prossimi anni per lo scopo per il quale lo abbiamo appena acquistato, nel bilancio al 31.12.2015 lo

valutiamo 30.000 € (e, nei bilanci successivi, gradualmente sempre meno registrandone l’ammortamento); se, invece,

usciamo dall’ottica della continuazione dell’azienda, se ipotizziamo cioè che cesseremo l’attività di taxisti,

allora dobbiamo valutare l’automezzo in vista della sua vendita, e quindi non possiamo certamente dargli

un valore, al 31 dicembre 2015, superiore a 20.000 €.

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6) A cosa serve l’analisi di bilancio.

Nella forma in cui viene reso pubblico, il bilancio non è del tutto adatto a offrire informazioni

che rispondano efficacemente a domande del tipo “quell’azienda riuscirà a pagare i suoi debiti?”, oppure

“è efficiente la sua struttura produttiva?”, o anche “quanto è opportuno pagare per diventarne proprietario

di una quota?” o altre analoghe curiosità che albergano nella mente dei curiosi incontrati a pagina 2.

Per agevolare la ricerca delle risposte a tali domande si procede così con “l’analisi del bilancio”.

L’analisi di bilancio è l’attività che, attraverso l’elaborazione dei dati di bilancio e la loro

comparazione nel tempo (il confronto fra i dati di anni diversi) e nello spazio (il confronto con i dati di altre aziende)

porta a ottenere informazioni sulla impresa e sulla sua gestione.

L’analisi di bilancio è soprattutto utile ai terzi (nel senso di soggetti esterni rispetto l’azienda), in quanto

gli amministratori hanno a disposizione informazioni e strumenti (ricavati dalla contabilità analitica, dai budget e,

in generale, dal controllo di gestione) ben più efficaci della elaborazione dei dati evidenziati dal bilancio reso

pubblico.

I terzi, cioè tutti quei soggetti visti a pagina 2 da a) a i) (a parte b), ché allo stato non gliene frega niente di

come sta l’azienda avendo come unico scopo quello di spennarla il più possibile), invece, per formulare un giudizio

sulla “salute” dell’azienda spesso non hanno altri dati da utilizzare se non quelli resi pubblici con il

deposito del bilancio d’esercizio. E così, avendo poche informazioni disponibili, è opportuno cercare di

usarle nel modo più efficace, e per far questo si incomincia con la riclassificazione del bilancio (vedi il

prossimo paragrafo) per poi approdare alla determinazione degli indici di bilancio (che vedremo al paragrafo 9)).

7) La riclassificazione del bilancio.

Ho già scritto che per meglio analizzare un bilancio è opportuno rielaborarne le voci, sia dello

stato patrimoniale che del conto economico, in modo da poterne più agevolmente trarre valide informazioni

utili anche per fare confronti.

Gli scopi della riclassificazione del bilancio d’esercizio sono quindi principalmente tre:

1) Ricercare alcune grandezze espressive della gestione (come, ad esempio, il valore aggiunto o il reddito

operativo) che non appaiono tra i dati del bilancio ufficiale;

2) Rendere omogenei i dati per consentire il loro confronto nel tempo e nello spazio, e quindi

consentire l’individuazione dei trend di medio periodo e il confronto con altre aziende;

3) Separare gli elementi attinenti la gestione caratteristica e ordinaria dell’impresa da quelli che si

riferiscono alle gestioni atipica e straordinaria.

Queste ultime righe vi dovrebbero essere chiare dopo aver studiato questo e il prossimo

paragrafo. Per ora cominciamo a vedere in cosa consiste la riclassificazione dello stato patrimoniale. Qui

sotto trovate un esempio, assolutamente scolastico, di stato patrimoniale riclassificato in cui appaiono le

voci più sintetiche possibili.

STATO PATRIMONIALE RICLASSIFICATO (ULTRASINTETICO)

IMMOBILIZZAZIONI 1.000.000 CAPITALE PROPRIO 600.000

CAPITALE CIRCOLANTE 3.000.000 DEBITI A MEDIO/LUNGO TERMINE 500.000

DEBITI A BREVE TERMINE 2.900.000

CAPITALE INVESTITO 4.000.000 TOTALE FONTI 4.000.000

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7.1) La riclassificazione dello Stato Patrimoniale.

Per quanto riguarda lo Stato Patrimoniale, la riclassificazione consiste nella riorganizzazione

delle poste (cioè delle voci) dell’attivo e del passivo secondo criteri di liquidità e di esigibilità (= estinguibilità).

In pratica questo significa che si distinguono i crediti e anche i debiti in base alle loro scadenze [i

debiti (e i crediti) con scadenza a breve vengono separati dai debiti (e i crediti) con scadenza più lontana nel tempo], ma in realtà

è tutto l’attivo che viene ordinato in base al tempo che deve presumibilmente passare prima che si trasformi

in denaro (criterio di liquidità), così come sono tutte le fonti di finanziamento che vengono ordinate in base al

momento in cui provocheranno una uscita di denaro (criterio di esigibilità).

7.1.1) La riclassificazione dell’attivo

In questo modo nell’attivo appaiono per prime le immobilizzazioni, poi le rimanenze (scorte),

poi i crediti (a breve) verso i clienti e gli altri crediti a breve e per ultime le attività liquidite (cassa e c/c bancari).

Le immobilizzazioni (come i macchinari, i brevetti, le partecipazioni in altre aziende ecc.) sono beni la

cui utilità si protrae per molto tempo e che pertanto non sono destinati alla vendita e non si trasformano

quindi direttamente in liquidità: la loro capacità di generare entrate monetarie è solo indiretta, in quanto il

loro valore si trasferisce gradualmente nel corso degli anni nei beni che contribuiscono a produrre e che,

quando a loro volta saranno venduti e se ne otterrà l’incasso dal cliente, genereranno un introito monetario.

[Poiché un’immobilizzazione si trasforma (indirettamente) in denaro in un lasso di tempo pari approssimativamente al suo

periodo di ammortamento (ad esempio 10 anni), e quindi un analista fanatico e ossessionato dal concetto di duration che la volesse inserire nell’attivo patrimoniale nel corretto ordine di liquidità la dovrebbe considerare al livello dei crediti che

hanno scadenza pari a circa la metà del suo periodo di ammortamento (nell’esempio 10 ÷ 2 = 5 anni) ].

Le immobilizzazioni in genere le si suddivide, in base alla loro natura, fra:

1) Immobilizzazioni materiali, cioè tangibili (= palpabili, come impianti, attrezzature, automezzi ecc.);

2) Immobilizzazioni immateriali, cioè non tangibili, come brevetti, marchi, avviamento;

3) Immobilizzazioni finanziarie, cioè gli investimenti nella proprietà – intera o per quota – di

altre aziende (e questi investimenti prendono il nome di “partecipazioni”) che si intende conservare a lungo,

nonché i crediti di finanziamento (ad es. obbligazioni) e di funzionamento (= di fornitura, cioè verso clienti, sebbene

questi crediti raramente abbiano scadenza superiore all’anno) con scadenza superiore a 12 mesi.

Le rimanenze (di materie prime, di componenti e di prodotti finiti) si trasformano in denaro in un arco

temporale più breve rispetto alle immobilizzazioni: per le rimanenze di prodotti finiti occorre attendere la

loro vendita e l’incasso del credito conseguente, per le scorte di materie prime e di componenti bisogna

anche aggiungere il tempo necessario per trasformarli in prodotti vendibili.

I crediti a breve (a volte definiti anche “liquidità differite”) si considerano a breve termine se

scadono entro 12 mesi; salvo casi particolari i crediti commerciali (i crediti verso clienti) sono quindi a breve

termine, dal momento che i più usuali modi di pagamento prevedono tempi compresi fra i 30 e i 180 giorni;

si considerano crediti commerciali anche i – non frequenti – crediti verso fornitori per anticipi. Oltre a

quelli commerciali possono a volte essere presenti altri crediti a breve, come i crediti fiscali (ad esempio per

IVA), crediti verso soci per apporti non ancora effettuati e altri di minore importanza.

La liquidità (o, se i crediti sono stati chiamati “liquidità differite” “liquidità immediata”) è costituita

dai saldi attivi sui conti correnti bancari, dal contante in cassa, nonché da tutti i titoli di credito (libretti di

deposito, assegni ecc.) con scadenza a vista.

Nell’attivo patrimoniale dei bilanci ufficiali, oltre alle “Immobilizzazioni” (voce “B”) e all’

“Attivo circolante” (voce “C”) si leggono spesso altre due voci: “Crediti verso soci” (voce “A”) e “Ratei e

risconti” (voce “D”). Nella prima si evidenziano eventuali impegni dei soci ad effettuare degli apporti,

mentre i ratei e risconti attivi, come certamente ricorderete, sono crediti che hanno la particolarità di

crescere gradualmente nel tempo per poi morire brutalmente (i ratei) o di nascere già adulti come Venere

per poi declinare pian piano e scomparire dopo un’agonia lunga l’intera vita. Quasi sempre tutti questi

crediti particolari hanno vita breve, inferiore ai 12 mesi, e pertanto il più delle volte li si considera nel

capitale circolante.

Rimanenze, crediti a breve e liquidità formano, insieme, il “capitale circolante”. Come già si

è visto nello schema super sintetico riportato alla fine della pagina precedente, capitale circolante e

immobilizzazioni sono le due macro voci in cui si suddivide l’intero attivo patrimoniale.

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7.1.2) La riclassificazione delle fonti.

Le fonti di finanziamento, come già detto, si evidenziano in ordine crescente di esigibilità e

pertanto, non esistendo alcun obbligo di rimborsarlo e quindi essendo a esigibilità nulla, per primo appare

A) Il Patrimonio netto (le fonti interne di finanziamento)

Il suo valore ad una certa data si è formato nel tempo, a partire dalla nascita della società, grazie

agli apporti dei soci (al netto di eventuali prelievi) e dagli utili prodotti e non distribuiti. Formalmente, il

capitale proprio è suddiviso in capitale sociale, riserve e utile dell’esercizio (= del periodo) di cui si sta

facendo il bilancio. La distinzione in queste sub voci risponde unicamente a esigenze giuridico-formali, e

infatti avvocati e magistrati la ritengono importantissima, ma nella sostanza il capitale proprio, non potendo

che essere definito come la differenza fra l’attivo e i debiti (siano, quest’ultimi, espliciti o mascherati da “fondi”), è

un valore assolutamente omogeneo. Ecco perché chi capisce la ragioneria (e quindi non gli avvocati e i

magistrati, per natura e per studi impossibilitati a comprenderla) non bada, salvo casi particolarissimi, alla distinzione

fra capitale sociale, riserve (e ancor meno fra vari tipi di riserva)

L’unica distinzione sensata e necessaria è quella fra la parte dell’utile ottenuto nel periodo e che

si sa già essere destinata a essere distribuita ai soci e la parte che, invece, l’assemblea ha deciso debba

rimanere a finanziare la società: la parte da distribuire, infatti, ha natura di debito (di debito a breve, visto che

generalmente i “dividendi” sono pagati ai soci nella prima parte dell’anno successivo a quello in cui l’utile è stato ottenuto).

Poiché, però, la suddivisione del patrimonio netto in parti “ideali” (nel senso di non concrete) eccita

tanto coloro che preparano le prove scritte di maturità, è opportuno dedicarvi alcune righe, non prima, però,

che confessi la grave colpa (agli occhi di non pochi colleghi di materia) che ho sulla coscienza fin dai tempi delle

prime lezioni di ragioneria, colpa costituita dall’aver sempre chiamato il capitale netto esistente all’inizio

del periodo di cui si fa il bilancio “capitale netto INIZIALE” e il capitale netto alla fine del periodo “capitale

netto FINALE”. Ebbene, sappiate ora che a scuola il capitale netto iniziale si deve chiamare “capitale

proprio” (o, anche, “capitale netto”), mentre il capitale netto finale deve essere definito “patrimonio netto”.

Alleggeritomi la coscienza, possiamo ora analizzare le parti “ideali” che, formalmente,

costituiscono il patrimonio netto. Sono, nell’ordine indicato dall’art. 2424 del c.c.: I Capitale sociale; II Riserva sovrapprezzo azioni; III Riserve di rivalutazione; IV Riserva legale; V Riserve statutarie; VI Riserva per azioni

proprie; VII Altre riserve; VIII Utili (perdite) portati a nuovo; IX Utile (perdita) d’esercizio.

Riserve palesi e riserve occulte Apparendo queste voci nel bilancio pubblico, cioè essendo evidenti, la loro somma dà il

patrimonio ufficiale, palese della società; ma poiché, come visto a pagina sette, il bilancio deve rispettare

il principio della prudenza, capita non di rado che alcune voci dell’attivo patrimoniale, in particolare le

immobilizzazioni, siano evidenziate con un valore minore rispetto a quello reale (ad esempio:

supponiamo che alla Ferrari S.p.A. il marchio con l’immagine del cavallino rampante sia costato solo 1.000 €, l’importo

pagato per registrarlo (in quanto il marchio fu regalato ad Enzo Ferrari dalla madre di Francesco Baracca, il famoso aviatore della prima guerra mondiale);

poiché oggi dalla vendita di quel marchio, cioè del diritto di utilizzarlo, la Ferrari S.p.A. otterrebbe certamente più di un

miliardo di €, ne risulta che l’attivo patrimoniale evidenziato nel suo bilancio ufficiale è sottostimato di almeno un miliardo)

e quindi anche il patrimonio netto che appare è inferiore a quello più realistico. La differenza fra l’importo

del patrimonio netto evidenziato nel bilancio reso pubblico e il patrimonio netto “realistico” (nel senso di quello

che si otterrebbe dando una valutazione più corretta alle voci patrimoniali sottovalutate) dà origine a una “riserva occulta”, cioè

nascosta, che nel bilancio non appare ma di cui occorre tenere conto quando lo si analizza.

Detto della possibile esistenza, a fianco delle riserve palesi, di “riserve occulte” derivanti da

sottovalutazioni dell’attivo o da sopravalutazioni del passivo (e il più delle volte le passività sopravvalutate sono

i fondi rischi e spese, voci di cui parleremo a lungo tra non molto), vediamo ora una classificazione delle otto voci

costituenti il capitale proprio, raggruppandole in tre categorie in base al modo in cui si sono originate [(la

nona voce “Utile (perdita) d’esercizio” ha vita autonoma e, comunque e per quel che ho scritto poco sopra, fa parte del Patrimonio

netto (alias “C.N. finale”) e non del Capitale proprio (alias “C.N. iniziale”)].

Se ricordate, vi ho sempre detto che il capitale netto può aumentare solo in due modi: grazie agli

utili prodotti (e non distribuiti) dall’azienda, oppure grazie agli apporti (al netto dei prelievi) effettuati dai soci (o dal

titolare se è un’azienda individuale). Delle nove “parti ideali” in cui il legislatore impone di suddividere il patrimonio

netto, due derivano da apporti (e sono il capitale sociale e la riserva sovrapprezzo azioni), sei da utili non

distribuiti e una (le riserve di rivalutazione) da utili non evidenziati nei bilanci.

