Il Barlume - Aprile 2009

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IL BARLUME Anno 3 - Numero 4 - Aprile 2009

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Mensile di letteratura poesia fotografia

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IL BARLUMEAnno 3 - Numero 4 - Aprile 2009

EDITORIALE

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Veniamo da lontano, andiamo lontano.Proprio come quando, al rientro primo pomeridiano dalle pseudo-fatiche scolastiche, sedici anni ormonalmente complessi, compressi e fagocitanti infilati in una scatola di cemento per ragionieri servosciocchi, trovavo mio papà che attendeva al desco, seduto sul suo piccolo scranno lucido, una panca falso-rustico tiepidamente marrone, dal quale saltuariamente pontificava le adolescenziali gesta più discutibili del vostro carissimo sottoscritto. Come quando, in occasione del rito nuziale del cugino Giangualberto, primissimi anni Novanta, mi invitò vivamente a indossare qualcosa di alternativo al chirurgico trittico anfibi-pantaloni militari-maglietta Metallica, puntellando la sua dichiarazione con un laconico “non vorrai venire al matrimonio sudicio come un bastone da pollaio?”. Al che, intriso di romanticissimo ardore hermannhessiano, ribattei vigorosamente chiosando “Babbo, non voglio essere schiavo di sterili convenzioni sociali, ma libero di esprimere la mia posizione andando vestito in modi non liturgici, né tantomeno socialmente aderenti a precetti che non rispecchiano il mio io più profondo”. Silenzio sospeso. Papà mi guardò di uno sguardo a metà tra il benevolo e il compassionevole, chiocciando un soffuso “ma che cazzo dici?”, rigettandomi nelle spire della ribellione più nera ai soprusi della società adultomorfa.Veniamo da lontano, andiamo lontano.Proprio come quando, poco prima di essere accolti tra i caldi abbracci delle lenzuola, mio padre gettava uno sguardo apparentemente distratto alla soglia della mia camera, notando che il letto era esattamente nelle stesse condizionei della mattina precedente, le lenzuola coricate in posizioni indegne, la coperta sconquassata dai rivolgimenti della mia anima tormentata,

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i cuscini pericolosamente obliqui e sul punto di caracollare in direzione del freddo e polveroso pavimento. E si rivolgeva a me interrogativo, formulando la sua questua senza oltraggi, quasi curioso, “oh Denni, ma perché non rifai il letto?”. Una fiamma rivoluzionaria incendiava il mio petto, un nove colonne sul Little Che Guevara from Prato,Tuscany. Finalmente un ambito nel quale la contesa tra chi detiene il potere e chi lo subisce, tra il nuovo che arriva e il vecchio che tramonta, infine l’eterna lotta tra il bene e il male trovava giusta risoluzione in sempiterno guiderdone per il mio cuoricino holdeniano: “Babbo, tanto ci devo tornare a dormire, che importa se lo rifaccio. E poi” – e qui scattava l’epigramma conclusivo – “ci devo dormire io, mica te”. Sì, il mio personalissimo bolescevismo aveva trionfato contro l’egomonia filo-zarista e ultra-conservatrice.Gli ultimi avevano finalmente battuto i potenti. Mio papà si ritirò silenziosamente, lasciandomi al ludibrio orgoglioso dei miei sedici anni adolescenti. E non reiterò parole vane, solo silenzio. Nessuna ulteriore ingiunzione. Solo silenzio.Venivo da lontano, andavo lontano. Con un punto interrogativo alto quanto me: dove?Mi comprai una buona camicia, un paio di jeans e scarpe nuove. E quel letto, con tutte le pieghe innaturali e amorfe del lenzuolo cencioso, non era così comodo. Chiusi il cerchio. Mio papà mi lasciò se stesso, tacendo.Veniamo da lontano, andiamo lontano. Sempre nello stesso posto.Questo mese il Barlume preannuncia la conclusione e la riapertura dei suoi cicli: Alessandro ci porta in Sardegna, facendoci conoscere ciò che viene lasciato e ciò che viene preso, le andate e i ritorni. Lorenzo Calza demiurgo d’eccezione rinnega il trascorso, richiama l’assente e lo completa di desiderio. Ad un certo punto (non oseremo chiamarlo termine) troverete anche la sdraio e le recensioni mensili.Inizio e fine sono parole dal senso effimero.

