I TRE COLONNELLI 2

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DARIO REBOLINI I TRE COLONNELLI parte prima

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I TRE COLONNELLI parte prima 62 Dopo questo fatto, non avevo più dubbi, la strada politica della mia famiglia era quella giusta, e, avrei continuato su quella strada anch’io. E da lì è iniziato anche, un diverso rapporto con mio padre, che mi parlava della guerra che aveva fatto, del duro dopoguerra e del modo come i fascisti avevano preso il potere.

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DARIO REBOLINI

I TRE COLONNELLI parte prima

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Ora, dopo avervi raccontato una piccola parte della resistenza in val Trebbia sotto

forma di romanzo ( vedi l'allegato “bisagno”), voglio continuare con una parte del mio

impegno diretto in questa guerra, anche per far capire e averne un’idea ai giovani che cos’era

il fascismo, alleato per di più con i nazisti.

Sono nato nel 1924, in un paese dell’alta val Trebbia; è un paese meraviglioso, come

quasi tutti i paesi natii. Si, estende su di una sponda assolata tutta esposta a mezzogiorno,

“le case sparse nel pendio come branchi di pecore pascenti”(direbbe il Manzoni) che, da metà

costa, degradano verso il torrente Boreca da sembrare una bellissima cartolina. Ho passato

lì, la mia infanzia, ho fatto lì, le scuole elementari, ho iniziato lì, il pensiero della vita,è partita da

lì, la mia formazione che poi mi ha seguito ed aiutato moltissimo nel discernimento del bene

dal male. Zerba; il più bel paese del creato, sono nato lì e per quasi un secolo, mi sono

portato in giro per il mondo i suoi colori, i suoi odori, ma sopratutto i suoi insegnamenti. Lì, mi

hanno insegnato a non rubare, a rispettare il prossimo, a non fare mai agli altri quello che non

vorresti fosse fatto a te, aiutare quelli che hanno bisogno e non deridere quelli che non sono

come te.

Da lì sono partiti i sentieri che mi hanno portato in giro, un po' ogni dove, per tutti questi

ottanta anni. Mi viene in mente, molto bene i primi passi, quando eravamo ancora solo due,

dei sei fratelli che sono venuti dopo. Le grandi risate con la mamma che aveva venti anni ed

era molto bella, era minuta e sembrava una bambina, io la consideravo una coetanea, i nonni

che erano già intorno agli ottanta e che bisticciavano fra loro continuamente, poi ognuno si

giustificava con me, dandone tutte le colpe all’altro. Il papà; il papà merita un discorso a parte,

era un uomo di poche parole, ti “parlava” con lo sguardo e si faceva capire benissimo,

lavoratore instancabile era sempre assente da casa per lavoro.

La terra magra di montagna non dava tutto quanto sarebbe servito per una famiglia,

bisognava che gli uomini validi, andassero in giro per il mondo in cerca di lavoro per poter

comprare quello che lassù non cresceva, vedi scarpe, vestiario, olio, sale ecc. Quando però

era a casa la vita era diversa, ci si sentiva padroni del mondo, la mamma che lo elogiava e

diceva che un uomo così, non ve n’era un altro in tutta la valle, e io lo vedevo un gigante.

D’estate, che erano i mesi che più stava con noi per aiutare a portare a casa i raccolti, erano

mesi da sognare. Andavano nei campi e mi portavano con loro, e mentre loro lavoravano, io

me n’andavo tutto intorno a cercare gli uccellini, avevo una passione tale che non mi

accorgevo neanche di allontanarmi troppo. Una volta sono andato in un boschetto di rovere,

confinante, dove avevo sentito cantare un merletto di quelli appena snidati e che si

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nascondono nei ciuffi d’erba e ti guardano ma tu non riesci a vederli, tanto si mimetizzano. Mi

sono seduto dietro ad una di queste piante, aspettando che cantasse per poterlo individuare e

mi sono addormentato. Quando mi sono svegliato ero terrorizzato, era notte fonda, nel

dormiveglia mi pareva aver sentito delle voci che mi chiamavano, ma ora lì con c’era più

nessuno, sentivo già i lacrimoni che mi scendevano in bocca, ma la voce per chiamare non mi

usciva, forse era il terrore che mi ascoltasse qualche malintenzionato, come il lupo o la volpe.

Fortunatamente dopo un attimo ho sentito la voce della mia mamma che mi chiamava forte e

che si trovava nelle vicinanze. Gli abbracci e le sgridate non si sono lesinati, però poi hanno

capito che ero troppo piccolo per darmi delle responsabilità e si sono detti, mea culpa.

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Quando andavo in giro per la campagna, o con l’uno o con l’altro, era per me, come oggi

portare un bambino alle giostre, io lassù non conoscevo nemmeno la parola, ma vi garantisco

che non ne ho sofferto la mancanza.

Ogni cespuglio era, per me una sorpresa, perché dentro ci poteva essere, e spesse volte

c’era, un leprotto, una nidiata di merli o di pernici rosse, oltre a scoiattoli, ghiandaie, tortore,

tordi e quasi tutte le qualità di selvaggina che ora è andata, via, via, scomparendo. Più tardi la

mia mamma mi raccontava, che a undici mesi ero già in grado di imitare il canto delle pernici,

che si sentivano cantare, tutte le mattine prestissimo dalla nostra casa.

Avrete già capito che, la mia è stata un’infanzia da favola; è ora che sono vecchio ve lo

posso confermare. Questa infanzia ha contato per me sempre moltissimo; nel crescere, nel

diventare adulto, ma anche dopo, sempre mi ha seguito, anche nell’invecchiare. Ogni volta

che si presentavano difficoltà, o decisioni importanti da prendere, era sempre un punto di

riferimento.

Dovevo tornare sempre lì, ai miei colori, alle mie valli, alla mia gente, e da lì arrivavo sempre

alle soluzioni migliori. Arrivando fino all’età della scuola, in questo sogno meraviglioso e

dorato, non avrei mai potuto immaginare, che sarebbe cambiato tutto e in pochissimo tempo.

Inizia la prima elementare e iniziano i primi dispiaceri; quasi tutta la classe in divisa da Balilla,

ma io no. Io no perché eravamo già tre figli da mantenere, vi era poco lavoro e molta

disoccupazione, la famiglia non poteva spendere le otto lire (costo di allora), per comprarmi la

divisa come gli altri. Ho passato un anno che non vi potete immaginare, ogni volta che vi era

qualche manifestazione o parata, ed erano molte a quei tempi, io dovevo sempre essere

messo da una parte, in fondo alla scuola giganteggiava una grossa fotografia della classe, ma

io non apparivo, mi avevano fatto nascondere dietro agli altri per questa ragione.

La maestra mi voleva bene, si era offerta di anticiparmi i soldi per l’acquisto, poi, glie li avrei

restituiti una lira al mese. Mai... manco a parlarne, e qui c’era anche il nonno che era

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tremendamente contrario, non ne voleva sapere, mi diceva che in casa nostra non si era mai

fatto la fame, perché non si avevano mai fatti debiti, la scorciatoia dei debiti era una trappola.

Ti rendeva lì per lì, la cosa più facile, ma subito dopo diventava un boccone amaro, perché non

sempre si è in grado di restituirli, o per farlo si doveva vendere dei terreni, che poi il grano lo

raccoglievano gli altri. Mentre la famiglia cresceva e le bocche da sfamare erano sempre di

più, e i terreni che avevamo, cominciavano già ad essere scarsi e si sarebbe dovuto

acquistarne e non venderne, per pagare i debiti. E, ha questo punto mi portava ad esempio

una famiglia del paese, che avevano fatto dediti e che ora, in questa tremenda crisi di

disoccupazione erano stati costretti a vendere. Ma non trovavano, e anno dovuto, alla fine,

svendere quasi per niente.

Mi ripeteva, vedi; ora come faranno con otto figli a dare da mangiare a tutti, se non c’e la

facevano già prima?. Ora gli mancano tre quintali di grano all’anno, mi dici dove andranno a

prenderlo? Faranno altri debiti?. Questo era un argomento che mi colpiva nel profondo,

anche perché erano anche loro, di quelli che non avevano la divisa. Facendo un poco di conti

e sentendo la mia mamma che era, l’unica favorevole e, mi diceva appunto che, noi eravamo

molto fortunati ad avere un padre così, che, anche in una crisi di lavoro come questa, lui

continuava a lavorare, perché quando ce né poco gli ultimi a lasciare sono i migliori.

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In ogni modo la disquisizione del nonno sui debiti, mi è arrivata dritta, dritta, al cuore, e da lì

al cervello, dove è rimasta scolpita come i dieci comandamenti.

Durante tutta la mia vita, era sempre lì, a dirmi; attento, se non hai i soldi aspetta, lo

comprerai domani, e io aspettavo. Ora, ho già passato gli ottanta, ma debiti non né abbiamo

mai fatti. Al massimo, qualche piccolo mutuo per l’acquisto della casa, ma questi non sono

debiti, ma quasi crediti. Con metà di quello che paghi l’affitto ci paghi il mutuo, e ti trovi, dopo,

con due vantaggi; il primo è che avevi imparato a risparmiare, e ora ti trovi più ricco, perchè hai

più soldi, e la casa è tua. Il secondo; che non hai più l’affitto da pagare, e nei momenti di crisi,

che sono soventi, puoi dormire sonni tranquilli, che nessuno ti potrà mandare via. Vi sembra

poco?. Con un pezzo di pane e una patata puoi superare anche un inverno. Ma se hai l’affitto

da pagare?.