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Cominciamo dalle due voci originate da apporti, cioè il capitale sociale e la riserva sovrapprezzo

azioni. L’importo del capitale sociale è dato dal prodotto tra il numero di azioni (o di quote, se si tratta di una srl) in

cui è suddivisa la proprietà dell’intera società e il loro valore nominale unitario. Vediamo un esempio.

Due soci, A e B, al momento della costituzione della società “S” decidono di dotarla di un

capitale sociale di 750.000 € [e quindi si impegnano a versare complessivamente alla società 750.000 € (supponiamo 500.000 € A, e

250.000 € B) non appena l’organo amministrativo (il consiglio di amministrazione o l’amministratore unico, nominati dai soci stessi una prima volta al momento della

costituzione e in seguito in sede di assemblea) lo chiederà]: i soci fondatori possono stabilire che la proprietà della società sia

suddivisa fra un qualsiasi numero di azioni (o di quote, se srl), ad esempio 750.000 azioni da 1,00 € di valore

nominale (e in questo caso, proseguendo nell’esempio, il socio A sarebbe titolare di 500.000 azioni e il socio B si 250.000) o 750 azioni da 1.000,00 €

di valore nominale (e in questo caso ad A andrebbero 500 azioni e a B 250); l’effetto non cambia: il capitale sociale è comunque

pari a 750.000 €, pari al credito che la società ha verso i soci sottoscrittori (credito che, in bilancio, trova posto alla lettera A).

Sono passati alcuni anni, la società “S” è cresciuta rapidamente e così, anche grazie agli

abbondanti utili non distribuiti fra i soci, il patrimonio netto contabile è ora pari a 5.000.000 di €; i due

soci hanno da poco ricevuto da una grande azienda del settore (che ritiene esistano notevoli sinergie fra le due aziende, ma che è anche

preoccupata per la rapida crescita di un concorrente così agguerrito) un’offerta di 15 milioni di € per la totalità delle azioni: si può

così dire che il valore di mercato di “S” è 15.000.000. Pur allettati dall’offerta, A e B decidono di non vendere

ma, anzi, di rafforzare ulteriormente la società attraverso un apporto di 1.500.000 €. Non volendo però investire

altri capitali personali nella società, A e B propongono al comune amico C di divenire loro socio investendo

1,5 milioni dell’eredità che egli ha appena ricevuto da un prozio americano tempestivamente deceduto.

In cambio dell’apporto di 1.500.000 € in contanti, C riceverà delle azioni di “S”, ma attenzione:

non sono le azioni “vecchie” sottoscritte anni prima dai soci fondatori A e B, sono azioni nuove (sebbene indistinguibili

dalle vecchie) che “S” emette proprio per ricevere altro capitale di rischio. A e B, cioè, non vendono a C una parte

delle loro azioni: A resta proprietario di 500 azioni e B di 250 azioni, ognuna dal valore nominale di 1.000 €.

E’ la società “S” che offre a C di sottoscrivere delle altre azioni, sempre da 1.000 € di valore nominale.

Quante azioni “nuove” vorrà ottenere C in cambio del suo bel bonifico di un milione e mezzo a

“S”? Chiederne 1.500 (1.500.000 ÷ 1.000 di valore nominale unitario) sarebbe ridicolo: con 1.500 azioni in mano, il

socio C, sborsando solo 1.500.000 €, avrebbe i due terzi dell’intera proprietà della società [il cui capitale sociale

sarebbe infatti ora suddiviso in 2.250 azioni: le 750 vecchie più le 1.500 nuove, e 1.500 ÷ 2.250 = 66,67%, cioè 2/3 ], e quindi avrebbe

ricevuto 11.000.000 di valore [2/3 dei 16,5 milioni del nuovo valore di mercato della società C, che dai 15 milioni di prima è ora aumentato di

1,5 milioni per effetto del denaro fresco ricevuto ]. E’ ovvio che C dovrà accontentarsi di ricevere un numero di azioni

inferiore, e infatti si potrebbe accontentare di sole 75 azioni, in quanto ognuna ha un valore di 20.000 €, e

20.000 x 75 fa il milione e mezzo versato. La cosa può essere vista anche in questo modo: il numero di

azioni in cui è suddivisa l’intera proprietà della società “S” è, dopo l’operazione di aumento di capitale,

825 (750 + 75); il nuovo valore della società, per effetto dell’apporto di 1.500.000 €, è, come abbiamo già

visto, 16.500.000 (i 15 milioni di prima più 1,5 milioni), quindi il valore di mercato di ogni azione (vecchia o nuova che sia non ha

importanza: sono tutte uguali) è ancora 20.000 € (16.500.000 ÷ 825 = 20.000) €, per cui lo scambio è equo.

Che lo scambio sia equo lo si può verificare anche considerando che i vecchi soci non ci

guadagnano né ci rimettono: il valore del loro investimento nella società è rimasto uguale (10.000.000 €

quello di A (500 azioni x 20.000) e 5.000.000 quello di B (250 azioni x 20.000). Ciò che è cambiata è la quota (la

percentuale) della società di cui sono proprietari: prima A aveva il 66,67% (500/750) e B il rimanente 33,33%

(250/750); ora, dopo l’aumento e la relativa emissione di 75 nuove azioni, A ha il 60,606% (500/825), B il

30,303% (250/825) mentre C ha il rimanente 9,0909% (75/825). A e B hanno ora una quota inferiore di una

società il cui valore è però aumentato per effetto dell’apporto di 1,5 milioni fatto da C, e l’aumento del

valore complessivo compensa la diminuzione della percentuale di possesso.

Ricevere 75 azioni del valore nominale di 1.000 € pagando 1.500.000 € significa pagare ogni

azione 20.000, e quindi 19.000 € più del valore nominale. Tale importo è chiamato “sovrapprezzo”, e il

1.425.000 € di sovrapprezzo complessivo (19.000 x 75) va a formare la voce “Riserva sovrapprezzo azioni”

numerata romanamente II dall’articolo 2424 del c.c., mentre la voce I “Capitale sociale”, per effetto

dell’operazione di “aumento di capitale” aumenta di soli 75.000 € (1.000 € di valore nominale unitario x 75 nuove azioni).

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Quasi sempre l’importo del sovrapprezzo richiesto è minore del sovrapprezzo “teorico” (nel caso descritto potrebbe essere, ad esempio, di

10.000 € anziché di 19.000), e non di rado il sovrapprezzo non è previsto; certamente c’è un limite massimo al sovrapprezzo, ed è dato dalla differenza fra valore di mercato e valore nominale dell’azione (perché altrimenti nessuno sarebbe disposto a sottoscrivere le azioni nuove in quanto

sarebbe più conveniente comprarne delle “vecchie” da un azionista), ma non c’è limite minimo, potendo il sovrapprezzo essere anche nullo. Se anche non si prevede il sovrapprezzo (e quindi, nel caso della società “S”, se le nuove azioni vengono a costare solo 1.000 €) i vecchi azionisti hanno il modo di non rimetterci, in quanto a loro (meglio: alle loro azioni “vecchie”) spetta il “diritto d’opzione”, cioè il diritto di precedenza nella sottoscrizione delle azioni nuove; e se l’azionista “vecchio” non vuole esercitare questo diritto (perché non vuole

apportare altri capitali nella società) lo può vendere (vendere cioè il diritto di sottoscrivere le azioni nuove) a chi è invece interessato a investire i propri risparmi in quella società. L’unico effetto negativo per il “vecchio” azionista che non sottoscrive le azioni nuove (cioè che “non

esercita il diritto d’opzione”) è che si ritrova con lo stesso numero di azioni che aveva prima e quindi con una quota di proprietà più piccola (poiché è aumentato il numero di azioni in cui è suddivisa la proprietà della società).

Detto delle due voci originate da apporti, vediamo ora l’unica voce derivante da utili mai

evidenziati in bilancio, cioè la voce III “Riserve di rivalutazione”. Per comprenderne la natura ripartiamo

da pagina 10, dal caso in cui ipotizzo che il marchio del cavallino rampante valga più di un miliardo di euro

ma sia valutato nel bilancio della società Ferrari S.p.A. al suo costo storico (e quindi a soli 1.000 €), e ciò in

ossequio al principio di prudenza imposto dal codice civile (agli artt. 2423/bis e 2426 del c.c.).

Ora dovete aggiungere alle vostre conoscenze che il legislatore, di tanto in tanto e con una norma

specifica, permette agli amministratori di aumentare i valori di bilancio delle immobilizzazioni per renderli

più coerenti con la realtà.

Supponiamo che la Ferrari S.p.A., approfittando di un simile intervento legislativo, nel 2015

aumenti il valore del marchio da 1.000 € a un miliardo di euro. In questo caso, il maggior valore che viene

inserito nell’attivo patrimoniale (999.999.000 € in più nelle “Immobilizzazioni immateriali”, e quindi in dare) NON ha come

contropartita (in avere) un ricavo, cioè i 999.999.000 € NON si registrano fra i componenti positivi del reddito,

bensì direttamente in avere del patrimonio netto, alla voce “Riserva di rivalutazione Legge XY” (dove XY sono il

numero e l’anno della legge che ha reso possibile la rivalutazione). Registrare i 999.999.000 € dell’aumento di valore del

marchio in avere di un conto di reddito, e quindi fra i ricavi del conto economico del 2015, sarebbe

scorretto (a meno di indicarlo alla voce “E” “Proventi straordinari”) in quanto non si tratta di valore creato dall’azienda nel 2015

ma in tutti i precedenti anni in cui il valore del marchio è cresciuto. Ecco allora che è più ragionevole

inserire direttamente questo valore nel capitale netto, alla voce “Riserva di rivalutazione ex legge X/2015”.

Per chiudere l’argomento “Patrimonio netto” resta solo da parlare delle cinque voci inquadrabili

fra le riserve derivanti da utili evidenziati in bilanci precedenti, cioè delle voci IV, V, VI, VII e VIII.

IV Riserva legale. Il codice civile (art. 2430) impone alle società di capitali che almeno 1/20 (il 5%)

degli utili prodotti nell’esercizio sia non distribuito e venga accantonato in questa voce (a volte detta anche “riserva

ordinaria”) fino a quando tale voce di bilancio raggiunge il 20% (1/5) del capitale sociale (per le banche e le assicurazioni

la legge prevede limiti minimi di accantonamento maggiori).

V Riserve statutarie. Lo statuto sociale (in inglese “by-laws”, ad esempio by-laws of Barilla S.p.A) è,

copiaincollando da wikipedia, “l'atto normativo fondamentale che disciplina l'organizzazione e il

funzionamento di un ente pubblico o privato”. In pratica sono regole di funzionamento stabilite dai soci

(al momento della nascita della società, ma modificabili con apposite delibere assembleari) che si vanno ad aggiungere a quelle fissate

dal legislatore per la generalità delle società. Ecco allora che se lo statuto prevede che si debbano

accantonare altri utili, questi saranno accreditati (cioè scritti in “avere”) in un conto chiamato “Riserva

statutaria”. Anche le statutarie sono, come la legale, riserve “obbligatorie” in quanto imposte da una norma

(e che la norma sia stata prevista dai soci stessi non la rende meno vincolante, a meno che la si modifichi, di una norma di legge).

VII Altre riserve. Sono le cosiddette “riserve libere” o “facoltative” o “volontarie”, in quanto

decise liberamente, su proposta degli amministratori, dall’assemblea che approva il bilancio. Essendo state

costituite e alimentate “volontariamente”, una successiva assemblea può utilizzarle come meglio crede,

mentre l’utilizzo di quelle “obbligatorie” è vincolato a quanto prevede la norma che le ha stabilite.

VIII Utili o perdite portati a nuovo. Questa voce nasce quando l’assemblea che approva il

bilancio decide di rinviare la decisione di come usare una parte degli utili prodotti nell’esercizio (o di come

“coprire” le perdite subite nel periodo il cui bilancio si sta approvando).

Lo studente non distratto avrà notato che ho saltato la voce VI Riserva per azioni proprie. L’ho

fatto perché mi sono rotto più io a scrivere di parti ideali del netto che voi a leggerle.

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I debiti (le fonti esterne di finanziamento)

Al di fuori del capitale netto tutte le altre voci che appaiono tra le “fonti” sono debiti: come

dicevano già i latini e come ancora tutti (tranne voi) dicono in tutto il mondo, tertium (si legge terzium) non datur.

Se però diamo un occhio alle voci che appaiono nei bilanci ufficiali, allora troviamo che oltre

alle due categorie naturali [ Patrimonio netto (voce “A”) e Debiti (voce “D”) ] ne troviamo altre tre [ “Fondi per

rischi e oneri” (voce “B”), “Trattamento di fine rapporto” (voce “C”) e “Ratei e risconti” (voce “E”)].

Non dovete però farvi ingannare, anche se chiamati “t.f.r.”, “fondi” e “ratei e risconti” passivi,

sono tutti comunque debiti, almeno se – come logicamente si deve fare e come vi ho sempre detto fino da

quando eravate piccoli – diamo al termine debito il significato ampio di “impegno da assolvere”.

Che il t.f.r. sia un debito (verso chi, come i dipendenti, operando nell’azienda guadagna un compenso che gli

sarà però corrisposto solo alla fine della collaborazione) lo sanno anche gli oranghi, e che i ratei e i risconti passivi

siano debiti lo sai anche tu se hai letto la pagina 9, perché analogamente ai ratei e risconti attivi visti prima

tra i crediti, quelli passivi sono debiti con l’unica particolarità di crescere gradualmente e morire di colpo (i

ratei) o di nascere di colpo e morire gradualmente (i risconti). Resta quindi da chiarire la natura di debito

di ciò che viene inserito nella voce “fondi”.

La voce B) Fondi per rischi e spese (è questo il nome completo assegnato a questi debiti dal legislatore) contiene

debiti che hanno la particolarità di essere incerti o nell’ammontare, o nel soggetto che ha diritto ad esigerli

o per entrambi gli aspetti. Ad esempio: essendo estremamente probabile che, a causa della folle

complessità e nebulosità della normativa fiscale, anche il più ligio degli imprenditori prima o poi verrà

aggredito dal fisco con sanzioni, pene pecuniarie ed imposte arretrate, allora ogni azienda dovrebbe

prudenzialmente stimare questo “debito” verso l’erario; ma, essendo quel debito non del tutto certo

nell’esistenza e ancor meno nell’ammontare, allora invece di metterlo insieme ai debiti normali lo si

inserisce nel passivo alla voce “fondi rischi e spese”; oppure: in questa voce la Fiat inserisce il valore

stimato di tutte le riparazioni in garanzia che prevede di dover effettuare in futuro (in sostanza è un debito

nei confronti dei suoi clienti che hanno un auto nuova) o la Mulinex gli indennizzi che potrebbero

pretendere le massaie che rimanessero sfregiate dal frullatore di cui si è detto a pagina 5. Ma di fondi

torneremo a parlare più avanti.

