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I papi del Novecento

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I papi del

Novecento

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Benedetto XV

Giacomo Della Chiesa

1854-1922

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L’infanzia e la giovinezza

Giacomo Della Chiesa nasce

a Genova il 21 novembre 1854 dal

marchese Giuseppe e da Giovanna

Migliorati.

Frequenta il ginnasio nell’Istituto

Danovaro e Giusso, presso cui ottiene

la licenza.

Negli anni dell’episcopato di Andrea

Charvaz e poi di Salvatore Magnasco,

Giacomo entra come esterno nel

Seminario di Genova, dove studia con

profitto.

Rivela la sua vocazione allo stato

ecclesiastico a un prozio, il cappuccino

Giacomo da Genova, figlio del

marchese Antonio Raggi, di profondo

spirito francescano.

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Ancora universitario, partecipa alle

attività dell’Azione Cattolica.

Consegue la laurea in giurisprudenza

all’Università di Genova con una tesi

sui metodi di interpretazione delle

leggi. Questa formazione giuridica si

rivelerà molto importante per il

futuro papa.

Nel novembre 1875 entra nel

collegio Capranica di Roma, dove

era allora rettore monsignor

Francesco Vinciguerra.

Segue i corsi di teologia alla

Gregoriana, dove ha come maestri

padre Camillo Mazzella e

padre Antonio Ballerini.

Diventa prete il 21 dicembre 1878.

Quindi passa all’Accademia dei

Nobili Ecclesiastici, presso cui si

laurea nel 1880.

Studente a Roma

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Carriera diplomatica

Mariano Rampolla del Tindaro

(1843-1913)

Nel gennaio 1881 conosce Mariano

Rampolla del Tindaro, allora segretario

della Congregazione degli Affari

Straordinari.

Quando questi, nel 1882, viene mandato

come nunzio in Spagna, Della Chiesa lo

segue in qualità di suo segretario

particolare.

Mariano Rampolla è interprete intelligente

della politica di Leone XIII mirante a

restituire alla Santa Sede una posizione di

prestigio e di autorevolezza mondiale, dopo

gli anni di isolamento di Pio IX.

Egli prepara il terreno all’offerta di arbitrato

avanzata da Bismarck a Leone XIII per

comporre la vertenza tra la Germania e la

Spagna, sorta in seguito all’occupazione

tedesca delle isole Caroline.

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Alla Segreteria di Stato

Nel 1887 Rampolla è elevato alla

porpora e nominato Segretario di

Stato e Della Chiesa diventa suo

collaboratore.

Anche assolvendo a compiti

modesti, ha modo di seguire da

vicino l’attenta e abile scuola

diplomatica del Rampolla.

A poco a poco diventa una delle

figure più note in Vaticano, a

contatto con ecclesiastici,

diplomatici e giornalisti di tutto il

mondo, dispiegando presto

sensibilità giuridica e storica,

maturità di giudizio politico e

finezza diplomatica.

È anche uomo di grande pietà

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Nel 1907 viene inaspettatamente chiamato

da Pio X a succedere al cardinale Svampa

come arcivescovo di Bologna. In un primo

tempo ci si aspettava per lui un incarico

diplomatico a Madrid.

Dopo l’avvicendamento Rampolla –

Merry del Val alla Segreteria di Stato, la

posizione di Della Chiesa si fa più

difficile: con il nuovo Segretario di Stato i

rapporti sono corretti ma le posizioni

piuttosto distanti, soprattutto nel modo di

affrontare la questione del modernismo.

L’atteggiamento di Della Chiesa verso

figure come Romolo Murri o Alfred Loisy

è più comprensivo rispetto alle indicazioni

di Pio X. Sta qui probabilmente il motivo

della sua “promozione” alla sede di

Bologna.