Buona letturaDePiCo

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CCaannnnoo ll''oommppiiaa eesstt ss''oorraaAlessandro Pagni

A Marco e alla Jana che seguiva il suo cammino

Ecco che le vedo, incastonate nella notte, le luci della piccola città di Olbia, sospese sopra l’infinito nero buio mare.Ecco che gli schizzi di questa spada che fende l’acqua e le gelide folate del vento novembrino, mi destano dal torpore della sala comune.È sempre un viaggio interminabile arrivare qua via mare e così senza preavviso non c’è stato modo di trovare un biglietto aereo: nonna dice che Marco ha chiesto espressamente di potermi salutare, che molto probabilmente non arriverà a domattina.Ho cercato di obiettare che i dottori avevano parlato più volte di una “lunga agonia”, ma lei non ha voluto sentire ragioni.Ecco le luci del porto avvicinarsi come lanterne orientali che galleggiano sull’acqua.Nella festa giapponese dei defunti, l’O-BON, gli spiriti tornano sulla terra durante il periodo dei festeggiamenti per rivedere i propri congiunti e si usa portare lanterne che li aiutino a ritrovare la propria casa.Marco non è ancora morto, ma queste luci, scorte dall’oblò di una nave simile a questa, devono avergli dato la sensazione rassicurante di un faro, di un caldo “bentornato”.L’identica emozione che, adesso, pervade anche me.Sono passati molto anni dall’ultima volta che ho sentito il profumo di questa terra.Ero stufo delle consuetudini familiari: la mattina in spiaggia, pranzo sostanzioso e pennichella pomeridiana, ancora al mare nel pomeriggio e la sera cenone con tavolata di almeno trenta persone, risate e canti fino all’ora del sonno.Appena i miei sedici anni di ormoni in subbuglio lo hanno permesso, ho rifiutato questa routine per percorrere altre strade.Adesso tornerei a quei giorni così genuini, così pregni di calma e luce.La vita è un cerchio perfetto, o nel peggiore dei casi una parabola.Comunque, non si può evitare un’andata.E poi un ritorno.Ecco che le luci del porto si fanno ancora più luminose e si stagliano contro la piccola altura nero pece oltre cui si allunga il golfo naturale di Olbia, protetto dal braccio serrato di Capo Figari.Un posto che già la natura, di sua iniziativa, ha adibito a porto per accogliere chi torna a casa.Ricordo tante storie e leggende legate a quest’isola, le favole che ci cullavano prima di addormentarci o i racconti di paura usati come minaccia per placare i momenti di eccessiva agitazione.Le grotte delle Janas e le leggende dei loro amori impossibili con gli esseri umani, le tombe dei giganti, le incursioni cristiane con la loro morale, nella spiegazione della presenza di menir millenari o riti pagani di sapore matriarcale.Marco mi parlava spesso dell’invasione dei turchi e della leggenda di lontane radici di quel popolo nel nostro sangue; dei bombardamenti, dei tedeschi, delle famiglie sfollate nelle campagne, di come tutto fosse stato un po’ meno tragico qui.Mia nonna negli infuocati pomeriggi estivi, mi intimava di non uscire fuori a giocare, per non rischiare di essere rapito dalla Mamma del Sole o di far attenzione di notte all’Accabadora: una donna che viveva, come le streghe delle favole, isolata dalla comunità e aveva il compito di venire a prendersi le anime dei moribondi, provocandone fisicamente la morte, con strumenti che immaginavo spaventosi e che, durante la notte, la suggestione materializzava nella mia stanza nei luoghi più impensati.

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Poteva utilizzare su mazzolu, un robusto bastone di legno che serviva a sfondare il cranio del malato; o un giogo da buoi, che veniva fatto passare sotto la nuca del moribondo per spezzargli l’osso del collo con un colpo secco.Le stesse cosce calde della terribile Accabadora potevano diventare un’arma mortale quando si chiudevano intorno alla testa della vittima e, seguendo la melodia di una canzone per bambini, riuscivano a strangolarla.Da bambino, nelle notti in cui avevo la febbre alta o un qualsiasi tipo di virus, avevo il terrore che mi venisse a cercare come faceva con i malati terminali: la vedevo ovunque dentro la mia stanza, vestita di nero, con una delle sue gonne tirata su a coprire il viso, mostrando di sé solo quegli occhi maledetti.La immaginavo uscire dall’armadio e avvicinarsi inesorabile al mio letto, molto lentamente, o stagliarsi di fronte alla porta della mia stanza, come a chiarire, che non ci sarebbe stata via di fuga.Il suo canto spaventoso di colpo sarebbe cessato e con lui la mia vita.Un bambino non conosce certe cose, non può scavare così a fondo, non ne ha la facoltà né la malizia.Un bambino si ferma a quello che gli dice l’istinto e davanti alla morte, fa come la piccola al capezzale della madre, in quel quadro di Munch: si schiaccia con forza le mani contro le orecchie per non sentire e se può, fugge via.Dietro a quella gonna, con l’immaginazione, avevo disegnato mostruosità difficili da raccontare e all’idea di quella canzonetta per bambini avrei chiesto anch’io di diventare sordo o di poter scappare lontano.Poi con il tempo comprendi che niente è realmente ciò che sembra, nella vita.Il rumore dei motori del traghetto è così pedante e continuo che ad un certo punto non lo senti più, diventa parte del tuo viaggio, come le oscillazioni e gli schizzi di acqua salata che ti pun

