I RACCONTI DEL MISTERO -...

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I RACCONTI DEL MISTERO

“Il terrore nella cava”

Copyright © 2013 Antonio Sizzi-Ziz

Tutti i diritti riservati

Dedicato a mia madre.

INTRODUZIONE

Sheffield, 30 dicembre 1934.

I recenti fatti di Loch Ness m’inducono a rivelare un segreto che in tutti questi anni ho giudicato opportuno non diffondere. Raccomando al lettore di avvicinarsi alla narrazione già privo del consueto scettici-smo che accompagna queste tanto misteriose quanto impressionanti scoperte. Potere colmare in pochi minuti l'abisso temporale costituito da milioni di anni è un’impresa assai ardua per chiunque, perfino per me stesso che ho dedicato la vita affinché questo diventi realizzabile. Tuttavia dai tempi della mia gioventù, mai sono riuscito a vincere completamente l’esitazione nel rendere pubblici quei fatti terribili che appartengono agli esordi della professione e che finirono per condi-zionare tutta la mia esistenza. Gli aspetti e le dimensioni del fenome-no, come vedrete, giustificheranno completamente l’impreparazione a fronteggiarlo. Anche il solo rileggere questi scarni appunti contribui-sce a proiettarmi in un’atmosfera di terrore mista a fascino che fu la compagna inseparabile dei fantastici giorni che sto per descrivere.

George F. Henderson.

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La vocazione che maturai per gli studi paleontologici risale con preci-sione al 1884. Allora giovanissimo mi applicavo in materie mediche al college di Oxford. Il mio interesse però venne distolto da queste per dirigere spontaneamente verso alcuni fenomeni che accadevano poco lontano da quei formali banchi di studio. Circolò la notizia che nella stessa contea dell'Oxfordshire a Stone-sfield, vicino Woodstock, si può dire quotidianamente venivano rin-venuti resti di animali di origine indefinibile. Ciò che rappresentava il lato curioso della faccenda era l'inspiegabilità che fra questi ritrova-menti fossero catalogati in massima parte fossili di pesci dalle forme più strane, conchiglie e calchi di alghe. Il fatto non avrebbe suscitato tanto interesse se ci fossimo trovati in una zona prospiciente il mare. La cava di ardesia dove si verificavano questi reperti era assai lontana dal canale di Bristol, la sponda dell'oceano più vicina a Stonesfield. Trarre delle conclusioni da questa circostanza richiedeva uno sforzo di immaginazione non indifferente. Soltanto molti anni più tardi si poté dare una spiegazione al fenomeno che stiamo osservando, ed essa fu sicuramente la più probabile ma anche la meno plausibile tra quelle formulate, tanto da dovere essere abbandonata quasi subito. Essa af-fermava che fu logico e naturale trovare resti di pesci in quella zona poiché millenni prima, lì c’era il mare. Questa riflessione serve a spiegare come il pensiero si evolva e come l'uomo agisca in funzione delle proprie scoperte. Ciò che molto tempo fa scandalizzava, ora affascina e quello che terrorizzava, eccita. Allora perché mai questo racconto dovrebbe prostrarvi se a colui che lo visse in prima persona sortì l’effetto contrario? Incuriosito da ciò che accadeva in quella cava di calcare decisi di diri-germi verso la vicina Stonesfield con lo scopo di soggiornarvi per qualche tempo. Questo accadde non senza dovere sopportare le vivaci opposizioni dei miei genitori, che mi videro distolto dagli studi uni-versitari. Fino ad allora avevo sempre dimostrato di essere uno studente molto diligente. Vinsi la loro resistenza, e soprattutto quella di mio padre, in-sistendo sui grandi vantaggi che avrei ricavato dalle osservazioni fatte su quelle lastre di ardesia.

Fortunatamente in quell’anno il programma di studi comprendeva de-gli approfondimenti sull’evoluzione delle specie animali enunciati dal-la teoria di Charles Darwin, nel secondo anniversario della sua scom-parsa. Per il sottoscritto l’opera “L’origine della specie”, pubblicata dal grande studioso nel 1859, era assimilabile alla Torah per un aspi-rante rabbino. Per giunta, l’anno in cui uscì la prima edizione del libro corrispondeva col mio di nascita. Ho sempre trovato in questa coinci-denza una sorta di fatalità. Come se il mio destino fosse segnato, e il tempo che passava dovesse essere scandito dalle pagine di quel pre-zioso volume. Allora non esistevano corsi universitari specifici per quell’indirizzo di studi. La materia troppo giovane e controversa non trovava spazi nella rigida ortodossia degli insegnamenti. Evidentemente in quegli anni venne fatta un’eccezione, ovvero co-minciavano a verificarsi delle aperture di credito verso le nuove teorie. Fino ad allora chiunque praticasse la filosofia propugnata da Darwin poteva venire considerato un “eretico”, e a quel tempo uno studente eretico diventava invariabilmente un individuo emarginato. Proprio ciò che mio padre intendeva impedire a tutti i costi; per il mio bene naturalmente. Mio padre, il Prof. Arcibaldo Henderson, chimico e noto cattedratico, benché non vi fosse alcuna supponenza nell’interpretazione del suo ruolo. Nella Londra di quegli anni egli partecipò assiduamente all’applicazione degli studi sull’antisepsi collaborando direttamente con Lord Joseph Lister, celebre chirurgo britannico che operava ad Edimburgo. Prendendo spunto dagli studi di Louis Pasteur, il gruppo di medici da loro formato arrivò a delle conclusioni sbalorditive sull’inibizione del-lo sviluppo dei germi patogeni. In particolare venne riconosciuto il fe-nolo come antidoto contro le infezioni. Ricorderò sempre l’enfasi che accompagnava i discorsi del genitore quando descriveva l’esperimento portato a termine su una serie di pazienti distesi sui dei banchi opera-tori, dove il fenolo veniva nebulizzato durante lo svolgersi degli inter-venti chirurgici. L’esito davvero straordinario evidenziava una drasti-ca riduzione dei decessi per sepsi della ferita. Anche mio padre, all’epoca venne considerato a suo modo un eretico e dovette combattere strenuamente contro l’ortodossia della scienza medica, ma la battaglia durò poco poiché i fatti dimostrarono che le