Arcivescovo di Bologna

dal 1908 al 1914

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Bologna, una diocesi impegnativa

Vista da Roma, la diocesi di Bologna desta qualche

inquietudine. A giudizio delle gerarchie vaticane

l’episcopato del cardinal Svampa (1851-1907),

soprattutto nell’ultima parte, nonostante gli indubbi

successi pastorali, è apparso troppo aperto verso i

“novatori”.

Svampa è accusato di non aver saputo gestire il

Congresso di Bologna del 1903, nel quale la corrente

democristiana di Murri ha preso il sopravvento sulla

vecchia dirigenza di Paganuzzi, fino ad allora a capo

dell’Opera dei Congressi.

Inoltre la curia romana non ha gradito l’atto di

omaggio, troppo caloroso, di Svampa verso il re

Vittorio Emanuele III, in visita alla città nel maggio

1904.

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Agli inizi del Novecento il mondo

cattolico bolognese è molto vivace e non

mancano alcune tensioni interne. Accanto

ad alcuni intransigenti della vecchia

guardia, si fa strada una nuova

generazione impaziente di scendere

nell’agone politico, anche per contrastare i

socialisti in forte crescita.

Importante è la figura di Cesare Algranati,

ebreo convertito, aderente alla linea

democratico cristiana emersa nel

congresso di Bologna del 1903, che però

si distanzia dalle posizioni di Murri.

Egli è direttore de «L’Avvenire d’Italia»

dal 1902 al 1910. Il vescovo Della Chiesa,

pur non apprezzando i toni e il linguaggio

di Algranati, lo appoggia, ritenendo il

giornale uno strumento utile nella difficile

situazione bolognese.

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L’elezione al pontificato

Morto Pio X, a guerra iniziata, i

cardinali si orientano verso una figura

con ampia esperienza diplomatica e che

sia meno intransigente nella dottrina.

Il 3 settembre 1914 Della Chiesa viene

eletto papa. Sceglie il nome di

Benedetto, in onore di Benedetto XIV,

Prospero Lambertini, che era a sua volta

stato vescovo di Bologna.

Il 1° conflitto mondiale è scoppiato da

poco più di un mese e condizionerà

l’intero pontificato di Benedetto XV: la

posizione da lui elaborata nei 4 anni di

guerra rappresenta la “filosofia” a cui si

rifarà la Santa Sede durante tutto il

Novecento, per quel che riguarda la pace

e la guerra.

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Alleanze militari nella Prima guerra mondiale

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La prima enciclica Ad beatissimiGià nell’enciclica Ad Beatissimi del

1° novembre 1914, Benedetto XV

scrive che la vera causa della

“disastrosissima guerra” è la

scomparsa dagli ordinamenti statali

delle norme e delle pratiche della

saggezza cristiana, “che sole

garantiscono la quiete e la stabilità

delle istituzioni”.

I mali della società sono: “la

mancanza di mutuo amore fra gli

uomini; il disprezzo dell’autorità; i

beni materiali fatti unico obiettivo

dell’attività dell’uomo, quasi non ci

fossero altri beni, e molto migliori da

raggiungere”.

Nell’enciclica si condanna l’egoismo

nazionalistico, l’odio di razza, la

lotta di classe.

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«Non è soltanto l’attuale sanguinosa guerra che funesti le nazioni e a Noi

amareggi e travagli lo spirito. Vi è un’altra furibonda guerra, che rode le

viscere dell’odierna società: guerra che spaventa ogni persona di buon senso,

perché mentre ha accumulato e accumulerà anche per l’avvenire tante rovine

sulle nazioni, deve anche ritenersi essa medesima la vera origine della presente

luttuosissima lotta.

Invero, da quando si è lasciato di osservare nell’ordinamento statale le norme e

le pratiche della cristiana saggezza, le quali garantivano esse sole la stabilità e

la quiete delle istituzioni, gli Stati hanno cominciato necessariamente a

vacillare nelle loro basi, e ne è seguito nelle idee e nei costumi tale

cambiamento che, se Iddio presto non provvede, sembra già imminente lo

sfacelo dell’umano consorzio.