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pungono quando le onde si incontrano e si disintegrano vicendevolmente.Come fanno le persone.Ritorni a renderti conto di quel rumore, solo quando la navetta pilota fa gli onori di casa e scorta, anzi trascina, la grande sciabola nelle acque basse del golfo.Il tempo lunghissimo delle manovre di attracco poi, ti dà sempre modo di terminare e riordinare le considerazioni dettate dal mare.Questa terra che ho sempre rifuggito, stanotte mi chiama per un ultimo saluto.Marco e il suo mare nero che si fa largo nei polmoni.Il mare nero che inonda i suoi ricordi e lo divora lentamente in attesa di finirlo.Una preda ormai stremata.Acabar.Ecco che le luci del porto diventano riflettori puntati sull’indaffarato formicaio che popola quel fazzoletto di mondo.La malinconia scivola piano nell’urgenza di radunare le mie cose e di affrettarmi verso la scala, giù al ponte inferiore dove si trovano i garages.

I fari dell’auto illuminano un cono di asfalto inghiottito dal buio, sopra una coperta di stelle gelate dall’autunno e sotto il niente su cui premere l’acceleratore.Intorno campi vuoti e alture inquietanti a macchiare di nero i bordi di quella trapunta scintillante.La montuosa e smisurata regione della Barbagia mi inghiotte: terre che i romani definirono “Barbaria” perché inconquistabili e dove la Chiesa non ha saputo sradicare pratiche che si perdono nella notte dei tempi.Il viaggio dentro la Sardegna è lungo quanto un viaggio attraverso mezza Italia, come se il tempo qui perdesse la sua elasticità e assumesse la consistenza di un verme allungato sotto il sole.Come se le strade si trasformassero in ramificazioni secolari, con troppi sbocchi nel vuoto di un precipizio o al limite di un muro di roccia.Lungo queste strade che non arrivano ad alcuna meta, Marco riusciva a trovare la sua verità, il suo senso, la spensieratezza che lo contraddistingueva.Non il limbo di questi anni sospesi in un’altra dimensione, non le notti insonni a farsi rialzare dal pavimento o a farsi infilare nella pelle aghi collegati a macchine ancora incerte, se regalare un po’ di vita o succhiarsela via.Desiderava solo rivedere la sua isola, lasciare per sempre la Toscana e affrontare un’ultima volta il mare.La notte prima della partenza sono rimasto io in ospedale a vegliarlo: era irrequieto, capriccioso, a tratti insopportabile, a tratti così piccolo e indifeso.Mi faceva un effetto strano vedere la sua grossa mano cercare la mia, vibrando di una minuscola scossa, ogni volta che provava a respirare più forte.Ormai era quasi completamente sordo e avevo anche il dubbio che non riuscisse più a riconoscermi, ma la sua grande mano di cartapesta mi chiamava, e l’altra si nascondeva sotto il cuscino, come la testa di un bimbo, terrorizzato dagli spettri nascosti tra gli scaffali della sua cameretta.Quelle mani enormi, che le mie da uomo fatto sulle sue, sembravano quelle di un neonato.Ma era lui ad essere tornato piccolo.Mentre questa strada dritta sembra non finire mai, mi tornano alla mente alcune cose che, ai miei occhi di bambino, lo rendevano così speciale.Faceva il pugile nel momento più bello della sua vita: mi figuro adesso le sue dita chiuse, le ammiro quelle mani, prima distese come frecce, poi ritrarsi di colpo come antenne di una lumaca e prepararsi ad esplodere ancora, al ritmo di una strana danza tribale.Ho sempre odiato la violenza, ma mai una volta, in quelle mani che sapevano schiantare come petardi, ho visto un’ombra di rabbia o di vanità.