Ritengo prudente segnalare, anche se dovrebbe essere superfluo, che c’entrano nulla coi fondi

rischi e spese i fondi ammortamento e i fondi svalutazione, avendo natura affatto (= completamente) diversa.

Queste voci, non a caso, non appaiono infatti tra le fonti di finanziamento bensì sono inseriti, con valore

negativo, fra le attività aziendali: infatti sono importi che vanno a diminuire dei valori attivi quali le

immobilizzazioni (nel caso dei fondi ammortamento) o i crediti (nel caso dei fondi svalutazione) per tenere

conto del loro diverso valore che si ritiene abbiano alla data del bilancio rispetto a quello storico che

avevano al momento in cui vennero acquisiti. Si chiamano tutti “fondi” solo per creare confusione nelle

teste degli studenti e poterne così bocciare qualcuno in più.

La voce C) Trattamento di fine rapporto] contiene gli impegni verso i dipendenti e altri

collaboratori per compensi da corrispondere alla fine del loro rapporto con l’azienda (i “Fondi T.F.R.”).

La collocazione dei debiti per T.F.R. tra le passività consolidate è generalmente corretta in quanto il “turn

over” annuo in uscita dei collaboratori (n. collaboratori usciti / n. collaboratori), per quanto possa essere elevato,

difficilmente si avvicina all’unità (il che imporrebbe, invece, di considerare il fondo TFR fra le passività a breve),

essendo generalmente inferiore al 10%.

Poiché i debiti sotto forma di “Fondi” [sia la voce B) Fondi rischi-spese, sia la voce C) T.F.R. ] sono in

genere per la maggior parte a medio-lungo, si spiega l’indicazione dell’art. 2424 di inserirli dopo il

patrimonio e prima dei debiti “normali” che, al contrario, sono prevalentemente a breve.

D) Debiti. Sempre in virtù di quanto dispone l’art. 2424, nel bilancio reso pubblico si devono

però indicare il totale dei debiti suddivisi per categoria di debitori (verso fornitori, verso banche ecc. per un totale di 14) e

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poi segnalare l’eventuale presenza, all’interno di ciascuna voce, di debiti con scadenza superiore ai 12 mesi [ad esempio: debiti v/banche: 2.950.000 (di cui 850.000 scadenti oltre l’esercizio successivo)].

Per dare un’idea più immediata della struttura patrimoniale e quindi anche della solvibilità

aziendale è però più utile accorpare i debiti in funzione della loro scadenza, perciò in sede di

“riclassificazione” dello stato patrimoniale i debiti, in qualunque modo siano chiamati, li si distingue fra

“passività consolidate” (o debiti a medio/lungo termine) e “passività correnti” (o debiti a breve).

Le passività consolidate sono gli impegni da assolvere oltre l’esercizio successivo (e quindi con

scadenza più lontana di 12 mesi dalla data del bilancio); si trovano qui, oltre ai fondi rischi e spese e al fondo TFR

di cui già si è detto, principalmente:

1. la maggior parte dei mutui bancari (la maggior parte perché frequentemente i mutui sono finanziamenti pluriennali e quindi

sono meno le rate scadenti entro un anno rispetto a quelle da rispettare nel medio/lungo termine); per determinare con esattezza

la ripartizione di un mutuo fra debiti a medio-lungo termine e debiti a breve occorre avere a

disposizione il suo piano di ammortamento

2. la maggior parte delle obbligazioni eventualmente emesse (quelle con scadenza entro i dodici mesi vanno,

ovviamente, tra i debiti a breve); anche in questo caso, per distinguere la parte del prestito obbligazionario

con scadenza inferiore all’anno è necessario leggere il regolamento del prestito e, in particolare,

il piano di rimborso previsto.

3. eventuali finanziamenti a medio-lungo termine ottenuti da società appartenenti allo stesso

gruppo aziendale (tipico è la holding – o società capogruppo – che finanzia le sue “partecipate”, cioè le società che controlla grazie

al possesso di una percentuale elevata di azioni o di quote del loro capitale sociale).

Le passività correnti, ossia i debiti con scadenza entro l’esercizio successivo (e quindi con

scadenza non superiore ai 12 mesi), possono essere:

a) debiti commerciali, vale a dire verso le aziende fornitrici di fattori produttivi (debiti che, come già

visto quando si è parlato dei crediti, usualmente hanno scadenze comprese fra i 30 e i 180 giorni);

b) acconti ricevuti da clienti in anticipo rispetto allo svolgimento dell’impegno assunto; se è vero

che, in genere, il pagamento anticipato è piuttosto raro, è invece usuale quando si lavora “su

commessa” (cioè quando si è incaricati dal cliente di fornirgli un bene con caratteristiche particolari, adatte solo a lui e che pertanto

rendono quel bene difficilmente commerciabile, nel senso di vendibile ad altri) e ci si vuole cautelare dal rischio che il

cliente, per un qualsiasi motivo, non lo ritiri;

c) debiti per finanziamenti bancari a breve termine (come l’anticipo s.b.f. di ri.ba. e di fatture,

l’anticipazione bancaria su titoli o su merci) o “a vista” (come l’apertura di credito in c/c, cioè

l’impegno assunto dalla banca (quasi sempre per un tempo indeterminato) di effettuare pagamenti su richiesta del

cliente correntista anche quando il saldo del suo conto è negativo: la possibilità che la banca ha di

recedere in un qualunque momento da questo impegno e di chiedere il “rientro” al cliente nel giro di

pochissimi giorni fa inserire questi debiti fra le passività correnti anche se, di norma e salvo situazioni

patologiche, all’atto pratico con questo sistema di finanziamento le banche continuano a finanziare

l’azienda per un periodo anche lunghissimo di tempo);

d) i mutui a breve termine e le rate scadenti entro un anno dei mutui a medio-lungo termine

(vale quanto scritto sopra al punto 1.);

e) eventuali finanziamenti a breve termine ottenuti da società appartenenti allo stesso gruppo

aziendale;

f) la parte di T.F.R. che presumibilmente dovrà essere liquidata entro l’anno, per effetto dei

prevedibili pensionamenti, licenziamenti o dimissioni a breve;

g) altri debiti a breve diversi dai precedenti, come i debiti per imposte, debiti verso enti

previdenziali per contributi, debiti verso dipendenti per stipendi e ratei di 13a, 14

a e altri debiti

residuali.

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Partendo dallo schema di stato patrimoniale adottato nei bilanci ufficiali (nel senso di depositati per renderli

pubblici) e utilizzando le notizie che si possono trovare nella “Nota integrativa” (terzo documento, dopo la situazione

patrimoniale e il conto economico, che deve essere reso pubblico attraverso il deposito del bilancio) non è difficile arrivare a una situazione

patrimoniale riclassificata nel modo visto in queste ultime pagine, sia negli impieghi che nelle fonti, e cioè

con le voci dell’attivo e delle fonti ordinate, rispettivamente, in funzione della loro liquidità ed esigibilità.

In genere è necessario e sufficiente ricorrere a queste quattro operazioni:

1) suddividere tutti i debiti fra quelli con scadenza entro l’esercizio successivo e quelli con

scadenza, invece, superiore a 12 mesi; per i debiti anche formalmente tali, cioè per la voce D), non ci sono

problemi: la distinzione dovrebbe già apparire nello stato patrimoniale; ma per i debiti camuffati da fondi

o da ratei e risconti è necessario cercare altrove, soprattutto nella nota integrativa, dati aggiuntivi che

permettano di individuare o almeno stimare la quota a breve di tali passività. In mancanza di dati, l’intero

ammontare dei fondi rischi e spese e del TFR confluisce nelle passività consolidate. L’analoga

suddivisione dell’attivo presenta in genere meno problemi, a meno di particolari casi quali ratei e risconti

attivi elevati e relativi a, rispettivamente, ricavi o costi di competenza di anni più lontani del prossimo.

2) verificare, sempre leggendo la nota integrativa, che i criteri di valutazione adottati (in particolare per le

rimanenze) siano gli stessi da un anno all’altro e, nel caso non sia così, cercare di rendere omogenei tali valori

in modo da poter fare confronti temporali corretti.

3) se nell’attivo vi sono immobili (fabbricati o terreni, e questo anche nel caso essi siano utilizzati in virtù di un contratto di

leasing) o partecipazioni, può essere necessario correggere la valutazione che di essi è stata fatta in bilancio;

ciò perché, come abbiamo già visto, è possibile che il loro valore reale sia significativamente diverso da

quello contabile: può capitare che il valore reale sia maggiore rispetto a quello di bilancio, soprattutto per

effetto dell’aumento dei prezzi immobiliari e azionari che non di rado si verifica nel corso degli anni e di

cui, per il principio della prudenza imposto dalla legge, è vietato tener conto nei bilanci.

A questo proposito, in realtà, c’è da dire che negli anni immediatamente seguenti lo scoppio, nel

2007, della grave crisi finanziaria che colpì gran parte del mondo, i legislatori di quasi tutti i paesi

concessero la possibilità di “rivalutare” il valore di bilancio delle immobilizzazioni e delle partecipazioni,

e questo proprio per evitare che gli amministratori di tantissime aziende (il cui capitale proprio, diminuito pesantemente per

effetto delle perdite accumulate negli anni della crisi (finanziaria prima ed economica poi) era diminuito fino a divenire negativo) fossero costretti

all’antipatica scelta fra dichiarare il fallimento dell’azienda o chiedere nuovi e impegnativi apporti di

capitale fresco ai proprietari (i quali in questo caso si sarebbero probabilmente ritrovati nell’impossibilità di trovare la liquidità necessaria per far

fronte all’apporto richiesto, e quindi – in caso di intervento di nuovi soci – avrebbero perso il controllo della società, e se non capisci perché vuol dire che non

hai letto attentamente la pagina 11).

Ecco perché di questi tempi è più probabile trovare bilanci “ufficiali” in cui immobili e

partecipazioni sono evidenziati con un valore ottimisticamente gonfiato, piuttosto che bilanci in cui il

capitale netto risulta sottostimato per effetto di valutazioni prudenziali di queste voci.

4) Se nell’attivo vi sono immobilizzazioni immateriali, controllare che negli altri documenti del

bilancio (la nota integrativa e la relazione degli amministratori) ne sia descritta in modo chiaro e convincente la natura. Se,

al contrario, natura e valore di tali immobilizzazioni immateriali risultano non del tutto convincenti, allora

è prudente diminuire drasticamente tali valori o cancellarli del tutto: è probabile che si tratti di valori

“gonfiati” o dall’ottimismo per il futuro, tipico dell’imprenditore (in buona fede), oppure dalla disperazione

dell’imprenditore che, temendo il fallimento dell’azienda e quindi la morte della sua creatura, si spinge fino

a commettere il reato (che non necessariamente è anche peccato) del falso in bilancio.

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7.2) La riclassificazione del Conto Economico.

Quando si passa al Conto Economico la questione della riclassificazione si fa più complicata;

ciò, al fondo, perché è più difficile fare un buon film che una buona foto, essendo più facile descrivere una

sagoma piuttosto che un movimento. Ecco perché se, partendo dal documento reso pubblico con il

deposito in Camera di Commercio, vogliamo ottenere una descrizione efficace di quello che l’azienda ha

fatto nell’ultimo periodo e di come lo ha fatto, allora dobbiamo impegnarci di più di quanto è necessario

per la rielaborazione della sua situazione patrimoniale.

Le tre tappe principali da percorrere nella riclassificazione del conto economico sono:

a) la distinzione dell’attività aziendale (svolta nel periodo di cui si sta analizzando il conto economico) fra la parte

tipica (o “caratteristica”) e la parte atipica (o “extra-caratteristica”) dell’attività;

b) la distinzione fra attività ordinaria (nel senso di frequente, iterata) e straordinaria

(occasionale, non ripetibile con frequenza);

c) la riorganizzazione delle voci in modo da evidenziare la formazione progressiva di vari

risultati intermedi tra il valore della produzione e il reddito netto.

a) Rientrano nell’attività (o gestione) caratteristica le operazioni che sono tipiche, usuali per le aziende del settore in cui opera quella il cui conto economico stiamo riclassificando, cioè quelle

attività senza le quali l’azienda difficilmente potrebbe operare in quel settore. Così, ad esempio, per un bar

l’acquisto di caffè e del servizio di pulizia della vetrina avviene all’interno della gestione caratteristica; ma

se, nei momenti della giornata in cui vi è meno clientela, l’imprenditore è solito impegnarsi nel videopoker

utilizzando risorse aziendali, allora i costi e i ricavi di questa attività, sebbene sia abituale, non possono

essere confusi con quelli tipici di un bar, e pertanto vanno da essi distinti relegandoli nella “gestione extra-

caratteristica”.

b) Come già scritto, la distinzione fra attività ordinaria e straordinaria sta nella abitualità;

un esempio di operazione straordinaria ma frutto della gestione tipica (o caratteristica) potrebbe essere la

vendita di un ramo aziendale: se CEPU, all’inizio del 2015, vende a un concorrente per 10 milioni di euro

il settore umanistico dei suoi corsi per concentrarsi sui settori scientifico e professionale, la straordinarietà

sta nella impossibilità di ripetere nel tempo operazioni analoghe; il ricavo della vendita, però, sarebbe pur

sempre da collegare con l’attività tipica di CEPU; quei 10 milioni di valore che sono finiti nei ricavi del

2015 sono stati generati dall’azienda per mezzo della sua attività ordinaria negli anni precedenti quando,

dal nulla, ha creato il ramo “corsi umanistici”. Nonostante questo occorre però escludere dal valore della

produzione del 2015 quei 10 milioni perché tale valore non è stato prodotto nel 2015, essendo frutto

dell’attività di tutti gli anni precedenti in cui CEPU si è affermata sul mercato anche dei corsi di latino,

greco, storia e italiano.

Per chiarire meglio i due concetti di gestione “caratteristica o extra-caratteristica” e di gestione

“ordinaria o straordinaria” segnalo che la vendita per 20.000 € dei cuccioli che, ogni anno, nascono dai 12

mastini napoletani che fanno la guardia alla sede del CEPU (per difendere gli amministratori dalle ire dei clienti bocciati),

ripetendosi ogni anno (i mastini napoletani sono molto passionali e hanno sane inclinazioni sessuali) rientra nell’attività ordinaria

ma non in quella caratteristica, perché ben poco ha che fare con l’attività tipica delle aziende operanti nel

settore istruzione (salvo, forse, si tratti di una scuola specializzata in corsi veterinari).

c) Quando si parla di valore della produzione, di risultati intermedi e, in generale, di

riclassificazione del conto economico, si è concentrati solo sulla gestione ordinaria e tipica dell’azienda:

eventuali componenti positivi o negativi di reddito provenienti da operazioni straordinarie e/o di natura

diversa dalla gestione tipica sono tagliate fuori dall’analisi, non interessano in quanto l’obiettivo principale

è valutare l’efficienza del nucleo produttivo centrale aziendale, cioè del suo cosiddetto “core business”.