I disordini che scorgiamo sono questi: 1) la mancanza di mutuo amore fra gli

uomini, 2) il disprezzo dell’autorità, 3) l’ingiustizia dei rapporti fra le varie

classi sociali, 4) il bene materiale fatto unico obiettivo dell’attività dell’uomo,

come se non vi fossero altri beni, e molto migliori, da raggiungere.

Sono questi a nostro parere, i quattro fattori della lotta, che mette così

gravemente a soqquadro il mondo. Bisogna dunque diligentemente adoperarsi

per eliminare tali disordini, richiamando in vigore i princìpi del cristianesimo,

se si ha veramente intenzione di sedare ogni conflitto e di mettere in assetto la

società».

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Ostacoli all’opera di pace

di Benedetto XV

Va ricordato anzitutto che ci vuole del tempo

per uscire dall’isolamento diplomatico in cui

Pio X ha lasciato il Vaticano.

La collocazione geopolitica del Vaticano

all’interno dell’Italia, con cui non intrattiene

relazioni diplomatiche, è un ulteriore

svantaggio. Quando l’Italia entra in guerra,

le ambasciate dell’Austria-Ungheria e della

Germania presso la S. Sede sono esiliate in

Svizzera e ciò intralcia le comunicazioni.

Il ministro Sonnino fa inserire nel Trattato di

Londra del 1915 una clausola che preclude

la partecipazione del papa a una eventuale

conferenza di pace.

Si accusa il Vaticano di non essere neutrale

perché è interessato alla sopravvivenza

dell’Impero austro-ungarico (unica potenza

ancora ufficialmente cattolica e baluardo

contro la Russia ortodossa e comunista).

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Nel 1918, al termine del conflitto, Benedetto XV

abolisce il “non expedit”, cioè il divieto per i cattolici

a partecipare alle elezioni politiche. Di conseguenza

si rende possibile la formazione del Partito Popolare

Italiano, per iniziativa di Luigi Sturzo (18 gennaio

1919).

La nascita del Partito Popolare Italiano porta a una

riforma anche dell’Azione Cattolica.

Nel convegno delle giunte diocesane, che si tiene a

Roma nel marzo 1919, il conte Dalla Torre,

presidente dell’Unione Popolare, afferma: “Se

l’Azione Cattolica non può sempre prescindere

dall’attività politica, non può confondersi con

questa”.

Questi eventi chiudono la fase dell’opposizione

cattolica e favoriscono l’ingresso dei cattolici nella

vita pubblica come forza politica autonoma.

Con Benedetto termina quel clima di sospetto e di

lotte intestine tra cattolici, che si era formato per

effetto delle polemiche contro il modernismo.

Luigi Sturzo

(1871-1959)

La fine del

“non expedit”

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Benedetto XV porta alle dirette dipendenze

della Congregazione “de Propaganda Fide”

l’Opera pontificia della propagazione della

fede, la Santa infanzia e l’Opera di S. Pietro

apostolo.

Imprime un forte impulso all’organizzazione

del clero indigeno. Fondamentale è

l’enciclica Maximum illud (30 novembre

1919), diretta ai capi delle missioni.

Esorta i vescovi a trattare “insieme gli

interessi comuni d’una medesima regione”, a

creare un clero autonomo non disgiunto dal

tipo di cultura del paese da evangelizzare,

sollecita le diocesi già evangelizzate a

partecipare allo sforzo missionario dei nuovi

territori, raccomanda il modo di dirigere le

missioni, perché chi vi si dedica non si senta

abbandonato.

Il pontefice accenna anche all’opportunità

che i preti si procurino con il proprio lavoro i

mezzi di sostentamento. Da lui ricevono

impulso gli studi di missionologia.