Adottando questi comandamenti, e qualche altro, mi sono sempre trovato a mio agio: ho

sempre, piano, piano, migliorato, sia come progetti economici che come maturazione

intellettuale, sono venuto vecchio senza minimamente accorgermene. E anche ora; in

quest’età, troviamo, (con la mia “santa compagna” che ha qualche anno di meno, ma non

molti), ancora moltissime soddisfazioni. Siamo nel mese di Natale, e siamo impegnatissimi

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nella fabbricazione a mano, uno per uno di, “quintali”, di cappelletti, ravioli e pansotti, tutti

rigorosamente fatti a mano, come all’ora. File di vasetti di salsa di noce e di pesto,che poi

mettiamo nel congelatore e siamo tranquilli fino all’Epifania e oltre

E, quando arrivano i nostri giovani, abituati ai MacDonald le grida e le esclamazioni di gioia

si sprecano. Le feste Natalizie, le passiamo, in genere,in famiglia, fra noi, come allora, c’è solo

una piccola variazione, il capovolgimento dell’età, noi eravamo in fondo ora siamo in cima.

Ma poi; anche questo essere arrivati in cima, non deve per forza essere sempre un male. Si

certo, gli anni ci sono, le forze non sono più le stesse, ma se hai la fortuna di trovarti ancora,

nel concerto famigliare, come ci troviamo noi, e se hai ancora il cervello che sappia leggere i

comandamenti del nonno, può essere ancora bello. É il momento che puoi dare qualcosa

agli altri, puoi dedicare tutta la tua esperienza ai giovani, puoi donare il tuo vissuto a chi potrà

giovare, che magari sembra che non ti ascoltano, ma non ti preoccupare, anche il mio nonno,

prima non lo ascoltavo, ma poi... In seconda elementare, ho pianto tanto, ho minacciato di

non andare più a scuola e con l’aiuto della mamma sono riuscito ad avere questa benedetta

divisa. E’ inutile dirvi della mia ritornata felicità, andavo a letto senza farmi pregare, come

succedeva prima, e la stendevo tutta in fila sulla sponda del letto di allora e la guardavo fino

che non arrivava il sonno, e guai, a chi spegneva la luce. Il berretto meraviglioso con il fiocco

che brillava me lo tenevo vicino alla guancia, tutta la notte. Al mattino mi alzavo nuovamente

senza farmi pregare, mi mettevo subito la divisa e correvo in camera della mamma per

specchiarmi, era l’unico specchio di casa. Il berretto col fiocco me lo, giravo e rigiravo per

delle ore, finché la mamma perdeva la pazienza e mi tirava via per un braccio e mi mandava

a scuola per non far tardi. Ho pregato tanto la mia maestra che sono riuscito ad ottenere una

nuova foto di gruppo, dove mi ero messo in una primissima posizione. Adesso, a scuola, si

poteva ammirare quella bellissima foto e si poteva individuarmi benissimo anche dagli ultimi

banchi. Ero orgoglioso, fantasticavo, mi vedevo a Genova di fronte agli austriaci con il sasso in

mano per fare la prima mossa.

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Immaginavo già la divisa degli avanguardisti, dei giovani fascisti e mi vedevo già con gradi da

ufficiale, su un cavallo bianco come quello di Garibaldi. “Le fantasie dei cavalli bianchi e selle

dorate le ho avute anche più tardi.”

Con la fantasia di un bambino vedevo solo cose belle, cose grandiose, pensavo, com’è bello

il mondo, ma che fortuna essere nato quì, in questo stupendo paese, in questa stupenda valle

con intorno i suoi meravigliosi monti coperti di verdi boschi, che emanano dei profumi

indescrivibili e che ti salvano dai venti cattivi. Queste sponde meravigliose, con tutti i suoi

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alti e bassi, le sue colline, le sue fontane sorgenti, le sue oasi più verdi e le sue rocce

bianchissime che le puoi vedere anche di notte. Ricordo, sempre la mia passione per gli

animali, che spesse volte, stavo per delle giornate intere coricato dietro un ginepro o ad una

ginestra, vicino ad una fontanina, aspettando che arrivasse qualche bestiola.

Ed, era bellissimo sopratutto nelle ore più calde della giornata, si poteva vedere le

bestioline più belle; lo scoiattolo era il mio preferito, perché non si riusciva mai a vederlo da

vicino, mentre in questo caso, arrivava quatto, quatto, si arrampicava su un cespuglio di

nocciole che copriva quasi tutta la fontanella, poi di colpo si lasciava cadere dentro la “pozza”

dell’acqua, si srotolava per un poco poi tornava sul cespuglio ad asciugarsi. Poi le pernici

rosse; arrivava la madre, tutta impettita e con il petto in fuori che sembrava un bersagliere,

aveva anche le piume e i colori del bersagliere. Arrivava cantando, e dietro come per miracolo,

spuntavano come dal nulla sciami di piccoli perniciotti che facevano un casino da matti, si

tuffavano nell’acqua e non ce n’era più per nessuno, dopo un attimo l’acqua era diventata

gialla da non poterla più bere, e non se n’andavano più.

Quando la madre era stufa di stare lì a guardia, se n’andava e dopo qualche attimo si

bloccavano tutti, silenzio assoluto, sembrava volessero percepire da quale parte era la madre,

finché poi non scoccava un sommesso “ chek, chek” e partivano tutti alla velocità di una

Ferrari, da dove era arrivato il richiamo.

Quante giornate passavo in queste suggestionabili fontane, qualche volta venivano anche le

vipere, si attorcigliavano da una parte e quando arrivava qualche sprovveduto uccellino, zac, lo

colpivano e se lo mangiavano tutto intero con le piume. Così quando andavo mi portavo

sempre un bastone e incominciavo a sbatterlo forte, in qua e in là, proprio per farle andare via

ed evitare queste tragedie.

Ma la cosa più bella per me in quell’anno, era la scuola, mi sentivo importante, la maestra

mi chiamava spesso a leggere il dettato, alla lavagna per sviluppare le sottrazione e le

addizioni, si incominciava con le piccole moltiplicazioni, che erano il mio forte, erano il mio

pallino.

Quando la mamma andava nella vigna, che era giù in basso, sotto il paese, mentre noi

abitavamo in cima, tornando a casa approfittava per passare dalla maestra, per sentire come

andavo, quindi anche questo mi caricava, mi sentivo il padrone del mondo. Nella primavera e

poi nell’estate, facevamo gite meravigliose. Partivamo al mattino presto, tutta o quasi la

scuola, e andavano alle Capannette di Pej, dove ci s’incontrava con le scuole degli altri paesi

della valle e delle valli limitrofe. Si partiva con la michetta e la frittatina nello zainetto(zainetto?

Neanche l’ombra, bastava un piccolo fagotto) per arrivare lassù, dopo quattro ore di cammino,

senza più una briciola di niente.

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Era bello; si arrivava su che era quasi mezzogiorno, si ascoltava qualche discorsetto degli

organizzatori-accompagnatori, si aveva qualche minuto di libertà nei prati stupendi li intorno,

poi si andava a pranzare. Si pranzava, appunto nella trattoria Tambussi, delle Capannette,

che era gestita direttamente dal podestà del mio paese e si mangiava divinamente.

Ci servivano delle paste asciutte che erano la fine del mondo, con degli arrosti che non erano

da meno, preceduti da valanghe di salame e pancetta di Varzi.

Ma la cosa che mi ha più stupito la prima volta, è stata la gazzosa con la biglia di vetro al

posto del tappo. Non volevo aprirla, volevo portarla alla mia mamma che ero sicuro non ne

avesse mai visto neppure lei, ma la maestra ha voluto farmela bere, e me ne avrebbe fatto

dare un’altra. Nel pomeriggio ci si sbizzarriva con i più svariati giochi, che erano, quasi

sempre una competizione frà scuola e scuola.

Anche qui mi difendevo bene, spesse volte vincevo contro ragazzi che avevano anche due

anni più di me. Insomma quella, è stata una stagione molto bella per me. Mi sentivo

importante, quando si organizzavano giochi o squadre ero sempre chiamato a fare il capo,

quando in casa parlavano di me, credendomi assente, ma spesse volte non lo ero, si

chiedevano come potevo avere quegli ottimi voti, se non studiavo mai, e spesse volte

interveniva il nonno, dicendo che non avevo bisogno di studiare, ne sapevo già più di lui e

quindi andava bene così. Dopo la bellissima estate, l’inverno passò ottimamente, tornammo

qualche paio di volte alle Capannette di Pej con la presunzione di andare a sciare. Venivano

su gli avanguardisti da Piacenza, con dei bellissimi sci, luccicavano che sembravano di vetro,

mentre noi avevamo due pezzi di tavole, fatte in casa con l’aiuto di qualche adulto, ricavate dal

legno di frassino che si apprestava abbastanza bene per essere curvato sulla punta,

mettendolo a bollire.

L’estate dopo, fine dell’incantesimo; un giorno di metà agosto, ci radunano in divisa invernale

naturalmente, non ve ne erano altre; su un campo da bocce, in attesa che doveva arrivare il

federale da Piacenza per passarci in rivista.

La cosa sembrava molto importante, così tutti in pompa magna, compreso gli avanguardisti,

alle nove eravamo già in fila, in quel campo in attesa del federale che doveva arrivare alle

dodici.

Arrivano le dodici, le tredici, le quattordici, ma del federale manco l’ombra, io a lunga

distanza non resistevo, dovevo mangiare qualcosa, mi sentivo svenire, mi si piegavano le

ginocchia, mi girava la testa e non ci vedevo quasi più. Arrivano le sedici e arriva anche il

federale.

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Arriva a cavallo, (la strada carrozzabile non esisteva ancora), con una ciurma di una decina

di sotto posti, si fermano davanti a noi, futuri soldati e difensori della patria, scendono da

cavallo e s’infilano velocemente, uno dopo l’altro nella trattoria, senza degnarci di uno sguardo.

Speravo fosse finita così, ma non era vero, dalla finestra del primo piano della trattoria, si

affaccia un grassone, che a quell’epoca, erano rarissimi e, proprio sconosciuti dalle nostre

parti, con la carestia che c’era. Con un pezzo di pane e salame in mano, per annunciare che il

federale era molto stanco, per i sei chilometri di strada a cavallo, che aveva dovuto sopportare

da Valsigiara a qui, e che quindi dovevamo attendere che avesse finito di mangiare, poi si

sarebbe affacciato. (Vedi Palazzo Venezia).

