I ragazzi di prima classe

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«La tragedia del Titanic causò la morte di 2223 persone, tutte quelle che erano a bordo. Poi, 705 di esse tornarono fra di noi, in vita, testimoni della grande tragedia e ognuna portatrice di un messaggio». Era la notte fra il 14 e il 15 aprile del 1912. Fra i superstiti, alcuni dei giocatori di tennis più forti di quegli anni: Richard Norris Williams e Karl Behr, i cui destini s’intrecciano per la prima volta durante il disastroso naufragio del Titanic per ritrovarsi poi sui campi da tennis più importanti del mondo. Il primo sale sul Titanic con il padre in viaggio verso la realizzazione della sua carriera agonistica, il secondo insegue l’amore della sua vita, Helen, disposto a tutto pur di coronare il sogno di portarla all’altare. “I ragazzi di prima classe” raccoglie queste storie vere e restituisce il toccante e intenso ritratto di due grandi protagonisti dello sport.

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Progetto editoriale:Absolutely Free

Grafica:Nicoletta Azzolini

In copertina:Elaborazione del dipartimento grafico di Absolutely Free Editore

© Copyright, 2012Absolutely Free Editore - via Rocca Porena, 44 - 00191 RomaE-mail: [email protected]

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata,compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata

ISBN 978 - 88 - 97057 - 53 - 6

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I ragazzi di prima classe

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ABSOLUTELY FREE EDITORE

sport.doc

DANIELE AZZOLINI

La storia dei tennisti sopravvissuti al disastro

del Titanic

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Ai miei genitori Anna e Edo

Ai miei nonni Giulio, Vonitza, Emma

La migliore navigazione, nella vita, nasce dal rispetto per gli altri.È ciò che mi hanno insegnato,

e li ringrazierò sempre per questo

La prima classe costa mille lire,la seconda cento, la terza dolore e spavento.E puzza di sudore dal boccaportoe odore di mare morto. “Titanic”, 1982, Francesco De Gregori

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Il primo ricordo era colorato di rosso. Due sfere, epiù lontano altre due, o forse di più. Bagliori ardentinell’immensità liquida e fredda di un mare nerissimo,lanterne nel buio opaco di un ghiaccio eterno. Ricordava il colore, non quante fossero. Gli erano

parse incerte, sospese, a volte sfocate, ma poi prende-vano forma e si avvicinavano, sempre più rosse einquiete.

C’era un suono che si legava all’apparire e scompa-rire delle sfere. Ricordava anche quello. Una colonnasonora di sospiri e lamenti, di affanni, di mugolii, d’in-vocazioni espresse in ansimi. Dietro, più lontano, come su un altro pentagramma,

il clangore sinistro del metallo. E sibili, maledizioni,schiocchi di corde spezzate, urla improvvise che si rin-correvano e chiamavano altre urla, altri lamenti, altremaledizioni. Suoni che gli giungevano spezzati, franti,

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quasi procedessero su partiture distinte, provocati dastrumenti fra loro in disaccordo, che casualmente siriunissero in ondate frastornanti.

Ancora rosso… Forse dei fuochi. Quanto lontani nonavrebbe saputo dire. La luce ghiacciata della luna liavvolgeva contenendoli. Li guardò di sbieco, attonito,come appartenessero a un’altra realtà. Era stanco.Aveva poggiato la testa bagnata sulla spalla, anche diquesto era certo. Ma non avvertiva sensazioni, quasi ilsuo corpo si fosse estraniato, e non avesse più inten-zione di far parte di lui, della sua vita. Sapeva solo chela testa era lì, poggiata su una spalla che non sentivapiù di avere, ma che doveva esserci, anch’essa, contutto il resto. Le mani. Eccole! Erano davanti ai suoiocchi, le vedeva, e stringevano qualcosa, anche loroindipendenti dalla sua volontà. Mani incapaci di arren-dersi, di abbandonare ciò cui si erano avvinghiate. Lefissava, e ricordò di aver sorriso, partecipe di quellosforzo. La sua vita era nelle sue mani, e almeno loro lorincuoravano, sembrava sapessero che cosa fare.