sue tesi erano giuste. Mia madre Eleonore, in quel delicato frangente lo sostenne sempre, e voglio precisare che non si trattava di una donna sottomessa, condizione comune tra le mogli di molte personalità di spicco nel mondo della politica, della scienza o dell’imprenditoria. Benché si dedicasse principalmente alle faccende domestiche e alla nostra cura, potrei considerarla come una delle artefici del movimento per la rivendicazione dei diritti femminili. Eleonore Henderson aveva fatto proprie le convinzioni di John Stuart Mill, il primo a promuovere l’idea del suffragio delle donne mentre era ancora rettore alla prestigiosa Università scozzese di St. Andrews, nonché deputato liberale al Parlamento per il collegio londinese di City e Westminister. In breve la proposta di Mill trovò molti sostenito-ri tra uomini e donne. Mentre Mrs. Henderson si dimostrava molto attiva nell’organizzazione di eventi, riunioni e convegni, mio padre dovette sopportare con una certa rassegnazione l’impegno della consorte. Si può dire che il professor Henderson incarnava uno dei primi modelli di uomini inglesi che dovettero accettare in anticipo sui tempi l’eguaglianza col genere femminile, ma non dimostrò mai alcun di-sappunto: Eleonore era pur sempre una moglie devota ed una madre dolce e comprensiva, e non manifestava mai, almeno in famiglia, i tratti caratteriali spigolosi tipici delle suffragette. Solo in un caso di-sapprovai la sua condotta. Avevo circa tredici anni quando m’impose di accompagnarla ad una manifestazione. Si trattava di una delle tante sfilate nelle quali con slogan dichiarati ad alta voce veniva chiesto il diritto di voto per le donne. Non fu un’esperienza positiva: ero l’unico ad indossare dei pantaloni in quel mare di sottane, e mi sembrò che tutte quelle donne sottolineassero questa circostanza con sorrisini di scherno. Ma per tutto il resto dovevo essere grato a mia madre, anche in quella circostanza quando, imponendosi, vinse le resistenze di mio padre al-lorché decisi con convinzione di approfondire i fatti di Stonesfield.

Partii da Oxford con pochi bagagli. Appena giunsi nella località mi fu permesso di alloggiare negli angusti ricoveri costruiti per gli operai della cava. Questo suggerì di svolgere una piccola indagine fra quei lavoratori ma soprattutto mi capitò di stringere una profonda amicizia che dura ancor oggi con uno di essi, Samuel Palmer. Quasi un mio coetaneo. Mi piacque subito quel ragaz-zo rosso. Fu proprio Sam ad illustrarmi la situazione. Gli episodi dei giorni che precedettero il mio arrivo a Stonesfield lo avevano incurio-sito e subito mi fece vedere alcuni campioni di fossili che aveva con-servato. I reperti si dimostravano interessanti, però furono destinati a rivestire un’importanza assai trascurabile se paragonati agli eventi che di lì a poco ci avrebbero investiti. Benché Sam fosse praticamente nato e vissuto nella cava, gli sforzi muscolari per svolgere quell’attività fisica non giovarono mai alla sua corporatura tutt’altro che prestante, così differente dal prototipo di quell’operaio. Parte della fulva chioma che lo contornava allora resiste ancor oggi, quasi cinquant’anni dopo, ma i pochi capelli che gli ri-mangono sembrano essersi stancati e lasciano ormai copiosamente la testa che un tempo li accoglieva così numerosi. Questo ragionamento non vale per le sopracciglia, sempre più folte ed ispide. Gli occhi un po’ meno verdi di allora continuano a riflettere una mente non colta ma sempre vivace e attenta. Il giorno seguente da che giunsi in quella assolutamente singolare co-munità, cominciò il mio vagabondare da un punto all'altro della cava, non appena si spargeva la notizia di un nuovo rinvenimento. Per i primi tempi dovetti rinunciare alla preziosa assistenza del mio amico Samuel poiché egli, in considerazione degli impegni di lavoro, non aveva il tempo di dedicarsi completamente a queste ricerche, ben-ché ne fosse avvinto. Tuttavia chiesi la sua costante presenza allorché fummo in grado di tirare le somme di quell’eccitante e memorabile lunedì 18 maggio. Lo feci esibendo un documento d’incarico del Provveditorato agli stu-di Universitari del Regno Unito, nel quale risultavo come “Pubblico ufficiale inviato a svolgere alcune ricerche scientifiche per conto del Ministero delle Scienze”. La scrittura finì per esercitare un certo fa-scino sulle autorità che regolavano i turni di lavoro nella cava di Sto-nesfield. Quello che seppi essere il capo delle maestranze non fece al-

cuna obiezione, lesse il documento e dette la sua incondizionata ap-provazione, dispensando Sam dal lavoro e accompagnando il rilascio dell’autorizzazione facendosi sfuggire addirittura un gesto di deferen-za che accolsi con un certo orgoglio. Quel giorno stavo ultimando la catalogazione dei reperti fossili quan-do fui chiamato per uno dei tanti rinvenimenti. Rispetto agli altri, questo però era destinato nel distinguersi per impor-tanza e interesse scientifico. Appena giunsi sul luogo mi resi conto della natura particolare del ri-trovamento. Ciò che emergeva infatti dalla distesa di calcare era la successione disordinata di alcune protuberanze ossee. Poteva trattarsi a prima vista dell’osso allungato di un animale poiché il materiale era distribuito uniformemente in una regione molto estesa assumendo a tratti l’aspetto di un femore seghettato. La vista totale dopo lo sterro dimostrò quanto le mie teorie fossero errate. Non si trattava di un osso lungo, ma di una smisurata mandibola. Lo stupore fu indescrivibile poiché se la grandezza di quell’osso bastava a giustificare la presenza di un femore, s’intuiva che le dimensioni complessive di quel essere dovevano risultare assolutamente abnormi. Si continuò a scavare in quel punto per un paio di giorni e vennero ri-levate altre ossa lunghe ben conservate, in particolare vertebre cervi-cali anficeli e opistocieli, vertebre caudali pneumatizzate, un femore di dimensioni curiosamente uguali a quelle della tibia e denti ricurvi e taglienti. Ciò che avevamo tra le mani non fu certo la totalità di quel gigantesco essere ma posso assicurarvi che non fu né poco, né privo di significato. Ciò che ci veniva sottoposto bastava ad alimentare la mia fantasia e quella di Samuel. Gli avvenimenti immediatamente succes-sivi non ci permisero di indugiare nel compiacimento di quel rinveni-mento. Il destino ci stava riservando qualcosa di immensamente più importante, che avrebbe occultato la profonda emozione della quale può sentirsi pervaso un paleontologo dopo un ritrovamento di tale por-tata. Ci saremmo ben presto trovati alle prese con un fenomeno che sfuggi-va apparentemente anche alle più spregiudicate leggi della natura. Gli scavi successivi rivelarono una serie di caverne naturali che non per-misero agli operai di proseguire nel distacco delle pesanti lastre di ar-desia. Quella zona infatti venne transennata e abbandonata per il gros-so rischio di operare con il costante pericolo di frane.

