I partiti politici nella storia d’Italia

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: I partiti politici nella storia d'ItaliaAUTORE: Morandi, Carlo <1904-1950>TRADUTTORE: CURATORE: Lotti, LuigiNOTE: CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

COPERTINA: n. d.

TRATTO DA: I partiti politici nella storiad'Italia / Carlo Morandi ; con prefazione di Giovan-ni Spadolini ; aggiornamenti bibliografici e appen-dice a cura di Luigi Lotti. - 8. ed. - Firenze : LeMonnier, 1972. - XIV, 222 p. ; 20 cm.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 2 febbraio 2021

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TRATTO DA: I partiti politici nella storiad'Italia / Carlo Morandi ; con prefazione di Giovan-ni Spadolini ; aggiornamenti bibliografici e appen-dice a cura di Luigi Lotti. - 8. ed. - Firenze : LeMonnier, 1972. - XIV, 222 p. ; 20 cm.

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INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:POL015000 SCIENZE POLITICHE / Procedure Politiche /Partiti PoliticiPOL010000 SCIENZE POLITICHE / Storia e Teoria

DIGITALIZZAZIONE:Paolo Oliva, [email protected]

REVISIONE:Paolo [email protected]

IMPAGINAZIONE:Catia Righi, [email protected]

PUBBLICAZIONE:Catia Righi, [email protected]

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4I.ORIGINE DEI PARTITI ITALIANI..............................7II.SVILUPPO DEI PARTITIE ASCESA DELL’ITALIA(1861-1914)..................................................................33IIILA GRANDE PROVA(1914-1918)..................................................................82IVLA CRISI(1919-1925)..................................................................95EPILOGO...................................................................130NOTA BIBLIOGRAFICA..........................................136

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4I.ORIGINE DEI PARTITI ITALIANI..............................7II.SVILUPPO DEI PARTITIE ASCESA DELL’ITALIA(1861-1914)..................................................................33IIILA GRANDE PROVA(1914-1918)..................................................................82IVLA CRISI(1919-1925)..................................................................95EPILOGO...................................................................130NOTA BIBLIOGRAFICA..........................................136

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CARLO MORANDI

I PARTITI POLITICINELLA

STORIA D’ITALIA

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CARLO MORANDI

I PARTITI POLITICINELLA

STORIA D’ITALIA

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Page 7: I partiti politici nella storia d’Italia

I.ORIGINE DEI PARTITI ITALIANI

Premessa. – Tra il Sette e l’Ottocento. – Patriotti e reazio-nari. – Il mazzinianesimo. – Il neoguelfismo. – I moderati.– I federalisti repubblicani. Le tendenze socialistiche. – Illiberalismo cavouriano e il partito d’azione. Garibaldini eMazziniani.

Gli scrittori del Risorgimento, che della storia italianaintendevano giovarsi come di un’arma, tra le più effica-ci, d’educazione politica e di formazione nazionale,spesso additavano nell’età dei Comuni non solo gli epi-sodi salienti d’una tenace vittoriosa resistenza al «tede-sco imperatore», ma altresì la rigogliosa fioritura di li-bere ed autonome istituzioni e, nel loro ambito, il vigo-reggiare d’una lotta politica che, nei secoli seguenti,parve illanguidita e spenta. Non a caso tornarono inonore gli antichi nomi, e la Penisola si popolò di neo-guelfi e neoghibellini; l’esattezza storica era deformatao addirittura frainteso il significato di quei termini: maciò che aveva valore era appunto che una realtà nuovavenisse calata in quei vecchi schemi. Che un abisso se-parasse i moderni aggruppamenti politici dagli antichi,nonostante qualche analogia, fu notato assai bene dalMinghetti: «Il Medioevo ebbe sètte, anziché partiti, seb-

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I.ORIGINE DEI PARTITI ITALIANI

Premessa. – Tra il Sette e l’Ottocento. – Patriotti e reazio-nari. – Il mazzinianesimo. – Il neoguelfismo. – I moderati.– I federalisti repubblicani. Le tendenze socialistiche. – Illiberalismo cavouriano e il partito d’azione. Garibaldini eMazziniani.

Gli scrittori del Risorgimento, che della storia italianaintendevano giovarsi come di un’arma, tra le più effica-ci, d’educazione politica e di formazione nazionale,spesso additavano nell’età dei Comuni non solo gli epi-sodi salienti d’una tenace vittoriosa resistenza al «tede-sco imperatore», ma altresì la rigogliosa fioritura di li-bere ed autonome istituzioni e, nel loro ambito, il vigo-reggiare d’una lotta politica che, nei secoli seguenti,parve illanguidita e spenta. Non a caso tornarono inonore gli antichi nomi, e la Penisola si popolò di neo-guelfi e neoghibellini; l’esattezza storica era deformatao addirittura frainteso il significato di quei termini: maciò che aveva valore era appunto che una realtà nuovavenisse calata in quei vecchi schemi. Che un abisso se-parasse i moderni aggruppamenti politici dagli antichi,nonostante qualche analogia, fu notato assai bene dalMinghetti: «Il Medioevo ebbe sètte, anziché partiti, seb-

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bene anche nell’intimo senso dei guelfi e dei ghibellinisi trovi un’idea morale». E già il Machiavelli, che giudi-cava le sètte esiziali («Le nimicizie di Firenze furonosempre con sètte e perciò furono sempre dannose....»),aveva ammesso l’utilità delle «naturali divisioni» e dellelotte relative, per esempio quelle tra la plebe e i patrizinella Roma repubblicana. Le fazioni comunali avevanogeneralmente il loro nucleo originario in un gruppo difamiglie e miravano alla conquista del potere; raggiuntolo scopo, tendevano ad eliminare la parte ostile, cioè adestinguere con l’annullamento o la paralisi dell’avversa-rio ogni risorgente minaccia. Il turbamento e il frequenteillegalismo cui davano origine le passioni di parte con-tribuirono all’evoluzione dei Comuni verso la signoria.Il principato, e altrove le grandi monarchie, segnaronola fine delle «libertà» medievali e l’inizio dei regimi as-soluti. Dal XVI al XVIII secolo vi furono divisionid’ordine politico-religioso, opposizioni di Corte, fronde,rivolte popolari, ma non partiti nemmeno nel senso cheil termine e il concetto ebbero nell’età comunale.

I partiti politici, come noi li conosciamo, sono forma-zioni moderne, e chi volesse dotarli di remote genealo-gie farebbe opera di vuota erudizione, e verrebbe menoa quella necessità di individuare e distinguere ch’è es-senziale ad un retto interesse storico. Essi sono nati qua-si ad un parto con i moderni diritti di libertà e congl’istituti che vi sono connessi. In Europa è la Rivolu-zione francese che li tiene a battesimo: è in quelle lotte enella crisi che durante il periodo napoleonico ha investi-

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bene anche nell’intimo senso dei guelfi e dei ghibellinisi trovi un’idea morale». E già il Machiavelli, che giudi-cava le sètte esiziali («Le nimicizie di Firenze furonosempre con sètte e perciò furono sempre dannose....»),aveva ammesso l’utilità delle «naturali divisioni» e dellelotte relative, per esempio quelle tra la plebe e i patrizinella Roma repubblicana. Le fazioni comunali avevanogeneralmente il loro nucleo originario in un gruppo difamiglie e miravano alla conquista del potere; raggiuntolo scopo, tendevano ad eliminare la parte ostile, cioè adestinguere con l’annullamento o la paralisi dell’avversa-rio ogni risorgente minaccia. Il turbamento e il frequenteillegalismo cui davano origine le passioni di parte con-tribuirono all’evoluzione dei Comuni verso la signoria.Il principato, e altrove le grandi monarchie, segnaronola fine delle «libertà» medievali e l’inizio dei regimi as-soluti. Dal XVI al XVIII secolo vi furono divisionid’ordine politico-religioso, opposizioni di Corte, fronde,rivolte popolari, ma non partiti nemmeno nel senso cheil termine e il concetto ebbero nell’età comunale.

I partiti politici, come noi li conosciamo, sono forma-zioni moderne, e chi volesse dotarli di remote genealo-gie farebbe opera di vuota erudizione, e verrebbe menoa quella necessità di individuare e distinguere ch’è es-senziale ad un retto interesse storico. Essi sono nati qua-si ad un parto con i moderni diritti di libertà e congl’istituti che vi sono connessi. In Europa è la Rivolu-zione francese che li tiene a battesimo: è in quelle lotte enella crisi che durante il periodo napoleonico ha investi-

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to gli anciens régimes del continente ch’essi comincianoa precisarsi, ad assumere colore e vigore. E poiché lenuove esigenze di libertà hanno coinciso col formarsid’un moderno concetto di nazione (da noi col tramontodelle «nazioni» napoletana, piemontese, toscana, e colsorgere d’un concetto di nazionalità italiana), così i par-titi si sono trovati ad operare nell’ambito della nazione,per la nazione, come forze nazionali. I gruppi attardatisisu vecchie posizioni era fatale venissero travolti e som-mersi. Senza dubbio, al di là della Manica, i partiti sononati più d’un secolo prima, perché è nel Seicento chel’Inghilterra compie la sua rivoluzione in senso liberale-costituzionale moderno. Anzi il Macaulay, a propositodella ripresa del «lungo parlamento» nell’ottobre 1641,afferma: «Quel giorno è una delle date più notevoli dellastoria inglese, perché da quel giorno presero ordinataforma i due partiti (whigs e tories) che d’allora in poioccuparono a vicenda il governo. In un certo senso puòdirsi ch’esistevano anche prima, e che allora soltanto siresero manifesti».

In Italia, perché si possa parlare di partiti politici conuna loro fisionomia nella vita del paese e con una corre-lativa azione parlamentare, bisogna attendere il ’48 e lanascita di quella Camera subalpina destinata ad essere,in germe, il futuro parlamento nazionale. Ma anche inquesto caso non si deve pensare ad organizzazioni poli-tiche nettamente individuate con programmi rigidi, constatuti e norme disciplinari per gli aderenti. I partiticome organismi a struttura ben definita, con una direzio-

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to gli anciens régimes del continente ch’essi comincianoa precisarsi, ad assumere colore e vigore. E poiché lenuove esigenze di libertà hanno coinciso col formarsid’un moderno concetto di nazione (da noi col tramontodelle «nazioni» napoletana, piemontese, toscana, e colsorgere d’un concetto di nazionalità italiana), così i par-titi si sono trovati ad operare nell’ambito della nazione,per la nazione, come forze nazionali. I gruppi attardatisisu vecchie posizioni era fatale venissero travolti e som-mersi. Senza dubbio, al di là della Manica, i partiti sononati più d’un secolo prima, perché è nel Seicento chel’Inghilterra compie la sua rivoluzione in senso liberale-costituzionale moderno. Anzi il Macaulay, a propositodella ripresa del «lungo parlamento» nell’ottobre 1641,afferma: «Quel giorno è una delle date più notevoli dellastoria inglese, perché da quel giorno presero ordinataforma i due partiti (whigs e tories) che d’allora in poioccuparono a vicenda il governo. In un certo senso puòdirsi ch’esistevano anche prima, e che allora soltanto siresero manifesti».

In Italia, perché si possa parlare di partiti politici conuna loro fisionomia nella vita del paese e con una corre-lativa azione parlamentare, bisogna attendere il ’48 e lanascita di quella Camera subalpina destinata ad essere,in germe, il futuro parlamento nazionale. Ma anche inquesto caso non si deve pensare ad organizzazioni poli-tiche nettamente individuate con programmi rigidi, constatuti e norme disciplinari per gli aderenti. I partiticome organismi a struttura ben definita, con una direzio-

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ne centrale, un segretariato, con le sezioni, le quote e letessere, i fogli di propaganda, sono creazioni più recentidovute all’affluire delle masse nelle loro file. Infatti, lamoderna tecnica organizzativa delle forze politiche èstata inaugurata, in quasi tutta Europa, dai partiti sociali-sti, ed è scaturita dall’esigenza di dare al movimentouna base assai diffusa e un’ossatura solida in ceti e clas-si rimasti fino allora del tutto estranei alla vita pubblica,e dalla necessità di lottare, con mezzi adeguati ma diver-si dai consueti, contro uno Stato diffidente od ostile. Lanecessità d’una larga tenace propaganda, di capi sicuri eprovati, di un vincolo disciplinare, erano altrettanti biso-gni tipici d’un partito che postulava un fine rivoluziona-rio e che si armava di nuovi metodi di lotta. Gli altripartiti, in maggiore o minore misura, dovettero adattarsialle mutate condizioni. I successivi allargamenti del suf-fragio fecero il resto, e così si giunse ai grandi partitiodierni che gareggiano nel conseguire una salda orga-nizzazione, la più estesa ed efficiente possibile.

Ma nell’età del Risorgimento, e massime nel periododelle origini, si tratta di tendenze, correnti, gruppi, so-cietà; solo tenendo conto che tali formazioni politichesono il presupposto delle altre che agirono nell’ambitoparlamentare e nella sfera della vita nazionale unitaria,si può applicare ad esse – in senso lato – il termine dipartiti.

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ne centrale, un segretariato, con le sezioni, le quote e letessere, i fogli di propaganda, sono creazioni più recentidovute all’affluire delle masse nelle loro file. Infatti, lamoderna tecnica organizzativa delle forze politiche èstata inaugurata, in quasi tutta Europa, dai partiti sociali-sti, ed è scaturita dall’esigenza di dare al movimentouna base assai diffusa e un’ossatura solida in ceti e clas-si rimasti fino allora del tutto estranei alla vita pubblica,e dalla necessità di lottare, con mezzi adeguati ma diver-si dai consueti, contro uno Stato diffidente od ostile. Lanecessità d’una larga tenace propaganda, di capi sicuri eprovati, di un vincolo disciplinare, erano altrettanti biso-gni tipici d’un partito che postulava un fine rivoluziona-rio e che si armava di nuovi metodi di lotta. Gli altripartiti, in maggiore o minore misura, dovettero adattarsialle mutate condizioni. I successivi allargamenti del suf-fragio fecero il resto, e così si giunse ai grandi partitiodierni che gareggiano nel conseguire una salda orga-nizzazione, la più estesa ed efficiente possibile.

Ma nell’età del Risorgimento, e massime nel periododelle origini, si tratta di tendenze, correnti, gruppi, so-cietà; solo tenendo conto che tali formazioni politichesono il presupposto delle altre che agirono nell’ambitoparlamentare e nella sfera della vita nazionale unitaria,si può applicare ad esse – in senso lato – il termine dipartiti.

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L’Italia visse intensamente l’esperienza dell’illumini-smo europeo: è in quel clima che essa disciolse i residuidella Controriforma, la precettistica della Ragion di Sta-to, l’etica del puro letterato o addirittura del cortigiano.Nuovi interessi, economici, giuridici, artistici, educativi,e magari vecchi problemi, ma ripresi e ripensati al lumedei nuovi concetti, in uno sforzo solidale di aprire la viaalla società moderna e, con essa ai diritti dell’uomo edel cittadino. Lungo il corso del Settecento, ed in parti-colar modo nella seconda metà del secolo, affiorò neidiversi Stati italiani un nuovo ceto dirigente, animato dauna fervida operosità, ricca d’interessi culturali che siconcretavano in una più alta coscienza civile, voltoall’avvenire più di quanto non fosse legato al passato.Socialmente, questa classe politica era formata di nobili,di professionisti, d’intellettuali, d’alcuni religiosi. Simoveva nell’ambito dell’assolutismo illuminato e, con-tro le tenaci resistenze conservatrici d’uomini e d’istitu-ti, costituiva un partito delle riforme, desideroso di col-laborare con prìncipi e sovrani interpretando le aspira-zioni dei più audaci, stimolando i più restii, nel compitocomune ch’era quello di razionalizzare lo Stato. Mini-stri, scrittori, studiosi d’economia e di diritto, napoletanio toscani, lombardi o piemontesi (Antonio Genovese,Giuseppe Palmieri, i fratelli Verri, Cesare Beccaria,Gian Rinaldo Carli, il Tanucci, il Bogino, il Gianni, ilPaolini), pur con l’inevitabili differenze, si riconosceva-no come homines novi, di mentalità aperta e spesso dispiriti cosmopoliti, attraverso i quali si preparava lenta-

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L’Italia visse intensamente l’esperienza dell’illumini-smo europeo: è in quel clima che essa disciolse i residuidella Controriforma, la precettistica della Ragion di Sta-to, l’etica del puro letterato o addirittura del cortigiano.Nuovi interessi, economici, giuridici, artistici, educativi,e magari vecchi problemi, ma ripresi e ripensati al lumedei nuovi concetti, in uno sforzo solidale di aprire la viaalla società moderna e, con essa ai diritti dell’uomo edel cittadino. Lungo il corso del Settecento, ed in parti-colar modo nella seconda metà del secolo, affiorò neidiversi Stati italiani un nuovo ceto dirigente, animato dauna fervida operosità, ricca d’interessi culturali che siconcretavano in una più alta coscienza civile, voltoall’avvenire più di quanto non fosse legato al passato.Socialmente, questa classe politica era formata di nobili,di professionisti, d’intellettuali, d’alcuni religiosi. Simoveva nell’ambito dell’assolutismo illuminato e, con-tro le tenaci resistenze conservatrici d’uomini e d’istitu-ti, costituiva un partito delle riforme, desideroso di col-laborare con prìncipi e sovrani interpretando le aspira-zioni dei più audaci, stimolando i più restii, nel compitocomune ch’era quello di razionalizzare lo Stato. Mini-stri, scrittori, studiosi d’economia e di diritto, napoletanio toscani, lombardi o piemontesi (Antonio Genovese,Giuseppe Palmieri, i fratelli Verri, Cesare Beccaria,Gian Rinaldo Carli, il Tanucci, il Bogino, il Gianni, ilPaolini), pur con l’inevitabili differenze, si riconosceva-no come homines novi, di mentalità aperta e spesso dispiriti cosmopoliti, attraverso i quali si preparava lenta-

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mente la nascita dell’Italia moderna. Certo, il loro rifor-mismo ignorava il termine opposto, vale a dire la rivolu-zione; il loro patriottismo veniva slargando e affinando ipropri orizzonti, ma era tuttora privo d’un solido concet-to di nazione come realtà spirituale; il loro liberalismopermeava tutte le sfere della vita civile, lambiva le pri-me aspirazioni costituzionali, ma non attingeva i veriideali della libertà politica, tant’è che la collaborazionecon i sovrani assoluti continuò fino a quando l’incendiodella Rivoluzione francese, col rendere pavidi e gelosi iregnanti, più arditi i riformatori ed i sudditi illuminati,non aprì tra gli uni e gli altri un abisso incolmabile. Alfianco dei novatori laici, e spesso con essi in polemica,operò l’élite ecclesiastica dei giansenisti (con i suoi cen-tri principali a Roma, a Pistoia, a Pavia, a Torino, a Ge-nova, ma con ramificazioni in tutta la penisola) che mi-rava ad una riforma dell’organismo della Chiesa. Move-va da sottili disquisizioni e da aspre polemiche teologi-che di sapore medioevale; ma da quell’involucro affio-ravano problemi più vivi, e con essi una energia profon-da, un sincero rispetto delle forze interiori, uno schiettoamore della verità e della cultura, infine una coscienzamorale. Questa si concretava, nella lotta contro l’asser-vimento delle anime, in una finalità educativa consape-vole ed esemplarmente perseguita anche a costo di sa-crifici e di sofferenze personali. Più cauti i giansenistidella prima generazione (al tempo di Clemente XIV),più audaci quelli della fine del secolo che non arretraro-no dinanzi alle esperienze rivoluzionarie e democrati-

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mente la nascita dell’Italia moderna. Certo, il loro rifor-mismo ignorava il termine opposto, vale a dire la rivolu-zione; il loro patriottismo veniva slargando e affinando ipropri orizzonti, ma era tuttora privo d’un solido concet-to di nazione come realtà spirituale; il loro liberalismopermeava tutte le sfere della vita civile, lambiva le pri-me aspirazioni costituzionali, ma non attingeva i veriideali della libertà politica, tant’è che la collaborazionecon i sovrani assoluti continuò fino a quando l’incendiodella Rivoluzione francese, col rendere pavidi e gelosi iregnanti, più arditi i riformatori ed i sudditi illuminati,non aprì tra gli uni e gli altri un abisso incolmabile. Alfianco dei novatori laici, e spesso con essi in polemica,operò l’élite ecclesiastica dei giansenisti (con i suoi cen-tri principali a Roma, a Pistoia, a Pavia, a Torino, a Ge-nova, ma con ramificazioni in tutta la penisola) che mi-rava ad una riforma dell’organismo della Chiesa. Move-va da sottili disquisizioni e da aspre polemiche teologi-che di sapore medioevale; ma da quell’involucro affio-ravano problemi più vivi, e con essi una energia profon-da, un sincero rispetto delle forze interiori, uno schiettoamore della verità e della cultura, infine una coscienzamorale. Questa si concretava, nella lotta contro l’asser-vimento delle anime, in una finalità educativa consape-vole ed esemplarmente perseguita anche a costo di sa-crifici e di sofferenze personali. Più cauti i giansenistidella prima generazione (al tempo di Clemente XIV),più audaci quelli della fine del secolo che non arretraro-no dinanzi alle esperienze rivoluzionarie e democrati-

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che. Gli uni e gli altri, con la loro lotta contro il tempo-ralismo e contro i gesuiti, furono degli eversori del mon-do etico-religioso della Controriforma e collaboraronoanche al dissolvimento di quel mondo politico. Doveessi si fermano e ripiegano, dopo aver sbarazzato il ter-reno d’ogni ingombro del passato, fiorisce il nuovo pen-siero del secolo decimonono.

Negli anni dal 1792 al’95 la situazione politica italia-na si modificò in maniera sensibile col formarsi d’unpartito democratico che, dagli accadimenti francesi,traeva stimolo ed impulso ad agire. Vi entrarono non po-chi riformatori e giansenisti, ma soprattutto gente nuo-va, della media e piccola borghesia, e alcuni popolani dicittà. Le logge massoniche che s’erano diffuse nella pe-nisola, nella seconda metà del Settecento, con un pro-gramma laicizzante, filantropico, cosmopolita, e vaga-mente sociale, si trasformarono in circoli giacobini.L’agitazione rivoluzionaria prendeva il posto del rifor-mismo legale, il repubblicanesimo si sostituiva alla fe-deltà ai vecchi sovrani. I quali risposero con i primi ar-resti e le prime condanne (Napoli 1794, Palermo 1795);in quei moti apparve per la prima volta (Bologna 1794)il tricolore italiano come vessillo dei democratici. Conl’ingresso delle armate vittoriose di Bonaparte in Italia,il partito giacobino crebbe come un torrente impetuoso,e facilitò la marcia del giovane generale. Si contrappo-nevano due forze: da un lato i conservatori, gli austria-canti, i fautori dell’ancien régime (forti nelle campagnee sorretti dalla maggioranza del clero), dall’altro i de-

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che. Gli uni e gli altri, con la loro lotta contro il tempo-ralismo e contro i gesuiti, furono degli eversori del mon-do etico-religioso della Controriforma e collaboraronoanche al dissolvimento di quel mondo politico. Doveessi si fermano e ripiegano, dopo aver sbarazzato il ter-reno d’ogni ingombro del passato, fiorisce il nuovo pen-siero del secolo decimonono.

Negli anni dal 1792 al’95 la situazione politica italia-na si modificò in maniera sensibile col formarsi d’unpartito democratico che, dagli accadimenti francesi,traeva stimolo ed impulso ad agire. Vi entrarono non po-chi riformatori e giansenisti, ma soprattutto gente nuo-va, della media e piccola borghesia, e alcuni popolani dicittà. Le logge massoniche che s’erano diffuse nella pe-nisola, nella seconda metà del Settecento, con un pro-gramma laicizzante, filantropico, cosmopolita, e vaga-mente sociale, si trasformarono in circoli giacobini.L’agitazione rivoluzionaria prendeva il posto del rifor-mismo legale, il repubblicanesimo si sostituiva alla fe-deltà ai vecchi sovrani. I quali risposero con i primi ar-resti e le prime condanne (Napoli 1794, Palermo 1795);in quei moti apparve per la prima volta (Bologna 1794)il tricolore italiano come vessillo dei democratici. Conl’ingresso delle armate vittoriose di Bonaparte in Italia,il partito giacobino crebbe come un torrente impetuoso,e facilitò la marcia del giovane generale. Si contrappo-nevano due forze: da un lato i conservatori, gli austria-canti, i fautori dell’ancien régime (forti nelle campagnee sorretti dalla maggioranza del clero), dall’altro i de-

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mocratici-rivoluzionari, più forti nelle città e sorrettidalle armi francesi. Al centro, un gruppo di intellettualied ex-riformatori che guardavano con simpatia i recentisviluppi politici ma repugnavano dalle violenze giacobi-ne e dal verboso astrattismo rivoluzionario. Prima Mila-no (1796-98) e poi Napoli (1799) furono i due grandicentri della nuova vita politica: per la prima volta sorseun giornalismo aperto alla propaganda delle idee e alladiscussione dei problemi; fogli di breve durata, quasisempre, ma che si leggono ancor oggi con estremo inte-resse.

Sulle colonne dei periodici milanesi, in un decennio(1796-1805), si videro le firme di Ugo Foscolo, di Mel-chiorre Gioia, di Matteo Galdi, di Vincenzo Cuoco.L’idea della nazione italiana cominciava a farsi strada, econ essa il programma unitario in lotta contro quello fe-deralistico (per l’unità repubblicana furono fin dal 1796-97 il Galdi e il Gioia); particolarmente vive e diffuse leesigenze costituzionali, numerosi i piani per uno svilup-po dell’economia peninsulare e del commercio mediter-raneo, le richieste di libertà religiosa, di radicali riformescolastiche, e così via. La prima seria opposizione vennedalle plebi rurali che insorsero contro i francesi ed i gia-cobini nel nome della religione, degli antichi sovrani,delle tradizioni violate; e ciò poneva ai patrioti il nuovocompito, oggi non ancora esaurito, di attirare gradual-mente a sé le masse, di migliorarle, educandole alla li-bertà.

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mocratici-rivoluzionari, più forti nelle città e sorrettidalle armi francesi. Al centro, un gruppo di intellettualied ex-riformatori che guardavano con simpatia i recentisviluppi politici ma repugnavano dalle violenze giacobi-ne e dal verboso astrattismo rivoluzionario. Prima Mila-no (1796-98) e poi Napoli (1799) furono i due grandicentri della nuova vita politica: per la prima volta sorseun giornalismo aperto alla propaganda delle idee e alladiscussione dei problemi; fogli di breve durata, quasisempre, ma che si leggono ancor oggi con estremo inte-resse.

Sulle colonne dei periodici milanesi, in un decennio(1796-1805), si videro le firme di Ugo Foscolo, di Mel-chiorre Gioia, di Matteo Galdi, di Vincenzo Cuoco.L’idea della nazione italiana cominciava a farsi strada, econ essa il programma unitario in lotta contro quello fe-deralistico (per l’unità repubblicana furono fin dal 1796-97 il Galdi e il Gioia); particolarmente vive e diffuse leesigenze costituzionali, numerosi i piani per uno svilup-po dell’economia peninsulare e del commercio mediter-raneo, le richieste di libertà religiosa, di radicali riformescolastiche, e così via. La prima seria opposizione vennedalle plebi rurali che insorsero contro i francesi ed i gia-cobini nel nome della religione, degli antichi sovrani,delle tradizioni violate; e ciò poneva ai patrioti il nuovocompito, oggi non ancora esaurito, di attirare gradual-mente a sé le masse, di migliorarle, educandole alla li-bertà.

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L’altra crisi scaturì dall’evolversi in senso cesareodella politica napoleonica. Il giacobinismo si spensecosì in Francia come da noi; le speranze in una effettivaindipendenza ed unione d’Italia andarono deluse. Lestesse libertà, offerte non conquistate, subirono progres-sive limitazioni e poi disparvero: la stampa prese untono aulico, la massoneria assunse un carattere ufficialee burocratico. Il partito democratico andò in frantumi,ma rimasero e si accrebbero, lottando contro il nuovodispotismo napoleonico, i migliori nuclei liberali cherappresentavano la continuità del glorioso ceto dirigentesettecentesco arricchito dall’esperienza rivoluzionaria.Per la libertà e l’indipendenza da ogni straniero (tedescoo francese) lottarono gli affiliati alla Lega nera o Socie-tà dei raggi nel 1798; una libera costituzione chiesero iprimi gruppi carbonari (1807) nel Mezzogiorno; el’ottennero, ma solo in virtù dell’appoggio inglese, i si-ciliani nel 1812; un forte stato nazionale italiano, sottogli auspici e con l’aiuto della Gran Bretagna, cercaronodi promuovere, ma senza riuscirvi, gl’italici puri (1813-14) in Lombardia, guidati da Federico Confalonieri.

* * *

Carlo Botta concludeva sfiduciato la sua storia dellevicende intercorse tra il 1789 e il 1814: «Veramente iodispero della specie umana». Ma, pochi anni dopo, nelConciliatore, il foglio azzurro milanese che rinnovavanel clima romantico la tradizione settecentesca del Caf-

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L’altra crisi scaturì dall’evolversi in senso cesareodella politica napoleonica. Il giacobinismo si spensecosì in Francia come da noi; le speranze in una effettivaindipendenza ed unione d’Italia andarono deluse. Lestesse libertà, offerte non conquistate, subirono progres-sive limitazioni e poi disparvero: la stampa prese untono aulico, la massoneria assunse un carattere ufficialee burocratico. Il partito democratico andò in frantumi,ma rimasero e si accrebbero, lottando contro il nuovodispotismo napoleonico, i migliori nuclei liberali cherappresentavano la continuità del glorioso ceto dirigentesettecentesco arricchito dall’esperienza rivoluzionaria.Per la libertà e l’indipendenza da ogni straniero (tedescoo francese) lottarono gli affiliati alla Lega nera o Socie-tà dei raggi nel 1798; una libera costituzione chiesero iprimi gruppi carbonari (1807) nel Mezzogiorno; el’ottennero, ma solo in virtù dell’appoggio inglese, i si-ciliani nel 1812; un forte stato nazionale italiano, sottogli auspici e con l’aiuto della Gran Bretagna, cercaronodi promuovere, ma senza riuscirvi, gl’italici puri (1813-14) in Lombardia, guidati da Federico Confalonieri.

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Carlo Botta concludeva sfiduciato la sua storia dellevicende intercorse tra il 1789 e il 1814: «Veramente iodispero della specie umana». Ma, pochi anni dopo, nelConciliatore, il foglio azzurro milanese che rinnovavanel clima romantico la tradizione settecentesca del Caf-

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fè, si leggeva: «Mercé tanti solenni avvenimenti, tantelezioni di sventura, gli uomini del nostro tempo sonostati risvegliati dagli strali del dolore, e riacquistato or-mai tal sentimento, essi hanno appreso, per legittimaconseguenza, a pensare». Il che li portò a stabilire uncircolo vivo di cultura con le dottrine liberali della re-staurazione, ad europeizzarsi, ad intendere le primeistanze dello storicismo romantico, a meglio valutare ilnesso tra morale, politica ed economia. Si forma cosìuna élite (dal Santarosa al Pellico, dal Vidua al Balbo,dal Pecchio al Correnti, dal Rosmini al Manzoni, dalCapponi al Lambruschini) aperta ai più diversi proble-mi, ricca di forza morale, destinata a creare l’animus delliberalismo moderato del Risorgimento. Sul terrenostrettamente politico, negli anni della reazione e dellaSanta Alleanza, la lotta fu difficile e dovette svolgersiattraverso le società segrete, sfociando nei moti del ’20-21. Questi s’imperniarono su l’azione non concorde (eperciò debole) dei carbonari e dei murattiani a Napoli,dei carbonari e dei federati a Torino e in Lombardia. Imoti del ’31 ebbero un respiro più vasto ed una risonan-za maggiore; ma gli uni e gli altri denunciarono i limitientro cui si dibattevano le sètte, ed i loro difetti d’ordinee di struttura. Il fine immediato era la realizzazione dellelibertà costituzionali, pur disputando tra una costituzio-ne moderata di tipo francese ed una democratica di tipospagnuolo. Un vero programma nazionale non esistevao affiorava solo in pochi casi: era preminente il carattereregionalistico e quindi lo sforzo di far leva sui prìncipi

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fè, si leggeva: «Mercé tanti solenni avvenimenti, tantelezioni di sventura, gli uomini del nostro tempo sonostati risvegliati dagli strali del dolore, e riacquistato or-mai tal sentimento, essi hanno appreso, per legittimaconseguenza, a pensare». Il che li portò a stabilire uncircolo vivo di cultura con le dottrine liberali della re-staurazione, ad europeizzarsi, ad intendere le primeistanze dello storicismo romantico, a meglio valutare ilnesso tra morale, politica ed economia. Si forma cosìuna élite (dal Santarosa al Pellico, dal Vidua al Balbo,dal Pecchio al Correnti, dal Rosmini al Manzoni, dalCapponi al Lambruschini) aperta ai più diversi proble-mi, ricca di forza morale, destinata a creare l’animus delliberalismo moderato del Risorgimento. Sul terrenostrettamente politico, negli anni della reazione e dellaSanta Alleanza, la lotta fu difficile e dovette svolgersiattraverso le società segrete, sfociando nei moti del ’20-21. Questi s’imperniarono su l’azione non concorde (eperciò debole) dei carbonari e dei murattiani a Napoli,dei carbonari e dei federati a Torino e in Lombardia. Imoti del ’31 ebbero un respiro più vasto ed una risonan-za maggiore; ma gli uni e gli altri denunciarono i limitientro cui si dibattevano le sètte, ed i loro difetti d’ordinee di struttura. Il fine immediato era la realizzazione dellelibertà costituzionali, pur disputando tra una costituzio-ne moderata di tipo francese ed una democratica di tipospagnuolo. Un vero programma nazionale non esistevao affiorava solo in pochi casi: era preminente il carattereregionalistico e quindi lo sforzo di far leva sui prìncipi

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(Ferdinando I, o Carlo Alberto, o Francesco IV). Inoltre,il segreto sui fini delle società, che rispecchiava la man-canza di un contenuto programmatico robusto e coeren-te, accresceva la confusione, paralizzava l’efficacia edu-cativa. Non per quella via si poteva fare l’Italia né av-viarsi a libertà; anzi, per conseguire lo scopo, il Foscoloera persuaso che si dovessero disfare le sètte. Comun-que i carbonari, i federati, gl’insorti del’31, rappresenta-vano le forze patriottiche; contro di esse apertamenteavversate dall’Austria e spesso tradite dai principi italia-ni, lottarono anche i reazionari: talvolta con organizza-zioni armate, come nel Mezzogiorno (i Calderari) e inRomagna, tal’altra con la strenua difesa del conservato-rismo condotta per mezzo degli opuscoli, dei libri, deigiornali (l’Amico d’Italia a Torino, la Voce della verità aModena, la Voce della ragione di Monaldo Leopardi aPesaro) tutti improntati ad un neo-cattolicesimo fanaticoe ai princìpi del legittimismo.

* * *

La disintegrazione delle vecchie società clandestineitaliane fu accelerata dal sorgere del mazzinianesimo. Icarbonari avevano sempre agito in concomitanza con imoti rivoluzionari stranieri (del ’20 in Spagna, del ’30in Francia), salvo poi rimaner delusi per il mancato in-tervento della monarchia di luglio in aiuto degli insorti.Mazzini proclamò invece il principio dell’iniziativa, ediede vita ad un movimento impostato su basi nazionali

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(Ferdinando I, o Carlo Alberto, o Francesco IV). Inoltre,il segreto sui fini delle società, che rispecchiava la man-canza di un contenuto programmatico robusto e coeren-te, accresceva la confusione, paralizzava l’efficacia edu-cativa. Non per quella via si poteva fare l’Italia né av-viarsi a libertà; anzi, per conseguire lo scopo, il Foscoloera persuaso che si dovessero disfare le sètte. Comun-que i carbonari, i federati, gl’insorti del’31, rappresenta-vano le forze patriottiche; contro di esse apertamenteavversate dall’Austria e spesso tradite dai principi italia-ni, lottarono anche i reazionari: talvolta con organizza-zioni armate, come nel Mezzogiorno (i Calderari) e inRomagna, tal’altra con la strenua difesa del conservato-rismo condotta per mezzo degli opuscoli, dei libri, deigiornali (l’Amico d’Italia a Torino, la Voce della verità aModena, la Voce della ragione di Monaldo Leopardi aPesaro) tutti improntati ad un neo-cattolicesimo fanaticoe ai princìpi del legittimismo.

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La disintegrazione delle vecchie società clandestineitaliane fu accelerata dal sorgere del mazzinianesimo. Icarbonari avevano sempre agito in concomitanza con imoti rivoluzionari stranieri (del ’20 in Spagna, del ’30in Francia), salvo poi rimaner delusi per il mancato in-tervento della monarchia di luglio in aiuto degli insorti.Mazzini proclamò invece il principio dell’iniziativa, ediede vita ad un movimento impostato su basi nazionali

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e non più regionali, con un chiaro fine unitario e non piùfederalistico, con un presupposto repubblicano che ripu-diava ogni equivoco compromesso con i prìncipi. Lostrumento doveva essere la Giovine Italia, un’associa-zione segreta per esigenze organizzative e di lotta, macon un programma chiaro, uniforme, diffuso e divulgatoil più possibile a mezzo dell’omonima rivista, d’opusco-li e di lettere di propaganda. Mazzini chiamavaall’appello le forze fresche e generose dei giovani, e liaccendeva d’un ideale rivoluzionario in cui vibraval’eco del moto romantico europeo. L’Austria doveva es-sere combattuta facendo leva sul principio di nazionali-tà, il paternalismo conservatore dei prìncipi col suscitarele forze del popolo e con l’educarlo a libere istituzioni,il reazionarismo della Chiesa e del Papato creando unanuova fede, la religione dell’umanità. Genova e Livornofurono i primi focolai di diffusione del mazzinianesimo,il quale continuò ad arricchirsi di nuovi motivi etico-politici, svolgendosi in una corrente di risonanza euro-pea. Infatti, nel 1834, con la nascita della Giovine Euro-pa, il problema italiano venne saldamente inserito nelpiù vasto moto delle nazionalità oppresse; e, più tardi,l’esperienza del cartismo inglese, congiunta nella mentedel ligure con i primitivi influssi sansimoniani, accrebbeil movimento di un contenuto sociale destinato ad ac-centuarsi con gli anni, e ad infondergli attraverso il prin-cipio associazionistico e cooperativistico dei lavoratoriun inconfondibile carattere. Si delineava così la «demo-crazia» del Mazzini, e il termine stesso (caduto in disuso

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e non più regionali, con un chiaro fine unitario e non piùfederalistico, con un presupposto repubblicano che ripu-diava ogni equivoco compromesso con i prìncipi. Lostrumento doveva essere la Giovine Italia, un’associa-zione segreta per esigenze organizzative e di lotta, macon un programma chiaro, uniforme, diffuso e divulgatoil più possibile a mezzo dell’omonima rivista, d’opusco-li e di lettere di propaganda. Mazzini chiamavaall’appello le forze fresche e generose dei giovani, e liaccendeva d’un ideale rivoluzionario in cui vibraval’eco del moto romantico europeo. L’Austria doveva es-sere combattuta facendo leva sul principio di nazionali-tà, il paternalismo conservatore dei prìncipi col suscitarele forze del popolo e con l’educarlo a libere istituzioni,il reazionarismo della Chiesa e del Papato creando unanuova fede, la religione dell’umanità. Genova e Livornofurono i primi focolai di diffusione del mazzinianesimo,il quale continuò ad arricchirsi di nuovi motivi etico-politici, svolgendosi in una corrente di risonanza euro-pea. Infatti, nel 1834, con la nascita della Giovine Euro-pa, il problema italiano venne saldamente inserito nelpiù vasto moto delle nazionalità oppresse; e, più tardi,l’esperienza del cartismo inglese, congiunta nella mentedel ligure con i primitivi influssi sansimoniani, accrebbeil movimento di un contenuto sociale destinato ad ac-centuarsi con gli anni, e ad infondergli attraverso il prin-cipio associazionistico e cooperativistico dei lavoratoriun inconfondibile carattere. Si delineava così la «demo-crazia» del Mazzini, e il termine stesso (caduto in disuso

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dopo il tramonto del giacobinismo) tornava in onore conun significato morale e politico ben diverso, con una va-lidità europea.

È difficile valutare numericamente le forze del «parti-to» mazziniano in Italia dal ’31 al ’48; molti si bruciaro-no a quella fiamma, anche se poi abbandonarono ilMaestro ed i compagni per posizioni politiche meno im-pegnative ed esposte; moltissimi, tra gli stessi patrioti diopposte tendenze, assorbirono inconsapevolmente con-cetti e motivi d’origine mazziniana. Ma, sopra tutto,l’apostolato del Mazzini ebbe un valore qualitativo edagì in profondità, acquistando alla causa nazionale lemigliori energie giovanili (studenti e popolani), tem-prandole alla lotta e al sacrificio. «La democrazia è pen-siero, ma pensiero congiunto all’azione» scrive ThomasMann in The coming victory of democracy. E questo siattaglia perfettamente al Mazzini ed ai migliori tra i suoifedeli: non a tutti, in quanto taluni inclinavano a disso-ciare l’una cosa dall’altra, magari consigliando il Mae-stro di starsene a tavolino, raccolto in meditazione, per-ché ai moti avrebbero provveduto meglio da soli. Mapoi si vide che il genovese non fu solo un profeta, unapostolo, un educatore: ebbe anche il senso «politico» dicerti momenti cruciali e delle esigenze pratiche di con-dotta ad essi congiunte; seppe moderare e far tacere ta-lune condizioni programmatiche quando si trattava difarne trionfare altre, essenziali, con il concorso di forzediverse dalle proprie (così nel ’48, così nella fase risolu-tiva del ’59-’60). E basterebbe il governo della Repub-

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dopo il tramonto del giacobinismo) tornava in onore conun significato morale e politico ben diverso, con una va-lidità europea.

È difficile valutare numericamente le forze del «parti-to» mazziniano in Italia dal ’31 al ’48; molti si bruciaro-no a quella fiamma, anche se poi abbandonarono ilMaestro ed i compagni per posizioni politiche meno im-pegnative ed esposte; moltissimi, tra gli stessi patrioti diopposte tendenze, assorbirono inconsapevolmente con-cetti e motivi d’origine mazziniana. Ma, sopra tutto,l’apostolato del Mazzini ebbe un valore qualitativo edagì in profondità, acquistando alla causa nazionale lemigliori energie giovanili (studenti e popolani), tem-prandole alla lotta e al sacrificio. «La democrazia è pen-siero, ma pensiero congiunto all’azione» scrive ThomasMann in The coming victory of democracy. E questo siattaglia perfettamente al Mazzini ed ai migliori tra i suoifedeli: non a tutti, in quanto taluni inclinavano a disso-ciare l’una cosa dall’altra, magari consigliando il Mae-stro di starsene a tavolino, raccolto in meditazione, per-ché ai moti avrebbero provveduto meglio da soli. Mapoi si vide che il genovese non fu solo un profeta, unapostolo, un educatore: ebbe anche il senso «politico» dicerti momenti cruciali e delle esigenze pratiche di con-dotta ad essi congiunte; seppe moderare e far tacere ta-lune condizioni programmatiche quando si trattava difarne trionfare altre, essenziali, con il concorso di forzediverse dalle proprie (così nel ’48, così nella fase risolu-tiva del ’59-’60). E basterebbe il governo della Repub-

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blica romana nel ’49 come testimonianza della capacitàpolitica del mazzinianesimo; per esso Roma fu inseritadefinitivamente nel Risorgimento.

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Il programma mazziniano postulava la fede nel popo-lo e il risoluto abbandono delle posizioni tradizionalid’ossequio al Papato e di conformismo dinastico. Gio-berti, invece, scriveva: «il popolo non esiste»; d’altrolato, l’Austria ed i ceti conservatori agitavano dinanzialla borghesia italiana ed internazionale il pericolo rossodella rivoluzione predicata dal fondatore della GiovineItalia; infine l’attivismo mazziniano, sul terreno insurre-zionale, sembrava tradursi in un vano sacrificio di gio-vani vite. Occorreva creare, con altri mezzi e con uomi-ni diversi, un movimento d’opinione, che utilizzasse laforza del cattolicesimo e dei prìncipi. Questa istanza,con il Primato giobertiano, assume il colore mitico delneoguelfismo. Alla tesi del primato francese già formu-lata dalla Staël («La Francia, terra natale dell’intelligen-za, metropoli degli spiriti, di cui la civiltà europea è unacolonia», Lettera a B. Constant, 1814), l’abate piemon-tese contrappone la teorica d’un primato italiano, el’incentra nella Chiesa romana. Gioberti vuol dar vita adun partito cattolico italiano, come ne sono sorti in Fran-cia e in Irlanda, ma nazionale e moderno. Il partito cat-tolico francese col suo ultramontanismo (Montalembert)non gli va a genio; ma nemmeno solidarizza con il de-

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blica romana nel ’49 come testimonianza della capacitàpolitica del mazzinianesimo; per esso Roma fu inseritadefinitivamente nel Risorgimento.

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Il programma mazziniano postulava la fede nel popo-lo e il risoluto abbandono delle posizioni tradizionalid’ossequio al Papato e di conformismo dinastico. Gio-berti, invece, scriveva: «il popolo non esiste»; d’altrolato, l’Austria ed i ceti conservatori agitavano dinanzialla borghesia italiana ed internazionale il pericolo rossodella rivoluzione predicata dal fondatore della GiovineItalia; infine l’attivismo mazziniano, sul terreno insurre-zionale, sembrava tradursi in un vano sacrificio di gio-vani vite. Occorreva creare, con altri mezzi e con uomi-ni diversi, un movimento d’opinione, che utilizzasse laforza del cattolicesimo e dei prìncipi. Questa istanza,con il Primato giobertiano, assume il colore mitico delneoguelfismo. Alla tesi del primato francese già formu-lata dalla Staël («La Francia, terra natale dell’intelligen-za, metropoli degli spiriti, di cui la civiltà europea è unacolonia», Lettera a B. Constant, 1814), l’abate piemon-tese contrappone la teorica d’un primato italiano, el’incentra nella Chiesa romana. Gioberti vuol dar vita adun partito cattolico italiano, come ne sono sorti in Fran-cia e in Irlanda, ma nazionale e moderno. Il partito cat-tolico francese col suo ultramontanismo (Montalembert)non gli va a genio; ma nemmeno solidarizza con il de-

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mocraticismo di Lamennais. Egli spera in un nuovoGregorio VII che restauri la Chiesa, e confida che unprogetto di federazione, con il concorso dei sovrani,possa aggirare le difficoltà politiche.

Il neoguelfismo apparve come un mito di straordina-ria, anche se effimera, efficacia. Il suo primo risultato fuche i prìncipi italiani ed il Metternich si trovarono difronte ad un nuovo pericolo non meno grave del mazzi-nianesimo, ad una corrente d’opinione pubblica checonvogliava larghe forze e non poteva essere neutraliz-zata con i soliti mezzi polizieschi. Il giobertismo realiz-zava la conciliazione dei «patrii interessi colle buonecredenze», cioè – per dirla con le parole di Cesare Balbo– «delle opinioni cristiano-cattoliche colle liberali».Quando l’ascesa di Pio IX al soglio pontificio parve giu-stificare le speranze riposte nell’avvento d’un riformato-re della Chiesa e d’un salvatore dell’Italia, intorno alGioberti il consenso si mutò in trionfo. Nel nome del«papa liberale» tutti furono neoguelfi. Pio IX era il ves-sillo, «era la poesia» (come dirà poi il Cattaneo), il so-gno del ’48 imminente. E col Pontefice risaliva l’astrodi Carlo Alberto, il quale giunse con la sua vocazione ri-formista fin sull’orlo della politica nazionale e liberale,creando «il monarcato civile» come lo chiamava il Gio-berti. Ostili rimanevano i gesuiti, ben decisi a non la-sciarsi trascinare nell’ambiguo connubio di cattolicesi-mo e civiltà moderna; ciò costrinse l’autore del Primatoad iniziare una coraggiosa polemica antigesuitica, ana-loga a quella che il Quinet e il Michelet condussero dal-

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mocraticismo di Lamennais. Egli spera in un nuovoGregorio VII che restauri la Chiesa, e confida che unprogetto di federazione, con il concorso dei sovrani,possa aggirare le difficoltà politiche.

Il neoguelfismo apparve come un mito di straordina-ria, anche se effimera, efficacia. Il suo primo risultato fuche i prìncipi italiani ed il Metternich si trovarono difronte ad un nuovo pericolo non meno grave del mazzi-nianesimo, ad una corrente d’opinione pubblica checonvogliava larghe forze e non poteva essere neutraliz-zata con i soliti mezzi polizieschi. Il giobertismo realiz-zava la conciliazione dei «patrii interessi colle buonecredenze», cioè – per dirla con le parole di Cesare Balbo– «delle opinioni cristiano-cattoliche colle liberali».Quando l’ascesa di Pio IX al soglio pontificio parve giu-stificare le speranze riposte nell’avvento d’un riformato-re della Chiesa e d’un salvatore dell’Italia, intorno alGioberti il consenso si mutò in trionfo. Nel nome del«papa liberale» tutti furono neoguelfi. Pio IX era il ves-sillo, «era la poesia» (come dirà poi il Cattaneo), il so-gno del ’48 imminente. E col Pontefice risaliva l’astrodi Carlo Alberto, il quale giunse con la sua vocazione ri-formista fin sull’orlo della politica nazionale e liberale,creando «il monarcato civile» come lo chiamava il Gio-berti. Ostili rimanevano i gesuiti, ben decisi a non la-sciarsi trascinare nell’ambiguo connubio di cattolicesi-mo e civiltà moderna; ciò costrinse l’autore del Primatoad iniziare una coraggiosa polemica antigesuitica, ana-loga a quella che il Quinet e il Michelet condussero dal-

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la cattedra del Collège de France. La parte negativa delpensiero giobertiano consisteva nell’autoctonismo delconcetto di primato, nell’aver staccato, invece che con-giunto, l’Italia dall’Europa, nell’aver alimentato genero-se illusioni. «Gl’Italiani non hanno da sperare che in semedesimi e nei loro prìncipi.... Dalla separazione deigovernanti e dei loro sudditi nacque finora l’infermità ela debolezza d’Italia; dalla concordia e unanimità lororisulterà la forza e la salute di tutti». La crisi del ’48 eradestinata a rivelare gli errori del giobertismo e l’illusio-ne dell’utopia neoguelfa, tanto più che lo stesso Giobertinon seppe dominare politicamente il vasto moto da luisuscitato. Nel ’51 sentirà il bisogno di un Rinnovamen-to: il libro non più della speranza o della profezia, madell’esperienza profondamente sofferta, l’opera in cuil’orgoglio del primato, la polemica misogallica, il di-spregio delle plebi, lasciano il posto ad una ben diversavalutazione delle energie popolari, delle tendenze demo-cratico-sociali, delle forme repubblicane, insomma diun’Europa ch’era passata attraverso la rivoluzione pari-gina del ’48. Tuttavia al crollo del neoguelfismo soprav-vive la scuola cattolico-liberale, e si sviluppa, ma conun’adesione più stretta al nucleo del liberalismo, con unatteggiamento meno conformista, meno preoccupato dipolemiche teologiche. In realtà il cattolicesimo-liberaleracchiude una contraddizione, perché l’idea liberalemuove dal concetto della storia come libera creazionedell’uomo. Ma ciò ch’è contraddittorio per la logica nonsempre lo è per il sentimento; e difatti il cattolicesimo-

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la cattedra del Collège de France. La parte negativa delpensiero giobertiano consisteva nell’autoctonismo delconcetto di primato, nell’aver staccato, invece che con-giunto, l’Italia dall’Europa, nell’aver alimentato genero-se illusioni. «Gl’Italiani non hanno da sperare che in semedesimi e nei loro prìncipi.... Dalla separazione deigovernanti e dei loro sudditi nacque finora l’infermità ela debolezza d’Italia; dalla concordia e unanimità lororisulterà la forza e la salute di tutti». La crisi del ’48 eradestinata a rivelare gli errori del giobertismo e l’illusio-ne dell’utopia neoguelfa, tanto più che lo stesso Giobertinon seppe dominare politicamente il vasto moto da luisuscitato. Nel ’51 sentirà il bisogno di un Rinnovamen-to: il libro non più della speranza o della profezia, madell’esperienza profondamente sofferta, l’opera in cuil’orgoglio del primato, la polemica misogallica, il di-spregio delle plebi, lasciano il posto ad una ben diversavalutazione delle energie popolari, delle tendenze demo-cratico-sociali, delle forme repubblicane, insomma diun’Europa ch’era passata attraverso la rivoluzione pari-gina del ’48. Tuttavia al crollo del neoguelfismo soprav-vive la scuola cattolico-liberale, e si sviluppa, ma conun’adesione più stretta al nucleo del liberalismo, con unatteggiamento meno conformista, meno preoccupato dipolemiche teologiche. In realtà il cattolicesimo-liberaleracchiude una contraddizione, perché l’idea liberalemuove dal concetto della storia come libera creazionedell’uomo. Ma ciò ch’è contraddittorio per la logica nonsempre lo è per il sentimento; e difatti il cattolicesimo-

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liberale fu, prima di tutto, uno stato d’animo; più questoche non un abile calcolo politico, una «combinazione»vantaggiosa e feconda. Gli italiani non volevano la di-struzione del Papato (la Rivoluzione francese era fallitanel tentativo), ed erano consapevoli che la riforma dellaChiesa non poteva essere compiuta dallo Stato né fattadai fedeli. La speranza del Rosmini d’una riforma pro-mossa dal Papa alimentò per molti anni quegli spiritimoderati che sentivano l’esigenza d’una conversionedella Chiesa in senso liberale e antitemporalistico comepremessa d’una auspicata conciliazione con lo Stato. Se-nonché la Chiesa si rinnova, storicamente, secondo unritmo interiore che non esclude le suggestioni esterne,ma che non è ad esse necessariamente subordinato neltempo.