Ecco allora che occorre depurare sia il valore della produzione sia i costi della produzione che

appaiono nel bilancio depositato dall’eventuale presenza di operazioni straordinarie (anche se inerenti l’attività

tipica aziendale) e di operazioni ordinarie che però nulla hanno a che fare con la gestione tipica.

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La maggiore complessità della riclassificazione del conto economico rispetto allo stato

patrimoniale ha fatto sì, tra l’altro, che mentre lo schema di riclassificazione del patrimonio è

sostanzialmente unico (e lo abbiamo conosciuto al paragrafo 7.1), i modi per ordinare il conto economico sono vari.

Tra questi ci sono:

il conto economico a costo e ricavi del venduto (che qui meno ci interessa perché la sua elaborazione, oltre

a essere più complessa, richiede la conoscenza di troppi dati disponibili solo a un analista interno all’azienda) e

il conto economico a valore aggiunto (il cui schema puoi vedere in questa pagina).

Lo schema che la legge impone nei bilanci che vengono resi pubblici è in parte riconducibile a

quello a costi e ricavi del venduto, ma se ne differenzia profondamente perché nel conto economico

civilistico non si distinguono i costi in base alla loro destinazione (industriali, commerciali,

amministrativi).

Qui sotto trovate un esempio (inventato) di conto economico “a valore aggiunto”, sicuramente

nella maggior parte dei casi più adatto ai fini di una buona analisi di bilancio (non per niente il legislatore – che non sa

nemmeno distinguere il capitale netto dalla cassa – ha imposto uno schema diverso).

CONTO ECONOMICO SCALARE A VALORE AGGIUNTO

Ricavi di vendita + 14.800.000 98,43%

+ aumento ( – diminuzione) scorte prodotti finiti. + 300.000 2,36%

+ aumento ( – diminuz.) scorte prodotti in corso di lavoraz. - 100.000 - 0,79%

VALORE DELLA PRODUZIONE (1) 15.000.000 100,00%

Acquisti di beni e servizi (compreso uso beni di terzi) 8.250.000 55,00%

- aumento ( + diminuzione) scorte materie e componenti - 750.000 5,00%

- diminuzione scorte materie e componenti

altre spese di gestione tipica (diverse dalle successive) 300.000 2,00%

VALORE AGGIUNTO (2) 7.200.000 48,00%

- Costi del personale - 5.000.000 33,33%

MARGINE OPERATIVO LORDO (M.O.L.) o E.B.I.T.D.A. (3) 2.200.000 14,67%

- Ammortamenti immobilizzazioni - 700.000 4,67%

- Svalutazioni - 100.000 0,67%

- Accantonamenti - 200.000 1,33%

RISULTATO (o REDDITO) OPERATIVO o E.B.I.T. (4) 1.200.000 8,00%

Saldo gestione finanziaria - 330.000 2,20%

(+ proventi finanziari – oneri finanziari)

Saldo gestione accessoria + 30.000 0,2%

(+ ricavi - costi attività non “core business”)

Saldo gestione straordinaria + 1.000 0,01%

(+ proventi straordinari - costi straordinari)

REDDITO (o UTILE) LORDO o E.B.T. (5) 901.000 6,01%

- Imposte - 750.000 5,00%

RISULTATO DI ESERCIZIO (o REDDITO NETTO) (6) 151.000 1,01%

(1) per gli anglofoni: EBITDA = Earnings Before Interests Taxes Depreciation and Amortization

[quiz di allenamento: si tratta di un’azienda produttrice di beni o servizi? Perché? Industriale o mercantile? Perché?]

Nei prossimi paragrafi vedremo il significato dei vari risultati intermedi dello schema evidenziati

dalle voci numerate da (2) a (5).

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7.2.1) Il valore della produzione.

Può essere opportuno ricordare che il “valore della produzione” (voce (1) dello schema) di un

periodo (ad esempio dell’anno 2015) non coincide con il valore delle vendite di quel periodo per un duplice motivo:

a) nel corso dell’esercizio 2015 io posso aver prodotto beni che poi venderò nell’anno 2016 o anche dopo;

b) nel 2015 posso aver venduto cose che avevo prodotto nel 2014 o anche prima. Ecco allora che, per

determinare il “valore della produzione” del 2015, si parte dalle vendite del periodo (l’anno 2015) e poi si

aggiunge il valore delle rimanenze finali (le scorte di prodotti finiti o in corso di lavorazione presenti alla mezzanotte del 31.12.2015 e che

(presumibilmente) sono stati prodotti nel 2015) e si toglie il valore delle rimanenze iniziali (le scorte di prodotti finiti o in corso di

lavorazione che erano presenti al mattino del 1.1.2015 e che furono prodotti nel 2014 (o prima ancora)).

Chiamando “variazione scorte” la differenza “ scorte finali meno scorte iniziali ” ne deriva che il

“valore della produzione” è uguale a ricavi di vendita + variazione scorte (di prodotti finiti e semilavorati).

E’ anche utile ricordare che, per quanto detto al paragrafo 7.2) e in particolare al punto c), i

ricavi di vendita e le altre voci del conto economico riclassificato devono essere depurati da eventuali

ricavi e costi derivanti dalla gestione straordinaria e/o atipica. Questi ricavi e questi costi li si re-inserisce

poi alla fine, appena prima della determinazione del reddito lordo, indicandone sinteticamente la somma

algebrica alle voci “Saldo della gestione straordinaria” e “Saldo della gestione non caratteristica”.

7.2.2) Il valore aggiunto.

Ora cerchiamo di capire perché questo schema di conto economico (quello nella pagina precedente) è detto

“a valore aggiunto”.

Per valore aggiunto si intende il valore che l’azienda aggiunge, con l’impiego dei fattori produttivi “interni”, al valore dei fattori produttivi (beni e servizi) a breve ciclo di utilizzo che acquisisce da altre aziende di produzione.

Questi beni e servizi acquisiti da altre aziende di produzione sono principalmente:

a) componenti, materie prime, energia, merci (acquisti + la diminuzione delle loro rimanenze o – il loro aumento);

b) le prestazioni di servizi (lavorazioni esterne, trasporti, riparazioni, consulenze, pubblicità, servizi telefonici, ecc. ecc.);

c) i costi per il godimento di beni di terzi (affitti, noleggi e canoni di leasing).

Si può esprimere lo stesso concetto in quest’altro modo: se dalla ricchezza prodotta nel periodo

dall’azienda (dico “ricchezza prodotta” e non “incremento di ricchezza” o “creazione” di ricchezza, perché sto parlando di valore della produzione e non

di utile) togliamo quella acquistata (e quindi prodotta) da altre aziende, troviamo la ricchezza prodotta internamente

all’azienda, valore che chiamiamo “valore aggiunto” (sottinteso dall’azienda, al suo interno).

La logica di questo modo di determinare il “valore aggiunto” non è certo del tutto rigorosa,

soprattutto per il motivo che all’interno di tale voce resta il valore del consumo delle immobilizzazioni

acquistate da altre aziende (in pratica il valore degli ammortamenti), e non ha molto senso trattare in modo diverso il

valore che da questi input si riversa sull’output rispetto al valore che proviene dal consumo degli input

ugualmente “esterni” ma a breve ciclo di utilizzo.

Il difetto di logica che sta dietro a questa definizione di valore aggiunto risulta evidente se si

pensa a due aziende in tutto identiche tranne per il fatto che la prima ha acquistato direttamente le

immobilizzazioni materiali, mentre la seconda le ha acquisite in leasing: pur avendo la medesima struttura

produttiva (stessi impianti e attrezzature, stesso capitale circolante, stessa tecnica di produzione, stessi dipendenti, stessa rete

di vendita, stessi prodotti, stessa politica commerciale ecc.), la prima evidenzierà un valore aggiunto

significativamente superiore della seconda.

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Il “valore aggiunto”, oltre a essere definibile per differenza, è anche definibile per somma: è la

somma dei compensi che vanno a coloro, diversi dalle altre aziende di produzione, che hanno contribuito

alla produzione dell’output. Infatti, il valore aggiunto si ripartisce fra:

1) i dipendenti, cui spettano stipendi, contributi e quote di T.F.R. maturate nell’anno;

2) chi ha finanziato l’attività attraverso il capitale di debito, meritandosi gli interessi;

3) il supremo grassatore (lo stato), che preleva le imposte (nei libri di testo, il cui scopo è forgiare bravi cittadini sempre disposti a

rispettare le leggi qualunque cosa impongano e quindi anche a vivere facendosi tosare come pecore, trovate la storiella secondo cui le imposte devono considerarsi il prezzo per i servizi di carattere generale (giustizia, ordine pubblico ecc.) che lo stato eroga gratuitamente beneficiando tutti e quindi risultando utili

anche per l’attività aziendale);

4) chi ha finanziato l’attività attraverso il capitale di rischio, a cui va la parte di utile netto eventualmente

distribuita;

5) l’azienda stessa, sotto forma di “autofinanziamento”. Il concetto di autofinanziamento comprende:

5a) l’autofinanziamento proprio cioè l’utile netto che non viene prelevato dai soci (vedi precedente punto 4)), e

che quindi viene “accantonato a riserva” andando così a incrementare il capitale proprio;

5b) l’autofinanziamento improprio che è costituito dagli ammortamenti e dagli accantonamenti.

Tra le componenti del “valore aggiunto” appena elencate la voce “autofinanziamento” necessita

più delle altre di spiegazioni. Fra tre o quattro pagine il capitolo 8) dovrebbe servire a questo.

7.2.3) Dopo il valore aggiunto.

Si è già visto che il valore aggiunto, determinato per differenza, è dato da:

valore della produzione meno acquisto di materie prime, componenti e merci meno

diminuzione di (o più aumento di) rimanenze materie prime, componenti e merci meno acquisti di

servizi meno costi per godimento beni di terzi.

Se dal valore aggiunto togliamo il costo del personale (stipendi + contributi + quota annua T.F.R.) si ottiene il “Margine

Operativo Lordo” (M.O.L.) che oggi va di moda chiamare “E.B.I.T.D.A.”, acronimo che, come giù scritto

sta per Earnings Before Interests, Taxes, Depreciations (in italiano: svalutazioni e accantonamenti) and Amortizations.

Se poi dal Margine Operativo Lordo si sottraggono gli ammortamenti, gli accantonamenti e le svalutazioni,

si ottiene il Reddito Operativo, in inglese E.B.I.T. (e, rispettoso della vostra intelligenza, non sto a scrivere cosa significa).

Infine, se dal Reddito Operativo si tolgono gli interessi si ha il Reddito Lordo, o “Utile prima delle

imposte” detto all’inglese E.B.T. (albionamente Earnings Before Taxes).

L’EBIT o Reddito (o Risultato) Operativo è il frutto della gestione tipica dell’impresa, e quindi

dà la misura della ricchezza generata (se l’EBIT è positivo) o assorbita (se l’EBIT è negativo) dalla attività specifica

aziendale, prescindendo dalla (= senza tenere conto della) situazione finanziaria, da eventi di natura straordinaria,

dalle attività fuori dal core business e dalla famelicità dello stato.

Il reddito operativo è quindi un dato di fondamentale importanza in quanto esso, essendo

influenzato solo dai componenti di reddito inerenti l’attività tipica e ordinaria, è il dato più significativo

della efficienza produttiva aziendale.

Meno semplice è capire la significatività dell’EBITDA o Margine Operativo Lordo, che pure

va tanto di moda. Sui libri si legge che esso “esprime la ricchezza in termini di risorse finanziarie

generata dall’attività caratteristica e ordinaria”.

La differenza tra questa definizione di EBITDA e quella del risultato operativo (EBIT) sta

nell’aggiunta di quel “in termini di risorse finanziarie” che qualifica la creazione di ricchezza misurata.

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In effetti, la differenza di valore fra EBITDA e EBIT è data dall’ammontare degli ammortamenti,

degli accantonamenti e delle svalutazioni, vale a dire da componenti negativi di reddito che non hanno

causato nell’esercizio alcun esborso finanziario, in quanto l’esborso finanziario o ci fu in precedenza (quando

si acquisirono quelle immobilizzazioni e quei beni di cui ora misuriamo, con gli ammortamenti e le svalutazioni, la diminuzione di valore) o ci sarà in

futuro (quando si dovranno pagare i debiti che sono stati camuffati con la voce “fondi rischi e spese”, e questa parentesi la dovresti comprendere ancor

meglio dopo aver letto il capitolo 8) alle pagine 22 – 23).

Ecco allora che se al risultato operativo (che ci dice quanta ricchezza l’attività aziendale ordinaria e tipica è riuscita a

creare, ricchezza aggiuntiva che è destinata a beneficiare lo stato (che vi attingerà pesantemente con le imposte), i finanziatori (che si arricchiranno con gli interessi) e i

proprietari dell’azienda (cui rimarrà l’utile netto)) aggiungiamo i costi non finanziari (cioè i costi, come ammortamenti e svalutazioni, che non

fanno diminuire la liquidità o aumentare i debiti nel periodo di cui si fa il conto economico) troviamo la capacità dell’azienda di

migliorare la sua situazione finanziaria nell’esercizio (cioè durante il periodo analizzato dal conto economico). Il discorso

avrebbe senso, e quindi il dato dell’EBITDA sarebbe realmente utile, se le immobilizzazioni non dovessero

essere mai sostituite e i debiti mai pagati, ma ovviamente non è così: nessuna azienda può essere efficiente

con impianti e attrezzature obsoleti e mal funzionanti, e nessuna azienda può esimersi dall’assolvere i

propri impegni.

7.2.3a) Sulla significatività dell’EBITDA

Viene quindi da chiedersi perché oggi si dia tanta enfasi (= importanza) all’EBITDA: sono tutti scemi

gli autori dei testi e l’unico intelligente è chi scrive, o è il contrario? Né la prima cosa e né (spero) l’altra. In

realtà ritengo che tutto sia nato, principalmente, dalla necessità per gli analisti di trovare una giustificazione

ai prezzi progressivamente sempre più alti (almeno come linea di tendenza) ai quali nell’ultima ventina d’anni

venivano compravendute le aziende, prezzi che, soprattutto per le aziende in perdita, non trovavano

giustificazione con i tradizionali criteri di valutazione.

Per comprendere questo fatto è però prima necessario correggere un’idea sbagliata ma piuttosto

diffusa. Il profano spesso crede che a stabilire quale sia il valore di un’azienda (così come di una casa o un terreno o

qualsiasi altro bene da investimento) siano gli esperti, i “periti”. In realtà, a svolgere l’attività di valutazione è, quasi

per intero, il mercato: il giudizio del perito (sia esso il geometra di Cadelbosco che stima la villetta a schiera o il mega studio di sapienti

commercialisti milanesi che valuta la quota di maggioranza della S.p.A.) incide solo sui dettagli. E’ un po’ come facciamo noi per

valutare un’auto usata: partiamo dal valore che il mercato dà ai modelli di quel tipo e di quell’anno (leggendolo

sulle riviste specializzate che lo rilevano e aggiornano periodicamente) e poi lo correggiamo un po’, o in diminuzione per tenere

conto di eventuali ammaccature, o in aumento nel caso di un ottimo stato di manutenzione.