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A questo punto, proprio per non cadere per terra, mi sono spostato di un paio di metri per,

sedermi sulla tavola dove venivano appoggiate la bocce, per giocare. Non l’avessi mai fatto;

uno di questi che era rimasto alla finestra, si è messo a gridare... ecco la disciplina che

insegnano a Zerba, ecco i soldati del domani, sono degli smidollati e non dei soldati, e ha

dato l’attenti.

Naturalmente io non solo, non mi sono alzato, ma manco l’ho sentito gridare. Cosi, sono

stato punito verbalmente, con la sospensione da scuola per otto giorni. A settembre, il primo

giorno di scuola, la maestra mi consegna una busta da portare a mio padre, lo s’invitava al

comando del fascio di combattimento, che si trovava a Ottone, dodici chilometri di strada a

piedi. Mio padre legge e la butta nella stufa, io chiedo come mai e lui mi risponde che, se

darò retta a quella gente lì, mi porteranno a perdere. Quindi non ci pensava proprio, di andarsi

ad umiliare di fronte a quelli che lui considerava gentaglia, gli scarti dell’umanità. E in risposta

alle pressioni della mamma che insisteva, affinché andasse giustificarmi, per evitare la perdita

delle lezioni per otto giorni, gli rispondeva che non avrei perso nulla di buono, semmai al

contrario, nè avrei guadagnato. Cosi per farla breve, non solo ho perso gli otto giorni di

scuola, ma ho dovuto riconsegnare la divisa, pur avendola pagata, per indegnità a portarla.

Non vi potete immaginare la mia disperazione, in classe ero guardato di traverso, la maestra

non era più la stessa nei miei riguardi, era diventata. freddina, qualcuno aveva incollato un

rotondino di carta sulla mia faccia nella fotografia, sopra la cattedra, come se fossi morto. Ai

giochi delle Capannette di Pej, non mi facevano più partecipare, ero proprio disperato. In casa

nessuno parlava tutte le mie domande erano eluse e rimanevano senza risposta. Se almeno

mi avessero informato che c’erano ragioni politiche, non avrei capito niente lo stesso, ma

almeno non mi sarei sentito responsabile per quello che era successo. Erano tempi che, se

non la pensavi come il partito, rischiavi grosso, è per questo che in casa nessuno parlava in

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presenza di scolari, erano tempi brutti e pericolosi, tempi che; il “nemico ti ascolta”, guai se io

fossi andato a scuola a dire che in casa mia, erano quasi tutti socialisti. C’erano, già state un

paio di spedizioni, con la bottiglia dell’olio di ricino, andate sempre a vuoto, solo perchè mio

padre era più forte di quelli, e hanno dovuto sempre battere in ritirata, con qualche

incerrottatura. Però il pericolo era sempre latente e sempre più pericoloso, si rischiava di non

poter più lavorare per tutta la vita.

Questo era quanto mi aveva riferito la mamma, facendomi promettere e giurare, di non

parlarne mai con nessuno, perché oltre il pericolo, per mio padre di non poter più lavorare,

c’era anche quello di finire in prigione, per atti sovversivi contro il partito. Ecco, dopo questa

confessione mi sono un poco rasserenato, cercavo di interrogare il nonno per saperne di più,

ma non è che si sbilanciasse troppo. Mi diceva, vai così che vai bene, segui tuo padre e non te

ne pentirai.

In ogni modo piano, piano ho maturato la convinzione, che forse avevano ragione, sopratutto

pensando a quel giorno di agosto. Sette ore sotto il sole tropicale, a dei bambini di sette od otto

anni, era una cosa veramente ignobile. Così, da quel momento niente più divisa, nè

d’avanguardista nè di giovane fascista, finita la scuola dell’obbligo, andai in giro con mio

padre, sui vari cantieri edili, iniziando la mia vita lavorativa, aiutando il fabbro con la

manovella della forgia per temperare i ferri dei minatori, o come canneggiatore al geometra

che tracciava le strade da costruire.

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In questo modo ho passato anche la mia adolescenza, con qualche episodio intermezzo, ma

abbastanza liscia e regolare. Un solo episodio vi voglio raccontare, per farvi capire com’era

il mondo fascista.

Un giorno, con la mamma ci siamo messi in cammino per andare nella vigna, che ripeto, si

trovava nel fondo valle, avevamo caricato la benna di letame e con i buoi giunti al timone, ci

siamo avviati giù per la mulattiera.

Arrivati nella curva detta, del mulino, ci siamo imbattuti in un signore di Varzi, che aveva

sposato la mia maestra e che spesso viveva a Zerba. Questi era una grossa Sciarpa Littorio

giù a Varzi, ma anche qui era temuto da tutti. Era a cavallo di un bellissimo baio da montagna,

ma il bello era, che non sapeva quasi cavalcare. Era grasso come un maiale e sul petto avrà

avuto un quintale di medaglie. E non era facile vedere a quell’epoca e in quelle valli gente così

grassa, gente cosi potevano essere solo, gerarca fascista o loro amici, per gli altri, era quasi

fame. In ogni caso, in questa curva la strada era stretta, non si poteva passare che uno per

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volta, o noi, o lui, o dunque lui avrebbe potuto passare sulla sinistra, che vi era lo spazio, ma

non ha voluto sentirne ragione. Aveva paura di cadere giù da un muretto e finire nel prato

sottostante. Pretendeva che fossimo noi a fare marcia indietro per farlo passare. La mamma

ha cercato di spiegarle che non era possibile fare marcia in dietro con una benna carica che

pesava qualche quintale e in salita, pregandolo di indietreggiare per qualche metro. Questi

ha perso il lume della ragione, ha cominciato a picchiare la mamma con il frustino del cavallo,

come un pazzo, la mamma non poteva scappare perché i buoi incominciavano a dare segni di

spavento e doveva tenerli e tranquillizzarli. Questi, non la smetteva, i colpi arrivavano sulla

schiena e sulla testa della mamma come una gragnola, il cavallo si stava imbizzarrendo e

premeva contro i buoi, che quasi non si riusciva più a tenerli.

Io non so, ancora adesso, come mi sia riuscito di agguantare il frustino per la cima, che

fischiava nell’aria come una saetta. Tirando con tutta la mia forza sono riuscito a farlo passare

sulla sinistra e lasciare che se ne andasse per il fatti suoi.

La mamma che non era stupida, ma sopratutto non era avvezza a subire nessun tipo di

soprusi o ingiustizie, scrisse al Duce, descrivendo quanto era successo. Dopo circa tre mesi

arrivano due signori “furesti” e prendono alloggio nell’unica trattoria del paese, che si trovava

a dieci metri dalla scuola e dalla casa della mia maestra, e dopo due o tre giorni che erano lì

alloggiati, e tutte le mattine passavano a cavallo insieme al grassone, davanti a casa nostra,

per andare a far passeggiate sul monte L’esima. Si pensava fossero suoi amici.

Una di queste mattine, arrivano su da noi loro due soli e chiedono di parlare con la mamma,

gli dicono che, sono venuti da Piacenza per sistemare, alla buona, la faccenda di

quell’incontro. La mamma gli risponde che non vi è nulla da sistemare, e gli fa vedere i segni

ancora ben visibili sulle spalle e sul collo. Bisognava “arrangiarla” pacificamente, giacché

era nell’interesse di tutti. “Lei aveva figli ancora piccoli che magari avrebbero potuto aver

bisogno del partito, e che in ogni caso erano cose scabrose che non andavano pubblicizzate.

Si sarebbero danneggiate due famiglie, magari lui poteva anche perdere il posto, e anche lui

aveva figli che n’avrebbero sofferto”. Insomma glie l’hanno saputa raccontare così bene,

toccandogli la parte del cuore, che si è lasciata convincere a ritirare il reclamo.

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Dopo questo fatto, non avevo più dubbi, la strada politica della mia famiglia era quella giusta,

e, avrei continuato su quella strada anch’io. E da lì è iniziato anche, un diverso rapporto con

mio padre, che mi parlava della guerra che aveva fatto, del duro dopoguerra e del modo come i

fascisti avevano preso il potere.

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E, il nonno mi confermava tutto, e qualche volta ingigantiva i fatti già raccontati da mio padre.

(come quando aveva preso la medaglia d’argento sul Sabotino, con un’eroica motivazione).

Attorno ai quattordici anni, dopo aver ottenuto il libretto di lavoro regolare, ci siamo trasferiti

in valle Stura, nella zona di Pietraporzio-Sambuco, per la costruzione di strade che andavano

verso i confini della Francia e, casermette per gli alpini della Julia. Eravamo militarizzati e

dipendevamo dal Ministero dei Lavori Pubblici, l’impresa appaltatrice era la, Giovanni Beotti di

Castel San Giovanni, Piacenza. Mio padre dopo il primo anno di tempo, per fare conoscenza

con l’impresario, divenne il capo cantiere e lo è rimasto per tutto il tempo che è rimasto lassù.

Prima in valle Stura e poi dall’altra parte, del Col del Mulo, in valle Maira, dove siamo partiti,

con il tracciare la strada da Ponte Marmora sino al Col del Mulo, per collegarsi con l’altra valle

e proseguire verso il Col della Maddalena e quindi verso il confine con la Francia.

In quegli anni abbiamo lavorato sodo, ma a me sono anche serviti per la mia formazione

sociale e politica. Negli ultimi anni,verso il 1938-39, cominciavano ad arrivare battaglioni di

soldati, che si accampavano un po' da tutte le parti.

In quegli anni, noi stavamo lavorando ai piedi del massiccio di Col del Mulo, un altipiano che

si chiamava Lausett, era una distesa di prati pianeggianti larghissima, sembrava un campo di

aviazione.

In primavera e in estate, era tutto in un fiore bianco, sembrava un vestito da sposa che

ondeggiava con lo strascico e cambiava colore ad ogni piccola valle, luccicando verso il cielo

con i raggi del sole, sembrava un sogno. Ai piedi del massiccio che finiva con una grossa

pietraia, vi sgorgava un grosso fontanone che era tanto grosso e potente, che usciva dal

suolo per qualche metro, sembrava vi fossero delle pompe che lo spingessero cosi forte e in

alto. E da quel fontanone iniziava il torrente Macra, che poi più in giù, a Ponte Marmora,

sfociava nel fiume Maira, che portava lo stesso nome della valle.