Prima di rinunciare gli scavi gli operai avevano provocato una serie di piccole aperture in più punti per verificare la consistenza della parete. Queste andavano da un diametro di venti pollici a circa sei piedi e mezzo e si aprivano a fessura in antri assolutamente neri. Nessuno po-teva dire quanto fossero grandi e profonde quelle caverne, tuttavia l'e-co di lontani e quasi indistinti gorgoglii rivelava la presenza di ruscelli sotterranei. Fino a quel momento la parte del nostro corpo che aveva osato di più, e si fosse spinta maggiormente in quelle narici della terra, fu l'orecchio. Ci apparve infatti pericoloso tentare qualcosa di più che il semplice ascoltare. Avvertivamo già da allora una sensazione d’inqualificabile terrore che ci tenne lontani dalle sinistre fessure per diverso tempo. Successiva-mente il buon senso, o più onestamente la paura furono sconfitti da quella specie di temerarietà della quale un giovane poco più che ven-tenne è il più capiente depositario. Erano trascorsi circa quindici giorni da quando arrivai a Stonesfield durante i quali non dimenticai d’instaurare una fitta corrispondenza con i miei genitori. Nelle lettere naturalmente facevo risaltare i risulta-ti incoraggianti degli ultimi giorni. Intanto con Samuel cominciavamo ad ipotizzare un’eventuale incursione negli spiragli di roccia. Ma lo facevamo cercando di vincere una sorta di repulsione che in breve di-venne contagiosa. Ci scambiavamo delle grida di battaglia, ma ritor-navano indietro soltanto miagolii di spavento. La sera di martedì 26 maggio finalmente rompemmo gli indugi. I fan-tasmi delle nostre paure ci colsero mentre eravamo intenti nel mettere a punto gli ultimi dettagli per il programma del giorno dopo. Riguardo agli esiti della spedizione, questa si sarebbe potuta risolvere in un completo insuccesso qualora le dimensioni delle caverne che a-vremmo esplorato fossero state tanto esigue dal farci desistere dall'im-presa. Fummo sostenuti dalla certezza che quegli antri bui ci nascon-dessero qualcosa di estremamente interessante. L’obiettivo era quello di trovare scheletri di esseri preistorici possi-bilmente completi e ben conservati. Nel nostro bagaglio c'erano lam-pade a olio, corde, picconi e coltelli. Tra gli attrezzi, inaspettatamente spuntò anche una bussola, semmai avessimo perso l’orientamento. Oggetto superfluo, si potrebbe obbiettare ma quella bussola assunse ai nostri occhi un significato particolare. Diventò una sorta di salvacon-

dotto per l’inferno e certificava con la sua presenza una certa risolu-tezza da parte nostra nell’intraprendere quel viaggio agl’inferi. Devo ammettere che tutti quegli attrezzi erano da considerarsi ecces-sivi per la nostra prima missione. Essi infatti ebbero solo il compito di rassicurarci con loro presenza. Gli unici strumenti veramente indi-spensabili furono le lampade a olio. Più in là negli anni rimpiansi che la tecnologia di quel tempo non avesse ancora prodotto le lampade a carburo, che producevano una fonte luminosa all’acetilene molto più efficacie di quelle rudimentali lanterne.

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Cominciammo con la fenditura più a nord, e anche la più estesa. Il chiarore intenso del mattino venne escluso appena fatti un paio di me-tri dentro l’ingresso. Accendemmo subito due lampade. Benché queste producessero una fiamma piuttosto confortante, ci accorgemmo che la loro pur vivida luce non aveva il potere di penetrare quelle inqualifi-cabili tenebre. Infatti dirigemmo il loro fascio luminoso verso il soffit-to senza peraltro scorgere se non una fitta coltre di fumi che provve-devano a nasconderlo. Tutt’intorno, da un punto centrale della grotta si aveva un senso di u-niformità tranne che per l’accecante luce esterna proveniente da quella spaccatura dalla quale entrammo. Procedendo verso le presunte pareti della caverna stabilimmo di essere prossimi ad esse soltanto per alcuni difetti di riflessione sonora provocati dalle nostre voci. Visivamente ci apparvero ruvide e umide soltanto quando vi fummo a due passi. De-cidemmo di costeggiare la parete che ci stava davanti. Ben presto ci accorgemmo che, nonostante avessimo valutato alcune depressioni della roccia, stavamo compiendo un semicerchio attorno al vertice d’entrata e la parete non presentava dei varchi per potercisi approfon-dire. Soltanto in un punto, è pressappoco a metà percorso potemmo udire distintamente, accostando l'orecchio alla viva roccia, un suono caratteristico, lo sciacquio che sentivamo così lontano all'epoca dei nostri primi tentativi. Il torrentello doveva essere più vicino di quanto immaginassimo. Quello comunque non fu l'unico particolare interessante della spedi-zione. Con nostro grande stupore quando uscimmo dalla nera grotta potemmo stabilire che il tempo al suo interno era come se rallentasse. La nostra percezione stabiliva che stemmo lì dentro per molto meno di un’ora ma appena usciti ci rendemmo conto che era già pomeriggio inoltrato. Anche l’orologio che portavamo confortava la nostra sensa-zione. Entrammo nella piccola caverna verso le 10:00 del mattino e all’uscita le lancette indicavano le 10:48. Ma a sconvolgere ancora di più le nostre idee arrivarono puntuali quattro rintocchi battuti alla torre della chiesa di St. James. Erano le 16:00. Trascorsero davvero tutte quelle ore? Vedremo in seguito come questo fenomeno fu destinato a ripetersi anche in maniera più clamorosa.

All’uscita della caverna Sam ed io avvertimmo una sensazione di acu-to disagio fisico. Oltre ad un senso di nausea, la prolungata esposizio-ne in quegli ambienti evidentemente provocò ad entrambi un intenso episodio di natura allergica. Era come se i nostri abiti bruciassero o fossero stati caricati di una specie di energia elettrostatica che rimane-va latente e quasi impercettibile quando eravamo ancora dentro agli ambienti, e venisse rilasciata appena usciti. Fummo costretti a liberar-ci dagli indumenti per qualche minuto ed in quel momento notammo che sulla nostra cute erano comparse delle piccole vescicole rossastre. Il disturbo però durò per breve tempo ed il nostro stato si normalizzò nel giro di un’ora o poco più. A parte la scoperta del ruscello, la prima spedizione come potete im-maginare si risolse in un insuccesso. Tuttavia essa ci servì per rompere gli indugi e ci permise di misurarci con le condizioni ambientali nelle quali avremmo agito nei giorni che ci stavano davanti. Mercoledì 27 maggio tentammo il passaggio immediatamente succes-sivo a quello del giorno prima. Per accedervi dovemmo allargarlo in modo da potervi penetrare più agevolmente. Fummo coscienti appena dentro, dalla presenza di gradini naturali discendenti, che il fondo se mai ci fosse stato doveva trovarsi molto più in basso. Procederemmo con molta cautela nell’ormai consueto buio assoluto. L'unico suono amico a parte le nostre voci fu il solito rumoreggiare dell'acqua che nel nostro approssimarci parve sempre più distinto. Il prossimo senso che avrebbe rilevato la presenza di quel ruscello fu il tatto prima anco-ra della vista. Avvertimmo una sgradevole sensazione di umido quando ci trovammo praticamente e di colpo immersi nella sua fredda acqua. Sam si ritras-se bruscamente e nel far questo scivolò sulle levigate pietre dell'alveo. Il lume che teneva alto davanti a sé cadde nel fiumiciattolo e inevita-bilmente si spense, lasciandoci all'unica luce della mia lampada. Rab-brividii all'idea che anche quest’ultima potesse spegnersi poiché qual-che minuto prima avevo visto con apprensione scomparire il piccolo arco di luce dell'imbocco dietro delle formazioni calcaree. In quel ma-laugurato caso ci saremmo trovati alla completa merce di quell’atmosfera così poco rassicurante e assediati da un oscuramento totale altrimenti indefinibile. A quel punto rimpiansi la mancanza di un filo di Arianna che ci conducesse in salvo qualora avessimo smarri-to la via del ritorno in superficie. Mi ricordai ad un tratto della presen-