Come per le auto usate e praticamente per tutti i beni, anche per le aziende il prezzo lo fa il

mercato: se metto in vendita la mia azienda o una sua quota riceverò varie offerte, e tra queste individuerò

la migliore; può darsi che io la ritenga insoddisfacente, cioè reputi il prezzo offerto inferiore al valore che

io ritengo abbia, ma a questo punto non venderò e quel prezzo (per me “giusto” ma per il mercato eccessivo) non si

formerà.

Ricordate: il valore è soggettivo (e quindi non esiste il valore giusto), a essere oggettivo è il prezzo, e questo

si forma sul mercato.

In caso di compravendita di un’azienda si richiede l’intervento dei periti non tanto al fine

dell’individuazione del prezzo (ché quello in sostanza lo stabiliscono il mercato e le abilità contrattuali delle due parti), quanto per

pararsi il culo (save one’s ass, per i linguisti più raffinati) in caso di possibili future contestazioni sul prezzo da parte di

terzi, in particolare da parte 1) del fisco, sempre famelico (che potrebbe ritenere troppo basso il prezzo dichiarato per pretendere

più imposte), 2) dei magistrati, spesso invasati (che, convinti di sapere loro il “vero” valore della compravendita, potrebbero sospettare chissà

quali imbrogli), 3) di qualche socio dell’azienda venduta o di quella acquirente (che, ritenendo di essere stato ingiustamente

danneggiato dall’operazione, potrebbe attivare un magistrato invasato). Una volta stabilito con la controparte il prezzo della

compravendita in X €, vale quindi la pena, per ridurre il rischio e le conseguenze negative di eventuali

contrasti con questi soggetti, pagare una profumata parcella a un professionista a cui, in sostanza, si dà

l’incarico di costruire una bella perizia dalla quale risulterà che il valore dell’azienda compra-venduta è

(guarda caso ...) proprio X €.

Ora mettetevi nei panni del perito che riceve l’incarico: deve mettere la sua firma su un

documento attestante che il valore corretto dell’azienda è quello che (in modo esplicito e brutale o con un po’ più di grazia)

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gli è stato indicato dal suo cliente, e deve arrivare a questo valore con un percorso per quanto possibile

logico, comprensibile e riconosciuto valido dalla generalità degli esperti (suoi colleghi o meno).

Per far questo ha a disposizione un mucchio di testi, manuali e trattati in cui dottamente si

disquisisce di vari criteri di valutazione, tutti raffinatissimi e ben impreziositi da formule matematiche

inoppugnabili, ma che, al fondo, si basano sul banale concetto che l’appetibilità di un’azienda, e quindi il

suo prezzo, è collegato sia al valore del suo capitale netto sia all’ammontare dell’utile che si ritiene sia in

grado di generare nel tempo: se le aziende A e B hanno un capitale netto simile, ma A è prevedibile che

produca utili doppi di B, è ovvio che per acquistare A si sia disposti a pagare un prezzo più alto (ma meno del

doppio) di quanto si pagherebbe per B.

Così, da sempre, il sistema più o meno esplicitamente e più o meno consapevolmente usato dagli

analisti per stimare il valore di un’azienda consiste, al fondo, nel partire da una cifra basata sul valore del

capitale netto e poi aggiungere un importo pari a un multiplo dei presumibili futuri utili annui. Ad esempio:

Azienda

Capitale

netto

Utile netto

Tasso di attualizzazione

degli utili

Fattore moltiplicativo equivalente

Valore attuale degli utili futuri

Valore della azienda

A 1.500 200 20% 5 1.000 2.500

B 1.500 100 20% 5 500 2.000

Come però ho già detto, dalla fine degli anni ’90 il valore che il mercato (la cui vista è da allora sempre

più annebbiata dai tassi artificialmente bassi generati dall’eccesso di denaro messo in circolazione dalle autorità monetarie) ha dato alle aziende

si è andato discostando sempre di più da quello ottenibile con i tradizionali criteri di stima.

Per un po’ gli analisti (commercialisti, società di revisione, insigni cattedratici ecc.) se la sono cavata abbassando il

tasso di attualizzazione degli utili futuri, in ciò giustificati dal generale abbassamento dei tassi d’interesse.

Questo sistema, però, non serve se l’azienda è da anni in perdita e non è credibile che possa mettersi a

macinare utili nel giro di poco tempo.

E’ per questo che gli analisti, alla disperata ricerca di dati positivi in grado di giustificare gli

elevati prezzi che il mercato assegnava anche in presenza di perdite economiche, hanno cominciato a

prendere in considerazione non più l’utile ma il risultato operativo (e, fin qui, la cosa poteva ancora apparire ragionevole

anche a un osservatore vecchio e outdated come me), per poi arrivare all’EBITBA, risalendo così sempre più su verso la

parte alta del conto economico, alla disperata ricerca di sufficienti valori positivi da capitalizzare.

E ora che occorre, per non essere costretti a evidenziare bilanci con il capitale netto negativo (e

quindi dichiarare il fallimento o essere costretti a immettere nell’azienda vagonate di capitali a titolo di apporto), tenere vergognosamente alti i

valori delle immobilizzazioni finanziarie costituite dalle partecipazioni in altre aziende (valori vergognosamente più

alti di quelli a cui realisticamente si riuscirebbe a venderli, cioè più alti del cosiddetto “fair value”), già qualcuno, scarseggiando in pudore,

comincia a guardare al “valore aggiunto” positivo, pur in presenza di EBITDA negativo, come

giustificazione valida per dare a un’azienda un valore superiore al suo capitale netto (ancora nessuno si è spinto a

considerare “appetibile” un’azienda che evidenzi un valore aggiunto negativo, magari basandosi sul fatto che comunque ha ricavi di vendita maggiori di zero;

attendiamo fiduciosi).

Il discorso si allaccia sempre alla reale natura della crisi finanziaria che si è manifestata otto anni

fa (ma le cui origini risalgono a una decina d’anni prima), legata all’artificiale abbassamento dei tassi provocato dalle

politiche monetarie eccessivamente espansive delle banche centrali (FED in primis, ma BCE e tutte le altre a ruota). I tassi

più bassi hanno indotto il mercato a valutare sempre di più i beni da investimento (e quindi anche le aziende, oltre agli

immobili e alle obbligazioni a tasso fisso), e hanno quindi obbligato i periti a innovare in modo piuttosto ardito i

tradizionali criteri di valutazione per inseguire i prezzi di mercato.

L’illogicità di capitalizzare in positivo un risultato operativo negativo è la stessa, vista da altra

angolazione, riscontrabile nel considerare gli ammortamenti e gli accantonamenti come

“autofinanziamento” aziendale. E’ ora quindi di comprendere il concetto di autofinanziamento.

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8) L’autofinanziamento aziendale.

A pagina 19 si è detto che la parte di “valore aggiunto” che non va a remunerare i contributi

offerti all’azienda dai dipendenti, dai finanziatori (sia a titolo di capitale di debito che di capitale di rischio) e dallo stato

(ammesso che ciò che offre abbia un valore positivo) costituisce l’autofinanziamento dell’azienda, e questo autofinanziamento

può essere suddiviso fra “proprio”, l’utile netto non distribuito ai soci, e “improprio”, a sua volta dato

dagli ammortamenti e dagli accantonamenti.

Ora è il momento di comprendere quelle righe, soprattutto il concetto di autofinanziamento

improprio, ché quello di finanziamento proprio dovreste possederlo da anni.

Quelli di voi che ancora capiscono poco o nulla di ragioneria sono invitati a impegnarsi al

massimo: sarà un’occasione per finalmente capire e comunque per ripassare che:

a) in contabilità generale, durante l’anno, i componenti positivi (ricavi) e negativi (costi) del reddito

si registrano (con le “scritture di esercizio”) nel momento in cui se ne ha la documentazione (costituita in genere da

una fattura) che testimonia il sorgere del debito o del credito, oppure quando vi è il loro pagamento;

b) in questo modo si commettono due tipi di errori, perché: b1) non sempre i ricavi o i costi

documentati e quindi registrati si riferiscono al periodo di cui si vorrà, in sede di bilancio, determinare il

risultato economico; b2) non tutti i ricavi e i costi hanno già avuto, alla data del bilancio, la

“manifestazione finanziaria” (in sostanza: la loro documentazione), e quindi non tutti sono stati già registrati;

c) per poter avere un bilancio che tenga conto di tutti i fatti accaduti e che contemporaneamente

non sia inquinato da fatti che non riguardano il periodo di cui si vuole determinare il risultato economico si

ricorre alle “scritture di assestamento”, cioè ad annotazioni contabili che correggono gli errori descritti

in b1) (e queste sono le scritture di imputazione, come la rilevazione degli ammortamenti e dei ratei attivi e passivi) e

in b2) (e queste sono le scritture di storno, come la rilevazione delle rimanenze finali e dei risconti attivi e passivi).

8.1) L’autofinanziamento proprio.

Circa l’autofinanziamento proprio, se solo avete capito l’abc della ragioneria, c’è nulla di

particolare da osservare, nel senso che dovrebbe risultarvi chiarissimo il motivo per cui l’utile netto viene

considerato “autofinanziamento”: quale voce del conto economico potrebbe far parte del “valore

aggiunto” in modo più chiaro e legittimo dell’utile netto? (La domanda è da intendersi come retorica, dacché nulla più dell’utile,

che è creazione di nuova ricchezza, merita di contribuire al valore aggiunto e alla funzione di fonte di finanziamento; insomma, la risposta alla domanda

dovrebbe essere un forte e corale: “NESSUUUNAAA!!).

8.2) L’autofinanziamento improprio.

Le perplessità, invece, sono legittime per quanto riguarda l’autofinanziamento improprio, cioè

quello costituito dagli ammortamenti e dagli accantonamenti ai “fondi per rischi e oneri”.

Come già ho scritto a pagina 18, la logica vorrebbe che il valore aggiunto fosse al netto degli

ammortamenti e degli accantonamenti, in quanto (e come in parte già si è detto in altra forma nella seconda metà di pagina 18):

1) gli ammortamenti altro non sono che il costo per l’impiego di fattori produttivi (il computer,

l’autocarro e tutti quegli input destinati a fornire utilità per vari anni e il cui consumo, per semplicità, si registra solo al momento della redazione del bilancio con

una scrittura di assestamento) che, al pari delle materie prime e dei servizi, sono prodotti e acquistati da altre

aziende: non si capisce perché se acquisto un computer io debba evidenziare un valore aggiunto maggiore

rispetto al caso in cui lo stesso computer lo abbia noleggiato. Il costo per ammortamento sostituisce quello

per noleggio, ma la loro natura è sostanzialmente la stessa: si tratta pur sempre del consumo di una

attrezzatura acquisita dall’esterno. E allora non si vede perché non eliminare anche l’ammortamento dal

valore aggiunto, così come da esso, correttamente, si eliminano le spese per godimento beni di terzi.

2) gli accantonamenti ai fondi rischi e oneri (e, come già si è visto a pagina 13, questi “fondi” sono pur sempre debiti,

anche se hanno la particolarità di essere incerti nell’importo e/o nel momento in cui provocheranno una esigenza finanziaria) nascono, come gli

ammortamenti e tutte le altre scritture di assestamento, dall’esigenza di correggere prima della redazione

del bilancio gli errori di imputazione di ricavi o di costi che consapevolmente (per semplificare le operazioni contabili) si

sono fatti durante l’anno registrando le operazioni d’esercizio. Ben conscio che il concetto può non esservi

ancora chiarissimo, riempio la pagina con esempi: un paio relativo a errori di registrazione di ricavi e un

paio a errori di registrazione di costi.

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R1) errata registrazione di ricavi (sopravvalutazione): è il caso, ad esempio, dell’accantonamento per

rischi di garanzia prodotti: se nel 2013 la Nissan vende le auto garantendole per 5 anni, significa che ha già

inserito fra i ricavi del 2013 anche i servizi di riparazione che sarà costretta a svolgere “gratuitamente” fino

al 2018. In realtà le riparazioni in garanzia non sono gratis, e ciò in quanto vengono pagate in anticipo nel

momento dell’acquisto dell’auto. Infatti, se la Nissan avesse vendute le auto senza garanzia, si sarebbe

dovuta accontentare di un prezzo di vendita inferiore, e quindi avrebbe dovuto contabilizzare dei ricavi

inferiori. L’importo degli accantonamenti per rischi di questo tipo, quindi, dovrei sottrarlo dal valore della

produzione del 2013 e distribuirlo nel valore della produzione dei prossimi 5 anni, il periodo in cui

produrrò i servizi di riparazione il cui prezzo ho già considerato in anticipo tra i ricavi nel 2013. Se non

faccio così (e in effetti non si fa così), se cioè non tolgo dal valore della produzione 2013 quello dei servizi di

riparazione che ho già incassato ma che non ho ancora prodotto, per poi distribuirlo fra i vari anni in cui

effettivamente li eseguirò (dal 2014 al 2018), io gonfio indebitamente il valore della produzione del 2013 e

deprimo quello dei cinque anni successivi. La logica vorrebbe, allora, che gli accantonamenti per rischi di

questo tipo non rimanessero nel valore aggiunto, in quanto non sono nemmeno valore della produzione;

certamente più corretto sarebbe togliere l’importo di questi accantonamenti dai ricavi di vendita piuttosto

che, come invece in genere si fa, inserirlo fra i costi alla voce “accantonamenti”.

R2) Ancora errata imputazione di ricavi (sopravvalutazione): siamo a inizio 2017 in sede di

preparazione del bilancio 2016. Nel maggio 2015 stipulammo con un cliente-rivenditore un contratto di 24

mesi in base al quale, alla scadenza, gli dobbiamo riconoscere un premio pari al 5% del valore dei suoi

acquisti nel caso questi abbiano complessivamente superato, nel corso dei 24 mesi, gli 800.000 €. Il

rivenditore ha acquistato per 200.000 € nel 2015 e per 400.000 € nel 2016, con un trend in leggera ma

continua crescita. E’ quindi probabile, ma non certo, che nel 2017, alla scadenza del contratto, dovremo

emettere una nota di accredito (cioè, in pratica, dovremo ridurgli i prezzi a cui gli abbiamo venduto) di almeno 40.000 euro (il 5% di

800.000), e in questo caso 10.000 € (il 5% dei 200.000 € di vendite 2015) servirebbero per correggere l’eccesso di

fatturazione del 2015, e 20.000 quello del 2016 (il 5% dei 400.000). Il principio della prudenza (vedi pag. 7) ci

impone di annotare fra i costi del 2015 questi 10.000 € e nei costi 2016 i 20.000 e di inserirli (“accantonarli”)

tra i debiti nel passivo dello stato patrimoniale (infatti, anche se messo fra i fondi rischi, è un probabile debito che abbiamo già maturato

nei confronti del nostro cliente-rivenditore, e il saldo di questo fondo dovrà essere di 10.000 al 31.12.2015 e di 30.000 al 31.12.2016).