* * *

Educato allo storicismo e al gusto per i problemi con-creti della vita politica, Cesare Balbo fu il cervello delpartito moderato italiano. Egli non credeva ai primatiuniversali ed esclusivi e tanto meno alla restaurazione diantichi imperi, ma riponeva le Speranze d’Italia (1844)in un programma di riforme liberali e in uno sforzo ri-volto alla conquista dell’indipendenza dallo stranieroimperniato non sul Papa ma sul Piemonte. Al movimen-to dei moderati, che doveva culminare nelle conquistestatutarie del ’48, parteciparono i ceti colti italiani: dalGaleotti al Petitti, dal Capponi al D’Azeglio, dal Ridolfi

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liberale fu, prima di tutto, uno stato d’animo; più questoche non un abile calcolo politico, una «combinazione»vantaggiosa e feconda. Gli italiani non volevano la di-struzione del Papato (la Rivoluzione francese era fallitanel tentativo), ed erano consapevoli che la riforma dellaChiesa non poteva essere compiuta dallo Stato né fattadai fedeli. La speranza del Rosmini d’una riforma pro-mossa dal Papa alimentò per molti anni quegli spiritimoderati che sentivano l’esigenza d’una conversionedella Chiesa in senso liberale e antitemporalistico comepremessa d’una auspicata conciliazione con lo Stato. Se-nonché la Chiesa si rinnova, storicamente, secondo unritmo interiore che non esclude le suggestioni esterne,ma che non è ad esse necessariamente subordinato neltempo.

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Educato allo storicismo e al gusto per i problemi con-creti della vita politica, Cesare Balbo fu il cervello delpartito moderato italiano. Egli non credeva ai primatiuniversali ed esclusivi e tanto meno alla restaurazione diantichi imperi, ma riponeva le Speranze d’Italia (1844)in un programma di riforme liberali e in uno sforzo ri-volto alla conquista dell’indipendenza dallo stranieroimperniato non sul Papa ma sul Piemonte. Al movimen-to dei moderati, che doveva culminare nelle conquistestatutarie del ’48, parteciparono i ceti colti italiani: dalGaleotti al Petitti, dal Capponi al D’Azeglio, dal Ridolfi

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al Ricasoli. Esso s’appoggiava al patriziato liberale edalla borghesia; avverso alla democrazia mazziniana e re-pubblicana, incredulo od ostile al postulato unitario, tut-tavia cooperava in maniera attivissima ai compiti del Ri-sorgimento ed alla creazione d’uno Stato nazionalmente,cioè storicamente e moralmente, differenziato. Partitoborghese, fu detto, partito di destra, e come tale fu espo-sto alle critiche dei democratici e dei radicali; maquell’élite non agì come classe, secondo interessi di ca-tegoria. Se convertiamo il termine classista in concetto,lo schema in realtà, il sociologismo in storia, borghese ètutto ciò che risponde ad una funzione mediatrice, cherealizza l’elisione delle punte estreme. Del resto c’è laborghesia tipo Oblomow e la borghesia tipo Babbitt, e cifu un tempo il borghese tipo Beniamino Franklin. È ilfondamento morale che conta, e quello della borghesialiberale italiana avanti il ’70 si palesò ricco di concretivalori umani, di forza innovatrice. Ai moderati comeD’Azeglio, che avrebbe voluto dissolvere i partiti inun’unica grande corrente d’opinione nazionale, facevadifetto il senso della fecondità e necessità della lotta po-litica; a tutti mancava l’amore per i grandi contrasticombattuti e vinti nel clima d’una piena libertà. Questisono i veri limiti del moderatismo, intuiti da GiacomoDurando, e superati dal moderno liberalismo del contedi Cavour.

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al Ricasoli. Esso s’appoggiava al patriziato liberale edalla borghesia; avverso alla democrazia mazziniana e re-pubblicana, incredulo od ostile al postulato unitario, tut-tavia cooperava in maniera attivissima ai compiti del Ri-sorgimento ed alla creazione d’uno Stato nazionalmente,cioè storicamente e moralmente, differenziato. Partitoborghese, fu detto, partito di destra, e come tale fu espo-sto alle critiche dei democratici e dei radicali; maquell’élite non agì come classe, secondo interessi di ca-tegoria. Se convertiamo il termine classista in concetto,lo schema in realtà, il sociologismo in storia, borghese ètutto ciò che risponde ad una funzione mediatrice, cherealizza l’elisione delle punte estreme. Del resto c’è laborghesia tipo Oblomow e la borghesia tipo Babbitt, e cifu un tempo il borghese tipo Beniamino Franklin. È ilfondamento morale che conta, e quello della borghesialiberale italiana avanti il ’70 si palesò ricco di concretivalori umani, di forza innovatrice. Ai moderati comeD’Azeglio, che avrebbe voluto dissolvere i partiti inun’unica grande corrente d’opinione nazionale, facevadifetto il senso della fecondità e necessità della lotta po-litica; a tutti mancava l’amore per i grandi contrasticombattuti e vinti nel clima d’una piena libertà. Questisono i veri limiti del moderatismo, intuiti da GiacomoDurando, e superati dal moderno liberalismo del contedi Cavour.

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Un gruppo politico intelligente ma poco numeroso,composto di capi con scarsi seguaci, fu quello dei re-pubblicani federalisti. Il loro quartier generale era la Mi-lano del’48, intorno al Cattaneo, al Ferrari, al Cernuschi,che proseguirono poi dall’estero la battaglia in sostegnodella propria tesi. La quale era federalista nel senso chemirava ad assicurare ad ogni regione, ad ogni provincia,ad ogni comune, la più ampia possibilità di realizzarel’autogoverno, a ciascun individuo la maggior libertà.Appunto per questo l’istanza della libertà veniva ante-posta a quella dell’indipendenza. Federarsi vuol direunirsi, scriveva il Ferrari, ma in Italia l’unione nondev’essere monarchica o papalina, ma repubblicana. Lecapitali dei vecchi Stati non devono sparire ma conser-vare le loro funzioni con organi elettivi e legislativi im-pedendo il formarsi d’una casta burocratica accentratri-ce. Il Cattaneo e il Ferrari erano degli schietti democra-tici (il secondo con venature radicali e socialiste); il lorogruppo avversava la politica dei neoguelfi e dei modera-ti, e la consapevolezza che la Lombardia era socialmen-te ed economicamente più progredita del Piemontel’induceva ad opporsi al programma fusionista di CarloAlberto. Se la democrazia li divideva dai liberali mode-rati, il repubblicanesimo dalla politica sabauda, il con-cetto federalista li separava dalla corrente mazziniana.Sul problema unità o federazione s’impernia il gravedissidio del ’48 tra Mazzini e Cattaneo.

Se il ’48 segnò il fallimento dei neoguelfi e rivelòl’insufficienza dei moderati, la politica cavouriana dal

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Un gruppo politico intelligente ma poco numeroso,composto di capi con scarsi seguaci, fu quello dei re-pubblicani federalisti. Il loro quartier generale era la Mi-lano del’48, intorno al Cattaneo, al Ferrari, al Cernuschi,che proseguirono poi dall’estero la battaglia in sostegnodella propria tesi. La quale era federalista nel senso chemirava ad assicurare ad ogni regione, ad ogni provincia,ad ogni comune, la più ampia possibilità di realizzarel’autogoverno, a ciascun individuo la maggior libertà.Appunto per questo l’istanza della libertà veniva ante-posta a quella dell’indipendenza. Federarsi vuol direunirsi, scriveva il Ferrari, ma in Italia l’unione nondev’essere monarchica o papalina, ma repubblicana. Lecapitali dei vecchi Stati non devono sparire ma conser-vare le loro funzioni con organi elettivi e legislativi im-pedendo il formarsi d’una casta burocratica accentratri-ce. Il Cattaneo e il Ferrari erano degli schietti democra-tici (il secondo con venature radicali e socialiste); il lorogruppo avversava la politica dei neoguelfi e dei modera-ti, e la consapevolezza che la Lombardia era socialmen-te ed economicamente più progredita del Piemontel’induceva ad opporsi al programma fusionista di CarloAlberto. Se la democrazia li divideva dai liberali mode-rati, il repubblicanesimo dalla politica sabauda, il con-cetto federalista li separava dalla corrente mazziniana.Sul problema unità o federazione s’impernia il gravedissidio del ’48 tra Mazzini e Cattaneo.

Se il ’48 segnò il fallimento dei neoguelfi e rivelòl’insufficienza dei moderati, la politica cavouriana dal

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’51 al ’59 esautorò, almeno in parte, il federalismo re-pubblicano e rivoluzionario. Questo parve risorgere nelsettembre del 1860 quando Cattaneo consigliò a Gari-baldi la creazione di parlamenti speciali per il Napoleta-no e la Sicilia; ma prevalse il criterio unitario e accen-tratore. Il movimento del Cattaneo e del Ferrari perdetterapidamente terreno: pure il trionfo dell’unità monarchi-ca non poteva cancellare talune esigenze democraticheed autonomistiche destinate ad affiorare, in forme atte-nuate e diverse, nella polemica sull’ordinamento ammi-nistrativo dello Stato italiano, ed a riemergere in tempi anoi tanto vicini.

L’arretratezza dell’economia industriale e della strut-tura sociale degli Stati italiani, a mezzo Ottocento, insie-me con il prevalere dei problemi etico-politici della li-bertà, dell’indipendenza, dell’unità nazionale, spiega lamancanza di un vero movimento socialistico, mentre neipaesi dell’Europa centro-occidentale già si avviava unamoderna lotta di classe ed il marxismo accendeva le pri-me polemiche. Tuttavia dal ’46 al ’49 si ebbero agitazio-ni comuniste in Toscana, ed una società segreta comuni-sta sorse a Milano tra il ’46 e il ’48. Di un’analoga so-cietà ch’esisteva a Ferrara nel ’44, conosciamo l’elencodei soci: tra questi, due calzolai, due sarti, un falegna-me, alcuni garzoni, due ortolani, un tornitore. Ma laconsapevolezza del problema sociale e d’una sua possi-bile soluzione rivoluzionaria affiora in alcuni scritti delMontanelli (l’Introduzione che è del’51), riempie moltepagine dottrinarie del radicale Ferrari, e domina come

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’51 al ’59 esautorò, almeno in parte, il federalismo re-pubblicano e rivoluzionario. Questo parve risorgere nelsettembre del 1860 quando Cattaneo consigliò a Gari-baldi la creazione di parlamenti speciali per il Napoleta-no e la Sicilia; ma prevalse il criterio unitario e accen-tratore. Il movimento del Cattaneo e del Ferrari perdetterapidamente terreno: pure il trionfo dell’unità monarchi-ca non poteva cancellare talune esigenze democraticheed autonomistiche destinate ad affiorare, in forme atte-nuate e diverse, nella polemica sull’ordinamento ammi-nistrativo dello Stato italiano, ed a riemergere in tempi anoi tanto vicini.

L’arretratezza dell’economia industriale e della strut-tura sociale degli Stati italiani, a mezzo Ottocento, insie-me con il prevalere dei problemi etico-politici della li-bertà, dell’indipendenza, dell’unità nazionale, spiega lamancanza di un vero movimento socialistico, mentre neipaesi dell’Europa centro-occidentale già si avviava unamoderna lotta di classe ed il marxismo accendeva le pri-me polemiche. Tuttavia dal ’46 al ’49 si ebbero agitazio-ni comuniste in Toscana, ed una società segreta comuni-sta sorse a Milano tra il ’46 e il ’48. Di un’analoga so-cietà ch’esisteva a Ferrara nel ’44, conosciamo l’elencodei soci: tra questi, due calzolai, due sarti, un falegna-me, alcuni garzoni, due ortolani, un tornitore. Ma laconsapevolezza del problema sociale e d’una sua possi-bile soluzione rivoluzionaria affiora in alcuni scritti delMontanelli (l’Introduzione che è del’51), riempie moltepagine dottrinarie del radicale Ferrari, e domina come

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motivo ispiratore nei saggi del Pisacane. Questi sentecon pari forza l’esigenza della libertà e l’istanza del rin-novamento sociale. Quanto alla prima, a differenza deimoderati, non crede nella virtù di una graduale persua-sione esercitata da un’élite, nell’efficacia d’un lento ti-rocinio educativo, ma ha fede soltanto nella pratica co-raggiosa dell’autogoverno. Condizione perché la libertàpossa realizzarsi è una radicale modifica del vecchio or-dine sociale: Pisacane batte e ribatte sulla «necessità diestirpare fin l’ultima barba della presente costituzionesociale, di sgombrare il suolo dalle sterminate maceriedei pregiudizi, di leggi, di opinioni ammucchiate sul di-ritto di proprietà che gli serve di base e che poggia, asua volta, sugli omeri dell’immensa moltitudine deinull’abbienti». Il binomio rivoluzione sociale e libertàpolitica, come premessa del risorgimento nazionale, è iltratto peculiare di Pisacane, il suo titolo di nobiltà, ilmotivo che assicura, oltre le contingenti vicende, la vali-dità e l’interesse della sua posizione.

* * *

Dal crollo delle speranze liberali e dei tentativi demo-cratici del ’48-’49, e nel ritorno dell’assetto politico ita-liano allo statu quo, poté salvarsi la costituzione in Pie-monte e con essa il Parlamento subalpino. Gli esordi diquest’assemblea rappresentativa non furono felici. Il ri-corso che i moderati fecero al proclama di Moncalieriper vincere, con le nuove elezioni, le resistenze demo-

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motivo ispiratore nei saggi del Pisacane. Questi sentecon pari forza l’esigenza della libertà e l’istanza del rin-novamento sociale. Quanto alla prima, a differenza deimoderati, non crede nella virtù di una graduale persua-sione esercitata da un’élite, nell’efficacia d’un lento ti-rocinio educativo, ma ha fede soltanto nella pratica co-raggiosa dell’autogoverno. Condizione perché la libertàpossa realizzarsi è una radicale modifica del vecchio or-dine sociale: Pisacane batte e ribatte sulla «necessità diestirpare fin l’ultima barba della presente costituzionesociale, di sgombrare il suolo dalle sterminate maceriedei pregiudizi, di leggi, di opinioni ammucchiate sul di-ritto di proprietà che gli serve di base e che poggia, asua volta, sugli omeri dell’immensa moltitudine deinull’abbienti». Il binomio rivoluzione sociale e libertàpolitica, come premessa del risorgimento nazionale, è iltratto peculiare di Pisacane, il suo titolo di nobiltà, ilmotivo che assicura, oltre le contingenti vicende, la vali-dità e l’interesse della sua posizione.

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Dal crollo delle speranze liberali e dei tentativi demo-cratici del ’48-’49, e nel ritorno dell’assetto politico ita-liano allo statu quo, poté salvarsi la costituzione in Pie-monte e con essa il Parlamento subalpino. Gli esordi diquest’assemblea rappresentativa non furono felici. Il ri-corso che i moderati fecero al proclama di Moncalieriper vincere, con le nuove elezioni, le resistenze demo-

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cratiche, diede i frutti sperati, ma in sé non era un siste-ma raccomandabile in quanto apriva la via agli interven-ti sovrani. D’altra parte, con la mentalità moderata pre-quarantottesca non si poteva avviare un’ardita politicaliberale di tipo europeo. Il compito da assolvere era du-plice: sbarrare la strada ad un ritorno reazionario ed evi-tare i pericoli d’un astratto rivoluzionarismo. Imprimereuno sviluppo liberale nazionale organico allo Stato sa-baudo, trasformandolo agli occhi degli italiani edell’Europa, era il solo modo per convogliare le forzeutili del paese, vincere i municipalismi, assorbire molteenergie disperse sulle vie dell’esilio, convertire adun’azione comune e concorde parecchi repubblicani del’48 e del ’49. Fu questa la funzione storica dei cavouria-ni.

Il connubio, cioè l’unione del centro destro e del cen-tro sinistro, diede al Cavour una salda base parlamenta-re, non però una posizione di comodo, e tanto meno dilarvata dittatura. Alle ali della Camera, in vigile opposi-zione, rimanevano i conservatori di destra e i democrati-ci di sinistra. Quest’ultimi (con il Brofferio, il Valerio, ilDepretis), a differenza dei democratici d’altre regioni emassime dei lombardi, erano monarchici. La concentra-zione operata dal Cavour eliminava la dialettica dei duepartiti ben differenziati (liberali e democratici) che ilBalbo aveva teorizzato sul modello britannico, ma ubbi-diva ad una reale esigenza (non ad un calcolo tattico)della vita parlamentare in quel periodo storico e rispec-chiava un analogo evolversi delle forze politiche del

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cratiche, diede i frutti sperati, ma in sé non era un siste-ma raccomandabile in quanto apriva la via agli interven-ti sovrani. D’altra parte, con la mentalità moderata pre-quarantottesca non si poteva avviare un’ardita politicaliberale di tipo europeo. Il compito da assolvere era du-plice: sbarrare la strada ad un ritorno reazionario ed evi-tare i pericoli d’un astratto rivoluzionarismo. Imprimereuno sviluppo liberale nazionale organico allo Stato sa-baudo, trasformandolo agli occhi degli italiani edell’Europa, era il solo modo per convogliare le forzeutili del paese, vincere i municipalismi, assorbire molteenergie disperse sulle vie dell’esilio, convertire adun’azione comune e concorde parecchi repubblicani del’48 e del ’49. Fu questa la funzione storica dei cavouria-ni.

Il connubio, cioè l’unione del centro destro e del cen-tro sinistro, diede al Cavour una salda base parlamenta-re, non però una posizione di comodo, e tanto meno dilarvata dittatura. Alle ali della Camera, in vigile opposi-zione, rimanevano i conservatori di destra e i democrati-ci di sinistra. Quest’ultimi (con il Brofferio, il Valerio, ilDepretis), a differenza dei democratici d’altre regioni emassime dei lombardi, erano monarchici. La concentra-zione operata dal Cavour eliminava la dialettica dei duepartiti ben differenziati (liberali e democratici) che ilBalbo aveva teorizzato sul modello britannico, ma ubbi-diva ad una reale esigenza (non ad un calcolo tattico)della vita parlamentare in quel periodo storico e rispec-chiava un analogo evolversi delle forze politiche del

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paese. Il movimento cavouriano si allarga in tutta la pe-nisola senza perdere di compattezza, perché in esso con-fluiscono, si ritrovano e si fondono uomini che proven-gono dalle più diverse vie e dalle più disparate esperien-ze giovanili, che ieri erano ancora dei patrioti toscani oemiliani o pugliesi e che ora diventano non «piemonte-si» (come erroneamente credeva il Ferrari), ma italiani.

La maggiore opposizione al Cavour, in Italia, venivadalle schiere dei mazziniani, ridotte di numero dopol’infelice esito della rivolta milanese del 1853, ma sem-pre tenaci nel loro programma d’unità democratico-repubblicana e nei loro metodi rivoluzionari. Fu tuttaviaun’opposizione feconda: il Risorgimento maturò e sicompì proprio in questa dialettica di forze politiche con-trastanti. Mazzini nel ’53 aveva creato il partito d’azio-ne, ma le sue fila si assottigliarono quando nel ’57 nac-que la Società Nazionale con il concorso di ardenti exrepubblicani (come Daniele Manin e Giuseppe La Fari-na) e con l’adesione dello stesso Garibaldi alla formula«Italia e Vittorio Emanuele». In realtà la maggioranzadegli italiani, secondo l’acuto rilievo del Pisacane, nonera composta né di realisti (nel senso francese), né di ri-gidi repubblicani; era pronta a seguire quelle insegneche per prime si fossero mosse «arditamente e lealmentecontro lo straniero». Fu merito del Cavour l’aver dato almoto politico nazionale che a lui si ispirava, nel ’59-’60,un duplice carattere: rivoluzionario verso il popolo ita-liano che si sollevava contro l’Austria e contro i vecchi

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paese. Il movimento cavouriano si allarga in tutta la pe-nisola senza perdere di compattezza, perché in esso con-fluiscono, si ritrovano e si fondono uomini che proven-gono dalle più diverse vie e dalle più disparate esperien-ze giovanili, che ieri erano ancora dei patrioti toscani oemiliani o pugliesi e che ora diventano non «piemonte-si» (come erroneamente credeva il Ferrari), ma italiani.

La maggiore opposizione al Cavour, in Italia, venivadalle schiere dei mazziniani, ridotte di numero dopol’infelice esito della rivolta milanese del 1853, ma sem-pre tenaci nel loro programma d’unità democratico-repubblicana e nei loro metodi rivoluzionari. Fu tuttaviaun’opposizione feconda: il Risorgimento maturò e sicompì proprio in questa dialettica di forze politiche con-trastanti. Mazzini nel ’53 aveva creato il partito d’azio-ne, ma le sue fila si assottigliarono quando nel ’57 nac-que la Società Nazionale con il concorso di ardenti exrepubblicani (come Daniele Manin e Giuseppe La Fari-na) e con l’adesione dello stesso Garibaldi alla formula«Italia e Vittorio Emanuele». In realtà la maggioranzadegli italiani, secondo l’acuto rilievo del Pisacane, nonera composta né di realisti (nel senso francese), né di ri-gidi repubblicani; era pronta a seguire quelle insegneche per prime si fossero mosse «arditamente e lealmentecontro lo straniero». Fu merito del Cavour l’aver dato almoto politico nazionale che a lui si ispirava, nel ’59-’60,un duplice carattere: rivoluzionario verso il popolo ita-liano che si sollevava contro l’Austria e contro i vecchi

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prìncipi; conservatore e legalitario verso i governi euro-pei.

Il grande dissidio, scoppiato nel ’60, tra Cavour e Ga-ribaldi spezzò il vincolo della Società Nazionale e riaprìuna lotta serrata tra i liberali ed il partito d’azione (oraimperniato essenzialmente sui garibaldini). Garibaldiera favorevole ad una dittatura rivoluzionaria da eserci-tarsi in nome del Re, senza controlli parlamentari o distampa. Non così il Cavour: «Io reputo che non saràl’ultimo titolo di gloria per l’Italia di aver saputo costi-tuirsi a Nazione senza sacrificare la libertà alla indipen-denza, senza passare per le mani dittatoriali di un Crom-well, ma svincolandosi dall’assolutismo monarchicosenza cadere nel dispotismo rivoluzionario. Ora nonv’ha altro modo di raggiungere questo scopo che di at-tingere nel concorso del Parlamento la sola forza moralecapace di vincere le sètte e di conservarci le simpatiedell’Europa liberale. Ritornare ai comitati di salute pub-blica, o, ciò che torna lo stesso, alle dittature rivoluzio-narie di uno o di più, sarebbe uccidere nel suo nascere lalibertà legale che vogliamo inseparabile compagna dellaindipendenza della nazione».

La morte del grande statista tolse al suo partito quellacompattezza che in una certa misura derivava dal presti-gio indiscusso del capo; ma anche il partito garibaldinoaveva una struttura eterogenea: ex seguaci di Mazzini,camicie rosse, rappresentanti di quella democrazia delMezzogiorno che molto aveva facilitato l’impresa deiMille. Nel partito cavouriano riemergevano gruppi re-

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prìncipi; conservatore e legalitario verso i governi euro-pei.

Il grande dissidio, scoppiato nel ’60, tra Cavour e Ga-ribaldi spezzò il vincolo della Società Nazionale e riaprìuna lotta serrata tra i liberali ed il partito d’azione (oraimperniato essenzialmente sui garibaldini). Garibaldiera favorevole ad una dittatura rivoluzionaria da eserci-tarsi in nome del Re, senza controlli parlamentari o distampa. Non così il Cavour: «Io reputo che non saràl’ultimo titolo di gloria per l’Italia di aver saputo costi-tuirsi a Nazione senza sacrificare la libertà alla indipen-denza, senza passare per le mani dittatoriali di un Crom-well, ma svincolandosi dall’assolutismo monarchicosenza cadere nel dispotismo rivoluzionario. Ora nonv’ha altro modo di raggiungere questo scopo che di at-tingere nel concorso del Parlamento la sola forza moralecapace di vincere le sètte e di conservarci le simpatiedell’Europa liberale. Ritornare ai comitati di salute pub-blica, o, ciò che torna lo stesso, alle dittature rivoluzio-narie di uno o di più, sarebbe uccidere nel suo nascere lalibertà legale che vogliamo inseparabile compagna dellaindipendenza della nazione».

La morte del grande statista tolse al suo partito quellacompattezza che in una certa misura derivava dal presti-gio indiscusso del capo; ma anche il partito garibaldinoaveva una struttura eterogenea: ex seguaci di Mazzini,camicie rosse, rappresentanti di quella democrazia delMezzogiorno che molto aveva facilitato l’impresa deiMille. Nel partito cavouriano riemergevano gruppi re-

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gionali (subalpino, toscano) che frazionavano e indebo-livano la compagine della maggioranza parlamentare.Nel campo opposto non era facile amalgamare uominidi così diversa provenienza, spesso valorosi combattentidelle guerre di liberazione ma scarsamente provvedutidi qualità politiche.

Fuori del parlamento e contro la monarchia c’erasempre Mazzini, con i suoi fedeli, che riprese l’agitazio-ne repubblicana dopo il ’66, ma nell’estate del ’70 videfallire, con la mancata sollevazione della Sicilia, ognisua speranza. L’ingresso di Vittorio Emanuele II inRoma consolidava le sorti della dinastia, almeno per unlungo periodo. Con animo accorato Mazzini contempla-va lo sfaldarsi del suo glorioso esercito di cospiratori:«Morti gli uni, disertori gli altri, taluno fedele tuttaviaalle idee, ma inattivo». Anche tra le classi operaie, dovein virtù del movimento cooperativistico e delle fratellan-ze artigiane, l’apostolo aveva seminato con frutto e rac-colto larghi consensi, ora il suo prestigio diminuiva visi-bilmente. Egli aveva combattuto il marxismo, ripudian-done la base materialistica e il concetto di lotta di clas-se, ma intanto in Italia guadagnava terreno l’internazio-nalismo anarchico del Bakounine. Mazzini attaccò la IªInternazionale (1864) e condannò la Comune parigina,mentre l’agitatore russo e Garibaldi ne presero la difesa.Politicamente fu un errore, il quale contribuì ad alienar-gli l’animo di quei giovani che sentivano ormai l’insuf-ficienza dello spiritualismo teorico e dell’associazioni-smo pratico del Maestro. Questi non s’avvedeva che il

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gionali (subalpino, toscano) che frazionavano e indebo-livano la compagine della maggioranza parlamentare.Nel campo opposto non era facile amalgamare uominidi così diversa provenienza, spesso valorosi combattentidelle guerre di liberazione ma scarsamente provvedutidi qualità politiche.

Fuori del parlamento e contro la monarchia c’erasempre Mazzini, con i suoi fedeli, che riprese l’agitazio-ne repubblicana dopo il ’66, ma nell’estate del ’70 videfallire, con la mancata sollevazione della Sicilia, ognisua speranza. L’ingresso di Vittorio Emanuele II inRoma consolidava le sorti della dinastia, almeno per unlungo periodo. Con animo accorato Mazzini contempla-va lo sfaldarsi del suo glorioso esercito di cospiratori:«Morti gli uni, disertori gli altri, taluno fedele tuttaviaalle idee, ma inattivo». Anche tra le classi operaie, dovein virtù del movimento cooperativistico e delle fratellan-ze artigiane, l’apostolo aveva seminato con frutto e rac-colto larghi consensi, ora il suo prestigio diminuiva visi-bilmente. Egli aveva combattuto il marxismo, ripudian-done la base materialistica e il concetto di lotta di clas-se, ma intanto in Italia guadagnava terreno l’internazio-nalismo anarchico del Bakounine. Mazzini attaccò la IªInternazionale (1864) e condannò la Comune parigina,mentre l’agitatore russo e Garibaldi ne presero la difesa.Politicamente fu un errore, il quale contribuì ad alienar-gli l’animo di quei giovani che sentivano ormai l’insuf-ficienza dello spiritualismo teorico e dell’associazioni-smo pratico del Maestro. Questi non s’avvedeva che il

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problema politico-sociale, esaurito il Risorgimento, en-trava anche in Italia in una nuova fase del tutto diversadalla precedente, e che il nostro paese non poteva resta-re immune o estraneo all’ascesa europea del socialismo.La Perseveranza, l’organo dei conservatori milanesi,scriveva il 26 marzo del ’71: «Quella bordaglia imme-more d’ogni affetto di patria, pazza di furori, avida dilucri,... non è nella sola Parigi; si trova nelle principalicittà industriali, al di qua e al di là dei monti.... Occorreimpedire che l’infima feccia della città salga a galla,come ora fa a Parigi, con isgomento e nausea di tutti».Agli occhi delle classi operaie, Mazzini condannando laComune, si poneva su un piano analogo (anche se l’ani-mo e i motivi erano ben diversi) a quello del reazionari-smo borghese. Il nascente proletariato italiano che, peranni, aveva visto Mazzini come una fiaccola innanzi asé, ora lo contemplava come una luce semispenta lascia-ta alle spalle.

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problema politico-sociale, esaurito il Risorgimento, en-trava anche in Italia in una nuova fase del tutto diversadalla precedente, e che il nostro paese non poteva resta-re immune o estraneo all’ascesa europea del socialismo.La Perseveranza, l’organo dei conservatori milanesi,scriveva il 26 marzo del ’71: «Quella bordaglia imme-more d’ogni affetto di patria, pazza di furori, avida dilucri,... non è nella sola Parigi; si trova nelle principalicittà industriali, al di qua e al di là dei monti.... Occorreimpedire che l’infima feccia della città salga a galla,come ora fa a Parigi, con isgomento e nausea di tutti».Agli occhi delle classi operaie, Mazzini condannando laComune, si poneva su un piano analogo (anche se l’ani-mo e i motivi erano ben diversi) a quello del reazionari-smo borghese. Il nascente proletariato italiano che, peranni, aveva visto Mazzini come una fiaccola innanzi asé, ora lo contemplava come una luce semispenta lascia-ta alle spalle.

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II.SVILUPPO DEI PARTITIE ASCESA DELL’ITALIA

(1861-1914)

Destra e Sinistra. – I radicali e i mazziniani. – Il sociali-smo. – La crisi del ’98. – Il liberalismo giolittiano. – Radi-cali e repubblicani. – I cattolici. – Socialisti, sindacalisti ri-voluzionari e socialriformisti. – I nazionalisti. – Luci e om-bre nella vita del paese.

La struttura della Camera subalpina nel suo ampliarsiin Parlamento nazionale subì una sensibile modifica,perché in luogo della maggioranza cavouriana (una spe-cie di grande partito di centro) con due opposizioni alleali, si ebbero due partiti a fronte, il governativo el’oppositore, la Destra e la Sinistra (i termini, com’ènoto, risalgono all’espressione côté droite e côté gauche– rispetto al presidente – dell’Assemblea Costituentefrancese al tempo della Rivoluzione). I due aggruppa-menti rispecchiavano il doppio modo col quale s’eracompiuta l’unità italiana: l’indirizzo politico liberalemonarchico del Cavour con i suoi metodi legali e diplo-matici, l’azione democratica, volontaristica, rivoluzio-naria dei garibaldini e dei mazziniani. Il distacco tra De-

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II.SVILUPPO DEI PARTITIE ASCESA DELL’ITALIA

(1861-1914)

Destra e Sinistra. – I radicali e i mazziniani. – Il sociali-smo. – La crisi del ’98. – Il liberalismo giolittiano. – Radi-cali e repubblicani. – I cattolici. – Socialisti, sindacalisti ri-voluzionari e socialriformisti. – I nazionalisti. – Luci e om-bre nella vita del paese.

La struttura della Camera subalpina nel suo ampliarsiin Parlamento nazionale subì una sensibile modifica,perché in luogo della maggioranza cavouriana (una spe-cie di grande partito di centro) con due opposizioni alleali, si ebbero due partiti a fronte, il governativo el’oppositore, la Destra e la Sinistra (i termini, com’ènoto, risalgono all’espressione côté droite e côté gauche– rispetto al presidente – dell’Assemblea Costituentefrancese al tempo della Rivoluzione). I due aggruppa-menti rispecchiavano il doppio modo col quale s’eracompiuta l’unità italiana: l’indirizzo politico liberalemonarchico del Cavour con i suoi metodi legali e diplo-matici, l’azione democratica, volontaristica, rivoluzio-naria dei garibaldini e dei mazziniani. Il distacco tra De-

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stra e Sinistra assai netto dal ’61 al ’70, quando cioèperduravano e tendevano ad esasperarsi intorno ai pro-blemi di Venezia e di Roma (massime del secondo) idue opposti criteri di soluzione e quindi i differenti si-stemi di lotta, era destinato a diminuire, a rendersi menosensibile, nel decennio seguente fino a sciogliersi quasidel tutto nell’età del trasformismo. Si assiste cioè al ri-piegamento dei rivoluzionari del periodo risorgimentalesul piano legalitario. Gli scatti irosi s’addolciscono, lepose eroiche vengono dimesse, la forma mentis dell’agi-tatore si muta in quella dell’oppositore costituzionale,ch’è quanto dire del futuro uomo di governo.

In un volgere non lungo di tempo, Cairoli, Zanardelli,Nicotera, Crispi, rinunciano non solo alle pregiudizialima anche alle diffidenze antimonarchiche, depongono levesti rivoluzionarie e indossano panni ministeriali. Mu-tato clima spirituale, senza dubbio; ma se il rivoluziona-rismo cede il passo al progressismo, gli è perché il con-cetto di rivoluzione aveva avuto un contenuto più «na-zionale» che «sociale», e quindi gli accadimenti del ’70ne avevano esaurito il motivo dominante, lasciando, semai, un residuo: l’irredentismo. Una simile conversionenon l’avrebbe, probabilmente, subita l’eroe di Sapri,Carlo Pisacane, che intendeva il postulato rivoluzionario– come s’è visto – in ben altra maniera. L’evoluzionedei capi, naturalmente, rifletteva quella del paese o lasollecitava: i giovani della media e piccola borghesiaprofessionista che avevano più sofferto dell’antico regi-me ed erano accorsi numerosi nelle schiere garibaldine

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stra e Sinistra assai netto dal ’61 al ’70, quando cioèperduravano e tendevano ad esasperarsi intorno ai pro-blemi di Venezia e di Roma (massime del secondo) idue opposti criteri di soluzione e quindi i differenti si-stemi di lotta, era destinato a diminuire, a rendersi menosensibile, nel decennio seguente fino a sciogliersi quasidel tutto nell’età del trasformismo. Si assiste cioè al ri-piegamento dei rivoluzionari del periodo risorgimentalesul piano legalitario. Gli scatti irosi s’addolciscono, lepose eroiche vengono dimesse, la forma mentis dell’agi-tatore si muta in quella dell’oppositore costituzionale,ch’è quanto dire del futuro uomo di governo.

In un volgere non lungo di tempo, Cairoli, Zanardelli,Nicotera, Crispi, rinunciano non solo alle pregiudizialima anche alle diffidenze antimonarchiche, depongono levesti rivoluzionarie e indossano panni ministeriali. Mu-tato clima spirituale, senza dubbio; ma se il rivoluziona-rismo cede il passo al progressismo, gli è perché il con-cetto di rivoluzione aveva avuto un contenuto più «na-zionale» che «sociale», e quindi gli accadimenti del ’70ne avevano esaurito il motivo dominante, lasciando, semai, un residuo: l’irredentismo. Una simile conversionenon l’avrebbe, probabilmente, subita l’eroe di Sapri,Carlo Pisacane, che intendeva il postulato rivoluzionario– come s’è visto – in ben altra maniera. L’evoluzionedei capi, naturalmente, rifletteva quella del paese o lasollecitava: i giovani della media e piccola borghesiaprofessionista che avevano più sofferto dell’antico regi-me ed erano accorsi numerosi nelle schiere garibaldine

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o mazziniane, ora «venivano assorbiti dagli impieghiche si creavano di giorno in giorno nella febbrile orga-nizzazione del nuovo Stato», facevano cioè il loro in-gresso nella burocrazia o – per usare un’immagine pole-mica del Salvemini – nel «truogolo monarchico gover-nativo». In realtà, quella smobilitazione di forze com-battive, concluso il ciclo del Risorgimento, era pur ne-cessaria, ed era compito peculiare dello Stato immetterlenei propri quadri, incanalarle verso gli uffici pubblici oprivati, normalizzarle, anche a costo di spegnerne i sacrientusiasmi, e – s’intende – col desiderio per l’appunto dicalmarne i bollori giovanili. È questa un’operazione de-licatissima, con gl’inevitabili inconvenienti che le sonoconnessi, che l’Italia in meno d’un settantennio s’è tro-vata a dover affrontare tre volte, con risultati assai di-versi.

Dopo la morte del Cavour, la Destra, sua erede spiri-tuale e politica, conobbe un periodo di non lievi difficol-tà interne: la crisi dei diadochi; ma, a parte le rivalità ele gelosie d’uomini e di gruppi, essa poteva contare suun’élite quale la vita pubblica del nostro paese non videpiù in epoche successive. L’educazione cavouriana allalibertà, il rispetto delle competenze, le lotte stesse delRisorgimento, avevano dato i loro frutti: Ricasoli, Lan-za, Sella, Minghetti, Visconti Venosta, costituivano unaclasse di governo omogenea e perciò fattiva, nella qualela probità, la dirittura e la esperienza erano doti prover-biali. Ad essa, con il concorrente stimolo dell’opposi-zione di sinistra, si deve l’aver risolto, nel solo modo al-

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o mazziniane, ora «venivano assorbiti dagli impieghiche si creavano di giorno in giorno nella febbrile orga-nizzazione del nuovo Stato», facevano cioè il loro in-gresso nella burocrazia o – per usare un’immagine pole-mica del Salvemini – nel «truogolo monarchico gover-nativo». In realtà, quella smobilitazione di forze com-battive, concluso il ciclo del Risorgimento, era pur ne-cessaria, ed era compito peculiare dello Stato immetterlenei propri quadri, incanalarle verso gli uffici pubblici oprivati, normalizzarle, anche a costo di spegnerne i sacrientusiasmi, e – s’intende – col desiderio per l’appunto dicalmarne i bollori giovanili. È questa un’operazione de-licatissima, con gl’inevitabili inconvenienti che le sonoconnessi, che l’Italia in meno d’un settantennio s’è tro-vata a dover affrontare tre volte, con risultati assai di-versi.

Dopo la morte del Cavour, la Destra, sua erede spiri-tuale e politica, conobbe un periodo di non lievi difficol-tà interne: la crisi dei diadochi; ma, a parte le rivalità ele gelosie d’uomini e di gruppi, essa poteva contare suun’élite quale la vita pubblica del nostro paese non videpiù in epoche successive. L’educazione cavouriana allalibertà, il rispetto delle competenze, le lotte stesse delRisorgimento, avevano dato i loro frutti: Ricasoli, Lan-za, Sella, Minghetti, Visconti Venosta, costituivano unaclasse di governo omogenea e perciò fattiva, nella qualela probità, la dirittura e la esperienza erano doti prover-biali. Ad essa, con il concorrente stimolo dell’opposi-zione di sinistra, si deve l’aver risolto, nel solo modo al-

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lora possibile e con matura saggezza, il problema Italia-Papato che, per il suo duplice aspetto (questione romanae rapporti Stato-Chiesa), costituiva un unicum nella sto-ria europea; ad essa si deve l’aver affrontato l’enormecongerie di questioni inerenti al passaggio da una plura-lità di Stati ad un organismo unitario, vincendo le diffi-coltà connesse a situazioni secolari, debellando i residuiborbonici o papalini, creando un’amministrazione, ini-ziando i grandi lavori pubblici, unendo i diversi esercitie le diverse marine, diminuendo i debiti e risanando ilbilancio. Certo, altri criteri potevano essere adottati:meno accentratori e più rispettosi delle autonomie regio-nali e locali, meno ancorati alla paperasserie della buro-crazia d’origine subalpina e più fiduciosi nella volontà ecapacità di fare degli altri italiani. Erano queste le criti-che che si udivano nel paese e che trovavano un’eco nelparlamento, non solo dai banchi dell’opposizione, maanche da quelli della Destra (Minghetti era un decentra-lista). Mancò un po’ a tutti il coraggio cavouriano d’affi-darsi senza riserve alla libertà: il tesoro conquistatodell’unità nazionale appariva troppo prezioso, e i perico-li ancora troppo vicini, perché si osasse procedere conmaggiore arditezza e non si preferisse agire dall’alto emagari dall’esterno. La stessa Sinistra, più tardi, nonmuterà la rotta, rinunciando a porre in atto una vera de-mocrazia. In tutto ciò aveva parte la convinzione che illivello politico del paese fosse al di sotto di quel minimoch’è pur necessario per garantire una vita civile ordinatae spontanea, massime quando forze ostili o diffidenti

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lora possibile e con matura saggezza, il problema Italia-Papato che, per il suo duplice aspetto (questione romanae rapporti Stato-Chiesa), costituiva un unicum nella sto-ria europea; ad essa si deve l’aver affrontato l’enormecongerie di questioni inerenti al passaggio da una plura-lità di Stati ad un organismo unitario, vincendo le diffi-coltà connesse a situazioni secolari, debellando i residuiborbonici o papalini, creando un’amministrazione, ini-ziando i grandi lavori pubblici, unendo i diversi esercitie le diverse marine, diminuendo i debiti e risanando ilbilancio. Certo, altri criteri potevano essere adottati:meno accentratori e più rispettosi delle autonomie regio-nali e locali, meno ancorati alla paperasserie della buro-crazia d’origine subalpina e più fiduciosi nella volontà ecapacità di fare degli altri italiani. Erano queste le criti-che che si udivano nel paese e che trovavano un’eco nelparlamento, non solo dai banchi dell’opposizione, maanche da quelli della Destra (Minghetti era un decentra-lista). Mancò un po’ a tutti il coraggio cavouriano d’affi-darsi senza riserve alla libertà: il tesoro conquistatodell’unità nazionale appariva troppo prezioso, e i perico-li ancora troppo vicini, perché si osasse procedere conmaggiore arditezza e non si preferisse agire dall’alto emagari dall’esterno. La stessa Sinistra, più tardi, nonmuterà la rotta, rinunciando a porre in atto una vera de-mocrazia. In tutto ciò aveva parte la convinzione che illivello politico del paese fosse al di sotto di quel minimoch’è pur necessario per garantire una vita civile ordinatae spontanea, massime quando forze ostili o diffidenti

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(anche nell’ambito internazionale) siano ancora prontead esercitare un’opera dissolvitrice. Per questo, lo scopopiù alto che si proponeva la Destra, il compito che rias-sumeva in sé tutti gli altri era quello educativo. E quil’animus dei liberali si chiariva per intero e attingeva ilsuo vertice. «Noi abbiamo una immensa corruzione aspazzare – diceva Luigi Settembrini inaugurando il 7 lu-glio del ’61 una scuola serale a Napoli – una grandeignoranza ad illuminare, moltissimi errori a vincere, unantico e ignobile ozio a scuotere; e dobbiamo ispirare lafede della libertà e dell’avvenire nei petti d’una gentestata serva per lunghissimi secoli. Onde a me pare che siabbia a fare come i coloni del nuovo mondo, i quali dimano in mano si avanzano nel selvaggio deserto, abbat-tono i boschi impenetrabili, aprono vie, coltivano i nuo-vi campi, e vi piantano le città che hanno nomi e ricor-danze antiche. Il giorno in cui da noi s’apre una scuola,crediamo d’aver ottenuta una vittoria; è giorno di festa elo celebriamo con ogni solennità: perché vogliamo mo-strare al popolo che una scuola è una benedizione diDio».

Eppure, agli osservatori più attenti non sfuggiva chela destra storica era avviata al tramonto, mentre la sini-stra si rinsanguava con nuove reclute e Francesco DeSanctis parlava, appunto, di Sinistra «giovine». Questarimproverava alla vecchia classe dirigente una preoccu-pazione troppo scarsa o generica per il problema socia-le, una politica fiscale troppo «invasiva», rispetto al mo-desto aumento del ciclo produttivo, e congegnata in

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(anche nell’ambito internazionale) siano ancora prontead esercitare un’opera dissolvitrice. Per questo, lo scopopiù alto che si proponeva la Destra, il compito che rias-sumeva in sé tutti gli altri era quello educativo. E quil’animus dei liberali si chiariva per intero e attingeva ilsuo vertice. «Noi abbiamo una immensa corruzione aspazzare – diceva Luigi Settembrini inaugurando il 7 lu-glio del ’61 una scuola serale a Napoli – una grandeignoranza ad illuminare, moltissimi errori a vincere, unantico e ignobile ozio a scuotere; e dobbiamo ispirare lafede della libertà e dell’avvenire nei petti d’una gentestata serva per lunghissimi secoli. Onde a me pare che siabbia a fare come i coloni del nuovo mondo, i quali dimano in mano si avanzano nel selvaggio deserto, abbat-tono i boschi impenetrabili, aprono vie, coltivano i nuo-vi campi, e vi piantano le città che hanno nomi e ricor-danze antiche. Il giorno in cui da noi s’apre una scuola,crediamo d’aver ottenuta una vittoria; è giorno di festa elo celebriamo con ogni solennità: perché vogliamo mo-strare al popolo che una scuola è una benedizione diDio».

Eppure, agli osservatori più attenti non sfuggiva chela destra storica era avviata al tramonto, mentre la sini-stra si rinsanguava con nuove reclute e Francesco DeSanctis parlava, appunto, di Sinistra «giovine». Questarimproverava alla vecchia classe dirigente una preoccu-pazione troppo scarsa o generica per il problema socia-le, una politica fiscale troppo «invasiva», rispetto al mo-desto aumento del ciclo produttivo, e congegnata in

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modo da colpire più i piccoli ceti e quelli popolari chenon gli abbienti, così che – secondo la testimonianza delVillari – non erano pochi coloro i quali giudicavano lapolitica governativa «tutta a benefizio d’una sola classee non la più numerosa». Aleggiava poi un altro contra-sto, sul modo stesso d’intendere il concetto e le funzionidello Stato, tra un gruppo di destra, che faceva capo aSilvio Spaventa, e gli uomini di sinistra e del centro:orientato il primo verso uno Stato forte che risolvesse insé gl’individui, che esercitasse compiti sempre più im-pegnativi, che attuasse la sua natura etica; convinti i se-condi che la sorgente della vita morale dovesse semprericondursi alla persona umana, e che a uno Stato nelquale il principio autoritario sia tenuto troppo in onore,non possa lungamente mantenersi nelle vie della liber-tà». Così nel ’76 il Correnti, antico patriota milanese del’48 e poi deputato alla Camera subalpina, che sedeva suibanchi del centro ma aveva ormai aderito alla Sinistraed era, anzi, un ispiratore ed un consigliere del Depretis.Tuttavia, più che nell’esattezza delle singole critiche onella validità di specifiche accuse, il declino della De-stra s’avvertiva nella scarsa capacità di rinnovamento,nel rinchiudersi più che nell’ampliarsi dei suoi quadri,nella diminuita sintonia tra l’esigenze del paese e l’éliteche la governava. Ma se i destri si meritavano l’appella-tivo polemico di consorti, ciò non voleva dire che essipotessero trasformarsi, come taluni vagheggiavano, inun solido e autorevole partito conservatore. Già il nomerepugnava al loro spirito educato al liberalismo cavou-

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modo da colpire più i piccoli ceti e quelli popolari chenon gli abbienti, così che – secondo la testimonianza delVillari – non erano pochi coloro i quali giudicavano lapolitica governativa «tutta a benefizio d’una sola classee non la più numerosa». Aleggiava poi un altro contra-sto, sul modo stesso d’intendere il concetto e le funzionidello Stato, tra un gruppo di destra, che faceva capo aSilvio Spaventa, e gli uomini di sinistra e del centro:orientato il primo verso uno Stato forte che risolvesse insé gl’individui, che esercitasse compiti sempre più im-pegnativi, che attuasse la sua natura etica; convinti i se-condi che la sorgente della vita morale dovesse semprericondursi alla persona umana, e che a uno Stato nelquale il principio autoritario sia tenuto troppo in onore,non possa lungamente mantenersi nelle vie della liber-tà». Così nel ’76 il Correnti, antico patriota milanese del’48 e poi deputato alla Camera subalpina, che sedeva suibanchi del centro ma aveva ormai aderito alla Sinistraed era, anzi, un ispiratore ed un consigliere del Depretis.Tuttavia, più che nell’esattezza delle singole critiche onella validità di specifiche accuse, il declino della De-stra s’avvertiva nella scarsa capacità di rinnovamento,nel rinchiudersi più che nell’ampliarsi dei suoi quadri,nella diminuita sintonia tra l’esigenze del paese e l’éliteche la governava. Ma se i destri si meritavano l’appella-tivo polemico di consorti, ciò non voleva dire che essipotessero trasformarsi, come taluni vagheggiavano, inun solido e autorevole partito conservatore. Già il nomerepugnava al loro spirito educato al liberalismo cavou-

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riano e sempre vigile nella tutela dello Stato contro glieventuali ritorni offensivi della Chiesa. E poi chi ammi-rava l’antica e gloriosa quercia del conservatorismo illu-minato britannico, smarriva il senso della profonda dif-ferenza tra i due paesi. L’Italia non aveva grandi ric-chezze, secolari istituti, interessi radicati da tutelare ge-losamente: era una creazione in gran parte nuova, un or-ganismo giovane. Le conquiste ch’esigevano d’esseread ogni costo mantenute e difese erano l’unità nazionalee i diritti di libertà, ma su questi punti destra e sinistraconcordavano pienamente nonostante le polemiche. Edanche la monarchia s’era imposta agli uni e agli altri,malgrado l’ambiguità di quella formula, «per grazia diDio e volontà della nazione», dov’era chiaro che sel’accento batteva sul secondo termine, tuttavia persiste-va un residuo di diritto divino. Un partito conservatorein Italia, più che un interprete di bisogni realmente sen-titi come in Inghilterra, avrebbe finito col diventare si-nonimo di retrivo e di reazionario. E come tali si palesa-vano i superstiti difensori della causa borbonica, le fa-miglie dell’aristocrazia nera che avevano chiuso il por-tone dei loro palazzi dopo il 20 settembre, i gruppi cleri-cali che sognavano il ritorno del papa-re. Ma erano relit-ti del passato e la vita politica del paese camminava or-mai in tutt’altra direzione.

L’esaurirsi della Destra sfociò nella cosiddetta «rivo-luzione parlamentare» del marzo ’76 e nell’avvento alpotere della Sinistra guidata da uno dei suoi uomini piùpreparati e temperati, di stampo piemontese, Agostino

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riano e sempre vigile nella tutela dello Stato contro glieventuali ritorni offensivi della Chiesa. E poi chi ammi-rava l’antica e gloriosa quercia del conservatorismo illu-minato britannico, smarriva il senso della profonda dif-ferenza tra i due paesi. L’Italia non aveva grandi ric-chezze, secolari istituti, interessi radicati da tutelare ge-losamente: era una creazione in gran parte nuova, un or-ganismo giovane. Le conquiste ch’esigevano d’esseread ogni costo mantenute e difese erano l’unità nazionalee i diritti di libertà, ma su questi punti destra e sinistraconcordavano pienamente nonostante le polemiche. Edanche la monarchia s’era imposta agli uni e agli altri,malgrado l’ambiguità di quella formula, «per grazia diDio e volontà della nazione», dov’era chiaro che sel’accento batteva sul secondo termine, tuttavia persiste-va un residuo di diritto divino. Un partito conservatorein Italia, più che un interprete di bisogni realmente sen-titi come in Inghilterra, avrebbe finito col diventare si-nonimo di retrivo e di reazionario. E come tali si palesa-vano i superstiti difensori della causa borbonica, le fa-miglie dell’aristocrazia nera che avevano chiuso il por-tone dei loro palazzi dopo il 20 settembre, i gruppi cleri-cali che sognavano il ritorno del papa-re. Ma erano relit-ti del passato e la vita politica del paese camminava or-mai in tutt’altra direzione.

L’esaurirsi della Destra sfociò nella cosiddetta «rivo-luzione parlamentare» del marzo ’76 e nell’avvento alpotere della Sinistra guidata da uno dei suoi uomini piùpreparati e temperati, di stampo piemontese, Agostino

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Depretis. Nulla di rivoluzionario nel fatto (se mai la pro-va d’un normale avvicendarsi dei partiti e quindi d’unconsolidarsi dell’istituto parlamentare) e nemmeno nelprogramma che venne enunciato a Stradella e ripetuto aMontecitorio: riordinamento amministrativo, perequa-zione delle imposte, maggiori autonomie comunali,istruzione elementare obbligatoria e gratuita, provviden-ze per le «classi diseredate» (ma sempre nel senso disoccorsi, d’opere pie, ecc....). In realtà la Sinistra traevala sua forza dalla media e piccola borghesia, rispecchia-va gl’interessi dei modesti coltivatori, dei professionisti,dal ceto impiegatizio, e mirava quindi ad un allargamen-to del suffragio che – limitato com’era a meno di 600mila elettori – troppo favoriva la borghesia censitaria.Senonché, a questa promessa riforma politica il Depretisgiunse solo nel 1882, avendo accordato la precedenzaad una complessa legislazione di natura economica eamministrativa. L’ampliata famiglia elettorale (2 milionidi persone) segnava l’ingresso di nuove forze nella vitapubblica e quindi un modesto ma effettivo progresso insenso democratico.

Agli schieramenti di Destra e Sinistra corrispondeva-no nel paese due tendenze ed alcuni gruppi, diversi daluogo a luogo per entità e struttura, non due organismipolitici. Destra e Sinistra si giovarono dell’opera d’alcu-ne associazioni locali, spesso assai differenti da regionea regione e magari in più aspetti contrastanti, oppure dicircoli d’amici fidati, d’elettori devoti, che assolvevanoil compito d’intermediari tra i deputati e i collegi, tra

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Depretis. Nulla di rivoluzionario nel fatto (se mai la pro-va d’un normale avvicendarsi dei partiti e quindi d’unconsolidarsi dell’istituto parlamentare) e nemmeno nelprogramma che venne enunciato a Stradella e ripetuto aMontecitorio: riordinamento amministrativo, perequa-zione delle imposte, maggiori autonomie comunali,istruzione elementare obbligatoria e gratuita, provviden-ze per le «classi diseredate» (ma sempre nel senso disoccorsi, d’opere pie, ecc....). In realtà la Sinistra traevala sua forza dalla media e piccola borghesia, rispecchia-va gl’interessi dei modesti coltivatori, dei professionisti,dal ceto impiegatizio, e mirava quindi ad un allargamen-to del suffragio che – limitato com’era a meno di 600mila elettori – troppo favoriva la borghesia censitaria.Senonché, a questa promessa riforma politica il Depretisgiunse solo nel 1882, avendo accordato la precedenzaad una complessa legislazione di natura economica eamministrativa. L’ampliata famiglia elettorale (2 milionidi persone) segnava l’ingresso di nuove forze nella vitapubblica e quindi un modesto ma effettivo progresso insenso democratico.