za della bussola, nel nostro assortimento di cose. La mano si diresse impazientemente alla sporta per cercare lo strumento di misurazione. Avendo compiuto fino a quel momento un percorso verso nord-est la direzione giusta per il ritorno doveva essere a sud-ovest, vagheggia-vo. Osservando però il quadrante notai che l’ago magnetico stava compiendo delle evoluzioni incomprensibili e ad un certo punto prese a ruotare in senso orario, talvolta arrestandosi per poi riprendere frene-ticamente la corsa. Rendendomi conto di ciò che stava accadendo, pregai che il nostro senso di orientamento non ci tradisse. Decidemmo di agire solo nei paraggi proseguendo poi all'incontrario il percorso appena effettuato. Provai un senso di sollievo nel rivedere il triangolo di luce esterna, ma questa mi parve assai più tenue di quando l'avevo osservata l'ultima volta, e inoltre di un colore tendente al ros-so. Guardammo un po’ attorno per quello che ci fu possibile, poi deci-demmo di uscire.

Appena guadagnata la fessura d'entrata, buttando uno sguardo fuori notammo con preoccupato stupore che la luce rossa che potevamo ve-dere dall'interno altro non era se non quella del tramonto. L’inspiegabilità del fenomeno consisteva nella certezza di esservi en-trati verso l’una del pomeriggio, e che anche stavolta in tutto avremmo impiegato approssimativamente un’ora e mezza o poco più in quella ispezione. Estrassi l'orologio con solenne cura per porlo ad arbitro del-la controversia: segnava le 14:28. Sam ed io guardammo reciproca-mente nei nostri volti increduli alla ricerca di una spiegazione anche non plausibile, ma che giustificasse almeno in parte questo strano fe-nomeno. Con sollievo invece valutammo positivamente di essere fatti salvi dalla crisi con esiti purulenti che ci colpì nella prima incursione. Essa si manifestò sì, ma in maniera lievissima e questa volta non fu necessario che ci denudassimo. Il giorno seguente proposi di guadare il torrente non senza il conforto di una scorta di lanterne e fiammiferi piuttosto ragguardevole. Raggiungemmo la stretta imboccatura e ridiscenderemmo i gradini al-la luce delle lampade in quei neri ambienti. In breve fummo pressap-poco nello stesso punto dove il giorno prima si spense la luce di Sam. Facevamo precedere ai nostri passi un lungo bastone che aveva il compito di indicare la profondità dell'acqua. Nei circa dieci metri che compimmo sui sassi affioranti il livello del liquido si mantenne co-stantemente sulla trentina di centimetri. Approdammo subito sull'altra sponda e benché sperassimo che come per incanto qualcosa cambiasse in nostro favore, in quel paesaggio, le tenebre al contrario parvero in-fittirsi e il senso di disagio che fino a quel momento ci fu percettibile ora la faceva da padrone nei nostri sentimenti. Proseguimmo malgrado un’indicibile angoscia ci attanagliasse gli arti e la lingua. Il rumore del ruscello prese ad attenuarsi quasi come se ogni passo che compimmo per allontanarci da esso fosse quello di un gigante. Infatti a pochi metri dalla sponda non udii quasi più il saltel-lare dei flutti sui massi levigati. Viceversa riavvicinandomi lentamente fui quasi certo che per qualche strano fenomeno il suono dell'acqua procedesse verso di me con una velocità doppia. Nel frattempo il suolo da esclusivamente roccioso e calcareo si era fat-to pressoché sabbioso. I nostri piedi affondavano brevemente. Ci chi-nammo per osservare meglio la natura di quella sabbia. Pareva nera-

stra ma poco uniforme per via di alcune zone chiare, comunque preva-lentemente scura. Decidemmo di prelevarne un campione. Sam si ab-bassò e con una paletta riempì un sacchetto. Ci inoltrammo ancora per qualche decina di metri e con nostro grande sollievo scoprimmo che la luce delle lampade si stava intensificando. Finalmente le tenebre co-minciavano a diradarsi e permettevano di scorgere le sagome di alcune stalagmiti che si ergevano dal pavimento della grotta. Questa lieta sensazione dovette però bruscamente cedere il posto ad un'altra di in-dicibile angoscia. I nostri cuori dovettero fermarsi all’unisono per qualche momento al-lorché percepimmo un suono davvero straordinario. Ancor oggi non saprei descriverlo. Forse si trattò di un boato o qualcosa di simile, d’immane potenza. La sua eco è ancora presente in me, se ci ripenso. Tuttavia allora non seppi stabilire se si trattasse di un unico suono ri-flesso dalle pareti, che lo facevano rimbalzare per un tempo che mi parve interminabile, oppure di tanti suoni che via-via si attenuassero. Onestamente devo ammettere che dopo avere udito quel incredibile ululato, o qualsiasi altra cosa fosse stata, conservai ben poca della lu-cidità che presuntuosamente mi ero attribuito all'inizio dell’impresa. Quando ci fummo ripresi da quell'angosciante esperienza osservai che se si fosse trattato del rovinare di una frana questa avrebbe potuto oc-cluderci il passaggio di ritorno. Fu infatti impossibile riconoscere la provenienza dell’orribile suono e per quel che ci riguardava esso poteva giungerci dalle spalle, come di fronte o dai lati. La via del ritorno la percorremmo col cuore stretto in una morsa. Il torrentello bagnò le nostre gambe per tutti i suoi trenta centimetri di profondità, ma questa volta avvertimmo in esso un mes-saggio di speranza. Eravamo sulla strada giusta. Aspettavo con trepi-dazione di vedere comparire il triangolo di luce esterno che ci indicas-se a mo di faro la via da seguire. Fui terrorizzato quando giunto in un punto che riconobbi per la forma di alcune strane rocce, dal quale soli-tamente potevo vedere la fessura, viceversa non scorsi altro che il buio uniforme. Eppure la scalinata di pietre era lì fronte a noi, e l'imbocco doveva essere assolutamente visibile. Si fece devastante in me l'idea che le supposizioni di qualche minuto prima avessero trovato una fata-le conferma. Percorsi la salita incurante dell’insidia delle rocce lisce, nell'intento di valutare l'entità della frana. In tutto il percorso non notai massi rotolati, ne ciottoli sparsi. Al contrario, giunto di fronte alla pa-