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ntenne di una lumaca e prepararsi ad esplodere ancora, al ritmo di una strana danza tribale.Ho sempre odiato la violenza, ma mai una volta, in quelle mani che sapevano schiantare come petardi, ho visto un’ombra di rabbia o di vanità.Quella notte non riusciva a trovare pace: si svegliava di colpo e si metteva seduto con sguardo spaventato, poi si coricava di nuovo e dopo pochi minuti tornava a sedersi e a domandarmi dove fossimo.E io a tenerlo a bada con frasi che si dicono ad un cane.“Stai buono…stai giù”.Vorrei avergli chiesto scusa per tutto questo.Vorrei essermi scusato per l’astio che ho provato a volte a dover fare io da nonno a lui, per non aver accettato di buon grado questa forzata inversione di ruoli.So che questa è la vita.Ma in questo assurdo tornare a capo, smarrisco il senso dell’esistenza e si fa concreta la paura che sia tutto inutile, che non esista un qualche disegno generale.Che siamo uguali a queste strade, che non vanno in nessun luogo.È come tornare di nuovo all’inizio quando si arriva alla fine.Ma non per ricominciare.Poi penso ai suoi occhi quella notte, gli stessi che ho io quando non conosco la direzione, e metto a fuoco ancora quelle mani, che vorrei avere io quando non riesco a decidermi.Non sarò mai completo, non avrò petardi da poter esplodere, neppure un saltellare gioioso al ritmo dei miei anni.E mai avrò così tante cose da raccontare: quelle curve, quelle strisce di vene, quelle reti marchiate sulla pelle, anche se non è mai stato in fondo un pescatore.E alla fine non è mai neppure un pugile, perché non si è giocato la testa e neppure il cuore.In fondo Marco è stato tutto e niente, come un animale smarrito, come un avventuriero e un viaggiatore, e in questo non sapere, e in questo non essere, mi riconosco finalmente.C’è un libro di un fotografo incredibile, uno dei più grandi, intitolato “Le linee della mia mano” ed è una retrospettiva dei suoi scatti migliori: gli istanti di una vita, la ragione di un’esistenza intera.Finalmente ripensando alle mani di Marco, assorbo completamente il significato di quel titolo: quelle mulattiere e rivoli di fiumi in secca che portano in “nessundove”, sono strade che non percorrerò e che, per superficiale adolescenza, non sono stato ad ascoltare, quando ancora potevo.È notte fonda quando arrivo al paese, il silenzio è quello dei luoghi senza tempo e lo rispetto rallentando l’auto a passo d’uomo attraversando la via principale del centro abitato.La casa è la stessa, non ho scordato neppure il più piccolo particolare, sospiro mentre salgo uno ad uno gli scalini di pietra e lentamente, mentre mi appresto a raggiungere l’entrata, mi sento avvolgere da un brusio di voci basse.Supero la soglia e trovo con sorpresa la cucina piena di persone pronte alla veglia: la luce di decine di candele mostra i visi dei presenti con le loro ombre proiettate contro le pareti.Sembra una festa di compleanno sbagliata, senza musica né sorrisi, ma tante persone e tante parole che mi accolgono e mani che mi stringono, come se tutti stessero aspettando solo me.Ripenso al quadro dove la bambina cercava in tutti i modi di non ascoltare la parola “morte”, poi guardo questi visi rilassati, mesti ma così in pace con quello che sta accadendo.Come qualcosa di semplicemente naturale.Da bambini spesso si confonde ciò che è buono con ciò che è spaventoso e viceversa, come quando si gioca alla guerra.Entro nella stanza di Marco e la sua vista mi viene subito oscurata dall’abbraccio commosso di mia nonna: - sei riuscito a venire! Ci teneva tanto a salutarti!--Perché non è rimasto in ospedale?- chiedo serio.

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-Voleva tornarsene a casa sua. - sorride triste mia nonna. –voleva rivedere gli amici, non ama stare con chi non conosce. -Non riesco a obbiettare e la scavalco con lo sguardo.Lo vedo attaccato a una bombola d’ossigeno, il suo respiro è così regolare e ipnotico da non farmi percepire immediatamente quanto quel rumore sia forte e insopportabile, come i motori della nave che mi ha portato qui.Mi avvicino e l’infermiera che si occupa di controllarlo mi cede il suo posto.Accarezzo quelle dita che sono state con me durante tutto il viaggio, che mi ha fatto capire, forse, qualcosa sullo stare su questa terra.- Ciao nonno. -Sento la mano muoversi quasi impercettibilmente e stringere la mia con una debolissima pulsazione, come fosse dotata di un cuore indipendente.Lo vedo spostare leggermente il collo e cerco di assecondarlo avvicinandomi con l’orecchio alla bocca imprigionata.La maschera per l’ossigeno distorce il suono delle sue parole e non riesco a comprenderlo, tutti sembrano interessati e si sporgono dalla porta aperta per metà.Anche mia nonna e l’infermiera si avvicinano.Ripete inutilmente con un rantolo la parola in modo ancora meno comprensibile.Mi volto per elemosinare una risposta dagli sguardi dei presenti.Poi l’infermiera chiede in dialetto a mio nonno di ripetere.Si sente di nuovo qualcosa di masticato a fatica: -…a…dora….-.La donna socchiude gli occhi e fa cenno di si con la testa per assicurarlo di aver compreso.Una serie di sguardi sembrano chiarire a tutti, tranne me, quali siano le volontà immediate di Marco.Sento mia nonna piangere seduta in un angolo della stanza e poi la vedo mandare un segnale con il capo ad un uomo anziano che, immediatamente, raggiunge la porta d’ingresso ed esce fuori.Mi guardo intorno smarrito, sembra che tutti parlino la stessa lingua priva di suoni e che sia l’unico a non comprenderla.Esco dalla stanza e il brusio della cucina mi fa desiderare ancor più di essere messo al corrente di quanto sta accadendo.Ma sopra ogni rumore, l’agonia di mio nonno, quel soffocare e resuscitare in continuazione, mi porta a guardarlo di nuovo, ad avvicinarmi.Stringendo gli occhi, per lo sforzo di combattere contro un dolore che non posso neppure cercare di comprendere, lo vedo aprire di nuovo la bocca: -…bdora…-L’infermiera gli carezza la fronte per tranquillizzarlo: -tra poco Marco…tra poco.-Si sente bussare in modo leggerissimo alla porta.Tutti istintivamente abbassano lo sguardo, come in segno di ossequio o paura.