Il massiccio di Col del Mulo, visto da questo prato era meraviglioso, al mattino presto si

potevano vedere i camosci che, finito di pascolare, nella notte su questi prati, si fermavano a

ruminare sul colle in fila indiana e si stagliavano nel celo come dei fantasmi. Io qualche volta

andavo fin lassù per cogliere le stelle alpine.

Un bel giorno, sono arrivati un paio di battaglioni d alpini, del terzo reggimento, e si sono

accampati proprio in questo vasto pianoro. Il loro arrivo faceva presagire quello che poi è

successo, il dieci luglio con la guerra. Anche se le voci ufficiali erano quelle del campo estivo,

ma l’armamento e i rifornimenti al completo, parlavano diversamente. Mio padre essendo

appunto il capo cantiere ed essendo militarizzati, gli avevano dato in dotazione un moschetto

mod. 38 con relative munizioni, per la difesa personale e quella del cantiere.

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In pochissimo tempo avevamo familiarizzato con gli alpini, mio padre aveva fatto otto anni, fra

leva e guerra nella prima mondiale. Era stato nell’artiglieria alpina, sergente Maggiore e

medaglia d’argento al valore, sul Sabotino.

Quindi eravamo come a casa nostra.

63

Prima, che arrivassero loro, si doveva fare circa un’ora di cammino, sia alla sera che al

mattino , si doveva scendere giù alla mensa e al dormitorio che si trovavano in fondo valle, nel

paese di Reinero.

Mentre ora, con l’amicizia dei comandanti degli alpini, io e mio padre, eravamo alloggiati

nella tenda comando e mangiavamo alla loro mensa, che era senz’altro meglio della nostra,

ma sopratutto, era gratis.

In quei tre mesi circa che sono stati lì, ho avuto l’occasione di sentire e capire molte cose, sul

regime e sulla guerra che stava per arrivare. Quasi tutti gli ufficiali erano contrari al fascio, se

ne sentivano di tutti i colori, eravamo oramai in confidenza e si parlava liberamente, i più tanti

erano richiamati, che avevano dovuto lasciare la famiglia e il lavoro, ma sopratutto non

volevano la guerra.

Un giorno, nel primo pomeriggio sono spuntati, una colonna di soldati, sulla strada, nella

sponda opposta a dove eravamo accampati noi e gli alpini. La strada, per capirci, che

stavamo costruendo e che portava sul passo di Col del Mulo. Appena questi, si stavano

avvicinando al nostro accampamento, dalle tende degli alpini, si sono levate un coro di grida

verso quelli che stavano arrivando. Addirittura con i megafoni, si sentiva un coro di voci che

gridavano fascisti, carne venduta, non vi avvicinate, altrimenti la guerra incomincia qui.

Questi nuovi arrivati, che oramai si era capito chi fossero, appena arrivati sul bivio, o venire da

noi, o proseguire verso il passo, hanno imboccato il ponticello che portava al nostro

accampamento. Si è scatenata veramente la guerra; si è sentita subito una mitraglia che

sparava a raffiche continue sul ponte, davanti a quelli che arrivavano, si vedeva il rialzarsi

della terra e sassi, provocati delle pallottole. Questi si sono fermati e si sono buttati

immediatamente per terra.

Un’altra mitraglia ha iniziato anch’essa a far fuoco su quel ponte. Si vedevano le fiammate

delle pallottole che picchiavano sul cemento armato alla metà del ponte, davanti ai nuovi

arrivati. Si è visto immediatamente alzarsi una bandiera bianca, a metà della colonna. É

subito è cessato il fuoco; quelli con la bandiera ben in vista, si sono portati avanti alla loro

colonna e hanno attraversato il ponticello per venire da noi. Qualcuno con il megafono gli ha

Page 13: I TRE COLONNELLI 2

intimato l’alt, dopo un attimo si è vista una nostra pattuglia, prenderli in consegna e portarli

nella tenda comando, dove, fra gli altri, vi era il colonnello comandante degli alpini.

Saranno stati dentro una mezz’oretta a parlamentare, nel frattempo tutti gli alpini del campo,

compresi diversi ufficiali subalterni, avevano bloccato il tragitto dove avrebbero dovuto passare

per il ritorno. Appena questi sono usciti dalla tenda-comando, si sono spaventati da morire,

sono tornati dentro e hanno preteso di essere accompagnati dal colonnello in persona. Infatti,

per la tranquillità e il quieto vivere, ha dovuto accompagnarli fino al ponte, in mezzo a queste

due ali d alpini, che gli gridavano, a dosso, tutti gli improperi del mondo; imboscati, fifoni,

carne venduta, mercenari ben pagati ecc. ecc. Io avevo sedici anni e temevo di dover

arrivare in tempo anch’io per far la mia parte. Ma mio padre mi tranquillizzava, mi diceva; fra

tre giorni la guerra sarà finita, non vedi che esercito abbiamo? Come si fa a fare la guerra e

vincerla con quest’odio, frà un reparto e l’altro?. Questa è stata un’altra testimonianza

importante e direi determinante per il completamento della mia fede politica, avevo capito

chiaramente da che parte stare.

64

Avevo sentito parole che non conoscevo, come democrazia e giustizia, avevo sentito, da

qualche ufficiale ben informato, che in America gli operai degli stabilimenti andavano al lavoro

con la motocicletta di sua proprietà, io non ero ancora riuscito a farmi comprare una bicicletta

usata, che costava solo settanta lire. Per un paio di mesi abbiamo visto passare colonne di

soldati, che andavano verso il fronte, e il dieci luglio abbiamo sentito il rombo dei cannoni della

linea Maxinot che hanno tuonato per tre giorni consecutivi, poi silenzio assoluto.

Le prime voci che arrivavano dicevano che, i tedeschi avevano sfondato il fronte francese,

non mi ricordo dove e stavano occupando la Francia, ma che comunque i nostri avevano

preso le fortificazioni francesi sulla linea Maxinot occupandola per intero e costringendo la

Francia a capitolare. (La famosa pugnalata alla schiena, che, la Francia non ci ha mai

perdonato. )

Noi siamo rimasti ancora lì, per tutto il 1940 e 41, per terminare i lavori già progettati e

finanziati. Quindi siamo tornati a casa e siamo rimasti disoccupati per circa sei mesi, quando

l’impresa Beotti, con un telegramma invitava mio padre a presentarsi su un nuovo lavoro che

avevano appaltato a Chivasso.

Si, trattava, anche qui, di un lavoro grosso, si doveva incanalare il PO, facendolo deviare per

una quindicina di chilometri, per una metà in galleria, per poi costruire una centrale

idroelettrica al termine di questo percorso.

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In questo nuovo cantiere le cose erano cambiate in meglio, ma per finire molto male.

L’impresa Beotti aveva dato a mio padre, un subappalto di certi lavori che si dovevano fare in

galleria, dandogli anche a credito i macchinari necessari per svolgerli, che gli avrebbe pagati

piano, piano, con l’avanzamento dei lavori.

Per il primo anno le cose andarono molto bene, i macchinari li aveva finiti di pagare, dora in

poi avremmo potuto alzare un po’ la testa, guadagnando anche bene. Ma, ce sempre un ma.

Alla direzione generale dei lavori, subentrò la famigerata T.O.L.D. (una organizzazione dei

tedeschi che subentrava in tutti i lavori dello stato italiano). Cominciarono a ritardare i

pagamenti, sequestrarono i macchinari più recenti e più nuovi, per trasferirli in altri cantieri, per

loro più strategici e urgenti, si riusciva, si, e no, a ottenere quella misera paga che aveva un

semplice operaio e spessi mesi con molto ritardo. Arrivati all’inizio del 1943, io fui licenziato,

come molti altri, perché i lavori erano,in sostanza fermi, i tedeschi non davano più

finanziamenti, perché non gli interessava più quel lavoro.

Ai primi di febbraio mi arriva la cartolina rosa, cioè la chiamata alle armi. Arriva con il nome

sbagliato, e così il postino la respinge, dopo una settimana, arrivano i carabinieri d’Ottone e,

facendo accertamenti risultavo che il richiamato ero proprio io. Mi danno il tempo appena di

vestirmi e preparare un po’ di biancheria, e mi accompagnano alla corriera per Piacenza.

Arrivo a Piacenza la sera, e il distretto è chiuso, non ho granché soldi e dormo, con il

permesso dell’autista, sulla corriera, nel garage, tanto per salvarmi dal freddo che era ancora

pungente. Al mattino presto mi presento al distretto militare e mi fanno entrare in un grande

locale con delle panchine che, sembrava una sala d’attesa delle stazioni ferroviarie. Dopo

un paio d’ore che sono lì, arriva un sergente e mi dice di seguirlo, mi porta in un ufficio, si

siede tranquillamente, si accende una sigaretta e di colpo sbotta, con queste frasi; abbiamo

uomini che muoiono al fronte, e il signorino si permette di presentarsi, con tutto comodo e con

dieci giorni di ritardo.

65

Ma ora ci penso io, ad insegnarti l’amor di patria, ti spedisco direttamente al fronte, così li,

imparerai quello che non ti hanno insegnato prima, e vedrai che ti insegneranno ad essere

anche puntuale. Infatti, alla sera ero già sul treno che mi doveva portare a Fiume, con tappa

intermedia a Merano, dove aveva sede la divisione Tridentina, per l’assegnazione al corpo e

per il vestimento.