Da quante ore era in acqua? Forse due, forse tre.Ma anche di più, un’infinità di ore. E come era arrivatolì, fra quelle sfere rosse, fra quelle facce livide di per-sone sconosciute che galleggiavano intorno a lui, iner-ti e silenziose sulla superficie appena crespa di unmare infinito, e sbattevano fra loro senza sussulti,rimbalzando docilmente al contatto e procedendo poiverso altre derive a stabilire nuovi, momentanei lega-mi, quasi si stessero salutando un’ultima volta. Occhivitrei, inespressivi, sbarrati, quasi la fine li avessi volu-ti in posa per l’ultima istantanea. Occhi rivolti versouna luna grande come non l’aveva mai vista.

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Sapeva che cosa era successo. Aveva visto l’enormescafo, prima ripiegato sul lato destro, innalzare d’im-provviso i fianchi in un ultimo anelito di vita, l’estremaribellione a quella fine inconcepibile. L’aveva vistorompersi in due e mostrare osceno alla luna i lombid’acciaio scoperti e indifesi, l’elica poderosa al centro,le altre più piccole poco discoste, per poi desistere inquello sforzo inutile e lasciarsi andare, ormai vinto, escivolare veloce e dritto nell’acqua nera emettendo unultimo rantolo, come un sospiro straziante e prolunga-to. L’ultima preghiera prima di scomparire. Aveva visto, ma non ricordava bene perché non

fosse più su quella nave, lui come i tanti che eranoprecipitati dalle fiancate, rimbalzando sulle lamiere,fino a schiantarsi nell’acqua come pacchi sgangherati,lanciati dal più alto dei palazzi. Gli era parso che l’ac-qua d’improvviso si fosse materializzata e lo avesseportato via. Un’enorme mano liquida lo aveva strappa-to alla nave e a suo padre, spingendolo lontano, nelgelo. Gli sembrava… Forse era così.

Anche lui era caduto. E l’impatto con l’acqua gelidagli aveva mozzato il fiato. Si era liberato scalciandodella pelliccia che forse aveva attutito il colpo, ma poiaveva cercato di trascinarlo sotto, ed era rimasto inacqua nella più stupida delle tenute, in smoking e far-fallino bianco, le scarpe nere e lucide. Adesso era lì,testimone di quegli ultimi istanti della tragedia, e nonricordava da quanto, né come vi fosse giunto, immersoin una coltre bagnata che lo stava serrando, e allaquale avrebbe volentieri ceduto, annullandosi nel tor-pore che stava prendendo possesso del suo corpo, eora, forse, anche dei suoi pensieri. Sarebbe morto anch’esso? Non ci pensava. Non era

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il momento. Alla morte si pensa quando è lontana, nonquando ti sta lentamente avvolgendo di ghiaccio e dipaura. Si sentiva solo. Dov’erano l’amico CharlesEugene, l’irresistibile Alfred, l’entusiasta John Jacob,gli altri amici? Dov’era suo padre Duane? Temeva disaperlo. E non fosse stato per quelle sue mani ribelli,risolute, ancora partecipi della vita, avvinghiate a unasperanza che lui ormai non condivideva… Non fossestato per loro, anche lui si sarebbe lasciato andare.

Ricordava… Alla sparizione dell’enorme scafo nelleviscere di quel mondo liquido e nero, seguita da ungorgo forsennato che aveva risucchiato tutto ciò che divitale ancora si dibatteva nei pressi, era subentratauna calma silenziosa, quasi gli uomini, il mondo inte-ro, le stesse divinità del mare, avessero bisogno ditempo per prendere atto e contemplare l’immensitàdel disastro. Erano trascorsi lunghi minuti prima chele voci dei vivi prendessero a chiamare i nomi deidispersi. Poi anche quel drammatico, piangenteappello era svanito, sostituito dai lamenti, dalle male-dizioni, dai lontani schiocchi metallici dei rivestimentiche cozzavano fra loro. La grande nave si era comesvuotata, prima di intraprendere l’ultimo tratto del suobreve viaggio. E ora quegli arredi, quei tavoli e quellepoltrone, si erano uniti ai vivi e ai morti, alle pochebarche di salvataggio che non erano riuscite a prende-re il largo, nel lento rondò che sigillava l’atto finaledella tragedia.