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Io continuo a guardare incredulo, penso all’arrivo del parroco per dare l’estrema unzione, ma nonostante il dolore strisciante che risale la cassa toracica di Marco, non sembra essere ancora, davvero, la fine.La porta si apre ed entra il signore anziano che era stato mandato fuori a cercare chissà cosa da mia nonna.Dietro a lui, come richiamata direttamente dai miei incubi, si palesa una figura che riporta alla luce un terrore vecchio di almeno vent’anni: sento le mani tremare, e indietreggio irrazionalmente.Uno strano essere vestito di nero si affaccia dalla porta e guarda i presenti con occhi stretti e minacciosi, li scruta, nessuno sostiene il suo sguardo tranne me, una delle gonne lunghe fino ai piedi è stretta tra le sue dita vestite di guanti neri, e copre il viso lasciando alla fantasia qualsiasi porta aperta.La figura femminile sta trascinando un sacco di iuta enorme e apparentemente molto pesante.Per qualche istante continua a sfidare lo sguardo dei presenti poi entra nella stanza di mio nonno e chi era dentro esce immediatamente fuori senza incrociare il suo sguardo.Prima che la porta si chiuda dietro di lei, una lunga treccia grigia, mi rivela che si tratta di una donna, probabilmente anziana.Mi volto a cercare risposte, ma nessuno sembra volermi accontentare e un senso, di nuovo, di viaggio nel passato, mi gela la schiena.Conosco quella figura e domando spiegazioni all’infermiera.-Niente, non ti preoccupare. -Mi volto verso la nonna, ma è lontana da qui, seduta su quella sedia, sembra rapita dalle preghiere che pronuncia tra i denti.Un uomo con il cappello calato sulla fronte e una barba nera molto folta si lascia scappare dalla bocca qualcosa, che suona come un proverbio sardo: - Canno l’ompia est s’ora…..-E tutti intorno annuiscono nel silenzio, come se fosse una frase ovvia.Una giovane con occhi scuri e tremendamente profondi, commossa dal mio smarrimento esce dal suo angolo e mi raggiunge.Appoggia le labbra al mio orecchio e finisce quella frase, sperando di chiarirmi qualcosa:-…benit s’accabadora. – in un soffio caldo e quasi sensuale.Quel nome che aveva terrorizzato le notti della mia gioventù torna adesso a tormentarmi, in veste di proverbio, in veste di rito, di credenza popolare, che non riesco a comprendere.Da sotto la porta chiusa sento salire una melodia delicata, cantata da una voce per niente spaventosa: una ninna nanna antica e dolcissima mi carezza il respiro e mi riempie gli occhi di mare.INon so il motivo, è come se avessi compreso qualcosa con l’istinto, ma non avessi gli strumenti adatti per tradurlo in parole e concetti nitidi.Il silenzio e l’imbarazzo generale per le mie domande senza una risposta viene spezzato improvvisamente, dallo stesso uomo che ha portato qui quella presenza senza nome: -in continente pensate che non si faccia più da almeno cento anni.-