Tre giorni dopo arrivavo finalmente a Fiume, e, il nucleo di camice nere, di cui mi sono rivolto,

mi hanno accompagnato alla caserma di Santa Caterina. Queste caserme erano sistemate

sopra la città, su di una specie di alto piano, al confine con la città aperta, di Susak, e con vista

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su quasi tutta la città di Fiume. In tutti questi posti e in ogni ufficio o comando che mi

presentavo, con il mio foglio di via, mi davano sempre una busta chiusa da presentare, ogni

volta ai nuovi. Quindi, questi, leggevano quello che aveva scritto il sergente di Piacenza;

facevano i vari commenti e mi ridavano un’altra busta con il nuovo indirizzo, aggiungendo,

ognuno il suo giudizio e chiudendola sempre con tanto di timbro alla ceralacca. Finalmente

sono arrivato nella camerata-alloggio.

Più che una caserma quella di Santa Caterina, erano una decina di prefabbricati in legno

rustico, come le baracche che facevano una volta i carbonai, o quelli che dovevano vivere, per

ragione varie, lontano dell’abitato. Erano, a un piano solo e contenevano una compagnia cada

una. Solo il corpo centrale era in muratura, dove c’era il comando del battaglione. Lì, devo

dire che sono stato abbastanza fortunato, il capo della camerata, era un sergente maggiore di

Piacenza, e subito a voluto vedermi per fare conoscenza e per sentire anche, notizie da casa.

Mi ha preso subito in simpatia e la cosa mi ha tranquillizzato al quanto. Naturalmente io ero

arrivato, con in valigia, un bel salame e ancora un paio di michette di pane bianco. Mi ha

assegnato il posto per dormire, che erano tutti letti a castello, e mi ha messo in quello sopra,

molto vicino alla fureria, dove dormila lui. Dopo ritirato il rancio della sera, nella gavetta, mi ha

invitato ad andare a consumarlo nella sua tenda, che era sistemata all’inizio della camerata e

che si poteva mangiare sul tavolo, invece che, sulla branda o per terra su qualche scalino.

Io mi sono offerto di prendere dalla mia valigia il salame e una mica di pane. Quando l’ha

visto ha dato una esclamazione che sono rimasto molto sorpreso, non ero ancora abituato alla

mensa della caserma, ma l’ho capito subito dopo qualche giorno. Era un richiamato della

classe del 1916, aveva già fatto tutti i fronti, dai Balcani, alla Grecia e all’Albania, aveva un

mucchio di decorazioni, ma aveva anche una sfilza di ferite, e, qualcuna anche molto visibile e

abbastanza seria. Abbiamo fatto fuori tutto il pane e metà salame, siamo diventati amici. Il

battaglione era formato per un sessanta per cento di reclute, di non ancora diciannove anni

come me, e l’altro quaranta era formato da reduci dei vari fronti. Si doveva fare un corso di

istruzione cortissimo e impegnativo, perché dovevamo essere pronti per il fronte al più presto

possibile. Si marciava per qualche ora, poi il resto della giornata si passava ad imparare a

smontare e rimontare le varie armi. Io avevo buon gioco, perché, quando ero in val Magra,

stavo tutto il tempo possibile con gli alpini che facevano altrettanto. Conoscevo già a memoria

lo smontaggio e il montaggio del fucile mitragliatore Breda e della mitraglia fiat, che aveva un

serbatoio d’acqua per il raffreddamento.

66

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Non parliamo poi delle armi leggere, come il moschetto mod. 38 con la baionetta già

innestata, il mitra automatico balilla, che aveva il calcio di legno e caricatori da 20 o 40 colpi, ed

era molto preciso ed efficace, ma n’avevamo pochi. In più, il fatto di essere nato e vissuto,

quasi sempre in montagna, mi dava dei punti quasi su tutto, nella corsa, nel salto fra una pietra

e l’altra, nello scalare rocce o alberi, e sopratutto nel conoscere già molto bene tutte le armi in

dotazione.

Ma ancora, la voglia di imparare, imparare tutto quanto mi veniva spiegato e insegnato, tanto

che alla fine del corso, che durò solo venti giorni, mi diedero i filetti rossi di allievo caporale.

Dopo questi venti giorni di corso accelerato, siamo entrati a tutti gli effetti, in formazione, e,

abbiamo iniziato i pattugliamenti notturni, le guardie nelle garitte intorno alla caserma e tutto

quanto veniva deciso dagli alti comandi.

La città di Fiume era una città molto fascistizzata, tante camice nere come a Fiume non le

avevo mai viste, quando scendevamo giù in libera uscita, si doveva essere almeno sei per

gruppo e si doveva avere sempre la pallottola in canna e giberne piene di cartucce. Ma pochi

rispettavamo questa prassi; in genere si andava con un solo caricatore in tasca, perché

pesavano troppo e perchè le giberne ci servivano per le sigarette di contrabbando, che

compravamo giù in città e una parte, poi si rivendevano in caserma per comprare qualche

tozzo di pane, ma sopratutto si scambiava con i cuochi e il personale di servizio nella mensa,

che, erano quasi tutte donne civili dei luoghi. Questo però era venuto nelle orecchie alle

camice nere, che si riunivano in squadre di dieci, quindici per volta, e ci costringevano ad

aprire le giberne, sequestrandoci tutto quello che c’era dentro. Qualche sera si è arrivati

anche a qualche colpo di moschetto con qualche ferito.

In caserma il vitto era poco e scadente, ci si alzava al mattino alle cinque, ti davano mezza

gavetta di acqua calda che loro chiamavano caffè, e due panini neri che sembravano due topini

da fogna, che ti dovevano durare tutto il giorno e che io li mangiavo tutti e due subito, con

quell’acqua calda del mattino.

Si partiva in assetto di guerra, con zaino affardellato e armi al completo e si andava in

perlustrazione della zona che circondava la città, frà un caposaldo e l’altro. A mezzogiorno si

rientrava, e qualche volta si doveva rimettersi subito in coda per il rancio, per non saltare il

turno, altrimenti dovevi aspettare che servissero tutto il battaglione, il ché voleva dire un’ora di

ritardo.

Ti davano una decina di maccheroni, al sugo e dovevi mangiarle velocemente in piedi, in

coda alla coda, solo così riuscivi a beccarti un altro mestolo di giunta, quando arrivavi davanti

alla distribuzione. Pomeriggio, due ore di silenzio, poi istruzione sulle armi, verso le

diciassette si tornava in fila per la cena. E lì, ti riempivano la gavetta d’acqua calda, che,

questa volta la chiamavano brodo, con dentro un pezzetto, che loro chiamavano carne, ma che

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sembrava il tacco di una scarpa bollito. Io, in quattro mesi che ho girato per la Croazia, sino

all’otto settembre, non ho mai mangiato una sola volta con sazietà. Ero diventato quaranta

chili. Lì in quella caserma, il nemico era infido, non si riusciva mai a capire, da dove arrivava,

quasi ogni settimana qualche nostra sentinella, veniva soprafatta di notte e non se ne sapeva

più niente, probabilmente finivano nelle foibe. Il nostro sergente maggiore, aveva una vaga

idea che, nel personale civile che lavorava in caserma ci fossero delle spie o, comunque

degli infiltrati di Tito.

67

Così una sera, forma un pattuglione di volontari fra i quali io, e ci porta in un crocevia, in

mezzo ad un bosco, a circa mezz’ora di strada da noi. Siamo arrivati e ci siamo appostati in

mezzo alla biforcazione delle due strade, che secondo lui era il punto dove avrebbero dovuto

passare, per attaccare le sentinelle e farle sparire. Abbiamo atteso per circa un paio d’ore,

senza che si sentisse anima viva, e quando oramai disperavamo che si facessero vivi, sono

arrivati.

Era una sera con un po' di luna, scelta, appositamente per vedere quello che sarebbe

successo; vediamo a cinquanta metri, sulla strada, una grossa macchia nera che si

avvicinava sempre più, non si riusciva a sentire nessun rumore perché si erano fasciati le

scarpe con degli stracci, proprio per non essere scoperti. Il Sergente Maggiore si era

appostato sulla nostra desta, a cinque o sei metri più in avanti e aveva dato ordine di stare

pronti, ma non sparare se non dopo che lo avesse fatto lui. Quando, oramai erano arrivati a

pochi metri, si è sentito la raffica del mitra ed è scoppiato l’inferno. Noi tutti insieme, abbiamo

aperto il fuoco su quel mucchio nero che stava lì sotto, un attimo e hanno incominciato a

rispondere al fuoco, dopo le prime raffiche tutte insieme e il lancio di qualche bomba a mano,

c’è stato un attimo di silenzio, in attesa di ricaricare, poi nuovamente fuoco. A un certo punto il

S. Maggiore grida di cessare il fuoco e di accendere le torce, puntandole sulla strada per

vedere quanto fosse successo: bene, qualcuno era riuscito a fuggire buttandosi nella scarpata,

ma lì, sul crocevia vi erano un mucchio di gente che si lamentava. Per farla breve abbiamo

contato undici persone, sei maschi e cinque femmine, un paio di morti e gli altri feriti. Ma, la

sorpresa più grossa, fra questi vi erano una famiglia intera che, lavoravano in caserma, alla

mensa e alle pulizie. Fu chiamato il comando con il telefono da campo e dopo una

mezz’oretta, arrivarono le camice nere con un autocarro e portarono via tutti. Questo è stato il

mio battesimo con il fuoco.

Una sera, mi tocca la guardia in una garitta delle più pericolose, era, posizionata sulla

sponda del torrente, che divideva la zona Italiana e quella di Susak, città aperta e covo di spie

e partigiani travestiti. Il turno doveva essere dalle due alla quattro del mattino. Dopo un’ora

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circa, sento nel reticolato a dieci o quindici metri da me dei rumori sospetti, mi tendo allo

spasimo per cercare di capire e di intravedere qualcosa che mi facesse capire, ma niente; era

buio fondo, e vi era anche un pò di vento, così ho cercato di capire, più o meno la direzione dei

rumori, e mi sono ricordato degli avvertimenti di mio padre, che dicevano, se vuoi portare a

casa la pelle, prima spara poi dai l’alto là. Così feci, indirizzai il mio moschetto in quel punto e

sparai tutti i sei colpi che vi erano nel caricatore. Tanta era la strizza che poi, non riuscivo più

a rimettere il caricature nuovo. Per farla breve dopo un attimo si sono accesi tutti i riflettori e

sono arrivati quelli del corpo di guardia. In mezzo ai reticolati si poteva vedere una macchia

nera, che io avevo creduto fosse una giacca immobile, invece era una capra stecchita. Non vi

dico lo sfottamento dei commilitoni del corpo di guardia, che mi disarmarono e mi

consegnavano provvisoriamente in camerata. Al mattino seguente mi portarono al comando,

e anche qui qualcuno degli ufficiali ha continuato a sfottere, mi, interrogarono per più di un’ora

e mi confermavano la consegna, a tempo indeterminato. Al mattino dopo è venuto a trovarmi

il mio amico S. Maggiore e ha voluto sentire da me, com’erano andate le cose.