Agli schieramenti di Destra e Sinistra corrispondeva-no nel paese due tendenze ed alcuni gruppi, diversi daluogo a luogo per entità e struttura, non due organismipolitici. Destra e Sinistra si giovarono dell’opera d’alcu-ne associazioni locali, spesso assai differenti da regionea regione e magari in più aspetti contrastanti, oppure dicircoli d’amici fidati, d’elettori devoti, che assolvevanoil compito d’intermediari tra i deputati e i collegi, tra

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Roma e la provincia. Una salda e compatta organizza-zione di partito, centrale e periferica, nascerà soltantocol socialismo. Scarsi, poi, i contatti con i partiti europeisimilari, nonostante che si guardasse molto, anche trop-po, ai modelli britannici, e si seguisse con interesse evi-dente l’esperienza parlamentare e le lotte politiche dellaTerza Repubblica. Al Bismarck guarderà sopra tutto ilCrispi, che ambiva a rispecchiarne, in Italia, la forza,l’autorità e il prestigio. I liberali della Destra avevanoauspicato per il nostro paese il consolidarsi e il recipro-co differenziarsi di due partiti destinati ad alternarsi algoverno secondo l’esemplare vicenda del parlamentari-smo inglese. Al contrario, negli ambienti di Sinistra e dicentro prevaleva un diverso concetto, e la soluzione ve-niva prospettata nel senso di ricostituire una stabilemaggioranza che, rinnovando il miracolo cavouriano,garantisse la continuità e la sicurezza governativa, mas-sime alla vigilia di un’ampia e necessaria opera di rifor-me democratiche. «Due partiti che si bilanciano e si sor-vegliano – scriveva il Correnti nel ’76 – finiranno, comedue forze equilibrate, a rallentare l’attività del governo».E così pensava pure il Depretis, che intendeva sollecita-re l’accostamento e la compenetrazione di Destra e Sini-stra, promovendo lo sfaldarsi degli schieramenti storicied il coagularsi di tutte le forze «sinceramente progres-siste», qualunque fosse la loro origine, intorno ad unprogramma comune. Il quale si riassumeva nel proposi-to di «compiere il vangelo civile della nostra risurrezio-ne», senza attardarsi a «ricopiare sempre i vecchi salmi

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Roma e la provincia. Una salda e compatta organizza-zione di partito, centrale e periferica, nascerà soltantocol socialismo. Scarsi, poi, i contatti con i partiti europeisimilari, nonostante che si guardasse molto, anche trop-po, ai modelli britannici, e si seguisse con interesse evi-dente l’esperienza parlamentare e le lotte politiche dellaTerza Repubblica. Al Bismarck guarderà sopra tutto ilCrispi, che ambiva a rispecchiarne, in Italia, la forza,l’autorità e il prestigio. I liberali della Destra avevanoauspicato per il nostro paese il consolidarsi e il recipro-co differenziarsi di due partiti destinati ad alternarsi algoverno secondo l’esemplare vicenda del parlamentari-smo inglese. Al contrario, negli ambienti di Sinistra e dicentro prevaleva un diverso concetto, e la soluzione ve-niva prospettata nel senso di ricostituire una stabilemaggioranza che, rinnovando il miracolo cavouriano,garantisse la continuità e la sicurezza governativa, mas-sime alla vigilia di un’ampia e necessaria opera di rifor-me democratiche. «Due partiti che si bilanciano e si sor-vegliano – scriveva il Correnti nel ’76 – finiranno, comedue forze equilibrate, a rallentare l’attività del governo».E così pensava pure il Depretis, che intendeva sollecita-re l’accostamento e la compenetrazione di Destra e Sini-stra, promovendo lo sfaldarsi degli schieramenti storicied il coagularsi di tutte le forze «sinceramente progres-siste», qualunque fosse la loro origine, intorno ad unprogramma comune. Il quale si riassumeva nel proposi-to di «compiere il vangelo civile della nostra risurrezio-ne», senza attardarsi a «ricopiare sempre i vecchi salmi

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dei profeti caduti». Era il preannuncio del trasformismo,non dissimile come criterio ispiratore e come tattica dalconnubio, ma diverso nei risultati per il mutato climastorico e politico. Ed a questo, non al trasformismo,deve imputarsi se, nel dissolversi delle formazioni tradi-zionali, sia emerso il giuoco delle clientele e sia affiora-ta la tendenza a risolvere in modo particolaristico edempirico i maggiori problemi nazionali, e di poco opunto sia migliorata l’educazione politica degli italiani.

Nel paese cominciarono ad aversi, massime nel Mez-zogiorno, tante democrazie e tanti liberalismi quanti era-no gli uomini politici, che dicevano di militare in quellefile, ed i loro gruppi di devoti sodali. «I deputati – con-fessava lo Zanardelli in un discorso ad Iseo del 1878 –sono spesso invincibilmente legati agli interessi di cam-panile, al tirannico patronato di pochi individui, devonorendersi, anziché i rappresentanti della nazione, i procu-ratori degli elettori, sono talvolta costretti a frequentarepiù che la Camera l’anticamera dei ministri. L’atmosferaparlamentare non meno che l’amministrativa appare daquest’esigenza turbata e viziata». Di qui le numerosecritiche antiparlamentaristiche fiorite nell’ultimo ven-tennio del secolo scorso, ed alle quali scrittori e studiosidi cose politiche diedero un notevole contributo. Manon bisogna fraintenderne il significato: quelle voci era-no l’effetto della delusione di chi, avendo sognato e spe-rato un perfetto funzionamento dell’assemblea rappre-sentativa, si accorava di doverne constatare le manche-volezze, i ritardi, gli ostacoli, le piccole o grandi miserie

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dei profeti caduti». Era il preannuncio del trasformismo,non dissimile come criterio ispiratore e come tattica dalconnubio, ma diverso nei risultati per il mutato climastorico e politico. Ed a questo, non al trasformismo,deve imputarsi se, nel dissolversi delle formazioni tradi-zionali, sia emerso il giuoco delle clientele e sia affiora-ta la tendenza a risolvere in modo particolaristico edempirico i maggiori problemi nazionali, e di poco opunto sia migliorata l’educazione politica degli italiani.

Nel paese cominciarono ad aversi, massime nel Mez-zogiorno, tante democrazie e tanti liberalismi quanti era-no gli uomini politici, che dicevano di militare in quellefile, ed i loro gruppi di devoti sodali. «I deputati – con-fessava lo Zanardelli in un discorso ad Iseo del 1878 –sono spesso invincibilmente legati agli interessi di cam-panile, al tirannico patronato di pochi individui, devonorendersi, anziché i rappresentanti della nazione, i procu-ratori degli elettori, sono talvolta costretti a frequentarepiù che la Camera l’anticamera dei ministri. L’atmosferaparlamentare non meno che l’amministrativa appare daquest’esigenza turbata e viziata». Di qui le numerosecritiche antiparlamentaristiche fiorite nell’ultimo ven-tennio del secolo scorso, ed alle quali scrittori e studiosidi cose politiche diedero un notevole contributo. Manon bisogna fraintenderne il significato: quelle voci era-no l’effetto della delusione di chi, avendo sognato e spe-rato un perfetto funzionamento dell’assemblea rappre-sentativa, si accorava di doverne constatare le manche-volezze, i ritardi, gli ostacoli, le piccole o grandi miserie

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ben note ai corridoi di Montecitorio, e s’illudeva che imali fossero dell’istituto, del suo congegno, del governoparlamentare, e non s’avvedeva (o non osava confessar-lo a se stesso e agli altri) che essi riflettevano le imma-turità politiche degli italiani. D’altra parte, poiché quellecritiche s’industriavano a concretarsi in proposte di ri-medi, salvo poi scorgerne la vacuità, ma non si traduce-vano in negazioni della sovranità popolare e dei diritti dilibertà, era palese com’esse fossero, in ultima analisi,una testimonianza d’affetto e di attaccamento agli istitu-ti medesimi, non un sintomo d’eversione e di rivolta.

Con il decennio crispino, vale a dire con il profilarsidi tendenze autoritarie, la vita italiana conobbe i primipericoli della cosiddetta maniera forte, d’una politicache tende a staccarsi dalla realtà del paese, col prevaleredei criteri di prestigio e con un più largo uso dei metodidi polizia. Vita politica anemica e democrazia slombata;cominciavano a chiamarsi democratici anche gli autenti-ci reazionari, in cui non vibrava più nemmeno l’eco lon-tana d’una schietta fede liberale. Ma c’erano all’opposi-zione gruppi vigilanti, quasi antichi cavalieri dell’ideale;e fermentavano, nel cuore del paese, le nuove forze delproletariato.

* * *

Via via che la Sinistra «vecchia» o «giovine», daquella più temperata del Depretis, d’eredità subalpina, aquella più accesa e combattiva del Nicotera o del Crispi,

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ben note ai corridoi di Montecitorio, e s’illudeva che imali fossero dell’istituto, del suo congegno, del governoparlamentare, e non s’avvedeva (o non osava confessar-lo a se stesso e agli altri) che essi riflettevano le imma-turità politiche degli italiani. D’altra parte, poiché quellecritiche s’industriavano a concretarsi in proposte di ri-medi, salvo poi scorgerne la vacuità, ma non si traduce-vano in negazioni della sovranità popolare e dei diritti dilibertà, era palese com’esse fossero, in ultima analisi,una testimonianza d’affetto e di attaccamento agli istitu-ti medesimi, non un sintomo d’eversione e di rivolta.

Con il decennio crispino, vale a dire con il profilarsidi tendenze autoritarie, la vita italiana conobbe i primipericoli della cosiddetta maniera forte, d’una politicache tende a staccarsi dalla realtà del paese, col prevaleredei criteri di prestigio e con un più largo uso dei metodidi polizia. Vita politica anemica e democrazia slombata;cominciavano a chiamarsi democratici anche gli autenti-ci reazionari, in cui non vibrava più nemmeno l’eco lon-tana d’una schietta fede liberale. Ma c’erano all’opposi-zione gruppi vigilanti, quasi antichi cavalieri dell’ideale;e fermentavano, nel cuore del paese, le nuove forze delproletariato.

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Via via che la Sinistra «vecchia» o «giovine», daquella più temperata del Depretis, d’eredità subalpina, aquella più accesa e combattiva del Nicotera o del Crispi,

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ch’era figlia del partito d’azione, si faceva ministerale,la tradizione di Mazzini e Garibaldi, anche se invocata,non albergava più nelle sue fila. Lo spirito dei Dioscuridella democrazia italiana era altrove, e veniva alimenta-to con una devozione anche troppo formale da gruppiminori. Il partito repubblicano-mazziniano di stretta os-servanza, dopo la morte del Maestro, continuò a tenerecongressi e ad agitarsi, ma perdeva molti seguaci e tral’80 e il ’90 pesava ormai poco nella vita italiana. Alcu-ni proseliti che sentivano la sterilità della loro posizionesul terreno politico, e che d’altra parte non intendevanoabbandonare gl’ideali democratici accodandosi alle for-ze governative, diedero vita nel 1878, sotto la guidad’Agostino Bertani, al partito radicale che accettava ilregime istituzionale monarchico ma non consentivanell’indirizzo troppo accomodante del Depretis o delCairoli. Il Bertani oltre che studioso del Cattaneo n’eraun po’ l’erede spirituale, sia per la fermezza delle con-vinzioni, sia per il senso positivo dei problemi. Nel suoprogramma l’idea della nazione armata veniva appuntodal Cattaneo, mentre la richiesta del suffragio universalerinnovava un postulato mazziniano. I radicali volevano,inoltre, l’autonomia della magistratura, l’abolizione deimonopoli, le bonifiche, la riforma della scuola, delleopere pie e del sistema penitenziario. Un programma,come si vede, d’ardita democrazia senza compromessiconservatori; ciò significava opporsi al trasformismo,mantenere un’attitudine di critica vigile e aperta. Nelparlamento, accanto al gruppo radicale, sedettero i pochi

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ch’era figlia del partito d’azione, si faceva ministerale,la tradizione di Mazzini e Garibaldi, anche se invocata,non albergava più nelle sue fila. Lo spirito dei Dioscuridella democrazia italiana era altrove, e veniva alimenta-to con una devozione anche troppo formale da gruppiminori. Il partito repubblicano-mazziniano di stretta os-servanza, dopo la morte del Maestro, continuò a tenerecongressi e ad agitarsi, ma perdeva molti seguaci e tral’80 e il ’90 pesava ormai poco nella vita italiana. Alcu-ni proseliti che sentivano la sterilità della loro posizionesul terreno politico, e che d’altra parte non intendevanoabbandonare gl’ideali democratici accodandosi alle for-ze governative, diedero vita nel 1878, sotto la guidad’Agostino Bertani, al partito radicale che accettava ilregime istituzionale monarchico ma non consentivanell’indirizzo troppo accomodante del Depretis o delCairoli. Il Bertani oltre che studioso del Cattaneo n’eraun po’ l’erede spirituale, sia per la fermezza delle con-vinzioni, sia per il senso positivo dei problemi. Nel suoprogramma l’idea della nazione armata veniva appuntodal Cattaneo, mentre la richiesta del suffragio universalerinnovava un postulato mazziniano. I radicali volevano,inoltre, l’autonomia della magistratura, l’abolizione deimonopoli, le bonifiche, la riforma della scuola, delleopere pie e del sistema penitenziario. Un programma,come si vede, d’ardita democrazia senza compromessiconservatori; ciò significava opporsi al trasformismo,mantenere un’attitudine di critica vigile e aperta. Nelparlamento, accanto al gruppo radicale, sedettero i pochi

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repubblicani con a capo Giovanni Bovio, e dopo l’allar-gamento del suffragio vi comparve l’agitatore AndreaCosta, il primo della «futura pattuglia socialista».Tutt’insieme (ma era sempre un’esigua, anche se arditae rumorosa, minoranza) costituirono l’Estrema Sinistra.La quale era dunque una amalgama d’uomini e di forzediverse, ma li accomunava il fatto d’essere i rappresen-tanti di partiti a tendenza schiettamente popolare. Certimotivi erano identici (lotta contro l’eccessivo fiscali-smo, contro l’accentramento burocratico, a favoredell’igiene pubblica), altri comuni quasi a tutti: cosìl’antitriplicismo, l’avversione all’Austria e quindi l’irre-dentismo. L’Estrema trovò il suo capo in Felice Caval-lotti, il «bardo della democrazia», spirito generoso e ca-valleresco, circondato da grande popolarità non solo nelsuo collegio elettorale di Corteolona, ma in tutta la Peni-sola. Bovio e Cavallotti erano i rappresentanti tipicid’una cultura, d’un’oratoria, d’un costume caratteristicidella democrazia italiana fine di secolo e strettamentelegata per il suo anticlericalismo, per i suoi accenti vic-torughiani, per le sue pose gladiatorie, per la sua «av-versione al tedesco», a quella radicale della Terza Re-pubblica.

Il trasformismo ebbe dunque il risultato di facilitareun’osmosi tra la Destra e la Sinistra, isolando le tenden-ze più conservatrici e clericali e, al polo opposto, pro-movendo il formarsi dell’Estrema. Quando questa saràcomposta in gran parte da socialisti, il partito radicaleverrà sospinto su un piano diverso, quasi di ponte tra

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repubblicani con a capo Giovanni Bovio, e dopo l’allar-gamento del suffragio vi comparve l’agitatore AndreaCosta, il primo della «futura pattuglia socialista».Tutt’insieme (ma era sempre un’esigua, anche se arditae rumorosa, minoranza) costituirono l’Estrema Sinistra.La quale era dunque una amalgama d’uomini e di forzediverse, ma li accomunava il fatto d’essere i rappresen-tanti di partiti a tendenza schiettamente popolare. Certimotivi erano identici (lotta contro l’eccessivo fiscali-smo, contro l’accentramento burocratico, a favoredell’igiene pubblica), altri comuni quasi a tutti: cosìl’antitriplicismo, l’avversione all’Austria e quindi l’irre-dentismo. L’Estrema trovò il suo capo in Felice Caval-lotti, il «bardo della democrazia», spirito generoso e ca-valleresco, circondato da grande popolarità non solo nelsuo collegio elettorale di Corteolona, ma in tutta la Peni-sola. Bovio e Cavallotti erano i rappresentanti tipicid’una cultura, d’un’oratoria, d’un costume caratteristicidella democrazia italiana fine di secolo e strettamentelegata per il suo anticlericalismo, per i suoi accenti vic-torughiani, per le sue pose gladiatorie, per la sua «av-versione al tedesco», a quella radicale della Terza Re-pubblica.

Il trasformismo ebbe dunque il risultato di facilitareun’osmosi tra la Destra e la Sinistra, isolando le tenden-ze più conservatrici e clericali e, al polo opposto, pro-movendo il formarsi dell’Estrema. Quando questa saràcomposta in gran parte da socialisti, il partito radicaleverrà sospinto su un piano diverso, quasi di ponte tra

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l’opposizione estremista e le forze costituzionali: finiràcosì col diventare partito di governo e col parteciparviin larga e crescente misura. Se nei loro esordi i radicaliebbero accanto Andrea Costa, dopo il 1913 avranno vi-cini Bissolati e Bonomi, cioè i socialriformisti. Eral’evoluzione logica del radicalismo (l’origine del termi-ne in senso politico – se non andiamo errati – risaleall’opera di Geremia Bentham, Radicalism not dange-rous, scritta tra il 1819 e il 1820) nella situazione storicaitaliana.

Verso la fine del secolo scorso, o meglio poco dopo il’90, la democrazia cavallottiana, radicale, e le schiererepubblicane guidate da Dario Papa, si rinsanguarono,massime nel nord d’Italia, assorbendo numerose reclutedalla media e piccola borghesia. A Milano le posizionierano abbastanza chiare e ben espresse dai vari giornali:i conservatori ed i reazionari stretti intorno alla Perseve-ranza, i liberali moderati all’ombra del Corriere dellaSera, i democratico-radicali intorno al Secolo di Romus-si, più tardi i socialisti intorno all’Avanti! (prima roma-no e poi ambrosiano).

Le forze di sinistra si sentivano solidali e ciò contri-buì ad agevolare la loro alleanza dopo la crisi del ’98.Ma l’ascesa vittoriosa e compatta del socialismo segna-va inevitabilmente la crisi di tutta la democrazia di tiporisorgimentale. La democrazia – scriveva Filippo Turatinella Critica sociale (16-I-1892) – potrebbe trovare unaragion d’essere a condizione di far propria la difesa de-gli interessi e dei diritti proletari, oppure di «limitarsi ad

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l’opposizione estremista e le forze costituzionali: finiràcosì col diventare partito di governo e col parteciparviin larga e crescente misura. Se nei loro esordi i radicaliebbero accanto Andrea Costa, dopo il 1913 avranno vi-cini Bissolati e Bonomi, cioè i socialriformisti. Eral’evoluzione logica del radicalismo (l’origine del termi-ne in senso politico – se non andiamo errati – risaleall’opera di Geremia Bentham, Radicalism not dange-rous, scritta tra il 1819 e il 1820) nella situazione storicaitaliana.

Verso la fine del secolo scorso, o meglio poco dopo il’90, la democrazia cavallottiana, radicale, e le schiererepubblicane guidate da Dario Papa, si rinsanguarono,massime nel nord d’Italia, assorbendo numerose reclutedalla media e piccola borghesia. A Milano le posizionierano abbastanza chiare e ben espresse dai vari giornali:i conservatori ed i reazionari stretti intorno alla Perseve-ranza, i liberali moderati all’ombra del Corriere dellaSera, i democratico-radicali intorno al Secolo di Romus-si, più tardi i socialisti intorno all’Avanti! (prima roma-no e poi ambrosiano).

Le forze di sinistra si sentivano solidali e ciò contri-buì ad agevolare la loro alleanza dopo la crisi del ’98.Ma l’ascesa vittoriosa e compatta del socialismo segna-va inevitabilmente la crisi di tutta la democrazia di tiporisorgimentale. La democrazia – scriveva Filippo Turatinella Critica sociale (16-I-1892) – potrebbe trovare unaragion d’essere a condizione di far propria la difesa de-gli interessi e dei diritti proletari, oppure di «limitarsi ad

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essere l’incarnazione sincera della nuova borghesia libe-rale di fronte agli elementi medioevali schietti e medioe-vali spurii, che rimangono tuttora sparsi nella Camera,nel Senato, nel governo e sopra il governo». La conclu-sione logica, in questo secondo caso, sarebbe stata unarepubblica borghese come in Francia, ma che «avrebbepur segnato nel campo politico un passo verso l’avveni-re, perché avrebbe contribuito.... a semplificare le que-stioni, a preparare le nuove e definitive battaglie fra dueeserciti distinti e precisi: la borghesia e il proletariato in-sorgente». E Turati ribadiva nella stessa rivista (16-III-1892): «Il giorno che avremo anche in Italia una fortedemocrazia industriale, quel giorno avremo pure un pro-letariato più forte. Questo limbo italico di mezze tinte,di mezze classi, di mezzi partiti, di mezze idee e di mez-ze persone, sarà infine sgominato e distrutto».

Era una diagnosi esatta della situazione nella quale ilsocialismo nascente si preparava ad agire.

* * *

Il partito socialista italiano venne fondato nel 1892, inquel congresso della sala Sivori a Genova dove si attuòla separazione dal gruppo anarchico. Ma la sua nascitanon può essere intesa se non attraverso le contrastantiesperienze che l’hanno preceduta. Il frazionamento poli-tico, la prevalenza agricola, la povertà industriale, la de-bole struttura capitalistica del nostro paese non solo ri-tardarono il sorgere di forti istanze sociali, ma fecero sì

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essere l’incarnazione sincera della nuova borghesia libe-rale di fronte agli elementi medioevali schietti e medioe-vali spurii, che rimangono tuttora sparsi nella Camera,nel Senato, nel governo e sopra il governo». La conclu-sione logica, in questo secondo caso, sarebbe stata unarepubblica borghese come in Francia, ma che «avrebbepur segnato nel campo politico un passo verso l’avveni-re, perché avrebbe contribuito.... a semplificare le que-stioni, a preparare le nuove e definitive battaglie fra dueeserciti distinti e precisi: la borghesia e il proletariato in-sorgente». E Turati ribadiva nella stessa rivista (16-III-1892): «Il giorno che avremo anche in Italia una fortedemocrazia industriale, quel giorno avremo pure un pro-letariato più forte. Questo limbo italico di mezze tinte,di mezze classi, di mezzi partiti, di mezze idee e di mez-ze persone, sarà infine sgominato e distrutto».

Era una diagnosi esatta della situazione nella quale ilsocialismo nascente si preparava ad agire.

* * *

Il partito socialista italiano venne fondato nel 1892, inquel congresso della sala Sivori a Genova dove si attuòla separazione dal gruppo anarchico. Ma la sua nascitanon può essere intesa se non attraverso le contrastantiesperienze che l’hanno preceduta. Il frazionamento poli-tico, la prevalenza agricola, la povertà industriale, la de-bole struttura capitalistica del nostro paese non solo ri-tardarono il sorgere di forti istanze sociali, ma fecero sì

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che la democrazia e le prime tendenze socialiste si svi-luppassero intorno «al filone storico del rivoluzionari-smo patriottico» (Mazzini e Pisacane). Esauriti i motiviessenziali del Risorgimento, la predicazione internazio-nalista del Bakounine ed il vago socialismo di Garibaldirivelarono il persistere d’un carattere romantico, umani-tario, genericamente ribelle, che suscitava le ire diMarx, agli occhi del quale i capi del cosiddetto sociali-smo italiano apparivano degli irregolari e degli «sposta-ti», mossi dal sentimento, privi d’una precisa e consape-vole dottrina. Con l’arrivo in Italia di Benedetto Malon(1874) cominciò a profilarsi una tendenza legalitaria chesegnava la crisi del bakouninianesimo: Andrea Costapassò dall’anarchismo all’azione legale. Ormai non soloMazzini e Garibaldi «sembravano invecchiati» (nono-stante che Osvaldo Gnocchi-Viani, un tempo discepolodell’apostolo ligure, sostenesse che «tra mazzinianesimoe socialismo non c’è contraddizione, c’è un rapportoevolutivo»), ma anche l’astro dell’agitatore russo volge-va al tramonto.

Il gruppo della Plebe di Lodi e del Povero di Palermointerpretava il mutato clima e le nuove esigenze, ma nonera ancora il «socialismo». Il ponte di passaggio dal Bi-gnami e dal Gnocchi-Viani al Turati è segnato da dueordini di fatti: il diffondersi del marxismo, in armoniacon le tendenze positivistiche nel campo culturale, ilformarsi d’un gruppo di capi socialisti provenienti dallefila della borghesia intellettuale. Un terzo elemento sca-turì dalla creazione d’un «partito operaio» che operò un

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che la democrazia e le prime tendenze socialiste si svi-luppassero intorno «al filone storico del rivoluzionari-smo patriottico» (Mazzini e Pisacane). Esauriti i motiviessenziali del Risorgimento, la predicazione internazio-nalista del Bakounine ed il vago socialismo di Garibaldirivelarono il persistere d’un carattere romantico, umani-tario, genericamente ribelle, che suscitava le ire diMarx, agli occhi del quale i capi del cosiddetto sociali-smo italiano apparivano degli irregolari e degli «sposta-ti», mossi dal sentimento, privi d’una precisa e consape-vole dottrina. Con l’arrivo in Italia di Benedetto Malon(1874) cominciò a profilarsi una tendenza legalitaria chesegnava la crisi del bakouninianesimo: Andrea Costapassò dall’anarchismo all’azione legale. Ormai non soloMazzini e Garibaldi «sembravano invecchiati» (nono-stante che Osvaldo Gnocchi-Viani, un tempo discepolodell’apostolo ligure, sostenesse che «tra mazzinianesimoe socialismo non c’è contraddizione, c’è un rapportoevolutivo»), ma anche l’astro dell’agitatore russo volge-va al tramonto.

Il gruppo della Plebe di Lodi e del Povero di Palermointerpretava il mutato clima e le nuove esigenze, ma nonera ancora il «socialismo». Il ponte di passaggio dal Bi-gnami e dal Gnocchi-Viani al Turati è segnato da dueordini di fatti: il diffondersi del marxismo, in armoniacon le tendenze positivistiche nel campo culturale, ilformarsi d’un gruppo di capi socialisti provenienti dallefila della borghesia intellettuale. Un terzo elemento sca-turì dalla creazione d’un «partito operaio» che operò un

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netto e definitivo distacco dai sistemi insurrezionali delBakounine, ed assunse un atteggiamento classista cosìrigido da escludere i socialisti non operai. Milano fu ilgrande laboratorio di questo processo d’incubazione delfuturo partito socialista. Il quale nacque, in sostanza,dalla fusione del partito operaio (prima incoraggiato epoi perseguitato dal governo fino allo scioglimento av-venuto nel 1886) con i nuclei socialisti che uscivanodalle schiere della borghesia. Nell’agosto del 1891, aMilano sorse il «Partito dei lavoratori italiani»: era ilpreludio dell’assetto definitivo raggiunto a Genoval’anno seguente.

Diversa la fortuna incontrata dal socialismo, nei suoiesordi, tra regione e regione, tra città e campagna, a se-conda che si trattasse di zone ad economia agraria, indu-striale o marittima, di paesi più o meno progrediti, più omeno suscettibili d’essere sottratti alle influenze delleclientele locali, dell’autorità costituite, insomma dellavecchia classe politica. Non facile il passaggio dal coo-perativismo mazziniano al nuovo sindacalismo sociali-sta, con la necessità di provvedere in un’estrema penuriadi mezzi alla prima rete organizzativa, vincendo milleostacoli, tra cui non ultima la riluttanza, in talune pla-ghe, degli stessi lavoratori diffidenti o dubbiosi, perignoranza, per inerzia, per timore della reazione padro-nale. Cospicuo il numero dei giornaletti e dei fogli dipropaganda, notevole la loro diffusione anche nei picco-li centri: la tradizione della stampa clandestina del Ri-sorgimento apriva la via alla nuova stampa cosiddetta

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netto e definitivo distacco dai sistemi insurrezionali delBakounine, ed assunse un atteggiamento classista cosìrigido da escludere i socialisti non operai. Milano fu ilgrande laboratorio di questo processo d’incubazione delfuturo partito socialista. Il quale nacque, in sostanza,dalla fusione del partito operaio (prima incoraggiato epoi perseguitato dal governo fino allo scioglimento av-venuto nel 1886) con i nuclei socialisti che uscivanodalle schiere della borghesia. Nell’agosto del 1891, aMilano sorse il «Partito dei lavoratori italiani»: era ilpreludio dell’assetto definitivo raggiunto a Genoval’anno seguente.

Diversa la fortuna incontrata dal socialismo, nei suoiesordi, tra regione e regione, tra città e campagna, a se-conda che si trattasse di zone ad economia agraria, indu-striale o marittima, di paesi più o meno progrediti, più omeno suscettibili d’essere sottratti alle influenze delleclientele locali, dell’autorità costituite, insomma dellavecchia classe politica. Non facile il passaggio dal coo-perativismo mazziniano al nuovo sindacalismo sociali-sta, con la necessità di provvedere in un’estrema penuriadi mezzi alla prima rete organizzativa, vincendo milleostacoli, tra cui non ultima la riluttanza, in talune pla-ghe, degli stessi lavoratori diffidenti o dubbiosi, perignoranza, per inerzia, per timore della reazione padro-nale. Cospicuo il numero dei giornaletti e dei fogli dipropaganda, notevole la loro diffusione anche nei picco-li centri: la tradizione della stampa clandestina del Ri-sorgimento apriva la via alla nuova stampa cosiddetta

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«sovversiva». E tale doveva apparire, con le sue frasi in-cendiarie e «petroliere», agli occhi vigili della polizia.Ma diverso era pure il carattere dei primi nuclei sociali-sti in rapporto alla precedente e così varia fisionomiapolitica di molte contrade. Nella Romagna il socialismos’innestava sul tronco di un vigoroso repubblicanesimoe ne accoglieva l’eredità, anche patriottica, ma non riu-sciva ad assorbire la diffusa corrente anarchica del liber-tario Malatesta. Altrove, massime in Lombardia e nelPiemonte, come ricorda il Salvemini, vi fu un tempo(all’incirca tra il ’70 e il ’90) che un operaio a chiamarsirepubblicano si sarebbe vergognato come a chiamarsiquesturino. Era la necessaria opposizione del socialismomarxista contro la democrazia mazziniana ed i suoiideali. Nel periodo di Crispi e sul finire del secolo, lapolitica reazionaria umbertina modificò tale stato d’ani-mo in modo netto; ma tra i socialisti ed i repubblicanipuri rimase sempre uno stacco profondo, in quanto ilproblema istituzionale che per i primi veniva assorbitonella stessa rivoluzione sociale, per gli altri continuava avivere come antitesi formale dei due istituti, salvo con-cepire l’auspicata repubblica in un senso democratico oradicale (a seconda che la tradizione del Mazzini o delCattaneo ne fosse l’ispiratrice), non mai come premessad’uno stato marxista.

Il socialismo dei primi tempi ebbe due volti: antimili-tarista l’uno, patriottico l’altro (d’un patriottismo d’evi-dente derivazione risorgimentale); non era difficile leg-gere nei suoi giornali propositi fermi e guerrieri contro

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«sovversiva». E tale doveva apparire, con le sue frasi in-cendiarie e «petroliere», agli occhi vigili della polizia.Ma diverso era pure il carattere dei primi nuclei sociali-sti in rapporto alla precedente e così varia fisionomiapolitica di molte contrade. Nella Romagna il socialismos’innestava sul tronco di un vigoroso repubblicanesimoe ne accoglieva l’eredità, anche patriottica, ma non riu-sciva ad assorbire la diffusa corrente anarchica del liber-tario Malatesta. Altrove, massime in Lombardia e nelPiemonte, come ricorda il Salvemini, vi fu un tempo(all’incirca tra il ’70 e il ’90) che un operaio a chiamarsirepubblicano si sarebbe vergognato come a chiamarsiquesturino. Era la necessaria opposizione del socialismomarxista contro la democrazia mazziniana ed i suoiideali. Nel periodo di Crispi e sul finire del secolo, lapolitica reazionaria umbertina modificò tale stato d’ani-mo in modo netto; ma tra i socialisti ed i repubblicanipuri rimase sempre uno stacco profondo, in quanto ilproblema istituzionale che per i primi veniva assorbitonella stessa rivoluzione sociale, per gli altri continuava avivere come antitesi formale dei due istituti, salvo con-cepire l’auspicata repubblica in un senso democratico oradicale (a seconda che la tradizione del Mazzini o delCattaneo ne fosse l’ispiratrice), non mai come premessad’uno stato marxista.

Il socialismo dei primi tempi ebbe due volti: antimili-tarista l’uno, patriottico l’altro (d’un patriottismo d’evi-dente derivazione risorgimentale); non era difficile leg-gere nei suoi giornali propositi fermi e guerrieri contro

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qualunque tiranno esterno «volesse conquistare la terraove viviamo». E quando giunse la notizia del sacrificiodi Guglielmo Oberdan, al monito carducciano s’unì ilsolidale rispetto del forte gruppo socialista lodigiano:«Ammiratori dei forti e generosi caratteri, dinanzi al ca-davere di Oberdan ci scopriamo reverenti il capo, e pen-siamo con dolore e nausea a quell’Italia redenta.... ecc.»(La Plebe, 24-XII-1882). Il divorzio tra l’atteggiamentodel partito socialista e la «politica nazionale» si operòdurante gli ultimi anni del governo crispino, quando letendenze espansionistiche, ed autoritarie all’interno, del-lo statista siciliano provocarono una reazione delle clas-si popolari. Ma vi contribuirono le grandi speranze in-ternazionalistiche (la II Internazionale era sorta nel1889) alimentate dal fiorire dei socialismi europei, dailoro frequenti contatti, dalla fiducia che un’azione con-corde potesse impedire ai governi capitalistico-borghesidi lanciarsi in nuove guerre.

Il partito socialista italiano, assai fermo in questa li-nea di condotta, parve assumere (anche per l’intempe-ranze verbali o i gesti polemici dei meno avveduti) unafisionomia antipatriottica; e tornò facile agli avversarisottolinearne il «carattere antinazionale» esasperandolo.Ma se i socialisti commisero l’errore di voler concederetroppo poco (quasi per timore di compromettere il lorointernazionalismo ed i postulati rivoluzionari) a talunivalori ideali ed al riconoscimento di concrete esigenzedella posizione dell’Italia in Europa, tuttavia furono pro-prio essi a recare nella vita unitaria della nazione un

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qualunque tiranno esterno «volesse conquistare la terraove viviamo». E quando giunse la notizia del sacrificiodi Guglielmo Oberdan, al monito carducciano s’unì ilsolidale rispetto del forte gruppo socialista lodigiano:«Ammiratori dei forti e generosi caratteri, dinanzi al ca-davere di Oberdan ci scopriamo reverenti il capo, e pen-siamo con dolore e nausea a quell’Italia redenta.... ecc.»(La Plebe, 24-XII-1882). Il divorzio tra l’atteggiamentodel partito socialista e la «politica nazionale» si operòdurante gli ultimi anni del governo crispino, quando letendenze espansionistiche, ed autoritarie all’interno, del-lo statista siciliano provocarono una reazione delle clas-si popolari. Ma vi contribuirono le grandi speranze in-ternazionalistiche (la II Internazionale era sorta nel1889) alimentate dal fiorire dei socialismi europei, dailoro frequenti contatti, dalla fiducia che un’azione con-corde potesse impedire ai governi capitalistico-borghesidi lanciarsi in nuove guerre.

Il partito socialista italiano, assai fermo in questa li-nea di condotta, parve assumere (anche per l’intempe-ranze verbali o i gesti polemici dei meno avveduti) unafisionomia antipatriottica; e tornò facile agli avversarisottolinearne il «carattere antinazionale» esasperandolo.Ma se i socialisti commisero l’errore di voler concederetroppo poco (quasi per timore di compromettere il lorointernazionalismo ed i postulati rivoluzionari) a talunivalori ideali ed al riconoscimento di concrete esigenzedella posizione dell’Italia in Europa, tuttavia furono pro-prio essi a recare nella vita unitaria della nazione un

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contributo di prim’ordine. Fu il partito socialista chesciolse definitivamente la mentalità municipale, che sipose con la sua organizzazione su un piano del tutto na-zionale, che diede alle competizioni elettorali il respirod’una lotta che investiva l’intero paese, senza frazionar-si in conventicole di regione o di campanile. Il fatto cheun uomo politico catanese venisse eletto a Milano, vole-va dire che gli elettori sapevano guardare, di là dallepersone, all’idea, al programma; era disciplina di parti-to, senza dubbio dannosa se portata all’estreme conse-guenze, per l’automatismo che ne poteva derivare, mautile a far sentire come il movimento socialista fosseuna cosa sola dall’Alpi alla Sicilia.

Dal punto di vista dottrinario, se prima dell’80 aveva-no dominato i bakouniniani e nel decennio seguente pre-valsero i maloniani, dopo il ’90 i marxisti (ch’ebberonella Critica Sociale il loro organo più vivo e cospicuo)s’imposero. La storia del marxismo teorico in Italia (conla figura di Antonio Labriola al centro) l’ha scritta ilCroce, che n’ebbe parte autorevole e vi operò da reagen-te chimico. Naturalmente, una short story, che tuttaviaandrebbe integrata con un’analisi della letteratura politi-ca più o meno genuina, ma di stampo o d’intenzionemarxista, che si diffuse e prosperò in un secondo tempo,anche in un mutato clima culturale, fino alle serie medi-tazioni del Mondolfo «sulle orme di Marx». Il nesso coni maggiori partiti socialisti europei si attuava particolar-mente con quello tedesco (modello di struttura organiz-zativa) e con l’austriaco per l’importanza della tradizio-

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contributo di prim’ordine. Fu il partito socialista chesciolse definitivamente la mentalità municipale, che sipose con la sua organizzazione su un piano del tutto na-zionale, che diede alle competizioni elettorali il respirod’una lotta che investiva l’intero paese, senza frazionar-si in conventicole di regione o di campanile. Il fatto cheun uomo politico catanese venisse eletto a Milano, vole-va dire che gli elettori sapevano guardare, di là dallepersone, all’idea, al programma; era disciplina di parti-to, senza dubbio dannosa se portata all’estreme conse-guenze, per l’automatismo che ne poteva derivare, mautile a far sentire come il movimento socialista fosseuna cosa sola dall’Alpi alla Sicilia.

Dal punto di vista dottrinario, se prima dell’80 aveva-no dominato i bakouniniani e nel decennio seguente pre-valsero i maloniani, dopo il ’90 i marxisti (ch’ebberonella Critica Sociale il loro organo più vivo e cospicuo)s’imposero. La storia del marxismo teorico in Italia (conla figura di Antonio Labriola al centro) l’ha scritta ilCroce, che n’ebbe parte autorevole e vi operò da reagen-te chimico. Naturalmente, una short story, che tuttaviaandrebbe integrata con un’analisi della letteratura politi-ca più o meno genuina, ma di stampo o d’intenzionemarxista, che si diffuse e prosperò in un secondo tempo,anche in un mutato clima culturale, fino alle serie medi-tazioni del Mondolfo «sulle orme di Marx». Il nesso coni maggiori partiti socialisti europei si attuava particolar-mente con quello tedesco (modello di struttura organiz-zativa) e con l’austriaco per l’importanza della tradizio-

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ne dottrinale e delle crisi che vi si manifestavano. Ma, inultima analisi, la fisionomia del partito socialista italia-no fu più affine a quella del socialismo francese, sopratutto alle origini, per il suo carattere più largamente po-polare che operaio in senso stretto, per l’analogia di ta-luni problemi relativi al proletariato agricolo dei duepaesi. Se l’agitazione per il primo maggio del 1890 se-gnò l’inizio storico della solidarietà operaia in Italia, lacreazione delle Camere del Lavoro (in seguito alla visitad’un gruppo di socialisti milanesi guidati dal Gnocchi-Viani alla Borsa del Lavoro di Parigi) costituì il fonda-mento di tutta l’attività organizzativa del proletariato.Quel che il Comune fu per la borghesia medievale –dice Rinaldo Rigola con un’immagine un po’ ardita –furono le Camere del Lavoro per il proletariato moder-no.

I primi capi del socialismo apparvero veramentecome dei «profeti disarmati», o meglio armati solod’una profonda convinzione e d’un caldo senso umano.Più che le formule ad effetto o gli schemi dottrinari delverbo marxista, erano queste qualità morali che finivanocon l’imporsi, col «fare scuola», permeando le masse.Se l’azione nelle città industriali era più facile, nei pic-coli centri rurali il compito risultava assai gravoso:c’erano molte resistenze palesi ed occulte da superare,non ultima quella opposta al «materialismo ateo» dalclero. D’altra parte le misere condizioni del bracciantatonella valle padana reclamavano un’azione energica didifesa. Se la plebe rurale aveva sofferto quando la classe

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ne dottrinale e delle crisi che vi si manifestavano. Ma, inultima analisi, la fisionomia del partito socialista italia-no fu più affine a quella del socialismo francese, sopratutto alle origini, per il suo carattere più largamente po-polare che operaio in senso stretto, per l’analogia di ta-luni problemi relativi al proletariato agricolo dei duepaesi. Se l’agitazione per il primo maggio del 1890 se-gnò l’inizio storico della solidarietà operaia in Italia, lacreazione delle Camere del Lavoro (in seguito alla visitad’un gruppo di socialisti milanesi guidati dal Gnocchi-Viani alla Borsa del Lavoro di Parigi) costituì il fonda-mento di tutta l’attività organizzativa del proletariato.Quel che il Comune fu per la borghesia medievale –dice Rinaldo Rigola con un’immagine un po’ ardita –furono le Camere del Lavoro per il proletariato moder-no.

I primi capi del socialismo apparvero veramentecome dei «profeti disarmati», o meglio armati solod’una profonda convinzione e d’un caldo senso umano.Più che le formule ad effetto o gli schemi dottrinari delverbo marxista, erano queste qualità morali che finivanocon l’imporsi, col «fare scuola», permeando le masse.Se l’azione nelle città industriali era più facile, nei pic-coli centri rurali il compito risultava assai gravoso:c’erano molte resistenze palesi ed occulte da superare,non ultima quella opposta al «materialismo ateo» dalclero. D’altra parte le misere condizioni del bracciantatonella valle padana reclamavano un’azione energica didifesa. Se la plebe rurale aveva sofferto quando la classe

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padronale era rappresentata dalla vecchia aristocraziaterriera, peggio fu quando questa venne sostituita dallanuova borghesia agraria, meno illuminata e più avida,desiderosa di accrescere rapidamente i propri capitali. Inlinea di massima, l’attività socialista coincise con questafase. E fu proprio nelle campagne che il socialismo ita-liano scrisse alcune delle sue pagine più belle. Così nelreggiano, dove brillò la figura «apostolica» di CamilloPrampolini, vero sacerdote laico che univa ad una fermaintransigenza politica (e seppe manifestarla alla Cameranegli anni difficili del ’98-’99) una tattica conciliante epur fruttuosa di risultati concreti. Era soprattutto un’altacoscienza morale e, quindi, un educatore: mirava a rea-lizzare un’ascesa graduale delle classi lavoratrici nel tri-plice aspetto dell’istruzione, del livello economico, dellacapacità politica. Così nel Polesine, dove l’opera instan-cabile di Nicola Badaloni elevò la massa dei contadiniad una forma decorosa di vita sociale. Le leghe cresce-vano di numero, di forza, di compattezza: si delineaval’edificio della Confederazione generale del Lavoro. Tragli operai dei centri urbani si formò un piccolo statomaggiore d’organizzatori, taluni destinati a salire ad altiposti di comando: Carlo Azimonti da operaio tessile asindaco di Busto Arsizio; Rinaldo Rigola da falegnamea pubblicista, deputato, segretario della Confederazionedel Lavoro; Pietro Chiesa e Lodovico Calda da semplicioperai a capi dell’organizzazione proletaria genovese. Epoi, nel ceto borghese, spiccate personalità d’intellettua-li, di studiosi, di giornalisti: Adolfo Zerboglio, Leonida

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padronale era rappresentata dalla vecchia aristocraziaterriera, peggio fu quando questa venne sostituita dallanuova borghesia agraria, meno illuminata e più avida,desiderosa di accrescere rapidamente i propri capitali. Inlinea di massima, l’attività socialista coincise con questafase. E fu proprio nelle campagne che il socialismo ita-liano scrisse alcune delle sue pagine più belle. Così nelreggiano, dove brillò la figura «apostolica» di CamilloPrampolini, vero sacerdote laico che univa ad una fermaintransigenza politica (e seppe manifestarla alla Cameranegli anni difficili del ’98-’99) una tattica conciliante epur fruttuosa di risultati concreti. Era soprattutto un’altacoscienza morale e, quindi, un educatore: mirava a rea-lizzare un’ascesa graduale delle classi lavoratrici nel tri-plice aspetto dell’istruzione, del livello economico, dellacapacità politica. Così nel Polesine, dove l’opera instan-cabile di Nicola Badaloni elevò la massa dei contadiniad una forma decorosa di vita sociale. Le leghe cresce-vano di numero, di forza, di compattezza: si delineaval’edificio della Confederazione generale del Lavoro. Tragli operai dei centri urbani si formò un piccolo statomaggiore d’organizzatori, taluni destinati a salire ad altiposti di comando: Carlo Azimonti da operaio tessile asindaco di Busto Arsizio; Rinaldo Rigola da falegnamea pubblicista, deputato, segretario della Confederazionedel Lavoro; Pietro Chiesa e Lodovico Calda da semplicioperai a capi dell’organizzazione proletaria genovese. Epoi, nel ceto borghese, spiccate personalità d’intellettua-li, di studiosi, di giornalisti: Adolfo Zerboglio, Leonida

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Bissolati, Giuseppe Canepa, e infine il gruppo milanesedi Filippo Turati, di Claudio Treves e di Anna Kuli-scioff, ch’era un po’ il cervello e il cuore del movimen-to.

Il più vitale contributo del socialismo fu il sentimentod’una necessaria palingenesi sociale; i suoi limiti venne-ro dalle pose astrattamente rivoluzionarie di alcuni, dal-le logomachie di altri (Ferri), dal vincolo d’una obbliga-toria professione di marxismo ortodosso. Nell’azioneconcreta dei suoi uomini migliori, nell’assistenza mora-le e materiale delle masse, celebrò il suo vero trionfo,perché riuscì ad operare in profondità, a tracciare un sol-co indelebile nella storia moderna del popolo italiano. Isocialisti avvertivano il vacuum che traspariva dalla vitapolitica del paese e l’attribuivano al fatto ch’era impo-stata su basi liberali (anzi, dicevano, borghesi). In veritàl’insufficienza era manifesta, ma scaturiva dall’avertroppo spesso inteso il metodo liberale in senso angusto,cristallizzato nel meccanismo costituzionale e parlamen-tare, senza il coraggio d’immetterlo nella concreta realtàdella vita contemporanea e dei suoi problemi sociali,agevolando il ricambio del ceto dirigente, avviando leclassi lavoratrici a funzioni direttive e di responsabilità,senza timori – falsi o veri – e senza diffidenze. Ma sequesto era l’errore troppe volte ripetuto dai partiti libe-rali e democratici, d’altro lato la dogmatica marxista ir-rigidiva il socialismo precludendogli la via di un’azionepiù duttile e feconda.

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Bissolati, Giuseppe Canepa, e infine il gruppo milanesedi Filippo Turati, di Claudio Treves e di Anna Kuli-scioff, ch’era un po’ il cervello e il cuore del movimen-to.

Il più vitale contributo del socialismo fu il sentimentod’una necessaria palingenesi sociale; i suoi limiti venne-ro dalle pose astrattamente rivoluzionarie di alcuni, dal-le logomachie di altri (Ferri), dal vincolo d’una obbliga-toria professione di marxismo ortodosso. Nell’azioneconcreta dei suoi uomini migliori, nell’assistenza mora-le e materiale delle masse, celebrò il suo vero trionfo,perché riuscì ad operare in profondità, a tracciare un sol-co indelebile nella storia moderna del popolo italiano. Isocialisti avvertivano il vacuum che traspariva dalla vitapolitica del paese e l’attribuivano al fatto ch’era impo-stata su basi liberali (anzi, dicevano, borghesi). In veritàl’insufficienza era manifesta, ma scaturiva dall’avertroppo spesso inteso il metodo liberale in senso angusto,cristallizzato nel meccanismo costituzionale e parlamen-tare, senza il coraggio d’immetterlo nella concreta realtàdella vita contemporanea e dei suoi problemi sociali,agevolando il ricambio del ceto dirigente, avviando leclassi lavoratrici a funzioni direttive e di responsabilità,senza timori – falsi o veri – e senza diffidenze. Ma sequesto era l’errore troppe volte ripetuto dai partiti libe-rali e democratici, d’altro lato la dogmatica marxista ir-rigidiva il socialismo precludendogli la via di un’azionepiù duttile e feconda.

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Il socialismo era ancora limitato ai centri industriali ealla zona emiliana (non a caso nel 1893 si tenne a Reg-gio Emilia il primo congresso dopo la creazione del par-tito), quando nella Sicilia scoppiò la rivolta dei Fasci, leleghe di resistenza dei contadini e dei minatori delle zol-fare organizzate da Giuseppe De Felice, da Nicola Bar-bato, dal Verro. Non era un’iniziativa socialista, e il par-tito fu il primo ad esserne sorpreso; era l’insorgere deicafoni, mossi dalla fame e da una sorda ribellione nontanto contro l’aristocrazia feudale, quanto contro i ca-peddi del medio ceto, i tirannici padroni della vita eco-nomica e amministrativa locale. I socialisti dell’alta Ita-lia non ripudiarono quel movimento, solidarizzaronocon la plebe siciliana e con i suoi capi, cercarono dichiarire a tutto il paese le ragioni di quell’improvvisaondata di rivolta, levarono un’alta protesta contro i me-todi repressivi del Crispi, contro le condanne del ’94,contro il sistema dello stato d’assedio esteso di lì apoco, per altri moti anarchico-popolari, alla Lunigiana. Isistemi del Crispi pareva dovessero sparire con la suacaduta, dopo la giornata di Adua; ma la soluzione dellacrisi invece che da sinistra, come logicamente sarebbedovuta venire, uscì dalla destra con il Di Rudinì. Il disa-gio economico-sociale che serpeggiava in molte zonedella penisola, aggravato da un cattivo raccolto e quindidal rincaro del pane, creò l’ambiente propizio per i tu-multi milanesi (6-9 maggio) del ’98. Più che una consa-

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Il socialismo era ancora limitato ai centri industriali ealla zona emiliana (non a caso nel 1893 si tenne a Reg-gio Emilia il primo congresso dopo la creazione del par-tito), quando nella Sicilia scoppiò la rivolta dei Fasci, leleghe di resistenza dei contadini e dei minatori delle zol-fare organizzate da Giuseppe De Felice, da Nicola Bar-bato, dal Verro. Non era un’iniziativa socialista, e il par-tito fu il primo ad esserne sorpreso; era l’insorgere deicafoni, mossi dalla fame e da una sorda ribellione nontanto contro l’aristocrazia feudale, quanto contro i ca-peddi del medio ceto, i tirannici padroni della vita eco-nomica e amministrativa locale. I socialisti dell’alta Ita-lia non ripudiarono quel movimento, solidarizzaronocon la plebe siciliana e con i suoi capi, cercarono dichiarire a tutto il paese le ragioni di quell’improvvisaondata di rivolta, levarono un’alta protesta contro i me-todi repressivi del Crispi, contro le condanne del ’94,contro il sistema dello stato d’assedio esteso di lì apoco, per altri moti anarchico-popolari, alla Lunigiana. Isistemi del Crispi pareva dovessero sparire con la suacaduta, dopo la giornata di Adua; ma la soluzione dellacrisi invece che da sinistra, come logicamente sarebbedovuta venire, uscì dalla destra con il Di Rudinì. Il disa-gio economico-sociale che serpeggiava in molte zonedella penisola, aggravato da un cattivo raccolto e quindidal rincaro del pane, creò l’ambiente propizio per i tu-multi milanesi (6-9 maggio) del ’98. Più che una consa-

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pevolezza rivoluzionaria c’era uno spirito «barricardie-ro» in quella folla che assalì gli uffici della polizia, malearmata, senza piani prestabiliti, e che dovette subire ilfuoco dei cannoni del generale Bava Beccaris. La rea-zione politica contro i partiti popolari fu violenta, ecces-siva, indiscriminata, e colpì anche i cattolici. L’Osserva-tore cattolico, il foglio vivacemente polemico di donDavide Albertario venne soppresso insieme con i gior-nali di sinistra, radicali, repubblicani e socialisti. Ciòche più colpì fu l’arresto dello stesso Albertario, di Ro-mussi, dell’on. De Andreis, di Turati, della Kuliscioff,di Bissolati, Bertesi, Lazzari ed altri, cui seguirono peralcuni condanne troppo severe (12 anni a Turati). Lostato d’assedio proclamato a Milano si era esteso a Fi-renze e a Napoli. Re Umberto si compiacque col BavaBeccaris e lo insignì d’una onorificenza. Era la lottaaperta tra la democrazia e la reazione. Cominciò cosìuna crisi, destinata a segnare una svolta decisiva nellavita politica italiana, che culminò nelle leggi eccezionalidel nuovo ministero presieduto dal generale Pelloux,nell’ostruzionismo parlamentare, e ch’ebbe come ultimotragico atto del dramma il regicidio di Monza. Alla fine,le forze reazionarie furono battute; nell’aspra lotta molteposizioni politiche si erano chiarite e quando VittorioEmanuele III salì al trono l’orizzonte appariva più libe-ro, l’atmosfera meno pesante; un’aria nuova aleggiavasul paese.