rete, illuminandone la superficie, ciò che di essa rimase oscuro fu pro-prio l'imbocco della caverna. Fuori era notte. L'aria che respirai appena uscitovi benché fosse quella greve che pre-cede la tempesta mi parve straordinariamente frizzante e fresca. Sam mi raggiunse subito dopo e fra noi non ci fu alcuna parola sul ripetersi di quello strano fenomeno sulla disparità tra tempo reale e tempo os-servato. Ciò che contava è che eravamo salvi. Nei giorni successivi avremmo volentieri fatto a meno di tentare altre pericolose incursioni in quelle gallerie. Ciò che ci indusse a cambiare i nostri propositi fu una interessante scoperta contenuta nell’involucro con la sabbia prelevata in quell’antro d’inferno. Dopo che Sam ebbe vuotato il sacchetto sul tavolo, distribuendo la sabbia in una zona più estesa dello spazio che occupava ammonticchiata com'era, subito e-mersero tra i fini granelli delle parti più grosse e consistenti. Non fu facile dare un nome a quelle insolite pietruzze ma la loro forma geo-metrica e la similitudine con le vertebre umane faceva supporre si trat-tasse di ossa. Esse però erano di dimensioni assai più piccole di quelle appartenute a qualsiasi altro mammifero conosciuto. Intanto Sam mi fece partecipare alla sua preoccupazione per quello che era accaduto il giorno prima, ma disse che malgrado ciò era disposto a scendere nuo-vamente nella caverna. L'indomani, sabato 30 maggio, Sam si presentò al foro di entrata im-bracciando un voluminoso Sharps a percussione e retrocarica. Si trat-tava di un fucile di grosso calibro usato in America durante la guerra civile e poi utilizzato per la caccia ai bisonti nelle praterie del nord. Rimane ancora un mistero come potesse esserne giunto in possesso. Appena vidi Sam col fucile non potei trattenere un sorriso per la sor-presa, ma egli anticipò il mio commento dicendo che quell’arma a-vrebbe potuto esserci utile. Spiegai che qualora fossimo state le sfor-tunate vittime di una frana un fucile ci avrebbe aiutato assai poco. La verità era che Sam fu sempre più convinto del fatto che la sorgente di quell’acuto lamento, che ci investì due giorni prima, tutto poteva esse-re fuorché il rovinio di una frana. La teoria che Sam sosteneva in bre-ve riuscì a convincere anche me. Specialmente quando il fenomeno si ripeté per ben tre volte durante la spedizione di quello straordinario sabato.

Erano le dieci del mattino quando scendemmo bene equipaggiati e per giunta con una piccola scorta di provviste. Ad appesantire il già so-vrabbondante carico c’era anche il fucile di Sam. Giungemmo in breve nella zona sabbiosa dove avevamo trovato que-gli ossicini e ne ho rovistammo la superficie. Ne erano visibili una certa quantità di grandezza variabile ma sempre della stessa natura. A poca distanza da questi, diametralmente rilevammo altri resti che allo-ra non potevamo qualificare. Probabilmente appartenevano allo stesso esemplare. Sparse disordinatamente al suolo potevamo vedere le ossa che per dimensioni e forma sembravano appartenere ad un animale an-tropomorfo, di tipo scimmiesco. Non si trattava di uno scheletro com-pleto ma ciò che potei rilevare fu davvero sconvolgente. Evidenziava delle formazioni simili a un bacino con un femore ancora inserito nella cavità pelvica. Le vertebre facilmente riconoscibili, col-legate alla cassa toracica si prolungavano a formare una specie di co-da. Si notavano anche gli arti superiori ben sviluppati e come terminali delle propaggini che somigliavano a delle falangi. Ma quella che attirò la mia attenzione era soprattutto una calotta semi-sferica per metà sommersa nella sabbia. Sollevandola mi accorsi che si trattava di un cranio. Osservandolo più attentamente dovetti smenti-re le previsioni che appartenesse ad un genere umanoide. In effetti il muso allungato e la dentatura molto fitta e seghettata lo rendevano as-similabile più a un grosso lucertolone. I dati che configgevano con quest’ultima tesi furono due cavità oculari sistemate anteriormente e quindi adatte ad una visione binoculare, ma soprattutto la constatazio-ne di una capacità cranica piuttosto ampia che faceva intuire la pre-senza di un cervello di dimensioni considerevoli. Vedremo in seguito come questo ritrovamento avrebbe potuto suscita-re un interesse scientifico di portata storica, soltanto se fossimo riusci-ti a repertarlo ma fu proprio in quel momento che udimmo il primo dei tre fantastici suoni. Era di volume e intensità almeno pari a quello che ci sorprese durante l’ultima sortita. Tuttavia, il timbro sembrava diverso ma poteva benis-simo essere identico al precedente. Infatti né Sam né io eravamo in grado di apprezzarne le sfumature per via della scarsa lucidità con la quale giudicammo il primo dei due suoni. Questa volta però riuscim-mo a fronteggiare il fenomeno con maggiore freddezza. Potevamo ad-dirittura formulare alcune ipotesi sulla direzione dalla quale proveni-

va. Eravamo concordi che fosse dritto davanti a noi. Proseguimmo in quella direzione spinti evidentemente da una totale incoscienza. Ci confortava il sempre crescente potere delle lampade che finalmente permetteva di osservare in maniera assai nitida fino a circa venti metri. Gli anfratti si ripartivano in gallerie con forme decisamente regolari, quasi fossero state scavate dall’uomo con una precisione millimetrica compromessa soltanto dall’azione del tempo, che finì per approssima-re lo sviluppo rettilineo delle pareti e delle volte. Nel nostro inedito itinerario avevamo avuto la precisa sensazione di stare attraversando ambienti sempre più ampi e inoltre di continuare costantemente il percorso in naturale declivio discendente. Sam ad un certo punto volle rendersi conto delle dimensioni del luogo dove ci trovavamo. Senza preavviso emise un urlo che mi raggelò il sangue nelle vene. Quando mi accorsi che fu lui l'autore, mi portai una mano sulla fronte e sospirai di sollievo come chi è appena scampato ad un grande pericolo. In virtù di quel grido stabilimmo di trovarci in un ambiente di enormi dimensioni: la sua eco infatti ci pervenne solo dopo pochi secondi. Vedendomi impallidire per quello spavento il mio amico mi si approssimò sorridente di scherno chiedendomi se avevo avuto paura. Lo apostrofai con una nota di biasimo impronunciabile per decenza. Non avemmo comunque il tempo di proseguire in quel buffo dibattito che il secondo suono apparve lontano eppure imponen-te, quasi in risposta al grido di Sam. La sua origine fu quanto mai in-certa. Stemmo in questo angoscioso conflitto sperando che esso si ri-petesse per poterlo meglio identificare. In risposta alle nostre aspira-zioni ci giunse il terzo ed ultimo suono. I nostri sensi erano pronti a percepire il benché minimo rumore e la nostra mente concentrata co-me non mai. Mi ripugna credere si trattasse del verso di un animale, ma quello che udimmo non fu né il rovinare di una frana, né il rumore di una cascata e né qualsiasi altra dannata cosa fosse accaduta lì dentro. Per quanto assurdo ed improbabile tra quelle orribili viscere si nascondeva un es-sere che per riuscire ad emettere suoni di quella portata doveva pro-porzionarsi alla loro intensità. Sam stava già per fuggire da lì, e dovet-ti faticare non poco per trattenerlo. Vi riuscii soltanto promettendogli che lo avremmo fatto dopo esserci spinti per ancora trenta o quaranta metri. La proposta naturalmente non lo entusiasmò e mi seguì per tutto