L’ultimo ricordo era colorato di rosso. Fu quandoquelle sue stesse mani coraggiose stavano per cederee decretare la fine. Le sfere rosse erano sparite, illento procedere dei corpi in cerca di altri corpi si eraesaurito, molti si erano inabissati scegliendo di segui-

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re la nave cui avevano legato la parte ultima della lorovita. Lui era rimasto aggrappato alle sue mani, e le suemani avvinghiate a un sostegno. Era giusto sottrarsi alproprio destino? Era logico tentare di restare in vita?Fu allora che qualcosa lo toccò, su un fianco. Unaprima volta, e poi una seconda, con più forza. Avvertìanche una pressione sulle scapole, quasi sul collo,come di un bastone. Sollevò la testa, forse si lamentòdi quel fastidio che veniva a infrangere il suo torpore.Udì delle voci. Aprì gli occhi e vide la linea rossa diun’imbarcazione che incombeva su di lui. Si girò, comea negarsi a quell’improvviso disturbo. Che lo lascias-sero in pace… Poi si sentì scuotere, strattonare, afferrare, solle-

vare. Due mani lo stavano colpendo sulle guance. Aprìgli occhi, e lo sforzo fu feroce. Il volto di un uomo glistava dicendo qualcosa. Aveva modi bruschi, due occhigiovani e la barba rossa.

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«Lei non è qui per parlare di tennis, vero?»Il volto oblungo del giovane che gli sedeva di fronte,

sulla poltrona in pelle rossa nella sala più spaziosadell’ala nord del Newport Casino, rischiarata dallaluce di un elegante bovindo in legno laccato di verdeaggettante sul campo centrale del Club, ebbe final-mente un sussulto, abbandonando l’espressioneappesa che aveva tenuto fin lì. La risposta, prima che dal cenno di diniego giunto

con un breve ondeggiare della testa, aveva presoforma negli occhi del giovane, appena stretti a modu-lare un’espressione che, con l’aiuto di qualche sapien-te grinza formatasi ai lati, era riuscita a esprimere,insieme, comprensione per la sua vicenda, scuse perl’irruzione nella sua vita e richiesta di ascolto. No, non era lì per parlare di tennis. Non solo di

quello.

capitolo 115 aprile 1922, 11,00 a.m.North Wings Newport Casino,

sala del bovindo

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Richard Norris Williams, pantaloni bianchi decisa-mente ampi sul fisico asciutto e slanciato, il golfabbottonato fino al collo e le scarpe con una lieveombratura di verde sulla punta, ricordo dell’ultimotraining sul campo d’erba, poggiò sul tavolino leSpalding sbrecciate dai molti match, fece scivolaresulla spalla l’asciugamano con le insegne del Club,che aveva annodato al collo, e scelse una delle elegan-ti sedie Thonet con i braccioli ripiegati a ricciolo, pog-giate sui lati della sala. Sorrise anch’esso in direzionedel giovane giornalista che gli sedeva di fronte, dandocosì il suo assenso al colloquio.

«Sì, me l’aspettavo», disse Williams. «E allora, via,andiamo avanti… Sta a lei condurmi sulla strada deiricordi. Prima, però, mi tolga una curiosità. Quantianni aveva, lei, all’epoca della tragedia?»Il giovane non cambiò espressione. Aveva una voce

calma, più matura della sua età. Si portò la mano aibaffetti, appena accennati, quasi ad assicurarsi chefossero ancora lì. «Diciassette», fu la risposta.Williams accennò a un sì, con la testa. Si aspettava

anche quello. Stava per dirlo, ma il giovane lo prece-dette: «Avrebbe preferito un giornalista più anziano,vero? Uno che avesse seguito quei fatti già in formaprofessionale. Non un ragazzetto che dieci anni fa nonsapeva ancora che cosa avrebbe fatto nella vita».Ancora un sorriso. «Non le nego che il pensiero mi

abbia sfiorato. Ma va bene lo stesso, mi creda».«Vede, mister Williams. Ritengo mi abbiano scelto

perché mi chiamo Bochet Martinet, Humberto... Già,con la H davanti. Un tantino pomposo, le pare? Miopadre, Pietro Giuseppe, era su quella nave, un sempli-ce cameriere italiano, veniva da un piccolo paese dimontagna, quasi al confine con la Francia, Saint

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Pierre. Di lui mi è rimasta una foto, aveva due baffiall’insù, la barba a punta su un volto largo. Sorrideva.Forse vi siete visti, o solo sfiorati, magari avete parlatoper un attimo, lui lavorava in uno dei ristoranti diprima classe, “À la carte” l’avevano chiamato, macerto lei non potrà ricordare... Forse il ristorante, noncredo mio padre. Però, anch’io ho vissuto quella trage-dia. In forme diverse da lei, ma non meno dolorose».