Gli accadimenti del ’98-’99 avevano insegnato moltecose, anzitutto ai socialisti. Era chiaro che i moti incom-

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pevolezza rivoluzionaria c’era uno spirito «barricardie-ro» in quella folla che assalì gli uffici della polizia, malearmata, senza piani prestabiliti, e che dovette subire ilfuoco dei cannoni del generale Bava Beccaris. La rea-zione politica contro i partiti popolari fu violenta, ecces-siva, indiscriminata, e colpì anche i cattolici. L’Osserva-tore cattolico, il foglio vivacemente polemico di donDavide Albertario venne soppresso insieme con i gior-nali di sinistra, radicali, repubblicani e socialisti. Ciòche più colpì fu l’arresto dello stesso Albertario, di Ro-mussi, dell’on. De Andreis, di Turati, della Kuliscioff,di Bissolati, Bertesi, Lazzari ed altri, cui seguirono peralcuni condanne troppo severe (12 anni a Turati). Lostato d’assedio proclamato a Milano si era esteso a Fi-renze e a Napoli. Re Umberto si compiacque col BavaBeccaris e lo insignì d’una onorificenza. Era la lottaaperta tra la democrazia e la reazione. Cominciò cosìuna crisi, destinata a segnare una svolta decisiva nellavita politica italiana, che culminò nelle leggi eccezionalidel nuovo ministero presieduto dal generale Pelloux,nell’ostruzionismo parlamentare, e ch’ebbe come ultimotragico atto del dramma il regicidio di Monza. Alla fine,le forze reazionarie furono battute; nell’aspra lotta molteposizioni politiche si erano chiarite e quando VittorioEmanuele III salì al trono l’orizzonte appariva più libe-ro, l’atmosfera meno pesante; un’aria nuova aleggiavasul paese.

Gli accadimenti del ’98-’99 avevano insegnato moltecose, anzitutto ai socialisti. Era chiaro che i moti incom-

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Page 58: I partiti politici nella storia d’Italia

posti di folla non servivano a nulla se non a versare san-gue operaio; era palese che il collettivismo doveva esse-re considerato come una mèta lontana, non come una vi-cina conquista, che le masse avevano bisogno di prepa-rarsi, d’istruirsi, di progredire nell’ambito della societàborghese, prima di raccoglierne l’eredità. Nell’attesa bi-sognava difendere la libertà, e in essa far gradualmenteavanzare il socialismo: «fuori di questa via.... vi è la no-stra bancarotta», ammoniva il Turati. Occorreva, dun-que, saper distinguere tra le forze conservatrici-reazio-narie e quelle sinceramente progressiste del paese: nonunirsi, ma affiancare le seconde perché le prime nonprevalessero. «Sotto i colpi della persecuzione – prose-guiva Turati – il partito socialista dovette imparare aproprie spese la necessità imprescindibile della libertà ela tattica accorta delle alleanze».

Il dispregio verso tutti gli altri partiti, come organismiinfetti di lue borghese, lasciava il posto ad una valuta-zione più accorta, ad un giudizio più avveduto, ad unsenso della realtà politica più concreto.

* * *

La crisi «fine di secolo» esercitò un’azione beneficaanche sui partiti costituzionali, promovendo un riesamedei loro atteggiamenti, stimolando i liberali ancor degnidel nome a differenziarsi da uomini e gruppi che aveva-no condotto il paese alla politica repressiva e poliziesca,ai metodi dello stato d’assedio e del domicilio coatto.

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posti di folla non servivano a nulla se non a versare san-gue operaio; era palese che il collettivismo doveva esse-re considerato come una mèta lontana, non come una vi-cina conquista, che le masse avevano bisogno di prepa-rarsi, d’istruirsi, di progredire nell’ambito della societàborghese, prima di raccoglierne l’eredità. Nell’attesa bi-sognava difendere la libertà, e in essa far gradualmenteavanzare il socialismo: «fuori di questa via.... vi è la no-stra bancarotta», ammoniva il Turati. Occorreva, dun-que, saper distinguere tra le forze conservatrici-reazio-narie e quelle sinceramente progressiste del paese: nonunirsi, ma affiancare le seconde perché le prime nonprevalessero. «Sotto i colpi della persecuzione – prose-guiva Turati – il partito socialista dovette imparare aproprie spese la necessità imprescindibile della libertà ela tattica accorta delle alleanze».

Il dispregio verso tutti gli altri partiti, come organismiinfetti di lue borghese, lasciava il posto ad una valuta-zione più accorta, ad un giudizio più avveduto, ad unsenso della realtà politica più concreto.

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La crisi «fine di secolo» esercitò un’azione beneficaanche sui partiti costituzionali, promovendo un riesamedei loro atteggiamenti, stimolando i liberali ancor degnidel nome a differenziarsi da uomini e gruppi che aveva-no condotto il paese alla politica repressiva e poliziesca,ai metodi dello stato d’assedio e del domicilio coatto.

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Page 59: I partiti politici nella storia d’Italia

Non che il timore del «pericolo rosso» fosse sparito, oche fosse venuto meno il proposito di tutelare attraversole istituzioni, gli interessi capitalistici e industriali cheproprio in quegli anni uscivano dalla fase critica e incer-ta per affermarsi vigorosi elevando l’economia produtti-va dell’Italia del nord ad un livello veramente europeo.Queste esigenze si manifestavano vive e profonde; manei migliori c’era altresì la consapevolezza che l’equili-brio necessario al normale sviluppo della vita italianapoteva essere raggiunto solo abolendo la dannosa tatticareazionaria e lo sterile criterio del non voler nulla con-cedere alle istanze delle classi disagiate, per attuare in-vece un rapporto di fecondi contrasti tra capitale e lavo-ro. Ciò era essenziale anche alla Monarchia per la perdi-ta subita, negli anni, d’autorità e prestigio. Ercole Vidarinon esitava a scrivere nella Nuova Antologia (I-IX-1900): «La parola del principe non era più ritenuta sacrae sicura;... così scadeva nell’opinione di molti, e massi-me delle classi minori, l’istituto monarchico, un istitutoche, se non è sorretto dalla riverenza universale, nonpuò reggere a lungo».

La volontà di realizzare una democrazia parlamenta-re, d’avviare il paese verso un periodo di più ardite emoderne riforme, d’abbattere nei limiti del possibile ildiaframma tra le forze socialiste e quelle liberali, si con-cretò nel decennio giolittiano. E non a caso il Giolitti visi preparò come ministro dell’interno nel gabinetto Za-nardelli. Tra lo spirito progressista del Risorgimentocosì vivo nel vecchio combattente di Brescia e il «nuovo

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Non che il timore del «pericolo rosso» fosse sparito, oche fosse venuto meno il proposito di tutelare attraversole istituzioni, gli interessi capitalistici e industriali cheproprio in quegli anni uscivano dalla fase critica e incer-ta per affermarsi vigorosi elevando l’economia produtti-va dell’Italia del nord ad un livello veramente europeo.Queste esigenze si manifestavano vive e profonde; manei migliori c’era altresì la consapevolezza che l’equili-brio necessario al normale sviluppo della vita italianapoteva essere raggiunto solo abolendo la dannosa tatticareazionaria e lo sterile criterio del non voler nulla con-cedere alle istanze delle classi disagiate, per attuare in-vece un rapporto di fecondi contrasti tra capitale e lavo-ro. Ciò era essenziale anche alla Monarchia per la perdi-ta subita, negli anni, d’autorità e prestigio. Ercole Vidarinon esitava a scrivere nella Nuova Antologia (I-IX-1900): «La parola del principe non era più ritenuta sacrae sicura;... così scadeva nell’opinione di molti, e massi-me delle classi minori, l’istituto monarchico, un istitutoche, se non è sorretto dalla riverenza universale, nonpuò reggere a lungo».

La volontà di realizzare una democrazia parlamenta-re, d’avviare il paese verso un periodo di più ardite emoderne riforme, d’abbattere nei limiti del possibile ildiaframma tra le forze socialiste e quelle liberali, si con-cretò nel decennio giolittiano. E non a caso il Giolitti visi preparò come ministro dell’interno nel gabinetto Za-nardelli. Tra lo spirito progressista del Risorgimentocosì vivo nel vecchio combattente di Brescia e il «nuovo

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corso» della politica interna inaugurato dal più grandestatista della Terza Italia, c’era senza dubbio una diffe-renza profonda, ma non soluzione di continuità ideale.

In un famoso dibattito al Parlamento (1901), Giolittidifese il diritto delle Camere del Lavoro ad esistere e atutelare gl’interessi delle classi proletarie; definì un gra-ve errore economico e politico, oltre che un’ingiustizia,l’intervento dello Stato inteso a mantenere bassi i salari.Era chiaro che la corrente liberale di sinistra, imperso-nata da Giolitti, non intendeva ricadere nel vicolo ciecoin cui s’erano cacciati gli uomini del ’98 col consenso ecol concorso della monarchia e ottenendo il solo fine direndere «nemiche dello Stato quelle classi le quali costi-tuiscono in realtà la maggioranza del paese». L’uomo diDronero vedeva chiaro e mirava giusto: «Il moto ascen-dente delle classi popolari si accelera ogni giorno più,ed è un moto invincibile perché comune a tutti i paesicivili e perché poggiato sul principio dell’eguaglianzatra gli uomini. Nessuno si può illudere di poter impedireche le classi popolari conquistino la loro parte di in-fluenza economica e di influenza politica.... Dipendeprincipalmente da noi, dall’atteggiamento dei partiti co-stituzionali nei rapporti con le classi popolari, chel’avvento di queste classi sia una nuova forza conserva-trice, un nuovo elemento di prosperità e grandezza, o siainvece un turbine che travolga la fortuna della patria».

L’azione di governo del Giolitti, duttile ma tenace,ricca d’accorgimenti ma non di compromessi esiziali, sisviluppò dal 1903 al 1914 secondo un ritmo ch’era al

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corso» della politica interna inaugurato dal più grandestatista della Terza Italia, c’era senza dubbio una diffe-renza profonda, ma non soluzione di continuità ideale.

In un famoso dibattito al Parlamento (1901), Giolittidifese il diritto delle Camere del Lavoro ad esistere e atutelare gl’interessi delle classi proletarie; definì un gra-ve errore economico e politico, oltre che un’ingiustizia,l’intervento dello Stato inteso a mantenere bassi i salari.Era chiaro che la corrente liberale di sinistra, imperso-nata da Giolitti, non intendeva ricadere nel vicolo ciecoin cui s’erano cacciati gli uomini del ’98 col consenso ecol concorso della monarchia e ottenendo il solo fine direndere «nemiche dello Stato quelle classi le quali costi-tuiscono in realtà la maggioranza del paese». L’uomo diDronero vedeva chiaro e mirava giusto: «Il moto ascen-dente delle classi popolari si accelera ogni giorno più,ed è un moto invincibile perché comune a tutti i paesicivili e perché poggiato sul principio dell’eguaglianzatra gli uomini. Nessuno si può illudere di poter impedireche le classi popolari conquistino la loro parte di in-fluenza economica e di influenza politica.... Dipendeprincipalmente da noi, dall’atteggiamento dei partiti co-stituzionali nei rapporti con le classi popolari, chel’avvento di queste classi sia una nuova forza conserva-trice, un nuovo elemento di prosperità e grandezza, o siainvece un turbine che travolga la fortuna della patria».

L’azione di governo del Giolitti, duttile ma tenace,ricca d’accorgimenti ma non di compromessi esiziali, sisviluppò dal 1903 al 1914 secondo un ritmo ch’era al

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tempo stesso il ritmo ascensionale dell’Italia nella suavita culturale, economica, finanziaria, e nei suoi rapportiinternazionali. I brevi momenti in cui Giolitti fu lontanodal governo, e lo stesso tentativo d’un riformismo rea-lizzato da tecnici, con l’appoggio dell’Estrema Sinistra,che fu compiuto dal Sonnino, non hanno una rilevanzatale da modificare la continuità storica della politica gio-littiana. Ai contemporanei riusciva difficile rendersiesatto conto della portata dell’opera svolta dallo statistapiemontese e del profondo concetto innovatore che ispi-rava il suo liberalismo di sinistra. Giolitti non amavateorizzare formule e principi politici: bisognava saperliscorgere nel nesso che legava le varie parti dell’attivitàlegislativa con le grandi riforme politiche (suffragio uni-versale) e con l’iniziative esterne (conquista della Li-bia).

Per i contemporanei era più agevole cogliere i difettidel sistema: la cura posta nel conservare una maggioran-za fedele nel parlamento, più che nell’imprimere organi-ca vitalità al partito liberale nel paese, il mancato sforzoper correggere il vizio originario d’un gran numero di«collegi» (quello cioè d’essere feudi di uomini o digruppi, non palestre d’idee e di programmi), anzi la ten-denza a giovarsene massime nel Mezzogiorno, per «farele elezioni» avvalendosi dei prefetti e dei seguaci devo-ti. Salvemini, socialista meridionale, rigida coscienzama focoso polemista, parlò del «ministro della malavi-ta» con asprezza inusitata; ma era un giudizio stretta-

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tempo stesso il ritmo ascensionale dell’Italia nella suavita culturale, economica, finanziaria, e nei suoi rapportiinternazionali. I brevi momenti in cui Giolitti fu lontanodal governo, e lo stesso tentativo d’un riformismo rea-lizzato da tecnici, con l’appoggio dell’Estrema Sinistra,che fu compiuto dal Sonnino, non hanno una rilevanzatale da modificare la continuità storica della politica gio-littiana. Ai contemporanei riusciva difficile rendersiesatto conto della portata dell’opera svolta dallo statistapiemontese e del profondo concetto innovatore che ispi-rava il suo liberalismo di sinistra. Giolitti non amavateorizzare formule e principi politici: bisognava saperliscorgere nel nesso che legava le varie parti dell’attivitàlegislativa con le grandi riforme politiche (suffragio uni-versale) e con l’iniziative esterne (conquista della Li-bia).

Per i contemporanei era più agevole cogliere i difettidel sistema: la cura posta nel conservare una maggioran-za fedele nel parlamento, più che nell’imprimere organi-ca vitalità al partito liberale nel paese, il mancato sforzoper correggere il vizio originario d’un gran numero di«collegi» (quello cioè d’essere feudi di uomini o digruppi, non palestre d’idee e di programmi), anzi la ten-denza a giovarsene massime nel Mezzogiorno, per «farele elezioni» avvalendosi dei prefetti e dei seguaci devo-ti. Salvemini, socialista meridionale, rigida coscienzama focoso polemista, parlò del «ministro della malavi-ta» con asprezza inusitata; ma era un giudizio stretta-

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Page 62: I partiti politici nella storia d’Italia

mente «politico»; per un giudizio «storico» anche alSalvemini mancava la necessaria prospettiva.

Altri parlò di «dittatura legale», più o meno larvata, equesta definizione ritorna ancor oggi nelle pagined’alcuni scrittori anglo-americani. Certo, Giolitti agìcome un catalizzatore delle forze politiche, ma l’accusadi dittatura crolla in frantumi non appena si rifletta chemai come dal 1900 allo scoppio della prima guerra eu-ropea, l’Italia fu un paese intimamente liberale. Almenoper quel tanto che la recente vita unitaria e la difficilelenta educazione politica potevano consentire. Bastapensare all’ultimo decennio del secolo XIX, per doverconcludere che il liberalismo italiano con Giolitti s’erarimesso per la via maestra; dopo la fioritura cavouriana(e fatte le debite proporzioni) aveva ritrovato la sua se-conda primavera.

* * *

In una discussione alla Camera, nel 1912, Giolitti vol-le respingere le critiche dei socialisti che l’accusavanodi non avere una linea ideale programmatica: «L’on. Tu-rati disse che noi facciamo una politica empirica. Ebbe-ne io confesso che la mia è proprio una politica empiri-ca, se per empirismo s’intende tener conto delle condi-zioni reali del paese e delle popolazioni in mezzo allequali dobbiamo fare questa politica interna. Il sistemasperimentale, che consiste nel tener conto dei fatti e pro-cedere a misura che si può, senza grave pericolo, ritenga

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mente «politico»; per un giudizio «storico» anche alSalvemini mancava la necessaria prospettiva.

Altri parlò di «dittatura legale», più o meno larvata, equesta definizione ritorna ancor oggi nelle pagined’alcuni scrittori anglo-americani. Certo, Giolitti agìcome un catalizzatore delle forze politiche, ma l’accusadi dittatura crolla in frantumi non appena si rifletta chemai come dal 1900 allo scoppio della prima guerra eu-ropea, l’Italia fu un paese intimamente liberale. Almenoper quel tanto che la recente vita unitaria e la difficilelenta educazione politica potevano consentire. Bastapensare all’ultimo decennio del secolo XIX, per doverconcludere che il liberalismo italiano con Giolitti s’erarimesso per la via maestra; dopo la fioritura cavouriana(e fatte le debite proporzioni) aveva ritrovato la sua se-conda primavera.

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In una discussione alla Camera, nel 1912, Giolitti vol-le respingere le critiche dei socialisti che l’accusavanodi non avere una linea ideale programmatica: «L’on. Tu-rati disse che noi facciamo una politica empirica. Ebbe-ne io confesso che la mia è proprio una politica empiri-ca, se per empirismo s’intende tener conto delle condi-zioni reali del paese e delle popolazioni in mezzo allequali dobbiamo fare questa politica interna. Il sistemasperimentale, che consiste nel tener conto dei fatti e pro-cedere a misura che si può, senza grave pericolo, ritenga

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l’on. Turati che è il più sicuro, ed anzi il solo possibile».Ma, in ultima analisi, la validità del sistema scaturivadal fatto che Giolitti aveva sempre un chiaro e precisoconcetto del fine da perseguire e dei mezzi utili per rea-lizzarlo. Così quando venne chiamato al potere nel1903, manifestò esplicitamente il proposito di voler ap-poggiare il proprio ministero alle Sinistre, invitando isocialisti e i radicali a parteciparvi, i primi nella personadi Turati, i secondi con il Sacchi e il Marcora ch’eranole figure più in vista del partito. L’offerta cadde nel vuo-to, ma per ragioni tattiche che non infirmavano il valoreed il significato dell’iniziativa giolittiana. Tanto è veroche, dopo l’elezioni del 1904, Marcora salì alla presi-denza della Camera e due anni più tardi i radicali entra-rono a far parte del gabinetto Sonnino. La vecchia Estre-ma veniva così sbloccata e parzialmente immessa nellaresponsabilità diretta del governo. Il tenace rifiuto socia-lista, invece, perdurò per il costante veto posto dalla di-rezione del partito ad ogni collaborazione attiva dei pro-pri uomini. Ma contava già qualcosa sapere che la via aisocialisti non era sbarrata a priori, che lo Stato liberaleera pronto ad ammetterli al banco del governo cosìcome li aveva accolti nei seggi del parlamento. Spettavaagli stessi socialisti decidere se fosse o no opportunopercorrere quella via (con quali possibilità e con qualigaranzie), oppure non impegnarsi e non compromettersi,mirando ad una conquista totale dello Stato per rinno-varlo ab imis, e non ad una compartecipazione per con-solidarlo nelle forme tradizionali.

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l’on. Turati che è il più sicuro, ed anzi il solo possibile».Ma, in ultima analisi, la validità del sistema scaturivadal fatto che Giolitti aveva sempre un chiaro e precisoconcetto del fine da perseguire e dei mezzi utili per rea-lizzarlo. Così quando venne chiamato al potere nel1903, manifestò esplicitamente il proposito di voler ap-poggiare il proprio ministero alle Sinistre, invitando isocialisti e i radicali a parteciparvi, i primi nella personadi Turati, i secondi con il Sacchi e il Marcora ch’eranole figure più in vista del partito. L’offerta cadde nel vuo-to, ma per ragioni tattiche che non infirmavano il valoreed il significato dell’iniziativa giolittiana. Tanto è veroche, dopo l’elezioni del 1904, Marcora salì alla presi-denza della Camera e due anni più tardi i radicali entra-rono a far parte del gabinetto Sonnino. La vecchia Estre-ma veniva così sbloccata e parzialmente immessa nellaresponsabilità diretta del governo. Il tenace rifiuto socia-lista, invece, perdurò per il costante veto posto dalla di-rezione del partito ad ogni collaborazione attiva dei pro-pri uomini. Ma contava già qualcosa sapere che la via aisocialisti non era sbarrata a priori, che lo Stato liberaleera pronto ad ammetterli al banco del governo cosìcome li aveva accolti nei seggi del parlamento. Spettavaagli stessi socialisti decidere se fosse o no opportunopercorrere quella via (con quali possibilità e con qualigaranzie), oppure non impegnarsi e non compromettersi,mirando ad una conquista totale dello Stato per rinno-varlo ab imis, e non ad una compartecipazione per con-solidarlo nelle forme tradizionali.

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I radicali, come s’è detto, dopo una fase d’incertezzae di polemiche interne risolsero positivamente il proble-ma posto dal Giolitti, abbandonando il «superbo sde-gno» cavallottiano per orientarsi verso una condotta po-litica «sperimentale» e realizzatrice. Il dibattito si svol-se, tra la tendenza «sacchiana», più incline a collaborarecon le istituzioni vigenti, e quella «marcoriana» che sirifaceva al Bertani ed era propensa solo ad un’adesionecondizionata. Nel congresso radicale del 1904 una for-mula intermedia salvò l’unità del partito e gli aprì la viadel collaborazionismo. Ettore Sacchi giustificava l’evo-luzione cercando di chiarire in un articolo della NuovaAntologia (16-XI-1901) la fisionomia politica assuntadal suo gruppo: «Il partito radicale sfugge ad una qual-siasi definizione che ne formuli un immutabile program-ma; esso si interpone alle tendenze conservatrici e allenovatrici, di quelle assume la base essenziale, l’ordine,di queste disposa ed attua la parte che lo svolgimentodella vita sociale rende mano a mano matura l’applica-zione». Al repubblicano Napoleone Colajanni il radica-lismo così delineato sembrava prender posto tra le «ne-bulose politiche»; ma il Sacchi, in un discorso pronun-ciato a Cremona (1901), replicava esprimendo la per-suasione che la ricca gamma delle forze politiche italia-ne si sarebbe ridotta ben presto a tre sole correnti valide:conservatori, radicali, socialisti. Dire questo equivalevaa porre il radicalismo come partito di governo con unafunzione mediatrice di primo ordine.

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I radicali, come s’è detto, dopo una fase d’incertezzae di polemiche interne risolsero positivamente il proble-ma posto dal Giolitti, abbandonando il «superbo sde-gno» cavallottiano per orientarsi verso una condotta po-litica «sperimentale» e realizzatrice. Il dibattito si svol-se, tra la tendenza «sacchiana», più incline a collaborarecon le istituzioni vigenti, e quella «marcoriana» che sirifaceva al Bertani ed era propensa solo ad un’adesionecondizionata. Nel congresso radicale del 1904 una for-mula intermedia salvò l’unità del partito e gli aprì la viadel collaborazionismo. Ettore Sacchi giustificava l’evo-luzione cercando di chiarire in un articolo della NuovaAntologia (16-XI-1901) la fisionomia politica assuntadal suo gruppo: «Il partito radicale sfugge ad una qual-siasi definizione che ne formuli un immutabile program-ma; esso si interpone alle tendenze conservatrici e allenovatrici, di quelle assume la base essenziale, l’ordine,di queste disposa ed attua la parte che lo svolgimentodella vita sociale rende mano a mano matura l’applica-zione». Al repubblicano Napoleone Colajanni il radica-lismo così delineato sembrava prender posto tra le «ne-bulose politiche»; ma il Sacchi, in un discorso pronun-ciato a Cremona (1901), replicava esprimendo la per-suasione che la ricca gamma delle forze politiche italia-ne si sarebbe ridotta ben presto a tre sole correnti valide:conservatori, radicali, socialisti. Dire questo equivalevaa porre il radicalismo come partito di governo con unafunzione mediatrice di primo ordine.

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Le antiche pregiudiziali antimonarchiche si erano di-sciolte lungo la via; un radicale, Francesco Papafava, di-ceva del Sovrano: «Liberiamolo dai viluppi cortigiane-schi e dalla muffa aristocratica, modernizziamolo, de-mocratizziamolo, ma salviamolo.... Il nostro paese non èun organismo abbastanza robusto da potersi privare sen-za danno di questo elemento di forza che è il Re». E ilSacchi faceva eco: «La forma monarchica, in Italia, nonpuò essere il fine di un partito, come non può essere ilfine d’un partito il suo abbattimento». In questa senten-za era implicita la critica del partito repubblicano. Ilquale s’era organizzato verso la fine del ’95 ed aveva te-nuto vari congressi (notevoli quelli di Rifredi del 1900,e d’Ancona del 1904), ma era agitato dai contrasti tra idirigenti e il gruppo parlamentare. La presenza alla Ca-mera d’un gruppo di deputati pareva costituire una mi-naccia per la cristallina purezza e la rigida intransigenzadel repubblicanesimo. In realtà il caratteristico formali-smo del partito gli impediva di contare su molti e nuoviseguaci, anche se numerosi consensi raccoglievano al-cuni suoi esponenti, come Arcangelo Ghisleri, nobile fi-gura di patriota e di studioso, nel quale erano rivissuticon bella sincerità gl’ideali del Risorgimento.

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L’èra del liberalismo giolittiano vide anche il primocauto ingresso dei cattolici nella vita politica del paese.Ma, di fatto, nelle file cattoliche erano percepibili netta-

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Le antiche pregiudiziali antimonarchiche si erano di-sciolte lungo la via; un radicale, Francesco Papafava, di-ceva del Sovrano: «Liberiamolo dai viluppi cortigiane-schi e dalla muffa aristocratica, modernizziamolo, de-mocratizziamolo, ma salviamolo.... Il nostro paese non èun organismo abbastanza robusto da potersi privare sen-za danno di questo elemento di forza che è il Re». E ilSacchi faceva eco: «La forma monarchica, in Italia, nonpuò essere il fine di un partito, come non può essere ilfine d’un partito il suo abbattimento». In questa senten-za era implicita la critica del partito repubblicano. Ilquale s’era organizzato verso la fine del ’95 ed aveva te-nuto vari congressi (notevoli quelli di Rifredi del 1900,e d’Ancona del 1904), ma era agitato dai contrasti tra idirigenti e il gruppo parlamentare. La presenza alla Ca-mera d’un gruppo di deputati pareva costituire una mi-naccia per la cristallina purezza e la rigida intransigenzadel repubblicanesimo. In realtà il caratteristico formali-smo del partito gli impediva di contare su molti e nuoviseguaci, anche se numerosi consensi raccoglievano al-cuni suoi esponenti, come Arcangelo Ghisleri, nobile fi-gura di patriota e di studioso, nel quale erano rivissuticon bella sincerità gl’ideali del Risorgimento.

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L’èra del liberalismo giolittiano vide anche il primocauto ingresso dei cattolici nella vita politica del paese.Ma, di fatto, nelle file cattoliche erano percepibili netta-

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mente due tendenze diverse: l’una, clerico-moderata,con funzioni conservatrici e con un fermo proposito didifesa dell’ordine morale e sociale contro il pericolo delsocialismo rivoluzionario; l’altra, democratico-cristiana,che mirava ad affrontare i problemi della società moder-na con uno spirito non conformista, più duttile e consa-pevole, a risolvere il conflitto tra capitale e lavoro in ter-mini di conciliazione e non di lotta di classi, a combatte-re il laicismo dello Stato e il positivismo della culturadimostrando la possibilità d’armonizzare la democraziae la civiltà contemporanea con i princìpi di vita eternaracchiusi nel messaggio evangelico. Le due tendenzeconvergevano nel comune intendimento di porre un fre-no al dilagare del socialismo, ma con metodi diversi, inquanto per i clerico-moderati il rimedio era da cercarsinella tenace difesa d’un ordine vecchio, per i democri-stiani nel riguadagnare alla Chiesa le masse col sostitui-re la propria dottrina sociale, sintonizzata con i tempinuovi, al verbo marxista. Era naturale che, pur nella di-sciplina alle direttive vaticane, lo stesso problema deirapporti tra Stato e Chiesa in Italia venisse sentito inmaniere differenti: più forte il temporalismo nei primi,più vivo il desiderio d’una libera conciliazione tra leparti, nei secondi.

Il movimento della democrazia cristiana che vantava inomi d’un Capecelatro, d’un Bonomelli, d’un Semeria,e che aveva in Giuseppe Toniolo il suo studioso e in ungiovane sacerdote, Romolo Murri, l’organizzatore poli-ticamente più attivo, non era però nato in Italia, ma ripe-

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mente due tendenze diverse: l’una, clerico-moderata,con funzioni conservatrici e con un fermo proposito didifesa dell’ordine morale e sociale contro il pericolo delsocialismo rivoluzionario; l’altra, democratico-cristiana,che mirava ad affrontare i problemi della società moder-na con uno spirito non conformista, più duttile e consa-pevole, a risolvere il conflitto tra capitale e lavoro in ter-mini di conciliazione e non di lotta di classi, a combatte-re il laicismo dello Stato e il positivismo della culturadimostrando la possibilità d’armonizzare la democraziae la civiltà contemporanea con i princìpi di vita eternaracchiusi nel messaggio evangelico. Le due tendenzeconvergevano nel comune intendimento di porre un fre-no al dilagare del socialismo, ma con metodi diversi, inquanto per i clerico-moderati il rimedio era da cercarsinella tenace difesa d’un ordine vecchio, per i democri-stiani nel riguadagnare alla Chiesa le masse col sostitui-re la propria dottrina sociale, sintonizzata con i tempinuovi, al verbo marxista. Era naturale che, pur nella di-sciplina alle direttive vaticane, lo stesso problema deirapporti tra Stato e Chiesa in Italia venisse sentito inmaniere differenti: più forte il temporalismo nei primi,più vivo il desiderio d’una libera conciliazione tra leparti, nei secondi.

Il movimento della democrazia cristiana che vantava inomi d’un Capecelatro, d’un Bonomelli, d’un Semeria,e che aveva in Giuseppe Toniolo il suo studioso e in ungiovane sacerdote, Romolo Murri, l’organizzatore poli-ticamente più attivo, non era però nato in Italia, ma ripe-

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teva le sue origini da una corrente europea, di vescovi edi laici, particolarmente diffusa in Germania, nel Belgio,nella Svizzera e in Francia (con sfumature un po’ diver-se in Inghilterra), rivolta a stabilire un nesso fecondo trail pensiero e l’azione cattolica da un lato, la società mo-derna con i suoi inderogabili problemi dall’altro. Tonio-lo, con la sua scuola pisana, e – più tardi – mons. Bono-melli, sottoponevano a critica il concetto di proprietà,distinguendone il diritto ch’è naturale e quindi d’originedivina, dall’applicazione e dallo svolgimento storico,cioè umano, per concludere che se il diritto di proprietàè insopprimibile, le sue forme e i suoi limiti sono su-scettibili di profonde modifiche onde adeguarli alleistanze politico-sociali dei tempi nuovi. Questi motivierano diffusi negli ambienti cattolici europei più solleci-ti e desiderosi di far sì che la Chiesa, pur con i tesoridella sua antica saggezza, non apparisse straniata e avul-sa dalle lotte che travagliavano la società civile. Ad essiun grande pontefice, Leone XIII, accordò un riconosci-mento universale con l’enciclica Rerum novarum (mag-gio 1891) e con la Graves de communi (gennaio 1901).Il Toniolo, bella figura di scienziato e di educatore, nellesue opere inseriva anche talune reminiscenze giobertia-ne e neoguelfe: parlava di missione italiana nel «fonderee rappresentare armonicamente il genio, i pensieri, leaspirazioni di tutti i popoli», auspicava il ricostituirsi«d’una coscienza nazionale dell’Italia sul cardine delcattolicismo»; ma erano questi gli spunti meno felici,più effimeri ed utopistici, della dottrina. Comunque, le

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teva le sue origini da una corrente europea, di vescovi edi laici, particolarmente diffusa in Germania, nel Belgio,nella Svizzera e in Francia (con sfumature un po’ diver-se in Inghilterra), rivolta a stabilire un nesso fecondo trail pensiero e l’azione cattolica da un lato, la società mo-derna con i suoi inderogabili problemi dall’altro. Tonio-lo, con la sua scuola pisana, e – più tardi – mons. Bono-melli, sottoponevano a critica il concetto di proprietà,distinguendone il diritto ch’è naturale e quindi d’originedivina, dall’applicazione e dallo svolgimento storico,cioè umano, per concludere che se il diritto di proprietàè insopprimibile, le sue forme e i suoi limiti sono su-scettibili di profonde modifiche onde adeguarli alleistanze politico-sociali dei tempi nuovi. Questi motivierano diffusi negli ambienti cattolici europei più solleci-ti e desiderosi di far sì che la Chiesa, pur con i tesoridella sua antica saggezza, non apparisse straniata e avul-sa dalle lotte che travagliavano la società civile. Ad essiun grande pontefice, Leone XIII, accordò un riconosci-mento universale con l’enciclica Rerum novarum (mag-gio 1891) e con la Graves de communi (gennaio 1901).Il Toniolo, bella figura di scienziato e di educatore, nellesue opere inseriva anche talune reminiscenze giobertia-ne e neoguelfe: parlava di missione italiana nel «fonderee rappresentare armonicamente il genio, i pensieri, leaspirazioni di tutti i popoli», auspicava il ricostituirsi«d’una coscienza nazionale dell’Italia sul cardine delcattolicismo»; ma erano questi gli spunti meno felici,più effimeri ed utopistici, della dottrina. Comunque, le

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schiere cattoliche in tutta la penisola, scosso il torpore,abbandonate le pregiudiziali connesse con la «questioneromana», si mossero, a volte caute, a volte ardite e quasiimpazienti. L’Opera dei Congressi ed altre organizza-zioni similari furono investite da un soffio di nuova vita,e molti giovani sentirono il fascino di un’azione aperta eanimosa, scrollarono di dosso il «rispetto umano», edentrarono animosi nella lotta.

Senonché le due tendenze, di cui sopra s’è discorso,ch’esprimevano tradizioni e mentalità diverse, convive-vano senza urti clamorosi, in virtù della disciplina catto-lica alle gerarchie, ma anche senza amalgamarsi. Solo inalcuni giovani, come Filippo Meda, era possibile scor-gere una volontà equilibratrice del conservatorismo edel progressismo. I contrasti correvano il pericolod’accentuarsi per il fatto che il gruppo di punta della de-mocrazia cristiana era fatalmente portato, da ragionicontingenti, da affinità d’interessi (il problema sociale,la cura delle classi lavoratrici), da criteri tattici, ad acco-starsi ai partiti dell’Estrema nella comune lotta contro loStato accentratore e le forze reazionarie.

Storicamente, nell’ultimo cinquantennio della vita ita-liana, le due tendenze del cattolicismo militante si sonosusseguite in fasi alterne: il volto conservatore lasciavail posto a quello democratico, per riaffiorare più tardi inprimo piano. S’intende che i due elementi coesistevanosenza elidersi mai; si vuol dire solo che ora l’uno oral’altro sono apparsi come aspetti dominanti, a secondadel clima politico generale.

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schiere cattoliche in tutta la penisola, scosso il torpore,abbandonate le pregiudiziali connesse con la «questioneromana», si mossero, a volte caute, a volte ardite e quasiimpazienti. L’Opera dei Congressi ed altre organizza-zioni similari furono investite da un soffio di nuova vita,e molti giovani sentirono il fascino di un’azione aperta eanimosa, scrollarono di dosso il «rispetto umano», edentrarono animosi nella lotta.

Senonché le due tendenze, di cui sopra s’è discorso,ch’esprimevano tradizioni e mentalità diverse, convive-vano senza urti clamorosi, in virtù della disciplina catto-lica alle gerarchie, ma anche senza amalgamarsi. Solo inalcuni giovani, come Filippo Meda, era possibile scor-gere una volontà equilibratrice del conservatorismo edel progressismo. I contrasti correvano il pericolod’accentuarsi per il fatto che il gruppo di punta della de-mocrazia cristiana era fatalmente portato, da ragionicontingenti, da affinità d’interessi (il problema sociale,la cura delle classi lavoratrici), da criteri tattici, ad acco-starsi ai partiti dell’Estrema nella comune lotta contro loStato accentratore e le forze reazionarie.

Storicamente, nell’ultimo cinquantennio della vita ita-liana, le due tendenze del cattolicismo militante si sonosusseguite in fasi alterne: il volto conservatore lasciavail posto a quello democratico, per riaffiorare più tardi inprimo piano. S’intende che i due elementi coesistevanosenza elidersi mai; si vuol dire solo che ora l’uno oral’altro sono apparsi come aspetti dominanti, a secondadel clima politico generale.

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Dalla Rerum novarum fino alla morte di Leone XIIIfu l’ala democratica a prevalere, s’intende nella sferaextraparlamentare. Ma con Pio X, per l’elezioni del1904, il non expedit fu tolto, e alla formula «né eletti néelettori» si sostituì il nuovo canone: «cattolici deputatisì, deputati cattolici no». Così alla Camera fecero la lorocomparsa uomini di parte cattolica, come il Cornaggia,il Cameroni, il Mauri. Era un grande passo, ma suggeri-to a Pio X sopra tutto dal desiderio di arginare il perico-lo rosso (c’era stato lo sciopero generale organizzato daisindacalisti rivoluzionari) e di contribuire al sostegnodell’ordine civile, alla tutela delle istituzioni pubbliche.La rappresentanza cattolica assumeva quindi un caratte-re, in massima, conservatore. S’inaugurava un periododi prevalenza clerico-moderata, quale s’addicevaall’orientamento del nuovo pontefice destinato a svilup-parsi con gli anni, e segnatamente con l’appello alleurne del 1909, per culminare con il «patto Gentiloni»(dal nome del conte Ottorino Gentiloni presidentedell’Unione elettorale cattolica) stipulato, con il consi-glio e certo con il consenso del Vaticano, tra cattolici eliberali, perché nelle elezioni del 1913 (a suffragio uni-versale) i primi sostenessero con tutto il loro peso queicandidati costituzionali che si fossero impegnati a nonpromuovere una politica anticlericale, a non votare leggi(sul divorzio, o sulla scuola, o sulle congregazioni ec-clesiastiche) ostili ai postulati religiosi. Oltre 200 depu-tati vennero eletti beneficiando del «patto», a danno deipartiti d’estrema sinistra, ma altresì con scarso giova-

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Dalla Rerum novarum fino alla morte di Leone XIIIfu l’ala democratica a prevalere, s’intende nella sferaextraparlamentare. Ma con Pio X, per l’elezioni del1904, il non expedit fu tolto, e alla formula «né eletti néelettori» si sostituì il nuovo canone: «cattolici deputatisì, deputati cattolici no». Così alla Camera fecero la lorocomparsa uomini di parte cattolica, come il Cornaggia,il Cameroni, il Mauri. Era un grande passo, ma suggeri-to a Pio X sopra tutto dal desiderio di arginare il perico-lo rosso (c’era stato lo sciopero generale organizzato daisindacalisti rivoluzionari) e di contribuire al sostegnodell’ordine civile, alla tutela delle istituzioni pubbliche.La rappresentanza cattolica assumeva quindi un caratte-re, in massima, conservatore. S’inaugurava un periododi prevalenza clerico-moderata, quale s’addicevaall’orientamento del nuovo pontefice destinato a svilup-parsi con gli anni, e segnatamente con l’appello alleurne del 1909, per culminare con il «patto Gentiloni»(dal nome del conte Ottorino Gentiloni presidentedell’Unione elettorale cattolica) stipulato, con il consi-glio e certo con il consenso del Vaticano, tra cattolici eliberali, perché nelle elezioni del 1913 (a suffragio uni-versale) i primi sostenessero con tutto il loro peso queicandidati costituzionali che si fossero impegnati a nonpromuovere una politica anticlericale, a non votare leggi(sul divorzio, o sulla scuola, o sulle congregazioni ec-clesiastiche) ostili ai postulati religiosi. Oltre 200 depu-tati vennero eletti beneficiando del «patto», a danno deipartiti d’estrema sinistra, ma altresì con scarso giova-

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mento della chiarezza della campagna elettorale edell’educazione politica del paese. Ma l’astensionismodei cattolici non era più possibile, né al Vaticano sem-brava giunto il momento propizio per la nascita d’unpartito cattolico autonomo, disposto a lottare con unproprio programma nell’ambito nazionale. Comunque,Giolitti si giovò del sostegno cattolico alle forzedell’ordine, non diversamente da quel che fece il Bi-smarck con il Centro germanico, rinunciando al Kultur-kampf per averne l’appoggio contro i socialisti.

Senonché il favore accordato dalle superiori sfere ec-clesiastiche al conservatorismo cattolico dei Crispolti edei Cornaggia, tarpava le ali all’avanguardia battaglieradei cristiani di sinistra. Romolo Murri, eletto nel 1909deputato, prese posto tra i banchi dei radicali e dei so-cialisti; ma la sua moderna democrazia politica sembra-va alla Curia papale troppo affine a quel modernismo re-ligioso che, da Fogazzaro a Gallarati Scotti, aveva tur-bato tanti spiriti. Murri rimase deputato ma dovette ab-bandonare il grembo della Chiesa per tornarvi, riconci-liato, solo da vecchio.

Che la ripresa dei cattolici, lo sviluppo dei loro circo-li, il moltiplicarsi dei loro giornali, potessero passareinosservati e senza contrasti, era impensabile, dati i nonsopiti motivi risorgimentali di avversione e di lotta. Unacontroffensiva massonica e anticlericale ci fu, e toccò alGiolitti contenerla. La Massoneria che verso la fine delRisorgimento, sotto la guida del gran Maestro AdrianoLemmi, s’era riorganizzata e diffusa, aveva condotto

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mento della chiarezza della campagna elettorale edell’educazione politica del paese. Ma l’astensionismodei cattolici non era più possibile, né al Vaticano sem-brava giunto il momento propizio per la nascita d’unpartito cattolico autonomo, disposto a lottare con unproprio programma nell’ambito nazionale. Comunque,Giolitti si giovò del sostegno cattolico alle forzedell’ordine, non diversamente da quel che fece il Bi-smarck con il Centro germanico, rinunciando al Kultur-kampf per averne l’appoggio contro i socialisti.

Senonché il favore accordato dalle superiori sfere ec-clesiastiche al conservatorismo cattolico dei Crispolti edei Cornaggia, tarpava le ali all’avanguardia battaglieradei cristiani di sinistra. Romolo Murri, eletto nel 1909deputato, prese posto tra i banchi dei radicali e dei so-cialisti; ma la sua moderna democrazia politica sembra-va alla Curia papale troppo affine a quel modernismo re-ligioso che, da Fogazzaro a Gallarati Scotti, aveva tur-bato tanti spiriti. Murri rimase deputato ma dovette ab-bandonare il grembo della Chiesa per tornarvi, riconci-liato, solo da vecchio.

Che la ripresa dei cattolici, lo sviluppo dei loro circo-li, il moltiplicarsi dei loro giornali, potessero passareinosservati e senza contrasti, era impensabile, dati i nonsopiti motivi risorgimentali di avversione e di lotta. Unacontroffensiva massonica e anticlericale ci fu, e toccò alGiolitti contenerla. La Massoneria che verso la fine delRisorgimento, sotto la guida del gran Maestro AdrianoLemmi, s’era riorganizzata e diffusa, aveva condotto

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una sua energica (e storicamente non inutile) campagnaper la laicizzazione dello Stato. Contava i suoi affiliatiun po’ in tutti i partiti (solo più tardi i socialisti la mise-ro al bando), ma in particolar modo tra i radicali, i re-pubblicani, i democratici meridionali; era forte nei mini-steri, nelle scuole, nelle amministrazioni. Pedagogisticome Luigi Credaro, storici come Giacinto Romano, nefacevano parte o, comunque, ne rappresentavano lo spi-rito. E di prevalente impronta massonica fu il «bloccopopolare» che nel 1906 conquistò il Comune di Romacon Ernesto Nathan, antico capo della sètta. Ma le gio-vani generazioni manifestavano una certa riluttanza alleforme, ai riti, ai metodi della loggia; cominciava in essea filtrare la nuova cultura idealistica del Croce e delGentile. E né il Croce né il Gentile erano.... amici dellamassoneria.

* * *

La vita del partito socialista italiano, nel primo quin-dicennio del nuovo secolo, fu agitata da controversieideologiche, da aspre lotte di tendenza. I congressi furo-no le tappe di un lungo e non lineare processo che, pursalvando il nucleo centrale del partito, portò all’elimina-zione delle sue ali estreme. La perdita era tuttavia com-pensata, nel campo numerico, dal continuo aumento del-le iscrizioni, dalla forza crescente dell’organismo confe-derale del lavoro. Così cadevano in frettolosi ed erratigiudizi coloro che durante una crisi interna assai grave,

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una sua energica (e storicamente non inutile) campagnaper la laicizzazione dello Stato. Contava i suoi affiliatiun po’ in tutti i partiti (solo più tardi i socialisti la mise-ro al bando), ma in particolar modo tra i radicali, i re-pubblicani, i democratici meridionali; era forte nei mini-steri, nelle scuole, nelle amministrazioni. Pedagogisticome Luigi Credaro, storici come Giacinto Romano, nefacevano parte o, comunque, ne rappresentavano lo spi-rito. E di prevalente impronta massonica fu il «bloccopopolare» che nel 1906 conquistò il Comune di Romacon Ernesto Nathan, antico capo della sètta. Ma le gio-vani generazioni manifestavano una certa riluttanza alleforme, ai riti, ai metodi della loggia; cominciava in essea filtrare la nuova cultura idealistica del Croce e delGentile. E né il Croce né il Gentile erano.... amici dellamassoneria.

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La vita del partito socialista italiano, nel primo quin-dicennio del nuovo secolo, fu agitata da controversieideologiche, da aspre lotte di tendenza. I congressi furo-no le tappe di un lungo e non lineare processo che, pursalvando il nucleo centrale del partito, portò all’elimina-zione delle sue ali estreme. La perdita era tuttavia com-pensata, nel campo numerico, dal continuo aumento del-le iscrizioni, dalla forza crescente dell’organismo confe-derale del lavoro. Così cadevano in frettolosi ed erratigiudizi coloro che durante una crisi interna assai grave,

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quella del 1904, notavano «segni palesi di decomposi-zione e di sfacelo» (Michels), e che nel 1913 giudicava-no il partito come uno strumento di conservazione mo-narchica (Missiroli); e sbagliava anche Giolitti (o me-glio aveva ragione solo in un senso immediato e contin-gente) quando nell’aprile del 1911 disse alla Camera che«Marx era stato mandato in soffitta».

Nel congresso di Roma del 1900 s’era imposto il ri-formismo turatiano, vale a dire la tattica gradualista chesi concretava nell’appoggio dato dal gruppo parlamenta-re alle riforme del governo liberale, nell’abbandono deigesti di forza, nella condanna della violenza edell’insurrezione. Siffatta condotta sembrava agli intran-sigenti pericolosa, atta cioè ad «addormentare» più chea scuotere le masse e ad affinarne la coscienza classista.Enrico Ferri, cervello disordinato, ma oratore impetuosoe polemista combattivo, iniziò, quale direttoredell’Avanti! una campagna violenta contro il parassiti-smo affaristico della borghesia, contro le spese militaridello Stato, chiamando all’appello i lavoratori ingannatidalle provvidenze giolittiane. Nel congresso di Imola(1902) l’urto tra riformisti e rivoluzionari era già forte,ma i primi prevalsero; mentre nel congresso di Bologna(1904) la vittoria toccò ai ferriani coalizzati con il nuo-vo gruppo dei sindacalisti rivoluzionari. Il fatto nuovonon scaturiva dall’agitazione verbosa d’un Ferri, madalla rapida fortuna del movimento diretto da ArturoLabriola e da Enrico Leone. Nel 1903 era stata diffusanella versione italiana l’opera di George Sorel (L’avenir

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quella del 1904, notavano «segni palesi di decomposi-zione e di sfacelo» (Michels), e che nel 1913 giudicava-no il partito come uno strumento di conservazione mo-narchica (Missiroli); e sbagliava anche Giolitti (o me-glio aveva ragione solo in un senso immediato e contin-gente) quando nell’aprile del 1911 disse alla Camera che«Marx era stato mandato in soffitta».

Nel congresso di Roma del 1900 s’era imposto il ri-formismo turatiano, vale a dire la tattica gradualista chesi concretava nell’appoggio dato dal gruppo parlamenta-re alle riforme del governo liberale, nell’abbandono deigesti di forza, nella condanna della violenza edell’insurrezione. Siffatta condotta sembrava agli intran-sigenti pericolosa, atta cioè ad «addormentare» più chea scuotere le masse e ad affinarne la coscienza classista.Enrico Ferri, cervello disordinato, ma oratore impetuosoe polemista combattivo, iniziò, quale direttoredell’Avanti! una campagna violenta contro il parassiti-smo affaristico della borghesia, contro le spese militaridello Stato, chiamando all’appello i lavoratori ingannatidalle provvidenze giolittiane. Nel congresso di Imola(1902) l’urto tra riformisti e rivoluzionari era già forte,ma i primi prevalsero; mentre nel congresso di Bologna(1904) la vittoria toccò ai ferriani coalizzati con il nuo-vo gruppo dei sindacalisti rivoluzionari. Il fatto nuovonon scaturiva dall’agitazione verbosa d’un Ferri, madalla rapida fortuna del movimento diretto da ArturoLabriola e da Enrico Leone. Nel 1903 era stata diffusanella versione italiana l’opera di George Sorel (L’avenir

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socialiste des syndacats) seguita di lì a poco da altriscritti critici sul marxismo. Un concetto nuovo venivafatto balenare dinanzi alle masse: non più lente e fatico-se conquiste democratiche nell’ambito dello Stato bor-ghese, ma l’impiego dello sciopero generale, scioperopolitico non economico, come strumento educativo delproletariato ed arma essenziale per sovvertire l’ordinedella vecchia classe dirigente. Una nuova tecnica rivolu-zionaria che mirava a colpire i pubblici poteri nei lorogangli vitali, l’uso della violenza come mezzo decisivoper risolvere la lotta, il mito che si sostituiva ad una nor-ma positiva e pacata d’azione. Ecco il vero socialismo,diceva Sergio Panunzio, non quello della Critica socia-le, ecco la via moderna e sicura, non quella additata dalriformismo.

Ma la prima prova, lo sciopero politico del 1904, nonsortì gli effetti sperati: lo Stato liberale non crollò e laborghesia si rifece con l’elezioni; il numero dei deputatid’estrema sinistra diminuì, apparvero i clerico-moderati,e il partito socialista entrò in crisi. Questa fu superatacon l’equivoca formula dell’integralismo, proposta daFerri al congresso di Roma del 1906. I sindacalisti-rivo-luzionari, battuti, non si diedero per vinti, e nel 1907 or-ganizzarono, con Alceste De Ambris, il grande scioperoagrario nel parmense. Era la prova del fuoco; ma lo stes-so Sorel, che aveva aderito all’iniziativa in termini entu-siastici, dovette persuadersi che i risultati furono, in ulti-ma analisi, negativi. Lo sciopero del parmense haun’importanza storica notevolissima perché in quella

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socialiste des syndacats) seguita di lì a poco da altriscritti critici sul marxismo. Un concetto nuovo venivafatto balenare dinanzi alle masse: non più lente e fatico-se conquiste democratiche nell’ambito dello Stato bor-ghese, ma l’impiego dello sciopero generale, scioperopolitico non economico, come strumento educativo delproletariato ed arma essenziale per sovvertire l’ordinedella vecchia classe dirigente. Una nuova tecnica rivolu-zionaria che mirava a colpire i pubblici poteri nei lorogangli vitali, l’uso della violenza come mezzo decisivoper risolvere la lotta, il mito che si sostituiva ad una nor-ma positiva e pacata d’azione. Ecco il vero socialismo,diceva Sergio Panunzio, non quello della Critica socia-le, ecco la via moderna e sicura, non quella additata dalriformismo.

Ma la prima prova, lo sciopero politico del 1904, nonsortì gli effetti sperati: lo Stato liberale non crollò e laborghesia si rifece con l’elezioni; il numero dei deputatid’estrema sinistra diminuì, apparvero i clerico-moderati,e il partito socialista entrò in crisi. Questa fu superatacon l’equivoca formula dell’integralismo, proposta daFerri al congresso di Roma del 1906. I sindacalisti-rivo-luzionari, battuti, non si diedero per vinti, e nel 1907 or-ganizzarono, con Alceste De Ambris, il grande scioperoagrario nel parmense. Era la prova del fuoco; ma lo stes-so Sorel, che aveva aderito all’iniziativa in termini entu-siastici, dovette persuadersi che i risultati furono, in ulti-ma analisi, negativi. Lo sciopero del parmense haun’importanza storica notevolissima perché in quella

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dura lotta, per la prima volta, all’organizzazione proleta-ria si contrappose un’organizzazione padronale decisa acombattere sullo stesso terreno e con le stesse armi. Isindacalisti avevano sollecitato una forza reazionariache nel ’20-’21 riapparirà ingigantita e decisa a stronca-re il moto ascensionale delle classi lavoratrici. L’eco de-gli accadimenti di Parma (dove il rivoluzionarismo bat-tuto nelle campagne tornò a rinchiudersi nella cittadelladell’Oltretorrente), esercitò un peso decisivo sul con-gresso tenuto dal partito a Firenze (settembre 1908) sot-to la presidenza di Andrea Costa. Fu un trionfo pienodel riformismo; la corrente integralista del Ferri, lasciatain minoranza, rimase nel partito, mentre i sindacalisti ri-voluzionari vennero espulsi, perché la loro dottrina e laloro prassi furono ritenute incompatibili con le direttivedel partito socialista. Il fatto che la Confederazione ge-nerale del Lavoro appoggiasse la tendenza riformista, ri-velava i veri sentimenti delle masse lavoratrici e dei lorocapi.