68

Mi disse di stare tranquillo che non mi poteva succedere nulla, anche se il rapporto fatto da

quelli che mi avevano interrogato prima, parlava d’eccessivo e irresponsabile intervento,

mettendo in allarme tutto il battaglione per una capra.

La cosa finì lì; io ero consegnato e non potevo muovermi dalla camerata. Dopo tre giorni

arriva un piantone con un plico sigillato da consegnare al S. Maggiore, responsabile della

camerata, il maggiore mi chiama, mi, da l’attenti, e mi legge il contenuto del plico.

“Questo comando di Battaglione, dopo aver esaminato attentamente, quanto successo la sera

dell ecc.ecc, considerato che, invece di una capra, poteva essere il nemico, e che comunque,

cinque dei sei colpi sparati dall’allievo caporale sono andati a segno, si decide e si delibera di

promuoverlo caporale per meriti di guerra.” Da quel momento, il Serg. Maggiore mi ha fatto

sistemare una branda nella sua tenda e mi ha nominato suo vice nella responsabilità della

camerata, e qualche volta, per la sua anzianità e per le sue conoscenze, si, riusciva ad

ottenere qualche piatto di pasta asciutta in più. Un altro episodio che mi ha tremendamente

colpito è stato questo: un mattino molto presto, ci hanno radunato in piazza d’armi, tutto il

battaglione al completo d’armamento, si doveva procedere ad una specie di rastrellamento in

una vallata che comprendeva diversi paesi, e dove si sperava trovare armi e rivoltosi. Non

abbiamo invece trovato nulla, solo donne, vecchi e bambini, ma al ritorno in caserma, verso la

due del pomeriggio, ci siamo accorti che all’appello mancava un soldato. Inutile dirvi che, si

doveva tornare su tutto il percorso fatto, per cercare di rintracciarlo o, in ogni caso trovare

qualche notizia. Eravamo tutti sfiniti dalla stanchezza, e dalla fame, appena consumato il

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rancio velocemente, siamo ripartiti. Dopo un’ora e mezza circa di cammino, lo abbiamo

trovato. Era seduto su di un muretto, di quelli che dividono una proprietà dall’altra, sembrava

seduto normalmente come se fosse stanco, con il fucile in mezzo alle gambe e il mento

appoggiato sopra, ma non era così.

Appena avvicinatisi, abbiamo visto la tragedia, aveva le mani legate sul moschetto con il

mento appoggiato sopra come se si riposasse, aveva le stellette negli occhi e i genitali in

bocca, era tutto sanguinante. E’ stata la cosa più tragica che abbia mai visto in tutta la guerra,

mi sono sentito invadere da un odio che avrei sparato a tutti i croati che incontravo.

Una notte, ai primi di luglio, suona l’allarme aereo, e si doveva andare, tutti quelli che non

erano in servizio, nel rifugio, scavato nella roccia di fianco alla caserma. Dopo una mezz’ora,

che tutti dormivano, è arrivato il colonnèllo per l’ispezione. Non era mai successo, quindi

nessuno si era accorto che stava passando l’ispezione, accompagnato da un paio di carabinieri

al suo fianco. Io combinazione non dormivo e avendolo visto abbastanza da lontano, ho dato

l’attenti. Pochissimi si sono alzati, gli altri, continuarono a dormire, il colonnello, giunto a pochi

passi da me, si fermò e chiese il mio nome e grado, e rivolgendosi ad un sottufficiale dei

carabinieri gli ordinò di prenderne nota.

Il giorno dopo, all’ora del rancio, quando tutto il battaglione era schierato per la preparazione,

arriva il colonnello, danno l’attenti e incomincia a parlare. Rievoca la sera precedente, si

rammarica che troppo pochi erano i soldati nel rifugio e quei pochi dormivano, solo il caporale

Rebolini Giuseppe si è dimostrato all’altezza della situazione, rendendo gli onori al

comandante del battaglione nella sua funzione di verifica, dando immediatamente l’attenti.

69

Per questa ragione lo nominiamo e lo promuoviamo a caporale maggiore per merito di

servizio, poiché per merito di guerra, era già stato nominato caporale. Poi è sceso si è

avvicinato al mio plotone, al che, il comandante della compagnia, mi chiese di fare un passo

avanti e il colonnello in persona mi appuntò i galloni, da caporale maggiore sul braccio, mentre

il trombettiere suonava il silenzio fuori ordinanza. Era la seconda volta che, ero promosso per

merito.

Non so e non l’ho mai saputo, il perché, i nostri rifornimenti arrivavano da Zara;

ricordo solo che ogni settimana, partiva da Fiume una grossa barca e andava a Zara a

caricare vettovagliamenti e rifornimenti di vario genere per le truppe di stanza a Fiume,

compreso noi. Siccome però doveva costeggiare, causa il pericolo di sottomarini inglesi,

ogni volta chiedevano un plotone di soldati che facevano la scorta a seguito degli attacchi

spessissimi che arrivavano dalla costa, dai partigiani di Tito. Così una volta toccò al mio

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plotone al completo. Io non ero molto entusiasta perché non sapevo nuotare, ma la curiosità

era grande che, non ho voluto rifiutare. L’andata, è stato un passeggio, non successe niente.

Siamo stati lì a Zara, quasi in libera uscita, per tutta la giornata, poi, alla sera siamo ripartiti

per Fiume. A una certa ora, mentre si fiancheggiava uno sperone di roccia sporgente nel

mare, è scoppiato l’inferno; le raffiche che arrivavano da terra erano micidiali, le fiammate delle

mitraglie e dei mitra che sparavano in continuazione, sembravano un scintillare di stelle

cadenti. Io mi trovavo sul ponte di destra proprio dalla parte della costa, mi sono inginocchiato

dietro una specie di parapetto e ho incominciato a sparare con il mio moschetto. Dopo

pochissimo tempo la nave ha incominciato a bruciare, io non sapevo cosa fare, ma non mi

sarei mai buttato in acqua da solo, forse, sarei bruciato con la nave.

À un certo momento sento una voce in romanesco che mi dice di buttarmi in acqua, io non mi

muovo, gli rispondo che non so nuotare, questi insiste “e buttate giù, non vuoi bruciare a bordo,

dai.. buttate... è nello stesso tempo mi prende, mi sradica da quel parapetto e mi butta giù. Ora

immaginatevi, io, vestito di tutto punto, con lo zaino affardellato, giberne piene di cartucce e

non sapendo nuotare. Finii dritto sul fondo e raccolsi un ciottolo, con il quale mi sembrava di

attaccarmi a qualcosa e di tenermi. A, un certo punto, risento la stessa voce che mi dice; stai

li fermo, nun tè m’ove che poi te porto a terra. Ero appoggiato su di uno scoglio, avevo la

testa, fuori dall’acqua, ma sentivo che non ce l’avrei fatta, l’appoggio era precario, le onde che

produceva la nave che affondava, mi facevano perdere l’equilibrio e sentivo che tornavo giù.

Mi sono svegliato dopo tre giorni nell’ospedale di Abazia e la prima cosa che mi hanno fatto

vedere sono state le due pietre che avevo pescato in fondo al mare e che non avevo più

mollato.

Il mio primo pensiero è stato per quel marinaio con accento romanesco, che dovevo

abbracciare e ringraziare per tutta la vita, invece è rimasto sempre un mio cruccio il non averne

più saputo niente, si sarà, salvato?. Sarà tornato vivo dalla guerra?. Più tardi ho fatto qualche

ricerca, presso la marina militare, ma nessuna notizia, neanche vicina è mai trapelata. Forse,

mi dissero, era della marina mercantile di Fiume o forse era un episodio che, date le

drammatiche circostanze di allora, non fu mai segnalato da nessuna capitaneria di porto.

Anche questo, è, uno dei tanti episodi sconosciuti, dei tanti Eroi sconosciuti che non si

potranno mai ringraziare come si dovrebbe.

70

Dopo una settimana d’ospedale, ritorno in caserma e dopo pochi giorni, arriva il venticinque

luglio, la caduta di Mussolini. Fiume piomba in una rivoluzione, scoppia una specie di guerra

civile, tutto il battaglione fu impiegato per tenere l’ordine pubblico. A me fu assegnata una

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squadra di venti uomini e dovevamo presidiare il palazzo della Prefettura. La folla era

inferocita non si riusciva ad ottenere ordine. Io dalla finestra del primo piano della Prefettura,

ho visto il federale di Fiume buttato in mare da una massa di facinorosi, l’ho visto scomparire, è

rimasto galleggiante solo il berretto con la grossa aquila dorata,che cercai, attraverso un

soldato di recuperare e portare come trofeo a mio padre, che aveva già fatta tutta la prima

guerra mondiale, con medaglia d’argento al valore sul Sabotino e con qualche bicchiere di

ricino, più tardi, per ricompensa. Finito anche questo compito, dopo pochi giorni si torna in

caserma a Santa Caterina, e si ricomincia le solite perlustrazioni e rastrellamenti dei partigiani,

sui monti circostanti con qualche scontro a fuoco, con gruppi di Titini.

Un mattino, suona la sveglia, usciamo per andarsi a lavare e troviamo la piazza d’armi piena

di soldati; c’era tutto il reggimento al completo, erano schierati a compagnie, tutto intorno, la

piazza d’armi, mentre al centro, vi era, una compagnia di camice nere, come se fossero state lì,

prigioniere.