C1) Errata imputazione di costi (sottovalutazione): il caso più frequente riguarda gli accantonamenti

per la responsabilità civile del produttore, cioè per il rischio di dovere subire in futuro degli esborsi

monetari a causa di indennizzi dovuti per il cattivo funzionamento di un bene da noi venduto. Se, ad

esempio, vendo nastri trasportatori e ho ragione di temere che qualcuno dei miei prodotti già venduti possa,

per un difetto di costruzione, provocare un temporaneo fermo produttivo a qualche mio cliente e quindi la

legittima sua pretesa di essere da me indennizzato per il danno subito, io devo considerare questo possibile

costo futuro, anche se incerto, come un componente negativo di reddito di competenza dell’esercizio, ad

esempio il 2016, in cui ho contabilizzato la vendita del nastro trasportatore difettoso.

Se avessi stipulato una buona polizza d’assicurazione R.C.P. (Responsabilità Civile Prodotti) pagando ad

esempio 50.000 € di premio, non dovrei più considerare questo rischio (e quindi non dovrei inserire l’accantonamento fra i

costi del conto economico 2016 e nel passivo dello stato patrimoniale al 31.12.2016), ma in cambio nel conto economico ci sarebbe,

fra i costi del 2016, il premio assicurativo pagato di 50.000 € e nello stato patrimoniale maggiori debiti (o

minore liquidità se, come è la regola, il premio assicurativo è pagato anticipatamente) per 50.000 €.

Che un “accantonamento al fondo rischi” abbia una natura diversa da un acquisto di un servizio

assicurativo non è ragionevole: sono entrambi costi e la loro funzione è la stessa: quella di prepararsi a

fronteggiare eventi negativi futuri e incerti causati da attività già svolte, ma nonostante questo il premio di

assicurazione riduce il valore aggiunto e l’accantonamento no.

C2) Ancora errata imputazione di costi (sottovalutazione): l’ufficio marketing, per promuovere le

vendite e contemporaneamente fidelizzare la nostra clientela, ci ha convinto di dare inizio nell’ultimo

trimestre del 2016 a una “operazione a premio”. Ci siamo così impegnati a consegnare dei regali (peluche di

personaggi Disneyani) ai clienti che entro il 30 giugno 2017 avranno raccolto sufficienti prove d’acquisto dei

nostri prodotti. Al momento di fare il bilancio del 2016, non sapendo quanti ce ne saranno richiesti, non

abbiamo ancora provveduto all’acquisto dei peluche; siamo però certi di aver già maturato, per le vendite

dell’ultimo trimestre, l’impegno alla consegna di un numero imprecisato di peluche, e questo impegno è un

debito che già abbiamo il 31 dicembre 2016 nei confronti della nostra clientela.

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Ecco allora che dobbiamo inserire nel conto economico, fra i costi del 2016, il valore dei peluche

collegabile alle vendite 2016 e, nel passivo patrimoniale, quel debito che dovrò stimare con prudente buon

senso e inserirlo alla voce “Fondi spese”.

In effetti, la ragione per la quale gli ammortamenti e gli accantonamenti non si sottraggono al

valore della produzione e si considerano tra i costi solo verso la fine del conto economico lasciandoli sia

nel valore aggiunto sia nel MOL (altrimenti detto EBITDA) è, in realtà, soltanto riconducibile al fatto che tali costi

non sono monetari, nel senso che a questi componenti negativi di reddito non è collegabile, nel periodo che

ci interessa al fine del bilancio (periodo in cui hanno offerto la loro utilità o comunque sono maturati) alcuna uscita monetaria: nel

caso degli ammortamenti l’uscita monetaria è relativa all’acquisto della immobilizzazione, e quindi è stata

registrata in un precedente esercizio; nel caso dell’accantonamento a fondo rischi o oneri l’uscita monetaria

la si avrà in un esercizio successivo, quando si dovranno sostenere le spese (per le riparazioni in garanzia, per il premio di

raggiungimento budget, per l’indennizzo del danno provocato e per l’acquisto dei peluche nei quattro esempi fatti).

Questo è il motivo per cui molti considerano gli ammortamenti e gli accantonamenti una forma

di autofinanziamento aziendale, seppure aggiungendo, per pudore, l’aggettivo “improprio”.

Per meglio consolidare questo non facile concetto può essere utile fare un paio d’altri esempi,

integrandoli questa volta con le scritture contabili ad essi relative e rispiegando in parole un po’ diverse il

tutto.

Chi fosse convinto di aver già compreso pienamente la questione può saltare direttamente fino al

capitolo 9) (a pagina 26) relativo agli indici di bilancio, ché tanto ora qui non aggiungo nulla di nuovo.

Siamo la Smeg e garantiamo i nostri prodotti per 3 anni; a fine esercizio 2016 stimiamo in

2.000.000 di euro il valore dei servizi di riparazione che dovremo eseguire in garanzia nei prossimi tre anni

sui prodotti venduti quest’anno. L’annotazione contabile è: accantonamento per rischi di garanzia (R) Fondo rischi di garanzia (P)

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

| | 3.000.000 (saldo iniziale)

31/12/2016 2.000.000 | | 2.000.000 (31/12/2016) (saldo finale) 2.000.000 | | 5.000.000 (saldo finale)

Quiz per principianti (a livello 0): cosa rappresentano i 3.000.000 di saldo iniziale (cioè al 1/1/2016) del conto “Fondo rischi di garanzia”? Quiz per principianti (livello – 1): perché non c’è alcun saldo iniziale nel conto reddituale “accantonamento per rischi di garanzia”? Nota per appassionati: ribadisco che sarebbe più corretto considerare i 2 milioni come una rettifica in diminuzione ai ricavi del 2016, ma per prassi contabile li si inserisce fra i costi.

Come si vede, i 2 milioni “accantonati” sono finiti in avere di un conto patrimoniale, e quindi

incrementano le fonti di finanziamento.

Allo scopo di evitare clamorosi equivoci e madornali errori di comprensione (in cui peraltro sono soliti

cadere avvocati, magistrati, sindacalisti e politici), può essere utile ribadire ai principianti (a livello – 2) e ai più distratti che

“accantonare 2 milioni di euro” a un fondo non significa mettere da parte 2 milioni di euro per

conservarli sul conto corrente o in un qualche altro posto (magari su un libretto di deposito o in un cassetto o dentro la

zuccheriera) fino a quando dovranno essere usati per finanziare le uscite monetarie future relative agli

indennizzi o alle riparazioni in garanzia (nel caso di fondi rischi) o all’acquisto dell’attrezzatura nuova (nel caso di fondo

di ammortamento); infatti accantonare 2 milioni di euro in un fondo (fondo rischi o fondo ammortamento che sia) significa

unicamente ridurre il risultato di esercizio di 2 milioni, e quindi ridurre di 2 milioni l’importo dell’utile

disponibile per una eventuale distribuzione ai soci.

Ad esempio: senza un certo accantonamento al Fondo rischi l’utile 2016 di una certa azienda

risulterebbe pari a 10 milioni, facendo così arrivare il capitale proprio, che inizialmente magari era pari a

90 milioni, a 100 milioni; con un accantonamento di 2 milioni l’utile risulta di soli 8 milioni e così il

capitale proprio raggiunge solo 98 milioni. A fronte di questi 2 milioni di minor incremento della voce

“capitale proprio” vi è l’incremento di 2 milioni della voce Fondo rischi, anch’essa, giustamente, situata fra

le fonti di finanziamento. L’accantonamento al fondo serve proprio per rettificare di 2 milioni il

patrimonio netto aziendale, perché quegli euro non sono ricchezza creata dall’attività aziendale bensì

rappresentano un debito sorto a causa dell’attività svolta.

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Gli accantonamenti sono costi (o minori ricavi) che vengono correttamente inseriti (in sede di scritture di

assestamento) nel “dare” del conto economico in virtù della loro competenza, originando come contropartita in

avere una voce patrimoniale di bilancio che ha natura di debito o di rettifica in diminuzione di un valore

attivo patrimoniale e la cui denominazione ricorda la natura del componente economico.

Non di rado tali scritture contabili traggono origine da stime di eventi che non è nemmeno certo

accadranno; si definiscono, infatti, “costi futuri incerti sia nella loro esistenza e nell’importo, oppure

soltanto incerti nel loro importo”.

Esempio del primo tipo (costo incerto sia nell’esistenza che nell’importo) e debito come contropartita (in avere):

un cliente imputa a una nostra fornitura un danno da lui subito (e che noi non abbiamo coperto da assicurazione)

e pertanto reclama il risarcimento. Al 31.12, non riconoscendo noi la nostra responsabilità, siamo ancora

nella fase del suo accertamento da parte di un collegio arbitrale (o, Dio ce ne scampi, di un giudice statale). In base ai

principi della prudenza e della competenza imposti dalla legge e dalla dottrina aziendalistica, dobbiamo

stimare un onere (un costo) da imputare all’esercizio anche se speriamo che non lo subiremo.

Esempio del secondo tipo (costo certo nell’esistenza ma non nell’importo) e debito come contropartita (in avere): idem, ma siamo consapevoli della nostra responsabilità, e al 31.12 siamo però ancora in attesa

della determinazione da parte del collegio arbitrale del danno che dovremo risarcire.

La scrittura contabile, semplificando al massimo, in entrambi i casi può essere:

Oneri per R.C. Prodotti . R . Fondo rischi per Responsabilità Civile P

XY | | XY

Altro esempio del primo tipo (costo incerto sia nell’esistenza che nell’importo) ma con rettifica in diminuzione

dell’ attivo (del dare) come contropartita:

per esperienza sappiamo che ogni anno non ci vengono saldati crediti commerciali, della cui

bontà pure non abbiamo motivo di dubitare, per un importo normalmente prossimo all’1% delle vendite. A

fine anno avevamo crediti verso clienti per 7.050.000 €, e tra questi 50.000 € di credito verso un cliente che

sappiamo già essere in difficoltà finanziarie, tanto che stimiamo che ci pagherà solo il 40% (cioè di quei 50.000 €

ne perderemo probabilmente 30.000) In sede di redazione del bilancio al 31.12 dobbiamo stimare, con prudenza e

onestà, che 100.000 € (1% di 7.000.000 più i 30.000 del credito specifico) non ci verranno mai più pagati.

La scrittura contabile, sempre semplificando, può essere:

Svalutazione crediti (voce B10.d del conto ec.) R Fondo svalutazione crediti (voce CII dello stato patr.) P

100.000 | | 100.000

O, meglio, quella qui sotto;

Svalutazione crediti R Fondo svalutazione crediti P .

100.000 | – 100.000 |

Il risultato economico del periodo e il capitale netto finale a cui si perviene con le due scritture di

assestamento alternative sono ovviamente gli stessi, ma la differenza non è comunque puramente formale:

la seconda scrittura, infatti, evidenzia la realtà in modo più rispettoso, in quanto in questo modo (immettendo la

posta correttiva in diminuzione subito sotto il valore nominale dei crediti commerciali) si segnala un valore attivo patrimoniale pari a

quello che si ritiene corretto, mentre con la prima (che evidenzia tra le fonti il valore del fondo) si mantiene l’attivo

patrimoniale “gonfiato” di un valore che pure si ritiene probabilmente già andato perduto.

Segnalo, infine, che quando, l’anno successivo, la perdita si realizza davvero (il cliente fallisce, oppure ci

accordiamo con lui e, seguendo la saggia regola del “pochi, maledetti ma subito” rinunciamo a una parte del credito) si utilizzerà il fondo per

“coprire” la perdita, e quindi la scrittura sarà

Fondo valutazione crediti P Cliente Caio Tizio P .

WQ | | WQ

o, nel caso il fondo non fosse più capiente,

Perdite su crediti (voce B14 del conto.ec.) R Cliente Caio Tizio P .

WQ | | WQ

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9) L’analisi mediante gli “indici di bilancio”.

Breve sintesi del percorso fatto fino a ora:

Siamo partiti dalla constatazione che se vuoi farti un’idea dell’azienda Pinca Pallina il più delle

volte hai solo a disposizione – se non hai una posizione “interna” privilegiata – il suo bilancio ufficiale

depositato al Registro Imprese della CCIAA;

poi abbiamo visto che, essendo questo bilancio strutturato in modo piuttosto penoso (soprattutto per le infelici

scelte del legislatore, in particolare in relazione al conto economico), è necessario rielaborarlo procedendo alla “riclassificazione”,

sia dello stato patrimoniale sia del conto economico, anche utilizzando le informazioni leggibili nella

nota integrativa e nella relazione degli amministratori (anch’essi documenti facenti parte del bilancio);

abbiamo poi verificato come la riclassificazione dello stato patrimoniale consista essenzialmente

nell’ordinare in modo più chiaro le voci dell’attivo e delle fonti in funzione – rispettivamente – della

loro liquidità e della loro esigibilità;

abbiamo dedicato più tempo alla riclassificazione del conto economico perché i limiti informativi del

conto economico ufficiale sono più gravi di quelli dello stato patrimoniale (il cui schema imposto dalla legge è già

sostanzialmente ordinato in base alla liquidità dell’attivo e alla esigibilità delle fonti), derivando questi limiti informativi (intendo quelli

del conto economico “civilistico”) anche dal fatto che non essendoci una chiara distinzione fra componenti

reddituali della gestione tipica (o caratteristica) e quelli invece della gestione atipica (extra-caratteristica) non sono

nemmeno leggibili i tre importanti risultati intermedi del: 1. valore aggiunto; 2. EBITDA (o margine

operativo lordo); 3. EBIT (o risultato operativo); per superare tali limiti si deve quindi ricostruire il

conto economico nella forma scalare “a valore aggiunto”.

Infine, anche per un utile ripasso dei concetti di base ragionieristici, ci siamo soffermati sul concetto di

autofinanziamento (proprio e, soprattutto, improprio). Resta ora da trattare gli “indici di bilancio”.

9.1) Dalla riclassificazione agli indici.

Mentre i “margini” sono delle differenze (e, grazie al libro, già conoscete il “margine di tesoreria”, il “margine di

struttura” e il “capitale circolante netto” che, seppure non ha nel nome il termine “margine” lo è comunque, essendo una differenza), gli indici sono

dei rapporti fra due grandezze, e così gli “indici di bilancio” sono rapporti fra due dati del bilancio.

Per poter trovare un rapporto (ratio, in inglese) occorre, e non ci vuole Newton per capirlo,

conoscere il numeratore e il denominatore. Spesso, però, i dati da mettere in rapporto non sono

esplicitamente segnalati nel bilancio depositato perché – come abbiamo visto e appena ripetuto – questo segue

obbligatoriamente una schema previsto dalla normativa civilistica (= dalla legge) che, usando un eufemismo, non

è l’ideale in termini di efficacia informativa. Ecco perché, prima di procedere con l’analisi per indici,

occorre passare dalla fase della riclassificazione del bilancio, in modo da ottenere quelle voci che, messe in

rapporto fra loro, ci daranno il valore dell’indicatore cercato.