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-In continente pensano tante cose di noi, ma ne sanno davvero poche…anche la Chiesa ha provato per anni, inutilmente, a cambiare le nostre usanze. – precisa un altro uomo venuto fuori da un angolo della stanza.-Volete spiegare anche a me. - Chiedo seccato, guardando nervosamente la porta chiusa, anche se quella canzone mi lascia ancora addosso una tranquillità familiare.La giovane che mi ha parlato poco fa all’orecchio cerca di farmi capire qualcosa, ma in modo ambiguo: - queste donne spesso, in passato, erano levatrici perché solo chi ha la capacità di farti nascere può aiutarti anche a trovare la serenità per il tuo ultimo viaggio. -- Che vuol dire “trovare la serenità”?-- Noi le chiamiamo anche Attittadoras, perché nutrono il moribondo con le loro lacrime…solo chi sa come dare la tetta ad un bambino, è capace di tutta la dolcezza che occorre in un momento difficile come questo. – interviene un’altra donna seduta al tavolo.- “Allattatrici” significa. – precisa la ragazza.- Si, ma non state rispondendo alla mia domanda. - replico sempre meno paziente.- Aspetta Balletta, tra poco avrai la tua risposta. – mi apostrofa mia nonna, uscita dal suo stato di catalessi. – nonno è tornato al principio, è tornato bambino e sta cercando di addormentarsi. Non disturbarlo con le tue domande. -Ad un tratto mi accorgo di non sentire più quella canzone, tendo l’orecchio per capire cosa stia succedendo, poi sento molto lontano, come a centinaia di metri di distanza qualcosa rompersi, assomiglia al ramo spezzato di un albero.Ancora pochi secondi e un bussare leggerissimo alla porta, invita mia nonna ad entrare.La porta resta socchiusa e vedo attraverso quella feritoia verticale l’essere inquietante armeggiare con il suo grande sacco di iuta: la vedo riporre dentro un grosso legno robusto che sembra disegnare due archi molto larghi, con delle piccole cinghie di cuoio fissate con dei chiodi.Sposto lo sguardo preoccupato e vedo mia nonna carezzare con la punta delle dita la fronte e

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i pochi capelli ricci di mio nonno.Quel rantolo continuo è cessato, la maschera d’ossigeno è appoggiata sul comodino, Marco ha le palpebre adagiate come minuscoli lenzuoli sui suoi occhi.La donna si avvicina a mia nonna e la stringe in un abbraccio commosso, piangono a lungo insieme, poi si affaccia alla porta chiamandomi per nome.Ha un viso simpatico e gentile, con gli occhi lucidi per aver pianto da poco, le guance paffute e le braccia forti.Non c’è niente di spaventoso in questa anziana e robusta donna che mi abbraccia come se mi conoscesse da sempre e mi porta, serrandomi le spalle con le dita, a vedere il motivo di tutto quel silenzio irreale.Marco ha delle piccole goccioline di sudore che restano sospese sulla fronte, in equilibrio precario; tutto e rilasciato, abbandonato, tutto quel rinascere e morire, contrarsi, piegarsi dal dolore, elemosinare aria, è finito.C’è solo pace e calma e niente, davvero niente, che possa far pensare di aver sovvertito una qualche legge naturale o morale.Se esistesse un dio, dovrebbe essere felice di ciò che sta guardando.

Non si può evitare un’andata.E poi un ritorno.Le luci di Olbia si stanno lentamente rimpicciolendo, il rumore dei motori della nave copre ogni cosa e dopo un po’ è così monotono che non lo senti più.Sopra un lenzuolo blu di stelle.Quei riflettori su un po’ di mondo si riducono di nuovo a fragili lampade di carta.In alcune località, l’ultimo giorno dei festeggiamenti dell’O-BON, le persone chiedono ai monaci di scrivere delle frasi sulle lanterne, queste vengono poi accese e messe in acqua.Lentamente galleggiando sul fiume, si allontanano portate dalla corrente e mostrano alle anime dei defunti la strada del ritorno.Lontano, dove non potremo mai raccontare di essere stati.