Li per lì, non si capisce niente, le prime voci di passa parole erano che, sembrava

dovessero essere fucilate tutte. Poi finalmente, quando anche noi siamo stati inquadrati per il

caffè, ci, hanno informato sull’avvenimento. Si stava riunendo tutta la divisione Tridentina, e si

doveva andare in Montenegro per dare il cambio alla Julia che, era lì da molti mesi e che

doveva essere mandata a riposo nelle retrovie

Dopo un paio di giorni, si parte, vi erano spezzoni di tutti i corpi; Bersaglieri, Fanteria,

Alpini, Genieri e anche un battaglione di carri armati.

La fila, si snodava sulla strada per un paio di chilometri, era la prima volta che io vedevo

tanti soldati tutti insieme. Vi era una pattuglia d’avanguardia e una di retroguardia. Ma ogni

tanto si doveva staccare dei gruppi e mandarli in perlustrazione sui fianchi della colonna.

Perché a differenza di prima, ora ci attaccavano dai due lati, per più volte il giorno. Abbiamo

viaggiato per una decina di giorni in quelle condizioni, e siamo arrivati in un borgo abbastanza

grosso, che si trovava in un fondovalle e mi pare, si chiamasse Ogulin, o qualcosa del genere.

Li, abbiamo trovato uno sbarramento di fuoco, che, non ci siamo, più potuti muovere. I

partigiani erano appostati sui monti intorno e non ci davano respiro un attimo. Il primo giorno,

ci siamo trovati veramente in grosse difficoltà, eravamo appostati alla bella meglio sul ciglio

della strada, senza riuscire a trovare ripari adatti. Appena ci si muoveva ci arrivava addosso

scariche di mitraglia e bombe da mortaio. Alla sera si contavano già una decina di morti e

altrettanti feriti. Eravamo completamente circondati, non si poteva né andare avanti né

indietro, e nemmeno potevamo difenderci efficacemente, poiché non eravamo in grado di

individuare bene le loro postazioni, le quali sembravano alquanto mobili; un momento

sparavano da una parte e subito dopo dall’altra.

Page 22: I TRE COLONNELLI 2

Finalmente arrivando la sera hanno smesso di sparare e n’abbiamo approfittato per entrare

nel paese e organizzare le difese. Il paese era completamente vuoto, non vi era anima viva,

avevano fatto saltare tutto, non vi era né luce né acqua, era stato completamente

abbandonato.

Nella notte nessuno di noi ha dormito, anche se eravamo sfiniti dalla stanchezza e dalla

fame.

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Alle prime luci dell’alba è incominciato nuovamente l’attacco, con mortai e mitragliere, noi,

puntavamo le nostre armi da una parte e l’oro sparavano dall’altra. Appena scoperto da dove

sparavano, alle prime cannonate dei nostri, cessavano il fuoco in quel posto per iniziarlo dalla

parte opposta. Abbiamo passato i primi dieci giorni, cercando di fare puntate di sorpresa, ma

non ci siamo mai riusciti, si perdevano soltanto degli uomini, senza minimamente danneggiare

le loro postazioni. Così il comando aveva deciso di non attaccare più, ma cercare di stare molto

in allerta e perdere meno uomini e munizioni possibili, in attesa di eventi. Un mattino, con un

bel sole che scaldava la montagna si son visti una colonna di nostri soldati che iniziavano la

scalata da quella parte della montagna che sembrava vi fossero più fortificazioni nemiche.

Nessuno sapeva niente, la tromba non suonava e non aveva suonato nessun attacco, dopo

aver guardato attentamente con binocoli si è scoperto che erano la compagnia delle brigate

nere, che era stata disboscata dai posti di privilegio che avevano prima del 25 loglio e

mandate al fronte con noi. Questi soldati sono arrivati quasi sulla cima e, si erano già

predisposti in ordine sparso, pronti per un assalto alle loro postazioni quasi a corpo a corpo.

Ma, in quell’attimo, prima di riuscire a sganciare le prime bombe amano, si è scatenato un

fuoco micidiale da parte del nemico.

O non si erano accorti, o hanno aspettato che arrivassero molto vicini. Conclusione; dopo un

attimo di questo fuoco micidiale, che ha creato una grossa nube di polvere, si sono visti i nostri,

indietreggiare in disordine, ma sopratutto i morti e i feriti che rotolavano giù per questa sponda

scoscesa e assolata, che sembravano dei zaini affardellati.

Dopo un attimo di silenzio si sono rivisti risalire nuovamente per essere decimati una

seconda volta, e poi una terza, finché il Generale, con un grosso altoparlante, non diede ordine

di ritirarsi. Bene; dei duecento uomini che erano partiti, solo una ventina sono tornati giù vivi,

e altrettanti, più o meno, feriti.

Tutti gli altri sono rimasti su quella montagna senza nessuna possibilità di recuperare i

cadaveri, compreso, quello del loro comandante che era caduto già al secondo attacco, erano

tutti ragazzi sotto i vent’anni, le l’oro famiglie saranno state informate?. O saranno finiti in

quelle maledette tane, che loro chiamavano foibe e che n’era pieno il territorio?. Tutto per una

“disfida” frà i comandanti degli alpini e i loro comandanti, che erano stufi di sentirsi sfottere

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che erano dei fifoni ex imboscati e senza onore, non sarebbero mai stati capaci di fare

qualcosa di buono.

Bene, finita questa parentesi, siamo rimasti fermi in quel buco per diciotto o diciannove

giorni, non avevamo più nulla, ne acqua ne viveri si incominciava veramente a disperare,

eravamo pronti a qualsiasi cosa pur di sfondare questo accerchiamento, anche a costo di

grosse perdite, ma una sera; è arrivato l’otto settembre. La notizia è arrivata verso le nove

di sera e appena si è sparsa la voce è successo di tutto; gente che buttava via le armi, che

gridava come dei pazzi. A un certo punto sono arrivate, non si sa da dove, due damigiane di

anice, posate su di un muretto e con due gomme infilate a mò di cantabruna, ognuno passava

con la gavetta e dopo una mezzora erano tutti ubriachi. Io ero astemio, ma, due di quelli che

distribuivano, mi presero e mi misero la cantabruna in bocca, mentre uno mi teneva, gli altri,

tenendomi il naso chiuso mi hanno ingozzato d’anice, tanto che mi sono sentito male e ho

rimesso per un paio d’ore.

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Al mattino seguente verso le nove, mentre già si discuteva su cosa sarebbe successo,

vediamo scendere, sempre da quella sponda, un gruppo d’uomini con la bandiera Italiana e

quella Rossa. Arrivati da noi sono stati portati nella tenda comando, e dopo dieci minuti il

nostro generale, parlando all’altoparlante ci comunicava di mettersi tutti in riga sulle due

sponde della strada, in faccia, gli uni agli altri e depositare le armi ai nostri piedi, che sarebbero

passati i vincitori per recuperarle. Dopo qualche ora da questo raduno, arrivarono in forze e

ritirarono tutte le armi, ma anche tutto il vettovagliamento che ancora avevamo salvato,

lasciandoci con la sola divisa che avevamo addosso.

Dopo ancora un poco, con un discorsetto di un loro comandante c’informavano che, se

qualcuno avesse voluto fermarsi con loro saremmo stati i benvenuti, e tutti gli altri sarebbero

stati liberi di tornare in Italia, che lì, avremmo dovuto riarmarsi per combattere i tedeschi che

stavano arrivando in forze e stavano occupando l’intera Nazione. Naturalmente noi, quella dei

tedeschi non ci preoccupava più di tanto, anche se poi, ben presto, ci siamo dovuti ricredere.

Viene fatta l’adunanza, di ogni compagnia e con alla testa i nostri comandanti, ci siamo messi

in marcia per tornare a casa. Dopo un paio di giorni, attraversando boschi e vallate e

incontrando molti posti di blocco degli Slavi, siamo arrivati a Fiume, ma appena entrati in città,

abbiamo incontrato un pattuglione di carabinieri i quali ci hanno condotto al comando tappa e ci

fanno sapere che dovevamo riarmarci nuovamente, e obbedire al comando di un Generale, il

quale aveva ricevuto ordini precisi del Re, per combattere i tedeschi che stavano per occupare

Fiume.

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Facendola breve, mi sono trovato nuovamente al comando di una squadra, di nuovi

soldati, di diverse armi ed età, dai giovani delle ultime classi come la mia, a veterani che

avevano già fatto tre ò quattro anni di guerra; con delle barbe, che il solo guardarli,

t’incutevano più paura del nemico. Infatti nella notte, mi è toccato svegliare un paio di questi

veterani perchè dovevano montare la guardia in una postazione all’uscita di Fiume, (Borgo

Marino), ma niente da fare; non si sono mossi, ma non solo, ho rischiato molto più, che di

fronte al nemico. Al mattino seguente mi sono messo a rapporto dal Capitano, comandante la

batteria, gli ho raccontato il fatto, e ho chiesto di essere esonerato da questo compito e di

essere mandato io stesso a montare la guardia nelle garitte. Ho accennato che conoscevo

molto bene il Sergente Maggiore che avevo in Croazia e che mi sarebbe piaciuto nuovamente

tornare nel suo reparto. Mi congedò con, vedremo, cosa si potrà fare. L’indomani ci chiama

a rapporto tutti e due, e chiede al Maggiore,(che nel frattempo era stato promosso Maresciallo).

Se, aveva un posto da potermi sistemare, in qualche postazione sulla linea di difesa.

La linea di difesa: iniziava sulla strada per Trieste, vicinissimo al mare. L’armamento era di

due carri armati, sul fianco della strada, che montavano, oltre alle mitraglie, un cannone per

ciascuno di lunga gettata e un campo minato cento metri più avanti. Poi salendo verso la

montagna, ogni cento metri vi era una casamatta con feritoie e un cannone e due mitraglie

pesanti e cinque uomini.