il tempo con in braccio il fedele Sharps, l'utilità del quale sembrava sempre meno remota. Di quel percorso pronosticato bastò la metà di esso per rivelare una scoperta assolutamente sconvolgente. Compimmo infatti pochi passi quando il passaggio ci venne occluso da una massa grigiastra informe. Ci avvicinammo a questa per scopri-re se fosse stato possibile valicarla o aggirarla. In quel punto il sentie-ro subiva una strettoia fra due pareti di roccia umida e irregolare. Su-bito presi a saggiarne la consistenza. Era fredda e rugosa, ma non sembrava roccia. Notai sulla destra una depressione fra la parete della galleria e l’ingombrante ostacolo. Individuai il tratto dove si poteva superarlo abbastanza agevolmente. Precedetti Sam che nel frattempo si era fatto sempre più sospettoso e guardingo. Quando fui oltre e sta-vo attendendolo, ebbi di quella enorme cosa una vista e prospettiva completamente diversa. Poco ci mancò che mi cadesse di mano la lan-terna che con la sua luce stava delineandone i contorni. Istintivamente respinsi Samuel con una frase che mi si strozzò in gola, mentre egli stava ridiscendendo la china del passaggio. Pensavo che se il mio ami-co fosse stato colto impreparato nell’affrontare una così terribile real-tà, non avrei potuto calcolarne le conseguenze. Samuel obbedì imme-diatamente all’esortazione. Dovete però aver visto dipinta sul mio vol-to un'espressione di indescrivibile terrore poiché subito dopo si ritrovò d’un balzo dalla mia parte per proteggermi col suo fucile da qualsiasi cosa potesse aver motivato lo stato di smarrimento del quale ero pre-da. Infatti quando scoprì la causa di quello spavento sparò su di essa. In successione uno, due colpi senza peraltro sortire alcun effetto. Se il destino di quella cosa fu la morte, questa l'aveva colta già da tempo e in ogni caso mai poteva essere provocata da una semplice ar-ma da fuoco. Era immobile, e da chissà quanto tempo. Il decesso sopraggiunse evi-dentemente in circostanze drammatiche. Si trattava indubbiamente di un animale, benché non riuscissi a ricordarne uno di quelle dimensioni e con quella foggia. La china dalla quale discendemmo Sam ed io al-tro non era se non il suo breve e massiccio collo culminante in una smisurata testa. Quest’ultima era la parte più interessante ma non certo la più terrificante. L'enorme massa che occludeva il passaggio, dalla parte dove ora la stavamo osservando presentava le due possenti zam-pe posteriori fra le quali erano praticamente assenti voluminosi fram-

menti di carne, che per delle lacune così poco geometriche dovevano essere stati strappati da una forza immane. Anche la base del collo of-friva il pressoché identico paesaggio. Fu in quel momento che avver-timmo anche un indescrivibile tanfo. La testa di quell'essere era river-sa sul terreno e sembrava guardarci con ghigno beffardo mostrandoci gli affilati lunghi denti. Per ultimi notai gli occhi, più propriamente dei bulbi bianchi sporgenti privi di iride e pupilla. Più tardi, a mente fred-da, sulla base delle osservazioni fatte trassi delle conclusioni abba-stanza logiche malgrado la natura del rinvenimento. Considerazioni sull’ambiente nel quale si trovavano queste specie a-nimali stabilivano che dovendo vivere nell’oscurità non servivano de-gli occhi concepiti per svolgere una funzione visiva, ma altri organi at-ti a sviluppare tutti gli altri sensi con lo scopo di compensare la defi-cienza oculare.

Decisi allora di assumere il maggior numero di particolari per poterli valutare a mente fredda. Ora che avevo trovato quel mostro avrei voluto girargli attorno per delle ore. Purtroppo il semplice fatto che esso si trovasse in quello sta-to testimoniava che altri bestioni sarebbero potuti sopraggiungere, for-se gli stessi che poco prima udimmo urlare. Ci allontanammo in gran fretta da quel luogo di morte. In breve finalmente guadagnammo l'arco di luce. Grande fu la sorpresa allorché, appena fuori fummo investiti da una folla di persone, quasi tutti operai della cava. Nella confusione che si era venuta a creare, dissero che nel non vederci tornare stavano organizzando una spedizione di salvataggio. John Palmer, il padre di Sam si distinse dalla moltitudine. Lasciò cadere la corda che portava al collo, il piccone e la lanterna. Corse incontro al figlio e lo abbrac-ciò. Poi ripresosi da quello slancio lo staccò da se e gli assestò una sberla sonora. Ancora stordito dalla traumatica esperienza appena vissuta nelle ca-verne, e accerchiato da quel mare di volti chiesi una spiegazione per l’eccessiva concitazione. Seppi in seguito che l'apprensione di quei poveretti non era affatto ingiustificata. Sam ed io non lo credevamo possibile tuttavia stemmo in quei terribili antri per più di 25 ore, un giorno e una notte.

3

Alla fine di quello straordinario viaggio tentai di spiegare a qualcuno i particolari dell'impresa di cui fummo protagonisti Sam ed io. Purtrop-po la natura stessa della narrazione indusse i nostri interlocutori a una decisa sottovalutazione del racconto. Al contrario, rispetto alle richie-ste che avanzavamo, il nostro atteggiamento consigliò le autorità della cava di Stonesfield di chiudere le fessure con pesanti massi cementati fra loro, che impedirono, non soltanto a noi ma a chiunque altro, nel tempo, ulteriori pericolose incursioni al di là di quelle porte infernali. I giorni che seguirono furono di intensa riflessione. Essi erano pregni della grande emozione che percepivamo malgrado l'impossibilità di tentare altre imprese di quel genere. Ci nutrivamo dei dati raccolti du-rante quei fantastici giorni per formulare ipotesi fra le più azzardate benché nessuna di esse fosse in grado di superare una realtà come quella che ci venne prospettata. Alla luce delle conoscenze attuali si potrebbe affermare che specie a-nimali come quelle osservate possano aver trovato scampo dai rigori dell’ultimo catastrofico evento che ne determinò l’estinzione, rifu-giandosi fra le pieghe cretaciche e giurassiche delle quali l'Oxfordshi-re è particolarmente ricco. Trovo tuttavia inspiegabile il rapido adat-tamento di quei bestioni alle condizioni di vita tutt’altro che conforte-voli in quegli ambienti bui ed inospitali. Era come se qualche entità superiore si fosse sostituita alla natura e avesse avuto pietà di quegli esseri preservandoli dall’estinzione, manovrandone le caratteristiche genetiche con lo scopo di renderli compatibili con gli ambienti che li accolsero per così tanti millenni. Nella fattispecie, quelle caverne po-tremmo considerarle come una smisurata arca scavata nella roccia da un Noé ante litteram. Anche la regolarità dei percorsi osservati in quelle gallerie testimoniavano di un poderoso apporto esterno di intel-ligenze sovraumane. Deduzioni sulle varietà di animali presenti in quelle caverne portano ad escludere i “non carnivori”, poiché non potendosi compiere in as-senza di luce il fenomeno di fotosintesi clorofilliana ad essi verrebbe a mancare l’elemento indispensabile per la nutrizione: i vegetali, appun-to.