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Lo chiamai io, in un momento di down.“Dovuto a cosa?” chiese il professor Kerpov.“Quelli del Barlume vogliono parlare di morte, prof. Un tema che… Insomma, il dolore è ancora fresco: il ricordo di un proprio caro sul letto… Invece, l’altro giorno ho visto l’ecografia, il bimbo dentro la pancia… Quando sta per nascere una vita, si tende a pensare… Tutto gira…”“La depressione pre-partum.’Sti barlumati sono necrofili e bestemmiatori!”“Prego?…”“Lo sanno benissimo dove vado a parare io!”“Cavolo, prof” al solito, mi scrollò. “Non vedo come può infilarci il sesso in questa…M’interruppi, realizzando: “Ah, già, eros e thanatos…”“Visti da un’angolatura precisa. Ti spiattellano patonze in faccia dal mattino alla sera. Il regime telecratico ha un impianto preciso…”“Basato sulla patonza…” cercai d’interagire. “Solita teoria: non pensare alla morte.”“Alla fine, però, non pensi ad altro!”“Prof, non capisco dove sarebbe la morte in una velina seminuda che…”“È l’errore dei pasdaran del turboconsumismo. La nudità. Hanno dovuto abbattere il filtro critico dell’eros, per avvicinare la patonza al prodotto… Ti voglio, figona. Ti voglio, automobile. Ti voglio, materasso ad acqua. Il prodotto dev’essere ‘svelato’ all’istante, indurre al possesso.”“Questo spiega gli stupri dilaganti che…”“Una società senza veli non ha più difese psicologiche” non lo interrompi, il vecchio Kerpov. “La nudità della persona diventa nudità della morte, che si nasconde lì, nel buio, dietro il segretario di produzione del programma. E, per quanto t’ingegni, non la fermi.”“Cosa fa, l’ultraconservatore? Seguendo la sua logica, le società del burqa avrebbero un’idea della morte più…”“Sicuramente più erotizzata. Si va dalle vergini, pensaci! Il tabù sociale che diventa anelito del trapasso, il sogno di ogni religione. Una vita di privazioni forzate che si trasforma in orgia ultraterrena. Se lasciamo briglia sciolta al Ratzi, finisce così anche da noi. E non mi dispiacerebbe.”“Sta diventando un teo-dem?”“Beh, quella storia del cilicio m’ha sempre intrigato. La nostra orgia terrena permanente, invece, va a sbattere come un treno contro Eluana, contro Terri Schiavo… E i mille altri casi, che i segretari di produzione si affrettano a inglobare in un meccanismo che gli sfugge di mano…”“Mi sto perdendo.”“Ritrovati, figliolo. Intorno a Eluana s’è mosso tutto ’sto bagaglio inconscio. La ragazza che può ancora procreare. Le sue mestruazioni. La sua bellezza, lei in spiaggia, nel mare. E, come contraltare, quelle foto di lei ridotta a vegetale, di cui si narra…”“Le hanno fatte sparire.”“Per forza, sarebbe crollato tutto l’impianto.”“Sì, un po’ capisco… Ma ho appena letto Veronesi, l’oncologo. Dice che nella sua esperienza, stranamente, i credenti si avvicinano alla morte con più spavento rispetto agli atei.”“Vuoi mettere? Passi una vita di penitenze, e poi lassù rischi che ti fregano. Ci credo che se la fanno addosso!”Sentii una musica provenire da sotto. Era la Salomé di Strauss. Ma intorno c’erano anche gemiti. Un effetto alla Jane Birkin in ‘Je t'aime, moi non plus’, il pezzo preferito di Kerpov.“Prof, cosa sta facendo?”“Stavo giusto strappando dei veli, tanti, tantissimi…”“Ha sempre avuto il gusto della coreografia.”

SSaalloomméé ee llii mmoorrttéé ((aall tteelleeffoonnoo ccoonn KKeerrppoovv))Lorenzo Calza

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“La forma è sostanza. E conosco sostanze che tengono in forma. Manca un dettaglio, però. Me l’hai fatto venire in mente tu. Quell’immagine del corpo morente sul letto, il bimbo che nasce…”“Cioè?”“2001, di Kubrick. La prossima volta monto lo schermo e lo proietto in tutta la stanza.”“Lo trova eccitante?”“Non c’è altro modo di esorcizzare che sentirsi parte di un ciclo.”“Lasciare spazio alle vite nuove che arrivano.”“No, parlo di ciclo mestruale. Sospendere la fecondità della nostra analisi. Fermarsi in silenzio a contemplare il nitore assoluto, il simulacro di noi. Il monolite. L’ovulo.”“Chi c’è lì?”“Una vergine…”“Professore, è impazzito!?”“Consenziente, tranquillo. Sa cosa rappresenta. Voglio fare l’amore con la morte, con la scienza e con Dio.” Era tronfio. “Avvisa i barlumisti, che non è bestemmia.”Respirai a fondo prima di dirglielo.“Prof.”“Sì.”“Io sto combattendo la mia battaglia”.“Anch’io…”Digrignai i denti. “Lei è un maledetto, patetico codardo.”“Voglio l’essenza.”“No, è vecchio. Ha solo paura.”Ci fu un attimo di silenzio.

Poi mise giù.Gli ho rovinato la serata, ma ci risentiremo, perché sa che ho ragione.

Il Barlume - Anno 3 - Numero 4 - Aprile 2009 15

LLaa ssddrraaiioo -- LLaa ssiinniissttrraa ddeeggllii aaddoolleesscceennttiiDenni Romoli e Emidio Picariello