L’attività missionaria

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Al suo attivo possono contarsi:

- la difesa dell’autonomia del magistero

ecclesiastico contro ogni tendenza a

strumentalizzare il cattolicesimo secondo

finalità particolaristiche, di conservazione

all’interno e di espansione all’esterno;

- l’ammodernamento e il generale

ampliamento dei poteri di intervento della

Chiesa nell’opera di assistenza in una società

sconvolta dai mezzi della guerra moderna e

dalle rivoluzioni;

- nuovi e più moderni indirizzi all’attività

missionaria;

- la promulgazione del Codice di diritto

canonico (28 giugno 1917);

- il superamento del “non expedit”, quindi

l’avvio a soluzione della questione romana;

- la liquidazione delle pesanti lacerazioni fra i

cattolici frutto delle arroventate polemiche fra

modernisti e integristi.

Bilancio di un pontificato

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Benedetto XV.

Tra guerra e pace

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«Fino dagli inizi del Nostro Pontificato, fra gli orrori

della terribile bufera che si era abbattuta sull' Europa, tre

cose sopra le altre Noi ci proponemmo:

- una perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti, quale

si conviene a chi è Padre comune e tutti ama con pari

affetto i suoi figli;

- uno sforzo continuo di fare a tutti il maggior bene che

da Noi si potesse, e ciò senza accettazione di persone,

senza distinzione di nazionalità o di religione, come Ci

detta e la legge universale della carità e il supremo

ufficio spirituale a Noi affidato da Cristo;

- infine la cura assidua, richiesta del pari dalla Nostra

missione pacificatrice, di nulla omettere, per quanto era

in poter Nostro, che giovasse ad affrettare la fine di

questa calamità, inducendo i popoli e i loro Capi a più

miti consigli, alle serene deliberazioni della pace, di una

“pace giusta e duratura”».

La nota del

1° agosto 1917

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«Chi ha seguito l’opera Nostra per tutto il doloroso triennio

che ora si chiude, ha potuto riconoscere che come Noi

fummo sempre fedeli al proposito di assoluta imparzialità e

di beneficenza, così non cessammo dall'esortare e popoli e

Governi belligeranti a tornare fratelli, quantunque non

sempre sia stato reso pubblico ciò che Noi facemmo a

questo nobilissimo intento…

In sì angoscioso stato di cose, dinanzi a così grave minaccia,

Noi, non per mire politiche particolari, né per suggerimento

o interesse di alcuna delle parti belligeranti, ma mossi

unicamente dalla coscienza del supremo dovere di Padre

comune dei fedeli, dal sospiro dei figli che invocano l’opera

Nostra e la Nostra parola pacificatrice, dalla voce stessa

dell’umanità e della ragione, alziamo nuovamente il grido di

pace, e rinnoviamo un caldo appello a chi tiene in mano le

sorti delle Nazioni. Ma per non contenerci sulle generali,

come le circostanze ci suggerirono in passato, vogliamo ora

discendere a proposte più concrete e pratiche e invitare i

Governi dei popoli belligeranti ad accordarsi sopra i

seguenti punti, che sembrano dover essere i capisaldi di una

pace giusta e duratura, lasciando ai medesimi Governanti di

precisarli e completarli»

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Punti chiave della

nota del 1° agosto 1917

La nota del 1° agosto 1917 è il

tentativo più audace e più noto per

tentare di fermare il conflitto.

Essa contiene alcune proposte-chiave

come base per i negoziati di pace:

- restaurazione della forza morale del

diritto internazionale

- disarmo reciproco

- arbitrato internazionale delle dispute

- libertà di navigazione dei mari

- rinuncia di ogni parte ai risarcimenti

di guerra

- evacuazione e restituzione dei

territori occupati

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La recezione dell’appello

Il presidente americano Woodrow

Wilson accoglie il messaggio papale

in modo critico e distaccato; ciò

contribuisce in modo determinante

al fallimento dell’appello. Gli USA

sono ormai entrati in guerra e le

potenze dell’Intesa dipendono dal

sostegno americano.

