I suoi occhi

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Guglielmina Iversa Rodriguez [Messico] I “SUOI” OCCHI E’ una giornata anonima, di quelle che si trascinano quando il coraggio di prendere in mano la vita si intestardisce lì, sotto i buoni propositi. Solo fumo evanescente, a ricordare perché mi trovo davanti ad un caffè. Fuori, la nebbia, nel buio, si confonde con il fumo delle caldarroste sulle superfici degli oggetti nudi. Un brivido sulla mia schiena quando, dietro al mio caffè bollente, si siede lei. Niente di rilevante: nulla mi impedisce di assaporare il piacere caldo, che raggiunge ogni angolo del mio corpo. Il sollievo, immediato, è breve e torno ai miei pensieri. Nessun argomento interessante tra i miei ricordi e le mie speculazioni. Ma la mente non si arresta: mi trovo bloccata sui dettagli dell’atmosfera che mi circonda. Questione di un istante… e vedo i suoi occhi. Neri di pece, sostengono il mio sguardo, incuriositi e magnetici. Mi tuffo nell’oblio profondo di quelle lunghe ciglia, disegnate da una decisa linea nera. Il viso, dai lineamenti morbidamente orientali, coperto in parte da un velo finemente ricamato, spegne la luce fioca del locale, insieme alle mani, femminili ma provate dalla vita, che stringono l’abbondante tazza di tè. E’ una luce accecante, calda, avvolgente: quella del sole di mezzogiorno. E in pochi istanti viaggio nella sua vita. Eccomi in una Dubai stupenda, in pieno sbocciare. Ma quello che vedo non sono lussuosi hotel e ricchi emirati. Vedo una ‘tolleranza’ che credevo inusuale in un paese arabo: niente volontari che muoiono per protesta, niente donne rinchiuse in un silenzio doloroso, niente ignoranza ed estremismo. Vedo il rispetto di chi è cresciuto con una buona educazione, di chi accetta il potere dello stato in nome della legalità. Vedo una donna col burqa camminare per mano ad una teenager vestita all’americana: le vedo sostare davanti alla vetrina di un negozio di lingerie provocante. Vedo la voglia di lavorare, la cortesia e la condivisione. Vedo una religione che non è un problema. Dove c’era solo deserto, è nato un mondo invidiato da tutti. Vedo una determinazione che sembra non appartenere più agli occidentali. Con lei c’è una giovane donna indiana, decisa ed intelligente. Pulisce le stanze, ma si sta laureando in medicina. «Per non vedere più bambini morire», dice. «Nel mio paese siamo tantissimi e quelli come me o studiano o muoiono in silenzio, tra i tanti». Determinate e gioiose, lontane dallo stereotipo della donna araba, si alzano in silenzio e scivolano via, sinuose, proprio mentre la cameriera attira la mia attenzione. Una donna dalla pelle chiara, fragile, occhi cerulei, i biondi capelli raccolti con cura. Mi invita ad ordinare ancora. Accetto, perché improvvisamente l’atmosfera è diventata estremamente stimolante. Prima che si allontani, cedo alla tentazione di quell’azzurro freddo dei cieli dell’est Europa. Irina viene dalla Romania ed è in Italia da dieci anni. Una vita difficile, nonostante il perfetto italiano e le molte esperienze lavorative. Aumenta l’incomprensione dei “locali”, si intensificano gli atti di emarginazione, di xenofobia. I TG sembrano far rimbalzare il nome della sua patria da un odio all’altro. Il peggio del peggio. E lei non capisce. Ha abbandonato il blu dei ghiacci, il verde del muschio, per non vedere più i bambini orfani vivere in strada di espedienti più o meno legali. Bambini di otto, dieci anni, con un sacchetto di nylon, da cui aspirano l’oblio della loro condizione e l’aiuto per sopportare il freddo e la fame. Irina è venuta in Italia per sentirsi diversa, per essere diversa, per avere la possibilità di

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Racconto finalista del Concorso Lingua Madre 2010