Il partito socialista aveva perduto così la sua estremasinistra; l’estrema destra la perdette nel congresso diReggio Emilia del 1912, con l’espulsione di BissolatiBonomi e Cabrini. Ma questa scissione non va ricondot-ta a motivi di politica interna e sociale, né a certi «gestifilomonarchici» (che furono il pretesto della condanna),ma a qualcosa di più profondo, ad una diversa valutazio-ne d’alcuni grandi problemi di carattere nazionale ed eu-ropeo. I socialisti non avevano mai palesato molta dime-stichezza con la politica estera: se ne occupavano poco e

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dura lotta, per la prima volta, all’organizzazione proleta-ria si contrappose un’organizzazione padronale decisa acombattere sullo stesso terreno e con le stesse armi. Isindacalisti avevano sollecitato una forza reazionariache nel ’20-’21 riapparirà ingigantita e decisa a stronca-re il moto ascensionale delle classi lavoratrici. L’eco de-gli accadimenti di Parma (dove il rivoluzionarismo bat-tuto nelle campagne tornò a rinchiudersi nella cittadelladell’Oltretorrente), esercitò un peso decisivo sul con-gresso tenuto dal partito a Firenze (settembre 1908) sot-to la presidenza di Andrea Costa. Fu un trionfo pienodel riformismo; la corrente integralista del Ferri, lasciatain minoranza, rimase nel partito, mentre i sindacalisti ri-voluzionari vennero espulsi, perché la loro dottrina e laloro prassi furono ritenute incompatibili con le direttivedel partito socialista. Il fatto che la Confederazione ge-nerale del Lavoro appoggiasse la tendenza riformista, ri-velava i veri sentimenti delle masse lavoratrici e dei lorocapi.

Il partito socialista aveva perduto così la sua estremasinistra; l’estrema destra la perdette nel congresso diReggio Emilia del 1912, con l’espulsione di BissolatiBonomi e Cabrini. Ma questa scissione non va ricondot-ta a motivi di politica interna e sociale, né a certi «gestifilomonarchici» (che furono il pretesto della condanna),ma a qualcosa di più profondo, ad una diversa valutazio-ne d’alcuni grandi problemi di carattere nazionale ed eu-ropeo. I socialisti non avevano mai palesato molta dime-stichezza con la politica estera: se ne occupavano poco e

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solo per quel tanto che interferiva in modo diretto o in-diretto con le questioni economiche o con l’indirizzodella politica generale. Il postulato internazionalistasembrava esaurire in sé ogni problema di rapporto tral’Italia e l’altre potenze. Era, senza dubbio, un difetto eun limite come poi l’esperienza insegnò. Leonida Bisso-lati fu un’eccezione: egli sentiva il fascino delle grandiquestioni europee; le sue idealità di stampo mazzinianolo inducevano a soffermarsi su le aspirazioni delle na-zionalità oppresse, a comprendere che in un’Europa dipopoli liberi, in una effettiva democrazia internazionale,anche il socialismo avrebbe avuto più facili e sicuri svi-luppi. Ma, sopra tutto, si rendeva conto ch’era un assur-do voler fare della politica «interna» in un corpo di na-zione, astraendo dagli interessi «esterni» di quello stessoorganismo. Né quegli interessi potevano essere sistema-ticamente negletti solo in ossequio ad una pregiudizialeantimilitarista e anticolonialista che, in certi momenti,poteva diventare antinazionale. Il sentimento di patriache nella maggior parte del socialismo ufficiale era cela-to, quasi per pudore, perché non avvenisse di scambiarloper retorica patriottarda o per un residuo di mentalitàborghese, in Bissolati, in Canepa, in Cabrini, in Bonomi,emergeva vigoroso e congiunto proprio con gli idealiproletari. La guerra libica non fece che mettere a nudoquesta crisi latente: non che i socialisti caldeggiasseroquell’impresa e si facessero fautori d’una politica colo-niale, ma gli spiriti più sensibili avvertivano che il Me-diterraneo era altra cosa dall’Etiopia, che l’iniziativa

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solo per quel tanto che interferiva in modo diretto o in-diretto con le questioni economiche o con l’indirizzodella politica generale. Il postulato internazionalistasembrava esaurire in sé ogni problema di rapporto tral’Italia e l’altre potenze. Era, senza dubbio, un difetto eun limite come poi l’esperienza insegnò. Leonida Bisso-lati fu un’eccezione: egli sentiva il fascino delle grandiquestioni europee; le sue idealità di stampo mazzinianolo inducevano a soffermarsi su le aspirazioni delle na-zionalità oppresse, a comprendere che in un’Europa dipopoli liberi, in una effettiva democrazia internazionale,anche il socialismo avrebbe avuto più facili e sicuri svi-luppi. Ma, sopra tutto, si rendeva conto ch’era un assur-do voler fare della politica «interna» in un corpo di na-zione, astraendo dagli interessi «esterni» di quello stessoorganismo. Né quegli interessi potevano essere sistema-ticamente negletti solo in ossequio ad una pregiudizialeantimilitarista e anticolonialista che, in certi momenti,poteva diventare antinazionale. Il sentimento di patriache nella maggior parte del socialismo ufficiale era cela-to, quasi per pudore, perché non avvenisse di scambiarloper retorica patriottarda o per un residuo di mentalitàborghese, in Bissolati, in Canepa, in Cabrini, in Bonomi,emergeva vigoroso e congiunto proprio con gli idealiproletari. La guerra libica non fece che mettere a nudoquesta crisi latente: non che i socialisti caldeggiasseroquell’impresa e si facessero fautori d’una politica colo-niale, ma gli spiriti più sensibili avvertivano che il Me-diterraneo era altra cosa dall’Etiopia, che l’iniziativa

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giolittiana aveva, oltre che una diversa e ben più seriapreparazione, un animus assai lontano da quella crispi-na, che gli atti di sabotaggio del ’96 non dovevano piùripetersi, e infine ch’era inopportuno lasciare che i na-zionalisti monopolizzassero il prestigio d’un probabilesuccesso militare e politico. Ma c’era di più: un sociali-sta siciliano, come il De Felice, riteneva utile l’occupa-zione della Libia come avviamento alla soluzione delproblema della mano d’opera agricola isolana. Concettonon diverso da quello espresso dal Pascoli in un suo fa-moso discorso sulla «grande Proletaria». Così, mentrenel 1911 la maggioranza del partito assunse un’attitudi-ne di netta intransigenza, particolarmente violenta inMussolini, una schiera esigua di numero, non per quali-tà, manifestò il suo dissenso in forma dignitosa e corret-ta ma bastevole a suscitare ire e clamori. Nel congressodi Reggio Emilia, dominato dalla figura di Mussolini,venne messa in stato d’accusa e il divorzio fu irreparabi-le.

La crisi fu matrice d’un nuovo partito, il socialista ri-formista, che si presentava, per taluni aspetti, affine allaburismo inglese: abbandonava il postulato internazio-nalista nel senso dogmatico, s’inseriva più strettamentenella vita della nazione, e accoglieva senza riserve leforme e i metodi dello Stato liberale, senza arretrare di-nanzi ad un’eventuale partecipazione al governo. Alnuovo partito, ch’ebbe come suo capo il Bissolati e,dopo la morte di questi, Ivanoe Bonomi, mancòl’appoggio dell’organizzazioni sindacali rimaste unite e

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giolittiana aveva, oltre che una diversa e ben più seriapreparazione, un animus assai lontano da quella crispi-na, che gli atti di sabotaggio del ’96 non dovevano piùripetersi, e infine ch’era inopportuno lasciare che i na-zionalisti monopolizzassero il prestigio d’un probabilesuccesso militare e politico. Ma c’era di più: un sociali-sta siciliano, come il De Felice, riteneva utile l’occupa-zione della Libia come avviamento alla soluzione delproblema della mano d’opera agricola isolana. Concettonon diverso da quello espresso dal Pascoli in un suo fa-moso discorso sulla «grande Proletaria». Così, mentrenel 1911 la maggioranza del partito assunse un’attitudi-ne di netta intransigenza, particolarmente violenta inMussolini, una schiera esigua di numero, non per quali-tà, manifestò il suo dissenso in forma dignitosa e corret-ta ma bastevole a suscitare ire e clamori. Nel congressodi Reggio Emilia, dominato dalla figura di Mussolini,venne messa in stato d’accusa e il divorzio fu irreparabi-le.

La crisi fu matrice d’un nuovo partito, il socialista ri-formista, che si presentava, per taluni aspetti, affine allaburismo inglese: abbandonava il postulato internazio-nalista nel senso dogmatico, s’inseriva più strettamentenella vita della nazione, e accoglieva senza riserve leforme e i metodi dello Stato liberale, senza arretrare di-nanzi ad un’eventuale partecipazione al governo. Alnuovo partito, ch’ebbe come suo capo il Bissolati e,dopo la morte di questi, Ivanoe Bonomi, mancòl’appoggio dell’organizzazioni sindacali rimaste unite e

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fedeli ai vecchi capi e quindi al socialismo ufficiale. Ilgruppo socialriformista, per dirla con lo stesso Bonomi,si trovò «ad essere una schiera di generali con scarsi sol-dati».

* * *

Il nazionalismo italiano esordì quale fatto letterario: ilsuo battesimo è nella Nave dannunziana (1908) più chenelle polemiche di Enrico Corradini o nella rivendica-zione del Crispi africanista compiuta dagli scrittori delRegno. Del resto, quanti nazionalisti non cominciaronopoeti e letterati prima di convertirsi alla politica militan-te? Ma, letteratura a parte, il nazionalismo indigeno fucosì povero di vera e profonda cultura, così estraneo adogni problema morale, così sprovveduto di concretaumanità, da non potersi paragonare per importanza nem-meno ai suoi ben noti e scoperti modelli francesi (M.Barrès, Ch. Maurras). Il che non toglie che la correntenazionalista abbia esercitato un peso notevole nella vitaitaliana, superiore alla forza stessa delle sue schiere e alsuo intrinseco valore. Nato come movimento, il nazio-nalismo chiarì il suo peculiare carattere antiliberale eantidemocratico, egoisticamente nazionale, gerarchico emilitarista, nel convegno di Firenze (dicembre 1910).Non l’idealità delle lotte d’indipendenza, ma il modernoimperialismo, camuffato con la retorica romana, alimen-tava le aspirazioni del nuovo gruppo politico. Carduccifu l’ultimo poeta a sentire la forza morale del Risorgi-

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fedeli ai vecchi capi e quindi al socialismo ufficiale. Ilgruppo socialriformista, per dirla con lo stesso Bonomi,si trovò «ad essere una schiera di generali con scarsi sol-dati».

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Il nazionalismo italiano esordì quale fatto letterario: ilsuo battesimo è nella Nave dannunziana (1908) più chenelle polemiche di Enrico Corradini o nella rivendica-zione del Crispi africanista compiuta dagli scrittori delRegno. Del resto, quanti nazionalisti non cominciaronopoeti e letterati prima di convertirsi alla politica militan-te? Ma, letteratura a parte, il nazionalismo indigeno fucosì povero di vera e profonda cultura, così estraneo adogni problema morale, così sprovveduto di concretaumanità, da non potersi paragonare per importanza nem-meno ai suoi ben noti e scoperti modelli francesi (M.Barrès, Ch. Maurras). Il che non toglie che la correntenazionalista abbia esercitato un peso notevole nella vitaitaliana, superiore alla forza stessa delle sue schiere e alsuo intrinseco valore. Nato come movimento, il nazio-nalismo chiarì il suo peculiare carattere antiliberale eantidemocratico, egoisticamente nazionale, gerarchico emilitarista, nel convegno di Firenze (dicembre 1910).Non l’idealità delle lotte d’indipendenza, ma il modernoimperialismo, camuffato con la retorica romana, alimen-tava le aspirazioni del nuovo gruppo politico. Carduccifu l’ultimo poeta a sentire la forza morale del Risorgi-

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mento; in Pascoli già affiorano altri motivi; inD’Annunzio l’amor patrio esplode in «morboso furoreverbale», in una smania di «gesta» più che in una consa-pevole fermezza d’azione. La guerra libica («la nostraguerra», scriveva l’Idea Nazionale) fu il trampolino dilancio dei nazionalisti. Ma era sempre una piccola im-presa, l’inizio modesto; l’espansione doveva cominciaredalla «quarta sponda», non insabbiarvisi. Intanto, aidubbiosi ed agli incerti la Libia veniva descritta comeuna terra promessa, come il granaio di Roma, come lamecca dei fosfati, di guisa che al Salvemini e ad altristudiosi seri riusciva facile dimostrare l’inconsistenza diquelle affermazioni e il malcostume dei nuovi profetidella patria, salvo poi – nell’asprezza della polemica –cadere nell’errore opposto, trascurando la sostanza poli-tica del problema nel quadro dei rapporti internazionali.

Il congresso di Roma (1912) vide le falangi nazionali-ste accresciute, per il beneficio tratto dal clima spiritualee psicologico della guerra da poco vittoriosamente con-chiusa. Ma si precisarono altresì gli elementi eterogeneiconfluiti nel partito: ex-rivoluzionari di sinistra che so-gnavano una guerra redentrice del proletariato combat-tuta tra le nazioni anziché tra le classi; filocattolici no-stalgici del connubio di trono e altare; monarchici o me-glio dinastici accesi; industriali che, in attesa di grosseforniture belliche, chiedevano una politica economicaprotezionista; autoritari che mettevano al bando il dirittodi sciopero in omaggio al dovere della disciplina e re-clamavano la subordinazione dell’individuo allo Stato,

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mento; in Pascoli già affiorano altri motivi; inD’Annunzio l’amor patrio esplode in «morboso furoreverbale», in una smania di «gesta» più che in una consa-pevole fermezza d’azione. La guerra libica («la nostraguerra», scriveva l’Idea Nazionale) fu il trampolino dilancio dei nazionalisti. Ma era sempre una piccola im-presa, l’inizio modesto; l’espansione doveva cominciaredalla «quarta sponda», non insabbiarvisi. Intanto, aidubbiosi ed agli incerti la Libia veniva descritta comeuna terra promessa, come il granaio di Roma, come lamecca dei fosfati, di guisa che al Salvemini e ad altristudiosi seri riusciva facile dimostrare l’inconsistenza diquelle affermazioni e il malcostume dei nuovi profetidella patria, salvo poi – nell’asprezza della polemica –cadere nell’errore opposto, trascurando la sostanza poli-tica del problema nel quadro dei rapporti internazionali.

Il congresso di Roma (1912) vide le falangi nazionali-ste accresciute, per il beneficio tratto dal clima spiritualee psicologico della guerra da poco vittoriosamente con-chiusa. Ma si precisarono altresì gli elementi eterogeneiconfluiti nel partito: ex-rivoluzionari di sinistra che so-gnavano una guerra redentrice del proletariato combat-tuta tra le nazioni anziché tra le classi; filocattolici no-stalgici del connubio di trono e altare; monarchici o me-glio dinastici accesi; industriali che, in attesa di grosseforniture belliche, chiedevano una politica economicaprotezionista; autoritari che mettevano al bando il dirittodi sciopero in omaggio al dovere della disciplina e re-clamavano la subordinazione dell’individuo allo Stato,

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scrittori e giornalisti, e non ultimi gli assertori della«guerra per la guerra». Infatti, la teoria della guerracome «bagno di sangue» era scaturita un tempodall’oratoria napoletana dell’on. Rocco de Zerbi; maquel «bagno» diventò «lavacro» con D’Annunzio e«igiene del mondo» per i futuristi.

Il difetto più grave era che l’infatuazione nazionalista,in uno Stato giovane e in un paese di scarse risorsecome l’Italia, non consentiva la valutazione concreta deiproblemi e nemmeno il vivificarsi dei veri ideali civili.

* * *

È stato detto che la prassi giolittiana ha dissolto i par-titi. Ciò non è vero, e basterebbe l’esempio del sociali-smo (nonostante le sue defezioni interne) e del naziona-lismo a dimostrarlo. È esatto invece che, mentre le aliestreme della vita politica italiana (e quindi del parla-mento) si rafforzavano e si precisavano, i partiti tradi-zionali perdevano vigore e sembravano velati dalla neb-bia dell’indistinto. Alla maggioranza fedele di cui Gio-litti poteva disporre a Montecitorio, non corrispondevanel paese un saldo organismo politico. Molte posizionipersonali, magari oneste e autorevoli, non una strutturaprogrammatica ed organizzativa su base nazionale. Perun deputato socialista, Alessandria o Palermo, salvo iproblemi locali, erano la stessa cosa; per un liberale, undemocratico, un radicale, i collegi elettorali di Torino edi Cosenza erano due mondi diversi. Ed un interrogativo

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scrittori e giornalisti, e non ultimi gli assertori della«guerra per la guerra». Infatti, la teoria della guerracome «bagno di sangue» era scaturita un tempodall’oratoria napoletana dell’on. Rocco de Zerbi; maquel «bagno» diventò «lavacro» con D’Annunzio e«igiene del mondo» per i futuristi.

Il difetto più grave era che l’infatuazione nazionalista,in uno Stato giovane e in un paese di scarse risorsecome l’Italia, non consentiva la valutazione concreta deiproblemi e nemmeno il vivificarsi dei veri ideali civili.

* * *

È stato detto che la prassi giolittiana ha dissolto i par-titi. Ciò non è vero, e basterebbe l’esempio del sociali-smo (nonostante le sue defezioni interne) e del naziona-lismo a dimostrarlo. È esatto invece che, mentre le aliestreme della vita politica italiana (e quindi del parla-mento) si rafforzavano e si precisavano, i partiti tradi-zionali perdevano vigore e sembravano velati dalla neb-bia dell’indistinto. Alla maggioranza fedele di cui Gio-litti poteva disporre a Montecitorio, non corrispondevanel paese un saldo organismo politico. Molte posizionipersonali, magari oneste e autorevoli, non una strutturaprogrammatica ed organizzativa su base nazionale. Perun deputato socialista, Alessandria o Palermo, salvo iproblemi locali, erano la stessa cosa; per un liberale, undemocratico, un radicale, i collegi elettorali di Torino edi Cosenza erano due mondi diversi. Ed un interrogativo

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inquietante s’affacciava ad ogni spirito attento: lo Statoliberale italiano aveva realizzato veramente una demo-crazia? Era, almeno, capace di attuarla? Se vera demo-crazia è autogoverno, la mèta appariva lontana e preclu-sa, dall’accentramento, dai cresciuti poteri dell’esecuti-vo, da una educazione politica ancora scarsamente dif-fusa. Si guardava alle prefetture come piccole satrapie,agli uomini politici del Mezzogiorno più ras che auten-tici rappresentanti liberali e democratici della volontàpopolare, si osservava questo e altro, e lo sguardo se neritraeva scontento. Il socialismo aveva operato in esten-sione ed anche in profondità; ma era riuscito a predi-sporre i quadri d’un nuovo ceto dirigente? Max Weber,nella sua prolusione all’Università di Friburgo (1895),diceva: «Le classi borghesi, come custodi degli interessidi potenza della nazione, sembrano appassire, mentremanca qualsiasi indizio che la classe lavoratrice cominciad essere matura per prenderne il posto.... Se si riuscissea creare un’aristocrazia operaia!...». Sociologismo a par-te, anche in Italia, verso il ’14, si cominciava ad accusa-re una insufficienza della borghesia ed una carenza delproletariato in funzioni di responsabilità e di governo.

Pure, l’Italia aveva progredito, e non solo la borghe-sia ma, con essa e per essa, anche il popolo. La strutturaeconomica del paese era salda e proporzionata; i segnidel miglioramento visibili e continui. Bastava osservarela metropoli lombarda, con la sua corona di borghi e difabbriche, per convincersi del cammino percorso. Vera-mente, i futuristi – che avevano il loro quartier generale

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inquietante s’affacciava ad ogni spirito attento: lo Statoliberale italiano aveva realizzato veramente una demo-crazia? Era, almeno, capace di attuarla? Se vera demo-crazia è autogoverno, la mèta appariva lontana e preclu-sa, dall’accentramento, dai cresciuti poteri dell’esecuti-vo, da una educazione politica ancora scarsamente dif-fusa. Si guardava alle prefetture come piccole satrapie,agli uomini politici del Mezzogiorno più ras che auten-tici rappresentanti liberali e democratici della volontàpopolare, si osservava questo e altro, e lo sguardo se neritraeva scontento. Il socialismo aveva operato in esten-sione ed anche in profondità; ma era riuscito a predi-sporre i quadri d’un nuovo ceto dirigente? Max Weber,nella sua prolusione all’Università di Friburgo (1895),diceva: «Le classi borghesi, come custodi degli interessidi potenza della nazione, sembrano appassire, mentremanca qualsiasi indizio che la classe lavoratrice cominciad essere matura per prenderne il posto.... Se si riuscissea creare un’aristocrazia operaia!...». Sociologismo a par-te, anche in Italia, verso il ’14, si cominciava ad accusa-re una insufficienza della borghesia ed una carenza delproletariato in funzioni di responsabilità e di governo.

Pure, l’Italia aveva progredito, e non solo la borghe-sia ma, con essa e per essa, anche il popolo. La strutturaeconomica del paese era salda e proporzionata; i segnidel miglioramento visibili e continui. Bastava osservarela metropoli lombarda, con la sua corona di borghi e difabbriche, per convincersi del cammino percorso. Vera-mente, i futuristi – che avevano il loro quartier generale

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in una saletta del Savini – strepitavano che Milano erabrutta, piatta e borghese; che era tempo di sollecitare ilsorgere dei grattacieli come a Manhattan, d’imprimerleun volto aerodinamico, e così via. Ma il buon ambrosia-no, reduce dal consueto passeggio in galleria, alzati gliocchi alle guglie del Duomo, si persuadeva che più su diquella Madonnina non era bello e rispettoso voler salire,e nemmeno opportuno; che Milano non era New York, eche l’Italia doveva procedere nella via aperta dai padri,senza bisogno d’imperi e di rivoluzioni, ma solo di pacee di lavoro. L’uomo medio non poteva certo sospettareche sulla vita del paese (non tutta idillica, ma fondamen-talmente sana e proba) stava per abbattersi il turbinedella guerra.

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in una saletta del Savini – strepitavano che Milano erabrutta, piatta e borghese; che era tempo di sollecitare ilsorgere dei grattacieli come a Manhattan, d’imprimerleun volto aerodinamico, e così via. Ma il buon ambrosia-no, reduce dal consueto passeggio in galleria, alzati gliocchi alle guglie del Duomo, si persuadeva che più su diquella Madonnina non era bello e rispettoso voler salire,e nemmeno opportuno; che Milano non era New York, eche l’Italia doveva procedere nella via aperta dai padri,senza bisogno d’imperi e di rivoluzioni, ma solo di pacee di lavoro. L’uomo medio non poteva certo sospettareche sulla vita del paese (non tutta idillica, ma fondamen-talmente sana e proba) stava per abbattersi il turbinedella guerra.

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IIILA GRANDE PROVA

(1914-1918)

La guerra e il socialismo europeo. Interventisti e neutrali-sti. – Parlamento e paese. – Le conseguenze dell’ottobre1917. Sintomi della crisi imminente.

Lo scoppio della guerra ’14-’18 ha segnato la sconfit-ta dei partiti socialisti e della II Internazionale. Gli uni el’altra avevano vissuto e acquistato prestigio nella diffu-sa persuasione ch’essi potessero costituire una seria rè-mora alla minaccia di estesi conflitti imperialistici, eche, nell’eventualità d’una crisi, la resistenza aperta epalese o l’opposizione sorda e tenace delle classi lavora-trici, strette dal vincolo della loro solidarietà internazio-nale, avrebbero paralizzato i piani aggressivi e le mirebellicose dei governi. In realtà nulla di tutto questo av-venne, e fu proprio il partito socialdemocratico tedesco,oggetto d’ammirazione e modello d’ortodossia, a con-vertirsi per primo in uno strumento prezioso di collabo-razione per il governo imperiale. Poi seguirono, più omeno riluttanti, i capi socialisti viennesi (Vittorio Adlerdichiarò che in Austria la guerra contro la Serbia era po-polare), e il fronte dell’unità proletaria, una volta incri-

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IIILA GRANDE PROVA

(1914-1918)

La guerra e il socialismo europeo. Interventisti e neutrali-sti. – Parlamento e paese. – Le conseguenze dell’ottobre1917. Sintomi della crisi imminente.

Lo scoppio della guerra ’14-’18 ha segnato la sconfit-ta dei partiti socialisti e della II Internazionale. Gli uni el’altra avevano vissuto e acquistato prestigio nella diffu-sa persuasione ch’essi potessero costituire una seria rè-mora alla minaccia di estesi conflitti imperialistici, eche, nell’eventualità d’una crisi, la resistenza aperta epalese o l’opposizione sorda e tenace delle classi lavora-trici, strette dal vincolo della loro solidarietà internazio-nale, avrebbero paralizzato i piani aggressivi e le mirebellicose dei governi. In realtà nulla di tutto questo av-venne, e fu proprio il partito socialdemocratico tedesco,oggetto d’ammirazione e modello d’ortodossia, a con-vertirsi per primo in uno strumento prezioso di collabo-razione per il governo imperiale. Poi seguirono, più omeno riluttanti, i capi socialisti viennesi (Vittorio Adlerdichiarò che in Austria la guerra contro la Serbia era po-polare), e il fronte dell’unità proletaria, una volta incri-

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nato, crollò rapidamente in cento pezzi. I socialistidell’Intesa riunitisi a Londra nel ’15 giustificarono illoro atteggiamento con la tesi della «nazione invasa».Ma la guerra rivelava un’altra verità in contrasto con af-fermazioni troppe volte ripetute, e cioè che i problemi dinazionalità e gli antagonismi nati dalla gara per la con-quista dei mercati economici mondiali primeggiavanoancora sulle lotte propriamente sociali, e che i protago-nisti della storia del mondo erano ancora le nazioni enon le classi.

La dichiarazione italiana di neutralità (3 agosto 1914)trovò consenzienti tutti i partiti. Il dono inestimabiledella pace non era cosa di cui si potesse far getto senzamatura riflessione: d’altro lato era opportuno che il go-verno scindesse le sue responsabilità dalla politica ag-gressiva degli Imperi centrali; il testo della Triplice a ciòl’autorizzava e gli accordi italo-francesi del 1902 ve losospingevano. Solo i nazionalisti avrebbero preferito, inquei giorni, un intervento a fianco della Germania edell’Austria; ma agiva in essi, oltre il consueto attivismoguerraiolo, la fallace illusione d’una schiacciante vitto-ria tedesca su gli avversari meno pronti e poco organiz-zati. Plaudivano, invece, alla saggia condotta del gover-no le correnti pacifiste (socialisti e cattolici), i liberalid’ogni sfumatura, i circoli diplomatici e finanziari, e lesfere militari consapevoli del lavoro preparatorio che ilnostro esercito richiedeva dopo il consumo d’armi e dimezzi imposto dalla guerra libica. Ma la battaglia politi-ca doveva fatalmente accendersi su l’uso che l’Italia

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nato, crollò rapidamente in cento pezzi. I socialistidell’Intesa riunitisi a Londra nel ’15 giustificarono illoro atteggiamento con la tesi della «nazione invasa».Ma la guerra rivelava un’altra verità in contrasto con af-fermazioni troppe volte ripetute, e cioè che i problemi dinazionalità e gli antagonismi nati dalla gara per la con-quista dei mercati economici mondiali primeggiavanoancora sulle lotte propriamente sociali, e che i protago-nisti della storia del mondo erano ancora le nazioni enon le classi.

La dichiarazione italiana di neutralità (3 agosto 1914)trovò consenzienti tutti i partiti. Il dono inestimabiledella pace non era cosa di cui si potesse far getto senzamatura riflessione: d’altro lato era opportuno che il go-verno scindesse le sue responsabilità dalla politica ag-gressiva degli Imperi centrali; il testo della Triplice a ciòl’autorizzava e gli accordi italo-francesi del 1902 ve losospingevano. Solo i nazionalisti avrebbero preferito, inquei giorni, un intervento a fianco della Germania edell’Austria; ma agiva in essi, oltre il consueto attivismoguerraiolo, la fallace illusione d’una schiacciante vitto-ria tedesca su gli avversari meno pronti e poco organiz-zati. Plaudivano, invece, alla saggia condotta del gover-no le correnti pacifiste (socialisti e cattolici), i liberalid’ogni sfumatura, i circoli diplomatici e finanziari, e lesfere militari consapevoli del lavoro preparatorio che ilnostro esercito richiedeva dopo il consumo d’armi e dimezzi imposto dalla guerra libica. Ma la battaglia politi-ca doveva fatalmente accendersi su l’uso che l’Italia

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avrebbe fatto, nel divampare dell’incendio europeo, del-la propria libertà di scelta.

I primi a muoversi per l’intervento furono i repubbli-cani, i democratici, i radicali, cioè i custodi della tradi-zione mazziniana e garibaldina del Risorgimento, coloroche sempre avevano avversato «l’innaturale connubio»con l’Austria, e che additavano nel martirio di Oberdanun pegno morale di riscossa. Poi sorsero incitatrici levoci degli irredenti, prima fra tutte quella dell’esule Ce-sare Battisti. All’appello del Battisti, che rappresentavail fiore del socialismo trentino, non rimase sordo il grup-po riformista italiano di Bissolati e Bonomi; e con unimpeto tutto suo entrò in campo il sindacalismo rivolu-zionario guidato da Filippo Corridoni che pure un annoavanti, nel suo periodico Rompete le righe, conducevaun’aspra campagna antimilitarista. Il primo interventi-smo fu dunque di Sinistra: erano i figli spiritualidell’antico partito d’azione del Risorgimento che spro-navano la Destra ancora paga d’una cauta e vigile con-dotta neutrale. Un ideale, espresso in nobile forma dalBissolati, illuminava questo interventismo e ne costitui-va l’intima ragione: un’esigenza di solidarietà tra i po-poli ancora oppressi, di lotta comune contro il militari-smo e l’autoritarismo degli Imperi centrali. La guerra siconfigurava un po’ come una crociata romantica, comel’ultima fase di liberazione delle nazionalità.

Alcuni di questi motivi, ma congiunti con altrid’indole più particolare (con il timore di un dilagaredell’Austria nei Balcani, col desiderio di completare

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avrebbe fatto, nel divampare dell’incendio europeo, del-la propria libertà di scelta.

I primi a muoversi per l’intervento furono i repubbli-cani, i democratici, i radicali, cioè i custodi della tradi-zione mazziniana e garibaldina del Risorgimento, coloroche sempre avevano avversato «l’innaturale connubio»con l’Austria, e che additavano nel martirio di Oberdanun pegno morale di riscossa. Poi sorsero incitatrici levoci degli irredenti, prima fra tutte quella dell’esule Ce-sare Battisti. All’appello del Battisti, che rappresentavail fiore del socialismo trentino, non rimase sordo il grup-po riformista italiano di Bissolati e Bonomi; e con unimpeto tutto suo entrò in campo il sindacalismo rivolu-zionario guidato da Filippo Corridoni che pure un annoavanti, nel suo periodico Rompete le righe, conducevaun’aspra campagna antimilitarista. Il primo interventi-smo fu dunque di Sinistra: erano i figli spiritualidell’antico partito d’azione del Risorgimento che spro-navano la Destra ancora paga d’una cauta e vigile con-dotta neutrale. Un ideale, espresso in nobile forma dalBissolati, illuminava questo interventismo e ne costitui-va l’intima ragione: un’esigenza di solidarietà tra i po-poli ancora oppressi, di lotta comune contro il militari-smo e l’autoritarismo degli Imperi centrali. La guerra siconfigurava un po’ come una crociata romantica, comel’ultima fase di liberazione delle nazionalità.

Alcuni di questi motivi, ma congiunti con altrid’indole più particolare (con il timore di un dilagaredell’Austria nei Balcani, col desiderio di completare

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l’opera della generazione cavouriana) cominciarono afar breccia anche tra i liberali di destra. In essi agiva lagiusta preoccupazione – già indicata poco dopo il ’70 daEmilio Visconti Venosta – delle incalcolabili conseguen-ze che una pax germanica avrebbe potuto avere perl’Europa e quindi per l’Italia. Gli articoli di Luigi Alber-tini orientavano il gran pubblico in tal senso, e la politi-ca di Salandra tendeva, per altra via, allo stesso fine. Piùlentamente si mossero i cattolici, passando da un rigidopacifismo a una neutralità condizionata che lasciavaaperta la via verso una soluzione bellica quando il rima-nere neutrali fosse apparso incompatibile – come dicevail conte Dalla Torre – «con le aspirazioni e gli interessiche costituiscono il patrimonio morale della nazione». Inazionalisti vollero riguadagnare le posizioni d’avan-guardia, gareggiando con le correnti di sinistra nel fer-vore dell’interventismo. Con in più, le grandi mireadriatiche, le accuse al governo pavido, alla borghesiaimbelle, e così via. Ma la più clamorosa fu la conversio-ne del direttore dell’Avanti! Mussolini nel settembre’14condannò la guerra perché «forma estrema e coatta dellacollaborazione di classe», nell’ottobre parlò di «neutra-lità condizionata», nel novembre, uscito dal partito so-cialista e fondato il Popolo d’Italia, inalberò il vessillodella «guerra rivoluzionaria» come necessità urgente einderogabile.

Fermo nella difesa della neutralità e dei compensi ne-goziati con l’Austria rimaneva Giolitti; fermo perchéconvinto che la guerra sarebbe stata troppo lunga, di-

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l’opera della generazione cavouriana) cominciarono afar breccia anche tra i liberali di destra. In essi agiva lagiusta preoccupazione – già indicata poco dopo il ’70 daEmilio Visconti Venosta – delle incalcolabili conseguen-ze che una pax germanica avrebbe potuto avere perl’Europa e quindi per l’Italia. Gli articoli di Luigi Alber-tini orientavano il gran pubblico in tal senso, e la politi-ca di Salandra tendeva, per altra via, allo stesso fine. Piùlentamente si mossero i cattolici, passando da un rigidopacifismo a una neutralità condizionata che lasciavaaperta la via verso una soluzione bellica quando il rima-nere neutrali fosse apparso incompatibile – come dicevail conte Dalla Torre – «con le aspirazioni e gli interessiche costituiscono il patrimonio morale della nazione». Inazionalisti vollero riguadagnare le posizioni d’avan-guardia, gareggiando con le correnti di sinistra nel fer-vore dell’interventismo. Con in più, le grandi mireadriatiche, le accuse al governo pavido, alla borghesiaimbelle, e così via. Ma la più clamorosa fu la conversio-ne del direttore dell’Avanti! Mussolini nel settembre’14condannò la guerra perché «forma estrema e coatta dellacollaborazione di classe», nell’ottobre parlò di «neutra-lità condizionata», nel novembre, uscito dal partito so-cialista e fondato il Popolo d’Italia, inalberò il vessillodella «guerra rivoluzionaria» come necessità urgente einderogabile.

Fermo nella difesa della neutralità e dei compensi ne-goziati con l’Austria rimaneva Giolitti; fermo perchéconvinto che la guerra sarebbe stata troppo lunga, di-

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spendiosa e gravida di sacrifici per l’Italia. E con luierano tutti coloro, nel parlamento e nel paese, che prefe-rivano non esporre sé e la nazione ad un salto nel buio.

Per la neutralità, o meglio per la pace ad ogni costo,erano i socialisti ufficiali, cioè il grosso del partito sor-retto dalla Confederazione generale del Lavoro. Era fa-tale che ad ogni guerra il socialismo italiano dovessecontare i suoi transfughi; così nel 1911-12, così nel’14-’15. Ma, nonostante le defezioni e la concorrenzaesercitata dai socialriformisti, dai sindacalisti rivoluzio-nari, dal gruppo di Battisti, e da socialisti indipendenticome Ciccotti, Arturo Labriola, Raimondo, Altobelli, ilnucleo centrale resistette, pur rivelando un intimo disa-gio, e le masse non si sbandarono. Così, quello italianorimase il solo tra i partiti socialisti dei paesi belligerantia ripudiare la politica di guerra della nazione. Tuttaviaun modus vivendi fu trovato con la formula di Costanti-no Lazzari: «non aderire alla guerra, né sabotarla».

* * *

Atmosfera non limpida, in Italia, nell’aspra lotta tra laneutralità e l’intervento. Scarsa sintonia tra le voci delpaese e la voce del governo; incertezza della stampa,impreparazione dei partiti ad affrontare gravi problemidi politica internazionale; e se c’era qualche uomo poli-tico meglio dotato e preparato, capace d’un pensieroproprio (un Bissolati, un Arturo Labriola), e quindi so-spinto ad assumere un atteggiamento personale ed auto-

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spendiosa e gravida di sacrifici per l’Italia. E con luierano tutti coloro, nel parlamento e nel paese, che prefe-rivano non esporre sé e la nazione ad un salto nel buio.

Per la neutralità, o meglio per la pace ad ogni costo,erano i socialisti ufficiali, cioè il grosso del partito sor-retto dalla Confederazione generale del Lavoro. Era fa-tale che ad ogni guerra il socialismo italiano dovessecontare i suoi transfughi; così nel 1911-12, così nel’14-’15. Ma, nonostante le defezioni e la concorrenzaesercitata dai socialriformisti, dai sindacalisti rivoluzio-nari, dal gruppo di Battisti, e da socialisti indipendenticome Ciccotti, Arturo Labriola, Raimondo, Altobelli, ilnucleo centrale resistette, pur rivelando un intimo disa-gio, e le masse non si sbandarono. Così, quello italianorimase il solo tra i partiti socialisti dei paesi belligerantia ripudiare la politica di guerra della nazione. Tuttaviaun modus vivendi fu trovato con la formula di Costanti-no Lazzari: «non aderire alla guerra, né sabotarla».

* * *

Atmosfera non limpida, in Italia, nell’aspra lotta tra laneutralità e l’intervento. Scarsa sintonia tra le voci delpaese e la voce del governo; incertezza della stampa,impreparazione dei partiti ad affrontare gravi problemidi politica internazionale; e se c’era qualche uomo poli-tico meglio dotato e preparato, capace d’un pensieroproprio (un Bissolati, un Arturo Labriola), e quindi so-spinto ad assumere un atteggiamento personale ed auto-

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nomo, finiva, proprio per questo, col creare – sia pureinvolontariamente – più confusione che chiarezza nelgrosso pubblico avvezzo a seguire le correnti tradiziona-li dei gruppi e dei partiti. Molte ideologie d’accatto,poca riflessione pacata, poca meditazione attenta suiveri, profondi interessi della nazione. Un senso d’incer-tezza e quindi una faticosa ricerca della via giusta anchenelle coscienze più serie, massime durante i primi mesi.In seguito, la necessità dell’intervento, sentita come esi-genza sempre più diffusa, come bisogno d’uscire daquel clima ambiguo e ondeggiante che la neutralità por-ta sempre con sé, come volontà d’azione, come deside-rio d’assumere una fisionomia definita ed una responsa-bilità nell’avvenire dell’Italia e dell’Europa. E quindi ilconfluire di molte e diverse energie, di forze disparate,vecchie e recenti, su un terreno finalmente comune, e ilmanifestarsi, attraverso una discordia concors d’uomininuovi, o almeno rinnovati dalla lotta, di individualità de-siderose d’agire, che si ritrovano, che scoprono il me-glio di sé nello sforzo collettivo della propaganda e del-la guerra.

Dall’interventismo dei primi giorni, di prevalente ca-rattere democratico e rivoluzionario, si passò a quellopiù fecondo, più ampio, meno settario, che s’ottennecon l’adesione anche dei liberali-nazionali, i quali mira-vano a distinguersi così dal fiacco e generico liberali-smo come da talune posizioni esclusiviste e unilateralidel nazionalismo. Questi elementi eterogenei chel’interventismo unisce, percorrendo una strada comune,

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nomo, finiva, proprio per questo, col creare – sia pureinvolontariamente – più confusione che chiarezza nelgrosso pubblico avvezzo a seguire le correnti tradiziona-li dei gruppi e dei partiti. Molte ideologie d’accatto,poca riflessione pacata, poca meditazione attenta suiveri, profondi interessi della nazione. Un senso d’incer-tezza e quindi una faticosa ricerca della via giusta anchenelle coscienze più serie, massime durante i primi mesi.In seguito, la necessità dell’intervento, sentita come esi-genza sempre più diffusa, come bisogno d’uscire daquel clima ambiguo e ondeggiante che la neutralità por-ta sempre con sé, come volontà d’azione, come deside-rio d’assumere una fisionomia definita ed una responsa-bilità nell’avvenire dell’Italia e dell’Europa. E quindi ilconfluire di molte e diverse energie, di forze disparate,vecchie e recenti, su un terreno finalmente comune, e ilmanifestarsi, attraverso una discordia concors d’uomininuovi, o almeno rinnovati dalla lotta, di individualità de-siderose d’agire, che si ritrovano, che scoprono il me-glio di sé nello sforzo collettivo della propaganda e del-la guerra.

Dall’interventismo dei primi giorni, di prevalente ca-rattere democratico e rivoluzionario, si passò a quellopiù fecondo, più ampio, meno settario, che s’ottennecon l’adesione anche dei liberali-nazionali, i quali mira-vano a distinguersi così dal fiacco e generico liberali-smo come da talune posizioni esclusiviste e unilateralidel nazionalismo. Questi elementi eterogenei chel’interventismo unisce, percorrendo una strada comune,

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tendono anche a confondersi, a prendere qualcosa l’unodell’altro. Così Mazzini, idolo repubblicano, alimenta esorregge, con.... opportuni travestimenti, anche la propa-ganda spicciola dei moderati o di alcuni socialisti dissi-denti. Ma sotto l’etichetta, e, diciamo pure, la fededell’interventismo, che rende solidali uomini e gruppi diopposte origini, permangono profonde le differenze.Differenze di metodo, di convinzioni generali, di scopi edi ideali lontani; più ancora, diversità di spirito e di for-mazione politica. Ben altro era l’animus della guerra inBattisti o in Corradini, da quello che si esprimeva congraduale misura, ma con molta efficacia sul medio pub-blico, attraverso le colonne del Corriere della Sera. Etutto ciò doveva fatalmente riemergere e pesare nel do-poguerra. Bisogna riconoscere che la materia concretadel contendere, cioè le idee, non era grandissima. Na-sceva anche il mito dell’ultima guerra, insieme con ilmiraggio di un mondo libero e pacificato per sempre.

Certo vi fu un risveglio, in quei mesi di passione, del-la coscienza politica che sembrava essersi addormentatanella quotidiana pratica di governo e nelle periodichescaramucce parlamentari. La crisi del giolittismo e delpartito socialista ne furono le due prove maggiori:quell’ondata di eccessivo sdegno contro il giolittiano«parecchio», divenuto sinonimo di «vituperoso merci-monio», era tuttavia un sintomo di ribellione ai sistemi,ai calcoli, alla prudenza della diplomazia ordinaria e delvecchio mondo politico. Ma il parlamento era, in grandemaggioranza, per la neutralità: i liberali giolittiani in

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tendono anche a confondersi, a prendere qualcosa l’unodell’altro. Così Mazzini, idolo repubblicano, alimenta esorregge, con.... opportuni travestimenti, anche la propa-ganda spicciola dei moderati o di alcuni socialisti dissi-denti. Ma sotto l’etichetta, e, diciamo pure, la fededell’interventismo, che rende solidali uomini e gruppi diopposte origini, permangono profonde le differenze.Differenze di metodo, di convinzioni generali, di scopi edi ideali lontani; più ancora, diversità di spirito e di for-mazione politica. Ben altro era l’animus della guerra inBattisti o in Corradini, da quello che si esprimeva congraduale misura, ma con molta efficacia sul medio pub-blico, attraverso le colonne del Corriere della Sera. Etutto ciò doveva fatalmente riemergere e pesare nel do-poguerra. Bisogna riconoscere che la materia concretadel contendere, cioè le idee, non era grandissima. Na-sceva anche il mito dell’ultima guerra, insieme con ilmiraggio di un mondo libero e pacificato per sempre.

Certo vi fu un risveglio, in quei mesi di passione, del-la coscienza politica che sembrava essersi addormentatanella quotidiana pratica di governo e nelle periodichescaramucce parlamentari. La crisi del giolittismo e delpartito socialista ne furono le due prove maggiori:quell’ondata di eccessivo sdegno contro il giolittiano«parecchio», divenuto sinonimo di «vituperoso merci-monio», era tuttavia un sintomo di ribellione ai sistemi,ai calcoli, alla prudenza della diplomazia ordinaria e delvecchio mondo politico. Ma il parlamento era, in grandemaggioranza, per la neutralità: i liberali giolittiani in

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prima fila, alcuni cattolici, e il gruppo socialista. Ciò in-dusse il governo Salandra-Sonnino a rassegnare il 13maggio le proprie dimissioni; ma il Patto di Londra conl’obbligo del nostro intervento entro un mese era giàstato firmato (26 aprile). Quando il Re iniziò le consul-tazioni, offrendo di comporre il nuovo ministero al Gio-litti, questi rifiutò. E tale rinuncia in cui dovettero influi-re non solo e non tanto le forti agitazioni interventistequanto la consapevolezza ch’era ormai difficile annulla-re un solenne impegno contratto con l’Intesa, fu in so-stanza «l’abdicazione del neutralismo», l’accettazione diuna sconfitta. Con il ritiro di Giolitti la folta schiera deisuoi seguaci riacquistava libertà di scelta e di movimen-to (si ricordi ch’era una maggioranza parlamentare, nonun partito organico), e infatti il 20 maggio giolittiani ecattolici votarono per il rinnovato ministero Salandra-Sonnino e per la guerra.

Crisi dell’istituto parlamentare? Frattura costituziona-le? Certo l’intervento così proclamato nacque da una le-galità formale (voto del 20 maggio), non sostanziale.Tuttavia bisogna ricordare che la Camera era stata elettanel 1913, consule Giolitti, quando il problema d’unaguerra non era posto al paese né prevedibile. Se nellaprimavera del ’15 si fosse ricorso all’appello elettorale,non c’è dubbio che la fisionomia del parlamento sarebberisultata diversa. Non che la maggioranza assoluta delpopolo italiano potesse votare per la guerra (ma nemme-no il Piemonte di Cavour avrebbe voluto la spedizionedi Crimea); ma lo stato d’animo del paese, degli uomini

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prima fila, alcuni cattolici, e il gruppo socialista. Ciò in-dusse il governo Salandra-Sonnino a rassegnare il 13maggio le proprie dimissioni; ma il Patto di Londra conl’obbligo del nostro intervento entro un mese era giàstato firmato (26 aprile). Quando il Re iniziò le consul-tazioni, offrendo di comporre il nuovo ministero al Gio-litti, questi rifiutò. E tale rinuncia in cui dovettero influi-re non solo e non tanto le forti agitazioni interventistequanto la consapevolezza ch’era ormai difficile annulla-re un solenne impegno contratto con l’Intesa, fu in so-stanza «l’abdicazione del neutralismo», l’accettazione diuna sconfitta. Con il ritiro di Giolitti la folta schiera deisuoi seguaci riacquistava libertà di scelta e di movimen-to (si ricordi ch’era una maggioranza parlamentare, nonun partito organico), e infatti il 20 maggio giolittiani ecattolici votarono per il rinnovato ministero Salandra-Sonnino e per la guerra.

Crisi dell’istituto parlamentare? Frattura costituziona-le? Certo l’intervento così proclamato nacque da una le-galità formale (voto del 20 maggio), non sostanziale.Tuttavia bisogna ricordare che la Camera era stata elettanel 1913, consule Giolitti, quando il problema d’unaguerra non era posto al paese né prevedibile. Se nellaprimavera del ’15 si fosse ricorso all’appello elettorale,non c’è dubbio che la fisionomia del parlamento sarebberisultata diversa. Non che la maggioranza assoluta delpopolo italiano potesse votare per la guerra (ma nemme-no il Piemonte di Cavour avrebbe voluto la spedizionedi Crimea); ma lo stato d’animo del paese, degli uomini

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di cultura, della borghesia, dei giovani, di notevoli fra-zioni popolari, era realmente mutato ed ormai decisoall’intervento. Che un sostanziale o bastevole consensonell’azione del governo ci fosse, lo dimostrò il corsodella guerra, massime nel suo più drammatico momen-to. Le giornate di maggio non furono il prodromo dellamarcia su Roma, ma costituirono un sintomo rivelatore;crearono un precedente che venne più tardi utilizzato eripetuto in ben diverso modo, trascinando il paese intutt’altra direzione.

La vera crisi del ’15, gravida di lontane conseguenze,nacque non dal fatto che gl’interventisti fossero una mi-noranza audace e restia all’ossequio delle forme legali,ma dall’equivoco che si annidava nello stesso interven-tismo. Infatti, su Trento e Trieste il consenso era unani-me. Ma la questione dei confini orientali non potevaesaurire la complessità dei problemi che scaturivanodalla nostra partecipazione ad una guerra europea. E quisi palesava l’intimo travaglio: nel fatto cioè che non esi-steva un unico o prevalente criterio nel concepire la na-tura e le finalità ultime del conflitto. I nazionalisti inten-devano la guerra come un mezzo d’espansione territo-riale e la vittoria come uno strumento di potenzadell’Italia; i democratici, i bissolatiani e i repubblicanicome la conclusione gloriosa del nostro Risorgimento ela premessa di una nuova Europa sacra alle libere nazio-nalità, i liberali di destra come la sola via per completa-re l’unità della patria rafforzando i vincoli tradizionalicon l’Inghilterra e col mondo occidentale. Ma c’erano i

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di cultura, della borghesia, dei giovani, di notevoli fra-zioni popolari, era realmente mutato ed ormai decisoall’intervento. Che un sostanziale o bastevole consensonell’azione del governo ci fosse, lo dimostrò il corsodella guerra, massime nel suo più drammatico momen-to. Le giornate di maggio non furono il prodromo dellamarcia su Roma, ma costituirono un sintomo rivelatore;crearono un precedente che venne più tardi utilizzato eripetuto in ben diverso modo, trascinando il paese intutt’altra direzione.

La vera crisi del ’15, gravida di lontane conseguenze,nacque non dal fatto che gl’interventisti fossero una mi-noranza audace e restia all’ossequio delle forme legali,ma dall’equivoco che si annidava nello stesso interven-tismo. Infatti, su Trento e Trieste il consenso era unani-me. Ma la questione dei confini orientali non potevaesaurire la complessità dei problemi che scaturivanodalla nostra partecipazione ad una guerra europea. E quisi palesava l’intimo travaglio: nel fatto cioè che non esi-steva un unico o prevalente criterio nel concepire la na-tura e le finalità ultime del conflitto. I nazionalisti inten-devano la guerra come un mezzo d’espansione territo-riale e la vittoria come uno strumento di potenzadell’Italia; i democratici, i bissolatiani e i repubblicanicome la conclusione gloriosa del nostro Risorgimento ela premessa di una nuova Europa sacra alle libere nazio-nalità, i liberali di destra come la sola via per completa-re l’unità della patria rafforzando i vincoli tradizionalicon l’Inghilterra e col mondo occidentale. Ma c’erano i

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sindacalisti e i mussoliniani i quali contemplavanotutt’altre mete: vedevano nella guerra un fatto rivoluzio-nario, accentuavano tale carattere, e si proponevano difar leva sugli effetti che una prova di tale genere nonavrebbe potuto non esercitare negl’italiani. Sergio Pa-nunzio, sul Popolo d’Italia, parlava già di abolire, a vit-toria ottenuta, il parlamento, e di uccidere lo Stato libe-rale. Il pericolo era nel nascere e nel diffondersi di que-sta mentalità.

Un contrasto d’altra natura, ma non meno grave, si ri-specchiava nel governo, anche in quello «nazionale» diBoselli (dove entrarono per la prima volta i socialrifor-misti con Bissolati, Bonomi e Canepa, i repubblicanicon Comandini e i cattolici con Meda), sul terreno dellapolitica estera, tra il conservatorismo nazionale di Son-nino e l’europeismo di Bissolati; contrasto destinato poia sfociare, tra il ’18 e il ’22, nella più aspra battaglia deinazionalisti e dei «rinunciatari». Due concezioni che ub-bidivano ad istanze etico-politiche troppo lontane e di-verse per poter essere composte e risolte in una superio-re unità.

* * *

Intanto, i socialisti italiani avevano partecipato con icompagni di fede dei paesi neutri e con i socialisti dissi-denti dei paesi belligeranti, ai convegni svizzeri di Zim-merwald e di Kienthal (1915 e 1916), dove la fredda elucida intransigenza rivoluzionaria di Lenin apparve do-

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sindacalisti e i mussoliniani i quali contemplavanotutt’altre mete: vedevano nella guerra un fatto rivoluzio-nario, accentuavano tale carattere, e si proponevano difar leva sugli effetti che una prova di tale genere nonavrebbe potuto non esercitare negl’italiani. Sergio Pa-nunzio, sul Popolo d’Italia, parlava già di abolire, a vit-toria ottenuta, il parlamento, e di uccidere lo Stato libe-rale. Il pericolo era nel nascere e nel diffondersi di que-sta mentalità.

Un contrasto d’altra natura, ma non meno grave, si ri-specchiava nel governo, anche in quello «nazionale» diBoselli (dove entrarono per la prima volta i socialrifor-misti con Bissolati, Bonomi e Canepa, i repubblicanicon Comandini e i cattolici con Meda), sul terreno dellapolitica estera, tra il conservatorismo nazionale di Son-nino e l’europeismo di Bissolati; contrasto destinato poia sfociare, tra il ’18 e il ’22, nella più aspra battaglia deinazionalisti e dei «rinunciatari». Due concezioni che ub-bidivano ad istanze etico-politiche troppo lontane e di-verse per poter essere composte e risolte in una superio-re unità.