Mi chiesero, se ero disposto a prendere il comando del gruppo che era installato in cima alla

prima collina, dove su di un altopiano vi era una piccola casermetta presidiata da venti uomini

che controllavano cinque casematte, come quelle sotto, e che stanziavano lì, sul posto,

continuamente.

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Il problema era che vi era già un caporale maggiore che comandava questo gruppo, e quindi

uno dei due, doveva essere stato promosso a sergente.

Dopo un attento sopralluogo, col maresciallo mio amico e considerato bene tutto, accettai.

Tornando giù a Borgo Marina, il maresciallo mi disse di attendere nel suo alloggio che sarebbe

andato al comando tappa e tornato presto.

Infatti, dopo poco arriva con un foglio che mi fa firmare prima di farmelo leggere, e dove vi

era scritto che mi si proponeva alla promozione a Sergente. Quindi preparato lo zaino con la

mia roba, tornai su con una lettera che mi nominava al comando di questo plotone.

La vita quì era tranquilla, si stava tutto il giorno al sole, si chiacchierava, della Grecia, del

Montenegro,e di altre località dove qualcuno vi era stato e raccontava le sue storie. Una volta

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al giorno, verso le ore dodici arrivava il rancio, e ci lasciavano le marmitte già preparate anche

per la sera, bastava scaldarle.

Siamo rimasti lì per una decina di giorni come papi, e finalmente dopo tutta la fame fatta in

Croazia qui si mangia a sazietà. Anche se qualcuno temeva di poter morire a guerra finita,

perché per i più tanti la guerra era finita, e questo che ci facevano fare era assolutamente

arbitrario. Non mancavano le imprecazioni contro il Re e Badoglio che se l'erano svignata e

pretendevano da noi quello che non avevano fatto loro. Un giorno non arriva il rancio; ci

s’incomincia a preoccupare, giù dal comando tappa non rispondono al telefono da campo.

Verso sera prendo due soldati e andiamo giù a vedere che succede. Un casino indescrivibile,

un saccheggio di civili al comando tappa, non si vedeva più un soldato in divisa, quando dio a

voluto, abbiamo incontrato due carabinieri che ci hanno fornito queste notizie.

I tedeschi avevano già occupato Fiume, arrivando con un treno blindato in stazione, senza

incontrare la minima resistenza. Dimostrazione di come eravamo bene organizzati, .Quel

generale che aveva avuto l’ordine dal Re, di combattere era già volato a Rimini. Lasciando a

noi l’ordine di distruggere le armi e si salvi chi può. Siamo rimasti, un po’ sul dunque, se

tornare sù e distruggere le armi o se filarsela subito fin che eravamo in tempo. Lasciai liberi i

due soldati che se n’andarono per conto loro, io tornai lassù, non tanto per distruggere le armi,

ma per avvertire quei poveracci e non farli cadere in mano ai tedeschi.

Nel frattempo io avevo avuto i gradi di sergente, scendendo nuovamente, passai per il

comando tappa, speranzoso, dato il coprifuoco, di trovare ancora qualcuno che m’illuminasse,

almeno da quale parte bisognava scappare. Infatti il comando era ancora pieno di soldati e

qualche ufficiale che ci organizzò per la fuga in gruppo. In quel poco tempo io ho cercato di

trovare qualcosa da mangiare, ero a digiuno dal giorno prima, un soldato che aveva lo zaino

pieno di viveri, m’indicò, dove avrei trovato qualcosa. Trovai scaffali pieni di scattolette di

carne e gallette, mi riempii lo zaino anch’io. In più su altri scaffali vi era ancora del vestiario

imballato. La mia divisa era scalcinata e tutta rotta, i gradi di sergente nuovi fiammanti, che

luccicavano sul braccio come l’oro, ne richiedevano un’altra che, trovai della mia misura.

Comprese le scarpe di vera tomaia rossa, con la suola chiodata e di vero cuoio, che erano

molti mesi che non se ne vedevano più. Noi, ultime reclute, eravamo equipaggiati con gli

stivaletti che si usavano in Africa, per salvare i piedi dalle cimici del deserto, ma appena si

bagnavano, scoppiavano come se fossero di cartone.

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Così, tutto vestito a nuovo, imboccavo la strada di Borgo Marina, verso Trieste, dove, in fila

indiana eravamo, qualche migliaio di soldati che, dalla Croazia e da tutta la Jugoslavia,

volevamo tornare a casa. Durante tutta questa strada, abbiamo incontrato ancora una decina

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di posti di blocco Slavi, e ogni volta fermavano qualcheduno. Sopra tutti ufficiali, tanto che, ad

un certo punto si erano tolti i gradi, per il timore di farsi bloccare nuovamente e finire così la

guerra, in qualche foiba. Arrivati sulle alture di Trieste, ci si presentava davanti, uno spettacolo

raccapricciante, tutto il versante dell’ultima collina che scendeva giù in città, era in fiamme. Il

fumo portato su dal vento non ci lasciava veder niente e non si riusciva a capire dove passare

per continuare la nostra marcia. E quì siamo stati fermi, un’intera giornata. Durante la notte,

un gruppo di partigiani di Tito si sono offerti a farci da guida e con un giro molto largo, verso

l’alba entravamo a Trieste. Durante il tragitto da Fiume a Trieste, avevo rincontrato un mio

vecchio amico, un certo Bertolini, di Massa Carrara che, eravamo insieme alle casermette di

Santa Caterina di Fiume, ma poi durante la marcia verso il Montenegro ci siamo persi di vista.

E insieme, abbiamo cercato la stazione.

Arrivati nell’atrio ci viene incontro un vecchio maresciallo dei carabinieri(vecchio per modo di

dire), avrà avuto, una cinquantina dì anni, ma per noi che ne avevamo diciannove, era vecchio.

Il quale con fare gentile ma molto deciso ci spinge fuori dalla sala avvertendoci che in

stazione vi era un treno blindato di tedeschi, che bloccavano tutti i soldati italiani e li

chiudevano in un carro merci chiuso dall’esterno con grossi lucchetti. Ha, chiamato un paio di

donne, che erano lì nei paraggi, e le ha pregate di aiutarci a trovare abiti civili per non essere

riconosciuti. Io sono andato con una di queste donne e il mio amico con l’altra, in due palazzi

diversi. Ero veramente costernato a dover lasciare lì la mia stupenda divisa, con galloni dorati

da sergente nuovissimi che li portavo da non più di dieci giorni. In ogni modo di fronte al

pericolo di finire in Germania ho dovuto lasciar tutto e accontentarmi di un paio di pantaloni neri

che mi arrivavano sotto le ascelle e una giacca da marinaio, senza bottoni, che avrei potuto

abbottonarla nella schiena, tanto era larga, un berretto grande come quello dei ladri, e

sgualcito per nascondere la pelata da soldati.

E, lì ci siamo nuovamente persi, ho aspettato un po', ma il mio amico non arrivava, sono

andato in stazione sperando di trovarlo lì, ma niente da fare; ho saputo a guerra finita che

aveva fatto due anni di campo di lavori forzati in Germania ed era arrivato a casa nel 1946 con

la tubercolosi. Incomincio a guardarmi in giro, se trovo quel maresciallo. Ma anche lui non

c’era più, qualche voce diceva che le S.S. lo avevano ucciso con un colpo alla nuca, e infatti vi

era ancora una grossa macchia di sangue sul pavimento. Un altro di quegli eroi sconosciuti

che, non si possono nemmeno ringraziare.

Mi affacciai a una vetrata per tastare il terreno sui binari, e infatti si notavano gruppi di

soldati tedeschi tutto intorno ai treni che non sarebbe passata neanche una mosca. Decisi di

andarmene a cercar notizie in zone un po’ più lontane da lì. Per primo fermai un tranviere o

ferroviere, non era ben riconoscibile dalla divisa, il quale sapeva tutto; mi disse di seguirlo che

mi avrebbe portato da una guida, la quale mi avrebbe accompagnato dove poter uscire dalla

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città e prendere il treno in aperta campagna. Avevo un poco di strizza, ma a diciannove anni,

la fiducia negli uomini vince di solito.

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Arriviamo dopo cinque minuti in un magazzino di legname, troviamo questa guida che, mi

doveva aiutare ad evadere da Trieste, insieme a un centinaio di persone che erano già lì in

attesa. Me lo ha presentato e mi chiese dove dovevo andare, sentito che avrei sperato di

arrivare a Piacenza, mi disse che c’era un treno, che attraverso Bologna, andava a Milano e

quindi sarebbe stato idoneo per me. Bisognava però attendere la notte prima di poter partire,

causa, sempre il pericolo tedeschi. Mi diedero qualcosa da mangiare e, coricati su delle

tavole abbiamo atteso la notte.

Appena buio, si presenta uno che dice di essere del Comitato di Liberazione Nazionale

Ferrovieri, e, che ci avrebbe accompagnato su di un treno merci che si trovava a qualche

chilometro fuori città, in aperta campagna. Infatti dopo poco partiamo, un gruppetto alla volta,

verso quella destinazione, arriviamo sù questo treno che ci porta, viaggiando adagio tutta la

notte, nella periferia di Bologna.

Qui ci fanno scendere e, attraverso la campagna, superiamo la città, attraversando pure

l’aeroporto, con diversi aerei neri in fila, la in fondo che ti davano un certo macabro aspetto.

Finalmente raggiungiamo un altro treno fermo al buio in mezzo alla campagna, ci risaliamo

sopra e parte subito. Ma fatti pochi chilometri, si mette su di un binario morto e si ferma,

passa la voce che si deve aspettare nuovamente la notte per ripartire.

Questo treno, non era un merci come quello di prima, ma un treno passeggeri normalissimo,

ma anche questo viaggia a passo di lumaca e arriviamo a Piacenza che era quasi l’alba. Qui il

problema era quello di scendere, affacciandosi dal finestrino si poteva notare subito che non

era facile; due pattuglie di tedeschi andavano avanti e indietro sul marciapiede e tenevano

d’occhio quelli che scendevano. Sicuramente cercavano militari o gente giovane.

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