Di indici se ne possono calcolare a cariolate, essendocene tantissimi e di vari tipi: ci sono indici

che mettono in rapporto due valori entrambi dello stato patrimoniale, oppure due valori entrambi del conto

economico, ma vi sono anche indici costituiti dal rapporto di un valore indicato nello stato patrimoniale e

un valore presente nel conto economico o viceversa. Il risultato di ognuno di questi rapporti potrà essere

indicativo dell’andamento economico, oppure della condizione patrimoniale o di quella finanziaria

dell’impresa (1), ma una cosa deve essere ben chiara:

nessun indice, da solo, è adeguatamente significativo!

Ogni indice, infatti, deve essere interpretato e valutato sia in una visione d’insieme, cioè

con gli altri indici (relativi alla stessa azienda) ad esso correlati, sia in una visione dinamica, cioè

osservandone l’andamento nel tempo, in modo da comprendere in quale direzione si sta muovendo

l’impresa, e, infine e facendo confronti con i valori medi di aziende analoghe, in una visione spaziale,

nell’ipotesi, ovviamente, che siano disponibili dati attendibili di un numero sufficientemente ampio di

aziende simili per settore di attività e per dimensione.

(1) L’aspetto finanziario di un’impresa è, per come lo intendo io, una parte del più generale aspetto patrimoniale, e precisamente la parte che riguarda gli elementi patrimoniali costituiti da crediti, liquidità e debiti.

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Gli indici si possono classificare in vari modi, qui suddivido quelli forse usati più spesso in cinque gruppi:

1. gli indici di struttura, tramite i quali si valuta la solidità patrimoniale dell’azienda, cioè l’equilibrio fra

impieghi e fonti (il libro li suddivide fra “indici di solidità” e “indici di composizione delle fonti”);

2. gli indici finanziari, da cui trarre un giudizio sull’equilibrio finanziario dell’azienda, cioè sulla sua

capacità di far fronte nel futuro, soprattutto prossimo, ai pagamenti (per il libro “indici di liquidità”);

3. gli indici di rotazione (o di durata), con i quali otteniamo informazioni sulla tempistica dei pagamenti

commerciali (sia vendite che acquisti) e sull’efficienza della gestione scorte;

4. gli indici di produttività, significativi dell’efficienza della struttura produttiva aziendale;

5. gli indici di redditività, che informano sulla capacità di creare ricchezza in rapporto al capitale impiegato.

Gruppo Nome INDICE Significatività

Indici di

struttura

I. di indebitamento Capitale di terzi

-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Totale attivo

Più è basso e meglio è: valori vicini al 75% sono

in genere allarmanti (salvo si tratti di banche o altre aziende

del settore finanziario in cui è fisiologico arrivare al superare il 90%)

I. di indipendenza (o

di autonomia finanz.)

Capitale proprio

-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Totale attivo

E’ il complemento a 1 del precedente, pertanto

offre la stessa informazione. Un tempo si esigeva

almeno il 50%, ora spesso si tollera anche il 25%)

I. di autocopertura delle

immobilizzazioni (A)

Capitale proprio

-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Immobilizzazioni

Più è alto meglio è; se poi è > di 1 significa che

il capitale netto finanzia anche una parte del

capitale circolante e, di questi tempi, va di lusso.

I. di copertura delle

immobilizzazioni (B)

Capitale proprio + passività consolidate

----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Immobilizzazioni

Se < a 1 è allarmante: significa che una parte di

immobilizzazioni è finanziata da debiti a breve,

e ciò è destabilizzante (anche di questi tempi).

Indici

finanziari

Indice di disponibilità

(all’inglese: current ratio)

Capitale circolante

--------------------------------------------------------------------------------------------------

Passività a breve termine

Offre la stessa informazione dell’ I. di copertura

delle immobilizzazioni “(B)”, e se è minore di

1 è allarmante: troppe fonti a breve termine.

Indice di liquidità o

anche “prova acida”

(all’inglese: quick ratio)

Capitale circolante meno scorte

-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Passività a breve termine

In pratica cassa+crediti a b./t. in rapporto

ai debiti a b.t.: meglio se > di 1, ma valori

di poco inferiori si possono tollerare.

Indici di

rotazione

(di durata)

I. di rotazione dei crediti

Fatturato del periodo + IVA

---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Crediti commerciali medi

Più è elevato e meglio è: un indice pari a 12

significa che i clienti ci pagano in media a un

mese dalla vendita

gg dilazione media vendite 365 ÷ I. rotazione crediti Offre la stessa informazione del precedente

I. rotazione del magazzino Costo del venduto

----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Valore medio scorte

Più è elevato e meglio è: segnala una gestione

del magazzino efficiente

gg medi permanenza scorte 365 ÷ I. rotazione scorte Offre la stessa informazione del precedente

I. rotazione debiti commerc. Acquisti del periodo + IVA ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Debiti medi v/fornitori

Un indice basso (ad es. pari a 3), segnala che i

fornitori concedono tempi lunghi (4 mesi, se il

periodo dell’esempio è l’anno) per pagare gli acuisti.

gg dilazione media acquisti 365 ÷ I. rotazione debiti Offre la stessa informazione del precedente

Indici di

produttività

Produttività del lavoro

Valore aggiunto ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Numero di dipendenti oppure

Costo del personale

Segnala qual è il contributo di ogni dipendente (o di

ogni euro di costo del lavoro) al valore della

produzione che si origina all’interno dell’azienda

Costo medio per dipendente Costo del personale dipendente -----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Numero di dipendenti 4 Evidenzia il costo medio di un dipendente.

R.O.S.

(Return On Sale)

Risultato Operativo (EBIT)

---------------------------------------------------------------------------------------------------------

Ricavi di vendita

Rapportando il reddito operativo con le

vendite si individua il loro rendimento; è un

buon indicatore della efficienza produttiva.

Indici di

reddittività

R.O.I.

(Return On Investment)

Risultato Operativo (EBIT) -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Capitale investito (al netto di eventuali

valori patrimoniali riferibili ad attività extraca - ratteristica, ad esempio immobili concessi in

locazione)

Mentre il R.O.S. evidenzia l’efficienza della

azione produttiva aziendale, il R.O.I., calco-

lando la redditività degli investimenti, misura

efficacemente l’efficienza della struttura pro-

duttiva dell’azienda.

R.O.E. (Return On Equity)

(in italiano: Redditività del

capitale proprio

Utile netto

-----------------------------------------------------------------------------------

Capitale proprio

Esprime la redditività del cap. di rischio. Va

confrontato con la redditività di investimenti

a rischio simile e a rischio 0 (Bund teutonici).

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Gli indici di struttura sono anche detti “indici patrimoniali” e, ovviamente, servono a

misurare l’equilibrio patrimoniale dell’azienda.

Tra gli indici finanziari possono essere compresi anche gli indici di rotazione, detti anche

“indici di durata”, e hanno comunque a che fare con la gestione dell’attivo circolante (liquidità, crediti

commerciali e scorte) e del passivo a breve (debiti di fornitura).

Gli “indici di redditività” e gli “indici di produttività” sono entrambi anche detti indici economici, in quanto il loro scopo è valutare l’equilibrio economico aziendale: i primi (di redditività)

verificano l’economicità complessiva della gestione aziendale, quelli di produttività misurano in genere

l’efficienza di singoli fattori produttivi, principalmente il fattore lavoro.

9.2) Indici e equilibrio aziendale.

Si è detto che l’analisi per indici contribuisce non poco a comprendere se l’azienda è sana,

efficiente ed equilibrata.

Solitamente l’equilibrio aziendale è valutato sotto tre aspetti principali, in quanto gli eventuali

squilibri messi in luce dagli indici e che possono rendere non sana un’azienda potrebbero essere presenti

sul lato economico, su quello finanziario e su quello patrimoniale (non di rado i tre squilibri sono contemporanei).

a) equilibrio economico: un’azienda è equilibrata economicamente se ottiene profitti soddisfacenti

rispetto al capitale investito;

b) equilibrio finanziario: un’azienda è equilibrata finanziariamente se ha liquidità sufficiente a far

fronte ai propri pagamenti senza dover ricorrere a svendite rovinose, a prestiti a tassi eccessivi o a

pagamenti in natura; in pratica non si è lontani dal vero affermando che si ha uno squilibrio finanziario se

la liquidità immediata non riesce a coprire i debiti a breve;

c) equilibrio patrimoniale: un’azienda è equilibrata patrimonialmente se non presenta:

• nell’attivo troppe immobilizzazioni rispetto al totale degli impieghi, cioè se ha un attivo non

eccessivamente rigido;

• nel passivo un patrimonio netto troppo basso rispetto all’attivo, cioè se non ha troppi debiti e soprattutto

troppi debiti a breve.

Gli squilibri sono, poi, spesso tra loro collegati. Ad esempio:

STATO PATRIMONIALE CONTO ECONOMICO molte immobilizzazioni → ammortamenti elevati

troppi debiti → interessi passivi elevati troppe scorte → eccesso di costi riferibili al magazzino

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10) La leva finanziaria e i suoi effetti.

10.1) Il costo dell’indebitamento. Per comprendere la “leva finanziaria” è preliminarmente necessario definire un altro indice

(inquadrabile fra quelli di redditività): il R.O.D. (Return On Debt) che è dato dal rapporto fra oneri finanziari e debiti

( R.O.D. = Oneri finanziari ÷ Debiti ); in pratica, e non occorre un gran intuito per arrivarci, è il tasso d’interesse

medio a cui l’azienda si finanzia.

Come per tutti gli indici, anche nel calcolo del ROD occorre rapportare valori omogenei: in caso

contrario, se cioè numeratore e denominatore non sono adeguatamente coerenti fra loro, allora il valore

dell’indice ha scarsa significatività e, anzi, rischia di dare informazioni fuorvianti. Nel caso del ROD,

l’esigenza di omogeneità impone che al denominatore vi siano solo i debiti per i quali all’azienda sono

addebitati, esplicitamente o in modo implicito, degli oneri finanziari e che, contemporaneamente, al

denominatore siano inseriti solo i debiti per i quali quegli interessi maturano.

Tra i debiti al denominatore, quindi, non vi sono i debiti per l’esistenza dei quali non si sostiene

alcun onere finanziario; tipicamente si tratta dei debiti verso i dipendenti per competenze ancora da

corrispondere (compreso il T.F.R.), di quelli verso lo stato e gli enti previdenziali (a meno che non si sia ottenuto la rateizzazione

onerosa delle imposte e dei contributi dovuti), dei ratei e risconti passivi (se non originati da operazioni di finanziamento) e dei fondi

rischi e spese.

I debiti commerciali, infine, meritano qualche riga in più di osservazioni. Se siamo al corrente

del fatto che alcuni fornitori praticano all’azienda prezzi maggiorati per tenere conto della concessione di

maggiori dilazioni concesse per i pagamenti, allora è necessario inserire al numeratore il costo per questi

interessi impliciti e al denominatore questi debiti di fornitura; se, però e come capita frequentemente, non

abbiamo queste informazioni e siamo quindi in grado di conoscere l’ammontare solo degli interessi

espliciti sui debiti di finanziamento, allora escluderemo dal denominatore tutti i debiti di fornitura.

Resta da chiarire, a questo punto, l’esclusione dal denominatore del fondo di trattamento di fine

rapporto, in modo da prevenire le obiezioni che sono certo tutti voi avete urgenza di espormi consapevoli

come siete del fatto che su tali debiti l’azienda paga, e in modo esplicito, un interesse (al tasso, come certamente

ricordate, dell’1,5% + i ¾ del tasso d’inflazione).

Il motivo per cui non si tiene conto di tali interessi e di questi debiti sta nel fatto che l’ammontare

del debito per TFR e quindi anche dei relativi interessi non dipendono dalle scelte finanziare dell’azienda

ma, rispettivamente, da decisioni attinenti alla produzione (quanti dipendenti ho e con quale anzianità media) e da

imposizioni esterne (del legislatore che ha regolamentato il T.F.R.). Come vedremo fra poco, la ricerca del ROD e della

collegata leva finanziaria è effettuata per valutare l’opportunità se finanziare maggiormente l’attività con

capitale di terzi o con capitale proprio, ma la variazione del debito verso i dipendenti per TFR è

sostanzialmente subita dall’azienda, in quanto in gran parte non dipendente da una sua scelta.

10.2) L’interesse di chi ha conferito il capitale di rischio.

Se assumiamo l’ipotesi, certamente realistica, che l’interesse dei soci (azionisti o comunque finanziatori con

capitale di rischio) sia quello di massimizzare il tasso di rendimento dei propri investimenti personali, allora

l’obiettivo che l’azienda deve porsi è quello di rendere massimo il ROE (che è il rapporto fra utile netto e capitale proprio).

Se ipotizziamo poi (ma questa è un’ipotesi più “forte” della precedente, cioè più spesso lontana dalla realtà) che un aumento

del capitale investito non modifichi il ROI (e quindi se ipotizziamo che gli investimenti aggiuntivi abbiano un rendimento analogo a quelli

già in essere), allora un aumento del capitale investito provoca un proporzionale aumento del reddito operativo (il altre parole ipotizziamo che se l’attivo aziendale aumenta, ad esempio, del 10%, allora aumenta del 10% anche il reddito operativo).

Questa relazione di proporzionalità diretta in genere non vale, invece, tra incremento dell’attivo e

aumento del reddito netto: un aumento dell’X% dell’attivo aziendale, pur mantenendo l’ipotesi che il ROI

non si modifichi, porterà a una variazione del reddito netto dell’Y% con Y che può essere diverso e anche

di molto da X, tanto da poter assumere anche segno negativo pur in presenza di X positivo: questo capita

quando l’incremento di interessi passivi originato dall’indebitamento che ha finanziato il nuovo

investimento è superiore all’aumento (in euro) del reddito operativo.

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Detto in altri termini: all’aumentare del capitale investito e anche supponendo che il nuovo attivo

mantenga la stessa redditività operativa (cioè che il ROI non cambi), il reddito netto è possibile che vari in

proporzione diversa e perfino che diminuisca.

Oltre a ciò, c’è da considerare che, come già detto, al portatore di capitale di rischio (cioè al socio che

ha investito nell’azienda parte del suo patrimonio personale) quello che più interessa non è tanto il valore in euro del reddito

netto aziendale quanto il suo valore percentuale rispetto all’importo che ha investito: guadagnare 20

all’anno investendo 100 (quindi a un tasso di rendimento del 20%) dà più soddisfazione che guadagnare 30 avendo però

investito 200 (con un tasso di rendimento del 15%).

Per prudenza vediamo un esempio utilizzando, per non complicare inutilmente il caso,

un’azienda senza attività non caratteristica e con gestione straordinaria inesistente.

L’azienda ha impieghi totali pari a 2.000, reddito operativo pari a 200 (e quindi ROI pari al 10%),

capitale proprio pari a 800 e debiti finanziari di 500 su cui paga 20 di interessi (al tasso, quindi, del 4%);

ipotizzando un’aliquota d’imposta sul reddito è del 40% il reddito netto risulta 108 [200 (redd.op.) – 20 (int.pass.) –

40%*(200 – 20) (imposte)] e il ROE è 13,5% [108 / 800 ].