In Francia Benedetto XV è attaccato

come il “papa crucco”, mentre in

Germania è definito “il papa

francese”. In Italia si giunge perfino

a chiamarlo “Maledetto XV”.

In particolare, il papa viene

rimproverato di non aver

condannato specificamente la

brutale invasione del Belgio ed è

accusato di propendere per la

Germania.

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Léon Adolphe Amette,

Arcivescovo di Parigi

(1850-1920)

Reazioni dei

vescovi francesi

Nell’ampio panorama dell’episcopato, specie francese e

italiano, le reazioni alla Nota di Benedetto XV sono

molto diverse.

Pochissimi sono i vescovi che scrivono al papa per

complimentarsi. Il card. Dubourg (Rennes) afferma che

“mai la Francia accetterà quella Nota, poiché è

impossibile immaginare quanto gli animi si siano rivoltati

contro le atrocità e le barbarie dei nemici… Ovunque

sono passati, hanno saccheggiato tutto, distrutto le chiese,

rase al suo le case, violentate le donne, torturato gli

abitanti. Le loro rapine superano ogni immaginazione…

Quindi non è possibile che vengano considerati alla pari i

Francesi e i Tedeschi”.

Il card. Amette (Parigi) rifiuta di pubblicare la Nota sul

bollettino diocesano giustificandosi così presso il papa:

“Non mi è sembrato che avesse le caratteristiche di un

documento religioso”.

Per molti vescovi francesi l’iniziativa papale mette a

repentaglio i frutti di tre anni di sforzi per riallacciare le

relazioni diplomatiche tra Francia e S.Sede.

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A.D. Sertillanges

(1863-1948)

Il discorso di

p. Sertillanges op

“Padre Santo, al momento noi non

possiamo accogliere i vostri appelli di

pace”. Con questa parole il brillante

predicatore domenicano Sertillanges, nel

dicembre 1917, dichiara dal pulpito della

Madeleine, a Parigi, il suo dissenso sulla

Nota papale, suscitando l’entusiasmo di

molti uditori e la rabbia del Vaticano.

Egli pone con chiarezza il dilemma che

lacera la coscienza di molti cattolici

francesi: come seguire le direttive

pontificie quando esse sembrano

contraddire le esigenze basilari della

giustizia e della sicurezza nazionale?

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Pietro Maffi

(1858-1931)

Reazioni dei vescovi italiani

Anche in Italia la Nota riceve un’accoglienza variegata

da parte dei vescovi. Alcuni esprimono al papa un

apprezzamento formale, come mons. Cazzani, di

Cremona.

Il cardinal Maffi (Pisa), tra i papabili nel conclave del

1914, sostiene fin dall’inizio della guerra il connubio

fede-patria. In una lettera privata al papa definisce la

Nota “uno dei grandi documenti e delle glorie del

pontificato romano” assicurando le sue preghiere per il

buon esito dell’iniziativa.

Poi però fa scrivere su organi di stampa da lui

controllati che Benedetto XV invoca non la temuta

“pace bianca”, ma la “pace giusta” reclamata

dall’Intesa (Alsazia Lorena alla Francia, Trento e

Trieste all’Italia, ecc.).

In generale, la Nota causa imbarazzo tra i vescovi, che

in gran parte decidono di non pubblicarla né di

rilasciare dichiarazione al riguardo.