Richard ne prese atto, senza stupirsene. Conoscevaquei momenti, quelle situazioni, quel continuo pale-sarsi dal nulla del disastro che dieci anni prima avevacambiato la vita di così tante persone. Si era convintolui stesso che quella tragedia fosse in possesso di unavita propria, capace di mostrarsi in forme sempre rin-novate, di pretendere attenzioni, di ordire trame eintrighi, di avvicinare uomini e accostare pensieri. Leattribuiva un’anima, e se stava attento a non dichiarar-lo apertamente, per non essere preso per pazzo, glicapitava di parlarne in modo esplicito con chiunquefosse stato toccato, o soltanto sfiorato da quel dram-ma. Come lui, anche loro ne erano al corrente, e rico-noscevano alla tragedia una presenza fisica, palpabile.Al punto da parlarne quasi fosse una persona.

«Ne sono sicuro, Humberto… Posso chiamarlacosì? No, non ricordo suo padre. Ma quel disastro ci fasentire tutti uniti, come se ci fossimo sempre cono-sciuti. Penso lei lo sappia». «Già. Ha finito per cementare amicizie che altri-

menti non avrebbero mai preso forma», proseguì ilgiovane, quasi conoscesse a memoria quella formuladi riconoscimento. «Ha legato persone lontane percultura e censo».

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Richard assentì, poi volse lo sguardo alle finestredel bovindo, dalle quali proveniva il rumore serrato diun incontro di tennis. Aveva visto il conte Dodge entra-re in campo, come sempre arcigno, come sempresopra le righe, e certo si stava facendo in quattro pervincere, non ammettendo di poter soccombere connessuno. Ne sentiva i grugniti trafelati. Tornò con losguardo al giovane giornalista che nel mentre si eraalzato per accostarsi a un quadro a olio sulla paretevicina che rappresentava Richard Dudley Sears, primovincitore dei National Championships, giacca a righeverticali bianche e nere, cappello a pendant, e un paiodi occhiali scuri a infrangere quella studiata unifor-mità. Il primo di tredici ritratti che arredavano la stan-za illustrando la storia del torneo che aveva preso il viasui campi di Newport nel 1881, quarant’anni prima eche dal 1915 si era trasferito al West Side di ForestHills, New York. «Appena tredici…», disse quasi sovrappensiero, ma

con evidente ammirazione, il giovane giornalista,riflettendo su quanti pochi vincitori abbia avuto il tor-neo nei primi quarant’anni di vita e sfilando con passolento davanti ai ritratti di Henry Slocum e di OliverCampbell, di Robert Wrenn e di Malcolm Whitman.Alcuni di loro, divini sportivi in carne e ossa, frequen-tavano ancora quei campi, icone di uno sport che inbreve aveva attratto attenzioni più ampie di quantepotessero concedergli le discendenze regali degli avibritannici, e le iniziali attenzioni che nel Nuovo Mondogli avevano assicurato le classi più agiate. Oggi, il ten-nis era lo sport della nuova borghesia, ricca, motivata,rapace. Forse, pensò Humberto, quello sport nonsarebbe mai diventato popolare. Ma rappresentava untraguardo, ormai, un obiettivo. Chi dal nulla si fossepotuto permettere un’ora di svago su quei campi, di

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fianco a uomini potenti per nascita, aveva di certo fattofortuna nella vita.L’ultimo ritratto, a chiudere la galleria di eroi con la

racchetta, mostrava il signore che gli stava di fronte.“Richard “Dick” Norris Williams II, 1914”, illustrava latarghetta in ottone. Si guardarono sorridendo, eRichard alzò le spalle, quasi imbarazzato. «Già, quellodovrei essere io»…

Ma subito tornò all’oggetto dell’incontro. Non erauomo da concedersi divagazioni eccessive, misterRichard. Humberto, nei giorni precedenti l’incontro, loaveva immaginato proprio così.«Ne è nata una comunità, da quella tragedia»,

riprese Williams, «di cui anche lei fa parte, che lovoglia o no. Una comunità che ha in dote l’esperienzadi una sola notte, le ore più tragiche che si possanoimmaginare. Noi siamo i Reduci, e i nostri ricordivanno sempre lì, a che cosa accadde, e a chi non ce lafece, a come ci salvammo. E perché noi sì e altri, comesuo padre, no. Vede, io in questi anni ho ritrovato laforza di viaggiare, sono tornato per mare, e in Europa,ho preso parte a una guerra che ha portato morti edistruzione ovunque. Ma niente mi è rimasto addossocome quella notte di dieci anni fa. Noi, caro Humberto,siamo speciali. Noi siamo e resteremo per semprequelli del Titanic…».