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Intanto, i socialisti italiani avevano partecipato con icompagni di fede dei paesi neutri e con i socialisti dissi-denti dei paesi belligeranti, ai convegni svizzeri di Zim-merwald e di Kienthal (1915 e 1916), dove la fredda elucida intransigenza rivoluzionaria di Lenin apparve do-

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minante. Si trattava di ricostruire l’Internazionale e distimolare gli operai alla lotta per la pace. Una pace, se-condo la formula adottata poi ufficialmente dai bolsce-vici, «senza annessioni e senza indennità», con il dirittod’autodecisione per tutti i popoli, ma evitando l’erroredi «creare, sotto la falsa bandiera della liberazione deipopoli oppressi, stati indipendenti in apparenza, ma inverità incapaci di vita autonoma». Questo concetto,espresso da Lenin a Zimmerwald, anticipava una reali-stica critica a taluni criteri affermatisi nei trattati del ’19.Sappiamo dalle memorie di Trotzki che Lenin non giu-dicò molto favorevolmente i capi socialisti italiani; equesti, dal canto loro, forse non ebbero il senso dellagrande rivoluzione proletaria che andava maturando.Comunque, l’attività del partito socialista, in Italia, esa-sperava gli ambienti nazionalistici: quando sopraggiun-se l’ora grigia di Caporetto, parve facile rovesciare la re-sponsabilità dell’accaduto sul disfattismo rosso (e sulpacifismo nero). In realtà, Caporetto fu una sconfitta mi-litare che s’innestò in un’atmosfera di stanchezza diffu-sa, dopo anni di dura guerra, non meno in Italia che inRussia in Francia e altrove.

Caporetto ebbe – almeno in un primo tempo – conse-guenze favorevoli: la sensazione del grave pericolo cor-so provocò un risveglio d’energie, un mutamento di cri-teri nei comandi militari, un’intima unione di spiriti e divolontà. Turati e Treves parlavano di «resistenza finoall’estremo», Baldesi e Rigola incitavano il popolo ita-liano «a raccogliersi in uno sforzo per respingere l’assa-

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minante. Si trattava di ricostruire l’Internazionale e distimolare gli operai alla lotta per la pace. Una pace, se-condo la formula adottata poi ufficialmente dai bolsce-vici, «senza annessioni e senza indennità», con il dirittod’autodecisione per tutti i popoli, ma evitando l’erroredi «creare, sotto la falsa bandiera della liberazione deipopoli oppressi, stati indipendenti in apparenza, ma inverità incapaci di vita autonoma». Questo concetto,espresso da Lenin a Zimmerwald, anticipava una reali-stica critica a taluni criteri affermatisi nei trattati del ’19.Sappiamo dalle memorie di Trotzki che Lenin non giu-dicò molto favorevolmente i capi socialisti italiani; equesti, dal canto loro, forse non ebbero il senso dellagrande rivoluzione proletaria che andava maturando.Comunque, l’attività del partito socialista, in Italia, esa-sperava gli ambienti nazionalistici: quando sopraggiun-se l’ora grigia di Caporetto, parve facile rovesciare la re-sponsabilità dell’accaduto sul disfattismo rosso (e sulpacifismo nero). In realtà, Caporetto fu una sconfitta mi-litare che s’innestò in un’atmosfera di stanchezza diffu-sa, dopo anni di dura guerra, non meno in Italia che inRussia in Francia e altrove.

Caporetto ebbe – almeno in un primo tempo – conse-guenze favorevoli: la sensazione del grave pericolo cor-so provocò un risveglio d’energie, un mutamento di cri-teri nei comandi militari, un’intima unione di spiriti e divolontà. Turati e Treves parlavano di «resistenza finoall’estremo», Baldesi e Rigola incitavano il popolo ita-liano «a raccogliersi in uno sforzo per respingere l’assa-

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litore». I convegni internazionali della Svizzera sembra-vano un lontano ricordo; ma, a riproporne il tema, inter-vennero i primi echi della rivoluzione d’ottobre in Rus-sia. La dittatura del proletariato non era, dunque, unmito irrealizzabile. Sulle rovine della seconda potevanascere la terza Internazionale, libera dagli errori delpassato, aureolata dal trionfo sovietico. E l’Europa av-volta nella strage, con le sue masse di combattenti stan-chi, spalancava audaci orizzonti. Il socialismo italianone fu scosso: nonostante l’azione di freno esercitata daicapi, il suo evolversi verso un programma rivoluziona-rio a breve scadenza ed una stretta collaborazione con icomunisti di Mosca fu presto palese. Il congresso, tenu-to a Roma nel settembre ’18, ne offrì la conferma. Ilprolungarsi del conflitto e la rivoluzione russa agivanodi conserva. La guerra operava nel profondo, suscitandonelle masse un’inquietudine nuova ed un senso più con-sapevole di forza, mentre la classe dirigente del paeseteneva gli occhi fissi al Grappa, al Montello e al Piave,perché là e soltanto là era la patria.

Ma un altro sintomo d’oscuro avvenire doveva mani-festarsi tra breve. Poco dopo la vittoria e la fine dellaguerra, l’11 gennaio del ’19, Bissolati pronunciò allaScala di Milano un appassionato discorso, prospettandola tesi mazziniana delle nazionalità, della collaborazioneitalo-slava, secondo i concetti informatori del Patto diRoma (19 aprile 1918), insomma la tesi cosiddetta «ri-nunciataria». Bissolati era un interventista, un valorosoe ferito combattente: ma fu più volte interrotto e fischia-

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litore». I convegni internazionali della Svizzera sembra-vano un lontano ricordo; ma, a riproporne il tema, inter-vennero i primi echi della rivoluzione d’ottobre in Rus-sia. La dittatura del proletariato non era, dunque, unmito irrealizzabile. Sulle rovine della seconda potevanascere la terza Internazionale, libera dagli errori delpassato, aureolata dal trionfo sovietico. E l’Europa av-volta nella strage, con le sue masse di combattenti stan-chi, spalancava audaci orizzonti. Il socialismo italianone fu scosso: nonostante l’azione di freno esercitata daicapi, il suo evolversi verso un programma rivoluziona-rio a breve scadenza ed una stretta collaborazione con icomunisti di Mosca fu presto palese. Il congresso, tenu-to a Roma nel settembre ’18, ne offrì la conferma. Ilprolungarsi del conflitto e la rivoluzione russa agivanodi conserva. La guerra operava nel profondo, suscitandonelle masse un’inquietudine nuova ed un senso più con-sapevole di forza, mentre la classe dirigente del paeseteneva gli occhi fissi al Grappa, al Montello e al Piave,perché là e soltanto là era la patria.

Ma un altro sintomo d’oscuro avvenire doveva mani-festarsi tra breve. Poco dopo la vittoria e la fine dellaguerra, l’11 gennaio del ’19, Bissolati pronunciò allaScala di Milano un appassionato discorso, prospettandola tesi mazziniana delle nazionalità, della collaborazioneitalo-slava, secondo i concetti informatori del Patto diRoma (19 aprile 1918), insomma la tesi cosiddetta «ri-nunciataria». Bissolati era un interventista, un valorosoe ferito combattente: ma fu più volte interrotto e fischia-

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to. Inveivano contro di lui i futuri fascisti guidati daMussolini. In Bissolati parlava l’anima del Risorgimen-to e dell’interventismo democratico del ’14-’15. Ma, di-nanzi a sé, egli aveva una gioventù nuova educatanell’atmosfera della guerra, che ignorava il travaglio in-teriore della generazione che l’aveva preceduta. Inebria-ta della gloria guerriera, sentiva altri richiami: la con-quista, il dominio, l’impero. Giovani che parlavano unaltro linguaggio, ai quali quello bissolatiano suonava or-mai incomprensibile, anzi pareva una debolezza o unaprofanazione.

Erano le prime avvisaglie della crisi.

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to. Inveivano contro di lui i futuri fascisti guidati daMussolini. In Bissolati parlava l’anima del Risorgimen-to e dell’interventismo democratico del ’14-’15. Ma, di-nanzi a sé, egli aveva una gioventù nuova educatanell’atmosfera della guerra, che ignorava il travaglio in-teriore della generazione che l’aveva preceduta. Inebria-ta della gloria guerriera, sentiva altri richiami: la con-quista, il dominio, l’impero. Giovani che parlavano unaltro linguaggio, ai quali quello bissolatiano suonava or-mai incomprensibile, anzi pareva una debolezza o unaprofanazione.

Erano le prime avvisaglie della crisi.

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IVLA CRISI

(1919-1925)

II dopoguerra. – Liberali, democratici e gruppi minori. – Ipopolari. – I socialisti. – I comunisti. – Fascisti e naziona-listi. – Governo e Parlamento. – La Corona. – Verso il par-tito unico. – Fermenti e germogli.

Il dopoguerra europeo rivelò quasi dappertutto la crisidei partiti liberali-democratici e l’elefantiasi delle sini-stre. Ma se, in Inghilterra, l’assottigliarsi del partito li-berale non alterò la tradizionale dialettica parlamentaredei due partiti perché il suo posto, di fronte ai conserva-tori, fu preso dai laburisti ormai saldamente inseriti nel-la vita nazionale, altrove la macchina costituzionale par-ve incepparsi nello sforzo d’assorbire e d’incanalare va-sti, inquieti, perturbanti moti di masse. Il combattenti-smo, con le sue numerose associazioni, avrebbe volutoagire come elemento equilibratore, come vincolo supe-riore alle contrastanti fazioni; ma il suo carattere meta-politico lo rendeva inoperante e destinato, più d’unavolta, a generare equivoci invece che a schiarire l’oriz-zonte. Molti dei cosiddetti partiti dell’ordine, in Franciacome in Italia, si frazionavano o si polverizzavano; dalle

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IVLA CRISI

(1919-1925)

II dopoguerra. – Liberali, democratici e gruppi minori. – Ipopolari. – I socialisti. – I comunisti. – Fascisti e naziona-listi. – Governo e Parlamento. – La Corona. – Verso il par-tito unico. – Fermenti e germogli.

Il dopoguerra europeo rivelò quasi dappertutto la crisidei partiti liberali-democratici e l’elefantiasi delle sini-stre. Ma se, in Inghilterra, l’assottigliarsi del partito li-berale non alterò la tradizionale dialettica parlamentaredei due partiti perché il suo posto, di fronte ai conserva-tori, fu preso dai laburisti ormai saldamente inseriti nel-la vita nazionale, altrove la macchina costituzionale par-ve incepparsi nello sforzo d’assorbire e d’incanalare va-sti, inquieti, perturbanti moti di masse. Il combattenti-smo, con le sue numerose associazioni, avrebbe volutoagire come elemento equilibratore, come vincolo supe-riore alle contrastanti fazioni; ma il suo carattere meta-politico lo rendeva inoperante e destinato, più d’unavolta, a generare equivoci invece che a schiarire l’oriz-zonte. Molti dei cosiddetti partiti dell’ordine, in Franciacome in Italia, si frazionavano o si polverizzavano; dalle

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loro fila emergevano nomi d’illustri e vecchi parlamen-tari, ma col rischio d’essere ormai ufficiali senza soldatio, peggio, relitti d’un naufragio. Tuttavia, un’ascesa alpotere dei socialisti in molti paesi d’Europa sarebbe sta-ta l’unica soluzione logica e feconda, se ad ostacolareuna siffatta esperienza e a renderla debole e precariadove si attuò, come in Germania, non avessero agito dueforze nuove. Da un lato la rigida tattica rivoluzionariadei comunisti ancora fedeli all’idea della rivoluzionemondiale e persuasi che l’intransigenza assoluta versotutti, socialisti compresi, fosse la ricetta magica destina-ta ad assicurare in ogni paese il trionfo che Lenin avevacolto nelle giornate d’ottobre in Russia. Dall’altro,l’affiorare di forze minacciose ed oscure, difficili a defi-nirsi, che potevano considerarsi di estrema destra perchéanticomuniste, ma i cui tratti salienti erano il persistered’una psicologia di guerra, il prevalere dell’attivismodella violenza, il culto dell’azione fine a se stessa,l’esaltazione del sangue. La Germania socialdemocrati-ca di Weimar visse anni agitati, premuta com’era tra lamarea comunista che strappava al governo l’appoggiodel proletariato operaio, l’ostilità veemente dei gruppiconservatori che alimentavano i putsch di destra e lacupa violenza di una giovane generazione delusa che sivantava d’aver ucciso Rathenau perché era il migliore eil più intelligente dei ministri al potere.

L’Italia, con i suoi problemi vecchi e nuovi, parevalontana da queste forme germaniche, francesi o russedella crisi; invece era essa stessa tuffata, sia pure con

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loro fila emergevano nomi d’illustri e vecchi parlamen-tari, ma col rischio d’essere ormai ufficiali senza soldatio, peggio, relitti d’un naufragio. Tuttavia, un’ascesa alpotere dei socialisti in molti paesi d’Europa sarebbe sta-ta l’unica soluzione logica e feconda, se ad ostacolareuna siffatta esperienza e a renderla debole e precariadove si attuò, come in Germania, non avessero agito dueforze nuove. Da un lato la rigida tattica rivoluzionariadei comunisti ancora fedeli all’idea della rivoluzionemondiale e persuasi che l’intransigenza assoluta versotutti, socialisti compresi, fosse la ricetta magica destina-ta ad assicurare in ogni paese il trionfo che Lenin avevacolto nelle giornate d’ottobre in Russia. Dall’altro,l’affiorare di forze minacciose ed oscure, difficili a defi-nirsi, che potevano considerarsi di estrema destra perchéanticomuniste, ma i cui tratti salienti erano il persistered’una psicologia di guerra, il prevalere dell’attivismodella violenza, il culto dell’azione fine a se stessa,l’esaltazione del sangue. La Germania socialdemocrati-ca di Weimar visse anni agitati, premuta com’era tra lamarea comunista che strappava al governo l’appoggiodel proletariato operaio, l’ostilità veemente dei gruppiconservatori che alimentavano i putsch di destra e lacupa violenza di una giovane generazione delusa che sivantava d’aver ucciso Rathenau perché era il migliore eil più intelligente dei ministri al potere.

L’Italia, con i suoi problemi vecchi e nuovi, parevalontana da queste forme germaniche, francesi o russedella crisi; invece era essa stessa tuffata, sia pure con

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aspetti diversi, nel comune turbamento di un’Europasenza pace. Nel nostro paese, quando tacque il cannonee milioni di uomini uscirono dalle trincee e dalle caser-me, dopo il primo senso di sollievo e l’istintivo, talvoltasfrenato, rifluire di tante energie (tese per anni nellosforzo bellico) verso un edonistico «bisogno di vivere»,tre gruppi di problemi si posero quasi contemporanea-mente: il valore della vittoria, le istanze delle classi la-voratrici, la sostituzione del vecchio ceto dirigente. Lacrisi della vita italiana risultò da questo fatto, che tali or-dini di problemi invece d’essere affrontati, dibattuti e ri-solti in un libero giuoco di forze contrastanti, finironocol diventare l’appannaggio quasi esclusivo di tre cor-renti politiche opposte, e quindi col rimanere isolati escissi l’uno dall’altro. Il nazionalismo di vecchio e nuo-vo stile s’impadronì della vittoria per esaltarla retorica-mente e contrapporle la modestia dei risultati, l’ontadella pace rinunciataria, la mancata volontà imperialisti-ca. Nacque così il mito della vittoria mutilata, che ali-mentò la persuasione di un’Italia che aveva vinto laguerra ma perduto la pace, di un’Italia che doveva sen-tirsi più solidale con i paesi sconfitti e impoveriti (Ger-mania, Austria, Ungheria) che non con i grandi e ricchipopoli vincitori.

Il malcontento, le delusioni e i reali bisogni del prole-tariato vennero monopolizzati e portati al diapasondell’impazienza rivoluzionaria dal socialismo massima-lista. Oltre che da un moto europeo generale, l’istanzedel quarto stato nascevano da un duplice ordine di fatti

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aspetti diversi, nel comune turbamento di un’Europasenza pace. Nel nostro paese, quando tacque il cannonee milioni di uomini uscirono dalle trincee e dalle caser-me, dopo il primo senso di sollievo e l’istintivo, talvoltasfrenato, rifluire di tante energie (tese per anni nellosforzo bellico) verso un edonistico «bisogno di vivere»,tre gruppi di problemi si posero quasi contemporanea-mente: il valore della vittoria, le istanze delle classi la-voratrici, la sostituzione del vecchio ceto dirigente. Lacrisi della vita italiana risultò da questo fatto, che tali or-dini di problemi invece d’essere affrontati, dibattuti e ri-solti in un libero giuoco di forze contrastanti, finironocol diventare l’appannaggio quasi esclusivo di tre cor-renti politiche opposte, e quindi col rimanere isolati escissi l’uno dall’altro. Il nazionalismo di vecchio e nuo-vo stile s’impadronì della vittoria per esaltarla retorica-mente e contrapporle la modestia dei risultati, l’ontadella pace rinunciataria, la mancata volontà imperialisti-ca. Nacque così il mito della vittoria mutilata, che ali-mentò la persuasione di un’Italia che aveva vinto laguerra ma perduto la pace, di un’Italia che doveva sen-tirsi più solidale con i paesi sconfitti e impoveriti (Ger-mania, Austria, Ungheria) che non con i grandi e ricchipopoli vincitori.

Il malcontento, le delusioni e i reali bisogni del prole-tariato vennero monopolizzati e portati al diapasondell’impazienza rivoluzionaria dal socialismo massima-lista. Oltre che da un moto europeo generale, l’istanzedel quarto stato nascevano da un duplice ordine di fatti

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peculiari del nostro paese, l’uno reale e l’altro inganne-vole: la forte spinta all’industrializzazione e quindil’aumento delle classi operaie (con l’immissione di nu-merose maestranze femminili) quali conseguenzedell’economia di guerra, e la spasmodica attesa della ri-voluzione che già dominava nelle trincee, nelle retroviee, più, tra le masse dei reduci, per l’abuso d’uno sloganpropagandistico (la terra ai contadini, le fabbriche aglioperai) che, proclamato con leggerezza, tanto sbanda-mento doveva recare in un paese di scarsa educazionepolitica, suscitando negli uni troppo facili speranze e ne-gli altri eccessivi timori e propositi di reazione. Il pro-blema più strettamente politico, quello del ceto dirigen-te, si preferì ignorarlo. Una guerra moderna, lunga e dif-ficile, con la necessaria concentrazione dei poteri, tendesempre a cristallizzare la classe eletta, a renderla statica,a sospenderne il graduale e normale ricambio. La sua«circolazione» doveva essere favorita, incoraggiata, ac-celerata dopo la pace. Ma tutti i vecchi partiti furonosordi a questa fondamentale esigenza. Non la sentirono iliberali né i gruppi di centro chiusi in un generico demo-craticismo, e nemmeno l’intesero i socialisti fermi nelloro rifiuto d’assumere la responsabilità del potere. Il fa-scismo giuocò le sue carte sulla sostituzione totalitariadella classe dirigente e vinse di sorpresa; attuò con laviolenza e con un pauroso abbassamento di livello loschema paretiano della circolazione delle élites. Unatendenza al ricambio organico e normale si profilò daultimo anche negli altri partiti: tra i liberali con il circolo

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peculiari del nostro paese, l’uno reale e l’altro inganne-vole: la forte spinta all’industrializzazione e quindil’aumento delle classi operaie (con l’immissione di nu-merose maestranze femminili) quali conseguenzedell’economia di guerra, e la spasmodica attesa della ri-voluzione che già dominava nelle trincee, nelle retroviee, più, tra le masse dei reduci, per l’abuso d’uno sloganpropagandistico (la terra ai contadini, le fabbriche aglioperai) che, proclamato con leggerezza, tanto sbanda-mento doveva recare in un paese di scarsa educazionepolitica, suscitando negli uni troppo facili speranze e ne-gli altri eccessivi timori e propositi di reazione. Il pro-blema più strettamente politico, quello del ceto dirigen-te, si preferì ignorarlo. Una guerra moderna, lunga e dif-ficile, con la necessaria concentrazione dei poteri, tendesempre a cristallizzare la classe eletta, a renderla statica,a sospenderne il graduale e normale ricambio. La sua«circolazione» doveva essere favorita, incoraggiata, ac-celerata dopo la pace. Ma tutti i vecchi partiti furonosordi a questa fondamentale esigenza. Non la sentirono iliberali né i gruppi di centro chiusi in un generico demo-craticismo, e nemmeno l’intesero i socialisti fermi nelloro rifiuto d’assumere la responsabilità del potere. Il fa-scismo giuocò le sue carte sulla sostituzione totalitariadella classe dirigente e vinse di sorpresa; attuò con laviolenza e con un pauroso abbassamento di livello loschema paretiano della circolazione delle élites. Unatendenza al ricambio organico e normale si profilò daultimo anche negli altri partiti: tra i liberali con il circolo

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di Gobetti, tra i democratici con il gruppo Amendola, trale correnti di estrema sinistra con le forze giovani e pre-parate dei comunisti raccolti intorno all’Ordine Nuovo.Ma la partita era già compromessa e quelle minoranzenon potevano aspirare ad un trionfo immediato. Eranosintomi e presagi d’avvenire, non forze bastevoli per ilpresente.

* * *

Nel discorso di Milano del 5 dicembre 1915 AntonioSalandra aveva manifestato la speranza che la guerrapotesse rinnovare il partito liberale italiano, immetterglifresche energie, schiudergli una seconda primavera. Conuna sincerità commovente lo stesso Salandra confessavanel 1922: «Il mio presagio non si è avverato.... Il partitocomprese senza dubbio l’avvento al potere politico dinuovi strati sociali, ma non trovò modo d’assumerne ladirezione...; era quindi logico che gli sfuggisse, come gliè sfuggita, la direzione politica del paese alla quale lodesignava un glorioso diritto storico, non certo un im-mutabile diritto divino». In realtà il liberalismo di destrae di centro aveva dato, con l’interventismo di Salandra econ la devozione d’Orlando alla causa della vittoria, isuoi ultimi guizzi. Nel dopoguerra il grosso dei liberalipiegava su posizioni conservatrici, anzi retrograde, lon-tane dalla realtà, estranee all’esigenza di inserire i nuoviproblemi nel loro programma, trasformandolo. Troppigruppi liberali davano l’impressione di essere strumenti

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di Gobetti, tra i democratici con il gruppo Amendola, trale correnti di estrema sinistra con le forze giovani e pre-parate dei comunisti raccolti intorno all’Ordine Nuovo.Ma la partita era già compromessa e quelle minoranzenon potevano aspirare ad un trionfo immediato. Eranosintomi e presagi d’avvenire, non forze bastevoli per ilpresente.

* * *

Nel discorso di Milano del 5 dicembre 1915 AntonioSalandra aveva manifestato la speranza che la guerrapotesse rinnovare il partito liberale italiano, immetterglifresche energie, schiudergli una seconda primavera. Conuna sincerità commovente lo stesso Salandra confessavanel 1922: «Il mio presagio non si è avverato.... Il partitocomprese senza dubbio l’avvento al potere politico dinuovi strati sociali, ma non trovò modo d’assumerne ladirezione...; era quindi logico che gli sfuggisse, come gliè sfuggita, la direzione politica del paese alla quale lodesignava un glorioso diritto storico, non certo un im-mutabile diritto divino». In realtà il liberalismo di destrae di centro aveva dato, con l’interventismo di Salandra econ la devozione d’Orlando alla causa della vittoria, isuoi ultimi guizzi. Nel dopoguerra il grosso dei liberalipiegava su posizioni conservatrici, anzi retrograde, lon-tane dalla realtà, estranee all’esigenza di inserire i nuoviproblemi nel loro programma, trasformandolo. Troppigruppi liberali davano l’impressione di essere strumenti

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logori e stanchi, senza la volontà di rinnovarsi, pronti semai ai compromessi, ai blocchi, alle transazioni effime-re, e quindi inclini a scivolare verso un’attitudine bene-vola e fiancheggiatrice nei riguardi del fascismo unavolta giunto alle soglie del potere. Né molto diversa erala posizione della democrazia laica nelle sue infinitesfumature: atteggiamenti statici, passivi, o polemichecontingenti, senza lo sforzo di ripensare i problemi, dirifare i quadri direttivi, di attrarre a sé forze giovani la-sciandole libere di svolgere in forme nuove e più arditel’istanze e i motivi ereditati dai padri. La preoccupazio-ne dell’«ordine», ch’era poi l’amore del quieto vivere,dominava incontrastata e pareva esaurire in sé ogni pro-posito immediato e futuro. E troppi nuovi ricchi, solodesiderosi di sfuggire alle grinfie del fisco e di acquista-re ville e terreni per adagiarvisi beati e soddisfatti, si di-cevano liberali o democratici: ma, nella migliore delleipotesi, il loro ideale di governo non andava al di là diun regime paternalistico che dissipasse, quasi per mira-colo, il «pericolo rosso». Senza dubbio, dava noia amolti reduci dal fronte (e non solo per ragioni di timoreclassista) quel grido di «viva Lenin», quasi che l’Italiavittoriosa dovesse cedere il passo e accodarsi ad unaRussia che nella guerra era miseramente caduta; sfuggi-va ad essi che, in un senso più profondo, la Russia ave-va ottenuto la sua più grande vittoria, con una rivoluzio-ne destinata a rimanere come fatto capitale del XX seco-lo.

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logori e stanchi, senza la volontà di rinnovarsi, pronti semai ai compromessi, ai blocchi, alle transazioni effime-re, e quindi inclini a scivolare verso un’attitudine bene-vola e fiancheggiatrice nei riguardi del fascismo unavolta giunto alle soglie del potere. Né molto diversa erala posizione della democrazia laica nelle sue infinitesfumature: atteggiamenti statici, passivi, o polemichecontingenti, senza lo sforzo di ripensare i problemi, dirifare i quadri direttivi, di attrarre a sé forze giovani la-sciandole libere di svolgere in forme nuove e più arditel’istanze e i motivi ereditati dai padri. La preoccupazio-ne dell’«ordine», ch’era poi l’amore del quieto vivere,dominava incontrastata e pareva esaurire in sé ogni pro-posito immediato e futuro. E troppi nuovi ricchi, solodesiderosi di sfuggire alle grinfie del fisco e di acquista-re ville e terreni per adagiarvisi beati e soddisfatti, si di-cevano liberali o democratici: ma, nella migliore delleipotesi, il loro ideale di governo non andava al di là diun regime paternalistico che dissipasse, quasi per mira-colo, il «pericolo rosso». Senza dubbio, dava noia amolti reduci dal fronte (e non solo per ragioni di timoreclassista) quel grido di «viva Lenin», quasi che l’Italiavittoriosa dovesse cedere il passo e accodarsi ad unaRussia che nella guerra era miseramente caduta; sfuggi-va ad essi che, in un senso più profondo, la Russia ave-va ottenuto la sua più grande vittoria, con una rivoluzio-ne destinata a rimanere come fatto capitale del XX seco-lo.

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Ben diverso, più aperto e duttile, era il liberalismo disinistra rappresentato da Giolitti; ma i giolittiani salvopoche eccezioni valevano assai meno del loro capo, e atutti mancava quel concetto della fede politica comeapostolato che in momenti perigliosi bisognava sapersuscitare dalle migliori tradizioni del Risorgimento.Inoltre, lo stesso Giolitti era indotto a non valutare nellaloro reale portata il carattere e la tecnica delle nuoveforze che miravano alla conquista del potere. Il grandestatista, che non aveva sentito la guerra e non ne cono-sceva la psicologia, era tratto in inganno perché, comefu giustamente osservato, ignorava «i metodi di lotta, el’impiego delle energie umane provate e disciplinatedalla trincea».

Se i liberali di destra, come Antonio Salandra, incapa-ci di svolgere il loro pensiero in temi aderenti alla nuovasituazione politica, erano risospinti verso posizioni diplacido conservatorismo e finivano col rispecchiare latendenza dei grandi proprietari terrieri del Mezzogiorno,un radicale come Francesco Saverio Nitti aveva una vi-sione più larga e più vivi interessi europei: partiva dapremesse liberali, ma accettava l’esigenze del sociali-smo riformista e tendeva a creare tra l’une e l’altre unponte, cioè una democrazia mediatrice aderente ai biso-gni di quelle «clientele burocratiche e piccolo-borghesimeridionali» cui era profondamente legato. Ma tra Gio-litti e Nitti un accordo non fu mai possibile: il loro con-trasto indebolì le forze democratiche, gravò sul parla-mento, spianò la via agli avversari. Così, i partiti

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Ben diverso, più aperto e duttile, era il liberalismo disinistra rappresentato da Giolitti; ma i giolittiani salvopoche eccezioni valevano assai meno del loro capo, e atutti mancava quel concetto della fede politica comeapostolato che in momenti perigliosi bisognava sapersuscitare dalle migliori tradizioni del Risorgimento.Inoltre, lo stesso Giolitti era indotto a non valutare nellaloro reale portata il carattere e la tecnica delle nuoveforze che miravano alla conquista del potere. Il grandestatista, che non aveva sentito la guerra e non ne cono-sceva la psicologia, era tratto in inganno perché, comefu giustamente osservato, ignorava «i metodi di lotta, el’impiego delle energie umane provate e disciplinatedalla trincea».

Se i liberali di destra, come Antonio Salandra, incapa-ci di svolgere il loro pensiero in temi aderenti alla nuovasituazione politica, erano risospinti verso posizioni diplacido conservatorismo e finivano col rispecchiare latendenza dei grandi proprietari terrieri del Mezzogiorno,un radicale come Francesco Saverio Nitti aveva una vi-sione più larga e più vivi interessi europei: partiva dapremesse liberali, ma accettava l’esigenze del sociali-smo riformista e tendeva a creare tra l’une e l’altre unponte, cioè una democrazia mediatrice aderente ai biso-gni di quelle «clientele burocratiche e piccolo-borghesimeridionali» cui era profondamente legato. Ma tra Gio-litti e Nitti un accordo non fu mai possibile: il loro con-trasto indebolì le forze democratiche, gravò sul parla-mento, spianò la via agli avversari. Così, i partiti

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dell’ordine, con la politica dei blocchi nell’elezioni del’21 aiutarono il fascismo, salvo poi ad elezioni avvenu-te, sentirsi dire ch’essi erano «borghesia infetta da curar-si col ferro e col petrolio» non meno dei socialisti.

I riformisti del gruppo Bissolati e Bonomi non aveva-no molte possibilità di sviluppo, premuti come eranodall’accanita opposizione nazionalista alla loro tesid’una pace democratica fondata sull’amicizia con glislavi, e incalzati da vicino dall’ala turatiana dei sociali-sti. Cavalieri dell’ideale e custodi della sacra fiamma diStaglieno, apparivano i repubblicani: ma l’efficacia delloro rigido formalismo era limitata dal fatto che il pro-blema istituzionale veniva riassorbito dai partiti d’estre-ma sinistra in un più vasto programma rivoluzionario;senza contare che taluni pubblicisti e scrittori politicicontemplavano anche l’eventualità d’una monarchia so-cialista.

Una personalità tutta sua, nella vita nazionale, palesa-va Gaetano Salvemini, il quale da tempo s’era staccatodal socialismo cui aveva aderito per un profondo biso-gno di lotta contro ogni privilegio. Storico di razza ededucatore, ogni ideologia, come tale, era estranea al suospirito. La realtà gli si configurava in problemi, e questivenivano analizzati con risoluto atteggiamento critico:Salvemini trascorreva così dal socialismo alla democra-zia, da Marx a Cattaneo.

A paralizzare le correnti liberali e democratiche nellaricca gamma delle loro sfumature, contribuì, nei primianni, il contrasto persistente tra interventisti e neutrali-

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dell’ordine, con la politica dei blocchi nell’elezioni del’21 aiutarono il fascismo, salvo poi ad elezioni avvenu-te, sentirsi dire ch’essi erano «borghesia infetta da curar-si col ferro e col petrolio» non meno dei socialisti.

I riformisti del gruppo Bissolati e Bonomi non aveva-no molte possibilità di sviluppo, premuti come eranodall’accanita opposizione nazionalista alla loro tesid’una pace democratica fondata sull’amicizia con glislavi, e incalzati da vicino dall’ala turatiana dei sociali-sti. Cavalieri dell’ideale e custodi della sacra fiamma diStaglieno, apparivano i repubblicani: ma l’efficacia delloro rigido formalismo era limitata dal fatto che il pro-blema istituzionale veniva riassorbito dai partiti d’estre-ma sinistra in un più vasto programma rivoluzionario;senza contare che taluni pubblicisti e scrittori politicicontemplavano anche l’eventualità d’una monarchia so-cialista.

Una personalità tutta sua, nella vita nazionale, palesa-va Gaetano Salvemini, il quale da tempo s’era staccatodal socialismo cui aveva aderito per un profondo biso-gno di lotta contro ogni privilegio. Storico di razza ededucatore, ogni ideologia, come tale, era estranea al suospirito. La realtà gli si configurava in problemi, e questivenivano analizzati con risoluto atteggiamento critico:Salvemini trascorreva così dal socialismo alla democra-zia, da Marx a Cattaneo.

A paralizzare le correnti liberali e democratiche nellaricca gamma delle loro sfumature, contribuì, nei primianni, il contrasto persistente tra interventisti e neutrali-

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sti. La frattura verificatasi nel ’14-’15 si ripresentavaacuita ed esasperata dalla crisi post-bellica. Solo con ilritorno di Giolitti al potere, la polemica poté dirsi supe-rata e disciolta in una nuova e diversa realtà, nella lottatra lo stato liberale e le forze che in vario modo l’assali-vano e lo minacciavano.

* * *

La prima grossa novità del dopoguerra fu l’entrata inlinea (gennaio 1919) d’un nuovo partito: il partito popo-lare italiano. Dai tempi della democrazia cristiana edell’Enciclica Rerum novarum (1891) il riavvicinamen-to dei cattolici alla vita politica si era fatto sempre piùvivo ed intenso. La guerra aveva spezzato l’ultime bar-riere, dissolto l’estreme incertezze. Attraverso numero-se, e talvolta clamorose, conversioni (alcune di dubbiogusto, ma altre profonde e schiette), frutto della nuovaesperienza di dolore e di morte, di cristiana solidarietà,di riflessione morale che gli anni di trincea avevano de-stato in molti spiriti, quell’atmosfera di sospetto che,nella vita pubblica italiana, aveva circondato per lunghidecenni il cattolico militante era caduta. L’Azione Cat-tolica, massime nelle sue organizzazioni giovanili efemminili, era fiorente. Tutto ciò non usciva dall’ambitoreligioso; ma era naturale che, ad un certo punto nasces-se spontanea l’esigenza di un organismo politico, acon-fessionale, che immettesse nella vita pubblica quelleforze già organizzate, compatte, desiderose di far sentire

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sti. La frattura verificatasi nel ’14-’15 si ripresentavaacuita ed esasperata dalla crisi post-bellica. Solo con ilritorno di Giolitti al potere, la polemica poté dirsi supe-rata e disciolta in una nuova e diversa realtà, nella lottatra lo stato liberale e le forze che in vario modo l’assali-vano e lo minacciavano.

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La prima grossa novità del dopoguerra fu l’entrata inlinea (gennaio 1919) d’un nuovo partito: il partito popo-lare italiano. Dai tempi della democrazia cristiana edell’Enciclica Rerum novarum (1891) il riavvicinamen-to dei cattolici alla vita politica si era fatto sempre piùvivo ed intenso. La guerra aveva spezzato l’ultime bar-riere, dissolto l’estreme incertezze. Attraverso numero-se, e talvolta clamorose, conversioni (alcune di dubbiogusto, ma altre profonde e schiette), frutto della nuovaesperienza di dolore e di morte, di cristiana solidarietà,di riflessione morale che gli anni di trincea avevano de-stato in molti spiriti, quell’atmosfera di sospetto che,nella vita pubblica italiana, aveva circondato per lunghidecenni il cattolico militante era caduta. L’Azione Cat-tolica, massime nelle sue organizzazioni giovanili efemminili, era fiorente. Tutto ciò non usciva dall’ambitoreligioso; ma era naturale che, ad un certo punto nasces-se spontanea l’esigenza di un organismo politico, acon-fessionale, che immettesse nella vita pubblica quelleforze già organizzate, compatte, desiderose di far sentire

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la propria voce. Quando il primo manifesto del nuovopartito, con lo scudo dei Comuni medioevali e il mottoLibertas, apparve in tutte le contrade d’Italia, il successoera già assicurato. L’organizzazione capillare delle par-rocchie, anche se formalmente estranea, creava una basesalda e sicura al partito. Il quale nasceva là dove moltipartiti erano giunti (quando vi giunsero) dopo anni edanni di lavoro e di propaganda. Solo il socialista, a prez-zo di lunghi sforzi, poteva disporre di un tessuto connet-tivo paragonabile a quello del partito popolare. Sociali-sti e popolari non rappresentavano forze localizzate,provinciali; s’intende che se i primi ebbero nel biellese,nel milanese, nel reggiano e nel parmense le più famoseroccaforti, anche i secondi trovarono nel bergamasco,nel cremasco, nella Brianza e nel vicentino le loro citta-delle imprendibili; ma gli uni e gli altri agivano sul pia-no nazionale, con ramificazioni diffusissime, e – neigrandi centri – si fronteggiavano validamente. Partiti dipopolo, ambedue, ecco le leghe bianche affiancare lerosse, reggere alla concorrenza e, in talune zone rurali,ottenere il sopravvento.

Il programma dei popolari, in politica estera, ammet-teva le giuste aspirazioni nazionali ma rifiutava gli im-perialismi «che creano i popoli dominatori e maturanoviolente riscosse», partiva dal riconoscimento della vit-toria italiana ma sollecitava una pace durevole fondatasui presupposti indicati più volte dai Pontefici e riassun-ti nei 14 punti di Wilson. In politica interna, chiedeva unampio regime di libertà religiose, civili e sociali, che si

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la propria voce. Quando il primo manifesto del nuovopartito, con lo scudo dei Comuni medioevali e il mottoLibertas, apparve in tutte le contrade d’Italia, il successoera già assicurato. L’organizzazione capillare delle par-rocchie, anche se formalmente estranea, creava una basesalda e sicura al partito. Il quale nasceva là dove moltipartiti erano giunti (quando vi giunsero) dopo anni edanni di lavoro e di propaganda. Solo il socialista, a prez-zo di lunghi sforzi, poteva disporre di un tessuto connet-tivo paragonabile a quello del partito popolare. Sociali-sti e popolari non rappresentavano forze localizzate,provinciali; s’intende che se i primi ebbero nel biellese,nel milanese, nel reggiano e nel parmense le più famoseroccaforti, anche i secondi trovarono nel bergamasco,nel cremasco, nella Brianza e nel vicentino le loro citta-delle imprendibili; ma gli uni e gli altri agivano sul pia-no nazionale, con ramificazioni diffusissime, e – neigrandi centri – si fronteggiavano validamente. Partiti dipopolo, ambedue, ecco le leghe bianche affiancare lerosse, reggere alla concorrenza e, in talune zone rurali,ottenere il sopravvento.

Il programma dei popolari, in politica estera, ammet-teva le giuste aspirazioni nazionali ma rifiutava gli im-perialismi «che creano i popoli dominatori e maturanoviolente riscosse», partiva dal riconoscimento della vit-toria italiana ma sollecitava una pace durevole fondatasui presupposti indicati più volte dai Pontefici e riassun-ti nei 14 punti di Wilson. In politica interna, chiedeva unampio regime di libertà religiose, civili e sociali, che si

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concretasse in una nuova legislazione del lavoro, nellariforma della scuola, nella riforma agraria, nell’autono-mie comunali e regionali, nella rappresentanza propor-zionale con estensione del diritto di voto alle donne. Unprogramma di centro, ma organico, concreto, sorretto daun pensiero e da una certezza morale. Se il partito fu lospecchio delle forze cattoliche militanti, don Luigi Stur-zo ne fu l’anima e la mente. Era un giovane sacerdote,di piccola nobiltà siciliana, d’integra coscienza, di pro-fonda persuasione religiosa, uomo di studi e d’azione.Meditava a lungo sui problemi, ed alla vita pubblicas’era preparato attraverso l’amministrazione di qualchecomune. Era un uomo nuovo, perché in lui i vecchi mo-tivi polemici del Risorgimento e del primo cinquanten-nio del Regno non trovavano più alcuna eco; nuovoperch’era «moderno» senza aver amoreggiato col mo-dernismo, nuovo perché si era formato fuori d’ogni in-fluenza o appoggio dei circoli vaticani, ma sapeva dinon aver nulla a temere (tanto era insospettabile la suaortodossia), anzi d’interpretare – a distanza – desideri ebisogni sentiti dal cuore stesso del Cattolicesimo roma-no.

A pochi mesi dal suo apparire nel firmamento politi-co, il partito popolare entrò alla Camera con oltre centodeputati. Era un grande successo, ma racchiudeva un pe-ricolo: infatti le elezioni successive non accrebbero sen-sibilmente la prima falange, non diedero al partito quel-la forza numerica che gli avrebbe consentito di governa-re, con pochi aiuti, quale maggioranza. Un partito catto-

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concretasse in una nuova legislazione del lavoro, nellariforma della scuola, nella riforma agraria, nell’autono-mie comunali e regionali, nella rappresentanza propor-zionale con estensione del diritto di voto alle donne. Unprogramma di centro, ma organico, concreto, sorretto daun pensiero e da una certezza morale. Se il partito fu lospecchio delle forze cattoliche militanti, don Luigi Stur-zo ne fu l’anima e la mente. Era un giovane sacerdote,di piccola nobiltà siciliana, d’integra coscienza, di pro-fonda persuasione religiosa, uomo di studi e d’azione.Meditava a lungo sui problemi, ed alla vita pubblicas’era preparato attraverso l’amministrazione di qualchecomune. Era un uomo nuovo, perché in lui i vecchi mo-tivi polemici del Risorgimento e del primo cinquanten-nio del Regno non trovavano più alcuna eco; nuovoperch’era «moderno» senza aver amoreggiato col mo-dernismo, nuovo perché si era formato fuori d’ogni in-fluenza o appoggio dei circoli vaticani, ma sapeva dinon aver nulla a temere (tanto era insospettabile la suaortodossia), anzi d’interpretare – a distanza – desideri ebisogni sentiti dal cuore stesso del Cattolicesimo roma-no.

A pochi mesi dal suo apparire nel firmamento politi-co, il partito popolare entrò alla Camera con oltre centodeputati. Era un grande successo, ma racchiudeva un pe-ricolo: infatti le elezioni successive non accrebbero sen-sibilmente la prima falange, non diedero al partito quel-la forza numerica che gli avrebbe consentito di governa-re, con pochi aiuti, quale maggioranza. Un partito catto-

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lico, anche se aconfessionale, in Italia, sarà sempre for-te; ma ben difficilmente potrà aspirare ad un effettivocontrollo e quindi alla guida del paese. Questo era, tutta-via il male minore: il vizio più grave era costituito dallascarsa omogeneità dei cento deputati. Pochi per gover-nare da soli (o quasi soli), erano troppi, e troppo diversidi mentalità e tendenze, per poter reggere alle serie re-sponsabilità che incombevano sul loro gruppo. Accantoa vecchi conservatori come Crispolti, a nazionalisticome Mattei Gentili, e ad onesti proprietari terrieri, qua-li il barone De Ghislanzoni che, nella sua Rocca Susella,raccoglieva immancabilmente tutti i 107 voti dei suoi107 contadini elettori, sedevano dei giacobini bianchicome l’avv. Miglioli. E tra gli uni e gli altri s’infiltrava-no i soliti arrivisti, immaturi e poco scrupolosi. In unsolo partito non s’erano mai veduti così opposti tempe-ramenti, così diverse concezioni della lotta politica. Ladisciplina cattolica e l’accorta mano di Luigi Sturzo po-tevano impedire aperti conflitti ed inammissibili divorzi.Ma quell’unità apparente era poi salutare? Infine, donSturzo non sedeva a Montecitorio (Giolitti, per un mo-mento, pensò convenisse farlo senatore), e la tumultuosaschiera dei cento deputati, che s’avvicendavano ai postidi governo perché un po’ tutti s’impratichissero, direttadal di fuori, dagli uffici d’una segreteria di partito, e daun prete per giunta, creava situazioni nuove e imbaraz-zanti. In quella crisi d’uomini e di metodi, che s’inserivanella più ampia crisi politica del dopoguerra, era il limi-te del partito popolare italiano.

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lico, anche se aconfessionale, in Italia, sarà sempre for-te; ma ben difficilmente potrà aspirare ad un effettivocontrollo e quindi alla guida del paese. Questo era, tutta-via il male minore: il vizio più grave era costituito dallascarsa omogeneità dei cento deputati. Pochi per gover-nare da soli (o quasi soli), erano troppi, e troppo diversidi mentalità e tendenze, per poter reggere alle serie re-sponsabilità che incombevano sul loro gruppo. Accantoa vecchi conservatori come Crispolti, a nazionalisticome Mattei Gentili, e ad onesti proprietari terrieri, qua-li il barone De Ghislanzoni che, nella sua Rocca Susella,raccoglieva immancabilmente tutti i 107 voti dei suoi107 contadini elettori, sedevano dei giacobini bianchicome l’avv. Miglioli. E tra gli uni e gli altri s’infiltrava-no i soliti arrivisti, immaturi e poco scrupolosi. In unsolo partito non s’erano mai veduti così opposti tempe-ramenti, così diverse concezioni della lotta politica. Ladisciplina cattolica e l’accorta mano di Luigi Sturzo po-tevano impedire aperti conflitti ed inammissibili divorzi.Ma quell’unità apparente era poi salutare? Infine, donSturzo non sedeva a Montecitorio (Giolitti, per un mo-mento, pensò convenisse farlo senatore), e la tumultuosaschiera dei cento deputati, che s’avvicendavano ai postidi governo perché un po’ tutti s’impratichissero, direttadal di fuori, dagli uffici d’una segreteria di partito, e daun prete per giunta, creava situazioni nuove e imbaraz-zanti. In quella crisi d’uomini e di metodi, che s’inserivanella più ampia crisi politica del dopoguerra, era il limi-te del partito popolare italiano.

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Di fronte al bianco scudo crociato apparve, in camporosso, l’emblema della «falce e martello». E questa, perle proporzioni assunte dal socialcomunismo, fu la se-conda novità del dopoguerra.

Il partito socialista, così come si era venuto configu-rando, ammetteva la validità di tutte le tattiche utili alproletariato, e mirava alla conquista progressiva deipubblici poteri; presupponeva i diritti di libertà enell’ambito di essi agiva (rifiutando la cospirazione e laviolenza) con la propaganda, con l’attività parlamentare,con la gestione delle amministrazioni locali, con il mo-vimento sindacale e cooperativo. Fedele a questi metodie princìpi, esso chiedeva, nel 1920, per bocca di FilippoTurati, un «nuovo statuto dei lavoratori che li facesse senon arbitri assoluti, almeno partecipi della produzione, enon già passivamente partecipi agli utili, secondo certevedute pelosamente filantropiche, ma partecipi nella ge-stione, nella direzione, nel controllo della produzionenazionale, ossia condòmini veri» (Discorso del 20 giu-gno alla Camera).

I comunisti, cioè l’ala estrema destinata a staccarsidopo il Congresso di Livorno del’21, partivano da dueconstatazioni: il fallimento dei partiti socialisti europeidi fronte allo scoppio della guerra mondiale, il trionfodel bolscevismo, con la sua rigida intransigenza e con lasua spietata e integrale volontà rivoluzionaria, in Russia.La crisi aperta dalla guerra e l’esempio di Lenin impo-

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Di fronte al bianco scudo crociato apparve, in camporosso, l’emblema della «falce e martello». E questa, perle proporzioni assunte dal socialcomunismo, fu la se-conda novità del dopoguerra.

Il partito socialista, così come si era venuto configu-rando, ammetteva la validità di tutte le tattiche utili alproletariato, e mirava alla conquista progressiva deipubblici poteri; presupponeva i diritti di libertà enell’ambito di essi agiva (rifiutando la cospirazione e laviolenza) con la propaganda, con l’attività parlamentare,con la gestione delle amministrazioni locali, con il mo-vimento sindacale e cooperativo. Fedele a questi metodie princìpi, esso chiedeva, nel 1920, per bocca di FilippoTurati, un «nuovo statuto dei lavoratori che li facesse senon arbitri assoluti, almeno partecipi della produzione, enon già passivamente partecipi agli utili, secondo certevedute pelosamente filantropiche, ma partecipi nella ge-stione, nella direzione, nel controllo della produzionenazionale, ossia condòmini veri» (Discorso del 20 giu-gno alla Camera).

I comunisti, cioè l’ala estrema destinata a staccarsidopo il Congresso di Livorno del’21, partivano da dueconstatazioni: il fallimento dei partiti socialisti europeidi fronte allo scoppio della guerra mondiale, il trionfodel bolscevismo, con la sua rigida intransigenza e con lasua spietata e integrale volontà rivoluzionaria, in Russia.La crisi aperta dalla guerra e l’esempio di Lenin impo-

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nevano – secondo i comunisti – l’abbandono della vec-chia tattica socialista e l’adozione d’un programma ascadenza immediata: conquista violenta del potere edeliminazione della società borghese per opera della dit-tatura del proletariato esercitata dal partito comunista.La borghesia era considerata come un unico blocco diforze reazionarie che bisognava spezzare, vana essendoogni illusione di graduale riformismo. La costruzionedello stato socialista poteva iniziarsi solo all’indomanidel crollo capitalistico. Il vecchio nucleo dirigente delsocialismo italiano, pur riconoscendo l’incalcolabile va-lore della rivoluzione d’ottobre, era alieno dall’ammet-tere che nel nostro paese esistessero le premesse neces-sarie a realizzare un identico fine. Forse taluni dubitava-no della vitalità del regime sovietico stretto nella morsadella carestia e della guerra contro i generali bianchi,soffocato dal cordone sanitario delle grandi e piccolepotenze europee. Altri discutevano sul quantum di so-cialismo l’U.R.S.S. fosse riuscita a tradurre in effettivarealtà. Ma nessuno poteva chiudere gli occhi dinanziall’imponente affluire delle masse eccitate dal fascinosorichiamo di Mosca verso le bandiere socialiste. Comeresistere alla loro pressione, come dominarle se non pro-mettendo di condurle alla rapida vittoria? Al gruppo tu-ratiano ripugnava, non per timore ma per consapevoleserietà, un’attitudine troppo corriva e fatta di pericoloselusinghe verso le nuove incomposte schiere di seguaci,dove al vero proletariato si mescolavano elementi torbi-di più simili alla «teppa» di cui discorrevano i vecchi

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nevano – secondo i comunisti – l’abbandono della vec-chia tattica socialista e l’adozione d’un programma ascadenza immediata: conquista violenta del potere edeliminazione della società borghese per opera della dit-tatura del proletariato esercitata dal partito comunista.La borghesia era considerata come un unico blocco diforze reazionarie che bisognava spezzare, vana essendoogni illusione di graduale riformismo. La costruzionedello stato socialista poteva iniziarsi solo all’indomanidel crollo capitalistico. Il vecchio nucleo dirigente delsocialismo italiano, pur riconoscendo l’incalcolabile va-lore della rivoluzione d’ottobre, era alieno dall’ammet-tere che nel nostro paese esistessero le premesse neces-sarie a realizzare un identico fine. Forse taluni dubitava-no della vitalità del regime sovietico stretto nella morsadella carestia e della guerra contro i generali bianchi,soffocato dal cordone sanitario delle grandi e piccolepotenze europee. Altri discutevano sul quantum di so-cialismo l’U.R.S.S. fosse riuscita a tradurre in effettivarealtà. Ma nessuno poteva chiudere gli occhi dinanziall’imponente affluire delle masse eccitate dal fascinosorichiamo di Mosca verso le bandiere socialiste. Comeresistere alla loro pressione, come dominarle se non pro-mettendo di condurle alla rapida vittoria? Al gruppo tu-ratiano ripugnava, non per timore ma per consapevoleserietà, un’attitudine troppo corriva e fatta di pericoloselusinghe verso le nuove incomposte schiere di seguaci,dove al vero proletariato si mescolavano elementi torbi-di più simili alla «teppa» di cui discorrevano i vecchi

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marxisti che non ad una classe. Ma il grosso del partito,pur senza decidersi al gesto rivoluzionario né ad assu-mere la responsabilità di collaborare con il governo bor-ghese, alimentava un’agitazione destinata, col tempo, adapparire sterile e dannosa perché inconcludente. Fu que-sto il massimalismo verboso di Serrati e dell’Avanti!.L’ala destra di Turati, sorretta da alcuni tra i migliori di-rigenti della Confederazione generale del Lavoro, incli-nava al riformismo; l’ala sinistra si staccava per dar vitaal nuovo partito comunista: erano le sole posizioni logi-che, alle quali il massimalismo finiva col sottrarre forzepreziose esercitando una funzione dispersiva nonostantei suoi disperati appelli unitari. D’Aragona diceva che lacondizione propizia per una conquista rivoluzionariadello stato non era quella d’un paese impoverito dallaguerra; Graziadei, a nome dei comunisti, replicava chela teoria della rivoluzione a granai pieni era troppo co-moda per essere valida. «Se lasciamo passare questomomento favorevole – ammoniva il vecchio libertarioErrico Malatesta – dovremo pagare un giorno con lacri-me di sangue la paura che incutiamo oggi alla borghe-sia». Intanto la borghesia già si destava, correndo ai ri-pari, e di questo risveglio il nazionalista Corradini sicompiaceva come «del miglior frutto della guerra». Di-nanzi alla minaccia fascista e ai suoi nuovi metodi dilotta, Costantino Lazzari faceva alla Camera (17 novem-bre 1920) una aperta professione di fede legalitaria:«Noi intendiamo valerci liberamente e ampiamente diquei diritti civili e politici che sono stati la conquista dei

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marxisti che non ad una classe. Ma il grosso del partito,pur senza decidersi al gesto rivoluzionario né ad assu-mere la responsabilità di collaborare con il governo bor-ghese, alimentava un’agitazione destinata, col tempo, adapparire sterile e dannosa perché inconcludente. Fu que-sto il massimalismo verboso di Serrati e dell’Avanti!.L’ala destra di Turati, sorretta da alcuni tra i migliori di-rigenti della Confederazione generale del Lavoro, incli-nava al riformismo; l’ala sinistra si staccava per dar vitaal nuovo partito comunista: erano le sole posizioni logi-che, alle quali il massimalismo finiva col sottrarre forzepreziose esercitando una funzione dispersiva nonostantei suoi disperati appelli unitari. D’Aragona diceva che lacondizione propizia per una conquista rivoluzionariadello stato non era quella d’un paese impoverito dallaguerra; Graziadei, a nome dei comunisti, replicava chela teoria della rivoluzione a granai pieni era troppo co-moda per essere valida. «Se lasciamo passare questomomento favorevole – ammoniva il vecchio libertarioErrico Malatesta – dovremo pagare un giorno con lacri-me di sangue la paura che incutiamo oggi alla borghe-sia». Intanto la borghesia già si destava, correndo ai ri-pari, e di questo risveglio il nazionalista Corradini sicompiaceva come «del miglior frutto della guerra». Di-nanzi alla minaccia fascista e ai suoi nuovi metodi dilotta, Costantino Lazzari faceva alla Camera (17 novem-bre 1920) una aperta professione di fede legalitaria:«Noi intendiamo valerci liberamente e ampiamente diquei diritti civili e politici che sono stati la conquista dei

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nostri padri. Essi non hanno cacciato lo straniero peravere il piacere di cambiare il bastone da portare sul col-lo, ma perché una nazione come la nostra potesse rico-noscere i bisogni che scaturiscono attraverso il progres-so e il cammino della civiltà e dare a questi bisogni lasanzione del diritto».