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“È vivissimo mio desiderio che abbiano a conoscere

e ad apprezzare questo documento tutti i fedeli che

in quest’ora di tanta ansia desiderano di scorgere

almeno in lontananza qualche astro che accenni alla

desiderata pace… Mi raccomando pertanto alla ben

nota prudenza e saggezza del mio clero, perché nel

parlare di questo fatto così importante procuri di

ingenerare nelle popolazioni un senso di giusto

sollievo a cui si ha diritto dopo una così lunga

tensione di animi. Non si esageri però nel senso di

far quasi credere trattarsi di cosa raggiungibile in

una giornata. Si sollevino gli animi con la fiducia di

una pace che si avvicina, ma non si diano

affidamento di breve tempo che non dipendono da

noi. Quello che preme è questo: senta il popolo

cristiano che il papa ci ama e si adopera a sollevarci

dai dolori che ci opprimono; si ringrazi Dio

dell’intervento del suo vicario in questo supremo

momento e si preghi in pubblico e in privato perché

tutti gli uomini si rendano degni del dono della

pace” (Circolare del 23 agosto 1917)

Il Vescovo di

Bergamo

Luigi Maria Marelli

(1858-1936)

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Giovanni Battista Nasalli

Rocca di Corneliano

(1872-1952)

«Non diceva il savio e finissimo

diplomatico “inutile strage” a disprezzo

dei magnifici eroismi e di indiscussi

valori, no: ma inutile per la delusione

che sarebbe succeduta a tanto sterminio

nel non poter raggiungere quei fini di

benessere che dalla guerra ciascun

popolo si aspettava; strage perché non

potrà negarsi che con i mezzi raffinati

della guerra moderna questa divenne

realmente una strage, anche più che

una dimostrazione e soddisfazione di

valore individuale e di strategia…

Al papa si vollero perfino addebitare

gli infortuni della guerra, le catastrofi

che seguirono; quasi avesse negli animi

dei soldati diminuite le energie.

Proposizione folle!»

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La Nota: un fallimento?

Un fallimento su tre livelli:

- Presso la diplomazia e la politica

- Presso l’opinione pubblica

- Presso i cattolici

Alla fine dell’estate 1917, un mese dopo

l’invio della Nota ai vari paesi belligeranti,

l’azione di Benedetto XV sembra aver fallito

nel suo intento pacificatore, presso i governi, le

opinioni pubbliche e gli stessi cattolici.

L’amarezza del Vaticano è reale, mentre i

popoli in guerra denunciano nel testo la

mancanza di spirito di giustizia. Si lamenta il

silenzio sull’occupazione tedesca del Belgio.

Molti temono che una pace senza vittoria,

ovvero un ritorno alla situazione precedente

alla guerra, costituisca un successo della

Germania. La stampa italiana accusa poi il

papa di indebolire lo spirito patriottico.

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Ambiguità formali del testo

1. La Nota presenta anzitutto ambiguità formali. Viene presentata come una

“Nota” o una “Lettera”, mentre nell’intestazione ufficiale c’è “Esortazione”. Si

tratta di un genere del tutto nuovo, originale, che non ha precedenti. È molto

simile a un documento diplomatico, con proposte concrete per la pace, ma

anche a uno scritto morale e quasi spirituale, con il richiamo ai principi e le

invocazioni religiose del preambolo e della conclusione.

2. Il testo lascia un margine di incertezza sul ruolo che il papa è pronto ad

attribuirsi. Benedetto XV non si pone come arbitro, anche perché non ha avuto

contatti preliminari con i diversi governi, ad eccezione di quello tedesco, per

proporre il proprio arbitrato. Non si tratta neppure di “buoni uffici” poiché il

papato non interviene nel conflitto che oppone i due blocchi né è da questi

sollecitato a risolverlo. Infine, non si tratta neppure di una mediazione, perché

non il testo non dice che sarà il papa a condurre i negoziati né potrebbe farlo.

3. Il linguaggio usato nella Nota offre due prospettive: quella normativa e quella

politica. Le critiche sono imperniate su punti concreti, di carattere politico,

prima ancora che su aspetti più normativi del preambolo, che rimandano a

principi morali.

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Fallimento nell’immediato, successo a lungo termine

La Nota del 1917 non raggiunge gli obiettivi sperati da Benedetto XV: nessuna

delle sue proposte viene accolta. Tuttavia questo intervento rappresenta un punto

di svolta nella storia contemporanea dei rapporti del papato con la guerra e la pace.