Ora ipotizziamo un incremento dell’attivo di 1.000 (il totale attivo da 2.000 aumenta a 3.000, e quindi del 50%)

finanziato con 1.000 di aumento di capitale netto (che, quindi, da 800 passa a 1.800): date le ipotesi riportate, il

reddito operativo da 200 aumenta a 300 (i 200 di partenza + 10%*1.000), mentre il reddito netto da 108 aumenterà

a 168 [300 (redd.op.) – 20 (int.pass.) – 40%(300 – 20)]; a fronte di un incremento rilevante del reddito (che aumenta di 60 su 108

e quindi del 56%) il ROE, però, scende dal 13,5% al 9,3% (168 / 1.800).

Se l’investimento di 1.000 fosse stato finanziato tutto a debito e all’usuale (per quell’azienda) 4% di

tasso, le conseguenze sarebbe state queste: Reddito Netto 144 [300 (redd.op.) – 60 (int.pass.) – 40%(300 – 60) (imposte)], e

quindi minore dei 188 del caso precedente, ma il ROE sarebbe salito al 18% (144 / 800) dando maggiore

soddisfazione agli azionisti grazie a una redditività del loro personale investimento nell’azienda quasi

raddoppia (il 18% invece del 9,3%) rispetto a quella di cui avrebbero beneficiato se l’espansione aziendale fosse

stata finanziata con capitale di rischio. Investimento finanziato con capitale di rischio

Prima Dopo Impieghi Situazione patrimoniale Passivo e Netto Impieghi Situazione patrimoniale Passivo e Netto

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Immobilizzazioni X | 800 Patrimonio Netto Immobilizzazioni W | 1.800 Patrimonio Netto | 500 Debiti finanziari | 500 Debiti finanziari Capitale circolabte Y | 700 Altri debiti e Fondi Capitale circolabte Z | 700 Altri debiti e Fondi

-------------------------------- -------------------------------- -------------------------------- ----------------------------- Totale Attivo 2.000 2.000 Tot. Fonti di finanz. Totale Attivo 3.000 3.000 Tot. Fonti di finanz.

Conto economico precedente Conto economico successivo

Valore della produzione X Valore della produzione Y .... .... ... .... .... ... .... .... ... .... .... ...

Reddito operativo (EBIT) 200 Reddito operativo (EBIT) 300

Saldo gestione finanziaria - 20 Saldo gestione finanziaria - 20

Utile lordo (ante imposte) 180 Utile lordo (ante imposte) 280 Imposte sul reddito (40%) - 72 Imposte sul reddito (40%) - 112

Utile Netto 108 ROE = 13,5% ROE = 9,33% Utile Netto 168

Investimento finanziato con capitale di debito

Prima Dopo Impieghi Situazione patrimoniale Passivo e Netto Impieghi Situazione patrimoniale Passivo e Netto

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- --------------------------------------------------------------

Immobilizzazioni X | 800 Patrimonio Netto Immobilizzazioni W | 800 Patrimonio Netto | 500 Debiti finanziari | 1.500 Debiti finanziari Capitale circolabte Y | 700 Altri debiti e Fondi Capitale circolabte Z | 700 Altri debiti e Fondi

-------------------------------- -------------------------------- -------------------------------- ----------------------------- Totale Attivo 2.000 2.000 Tot. Fonti di finanz. Totale Attivo 3.000 3.000 Tot. Fonti di finanz.

Conto economico precedente Conto economico successivo

Valore della produzione X Valore della produzione Y .... .... ... .... .... ... .... .... ... .... .... ...

Reddito operativo (EBIT) 200 Reddito operativo (EBIT) 300

Saldo gestione finanziaria - 20 Saldo gestione finanziaria - 60

Utile lordo (ante imposte) 180 Utile lordo (ante imposte) 240 Imposte sul reddito (40%) - 72 Imposte sul reddito (40%) - 96

Utile Netto 108 ROE = 13,5% ROE = 18% Utile Netto 144

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10.3) Il rischio dell’indebitamento.

Come si è visto, condizione necessaria e sufficiente affinché la decisione di finanziare

l’espansione aziendale con l’indebitamento abbia effetti positivi sul margine operativo è che l’investimento

fatto (e quindi l’incremento dell’attivo) abbia una redditività, in termini di EBIT, maggiore degli interessi aggiuntivi

che il finanziamento comporta; restando invariato il capitale proprio, anche il ROE migliora, ed è questo

che misura più correttamente la convenienza per i soci.

Non dovete, però, sottovalutare il fatto che la decisione basata sul confronto fra redditività

dell’investimento e costo del finanziamento è fatta su valori previsti, e se è vero che il costo che si dovrà

sopportare per la fonte finanziaria può essere reso certo (ad esempio stipulando un finanziamento a tasso fisso per tutta la sua

durata o tramite acquisto di “derivati”), è anche vero che la resa dell’investimento non la può prevedere nemmeno il

divino mago Otelma (https://it.wikipedia.org/wiki/Divino_Otelma), e perciò è inevitabile che tutto sia basato su congetture

o, in non pochi casi, su pure fantasie.

Ma anche nel caso che la previsione si riveli corretta o che la fantasia si trasformi in realtà, in

(cioè se il ROE aumenti davvero dando soddisfazione agli azionisti) non è detto, però, che sia stata fatta la scelta giusta: non

bisogna sottovalutare, infatti, il maggior rischio che l’incremento dell’indice di indebitamento (il rapporto

“Debiti / Tot. attivo”) e quindi il peggioramento dell’equilibrio patrimoniale comporta per il futuro aziendale.

In altre parole: se anche la scelta d’indebitarsi arriva a migliorare l’equilibrio reddituale, peggiora però

comunque quello patrimoniale, e non sempre il vantaggio del primo effetto compensa lo svantaggio del

secondo, soprattutto considerando che col passare del tempo e l’evolversi del sistema economico (a causa

soprattutto – ma non solo – della globalizzazione e della conseguente sempre maggiore complessità dell’ambiente in cui le aziende operano) l’incertezza del futuro si è fatta e si farà sempre maggiore e quindi le previsioni sulla redditività degli

investimenti si sono fatte e si faranno sempre più incerte e la loro attendibilità nel medio-lungo periodo

tende allo zero; ecco allora che la solidità patrimoniale diviene sempre più necessaria al fine di avere

sufficienti “riserve” per superare i sempre più imprevedibili e contemporaneamente probabili periodi in cui

la redditività sarà negativa.

Sintetizzando brutalmente: indebitarsi è inevitabile (almeno per le aziende) e spesso è anche opportuno,

ma indebitarsi molto è inevitabilmente rischioso e raramente opportuno.

10.4) La scomposizione del ROE

Poiché la differenza fra reddito operativo e reddito netto è data dalla somma algebrica di tutti i

componenti reddituali non caratteristici (costituenti la gestione finanziaria, la gestione fiscale e l’eventuale gestione accessoria) e di quelli

straordinari (frutto di eventi occasionali e quindi non ripetibili periodicamente), il rapporto “Reddito netto / Reddito operativo”

dà l’idea di quanto la gestione non caratteristica e i fatti straordinari abbiano pesato nel periodo di bilancio.

Questo “tasso d’incidenza della gestione non caratteristica” è in genere minore di uno (minore del 100%) in

quanto di norma la gestione finanziaria e quella fiscale contribuiscono negativamente al risultato finale.

Un tasso d’incidenza del 20% significa che la gestione non caratteristica incide per l’80% del reddito

operativo.

Dal momento che ROI = Reddito Operativo / Totale Impieghi e Leverage = Totale Impieghi / Capitale Proprio si

può scrivere che “ROI x Leverage x tasso d’incidenza della gestione non caratteristica” è uguale al ROE.

Infatti:

Reddito Operativo Totale Impieghi Reddito Netto Reddito Operativo Totale Impieghi Reddito Netto

--------------------------------------------------------------- x ------------------------------------------------------- x ----------------------------------------------------------- → --------------------------------------------------------------- x ------------------------------------------------------- x ----------------------------------------------------------- →

Totale Impieghi Capitale Proprio Reddito Operativo Totale Impieghi Capitale Proprio Reddito Operativo

(ROI) x (Leverage) x (incid.gest.non car.) = (ROE)

Reddito Netto ---------------------------------------------------------- Capitale Proprio

E’ quindi corretto dire che il ROE (Reddito Netto / Capitale Proprio), cioè la redditività del capitale di rischio, è

il frutto di (dipende da, è scomponibile in) tre fattori: il ROI, il Leverage e il peso della gestione non caratteristica.

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Il problema del debito. Questa pagina, pur non avendo un’attinenza stretta con l’argomento “bilancio e sua analisi”, è ugualmente a esso collegata, trattando di debito,

patrimonio e ricchezza. C’è nulla di nuovo, essendo concetti già affrontati in passato (e so bene per che la gran parte di voi sembreranno inesplorati).

Il debito non è necessariamente un problema, né il debito privato (delle aziende e delle famiglie), né il debito

pubblico (dello stato e degli altri enti pubblici, territoriali e non) e, anzi, può pure essere una opportunità, una scelta razionale e utile;

ma il debito pubblico, come problema, è più frequente e più grave del debito privato.

Inoltre, quando il debito privato diventa un problema diffuso (cioè quando la % di debitori privati a rischio è alta, allora

la responsabilità originaria non è dell’economia (cioè delle scelte private) ma della politica (cioè delle scelte pubbliche).

Quando il debito è un problema: nel caso finanzi un maggior consumo (Il testo ha un senso compiuto anche se letto nelle sue sole parti in grassetto. Solo la lettura integrale, però, ne permette la completa comprensione).

Se ci si indebita per realizzare investimenti in beni produttivi [per le aziende: macchinari, impianti, ricerca e

studio di nuovi prodotti o processi produttivi ecc.; per le famiglie: la casa (che produrrà per decenni il servizio di abitazione), il

corso di studi all’estero – serio, non a Ibiza o dintorni – per i figli (che migliora il capitale umano e quindi le capacità di produrre servizi utili in

futuro); per gli enti pubblici: strade, porti e altre infrastrutture ecc. (che rendono + efficienti i trasporti, le comunicazioni e gli scambi in

genere); ospedali e altre strutture sanitarie (che migliorano la salute e quindi anche le capacità lavorative della popolazione); scuole che

aumentino le capacità razionali e cognitive degli studenti e che quindi riducano nella popolazione la percentuale di

scelte idiote, siano esse “private” (vado all’università per continuare a divertirmi), o siano scelte “politiche” (vado a votare lasciandomi

convincere dagli slogan e in realtà capendo nulla di ciò che capita)] allora la scelta è sempre razionale, anche se non

necessariamente si rivelerà corretta (in quanto il futuro è imprevedibile e tutte le scelte, anche le più ponderate e razionali, possono rivelarsi errate).

Se ci si indebita per aumentare i consumi rispetto a quelli che sarebbero possibili con le sole disponibilità

monetarie del momento, la conseguenza è che “ci si mangia il capitale” e quindi si riduce la capacità produttiva futura [poiché è il capitale (inteso correttamente come beni di produzione, non come “capitale finanziario” che ne è solo l’immagine riflessa e, in sé,

improduttiva), insieme all’azione umana, che rende possibile la produzione]. E questo vale sia per il privato che per il pubblico.

Perché il debito pubblico, come problema, è più frequente e anche più grave del debito privato.

Sia la maggiore gravità potenziale, sia la maggiore frequenza dell’indebitamento pubblico rispetto al privato derivano da due fattori.

1) Nel privato è più facile capire quando la spesa che si fa a debito è un investimento produttivo o non lo è, e

se non lo è allora è un consumo, sia un consumo voluto (la settimana nel villaggio turistico), sia un consumo involontario

(l’acquisto – che si rivela poi errato – di un macchinario inadatto alla nostra struttura produttiva). La famiglia se ne accorge con il buon senso (l’acquisto dell’Audi 6 per la figlia che studia fuori casa in modo che non si stressi in treno e possa concentrarsi meglio a lezione può essere

considerato un investimento solo da un deficiente), l’azienda se ne accorge con la contabilità e il bilancio (solo se il valore della

produzione aumenta più dei costi allora le spese sono produttive). .

Nel pubblico è più difficile comprendere la qualità della spesa effettuata perché non potendo essere valutati i ricavi (i servizi pubblici non sono venduti ma offerti gratuitamente o a prezzo “politico”, per cui non vi è alcuna possibilità di conoscerne il valore) non si potrà mai sapere se quella spesa è stata produttiva oppure ha comportato uno spreco di risorse (perfino i

festeggiamenti per il 150° della vostra unità savoiarda-repubblicana o i sussidi statali all’industria del cinema possono essere spacciati per investimenti in

quanto spese che, incrementando il capitale culturale della nazione, ne migliorano la produttività nel futuro).

2) Nel privato è difficile fare molti danni sbagliando molte scelte per lungo tempo: la famiglia smette presto

perché, una volta che si è “mangiata il capitale” (e quindi i debiti sono diventati troppo elevati rispetto al patrimonio lordo) non trova più

nessuno disposto a farle credito e sarà costretta a smettere di spendere allegramente; l’azienda smette presto per due

ragioni: o perché si accorge in tempo che sta sbagliando (grazie alla contabilità, se è ben tenuta) e quindi corre ai ripari

cambiando il suo modo di operare, oppure perché, non trovando più nessuno che la finanzia, muore per fallimento

(che, perciò, è una medicina indispensabile per mantenere sano il tessuto produttivo di una nazione).

Nel pubblico, e in particolare se l’ente che decide la spesa è amministrato democraticamente, le scelte sbagliate possono andare avanti per moltissimo tempo: in primo luogo perché la capacità di indebitamento è maggiore in quanto il risparmiatore-investitore è abituato a pensare più al “sicuro” i propri soldi se prestati allo stato

piuttosto che a un’azienda o una famiglia: in genere pensa che lo stato non possa fallire, in secondo luogo perché chi governa è “costretto”, se vuole continuare a governare, a fare scelte popolari (altrimenti perderebbe voti e non potrebbe più

governare) e le scelte “popolari” sono, a causa dell’ignoranza economica generalizzata, molto spesso scelte irrazionali e quindi sbagliate [l’acqua potabile la vendiamo ai cittadini a un prezzo più basso del costo in modo da apparire

buoni e bravi così che continuino a votarci (tanto i costi non coperti dai ricavi l’ente pubblico li finanzia coi debiti che, essendo crediti per i cittadini,

non creano il malumore che invece l’aumento delle tariffe provocherebbe; e tanto nessuno si accorge che il 37% dell’acqua (media italiana) si disperde

sottoterra a causa di una rete di tubi talmente vecchia da essere ormai un colabrodo); le licenze dei taxi contingentate per avere i voti dei taxisti,

gli aiuti pubblici alle aziende in difficoltà affinché non falliscano ecc.)].