Nel 1921 il bilancio socialista era ancora imponente:duemilacinquecento comuni, circa due milioni di voti,tremila sezioni, tre milioni d’operai e contadini organiz-zati. Ma l’edificio si sfaldava dall’interno. La «pacifica-zione» dell’agosto non giovò perché il patto venne vio-lato e poi denunciato dai fascisti il 15 novembre. La lot-ta si faceva aspra, serrata, senza quartiere, dentro e fuoriil partito. In tale condizione, lo sciopero dell’agosto1922, fatto troppo tardi, quando già i maggiori fortilizidella difesa socialista erano caduti, fu l’ultimo errore.Un manifesto, apparso il 9 ottobre su La Giustizia, dopoaver invocato «libertà e giustizia», quasi presentendol’inizio d’una nuova e ben diversa fase storica del socia-lismo italiano, concludeva: «Il libro sarà per noi il piùforte strumento di lotta e di rivoluzione».

* * *

Il gruppo comunista nacque dal grembo stesso delpartito socialista. Chi, per spiegarne l’origine, volesse li-mitarsi a considerarlo come un fenomeno di mimetismorispetto al modello russo, cadrebbe in errore. È ovvioche l’esperienza sovietica in atto, ancora tutta protesa

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nostri padri. Essi non hanno cacciato lo straniero peravere il piacere di cambiare il bastone da portare sul col-lo, ma perché una nazione come la nostra potesse rico-noscere i bisogni che scaturiscono attraverso il progres-so e il cammino della civiltà e dare a questi bisogni lasanzione del diritto».

Nel 1921 il bilancio socialista era ancora imponente:duemilacinquecento comuni, circa due milioni di voti,tremila sezioni, tre milioni d’operai e contadini organiz-zati. Ma l’edificio si sfaldava dall’interno. La «pacifica-zione» dell’agosto non giovò perché il patto venne vio-lato e poi denunciato dai fascisti il 15 novembre. La lot-ta si faceva aspra, serrata, senza quartiere, dentro e fuoriil partito. In tale condizione, lo sciopero dell’agosto1922, fatto troppo tardi, quando già i maggiori fortilizidella difesa socialista erano caduti, fu l’ultimo errore.Un manifesto, apparso il 9 ottobre su La Giustizia, dopoaver invocato «libertà e giustizia», quasi presentendol’inizio d’una nuova e ben diversa fase storica del socia-lismo italiano, concludeva: «Il libro sarà per noi il piùforte strumento di lotta e di rivoluzione».

* * *

Il gruppo comunista nacque dal grembo stesso delpartito socialista. Chi, per spiegarne l’origine, volesse li-mitarsi a considerarlo come un fenomeno di mimetismorispetto al modello russo, cadrebbe in errore. È ovvioche l’esperienza sovietica in atto, ancora tutta protesa

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verso il mito della rivoluzione mondiale e ben lungidall’accogliere e far propria la tesi del socialismo in unpaese solo, fosse alla base di ogni formazione politicacomunista in ciascun stato d’Europa; ed è pure naturaleche i rapporti dei comunisti italiani con l’U.R.S.S., oltreche con la Terza Internazionale, fossero strettissimi, pre-standosi alla facile critica di chi rimproverava loro gli«ordini di Mosca», «l’imbeccata di Lenin», e così via.Ma è altrettanto vero che il comunismo scaturiva in pri-mo luogo dalla crisi europea dei vecchi partiti socialistiche non avevano saputo impedire la guerra, né esercita-re un’efficace influenza per un’impostazione veramentedemocratica della pace, e che nel caos generale post-bel-lico non osavano mettersi per una via decisamente rivo-luzionaria. Rimaneva a vedere se, in Italia, esistesserodavvero le condizioni economiche (ed anche morali)perché la conquista del potere da parte del proletariatofosse possibile, e capace di dar vita ad un vigoroso ordi-ne nuovo, e non ad un esperimento effimero come quel-lo di Bela Kun in Ungheria. I comunisti italiani eranoconvinti che sì, a patto che s’iniziasse con fervore quellapreparazione tecnica dei quadri rivoluzionari che i so-cialisti avevano trascurato. Era un’opera urgente e impe-gnativa: differirla e condurla innanzi con lentezza pote-va significare perdere il momento propizio, veder svani-re l’occasione unica creata dal trionfo sovietico, dallacrisi del dopoguerra, dal declino dei vecchi partiti politi-ci, dall’atmosfera sovreccitata delle classi lavoratrici. Losforzo prodigioso di un’élite comunista, che ebbe in To-

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verso il mito della rivoluzione mondiale e ben lungidall’accogliere e far propria la tesi del socialismo in unpaese solo, fosse alla base di ogni formazione politicacomunista in ciascun stato d’Europa; ed è pure naturaleche i rapporti dei comunisti italiani con l’U.R.S.S., oltreche con la Terza Internazionale, fossero strettissimi, pre-standosi alla facile critica di chi rimproverava loro gli«ordini di Mosca», «l’imbeccata di Lenin», e così via.Ma è altrettanto vero che il comunismo scaturiva in pri-mo luogo dalla crisi europea dei vecchi partiti socialistiche non avevano saputo impedire la guerra, né esercita-re un’efficace influenza per un’impostazione veramentedemocratica della pace, e che nel caos generale post-bel-lico non osavano mettersi per una via decisamente rivo-luzionaria. Rimaneva a vedere se, in Italia, esistesserodavvero le condizioni economiche (ed anche morali)perché la conquista del potere da parte del proletariatofosse possibile, e capace di dar vita ad un vigoroso ordi-ne nuovo, e non ad un esperimento effimero come quel-lo di Bela Kun in Ungheria. I comunisti italiani eranoconvinti che sì, a patto che s’iniziasse con fervore quellapreparazione tecnica dei quadri rivoluzionari che i so-cialisti avevano trascurato. Era un’opera urgente e impe-gnativa: differirla e condurla innanzi con lentezza pote-va significare perdere il momento propizio, veder svani-re l’occasione unica creata dal trionfo sovietico, dallacrisi del dopoguerra, dal declino dei vecchi partiti politi-ci, dall’atmosfera sovreccitata delle classi lavoratrici. Losforzo prodigioso di un’élite comunista, che ebbe in To-

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rino la sua roccaforte, si manifestò in questa gara di ve-locità tra la preparazione del proletariato alla rivoluzio-ne e la marea reazionaria del fascismo che saliva minac-ciosa e guadagnava terreno via via che s’accentuava lacarenza dei poteri statali e crescevano l’indifferenza o ilpavido consenso di vasti strati della piccola borghesia.

In questo lavoro febbrile prodigò tutte le sue energieAntonio Gramsci. Era giunto a Torino dalla sua Sarde-gna, e s’era buttato agli studi con quella divorante pas-sione ch’ebbe in comune con Piero Gobetti. In un corpodebole accoglieva uno spirito indomabile; e la sua vivi-da intelligenza era illuminata da una grande, severa, for-za morale. Era facile incontrarlo in una sala della biblio-teca universitaria, curvo sui testi di filologia; ma a casaleggeva Croce e Marx, e fuori casa viveva con gli operaisocialisti della barriera San Paolo e del Lingotto. Gram-sci conosceva bene il movimento critico iniziato dal La-briola, ma utilizzava altresì una esperienza storico-poli-tica che al primo revisionismo marxista era mancata,l’esperienza bolscevica. Nacque l’Ordine Nuovo e intor-no a Gramsci e a Terracini si coagulò l’ala estrema delproletariato ch’era insofferente dell’equivoco massima-lista dell’Avanti! e non credeva più alla validità del so-cialismo riformista di Turati e di Treves. Una profondaesigenza di cultura, uno spirito fresco e libero, una nettaintransigenza rivoluzionaria, furono le caratteristichemigliori del giovane comunismo italiano. Ma il partitosocialista aveva dietro di sé la tradizione, aveva il presti-gio di molti nomi cari ai lavoratori per le coraggiose

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rino la sua roccaforte, si manifestò in questa gara di ve-locità tra la preparazione del proletariato alla rivoluzio-ne e la marea reazionaria del fascismo che saliva minac-ciosa e guadagnava terreno via via che s’accentuava lacarenza dei poteri statali e crescevano l’indifferenza o ilpavido consenso di vasti strati della piccola borghesia.

In questo lavoro febbrile prodigò tutte le sue energieAntonio Gramsci. Era giunto a Torino dalla sua Sarde-gna, e s’era buttato agli studi con quella divorante pas-sione ch’ebbe in comune con Piero Gobetti. In un corpodebole accoglieva uno spirito indomabile; e la sua vivi-da intelligenza era illuminata da una grande, severa, for-za morale. Era facile incontrarlo in una sala della biblio-teca universitaria, curvo sui testi di filologia; ma a casaleggeva Croce e Marx, e fuori casa viveva con gli operaisocialisti della barriera San Paolo e del Lingotto. Gram-sci conosceva bene il movimento critico iniziato dal La-briola, ma utilizzava altresì una esperienza storico-poli-tica che al primo revisionismo marxista era mancata,l’esperienza bolscevica. Nacque l’Ordine Nuovo e intor-no a Gramsci e a Terracini si coagulò l’ala estrema delproletariato ch’era insofferente dell’equivoco massima-lista dell’Avanti! e non credeva più alla validità del so-cialismo riformista di Turati e di Treves. Una profondaesigenza di cultura, uno spirito fresco e libero, una nettaintransigenza rivoluzionaria, furono le caratteristichemigliori del giovane comunismo italiano. Ma il partitosocialista aveva dietro di sé la tradizione, aveva il presti-gio di molti nomi cari ai lavoratori per le coraggiose

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battaglie d’altri tempi. Il comunismo ne determinò lacrisi, ma non riuscì ad assorbirlo o a privarlo delle mas-se. E il tempo fuggiva rapido: stretto tra la reazione in-calzante e il dissolversi delle speranze riposte da Moscanel veloce propagarsi della rivoluzione mondiale, il par-tito comunista vide preclusa ogni possibilità d’immedia-to successo, ma lottò ugualmente, fino all’ultimo – e ol-tre – per la propria idea.

* * *

Intanto, andavano crescendo le schiere del fascismo.Notevole l’apporto degli «arditi»: sono gruppi che si tra-sferiscono, quasi senza soluzione di continuità, dal fron-te di guerra al fronte della lotta politica interna, sono re-sidui dei «quadri» di guerra non discioltisi nel ritornoalla vita normale e pacifica del quotidiano lavoro, sonoindividui che nelle trincee hanno appreso l’arte del co-mando, che sanno come si guida un plotone d’uomini,come ci s’impone ai gregari, che hanno assorbito il gu-sto dell’essere «capi», e che non sanno e non voglionopiù rinunciarvi.

Di proprio, i fascisti non recavano se non un attivi-smo disancorato da ogni tradizione e da ogni vero e sof-ferto ideale. Erano, quasi sempre, poveri e non vogliosidi un’occupazione modesta che implicasse sacrificio, fa-tica e pazienza. Volevano vivere «sulla vittoria», calpe-stando chi ai loro occhi l’offendeva, l’immiseriva o lamutilava. Facile e naturale era la loro collusione con i

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battaglie d’altri tempi. Il comunismo ne determinò lacrisi, ma non riuscì ad assorbirlo o a privarlo delle mas-se. E il tempo fuggiva rapido: stretto tra la reazione in-calzante e il dissolversi delle speranze riposte da Moscanel veloce propagarsi della rivoluzione mondiale, il par-tito comunista vide preclusa ogni possibilità d’immedia-to successo, ma lottò ugualmente, fino all’ultimo – e ol-tre – per la propria idea.

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Intanto, andavano crescendo le schiere del fascismo.Notevole l’apporto degli «arditi»: sono gruppi che si tra-sferiscono, quasi senza soluzione di continuità, dal fron-te di guerra al fronte della lotta politica interna, sono re-sidui dei «quadri» di guerra non discioltisi nel ritornoalla vita normale e pacifica del quotidiano lavoro, sonoindividui che nelle trincee hanno appreso l’arte del co-mando, che sanno come si guida un plotone d’uomini,come ci s’impone ai gregari, che hanno assorbito il gu-sto dell’essere «capi», e che non sanno e non voglionopiù rinunciarvi.

Di proprio, i fascisti non recavano se non un attivi-smo disancorato da ogni tradizione e da ogni vero e sof-ferto ideale. Erano, quasi sempre, poveri e non vogliosidi un’occupazione modesta che implicasse sacrificio, fa-tica e pazienza. Volevano vivere «sulla vittoria», calpe-stando chi ai loro occhi l’offendeva, l’immiseriva o lamutilava. Facile e naturale era la loro collusione con i

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ceti agrari e industriali, soprattutto con i primi: i fascistidivennero così la nuova «guardia bianca del capitale edella terra». Non che il fascismo fosse l’espressione diuna classe: lo era, se mai, d’uno stato d’animo, d’un dif-fuso turbamento e capovolgimento di valori e di concet-ti, per cui esso poteva trovare accoliti in ogni ceto socia-le, tra individui aventi diverse origini e opposti interessi.Il generico patriottismo era una bandiera che tutti potevaaccomunare, dallo studente liceale al professionista ma-turo, dal proprietario d’azienda al vecchio aristocratico;tutti, salvo coloro che fossero pronti ad analizzare criti-camente la natura del moto e i suoi contraddittori carat-teri. Azione diretta, ed azione non rivolta ad educare e apersuadere, ma solo a conquistare e a trascinare le mas-se: questo il metodo. Procedere non per posizioni con-cettuali, ma unicamente creando «stati d’animo genericie fluttuanti», variabili all’infinito col variare delle situa-zioni di fatto: questo il sistema.

Diverso il «movimento» fascista (che divenne partitocol Congresso di Roma del ’21) da regione a regione,spesso da provincia a provincia. Ma prevalente la fisio-nomia assunta nella zona emiliana e ferrarese, in strettoconnubio con i grandi interessi terrieri, che finì conl’imprimere a tutto il movimento un marchio d’inven-zione dannunziana: «schiavismo agrario». Ed anche làdove i caratteri originari apparivano diversi, identico eral’animus. Svanivano, in brevi anni, le «tendenzialità»repubblicane, i propositi marinettiani di «svaticanamen-to» dell’Italia, o di soppressione delle mense vescovili,

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ceti agrari e industriali, soprattutto con i primi: i fascistidivennero così la nuova «guardia bianca del capitale edella terra». Non che il fascismo fosse l’espressione diuna classe: lo era, se mai, d’uno stato d’animo, d’un dif-fuso turbamento e capovolgimento di valori e di concet-ti, per cui esso poteva trovare accoliti in ogni ceto socia-le, tra individui aventi diverse origini e opposti interessi.Il generico patriottismo era una bandiera che tutti potevaaccomunare, dallo studente liceale al professionista ma-turo, dal proprietario d’azienda al vecchio aristocratico;tutti, salvo coloro che fossero pronti ad analizzare criti-camente la natura del moto e i suoi contraddittori carat-teri. Azione diretta, ed azione non rivolta ad educare e apersuadere, ma solo a conquistare e a trascinare le mas-se: questo il metodo. Procedere non per posizioni con-cettuali, ma unicamente creando «stati d’animo genericie fluttuanti», variabili all’infinito col variare delle situa-zioni di fatto: questo il sistema.

Diverso il «movimento» fascista (che divenne partitocol Congresso di Roma del ’21) da regione a regione,spesso da provincia a provincia. Ma prevalente la fisio-nomia assunta nella zona emiliana e ferrarese, in strettoconnubio con i grandi interessi terrieri, che finì conl’imprimere a tutto il movimento un marchio d’inven-zione dannunziana: «schiavismo agrario». Ed anche làdove i caratteri originari apparivano diversi, identico eral’animus. Svanivano, in brevi anni, le «tendenzialità»repubblicane, i propositi marinettiani di «svaticanamen-to» dell’Italia, o di soppressione delle mense vescovili,

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l’idee autonomistiche, le violente proteste contro lo sta-to ferroviere e postelegrafonico, e tutto si polarizzava inun’unica mèta, la conquista del potere.

Quasi nullo il consenso degli intellettuali alla correntefascista nelle sue origini (Gentile vagheggiava allorauna «nuova politica liberale»), se si eccettuino un sinda-calista d’ingegno come Lanzillo, l’esagitata pattuglia fu-turista, e un gruppo di artisti e giornalisti intorno allaSarfatti. E, realmente, nella sua storia moderna, Milanoconobbe tre salotti famosi: il primo fu quello della con-tessa Clara Maffei, da cui uscì la generazione roman-tico-liberale del Risorgimento; il secondo fu di AnnaKuliscioff, e di li sortì quel tanto di socialismo colto eintelligente che il nostro paese conobbe tra il calare delsecolo e il primo decennio del novecento; il terzo si rac-colse intorno a Margherita Sarfatti, e ne venne fuori, asuo tempo, la Reale Accademia d’Italia.

C’erano poi i nazionalisti: più o meno le solite forze,anche se rinsanguate da qualche recluta del combattenti-smo. Sempre devotissimi al trono, sempre patriottardi,sempre con una vena dannunziana ed estetizzante. Laquestione adriatica, era il loro cavallo di battaglia e i«rinunciatari», tipo Salvemini, Borgese, Silva, Bissolati,costituivano il bersaglio preferito. Per le violenze fasci-ste mostravano un certo disdegno: le eleganti camicieazzurre non amavano confondersi con le sbracate squa-dre in camicia nera; ma si capiva che si sarebbero acco-date al carro del vincitore, salvo poi sistemarvisi defini-

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l’idee autonomistiche, le violente proteste contro lo sta-to ferroviere e postelegrafonico, e tutto si polarizzava inun’unica mèta, la conquista del potere.

Quasi nullo il consenso degli intellettuali alla correntefascista nelle sue origini (Gentile vagheggiava allorauna «nuova politica liberale»), se si eccettuino un sinda-calista d’ingegno come Lanzillo, l’esagitata pattuglia fu-turista, e un gruppo di artisti e giornalisti intorno allaSarfatti. E, realmente, nella sua storia moderna, Milanoconobbe tre salotti famosi: il primo fu quello della con-tessa Clara Maffei, da cui uscì la generazione roman-tico-liberale del Risorgimento; il secondo fu di AnnaKuliscioff, e di li sortì quel tanto di socialismo colto eintelligente che il nostro paese conobbe tra il calare delsecolo e il primo decennio del novecento; il terzo si rac-colse intorno a Margherita Sarfatti, e ne venne fuori, asuo tempo, la Reale Accademia d’Italia.

C’erano poi i nazionalisti: più o meno le solite forze,anche se rinsanguate da qualche recluta del combattenti-smo. Sempre devotissimi al trono, sempre patriottardi,sempre con una vena dannunziana ed estetizzante. Laquestione adriatica, era il loro cavallo di battaglia e i«rinunciatari», tipo Salvemini, Borgese, Silva, Bissolati,costituivano il bersaglio preferito. Per le violenze fasci-ste mostravano un certo disdegno: le eleganti camicieazzurre non amavano confondersi con le sbracate squa-dre in camicia nera; ma si capiva che si sarebbero acco-date al carro del vincitore, salvo poi sistemarvisi defini-

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tivamente e vigilare perché nulla di socialistico affioras-se nella politica nazionale dell’ex direttore dell’Avanti!.

* * *

A differenza di quanto avvenne in Gran Bretagna e inFrancia, con le prime elezioni del dopoguerra (novem-bre 1919), in Italia non si ebbe né una Camera khaki néuna Camera bleu-horizon, ma un Parlamento rosso ebianco: 156 socialisti e 101 popolari. Impossibile gover-nare senza di essi. Lo strumento della lotta politica, sul-la base dei grandi partiti, era stata la proporzionale volu-ta da Nitti e fieramente avversata da Giolitti. La propor-zionale fu attuata in un momento assai delicato e pocopropizio; ma le critiche di cui venne fatta oggetto nonsono tutte valide e genuine. Il sistema dei quozienti è ilsolo che assicuri una rappresentanza aritmeticamente fe-dele delle forze politiche d’un paese, che riduca al mini-mo le influenze personali e le camarille locali. Inoltre, laproporzionale evitò che l’Italia si spezzasse quasi in duetronconi, un Nord tutto socialista e popolare, un Sudquasi esclusivamente liberale-democratico. Il vizio eraun altro, e consisteva nel carattere automatico, meccani-co, troppo poco aderente alla fisionomia più intima dellavita nazionale che la rappresentanza, scelta direttamentedalle direzioni dei partiti con criteri interni di partito, as-sumeva una volta eletta. La Camera finiva col somiglia-re più ad un comizio di fazioni politiche che ad un nor-male e operante parlamento. Comunque, la proporziona-

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tivamente e vigilare perché nulla di socialistico affioras-se nella politica nazionale dell’ex direttore dell’Avanti!.

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A differenza di quanto avvenne in Gran Bretagna e inFrancia, con le prime elezioni del dopoguerra (novem-bre 1919), in Italia non si ebbe né una Camera khaki néuna Camera bleu-horizon, ma un Parlamento rosso ebianco: 156 socialisti e 101 popolari. Impossibile gover-nare senza di essi. Lo strumento della lotta politica, sul-la base dei grandi partiti, era stata la proporzionale volu-ta da Nitti e fieramente avversata da Giolitti. La propor-zionale fu attuata in un momento assai delicato e pocopropizio; ma le critiche di cui venne fatta oggetto nonsono tutte valide e genuine. Il sistema dei quozienti è ilsolo che assicuri una rappresentanza aritmeticamente fe-dele delle forze politiche d’un paese, che riduca al mini-mo le influenze personali e le camarille locali. Inoltre, laproporzionale evitò che l’Italia si spezzasse quasi in duetronconi, un Nord tutto socialista e popolare, un Sudquasi esclusivamente liberale-democratico. Il vizio eraun altro, e consisteva nel carattere automatico, meccani-co, troppo poco aderente alla fisionomia più intima dellavita nazionale che la rappresentanza, scelta direttamentedalle direzioni dei partiti con criteri interni di partito, as-sumeva una volta eletta. La Camera finiva col somiglia-re più ad un comizio di fazioni politiche che ad un nor-male e operante parlamento. Comunque, la proporziona-

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le rivelò, pose in evidenza, la crisi italiana; non ne fu lacausa.

Nitti rimase al governo dal giugno del ’19 al giugnodel ’20. Poi i migliori liberali-democratici, ansiosi dicondurre l’Italia a salvamento attraverso la crisi postbel-lica, così come l’avevano portata alla vittoria durante laguerra, compresero che la sua politica difettava di ener-gica volontà e di forza costruttiva, che la sua azione ten-deva a slittare verso un regime paternalistico di riformeinsufficienti e non legate, le une alle altre, da un nessovigoroso. In quel momento il discorso di Dronero (12ottobre 1919), ch’era un dichiarato programma di gover-no, ripropose alle classi dirigenti italiane il nome di Gio-vanni Giolitti. Questi criticò la condotta di guerra, recla-mò inchieste severe, annunciò drastici provvedimenti fi-nanziari, ma soprattutto rivolse un attacco d’inconsuetaviolenza contro le classi privilegiate e reazionarie lequali «non possono più dirigere, sole, un mondo i cuidestini debbono passare nelle mani dei popoli». Agli oc-chi dei nazionalisti e dei conservatori (gli uni offesidell’affermata necessità d’una politica societaria e paci-fica, gli altri colpiti dall’auspicata imposta di successio-ne) il vecchio statista liberale parve un «bolscevico».Ma l’opinione pubblica, che nella primavera del ’15l’aveva ripudiato come un disfattista, ora l’innalzava sugli scudi e lo chiamava, per l’ultima volta, al potere.

Che Giolitti avesse un programma più largo ed orga-nico di governo lo si vide subito attraverso l’azionesvolta nel settore della politica estera, nell’economia e

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le rivelò, pose in evidenza, la crisi italiana; non ne fu lacausa.

Nitti rimase al governo dal giugno del ’19 al giugnodel ’20. Poi i migliori liberali-democratici, ansiosi dicondurre l’Italia a salvamento attraverso la crisi postbel-lica, così come l’avevano portata alla vittoria durante laguerra, compresero che la sua politica difettava di ener-gica volontà e di forza costruttiva, che la sua azione ten-deva a slittare verso un regime paternalistico di riformeinsufficienti e non legate, le une alle altre, da un nessovigoroso. In quel momento il discorso di Dronero (12ottobre 1919), ch’era un dichiarato programma di gover-no, ripropose alle classi dirigenti italiane il nome di Gio-vanni Giolitti. Questi criticò la condotta di guerra, recla-mò inchieste severe, annunciò drastici provvedimenti fi-nanziari, ma soprattutto rivolse un attacco d’inconsuetaviolenza contro le classi privilegiate e reazionarie lequali «non possono più dirigere, sole, un mondo i cuidestini debbono passare nelle mani dei popoli». Agli oc-chi dei nazionalisti e dei conservatori (gli uni offesidell’affermata necessità d’una politica societaria e paci-fica, gli altri colpiti dall’auspicata imposta di successio-ne) il vecchio statista liberale parve un «bolscevico».Ma l’opinione pubblica, che nella primavera del ’15l’aveva ripudiato come un disfattista, ora l’innalzava sugli scudi e lo chiamava, per l’ultima volta, al potere.

Che Giolitti avesse un programma più largo ed orga-nico di governo lo si vide subito attraverso l’azionesvolta nel settore della politica estera, nell’economia e

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nella finanza, nell’inizio d’una riforma della scuola.Con il suo ministero s’esauriva la polemica, pro e control’intervento, iniziatasi nell’estate del ’14, e la fase acutadel dopoguerra sembrava concludersi per aprire la viaad un ampio processo ricostruttivo, Ma la lotta dei parti-ti e delle forze sindacali organizzate era lungi dal placar-si. In un’atmosfera di tensione politica e di violenti con-trasti d’opinione pubblica, si giunse all’occupazionedelle fabbriche (estate del 1920). Chi, in quei giorni, sifosse affacciato al passo dei Giovi guardando giù nellavallata della Polcévera e più lontano, verso Voltri, versoSestri, avrebbe visto sui tetti degli opifici fiammeggiare,nel chiaro sole di settembre, le bandiere rosse del prole-tariato. E così nella conca di Lecco, vigilata dal Resego-ne, e così verso Greco milanese, verso Mirafiori, nelbiellese, e nel bresciano. Ma le ciminiere non eruttavanofumo: all’interno delle fabbriche, in genere, non si lavo-rava. Perché gli stabilimenti potessero continuare a pro-durre, gli operai non avevano bisogno, in quella settima-na, dei capitalisti o degli imprenditori, quanto dei tecnicie degli ingegneri. Ma questi che un tempo avevanocompreso e spesso condiviso le aspirazioni del nascentesocialismo, ora s’erano allontanati dalle masse rivolu-zionarie e dai loro capi. Per lo più erano divenuti fascistio simpatizzanti; oppure erano estranei, apatici, inerti, diquell’inerzia ch’è tipica d’una certa borghesia italianaquando incognite e problemi troppo gravi le incombonosul capo ed essa vi si rassegna con una sorta di sfiducia-to fatalismo.

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nella finanza, nell’inizio d’una riforma della scuola.Con il suo ministero s’esauriva la polemica, pro e control’intervento, iniziatasi nell’estate del ’14, e la fase acutadel dopoguerra sembrava concludersi per aprire la viaad un ampio processo ricostruttivo, Ma la lotta dei parti-ti e delle forze sindacali organizzate era lungi dal placar-si. In un’atmosfera di tensione politica e di violenti con-trasti d’opinione pubblica, si giunse all’occupazionedelle fabbriche (estate del 1920). Chi, in quei giorni, sifosse affacciato al passo dei Giovi guardando giù nellavallata della Polcévera e più lontano, verso Voltri, versoSestri, avrebbe visto sui tetti degli opifici fiammeggiare,nel chiaro sole di settembre, le bandiere rosse del prole-tariato. E così nella conca di Lecco, vigilata dal Resego-ne, e così verso Greco milanese, verso Mirafiori, nelbiellese, e nel bresciano. Ma le ciminiere non eruttavanofumo: all’interno delle fabbriche, in genere, non si lavo-rava. Perché gli stabilimenti potessero continuare a pro-durre, gli operai non avevano bisogno, in quella settima-na, dei capitalisti o degli imprenditori, quanto dei tecnicie degli ingegneri. Ma questi che un tempo avevanocompreso e spesso condiviso le aspirazioni del nascentesocialismo, ora s’erano allontanati dalle masse rivolu-zionarie e dai loro capi. Per lo più erano divenuti fascistio simpatizzanti; oppure erano estranei, apatici, inerti, diquell’inerzia ch’è tipica d’una certa borghesia italianaquando incognite e problemi troppo gravi le incombonosul capo ed essa vi si rassegna con una sorta di sfiducia-to fatalismo.

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Il risultato negativo dell’occupazione delle fabbricheraddoppiò le violenze fasciste. Sulla nuova fase dellalotta prese posizione il 31 gennaio 1921, alla Camera,Giacomo Matteotti: «Il governo e soprattutto le sue au-torità assistono impassibili e complici allo scempio dellalegge.... La giustizia privata funziona regolarmente so-stituendosi alla giustizia pubblica, ed è giustizia somma-ria.... È dunque una burla – pensano i lavoratori – lo sta-to democratico che dovrebbe assidersi sulla definizionedella legge uguale per tutti. Non è dunque vero quelloche i democratici hanno detto, che cioè dentro la costitu-zione è possibile qualunque sviluppo delle classi lavora-trici, qualunque sviluppo del proletariato. E i semi dellaviolenza frutteranno, frutteranno largamente». Il discor-so, ricco di dati precisi e circostanziati, era un terribileatto d’accusa contro i metodi fascisti, contro la debolez-za del governo e la complicità di prefetti e questori. Nel-la requisitoria di Matteotti vibravano accenti insiemecommossi e virili. Ma l’atteggiamento politico del parti-to socialista sfociava in una contraddizione palese: icapi predicavano ai loro seguaci, di fronte all’azione ar-mata delle squadre fasciste, la «non resistenza»; inten-devano con ciò non esasperare la situazione e soprattut-to isolare il fascismo sul terreno extralegale, individuar-ne la responsabilità, perché il governo potesse interveni-re e colpirlo. Ma il governo non sapeva, non voleva onon poteva ricorrere ai mezzi estremi. Dinanzi a questacarenza e debolezza del potere centrale, c’era una solavia di uscita: che i socialisti salissero compatti e concor-

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Il risultato negativo dell’occupazione delle fabbricheraddoppiò le violenze fasciste. Sulla nuova fase dellalotta prese posizione il 31 gennaio 1921, alla Camera,Giacomo Matteotti: «Il governo e soprattutto le sue au-torità assistono impassibili e complici allo scempio dellalegge.... La giustizia privata funziona regolarmente so-stituendosi alla giustizia pubblica, ed è giustizia somma-ria.... È dunque una burla – pensano i lavoratori – lo sta-to democratico che dovrebbe assidersi sulla definizionedella legge uguale per tutti. Non è dunque vero quelloche i democratici hanno detto, che cioè dentro la costitu-zione è possibile qualunque sviluppo delle classi lavora-trici, qualunque sviluppo del proletariato. E i semi dellaviolenza frutteranno, frutteranno largamente». Il discor-so, ricco di dati precisi e circostanziati, era un terribileatto d’accusa contro i metodi fascisti, contro la debolez-za del governo e la complicità di prefetti e questori. Nel-la requisitoria di Matteotti vibravano accenti insiemecommossi e virili. Ma l’atteggiamento politico del parti-to socialista sfociava in una contraddizione palese: icapi predicavano ai loro seguaci, di fronte all’azione ar-mata delle squadre fasciste, la «non resistenza»; inten-devano con ciò non esasperare la situazione e soprattut-to isolare il fascismo sul terreno extralegale, individuar-ne la responsabilità, perché il governo potesse interveni-re e colpirlo. Ma il governo non sapeva, non voleva onon poteva ricorrere ai mezzi estremi. Dinanzi a questacarenza e debolezza del potere centrale, c’era una solavia di uscita: che i socialisti salissero compatti e concor-

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di al governo imprimendogli nuova vitalità, prestigio eforza di decisione. Invece, i socialisti rifiutavano dicompiere quel passo e preferivano lasciare al potereGiolitti con i popolari, salvo lamentarne la scarsa effi-cienza e la dubbia imparzialità. Era difficile sfuggire aldilemma e i socialisti senza curarsi di ciò che il governofaceva o non faceva per tutelare la legge, accettavano discendere sullo stesso terreno della lotta armata adottatodai fascisti, opponendo squadre a squadre, armi ad armi,oppure assumevano essi il potere per aiutare lo stato aliberarsi dell’illegalismo fascista. Ma Filippo Turati, econ lui molti tra i più anziani ed autorevoli capi del so-cialismo, pensavano che la crisi potesse venir superatacosì come si era vinta quella del ’98, per virtù dello sta-to liberale e delle sue istituzioni. Più o meno consape-volmente, Turati e Giolitti nutrivano l’identica fiducia ecadevano nel medesimo errore. Non così i comunisti:l’on. Graziadei, in un discorso alla Camera volgendosiai socialisti ammoniva: «Voi che predicate la non resi-stenza, non potete tentar di salvare le vostre stesse orga-nizzazioni se non andando al potere. Ma il potere non siraggiunge che con la collaborazione, se parzialmente, ecolla rivoluzione se totalmente». «La rivoluzione nonl’abbiamo fatta, e si avanza la reazione», ammetteva ilsocialista D’Aragona. E Graziadei concludeva: «Rinun-ziare anche alla collaborazione significa, dunque, con-dannarsi al suicidio».

Le elezioni del maggio ’21, volute da Giolitti, nonmodificarono di molto la struttura del parlamento; ma

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di al governo imprimendogli nuova vitalità, prestigio eforza di decisione. Invece, i socialisti rifiutavano dicompiere quel passo e preferivano lasciare al potereGiolitti con i popolari, salvo lamentarne la scarsa effi-cienza e la dubbia imparzialità. Era difficile sfuggire aldilemma e i socialisti senza curarsi di ciò che il governofaceva o non faceva per tutelare la legge, accettavano discendere sullo stesso terreno della lotta armata adottatodai fascisti, opponendo squadre a squadre, armi ad armi,oppure assumevano essi il potere per aiutare lo stato aliberarsi dell’illegalismo fascista. Ma Filippo Turati, econ lui molti tra i più anziani ed autorevoli capi del so-cialismo, pensavano che la crisi potesse venir superatacosì come si era vinta quella del ’98, per virtù dello sta-to liberale e delle sue istituzioni. Più o meno consape-volmente, Turati e Giolitti nutrivano l’identica fiducia ecadevano nel medesimo errore. Non così i comunisti:l’on. Graziadei, in un discorso alla Camera volgendosiai socialisti ammoniva: «Voi che predicate la non resi-stenza, non potete tentar di salvare le vostre stesse orga-nizzazioni se non andando al potere. Ma il potere non siraggiunge che con la collaborazione, se parzialmente, ecolla rivoluzione se totalmente». «La rivoluzione nonl’abbiamo fatta, e si avanza la reazione», ammetteva ilsocialista D’Aragona. E Graziadei concludeva: «Rinun-ziare anche alla collaborazione significa, dunque, con-dannarsi al suicidio».

Le elezioni del maggio ’21, volute da Giolitti, nonmodificarono di molto la struttura del parlamento; ma

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l’Assemblea apparve più riottosa della precedente,meno facile a dominare. Tra l’altro, aveva fatto la suacomparsa, all’estrema destra, il gruppo dei deputati fa-scisti e le lotte che travagliavano il paese si riflettevanoora più direttamente e con estrema violenza nell’aula diMontecitorio. «Il fascismo – osservava con acutezzaprofetica un comunista – per suo temperamento, per suanatura, è un qualche cosa di profondamente antiparla-mentare, e mi stupisce che trovi alla Camera, in tutti ibanchi, dei fautori più o meno calorosi, ma altrettantosicuri».

Giolitti abbandonò il potere; ma nemmeno Bonomi,che fu al governo dal luglio del ’21 al febbraio del’22,pur manifestando una maggiore volontà di arginare, coni mezzi di cui poteva disporre, le spedizioni fasciste, epur adoperandosi per il «patto di pacificazione», era ingrado di compiere miracoli. Alla sua caduta seguì unalunghissima crisi (sembra una prerogativa dei ministeriBonomi quando si dimettono) risolta alla fine conl’espediente Facta. Da quel momento cominciò, di fron-te al fascismo incalzante, tutta una serie di debolezze, diabdicazioni, di rinunce ai diritti e ai doveri del potere. Inquella carenza dell’autorità governativa, Mussolini ave-va già partita vinta ancor prima della coreografica mar-cia su Roma.

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l’Assemblea apparve più riottosa della precedente,meno facile a dominare. Tra l’altro, aveva fatto la suacomparsa, all’estrema destra, il gruppo dei deputati fa-scisti e le lotte che travagliavano il paese si riflettevanoora più direttamente e con estrema violenza nell’aula diMontecitorio. «Il fascismo – osservava con acutezzaprofetica un comunista – per suo temperamento, per suanatura, è un qualche cosa di profondamente antiparla-mentare, e mi stupisce che trovi alla Camera, in tutti ibanchi, dei fautori più o meno calorosi, ma altrettantosicuri».

Giolitti abbandonò il potere; ma nemmeno Bonomi,che fu al governo dal luglio del ’21 al febbraio del’22,pur manifestando una maggiore volontà di arginare, coni mezzi di cui poteva disporre, le spedizioni fasciste, epur adoperandosi per il «patto di pacificazione», era ingrado di compiere miracoli. Alla sua caduta seguì unalunghissima crisi (sembra una prerogativa dei ministeriBonomi quando si dimettono) risolta alla fine conl’espediente Facta. Da quel momento cominciò, di fron-te al fascismo incalzante, tutta una serie di debolezze, diabdicazioni, di rinunce ai diritti e ai doveri del potere. Inquella carenza dell’autorità governativa, Mussolini ave-va già partita vinta ancor prima della coreografica mar-cia su Roma.

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Quegli anni agitati e incerti, senza stabilità e continui-tà, finirono con l’esporre anche la Corona, come accadesempre nei momenti critici della vita d’un paese costitu-zionale. A favore del Sovrano agivano elementi positividi notevole valore: il primo quindicennio di regno avevacoinciso con il periodo di massima prosperità del giova-ne stato italiano e di rapido progresso nel campo poli-tico-sociale; inoltre il Re aveva preso parte, durante laguerra, alla vita dei soldati con abnegazione e coraggio,ne aveva diviso le ansie e le gioie; infine la sua personaera circondata dal generale rispetto dei regnanti e deiCapi di stato stranieri, per la singolare capacità manife-stata nell’esordio del suo regno (a giudizio concorde deidiplomatici europei accreditati a Roma) di intendere e divalutare con spirito equilibrato i problemi internaziona-li. Ma, dinanzi al caos politico del dopoguerra, il Sovra-no non ritrovò la stessa ardita e sagace condotta che gliaveva suggerito, dopo la crisi politica e morale culmina-ta con l’assassinio di re Umberto, d’affidarsi alla sinistraliberale di Zanardelli e Giolitti, tarpando le ali della rea-zione con una più ampia e moderna concezione delle li-bertà nell’ambito statutario. Forse le ansie della lungaguerra e i disagi del fronte avevano fiaccato l’energie ela prontezza dell’uomo? Il motivo vero era un altro: ilconflitto europeo aveva polverizzato i troni; un’ecatom-be di re segnava il termine di lunghi anni d’errori e disangue. La dinastia, in Italia, vedeva sparire con gli Ho-henzollern e con gli Absburgo i due solidi pilastri cen-tro-europei dell’istituto monarchico. Non si dimentichi

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Quegli anni agitati e incerti, senza stabilità e continui-tà, finirono con l’esporre anche la Corona, come accadesempre nei momenti critici della vita d’un paese costitu-zionale. A favore del Sovrano agivano elementi positividi notevole valore: il primo quindicennio di regno avevacoinciso con il periodo di massima prosperità del giova-ne stato italiano e di rapido progresso nel campo poli-tico-sociale; inoltre il Re aveva preso parte, durante laguerra, alla vita dei soldati con abnegazione e coraggio,ne aveva diviso le ansie e le gioie; infine la sua personaera circondata dal generale rispetto dei regnanti e deiCapi di stato stranieri, per la singolare capacità manife-stata nell’esordio del suo regno (a giudizio concorde deidiplomatici europei accreditati a Roma) di intendere e divalutare con spirito equilibrato i problemi internaziona-li. Ma, dinanzi al caos politico del dopoguerra, il Sovra-no non ritrovò la stessa ardita e sagace condotta che gliaveva suggerito, dopo la crisi politica e morale culmina-ta con l’assassinio di re Umberto, d’affidarsi alla sinistraliberale di Zanardelli e Giolitti, tarpando le ali della rea-zione con una più ampia e moderna concezione delle li-bertà nell’ambito statutario. Forse le ansie della lungaguerra e i disagi del fronte avevano fiaccato l’energie ela prontezza dell’uomo? Il motivo vero era un altro: ilconflitto europeo aveva polverizzato i troni; un’ecatom-be di re segnava il termine di lunghi anni d’errori e disangue. La dinastia, in Italia, vedeva sparire con gli Ho-henzollern e con gli Absburgo i due solidi pilastri cen-tro-europei dell’istituto monarchico. Non si dimentichi

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che la Triplice Alleanza era nata anche dal desideriod’Umberto e d’alcuni devoti ambasciatori e funzionarid’origine savoiarda (De Launay, Blanc) di rafforzare iltrono mediante l’appoggio delle dinastie vicine più sal-de e cospicue. Ora tutto ciò era svanito. Di fronte allecrescenti tendenze rivoluzionarie nella penisola chiavrebbe fatto da freno? Forse l’inquieta e radicaleggian-te repubblica francese? O quell’altra, nata a Weimarnell’ora della disfatta, ch’aveva nel sellaio Ebert il suoprobo e modesto capo? Bisognava evitare l’urto delleforze in contrasto, allontanare lo spauracchio della guer-ra civile che poteva condurre alla crisi del regime mo-narchico nella penisola. Vittorio Emanuele III si orientòin questo senso: più che ad una soluzione organica dellelotte politiche italiane, mirò ad eliminare le conseguenzeimmediate: qualunque via era buona pur ch’evitasse unospargimento di sangue, un conflitto armato tra l’autoritàstatale e le squadre fasciste. Per questo vagheggiò unconnubio Turati-Mussolini al governo. «O l’uno ol’altro», osservava con assennato giudizio il socialistabelga Vandervelde. Ma il Sovrano sperava che fossepossibile allineare i due opposti capi come due moneteantiche diverse in una stessa bacheca. Era una visionenumismatica della politica. Ad accentuare timori e in-certezze contribuivano taluni circoli che facevano capoal Duca d’Aosta ed alla Regina Madre; massime negliultimi tempi, diversi personaggi avevano salito (e forsenon invano) le scale di palazzo Cisterna e varcato i can-celli della villa di Bordighera.

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che la Triplice Alleanza era nata anche dal desideriod’Umberto e d’alcuni devoti ambasciatori e funzionarid’origine savoiarda (De Launay, Blanc) di rafforzare iltrono mediante l’appoggio delle dinastie vicine più sal-de e cospicue. Ora tutto ciò era svanito. Di fronte allecrescenti tendenze rivoluzionarie nella penisola chiavrebbe fatto da freno? Forse l’inquieta e radicaleggian-te repubblica francese? O quell’altra, nata a Weimarnell’ora della disfatta, ch’aveva nel sellaio Ebert il suoprobo e modesto capo? Bisognava evitare l’urto delleforze in contrasto, allontanare lo spauracchio della guer-ra civile che poteva condurre alla crisi del regime mo-narchico nella penisola. Vittorio Emanuele III si orientòin questo senso: più che ad una soluzione organica dellelotte politiche italiane, mirò ad eliminare le conseguenzeimmediate: qualunque via era buona pur ch’evitasse unospargimento di sangue, un conflitto armato tra l’autoritàstatale e le squadre fasciste. Per questo vagheggiò unconnubio Turati-Mussolini al governo. «O l’uno ol’altro», osservava con assennato giudizio il socialistabelga Vandervelde. Ma il Sovrano sperava che fossepossibile allineare i due opposti capi come due moneteantiche diverse in una stessa bacheca. Era una visionenumismatica della politica. Ad accentuare timori e in-certezze contribuivano taluni circoli che facevano capoal Duca d’Aosta ed alla Regina Madre; massime negliultimi tempi, diversi personaggi avevano salito (e forsenon invano) le scale di palazzo Cisterna e varcato i can-celli della villa di Bordighera.

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Page 124: I partiti politici nella storia d’Italia

Nessuna meraviglia se, fallito il progetto di conciliarel’inconciliabile, quando suonò l’ora delle decisioni eFacta si recò dal re per la firma del decreto di statod’assedio, il colloquio sia apparso null’altro che l’incon-tro di due paure, con un niente di fatto come risultato. Inrealtà, il 24 ottobre sera, Facta aveva telegrafato al So-vrano: «Credo ormai tramontato progetto marcia suRoma»; giudizio, come ognuno vede, poco lungimiran-te, ma altresì strano perché l’adunata fascista di Napoliappariva anche ai profani quale preludio di azioni piùgrosse e decisive. Alle 0.30 del 27 ottobre il Presidentedel Consiglio s’era ricreduto e spediva all’on. Mattoli,che si trovava a Cavour, un telegramma invocante l’aiu-to, in extremis, di Giolitti: «Condizione tende precipita-re.... Sarebbe assai bene che nostro grande amico venis-se subito Roma. Così non si può andare avanti». La not-te tra il 27 e il 28 Facta ebbe l’incontro col re e fu decisolo stato d’assedio; tornò al Viminale per redigere il de-creto e la mattina seguente alle otto si presentò di nuovoal Sovrano; ma questi non credette più opportuno appor-re la propria firma.

* * *

Nel ’22 non ci fu nessun veto di don Sturzo contro unritorno di Giolitti. La questione era un’altra, e cioè cheGiolitti ormai non avrebbe più potuto compiere «il mira-colo» che molti da lui invocavano e attendevano. Eranoin giuoco forze nuove che uscivano dai quadri tradizio-

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Nessuna meraviglia se, fallito il progetto di conciliarel’inconciliabile, quando suonò l’ora delle decisioni eFacta si recò dal re per la firma del decreto di statod’assedio, il colloquio sia apparso null’altro che l’incon-tro di due paure, con un niente di fatto come risultato. Inrealtà, il 24 ottobre sera, Facta aveva telegrafato al So-vrano: «Credo ormai tramontato progetto marcia suRoma»; giudizio, come ognuno vede, poco lungimiran-te, ma altresì strano perché l’adunata fascista di Napoliappariva anche ai profani quale preludio di azioni piùgrosse e decisive. Alle 0.30 del 27 ottobre il Presidentedel Consiglio s’era ricreduto e spediva all’on. Mattoli,che si trovava a Cavour, un telegramma invocante l’aiu-to, in extremis, di Giolitti: «Condizione tende precipita-re.... Sarebbe assai bene che nostro grande amico venis-se subito Roma. Così non si può andare avanti». La not-te tra il 27 e il 28 Facta ebbe l’incontro col re e fu decisolo stato d’assedio; tornò al Viminale per redigere il de-creto e la mattina seguente alle otto si presentò di nuovoal Sovrano; ma questi non credette più opportuno appor-re la propria firma.

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Nel ’22 non ci fu nessun veto di don Sturzo contro unritorno di Giolitti. La questione era un’altra, e cioè cheGiolitti ormai non avrebbe più potuto compiere «il mira-colo» che molti da lui invocavano e attendevano. Eranoin giuoco forze nuove che uscivano dai quadri tradizio-

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nali della politica italiana fino al 1915. Giolitti era vec-chio, ma avrebbe saputo ugualmente padroneggiarle sele avesse realmente conosciute, se ne avesse inteso afondo l’origine, la gravità, l’impeto scatenato, la psico-logia dei capi. Il tentativo di «lasciar fare» ai fascisti perdomare il pericolo rosso, salvo poi chiamare i socialistituratiani al potere per liquidare le squadre in camicianera, era fallito; anzi s’era rivelato pericoloso e nocivo.Per riuscire, esso presupponeva uno stato più forte, unparlamento più omogeneo, un paese non viziato daquell’aria di dopoguerra senza pace che ammorbaval’Europa. La minaccia era sempre paventata a sinistra,quando ormai essa proveniva da destra, ma da una de-stra inconsueta nella vita storica dell’Italia e degli altripaesi fino al ’14; una destra che non aveva più nulla del-la vecchia, lenta, gretta forma mentis reazionaria che unmoderno stato liberale non poteva più temere, ma avevaassorbito il virus delle tendenze estreme, s’era fatta unatecnica moderna prendendola a prestito dai veri rivolu-zionari, s’era mascherata in mille modi e mille altri tra-vestimenti si preparava ad assumere.

A mali estremi, estremi rimedi; e questi potevano sca-turire solo da forze giovani e fresche che sapessero capi-re il nemico e porsi su un piano adeguato di battaglia.Ma un’alta percentuale di quelle energie era stata in-ghiottita per sempre dalle doline del Carso, dall’ansa delPiave, dalle trincee del Grappa; e le pattuglie ardite deicomunisti o delle nuove reclute socialiste, democratiche,liberali, erano divise e discordi perché il passato e la tra-

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nali della politica italiana fino al 1915. Giolitti era vec-chio, ma avrebbe saputo ugualmente padroneggiarle sele avesse realmente conosciute, se ne avesse inteso afondo l’origine, la gravità, l’impeto scatenato, la psico-logia dei capi. Il tentativo di «lasciar fare» ai fascisti perdomare il pericolo rosso, salvo poi chiamare i socialistituratiani al potere per liquidare le squadre in camicianera, era fallito; anzi s’era rivelato pericoloso e nocivo.Per riuscire, esso presupponeva uno stato più forte, unparlamento più omogeneo, un paese non viziato daquell’aria di dopoguerra senza pace che ammorbaval’Europa. La minaccia era sempre paventata a sinistra,quando ormai essa proveniva da destra, ma da una de-stra inconsueta nella vita storica dell’Italia e degli altripaesi fino al ’14; una destra che non aveva più nulla del-la vecchia, lenta, gretta forma mentis reazionaria che unmoderno stato liberale non poteva più temere, ma avevaassorbito il virus delle tendenze estreme, s’era fatta unatecnica moderna prendendola a prestito dai veri rivolu-zionari, s’era mascherata in mille modi e mille altri tra-vestimenti si preparava ad assumere.