E' quindi un regime alimentare esclusivamente carnivoro quello prati-cato fra quelle orribili pieghe? La risposta è in questo caso inevitabil-mente affermativa. I poderosi denti che mi sfidarono come in un ghi-gno mortale testimoniavano questa certezza. Altre ipotesi sul presunto scenario nel quale erano costretti ad agire quei mostri ci davano delle indicazioni non meno eccitanti e clamoro-se. Per potere consentire la sopravvivenza di esseri di quelle propor-zioni, gli ambienti che li accoglievano dovevano adeguarsi alla loro gigantesca stazza. Non sono pochi quelli che sostengono la tesi che il Regno Unito altro non sarebbe se non un immensa regione cava. Co-storo affermano verosimilmente che se si potesse percuoterla come un enorme tamburo essa risuonerebbe a lungo per le vibrazioni, oppure non resistendo alle sollecitazioni sprofonderebbe per parecchie centi-naia di metri. Ulteriori considerazioni sul trascorrere del tempo in quelle oscurità ci portarono a delle conclusioni non meno affascinanti di quelle formula-te sui mostruosi abitanti della cava di Stonesfield. Avemmo allora in-fatti la precisa sensazione, appena entrati in quegli altri paurosi di es-sere proiettati in un'altra dimensione, dove l’irregolarità tra il tempo trascorso e quello reale fu soltanto un particolare che confermava la nostra percezione. Calcolai approssimativamente che il divario fra le due osservazioni era di circa “uno a sei”. Per ogni ora che credevamo di avervi trascorso, in realtà all'esterno se ne contavano almeno sei. Inoltre quel buio così irreale. Per quanto la mente si sforzi nel simula-re delle tenebre più fitte mai potrà raggiungere la potenza di quelle dalle quali fummo avvolti. Anche le naturali regole dell’orientamento erano sovvertite, la bussola impazzita ce ne dette la prova. Altre leggende e superstizioni tendono a confermare la nostra grande scoperta, ma come si può ben immaginare esse non hanno il potere di conferire la necessaria autorevolezza proprio per la loro vacuità. Com’è scritto nei libri di storia, nel sesto secolo la regione dello O-xfordshire fu invasa dai Sassoni. Alle loro mire espansionistiche si opposero Re Artù e i cavalieri della Tavola rotonda. I Sassoni comun-que non furono gli unici contro i quali si misurò la corte di Re Artù. In quell'epoca pare si verificarono una serie di apparizioni mitologiche. Figure di strani animali: draghi, idre a più teste, chimere contro le qua-li i cavalieri esercitavano la loro abilità di combattenti. Sulla base del-

le mie conoscenze non mi è affatto difficile dare un'interpretazione a quelle straordinarie manifestazioni. Persino la leggenda di San Giorgio e il Drago oggi può essere valutata sotto una diversa prospettiva. Quando Re Edoardo III nel quattordice-simo secolo elevò il santo a protettore dell’Inghilterra, lo fece in con-siderazione del fatto che Giorgio a cavallo del suo destriero, impu-gnando soltanto una lunga lancia impedì ad un mostruoso essere di ci-barsi delle carni di una principessa offertagli in sacrificio. Nell’allegoria la fanciulla rappresentava appunto l’Inghilterra e il Drago conservava delle perfette simmetrie con i mostri che incon-trammo nel sottosuolo. Ed ora giunge la notizia di un avvistamento inspiegabile per la mag-gior parte delle persone, ma del tutto scontato per me e Samuel. Nel lago di Ness in Scozia è stato avvistato da più persone un essere grottesco. A poca distanza dalla riva qualcosa stava emergendo dal-l'acqua, dissero i testimoni. Ciò che appariva in superficie aveva la forma di un lungo collo culminante in una smisurata testa e tutto la-sciava supporre che la parte immersa fosse di dimensioni spropositate. L'aspetto era spaventoso e, per le intuibili proporzioni, quell'essere era assai poco affine a tutti gli altri animali che comunemente abitano la-ghi e fiumi. Secondo una precisa intenzione politica l'episodio venne sconfessato dalle autorità che parlavano di una colossale burla. Affer-marono di avere trovato una piattaforma galleggiante sulla quale era ancora fissato il lungo collo e la testa composti di cartapesta. Alla richiesta di potere osservare il soggetto della loro impressionante visione, i testimoni oculari non ottennero altro che risposte assai va-ghe da parte delle autorità. Quando le proteste degli avvistatori diventarono sempre più insistenti venne loro sottoposto un modello che non somigliava affatto all'origi-nale. Gli astanti per nulla persuasi affermarono che il collo doveva es-sere dotato di elasticità e moto proprio, mentre la brutta copia offerta dalla polizia aveva una struttura rigida. Non posso però biasimare le autorità civiche per il loro atteggiamento di ostruzione, poiché difficilmente potrebbero essere comprese e ac-cettate dalla comunità realtà come quelle da me prospettate. Nel mio percorso di studi sui temi evoluzionistici, ormai pienamente accettati, desidero a questo punto del racconto approfondire un argo-mento che propone delle ipotesi sconvolgenti.

4 Mi rivolgo ora ad un lettore in grado di sopportare il peso di un’eventualità che personalmente non considero remota. Se dovessimo riassumere il contenuto del volume “Sull’origine della specie” di Charles Darwin, dovremmo osservare come il percorso evo-lutivo delle specie animali e anche vegetali abbia ruotato attorno ad un meccanismo che implicava scelte di specializzazioni per la sopravvi-venza con lo scopo di stabilire alla fine un primato, una supremazia. Un traguardo che l’essere umano ha conseguito faticosamente. Tuttavia le cose sarebbero potute andare in maniera completamente diversa se dei piccoli mammiferi non avessero ereditato l’ambiente terracqueo dopo la scomparsa dei grandi sauri a causa di un cataclisma che ne azzerò le possibilità di sopravvivenza. Qualora non fosse sopraggiunta l’immane catastrofe, la vita sarebbe continuata probabilmente portando ad un ridimensionamento dei rettili giganti in individualità più agili e anche più intelligenti, come la natu-ra stava già proponendo sostituendo il megalosauro con i raptors. Non escluderei che proseguendo in questa linea evolutiva si sarebbe potuta portare a termine con i rettili la stessa mutazione che cambiò i primati in scimmie antropomorfe, passando poi da queste direttamente all’uomo. Qualora si fosse verificata una simile eventualità, chi vi scrive in que-sto momento avrebbe un aspetto alquanto diverso. Una testa allungata sovrastante un corpo squamoso con un busto eretto terminante in una codina impertinente. Un corpo con degli arti sottili e scattanti, ma una fissità nello sguardo che poteva mettere soggezione. Mi ritengo fortu-nato di non corrispondere a questo modello, tuttavia nessuno potrebbe dire se in quelle condizioni sarei potuto essere più o meno intelligente o se ciò che sto scrivendo avrei potuto esprimerlo in maniera più o meno dotta. Sono convinto che qualora fossimo messi a confronto con un essere vivente a noi alternativo, la coesistenza non sarebbe semplice e il con-flitto si prolungherebbe finché uno dei due finisse per soccombere e l’altro per trionfare sulle macerie dello sconfitto, così com’è sempre stato anche tra gli uomini della stessa specie.