Essa è in continuità con interventi precedenti del papa in favore della pace. Fin dal

suo insediamento Benedetto XV si sofferma più volte e in pubblico per denunciare

“l’orribile carneficina che disonora l’Europa” (1915) o biasimare “il suicidio

dell’Europa civile” (1916). Ora, invece che limitarsi a “termini generali” sulla

pace, il papa elenca i punti di discordia ed elabora proposte concrete, come quella

sul disarmo o l’arbitrato.

Nella linea della diplomazia di Leone XIII, la Nota esprime la volontà della

S.Sede di ritrovare la sua influenza internazionale attraverso la promozione della

pace.

Il testo è solenne e grave, usa formule persuasive, come “inutile strage” che

catturano l’attenzione e non lasciano indifferenti. Il tono è per così dire

“profetico”.

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Nella Nota in primo piano non

c’è più la legittimazione della

guerra ma una teologia della

pace. L’appello a “una pace

giusta e duratura”, basata sulla

“forza morale del diritto”, il

disarmo e l’arbitrato, apre nuovi

orizzonti per un ruolo del papato

nelle questioni internazionali.

La difesa della pace diverrà

ormai uno degli assi principali

dei discorsi dei successori di

Benedetto XV, per i quali la Nota

rappresenta una specie di

modello. Basandosi sulla

neutralità e l’imparzialità della

S.Sede, esercitano un magistero

morale.

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Cappellano Roncalli

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Come cappellano militare durante la Prima guerra mondiale, don Roncalli svolge

varie attività: assistenza spirituale negli ospedali militari della città; animazione

della Messa del soldato nella chiesa di S. Spirito; organizzazione della

consacrazione al S. Cuore delle truppe del Presidio cittadino; infine, negli ultimi

mesi, è responsabile religioso e morale del grande Ospedale militare ospitato nel

Ricovero Nuovo, ove sono ricoverati prigionieri italiani, rilasciati dall’Austria,

perché tubercolotici o gravemente malati.

Dopo la disfatta di Caporetto, don Roncalli entra nel Comitato di Resistenza per

sostenere la popolazione nello sforzo di arrestare l’avanzata dell’esercito

austriaco, giunto fino al Piave.

Il patriottismo di Roncalli si mantiene lontano sia dalle posizioni un po’

supponenti di certi ecclesiastici, sia dall’esaltazione fanatica di molti nazionalisti.

Il suo amor patrio, convinto e sincero, si colloca all’interno di una profonda

visione religiosa. Quella di Roncalli non è mai un’apologia delle armi, ma

sempre un servizio all’umanità in armi.

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La guerra pone interrogativi angoscianti al prete Roncalli, alla sua coscienza di

credente, al suo cuore sacerdotale. Già l’11 giugno 1915, dopo soltanto venti

giorni dall’entrata in guerra dell’Italia, egli si chiede: «Ma come mai tutto

questo? dopo tante preghiere? dunque il Cuore di Gesù Salvatore del mondo,

pontefice, re, padre non palpita più d’amore per l’umanità? Gesù dorme,

dorme in fondo alla nave cosicché non lo si possa svegliare? La nostra fede, la

nostra speranza hanno cessato di essere vere?».

La medesima litania risuona anche un anno dopo, nella predica del 10

dicembre 1916: «L’obiezione più comune oggi: la domanda che si ripete a Dio

da tante labbra insensate o bestemmiatrici è questa: c’è ancora un Dio nei cieli

che veglia su di noi? Che fa il Cristo sulla croce? Non dobbiamo noi volgerci

ad alcun altro che ci liberi e ci salvi?».