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Guglielmina Iversa Rodriguez [Messico] I “SUOI” OCCHI E’ una giornata anonima, di quelle che si trascinano quando il coraggio di prendere in mano la vita si intestardisce lì, sotto i buoni propositi. Solo fumo evanescente, a ricordare perché mi trovo davanti ad un caffè. Fuori, la nebbia, nel buio, si confonde con il fumo delle caldarroste sulle superfici degli oggetti nudi. Un brivido sulla mia schiena quando, dietro al mio caffè bollente, si siede lei. Niente di rilevante: nulla mi impedisce di assaporare il piacere caldo, che raggiunge ogni angolo del mio corpo. Il sollievo, immediato, è breve e torno ai miei pensieri. Nessun argomento interessante tra i miei ricordi e le mie speculazioni. Ma la mente non si arresta: mi trovo bloccata sui dettagli dell’atmosfera che mi circonda. Questione di un istante… e vedo i suoi occhi. Neri di pece, sostengono il mio sguardo, incuriositi e magnetici. Mi tuffo nell’oblio profondo di quelle lunghe ciglia, disegnate da una decisa linea nera. Il viso, dai lineamenti morbidamente orientali, coperto in parte da un velo finemente ricamato, spegne la luce fioca del locale, insieme alle mani, femminili ma provate dalla vita, che stringono l’abbondante tazza di tè. E’ una luce accecante, calda, avvolgente: quella del sole di mezzogiorno. E in pochi istanti viaggio nella sua vita. Eccomi in una Dubai stupenda, in pieno sbocciare. Ma quello che vedo non sono lussuosi hotel e ricchi emirati. Vedo una ‘tolleranza’ che credevo inusuale in un paese arabo: niente volontari che muoiono per protesta, niente donne rinchiuse in un silenzio doloroso, niente ignoranza ed estremismo. Vedo il rispetto di chi è cresciuto con una buona educazione, di chi accetta il potere dello stato in nome della legalità. Vedo una donna col burqa camminare per mano ad una teenager vestita all’americana: le vedo sostare davanti alla vetrina di un negozio di lingerie provocante. Vedo la voglia di lavorare, la cortesia e la condivisione. Vedo una religione che non è un problema. Dove c’era solo deserto, è nato un mondo invidiato da tutti. Vedo una determinazione che sembra non appartenere più agli occidentali. Con lei c’è una giovane donna indiana, decisa ed intelligente. Pulisce le stanze, ma si sta laureando in medicina. «Per non vedere più bambini morire», dice. «Nel mio paese siamo tantissimi e quelli come me o studiano o muoiono in silenzio, tra i tanti». Determinate e gioiose, lontane dallo stereotipo della donna araba, si alzano in silenzio e scivolano via, sinuose, proprio mentre la cameriera attira la mia attenzione. Una donna dalla pelle chiara, fragile, occhi cerulei, i biondi capelli raccolti con cura. Mi invita ad ordinare ancora. Accetto, perché improvvisamente l’atmosfera è diventata estremamente stimolante. Prima che si allontani, cedo alla tentazione di quell’azzurro freddo dei cieli dell’est Europa. Irina viene dalla Romania ed è in Italia da dieci anni. Una vita difficile, nonostante il perfetto italiano e le molte esperienze lavorative. Aumenta l’incomprensione dei “locali”, si intensificano gli atti di emarginazione, di xenofobia. I TG sembrano far rimbalzare il nome della sua patria da un odio all’altro. Il peggio del peggio. E lei non capisce. Ha abbandonato il blu dei ghiacci, il verde del muschio, per non vedere più i bambini orfani vivere in strada di espedienti più o meno legali. Bambini di otto, dieci anni, con un sacchetto di nylon, da cui aspirano l’oblio della loro condizione e l’aiuto per sopportare il freddo e la fame. Irina è venuta in Italia per sentirsi diversa, per essere diversa, per avere la possibilità di