A mali estremi, estremi rimedi; e questi potevano sca-turire solo da forze giovani e fresche che sapessero capi-re il nemico e porsi su un piano adeguato di battaglia.Ma un’alta percentuale di quelle energie era stata in-ghiottita per sempre dalle doline del Carso, dall’ansa delPiave, dalle trincee del Grappa; e le pattuglie ardite deicomunisti o delle nuove reclute socialiste, democratiche,liberali, erano divise e discordi perché il passato e la tra-

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dizione antagonista dei loro partiti l’inceppavano. E unGiolitti o un Turati nulla potevano fare: rappresentavanoun ceto dirigente impari alla prova. Un compito soloerano chiamati ad assolvere: offrire un esempio di coe-renza, di dignità, lasciare alle future generazioni un te-stamento morale. Eppure proprio allora cominciavanoad apparire uomini nuovi: Gobetti, Gramsci, Amendola,Rosselli, giovani i più d’anni e di spirito, maturati nellacrisi e desiderosi di rinnovare il clima dell’Italia. Conl’Ordine nuovo e con Rivoluzione liberale si respiravaun’altra aria. Se non ché il partito comunista era troppogiovane e i socialisti l’ostacolavano. Piero Gobetti, daun lato combatteva i miti rettorici, e quindi diseroicizza-va il Risorgimento, dall’altro tendeva a rinnovare il vec-chio liberalismo italiano alla luce delle ultime esperien-ze europee. Amendola lottava per una vera democrazia.Dopo aver accennato alla illegalità dell’elezioni dellaXXVII legislatura, diceva: «Perché dunque noi parteci-piamo a queste elezioni? Partecipando ad esse soltantoper la ripartizione della minoranza in condizioni quantomai sfavorevoli, senza il miraggio della conquista delpotere politico, abbiamo inteso accettare l’episodio elet-torale soltanto come un mezzo per ricordare al nostropopolo che l’Italia non è tutta un deserto su cui si ac-campi unico dominatore il fascio littorio; che vi sonoanche nel nostro paese uomini disposti a confessarepubblicamente la loro fede nella libertà e negli istitutidemocratici; e che si ha il diritto di guardare all’avveni-re anche quando non si è fascisti. Abbiamo inoltre inte-

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dizione antagonista dei loro partiti l’inceppavano. E unGiolitti o un Turati nulla potevano fare: rappresentavanoun ceto dirigente impari alla prova. Un compito soloerano chiamati ad assolvere: offrire un esempio di coe-renza, di dignità, lasciare alle future generazioni un te-stamento morale. Eppure proprio allora cominciavanoad apparire uomini nuovi: Gobetti, Gramsci, Amendola,Rosselli, giovani i più d’anni e di spirito, maturati nellacrisi e desiderosi di rinnovare il clima dell’Italia. Conl’Ordine nuovo e con Rivoluzione liberale si respiravaun’altra aria. Se non ché il partito comunista era troppogiovane e i socialisti l’ostacolavano. Piero Gobetti, daun lato combatteva i miti rettorici, e quindi diseroicizza-va il Risorgimento, dall’altro tendeva a rinnovare il vec-chio liberalismo italiano alla luce delle ultime esperien-ze europee. Amendola lottava per una vera democrazia.Dopo aver accennato alla illegalità dell’elezioni dellaXXVII legislatura, diceva: «Perché dunque noi parteci-piamo a queste elezioni? Partecipando ad esse soltantoper la ripartizione della minoranza in condizioni quantomai sfavorevoli, senza il miraggio della conquista delpotere politico, abbiamo inteso accettare l’episodio elet-torale soltanto come un mezzo per ricordare al nostropopolo che l’Italia non è tutta un deserto su cui si ac-campi unico dominatore il fascio littorio; che vi sonoanche nel nostro paese uomini disposti a confessarepubblicamente la loro fede nella libertà e negli istitutidemocratici; e che si ha il diritto di guardare all’avveni-re anche quando non si è fascisti. Abbiamo inoltre inte-

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so di dimostrare, con l’esempio, che la vita pubblica ha,per chi nobilmente la intenda, una sua disciplina, la qua-le impone di non abbandonare le posizioni battute, di re-star fermi al proprio posto quando tutte le prospettivesembrano chiuse, senza speranza e senza paura. Quandotutto è oscuro intorno a noi, e la speranza tace ai nostricuori, allora si formano coscienze e si temprano volontàcui non può essere precluso l’avvenire». Ma i gobettianie gli amendoliani urtavano nella opaca e stanca decom-posizione delle vecchie forze liberali-democratiche, nel-la tenace incomprensione dei ceti conservatori,nell’allarmata ostilità dei nazionalisti. Anche taluneesperienze nuove che si andavano delineando non ebbe-ro poi il tempo e l’opportunità di svilupparsi in misuraadeguata: così il Partito Sardo di Lussu, che per la suaistanza autonomistica e per il suo sforzo di stabilire unnesso tra esigenze liberali e azione socialista doveva of-frire, in seguito, più di uno spunto al pensiero politico diCarlo Rosselli e al programma di «Giustizia e Libertà»;così l’opera vigorosa d’un uomo di forte ingegno, GuidoDorso, che postulava la necessità d’una profonda rivolu-zione democratica delle plebi meridionali, riconoscendonel problema politico del Mezzogiorno non un aspettoperiferico ma la chiave di volta dell’auspicato rinnova-mento di tutta la vita italiana.

Se il socialismo italiano venne sconfitto sul terrenodella lotta politica, esso non fu certo vinto sul terrenomorale. Anzi, ebbe il suo martire in Giacomo Matteotti,e quel nome elevato a simbolo scavò un abisso tra chi

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so di dimostrare, con l’esempio, che la vita pubblica ha,per chi nobilmente la intenda, una sua disciplina, la qua-le impone di non abbandonare le posizioni battute, di re-star fermi al proprio posto quando tutte le prospettivesembrano chiuse, senza speranza e senza paura. Quandotutto è oscuro intorno a noi, e la speranza tace ai nostricuori, allora si formano coscienze e si temprano volontàcui non può essere precluso l’avvenire». Ma i gobettianie gli amendoliani urtavano nella opaca e stanca decom-posizione delle vecchie forze liberali-democratiche, nel-la tenace incomprensione dei ceti conservatori,nell’allarmata ostilità dei nazionalisti. Anche taluneesperienze nuove che si andavano delineando non ebbe-ro poi il tempo e l’opportunità di svilupparsi in misuraadeguata: così il Partito Sardo di Lussu, che per la suaistanza autonomistica e per il suo sforzo di stabilire unnesso tra esigenze liberali e azione socialista doveva of-frire, in seguito, più di uno spunto al pensiero politico diCarlo Rosselli e al programma di «Giustizia e Libertà»;così l’opera vigorosa d’un uomo di forte ingegno, GuidoDorso, che postulava la necessità d’una profonda rivolu-zione democratica delle plebi meridionali, riconoscendonel problema politico del Mezzogiorno non un aspettoperiferico ma la chiave di volta dell’auspicato rinnova-mento di tutta la vita italiana.

Se il socialismo italiano venne sconfitto sul terrenodella lotta politica, esso non fu certo vinto sul terrenomorale. Anzi, ebbe il suo martire in Giacomo Matteotti,e quel nome elevato a simbolo scavò un abisso tra chi

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veramente sentiva i problemi delle classi lavoratrici echi si limitava a trincerarsi dietro lo slogan: «andareverso il popolo». Anche Filippo Turati, pur nel declinodelle forze, ritrovò gli accenti migliori della sua gioven-tù battagliera quando rievocò alla Camera il compagnocaduto, vittima della nuova tirannia, ammonendo i fasci-sti che il delitto avrebbe avuto un giorno una sanzioneben più grave di quella che i responsabili credevano dipoter allontanare da sé: «La nemesi vola più alto.... ».

S’attese un gesto della Corona: ma il gesto non ven-ne; s’attese almeno una parola che pacificasse gli animi,e non li irrigidisse in due schiere nemiche di vincitori edi vinti, d’eletti e di reprobi; anche quella parola nonvenne. Mentre si spegneva la Confederazione Generaledel Lavoro, la lunga, disperata resistenza di Molinellatestimoniava che là dove il socialismo aveva inciso pro-fondamente, creando una salda struttura cooperativisti-ca, la violenza fascista poteva solo conseguire un suc-cesso di forza, estrinseco ed effimero, non permeare glianimi e trascinare le masse.

Dopo il 3 gennaio ’25 la lotta politica era stroncatadall’esterno con una serie di provvedimenti eccezionaliche non avevano riscontro nella storia dei moderni statioccidentali. E dove non potevano giungere le misurecoattive di governo, giunse la vecchia piaga della corru-zione elevata a sistema, divenuta tecnica raffinatanell’adescare i giovani, nel solleticare gli anziani,nell’addomesticare gli avversari, nel piegare le coscien-ze. La lotta politica spariva dal parlamento, dalla stam-

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veramente sentiva i problemi delle classi lavoratrici echi si limitava a trincerarsi dietro lo slogan: «andareverso il popolo». Anche Filippo Turati, pur nel declinodelle forze, ritrovò gli accenti migliori della sua gioven-tù battagliera quando rievocò alla Camera il compagnocaduto, vittima della nuova tirannia, ammonendo i fasci-sti che il delitto avrebbe avuto un giorno una sanzioneben più grave di quella che i responsabili credevano dipoter allontanare da sé: «La nemesi vola più alto.... ».

S’attese un gesto della Corona: ma il gesto non ven-ne; s’attese almeno una parola che pacificasse gli animi,e non li irrigidisse in due schiere nemiche di vincitori edi vinti, d’eletti e di reprobi; anche quella parola nonvenne. Mentre si spegneva la Confederazione Generaledel Lavoro, la lunga, disperata resistenza di Molinellatestimoniava che là dove il socialismo aveva inciso pro-fondamente, creando una salda struttura cooperativisti-ca, la violenza fascista poteva solo conseguire un suc-cesso di forza, estrinseco ed effimero, non permeare glianimi e trascinare le masse.

Dopo il 3 gennaio ’25 la lotta politica era stroncatadall’esterno con una serie di provvedimenti eccezionaliche non avevano riscontro nella storia dei moderni statioccidentali. E dove non potevano giungere le misurecoattive di governo, giunse la vecchia piaga della corru-zione elevata a sistema, divenuta tecnica raffinatanell’adescare i giovani, nel solleticare gli anziani,nell’addomesticare gli avversari, nel piegare le coscien-ze. La lotta politica spariva dal parlamento, dalla stam-

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pa, dalla vita pubblica per alimentare gruppi e cenacoli,per riaffiorare nell’incontro furtivo di pochi fedeli, o perriparare, nell’esilio, in libera terra straniera. S’apriva unsecondo Risorgimento, con i suoi congiurati, con i fogliclandestini, con le parole d’ordine. L’opposizione scen-deva dall’Aventino per rifugiarsi nelle catacombe; el’Italia pareva d’un tratto svuotata d’ogni eco di civilibattaglie per echeggiare soltanto degli appelli magnilo-quenti d’una nuova retorica. Ma nel cielo della culturavibrava alta e commossa la voce del filosofo che richia-mava gl’italiani al rispetto di ciò che l’uomo non puòalienare o abiurare perché solum è suo, e li esortavaall’antica e nuova fede, alla morale della libertà.

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pa, dalla vita pubblica per alimentare gruppi e cenacoli,per riaffiorare nell’incontro furtivo di pochi fedeli, o perriparare, nell’esilio, in libera terra straniera. S’apriva unsecondo Risorgimento, con i suoi congiurati, con i fogliclandestini, con le parole d’ordine. L’opposizione scen-deva dall’Aventino per rifugiarsi nelle catacombe; el’Italia pareva d’un tratto svuotata d’ogni eco di civilibattaglie per echeggiare soltanto degli appelli magnilo-quenti d’una nuova retorica. Ma nel cielo della culturavibrava alta e commossa la voce del filosofo che richia-mava gl’italiani al rispetto di ciò che l’uomo non puòalienare o abiurare perché solum è suo, e li esortavaall’antica e nuova fede, alla morale della libertà.

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EPILOGO

Nati con l’albeggiare del moderno concetto di nazio-ne e con l’apparire di quei diritti di libertà che più diun’eclisse dovevano ancora conoscere prima d’affer-marsi stabilmente, i partiti in Italia si sono venuti svilup-pando e chiarendo nell’età del Risorgimento via via chepassavano dalle originarie formazioni dell’epoca napo-leonica, attraverso i nuclei organizzati nelle società se-grete, a più vasti moti d’opinione pubblica. Con la na-scita della Camera subalpina, elevata dal Cavour alla se-rietà dei grandi dibattiti e ad una funzione italiana ed eu-ropea, essi hanno agito nell’ambito parlamentare dandovita al futuro Stato liberale nazionale ed unitario. Le dif-ficoltà, le lotte, gli smarrimenti, le riprese che caratteriz-zano la storia dei partiti italiani dopo il ’70, sono la sto-ria stessa del nostro paese nel suo consolidarsi, nel suopartecipare alle nuove correnti europee e internazionali-stiche, nello sforzo di suscitare quel «moderno corpo dipopolo» di cui già discorreva il Quinet come del compi-to vero ch’attendeva la nuova Italia ormai libera daitroppi ricordi d’un lontano passato.

Non si deve credere che, nati i moderni partiti, la lorofunzione positiva venisse da tutti ammessa e riconosciu-ta. Non solo i nostalgici dell’ancien régime ed i reazio-nari, ma anche pensatori aperti all’esigenze della moder-

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EPILOGO

Nati con l’albeggiare del moderno concetto di nazio-ne e con l’apparire di quei diritti di libertà che più diun’eclisse dovevano ancora conoscere prima d’affer-marsi stabilmente, i partiti in Italia si sono venuti svilup-pando e chiarendo nell’età del Risorgimento via via chepassavano dalle originarie formazioni dell’epoca napo-leonica, attraverso i nuclei organizzati nelle società se-grete, a più vasti moti d’opinione pubblica. Con la na-scita della Camera subalpina, elevata dal Cavour alla se-rietà dei grandi dibattiti e ad una funzione italiana ed eu-ropea, essi hanno agito nell’ambito parlamentare dandovita al futuro Stato liberale nazionale ed unitario. Le dif-ficoltà, le lotte, gli smarrimenti, le riprese che caratteriz-zano la storia dei partiti italiani dopo il ’70, sono la sto-ria stessa del nostro paese nel suo consolidarsi, nel suopartecipare alle nuove correnti europee e internazionali-stiche, nello sforzo di suscitare quel «moderno corpo dipopolo» di cui già discorreva il Quinet come del compi-to vero ch’attendeva la nuova Italia ormai libera daitroppi ricordi d’un lontano passato.

Non si deve credere che, nati i moderni partiti, la lorofunzione positiva venisse da tutti ammessa e riconosciu-ta. Non solo i nostalgici dell’ancien régime ed i reazio-nari, ma anche pensatori aperti all’esigenze della moder-

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na civiltà, elevarono critiche e dubbi. Antonio Rosminine auspicava la fine: «Ciò che impedisce la giustizia e lamoralità sociale sono i partiti politici; ecco il verme cherode la società». E ancora: «Col vocabolo di partito po-litico noi significhiamo un certo numero d’uomini che siassociano espressamente o tacitamente per influire sullasocietà e farla servire al proprio vantaggio. Il partito haper iscopo il proprio vantaggio, non la giustizia, la equi-tà, la virtù morale. Partito, adunque, giustizia e virtùmorale sono cose opposte». Il Gioberti fu meno negati-vo ed ammise che lo svolgersi «oggi per l’ordinario lapugna.... nel campo delle idee e dei maneggi, sostituen-do il pensiero e la parola.... ai colpi e alla forza» rappre-sentava un notevole progresso. Inoltre, la civiltà moder-na «tendeva a migliorare i partiti, rivolgendoli semprepiù al bene». In un supposto clima perfetto di civiltà, ipartiti – secondo Gioberti – dovrebbero sparire. Sololentamente si diffuse e prevalse la convinzione che ipartiti non fossero una malattia più o meno necessariadello stato moderno, ma un elemento prezioso, un indicedi vita sana ed operosa. Quando – scrive Cesare Balbo –«le opinioni diverse sullo stato possono esprimersi edaspirare al governo legalmente, esse da fazioni diventa-no parti politiche legittime, legali, virtuose, onorevoli etalora gloriose, utili allo stato». Nel contrasto tra la con-cezione dei partiti come «male inevitabile» e quellacome «bene augurabile», è la seconda che alla fine colCavour s’afferma e trionfa in Italia, al pari che negli al-tri stati liberali e democratici del mondo.

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na civiltà, elevarono critiche e dubbi. Antonio Rosminine auspicava la fine: «Ciò che impedisce la giustizia e lamoralità sociale sono i partiti politici; ecco il verme cherode la società». E ancora: «Col vocabolo di partito po-litico noi significhiamo un certo numero d’uomini che siassociano espressamente o tacitamente per influire sullasocietà e farla servire al proprio vantaggio. Il partito haper iscopo il proprio vantaggio, non la giustizia, la equi-tà, la virtù morale. Partito, adunque, giustizia e virtùmorale sono cose opposte». Il Gioberti fu meno negati-vo ed ammise che lo svolgersi «oggi per l’ordinario lapugna.... nel campo delle idee e dei maneggi, sostituen-do il pensiero e la parola.... ai colpi e alla forza» rappre-sentava un notevole progresso. Inoltre, la civiltà moder-na «tendeva a migliorare i partiti, rivolgendoli semprepiù al bene». In un supposto clima perfetto di civiltà, ipartiti – secondo Gioberti – dovrebbero sparire. Sololentamente si diffuse e prevalse la convinzione che ipartiti non fossero una malattia più o meno necessariadello stato moderno, ma un elemento prezioso, un indicedi vita sana ed operosa. Quando – scrive Cesare Balbo –«le opinioni diverse sullo stato possono esprimersi edaspirare al governo legalmente, esse da fazioni diventa-no parti politiche legittime, legali, virtuose, onorevoli etalora gloriose, utili allo stato». Nel contrasto tra la con-cezione dei partiti come «male inevitabile» e quellacome «bene augurabile», è la seconda che alla fine colCavour s’afferma e trionfa in Italia, al pari che negli al-tri stati liberali e democratici del mondo.

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Marco Minghetti, parafrasando una celebre definizio-ne di Edmondo Burke, ha scritto: «S’intende per partitoun’accolta d’uomini aventi voce nella cosa pubblica, iquali concordano nelle massime fondamentali circa ilmodo di governare, e cooperano tutti insieme affinchésiffatto modo e non altro si tenga». In realtà, i partitisono associazioni volontarie di uomini che condividonoalcuni princìpi e scopi generali rispetto al governo dellacosa pubblica. Quando essi sono l’espressione d’un pae-se politicamente educato non operano mai nel sensod’indebolire il potere e l’autorità dello stato, ma lavora-no per ereditarli. Ne rispettano, cioè, la continuità, me-mori del detto del duca di Wellington, che «il governodel Re deve continuare». I membri individuali di ognipartito possono differire l’uno dall’altro su molte que-stioni politiche; possono essere d’idee religiose diversee possono appartenere ad una classe sociale differente,ma se si accordano sulle grandi questioni politiche e secondividono una comune avversione per le altre tenden-ze, ciò è sufficiente a mantenere l’unità del partito. Iveri grandi partiti sono quelli che si fondano su una tra-dizione, un temperamento, un consenso morale e intel-lettuale, ed anche – ma non in modo assoluto – su l’ade-renza a certi interessi e ad un determinato ceto sociale.

Attraverso la lotta dei partiti si educa politicamenteun popolo, ed in virtù della loro ascesa al potere si attuala circolazione delle classi elette. Cesare Balbo ha scrit-to ch’è merito dei governi rappresentativi far sì che ipartiti salgano dalla piazza all’ordinate competizioni

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Marco Minghetti, parafrasando una celebre definizio-ne di Edmondo Burke, ha scritto: «S’intende per partitoun’accolta d’uomini aventi voce nella cosa pubblica, iquali concordano nelle massime fondamentali circa ilmodo di governare, e cooperano tutti insieme affinchésiffatto modo e non altro si tenga». In realtà, i partitisono associazioni volontarie di uomini che condividonoalcuni princìpi e scopi generali rispetto al governo dellacosa pubblica. Quando essi sono l’espressione d’un pae-se politicamente educato non operano mai nel sensod’indebolire il potere e l’autorità dello stato, ma lavora-no per ereditarli. Ne rispettano, cioè, la continuità, me-mori del detto del duca di Wellington, che «il governodel Re deve continuare». I membri individuali di ognipartito possono differire l’uno dall’altro su molte que-stioni politiche; possono essere d’idee religiose diversee possono appartenere ad una classe sociale differente,ma se si accordano sulle grandi questioni politiche e secondividono una comune avversione per le altre tenden-ze, ciò è sufficiente a mantenere l’unità del partito. Iveri grandi partiti sono quelli che si fondano su una tra-dizione, un temperamento, un consenso morale e intel-lettuale, ed anche – ma non in modo assoluto – su l’ade-renza a certi interessi e ad un determinato ceto sociale.

Attraverso la lotta dei partiti si educa politicamenteun popolo, ed in virtù della loro ascesa al potere si attuala circolazione delle classi elette. Cesare Balbo ha scrit-to ch’è merito dei governi rappresentativi far sì che ipartiti salgano dalla piazza all’ordinate competizioni

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parlamentari, così com’è frutto e indice di una elevataeducazione politica il ridursi dei molti partiti a due soli,quello che è al governo e quello che risiede all’opposi-zione. Si palesa qui l’aspirazione che, sul modello ingle-se, fu particolarmente viva in molti autorevoli uominipolitici italiani, prima e dopo la fine del Risorgimento,di poter stabilmente realizzare anche nel nostro paese ilsistema della dualità e non della molteplicità dei partiti.Ma certi schemi o paradigmi validi altrove non si posso-no trapiantare e far vivere, solo per amore di un classicoe ben regolato ordinamento. Basti riflettere che, in unpaese di unica e diffusa confessione religiosa comel’Italia, i cattolici dovrebbero trovarsi distribuiti nei di-versi partiti. E, in un certo senso, è così; oggi più di ieri.Ma, d’altro lato la lotta del Risorgimento, che ha con-trapposto una democrazia laica ad una tradizione cleri-cale, ed il prolungarsi della questione romana hanno in-dotto i cattolici militanti ad astenersi in un primo tempodalla vita politica e poi a parteciparvi con un propriopartito.

La vita del parlamento italiano è stata spesso agitata,confusa, malcerta e, talvolta, ha offerto esempi di lentoe non fecondo lavoro. Vi sono questioni di forma e distile parlamentare che non devono essere sopravvaluta-te, ma nemmeno irrise come del tutto estrinseche. Ad uncerto punto anche un problema di stile incide nella so-stanza: in altri termini, la correttezza degli usi parlamen-tari rispecchia il livello di educazione politica d’un pae-se.

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parlamentari, così com’è frutto e indice di una elevataeducazione politica il ridursi dei molti partiti a due soli,quello che è al governo e quello che risiede all’opposi-zione. Si palesa qui l’aspirazione che, sul modello ingle-se, fu particolarmente viva in molti autorevoli uominipolitici italiani, prima e dopo la fine del Risorgimento,di poter stabilmente realizzare anche nel nostro paese ilsistema della dualità e non della molteplicità dei partiti.Ma certi schemi o paradigmi validi altrove non si posso-no trapiantare e far vivere, solo per amore di un classicoe ben regolato ordinamento. Basti riflettere che, in unpaese di unica e diffusa confessione religiosa comel’Italia, i cattolici dovrebbero trovarsi distribuiti nei di-versi partiti. E, in un certo senso, è così; oggi più di ieri.Ma, d’altro lato la lotta del Risorgimento, che ha con-trapposto una democrazia laica ad una tradizione cleri-cale, ed il prolungarsi della questione romana hanno in-dotto i cattolici militanti ad astenersi in un primo tempodalla vita politica e poi a parteciparvi con un propriopartito.

La vita del parlamento italiano è stata spesso agitata,confusa, malcerta e, talvolta, ha offerto esempi di lentoe non fecondo lavoro. Vi sono questioni di forma e distile parlamentare che non devono essere sopravvaluta-te, ma nemmeno irrise come del tutto estrinseche. Ad uncerto punto anche un problema di stile incide nella so-stanza: in altri termini, la correttezza degli usi parlamen-tari rispecchia il livello di educazione politica d’un pae-se.

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Page 134: I partiti politici nella storia d’Italia

Un’altra caratteristica dei partiti italiani è ch’essi, adifferenza degli inglesi, non consentono ai propri segua-ci un largo respiro. Le scissioni e i divorzi sono frequen-ti: la convivenza in un partito è limitata a coloro che sitrovano d’accordo esattamente su tutto, sui princìpi ge-nerali, sul metodo, sugli aspetti secondari e minimi.Dove il sistema bipolare predomina, come negli StatiUniti o in Gran Bretagna, ciò significa che la funzionedei partiti si risolve nel determinare solo i concetti gene-rali e le grandi linee programmatiche. D’altra parte, ipartiti politici sono i fili multicolori onde è intessuta lastoffa della vita nazionale. Tanto più questa è salda ecompatta, quanto più quei fili sono ordinati, ben connes-si e robusti. La pluralità dei partiti non deve spaventare,pur che si sappia intenderne le ragioni, semplificarne ilgroviglio, coglierne le differenze sostanziali. A questoretto criterio sollecitava gl’italiani Giuseppe Mazzini,quando esprimeva un giudizio che serba, a distanza ditempo, un’evidenza spiccata ed esercita una profondasuggestione: «L’Italia sembra oggi ingombra di sètte edi opinioni diverse, repubblicane, monarchiche, unitarie,federalistiche ed altre; spettacolo doloroso, non insolitoo fatale come altri vorrebbe. A un popolo che versa inuno dei momenti supremi..., le forme del vero appaionosempre molte e distorte. Tra una tomba e una culla stal’infinito. E noi balziamo a un tratto.... dalla sepoltura diun’epoca spenta al limitare di un’altra nascente appena,che aspetta forse la prima parola da noi. Ma a chi benguarda entro a questo caos foriero di una creazione, due

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Un’altra caratteristica dei partiti italiani è ch’essi, adifferenza degli inglesi, non consentono ai propri segua-ci un largo respiro. Le scissioni e i divorzi sono frequen-ti: la convivenza in un partito è limitata a coloro che sitrovano d’accordo esattamente su tutto, sui princìpi ge-nerali, sul metodo, sugli aspetti secondari e minimi.Dove il sistema bipolare predomina, come negli StatiUniti o in Gran Bretagna, ciò significa che la funzionedei partiti si risolve nel determinare solo i concetti gene-rali e le grandi linee programmatiche. D’altra parte, ipartiti politici sono i fili multicolori onde è intessuta lastoffa della vita nazionale. Tanto più questa è salda ecompatta, quanto più quei fili sono ordinati, ben connes-si e robusti. La pluralità dei partiti non deve spaventare,pur che si sappia intenderne le ragioni, semplificarne ilgroviglio, coglierne le differenze sostanziali. A questoretto criterio sollecitava gl’italiani Giuseppe Mazzini,quando esprimeva un giudizio che serba, a distanza ditempo, un’evidenza spiccata ed esercita una profondasuggestione: «L’Italia sembra oggi ingombra di sètte edi opinioni diverse, repubblicane, monarchiche, unitarie,federalistiche ed altre; spettacolo doloroso, non insolitoo fatale come altri vorrebbe. A un popolo che versa inuno dei momenti supremi..., le forme del vero appaionosempre molte e distorte. Tra una tomba e una culla stal’infinito. E noi balziamo a un tratto.... dalla sepoltura diun’epoca spenta al limitare di un’altra nascente appena,che aspetta forse la prima parola da noi. Ma a chi benguarda entro a questo caos foriero di una creazione, due

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soli partiti esistono: il partito che crede nel motodall’alto al basso, e quello che intende la vita italiananon poter salire oggi mai che dalle viscere del paese allesue sommità, dalla piramide al vertice».

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soli partiti esistono: il partito che crede nel motodall’alto al basso, e quello che intende la vita italiananon poter salire oggi mai che dalle viscere del paese allesue sommità, dalla piramide al vertice».

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NOTA BIBLIOGRAFICA

La storia dei partiti politici in Italia, massime per ilperiodo posteriore al ’70, rappresenta un campo apertoalle ricerche. Manca, una storia organica seriamentepensata, del partito liberale, della democrazia, del parti-to radicale, del repubblicano, del socialista. Per giunger-vi occorre promuovere studi particolari su singoli perio-di, su le diverse regioni, su le principali figure. Ciò esi-ge, in un primo tempo, ampie indagini – anche locali –attraverso i giornali, le riviste, la pubblicistica varia, gliatti dei congressi. In un secondo tempo si potrà e si do-vrà far appello agli archivi di enti e di privati. Purtropponel ventennio fascista danni e dispersioni sono stati re-cati ad alcuni archivi e raccolte (presso le Camere delLavoro e le sedi dei partiti); anche nelle pubbliche bi-blioteche le annate dei vecchi giornali hanno subito, tal-volta, danni e mutilazioni. Un lavoro preliminare do-vrebbe oggi consistere nel creare biblioteche specializ-zate ed una emeroteca.

A ) P e r l ’ e t à d e l R iso rg im e n to :

Un lucido saggio di carattere sintetico, seguito da unabibliografia ragionata, è quello di W. MATURI, Partitipolitici e correnti di pensiero nel Risorgimento, nel vol.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

La storia dei partiti politici in Italia, massime per ilperiodo posteriore al ’70, rappresenta un campo apertoalle ricerche. Manca, una storia organica seriamentepensata, del partito liberale, della democrazia, del parti-to radicale, del repubblicano, del socialista. Per giunger-vi occorre promuovere studi particolari su singoli perio-di, su le diverse regioni, su le principali figure. Ciò esi-ge, in un primo tempo, ampie indagini – anche locali –attraverso i giornali, le riviste, la pubblicistica varia, gliatti dei congressi. In un secondo tempo si potrà e si do-vrà far appello agli archivi di enti e di privati. Purtropponel ventennio fascista danni e dispersioni sono stati re-cati ad alcuni archivi e raccolte (presso le Camere delLavoro e le sedi dei partiti); anche nelle pubbliche bi-blioteche le annate dei vecchi giornali hanno subito, tal-volta, danni e mutilazioni. Un lavoro preliminare do-vrebbe oggi consistere nel creare biblioteche specializ-zate ed una emeroteca.

A ) P e r l ’ e t à d e l R iso rg im e n to :

Un lucido saggio di carattere sintetico, seguito da unabibliografia ragionata, è quello di W. MATURI, Partitipolitici e correnti di pensiero nel Risorgimento, nel vol.

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Questioni di storia del Risorgimento, a cura di E.ROTA, Como, 1944. Inoltre: C. MORANDI, I partitipolitici del Risorgimento, nel vol. La sinistra al potere,Firenze, 1944. Per le relazioni tra il liberalismo europeoe il liberalismo italiano: G. Da RUGGIERO, Storia delliberalismo europeo, 2ª ed., Bari, 1941. Un tentativo diinterpretazione classista della lotta politica del Risorgi-mento è in: G. SALVEMINI, L’Italia politica nel secoloXIX, nel vol. L’Europa nel secolo XIX, Padova, 1925.Per la storia degli scrittori politici è fondamentale: L.SALVATORELLI, Il pensiero politico italiano dal 1700al 1870, 2ª ed., Torino, 1941. Per indicazioni particola-reggiate su i singoli periodi, su le varie regioni, su le di-verse correnti politiche, si veda la citata bibliografia chechiude il saggio del Maturi.

B ) P e r i l p e r io d o 1 8 7 0 -1 9 1 4 :

Opere generali: B. CROCE, Storia d’Italia dal 1871al 1915, Bari, 1928; G. VOLPE, L’Italia in cammino, 2ªed., Milano, 1931; G. VOLPE, Italia moderna, vol. I(1870-1900), Milano, 1931 (rielaborazione della prece-dente). Su la scia del Croce, ma più ricca di particolariper la vita politica interna, è l’opera di I. BONOMI, Lapolitica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto (1870-1918), Torino, 1944. Per i dibattiti parlamentari è utileS. CILIBRIZZI, Storia parlamentare politica e diplo-matica d’Italia da Novara a Vittorio Veneto, voll. 5(1849-1916), Napoli, 1939-1940. – Scarse o poco im-

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Questioni di storia del Risorgimento, a cura di E.ROTA, Como, 1944. Inoltre: C. MORANDI, I partitipolitici del Risorgimento, nel vol. La sinistra al potere,Firenze, 1944. Per le relazioni tra il liberalismo europeoe il liberalismo italiano: G. Da RUGGIERO, Storia delliberalismo europeo, 2ª ed., Bari, 1941. Un tentativo diinterpretazione classista della lotta politica del Risorgi-mento è in: G. SALVEMINI, L’Italia politica nel secoloXIX, nel vol. L’Europa nel secolo XIX, Padova, 1925.Per la storia degli scrittori politici è fondamentale: L.SALVATORELLI, Il pensiero politico italiano dal 1700al 1870, 2ª ed., Torino, 1941. Per indicazioni particola-reggiate su i singoli periodi, su le varie regioni, su le di-verse correnti politiche, si veda la citata bibliografia chechiude il saggio del Maturi.

B ) P e r i l p e r io d o 1 8 7 0 -1 9 1 4 :

Opere generali: B. CROCE, Storia d’Italia dal 1871al 1915, Bari, 1928; G. VOLPE, L’Italia in cammino, 2ªed., Milano, 1931; G. VOLPE, Italia moderna, vol. I(1870-1900), Milano, 1931 (rielaborazione della prece-dente). Su la scia del Croce, ma più ricca di particolariper la vita politica interna, è l’opera di I. BONOMI, Lapolitica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto (1870-1918), Torino, 1944. Per i dibattiti parlamentari è utileS. CILIBRIZZI, Storia parlamentare politica e diplo-matica d’Italia da Novara a Vittorio Veneto, voll. 5(1849-1916), Napoli, 1939-1940. – Scarse o poco im-

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portanti le fonti diaristiche e memorialistiche, salvo cheper Crispi, D. Farini, Giolitti e Luzzatti; altre memorie(Barzilai, Nasi) sono di scarso valore.

Non esistono che tre opere complessive sui partiti po-litici: F. CORPACI, I partiti politici in Italia dalla De-stra alla grande guerra (1861-1918), Messina, 1939; G.PERTICONE, Gruppi e partiti politici nella vita pubbli-ca italiana, Modena, 1946; G. GRATTON, Origine edevoluzione dei partiti politici, Trieste, 1946. La primamanca di concretezza storica; la seconda è ben diversa emigliore, ma l’esposizione non appare sempre ordinata eperspicua; la terza difetta di prospettiva storica. Convie-ne sempre muovere dalla lettura del famoso libro di M.MINGHETTI, I partiti politici, ultima ediz., Roma,1943. Inoltre: D. ZANICHELLI, Studi di storia costitu-zionale e politica, Bologna, 1900. Un’ottima antologiaragionata è quella di N. VALERI, La lotta politica inItalia dall’unità al 1925, Firenze, Le Monnier, 1946.Sempre utile come fonte documentaria: sen. Lucchini,Partiti e politica in Italia dal ’70 al ’98, 3 voll., Roma,tip. Senato, 1899.

Opere particolari. Per la Destra: S. SPAVENTA, Lapolitica della Destra, Bari, 1910; R. BONGHI, Pro-grammi politici e partiti, a cura di G. GENTILE, Firen-ze, 1934; G. B. GIORGINI, La Camera e i partiti dal1861 al 1865, Firenze, 1865. – Per la Sinistra: C. MO-RANDI, La Sinistra al potere, Firenze, 1944; R. DEMATTEI, Il problema della democrazia dopo l’unità,Roma, 1934; R. DE MATTEI, Dal trasformismo al so-

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portanti le fonti diaristiche e memorialistiche, salvo cheper Crispi, D. Farini, Giolitti e Luzzatti; altre memorie(Barzilai, Nasi) sono di scarso valore.

Non esistono che tre opere complessive sui partiti po-litici: F. CORPACI, I partiti politici in Italia dalla De-stra alla grande guerra (1861-1918), Messina, 1939; G.PERTICONE, Gruppi e partiti politici nella vita pubbli-ca italiana, Modena, 1946; G. GRATTON, Origine edevoluzione dei partiti politici, Trieste, 1946. La primamanca di concretezza storica; la seconda è ben diversa emigliore, ma l’esposizione non appare sempre ordinata eperspicua; la terza difetta di prospettiva storica. Convie-ne sempre muovere dalla lettura del famoso libro di M.MINGHETTI, I partiti politici, ultima ediz., Roma,1943. Inoltre: D. ZANICHELLI, Studi di storia costitu-zionale e politica, Bologna, 1900. Un’ottima antologiaragionata è quella di N. VALERI, La lotta politica inItalia dall’unità al 1925, Firenze, Le Monnier, 1946.Sempre utile come fonte documentaria: sen. Lucchini,Partiti e politica in Italia dal ’70 al ’98, 3 voll., Roma,tip. Senato, 1899.

Opere particolari. Per la Destra: S. SPAVENTA, Lapolitica della Destra, Bari, 1910; R. BONGHI, Pro-grammi politici e partiti, a cura di G. GENTILE, Firen-ze, 1934; G. B. GIORGINI, La Camera e i partiti dal1861 al 1865, Firenze, 1865. – Per la Sinistra: C. MO-RANDI, La Sinistra al potere, Firenze, 1944; R. DEMATTEI, Il problema della democrazia dopo l’unità,Roma, 1934; R. DE MATTEI, Dal trasformismo al so-

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cialismo, Firenze, 1941. – Per i conservatori: S. JACINIj., Un conservatore rurale della nuova Italia, Bari,1926. A proposito dei moderati lombardi, si veda l’ulti-mo capitolo di RERUM SCRIPTOR [G. SALVEMINI],I partiti politici milanesi del secolo XIX, Milano, 1899.– Per gli altri partiti: R. CALAMANDREI, Logica delradicalismo, Firenze, 1895; F. S. NITTI, Il Partito radi-cale, Torino, 1907; A. GHISLERI, Il parlamentarismo ei repubblicani, Roma, 1912. Inoltre: A. ANZILOTTI,La crisi spirituale della democrazia, Firenze, 1912.

Sul socialismo, per i precedenti remoti: D. CANTI-MORI, Utopisti e riformatori italiani, Firenze, 1944; R.TREVES, La dottrina sansimoniana nel pensiero italia-no del Risorgimento, Torino, 1931; G. ANDRIANI, So-cialismo e comunismo in Toscana tra il ’46 e il ’49, in«Nuova Rivista Storica» 1921; P. E. TAVIANI, Proble-mi economici nei riformatori sociali del Risorgimento,Milano-Bologna, 1940; N. ROSSELLI, Carlo Pisacane,Torino, 1932; G. SALVEMINI, Mazzini, 4ª ed., Firenze,1925; N. ROSSELLI, Mazzini e Bakounine, Torino,1927; N. ROSSELLI, Saggi sul Risorgimento ed altriscritti, Torino, 1946; A. LUCARELLI, Carlo Cafiero,Trani, 1947; A. GORI, Gli albori del socialismo, Firen-ze, 1909; D. LEVI, Prima fase del socialismo in Italia,in «Nuova Antologia», serie IV, vol. 69, p. 434 sgg.; T.MARTELLO, Storia dell’Internazionale, Padova, 1874;F. ANZI, Il partito operaio italiano (1882-1892), Mila-no, 1933; A. ANGIOLINI, Cinquant’anni di socialismoin Italia, 2ª ed., Firenze, 1903; A. CANTONO, Storia

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cialismo, Firenze, 1941. – Per i conservatori: S. JACINIj., Un conservatore rurale della nuova Italia, Bari,1926. A proposito dei moderati lombardi, si veda l’ulti-mo capitolo di RERUM SCRIPTOR [G. SALVEMINI],I partiti politici milanesi del secolo XIX, Milano, 1899.– Per gli altri partiti: R. CALAMANDREI, Logica delradicalismo, Firenze, 1895; F. S. NITTI, Il Partito radi-cale, Torino, 1907; A. GHISLERI, Il parlamentarismo ei repubblicani, Roma, 1912. Inoltre: A. ANZILOTTI,La crisi spirituale della democrazia, Firenze, 1912.

Sul socialismo, per i precedenti remoti: D. CANTI-MORI, Utopisti e riformatori italiani, Firenze, 1944; R.TREVES, La dottrina sansimoniana nel pensiero italia-no del Risorgimento, Torino, 1931; G. ANDRIANI, So-cialismo e comunismo in Toscana tra il ’46 e il ’49, in«Nuova Rivista Storica» 1921; P. E. TAVIANI, Proble-mi economici nei riformatori sociali del Risorgimento,Milano-Bologna, 1940; N. ROSSELLI, Carlo Pisacane,Torino, 1932; G. SALVEMINI, Mazzini, 4ª ed., Firenze,1925; N. ROSSELLI, Mazzini e Bakounine, Torino,1927; N. ROSSELLI, Saggi sul Risorgimento ed altriscritti, Torino, 1946; A. LUCARELLI, Carlo Cafiero,Trani, 1947; A. GORI, Gli albori del socialismo, Firen-ze, 1909; D. LEVI, Prima fase del socialismo in Italia,in «Nuova Antologia», serie IV, vol. 69, p. 434 sgg.; T.MARTELLO, Storia dell’Internazionale, Padova, 1874;F. ANZI, Il partito operaio italiano (1882-1892), Mila-no, 1933; A. ANGIOLINI, Cinquant’anni di socialismoin Italia, 2ª ed., Firenze, 1903; A. CANTONO, Storia

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Page 140: I partiti politici nella storia d’Italia

del socialismo italiano, Torino, 1912; R. MICHELS,Storia del marxismo in Italia, Roma, 1910; R. MI-CHELS, Storia critica del movimento socialista italia-no, Firenze, 1926; I. BONOMI e C. VEZZANI, Il movi-mento proletario nel Mantovano, Milano, 1901; M.BETTINOTTI, Vent’anni di movimento operaio geno-vese, Milano, 1932; G. ZIBORDI, C. Prampolini, Bari,1930; R. MARMIROLI, C. Prampolini, Firenze, 1948;R. RIGOLA, Il movimento operaio nel Biellese, Bari,1930; R. RIGOLA, Storia del movimento operaio italia-no, Milano, 1947; N. MAZZONI, Lotta agraria nellavecchia Italia, Milano, 1947; F. Turati attraverso le let-tere di corrispondenti (1880-1925), a cura di A. SCHIA-VI, Bari, 1947; B. RIGUZZI, Sindacalismo e riformi-smo nel Parmense, Bari, 1931; F. MEDA, Il socialismopolitico in Italia, Milano, 1924. Brillante, ma estrinsecoe parziale: P. GENTILE, Cinquanta anni di socialismo,Milano, 1948. Si possono consultare anche i manuali diG. PERTICONE, Storia del socialismo, Milano, 1940;Storia del comunismo, Milano, 1941. Dello stesso auto-re: Le tre Internazionali, Roma, 1945. Una buona rasse-gna storiografica è quella di E. TAGLIACOZZO, Glistudi storici sul movimento operaio in Italia nel cin-quantennio 1861-1915, Pisa, 1937. Inoltre: C. MORAN-DI, Per una storia del socialismo in Italia, in «Belfa-gor», 1946, I. Per la fortuna, le polemiche e la critica delmarxismo teorico in Italia, si vedano i noti studi di A.Labriola e di B. Croce.

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del socialismo italiano, Torino, 1912; R. MICHELS,Storia del marxismo in Italia, Roma, 1910; R. MI-CHELS, Storia critica del movimento socialista italia-no, Firenze, 1926; I. BONOMI e C. VEZZANI, Il movi-mento proletario nel Mantovano, Milano, 1901; M.BETTINOTTI, Vent’anni di movimento operaio geno-vese, Milano, 1932; G. ZIBORDI, C. Prampolini, Bari,1930; R. MARMIROLI, C. Prampolini, Firenze, 1948;R. RIGOLA, Il movimento operaio nel Biellese, Bari,1930; R. RIGOLA, Storia del movimento operaio italia-no, Milano, 1947; N. MAZZONI, Lotta agraria nellavecchia Italia, Milano, 1947; F. Turati attraverso le let-tere di corrispondenti (1880-1925), a cura di A. SCHIA-VI, Bari, 1947; B. RIGUZZI, Sindacalismo e riformi-smo nel Parmense, Bari, 1931; F. MEDA, Il socialismopolitico in Italia, Milano, 1924. Brillante, ma estrinsecoe parziale: P. GENTILE, Cinquanta anni di socialismo,Milano, 1948. Si possono consultare anche i manuali diG. PERTICONE, Storia del socialismo, Milano, 1940;Storia del comunismo, Milano, 1941. Dello stesso auto-re: Le tre Internazionali, Roma, 1945. Una buona rasse-gna storiografica è quella di E. TAGLIACOZZO, Glistudi storici sul movimento operaio in Italia nel cin-quantennio 1861-1915, Pisa, 1937. Inoltre: C. MORAN-DI, Per una storia del socialismo in Italia, in «Belfa-gor», 1946, I. Per la fortuna, le polemiche e la critica delmarxismo teorico in Italia, si vedano i noti studi di A.Labriola e di B. Croce.

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Per il gruppo riformista: I. BONOMI, Dieci anni dipolitica italiana, Milano, 1924; I. BONOMI, Bissolati,Roma, 1945.

Per le origini della democrazia cristiana e per i catto-lici nella vita politica: G. TONIOLO, La democraziacristiana, Roma, 1900; E. VERCESI, Il movimento cat-tolico in Italia (1870-1922), Firenze, 1923.

Per il nazionalismo: S. SIGHELE, Il nazionalismo e ipartiti politici, Milano, 1911; P. M. ARCARI, La elabo-razione della dottrina politica nazionale (1870-1914), 3volumi, Firenze, 1934-39.

Per gli anarchici: A. BORGHI, Errico Malatesta, Mi-lano, 1947. Per i sindacalisti: T. MASOTTI, Corridoni,Milano, 1932; J. DE BEGNAC, Corridoni, Milano,1943.

C ) P e r i l p e r io d o 1 9 1 4 -1 9 1 9 :

Oltre l’opera del Bonomi già ricordata, si vedano: G.VOLPE, Il popolo italiano tra la pace e la guerra, Mi-lano, 1940; G. VOLPE, Ottobre 1917, Milano, 1930; F.MEDA, I cattolici italiani nella guerra, Milano, 1928;A. MALATESTA, I socialisti italiani durante la guerra,Milano, 1926; A. GRAZIADEI, Idealità socialiste e in-teressi nazionali nel conflitto mondiale Roma, 1918; G.DORE, Dieci anni di lotta politica (1915-1925), Città diCastello, 1947 (soprattutto per la crisi del ’15, e per il’21-24).

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Per il gruppo riformista: I. BONOMI, Dieci anni dipolitica italiana, Milano, 1924; I. BONOMI, Bissolati,Roma, 1945.

Per le origini della democrazia cristiana e per i catto-lici nella vita politica: G. TONIOLO, La democraziacristiana, Roma, 1900; E. VERCESI, Il movimento cat-tolico in Italia (1870-1922), Firenze, 1923.

Per il nazionalismo: S. SIGHELE, Il nazionalismo e ipartiti politici, Milano, 1911; P. M. ARCARI, La elabo-razione della dottrina politica nazionale (1870-1914), 3volumi, Firenze, 1934-39.

Per gli anarchici: A. BORGHI, Errico Malatesta, Mi-lano, 1947. Per i sindacalisti: T. MASOTTI, Corridoni,Milano, 1932; J. DE BEGNAC, Corridoni, Milano,1943.

C ) P e r i l p e r io d o 1 9 1 4 -1 9 1 9 :

Oltre l’opera del Bonomi già ricordata, si vedano: G.VOLPE, Il popolo italiano tra la pace e la guerra, Mi-lano, 1940; G. VOLPE, Ottobre 1917, Milano, 1930; F.MEDA, I cattolici italiani nella guerra, Milano, 1928;A. MALATESTA, I socialisti italiani durante la guerra,Milano, 1926; A. GRAZIADEI, Idealità socialiste e in-teressi nazionali nel conflitto mondiale Roma, 1918; G.DORE, Dieci anni di lotta politica (1915-1925), Città diCastello, 1947 (soprattutto per la crisi del ’15, e per il’21-24).

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D ) P e r i l p e r io d o 1 9 1 9 -1 9 2 5 :

P. GOBETTI, Dal bolscevismo al fascismo, Torino,1923; L. SALVATORELLI, Nazionalfascismo, Torino,1923; L. STURZO, Popolarismo e fascismo, Torino,1924; G. AMENDOLA, La democrazia, Milano, 1926;M. RUINI, La democrazia e l’unione nazionale, Mila-no, 1925; G. VOLPE, Storia del movimento fascista,Milano, 1939; C. SFORZA, L’Italia dal 1914 al 1944quale io la vidi, Roma, 1944; G. SALVEMINI, La ter-reur fasciste en Italie, Paris, 1928; G. PERTICONE, Lapolitica italiana nell’ultimo trentennio, voll. 2, Roma-Firenze, 1945. Le opere di P. GOBETTI (La rivoluzioneliberale) e di G. DORSO (Rivoluzione meridionale)sono state ristampate nel ’45-48 (Torino, Einaudi). Sonopure in corso di pubblicazione gli scritti (quasi tutti ine-diti) di GRAMSCI (Torino, Einaudi). Per la crisidell’ottobre ’22: E. FERRARIS, La marcia su Roma vi-sta dal Viminale, Roma, 1946; altri documenti importan-ti, in: La Nuova Stampa, Torino, 21 febbraio 1948.

E ) P e r i l p e r io d o 1 9 2 6 -1 9 4 3 :

Allo stato attuale delle conoscenze è difficile delinea-re, nonché la storia, la semplice cronaca del sopravvive-re e dell’agire dei gruppi d’opposizione durante il regi-me fascista.

Bisognerebbe, in primo luogo, studiare l’antifascismoin esilio spogliandolo di quelle polemiche e rivalità per-sonali che spesso ne hanno inceppato l’opera o immise-

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D ) P e r i l p e r io d o 1 9 1 9 -1 9 2 5 :

P. GOBETTI, Dal bolscevismo al fascismo, Torino,1923; L. SALVATORELLI, Nazionalfascismo, Torino,1923; L. STURZO, Popolarismo e fascismo, Torino,1924; G. AMENDOLA, La democrazia, Milano, 1926;M. RUINI, La democrazia e l’unione nazionale, Mila-no, 1925; G. VOLPE, Storia del movimento fascista,Milano, 1939; C. SFORZA, L’Italia dal 1914 al 1944quale io la vidi, Roma, 1944; G. SALVEMINI, La ter-reur fasciste en Italie, Paris, 1928; G. PERTICONE, Lapolitica italiana nell’ultimo trentennio, voll. 2, Roma-Firenze, 1945. Le opere di P. GOBETTI (La rivoluzioneliberale) e di G. DORSO (Rivoluzione meridionale)sono state ristampate nel ’45-48 (Torino, Einaudi). Sonopure in corso di pubblicazione gli scritti (quasi tutti ine-diti) di GRAMSCI (Torino, Einaudi). Per la crisidell’ottobre ’22: E. FERRARIS, La marcia su Roma vi-sta dal Viminale, Roma, 1946; altri documenti importan-ti, in: La Nuova Stampa, Torino, 21 febbraio 1948.

E ) P e r i l p e r io d o 1 9 2 6 -1 9 4 3 :

Allo stato attuale delle conoscenze è difficile delinea-re, nonché la storia, la semplice cronaca del sopravvive-re e dell’agire dei gruppi d’opposizione durante il regi-me fascista.

Bisognerebbe, in primo luogo, studiare l’antifascismoin esilio spogliandolo di quelle polemiche e rivalità per-sonali che spesso ne hanno inceppato l’opera o immise-

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rito il carattere; e studiarlo in rapporto con i legami (po-chi o molti che fossero) ch’era riuscito a mantenere o aristabilire con le minoranze attive in Italia. L’indagine,trasferita all’interno, è anche più difficile: l’unica orga-nizzazione, pressoché invisibile alla superficie, ma pre-sente alla base, composta d’elementi sicuri ed espertinella particolare tecnica imposta dalle circostanze, fuquella comunista.

Un gruppo ben diverso, che si muoveva su altro pia-no, era rappresentato dagl’intellettuali che riconosceva-no nel Croce la loro guida morale. Non tutti erano dei li-berali di stretta osservanza, come si vide negli ultimianni con la genesi del Partito d’Azione che trovònell’antifascismo politico-culturale i suoi maggioriesponenti. Più complesso discorso si dovrebbe fare per icattolici, distinguendo tre periodi: quello anteriore alfebbraio 1929, quello posteriore e, infine l’ultimo checoincise con le leggi razziali e con lo stretto connubiotra fascismo e nazismo. Sarebbe d’estremo interesseun’analisi sottile delle ripercussioni che nella coscienzadei cattolici di sinistra ebbe la lotta sostenuta, ma noncondotta fino alle sue estreme conseguenze, dall’AzioneCattolica tra il ’29 e il ’30. Comunque è certo che la ri-serva, esplicita o mentale, di parecchi giovani dei circoliuniversitari, di alcuni gruppi degli «Uomini cattolici» edelle «Donne cattoliche», offrì la possibilità alle forzesuperstiti e non compromesse del vecchio Partito Popo-lare di ricomporre rapidamente i quadri della nuova De-mocrazia Cristiana. Infine, bisogna tener conto della cri-

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rito il carattere; e studiarlo in rapporto con i legami (po-chi o molti che fossero) ch’era riuscito a mantenere o aristabilire con le minoranze attive in Italia. L’indagine,trasferita all’interno, è anche più difficile: l’unica orga-nizzazione, pressoché invisibile alla superficie, ma pre-sente alla base, composta d’elementi sicuri ed espertinella particolare tecnica imposta dalle circostanze, fuquella comunista.

Un gruppo ben diverso, che si muoveva su altro pia-no, era rappresentato dagl’intellettuali che riconosceva-no nel Croce la loro guida morale. Non tutti erano dei li-berali di stretta osservanza, come si vide negli ultimianni con la genesi del Partito d’Azione che trovònell’antifascismo politico-culturale i suoi maggioriesponenti. Più complesso discorso si dovrebbe fare per icattolici, distinguendo tre periodi: quello anteriore alfebbraio 1929, quello posteriore e, infine l’ultimo checoincise con le leggi razziali e con lo stretto connubiotra fascismo e nazismo. Sarebbe d’estremo interesseun’analisi sottile delle ripercussioni che nella coscienzadei cattolici di sinistra ebbe la lotta sostenuta, ma noncondotta fino alle sue estreme conseguenze, dall’AzioneCattolica tra il ’29 e il ’30. Comunque è certo che la ri-serva, esplicita o mentale, di parecchi giovani dei circoliuniversitari, di alcuni gruppi degli «Uomini cattolici» edelle «Donne cattoliche», offrì la possibilità alle forzesuperstiti e non compromesse del vecchio Partito Popo-lare di ricomporre rapidamente i quadri della nuova De-mocrazia Cristiana. Infine, bisogna tener conto della cri-

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Page 144: I partiti politici nella storia d’Italia

si di sfiducia, di malcontento, dell’ansia di liberazione,che si maturarono lentamente in una élite di giovani natie cresciuti sotto l’insegne del fascismo trionfante (cfr. R.ZANGRANDI, Il lungo viaggio, Torino, 1947). Per leforze nuove che si vengono sprigionando dal Sud, siveda: E. SERENI, Il Mezzogiorno all’opposizione, Tori-no, 1948.

Per i partiti politici nati o rinati dopo la liberazione, sipuò consultare: Quadro dei partiti politici in Italia,Roma, De Luigi, 1944. Ma è un quadro che, per necessi-tà di cose, a distanza di pochi anni ci appare ormai sfo-cato, molto sfocato.

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si di sfiducia, di malcontento, dell’ansia di liberazione,che si maturarono lentamente in una élite di giovani natie cresciuti sotto l’insegne del fascismo trionfante (cfr. R.ZANGRANDI, Il lungo viaggio, Torino, 1947). Per leforze nuove che si vengono sprigionando dal Sud, siveda: E. SERENI, Il Mezzogiorno all’opposizione, Tori-no, 1948.

Per i partiti politici nati o rinati dopo la liberazione, sipuò consultare: Quadro dei partiti politici in Italia,Roma, De Luigi, 1944. Ma è un quadro che, per necessi-tà di cose, a distanza di pochi anni ci appare ormai sfo-cato, molto sfocato.

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