Roncalli percepisce quanto siano insufficienti le motivazioni politiche ed

economiche alle quali la retorica del tempo si appiglia per giustificare ciò che

non può mai essere giustificato: la carneficina di tanti giovani, la sofferenza di

centinaia di migliaia di famiglie, la distruzione di intere regioni e paesi.

D’altro canto, non si abbandona all’invettiva sterile né cavalca l’onda

disfattista, ma cerca il modo di comporre il desiderio di pace con il

compimento del proprio dovere, che ogni cristiano deve onorare, compreso

quello di difendere la patria.

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Il genocidio armeno

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Angelo Dolci è delegato apostolico a

Istanbul dal 1914, negli anni segnati dalla

guerra e dall’affermazione del movimento

dei Giovani Turchi.

Testimone oculare dei massacri del popolo

armeno, esercita un’importante funzione di

soccorso umanitario.

In un’omelia commemorativa in suo onore,

mons. Roncalli, a sua volta delegato

apostolico a Istanbul, dirà: «Né manca tra

di voi, fratelli e figli, chi, memore delle

angustie di quegli anni è venuto anche in

questi giorni a recarmi l’eco lontano della

pubblica e privata riconoscenza per quel

tempestivo impiegarsi di mons. Dolci,

accorto, discreto, felicissimo, nei casi più

delicati e gravi e fra difficoltà molto

affaticanti».

Angelo Dolci

(1867-1939)

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Alcune cifre della strage

Già verso la fine del 1915 monsignor Dolci

deve rassegnarsi a constatare che è stato

trucidato almeno un 1 milione di Armeni

gregoriani, tra i quali 48 vescovi e 4.500

sacerdoti. Un altro mezzo milione li seguirà

nella tomba nel 1916.

Fino a quel momento sono rimasti vittime dei

massacri 5 vescovi armeno-cattolici, 140

sacerdoti, 42 religiosi e circa 85.000 fedeli.

11 diocesi (Angora, Kaisery, Trebizon,

Erzurum, Sivas, Malatya, Kharput,

Diyarbekir, Mardin, Musch e Adana) sono

state totalmente evacuate;

70 chiese e molte scuole sono state confiscate.

In altre due diocesi, Aleppo e Marasch, le

persecuzioni proseguono mentre la sola

diocesi di Brousse è stata fino ad allora

risparmiata.

I turchi hanno palesemente infranto

la promessa di risparmiare i cattolici armeni.

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«Maestà […], ci spezza il cuore

l’eco dei dolorosi lamenti di un

intero popolo, che nel territorio

governato dagli Ottomani è

sottoposto a indescrivibili dolori.

La nazione armena ha già visto

molti dei suoi figli giustiziati,

mentre molti altri sono stati

arrestati o mandati in esilio.

Tra di loro ci sono anche numerosi

religiosi e perfino alcuni

vescovi. E ci è stato recentemente

riferito che gli abitanti di interi

villaggi e città sono stati costretti

ad abbandonare le proprie case,

per essere quindi dislocati in

remoti campi di raccolta tra grandi

dolori e pene indicibili, dove tra

angherie psichiche e terribili

privazioni, devono sopportare ogni

tipo di mancanza e perfino i morsi

della fame…

Supplica al

sultano Mehmet V

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… Noi crediamo, Maestà, che eccessi

di questo genere si siano verificati

contro la volontà del governo di Vostra

Maestà. Per questa ragione ci

rivolgiamo, colmi di fiducia nella

Vostra Maestà, invitandovi

fervidamente, nella Vostra sublime

Magnanimità, a dimostrare

compassione e a intervenire a favore di

un popolo che proprio grazie alla

religione nella quale si riconosce, viene

invitato a servire fedelmente e

devotamente la persona della Vostra

Maestà. […]

Possa quindi la Vostra Maestà in virtù

del suo grande senso di giustizia non

lasciare che degli innocenti ricevano la

stessa pena di chi è colpevole e possa

la Vostra sovrana clemenza

raggiungere anche coloro che hanno

commesso delle mancanze».