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lavorare, di avere una dignità. E ora rischia di essere vittima del pensiero comune, discriminata per le sue origini. Ancora una volta una donna lotterà per una vita “normale”. Pago il conto e sono in strada. Chissà se altri “salti” nel vuoto mi porteranno in altre realtà… Vado incontro alla folla che si muove nelle vie del centro. Gente che gira in cerca di qualcosa che non trova. Non sa cosa cercare. Io, ora, lo so benissimo. In un angolo vedo un’altra lei, senza patria né paese. Solo ricordi, sogni e un presente duro. Aspetta, mentre chiede qualche moneta per la sua piccola bimba: lo sguardo perso nel vuoto. Aspetta qualcuno, forse il padre di sua figlia… o chissà. È triste incontrare occhi opachi, in cui non ci si può tuffare… Istintivamente faccio un passo indietro. Da lei imparo la bellezza di una lotta “impossibile”, dell’andare contro il mondo, anche quando tutti ti vogliono in ginocchio. Lasciarsi cadere allo stremo delle forze può apparire una soluzione, a volte l’unica. Ma non è così. La vita deve essere vissuta e l’avversità vinta. Prego Dio di non consentire che io viva per sopravvivere, che io diventi una donna che soccombe senza costruire il proprio destino, che io mi arrenda senza provare fino all’ultima possibilità. Prego Dio di non essere l’ombra di persone che mi sovrastano in questo angolo di cemento. Continuo a camminare e sento il “suo” profumo, una scia di sabbia dorata, mentre un velo color tramonto si modella tra il suo corpo e il suo viso. Mi volto ed entro nel suo vortice, di lei, ballerina del deserto. Bellissima, è Sasha, fiera delle sue origini esotiche, che la rendono il sogno proibito di molti italiani. Intorno a noi, il deserto regala uno spettacolo mozzafiato. Colori vivi vibrano e circondano lei, che vuole vivere i suoi vent’anni come un’occidentale, senza doversi promettere a un uomo molto più vecchio. Attenta Sasha, le macchine costose e le borse firmate non sono tanto diverse dai cammelli per i quali devi offrire il tuo dono più caro. Abbandono i suoi occhi, attratta da un sapore di cannella e neve. Giselle, occhi ridenti, saluta con il calore di sempre. Non più giovane, ha lasciato la Germania per amore, ma non perde i legami con la sua terra: mantiene nella sua cucina, nel suo modo di esprimersi, nella sua fisicità le caratteristiche di una donna forte ma dolce, serena, pacata, felice. Insegna tedesco in una scuola italiana e mi ha fatto capire che, anche dietro una ruvida corazza di sicura lucidità, può vivere un animo fragile e attento. Persino “romantico”. Come mi trasmette Sofie, occhi verde oliva, alla fermata del bus. La sua casa, tra Francia e Italia, si scontra tra i pregiudizi reciproci: piccoli luoghi comuni, che bonariamente caratterizzano i pettegolezzi di cugini vicini. Lei parla la sua lingua e la sente melodiosa. Lei non è altezzosa, né si sente una gran dama schizzinosa. Lei è semplice, cresciuta tra la lavanda e il dolce vino. Lei ama le nostre colline e gli odori delle nostre terre. Lei sa di spezie e di aria fresca, non di Chanel e di Champagne. Squilla il telefono: è un sms di Angelica. Un’altra grande donna, con il cuore colmo di amore e nostalgia per la sua terra, il Cile. Cresciuta in un piccolo paese di montagna, famiglia benestante e l’appoggio di chi ha creduto nelle sue potenzialità, è partita per la Spagna. Esito negativo. Lavoro, impegno e dedizione non l’hanno tutelata da sfruttamenti ed imbrogli. Ma una luce rimane: sono gli amici fedeli sparsi per il mondo, la famiglia che non l’ha dimenticata e la sua forza, che la porta a lottare ancora, a studiare e a lavorare per vedere il giorno del suo riscatto, della sua vittoria. Imparo da lei la forza della costanza, della positività. Entro a casa, pensando alle parole di una carissima amica conosciuta per caso: una ragazza “di mondo”, creativa, un po’ zingara, che si mette in discussione per dimostrare a se stessa che esistono altri punti di vista, per cercare di imparare ad abbracciarne quanti più possibile. Noi tutti nel mondo siamo simili per i bisogni fondamentali: come dicevano i Beatles, “all you need is love”, ma poi siamo simili anche per il fatto che siamo tutti pezzi unici. Micol mi ha insegnato che se hai gli occhi e la mente pronti puoi capire e apprezzare il mondo intero, nelle sue sfumature più diverse. E vivere felice. Dopo un viaggio così intenso ho capito che le parole “villaggio globale” possono essere molto più concrete di quanto si immagini. Sorrido ed entro nella mia stanza di quel color magenta, che mi ricorda tanto la mia terra. “Messico e nuvole”, cantano. Io no. Il mio Messico è sole, è amore, è famiglia, è sacrificio. Ma è anche gente sincera, spontanea, che non nasconde la

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propria vita. È un paese in difficoltà, ma così splendido che anche i più poveri possono sentirsi felici. Forse perché non fanno ancora parte dell’orologio barocco del mondo occidentale, che pullula di sfarzo apparente, ma che dentro è un freddo meccanismo, in cui nessuno si può fermare senza essere danneggiato. Correre e produrre per rendere splendente l’involucro della macchina. La Virgen de Guadalupe mi guarda dal riflesso del grande specchio decorato in bronzo. Io guardo lei e poi… li vedo. Vedo i suoi occhi, intensi, scuri, fieri, dal taglio latino. Hanno il guizzo di un sorriso. Sono consapevoli di come può essere amara la vita. Ma sono anche consapevoli di come la tenacia e la fede siano risolutive e vincenti. Lei, ospite indesiderata nella Betlemme che l’ha vista madre, sa che le diverse realtà arricchiscono il mondo e lo rendono unico, uguale e diverso per ognuno. Lei sa che le donne in cui mi sono tuffata e riconosciuta non vogliono vivere ai margini. Portano in sé tutti i suoni e i colori del Caribe e dell’America Latina. Piccanti, ma estremamente generosi. Portano in sé tutti i suoni e i colori dell’Est, algidi ma infinitamente sensibili… Ho visto, in quegli occhi, i miei occhi. Ho conosciuto loro ed ho capito me stessa.

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