Il nuovo leader della sinistra parlamentare ha proprio oggi dibattuto, di fronte ad una platea fittissima e interessata di giovani e giovanissimi della sinistra italiana, su alcuni dei temi caldissimi della nostra scena politica, spaziando dal testamento biologico alla laicità dello stato, dalla sacralità istituzionale agli atteggiamenti antropologici nei confronti del presunto diverso. A Cesare quel che è di Cesare: dalla sua vanno annoverate una retorica progressista d’alta scuola, con chiare evidenze post-gramsciane, un umorismo yiddish di stampo alleniano, una profonda conoscenza del pensiero keynesiano. È andato a centrare il discorso sulla necessità di evolvere da una posizione forzosamente oppositiva ad un’altra maggiormente riflessiva, matura, adulta. “Dico no ad una sinistra necessita ad essere Contro. Dico sì ad una sinistra che si impegna responsabilmente ad essere Per. Comprendo il vostro spirito sfidante, proprio dei vostri anni, ma questo deve essere contemplato all’interno di una progettualità di più ampio respiro, che vada a coinvolgere non solo il presente, ma anche il futuro. Distruggere il vecchio è un presupposto essenziale, senza dimenticare che da quel punto in poi occorre costruire il nuovo. Distruggere è fin troppo facile, costruire è molto più difficile.” Standing ovation globale del giovane popolo della sinistra. “Uno stato laico e civile non si pone come Stato Etico, non si arroga il diritto di esercitare intransigenze, non si avoca inalienabili e indiscutibili ragioni, ma piuttosto propone un’etica di stato che contempli la comprensione, la tolleranza, la collegialità, la multietnicità, lo sforzo di dialogare con l’altro da sé. Elementi questi di forza, non di debolezza. Un governo laico in uno stato laico non va avanti a colpi d’ascia, non usa il proprio potere in modo indiscriminato, non uccide ma supporta, non troneggia ma amministra, non punisce ma educa. Ed è quello che faremo”. È un trionfo. La platea della giovane sinistra esulta, finalmente un leader che assume l’eredità del mai troppo compianto Enrico Berlinguer.E dalla platea l’ultimo striscione sancisce la consegna del virtualissimo alloro che lo incorona futuro fiore all’occhiello della sinistra italiana: “Grazie Gianfranco, con te We Can”.

Il Barlume - Anno 3 - Numero 4 - Aprile 2009 16

SSiieettee ssoolloo ddeeggllii ssppoocccchhiioossii ddii mmeerrddaaDenni Romoli e Costanza Maremmi

L’ultimo Apache – Regia di Robert Aldrich (1954)Il pistolero – Regia di Don Siegel (1976)Gran Torino – Regia di Clint Eastwood (2009)

Quando si muore si ha ben altro da fare che pensare alla morte. L’immortale lascia il testimone al mortale, dimensione umana rifiutata, sconfessata, combattuta. Nonostante l’evidenza, negata, il trapasso nell’assente, nel cieco, nel buio. Una parabola che si illumina nel pensiero della continuazione, del progetto, del domani, dell’altro da sé. Massai, nel capolavoro di Aldrich, incendia terre, uccide il bianco, una ribellione atroce e incessante, fermata soltanto dalla morte della sua stessa ribellione per opera della gravidanza della sua compagna. Le armi sono deposte, le braccia non riescono più a sostenerle. Non vogliono sostenerle. Hanno prodotto sopravvissuti e vittime, ma nessun vincitore. L’immortalità condensata nel domani di valori che poco hanno a che fare con l’interesse meramente personale, quanto piuttosto con l’alterità, con il trasmettere, con il passaggio da vita a vita a vita.Come Brooks, il protagonista de “Il pistolero” del grande Siegel, che declina la sua personale vendetta, ultimo atto della sua esistenza, creandosi una barriera contro l’odio fatta dalla creazione di una famiglia mai posseduta, alla quale lascerà in eredità se stesso, ciò che è stato e che potrà di nuovo essere. Un’anima trasmessa da padre in figlio, la memoria che accompagna e silenziosamente guida. Un tramonto quello di Brooks cercato, voluto, la consapevolezza della necessaria capacità di eclissarsi, di estinguersi, per poter lasciar migrare la propria memoria in altra vita.Non si fa a meno di altre vite. Come Kowalski dell’ultimissimo Eastwood (che omaggia chiaramente il suo maestro Siegel e il ricordo di Elia Kazan), che percorre la propria esistenza in un breve lasso di tempo, quel tempo necessario per poter riconciliare la diffidenza, il sospetto, la paura, la violenza, con il tocco di altre mani, con un contatto che salva, con la possibilità di sprofondare nella follia e nell’abisso dell’essere con un altro essere umano. Dolorosamente, andando a bussare alle porte del cuore di chi ci cammina a fianco, con la consapevolezza che terminare sarà più dolce lasciando dentro di noi qualcosa di caldo. Non si nasce soli, non si muore soli.

E percorriamo strade non più usatefigurando chi un giorno ci passavae scrutiamo le case abbandonatechiedendoci che vite le abitavaperché la nostra è sufficiente appenane mescoliamo inconsciamente il sensosiamo gli attori ingenui sulla scenadi un palcoscenico misterioso e immenso

Il Barlume - Anno 3 - Numero 4 - Aprile 2009 17

Il Barlume - Anno 3 - Numero 4 - Aprile 2009 18

Le foto di questo numero sono state scattate da

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Anno 3Numero 4Aprile 2009

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