Un’analisi più approfondita sul mucchietto di ossa nelle quali inciam-pammo prima d’imbatterci nel bestione riverso sul terreno, aprirebbe degli scenari scientifici poderosi. Dimostrerebbe che dentro la cava di Stonesfield non solo c’è vita, ma addirittura ci sarebbe vita intelligente. Chiamiamola umanità o bestialità, il sentimento che deve unire tutti gli esseri viventi è la solidarietà per coesistere in armonia, ma soprat-tutto la convinzione di battersi per il proprio e l’altrui diritto alla so-pravvivenza.

EPILOGO

Gli argomenti trattati in questo racconto possono legittimamente su-scitare lo scetticismo del lettore. La migliore prova che posso offrire è una sfida al pensiero comune: “Chiunque decidesse di confermare o smentire ciò che ho fin qui ri-portato non ha che da dischiudere la seconda fessura occlusa dai massi della ex cava di ardesia di Stonesfield. Raccomando a coloro i quali volessero tentare un’impresa di questo tipo di accostarvisi con umiltà e consapevolezza. Le circostanze nelle quali costoro sarebbero costret-ti ad agire conserverebbero ben poca della fisica che siamo soliti ela-borare nella nostra esistenza di superficie”.

Prof. George F. Henderson. Termina così il resoconto tratto dai diari del Prof. Henderson, pubbli-cato insieme ad altri capitoli riassunti in un volume dal titolo “La Na-tura e la sua negazione”, edito nel 1937, due anni dopo la sua scom-parsa. Fu proprio l’amico fraterno, nonché compagno di avventure Samuel Palmer a promuovere l'iniziativa sull'onda di una completa ri-valutazione dei temi evoluzionistici enunciati da Charles Darwin. All'epoca della stampa del libro alcuni temerari vollero fare luce sui fatti che ispirarono questo resoconto. Due in particolare: Neil Crown, esperto speleologo, mai più ritornato da quell'impresa, e Anthony B. Francis, avventuriero, nonché acrobata da circo che si calò fra quelle voragini per una scommessa. Egli è tuttora paziente del reparto psi-chiatrico al General Hospital della capitale. Coloro i quali lo accom-pagnarono all'imbocco della caverna lo videro uscire dopo undici ore in uno stato di incontrollata agitazione dalla quale mai più si riprese. Descrissero gli esiti dell’intensa emozione di cui era evidentemente rimasto vittima. Gli occhi sbarrati, la bava alla bocca. Udirono le ag-ghiaccianti urla che costrinsero i medici ad isolarlo. Attualmente, il poveretto si trova in uno stato di completo distacco dalla realtà e di incomunicabilità col mondo esterno. Nessun tipo di te-rapia è stata capace di riportarlo ad un livello di coscienza accettabile. Da cosa può essere stato provocato il devastante terrore che contagiò l’incauto esploratore? Credo che chi abbia attentamente letto il reso-conto del prof. Henderson, a meno che si tratti di un folle, rinuncerà a

portare ulteriori contributi atti a risolvere il mistero della cava di Sto-nesfield.

LE RISPOSTE DELLA SCIENZA ATTUALE.

I ricercatori non hanno più dubbi. Il cataclisma al quale fa riferimento il Prof. Henderson effettivamente avvenne 65 milioni di anni fa e cau-sò la più imponente estinzione di massa della storia del nostro pianeta, annientando i dinosauri e circa la metà delle specie viventi. La cata-strofe fu provocata dallo scontro della Terra con un singolo asteroide dal diametro di 12 chilometri. Studi indicano la penisola dello Yuca-tan come la più probabile zona dell’impatto che generò un cratere di oltre 170 chilometri di diametro, chiamato Chicxulub. Gli effetti im-mediati collegati con la caduta al suolo dell’oggetto spaziale si dimo-strarono più devastanti dell’esplosione di un milione di bombe atomi-che. Questo comportò l’immediato formarsi di giganteschi tsunami e terremoti che si ripercossero su tutto il pianeta, ma questi non ebbero un’influenza decisiva nella decimazione delle specie viventi. I veri guasti che compromisero l’equilibrio biologico derivarono dal formarsi nell’atmosfera di grandi e persistenti nubi di polvere, che per lungo tempo fecero da schermo alla luce solare provocando un abbas-samento delle temperature e creando negli oceani un ambiente acido ed ostile alla vita degli animali acquatici. Sulla terraferma invece la semioscurità impedì lo svolgersi della fotosintesi clorofilliana ridu-cendo drasticamente l’abbondanza delle varietà vegetali e compromet-tendo la sopravvivenza degli animali erbivori. La catena alimentare s’interruppe. I primi a patirne le conseguenze fu-rono i dinosauri erbivori, poi via-via tutti gli altri. Resistettero le spe-cie che si adattarono maggiormente alle avverse condizioni: ad esem-pio dei piccoli roditori che poi si svilupparono nei grandi mammiferi.

RETROSPETTIVA SCIENTIFICA Per ciò che concerne l’argomento proposto in appendice nel racconto del prof. Henderson, ipotesi su percorsi evoluzionistici alternativi hanno portato attualmente a delineare la morfologia di un essere al quale si sarebbe sovrapposta la figura dell’uomo.

Gli scienziati sono ancora impegnati nello stabilire se all’epoca del di-sastro cosmico i dinosauri avessero già iniziato una parabola discen-dente che li avrebbe portati naturalmente, e non drasticamente all’estinzione. Qualora il risultato di questa analisi desse un esito negativo, ossia fa-vorevole alla salubrità dei grandi rettili, non sarebbe affatto insensato ipotizzare la comparsa, prima o poi, di un essere bipede intelligente sul gradino più elevato della scala evolutiva dei rettili-sauri. L’interrogativo rimane aperto. Un interrogativo relativamente al quale il prof. Henderson sembra già avere anticipato la risposta.

FINE

Nell’ultima pagina potrete osservare alcune immagini piuttosto in-quietanti derivate dagli studi sull’eventuale aspetto fisico degli Omo-sauri. Le fotografie riguardano alcune ricostruzioni fatte dagli studiosi sulla morfologia di questi esseri ipotetici. (n.d.r.)