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Giuseppe Bettoni

GEOGRAFIA EGEOPOLITICA INTERNA

Dall’organizzazione territorialealla sindrome di Nimby

Prefazione di Beatrice Giblin

FrancoAngeli

1387.45 10-09-2012 10:55 Pagina 2 (1,1)

In copertina: ??????

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Indice

Prefazione, di Béatrice Giblin pag. 7

Ringraziamenti » 11 Introduzione » 13

1. Geografia, una spiegazione » 17

1. Geografia fisica » 26 2. La Geografia Politica (che non è Geopolitica) » 34

2. Geopolitica » 39

1. Una definizione di geopolitica » 42 2. Qualche esempio di casi ed evoluzioni geopolitiche 3. A una scala più piccola: lo scacchiere regionale e la Turchia 4. Come nasce la geopolitica 5. Caratteristiche di una situazione geopolitica 6. L’uso della cartografia come rappresentazione 7. Scale e rappresentazioni: in geografia e geopolitica 8. Dai livelli di analisi al diatopo

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3. Dalla geopolitica esterna alla geopolitica interna

1. Geopolitica interna e servizi d’interesse generale 2. Geopolitica e Governance 3. Geopolitica e coesione territoriale

4. Cambiamenti storici e ridefinizione degli equilibri costitu-zionali in Italia

1. Difetti e pregi: verso una visione geopolitica?

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2. La ripartizione interna dell’Italia pag. 136 3. L’invenzione delle Regioni Italiane » 137 4. Le Province dopo la riforma del 2001 » 143 5. Organizzazione territoriale e Provincia » 145

Conclusioni » 155

Riferimenti bibliografici

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Prefazione

di Béatrice Giblin1

Con questo suo nuovo libro Giuseppe Bettoni conferma il suo ruolo di “traghettatore attivo” della concezione della Geopolitica propria del geo-grafo francese Yves Lacoste e portata avanti da oltre trent’anni oramai dalla rivista Hérodote, rivista di geografia e geopolitica, nonché dei lavori dell’Institut Français de Géopolitique. La particolarità di quella che sempre più spesso è chiamata in Francia “Scuola francese di geopolitica” o “scuola lacostiana di geopolitica” è quella di appoggiarsi sul ragionamento geogra-fico nell’accezione più ampia della parola geografia. In effetti, è essenziale capire che il rapporto tra geopolitica e geografia non si limita alle caratteri-stiche dell’ambiente fisico – seppur sia necessario prenderle in considera-zione -, perché si giungerebbe a una concezione troppo deterministica della geopolitica, cosa che purtroppo accade ancora troppo spesso. Una tale con-cezione della geopolitica ci porterebbe a sottovalutare il ruolo degli attori perché significherebbe che la politica portata avanti sarebbe prima di tutto determinata dalle caratteristiche fisiche del territorio. Il metodo della geo-politica è efficace proprio perché rende conto, in modo pertinente, delle ri-valità di potere tra gli attori, siano essi decisori politici, economici o reli-giosi, sia di stati rivali, sia interni allo stesso stato, per il controllo di un ter-ritorio e della sua popolazione. È probabilmente questo l’apporto più im-portante della Scuola di Geopolitica francese, l’applicazione del metodo geopolitico/geografico a delle rivalità di potere interne a uno stesso stato. È quello che io chiamo geopolitica interna e per poterla così distinguere dalla “grande geopolitica”, quella che si occupa delle rivalità tra Stati diversi. Ma, fin dalla fine della Guerra fredda e dall’inizio della fase chiamata mondializzazione, appare evidente che dei conflitti di Geopolitica esterna,

 1 Professore di Geografia, Università di Paris 8, direttrice della rivista Hérodote.

 

  

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come il conflitto israelo-palestinese, hanno sempre più degli impatti sulle situazioni di geopolitica interna – tensioni in determinati quartieri di perife-ria tra popolazione ebraica e popolazione musulmana per esempio. In Fran-cia, per esempio, le rappresentazioni dei territorî palestinesi sono, in effetti, sempre più opposte tra questi due gruppi di popolazione francese, nono-stante abbiano parti importanti di storia in comune, come nel caso degli ebrei sefarditi, ancor prima della colonizzazione francese, opposizione che ritroviamo nelle tensioni che si hanno in questa coabitazione molto delicata.

Con discernimento, Giuseppe Bettoni toglie ogni ambiguità possibile nella distinzione, fatta da alcuni autori, tra geografia politica e geopolitica. Questa distinzione, che preoccupa soprattutto i partigiani della Geografia Politica, è dovuta principalmente alla volontà di differenziarsi il più possi-bile dall’immagine negativa della geopolitica ereditata dalle derive tede-sche durante il regime nazista. La Geografia Politica avrebbe una connota-zione più scientifica e quindi più oggettiva della geopolitica, cosa che è al-tamente contestabile. Nel metodo della geopolitica che qui viene presenta-to, il rigore scientifico risiede nell’esposizione degli argomenti presentati dai diversi protagonisti, compresi quelli più criticabili storicamente o geo-graficamente, purché riescano a trovare un’eco capace di mobilitare tra la loro stessa popolazione. Tra le democrazie Europee, che cercano di dimen-ticare definitivamente la tragica esperienza delle due ultime guerre mondia-li, fortunatamente i conflitti che fanno riferimento a questioni territoriali non sono così gravi quanto lo sono invece quelli interni a ciascuna di esse (guerre civili, movimenti separatisti più o meno violenti). Ciononostante questi Paesi democratici non sono del tutto senza conflitti e questi, sep-pur molto diversi tra loro, rientrano nell’analisi geopolitica. Giuseppe Bettoni ha giustamente scelto di concentrare questo suo lavoro sui con-flitti legati alle questioni di amènagement du territoire e che rientrano tra le questioni di geopolitica interna, più precisamente nella geopolitica lo-cale nella misura in cui la maggior parte degli attori sono o attori locali o regionali.

Le riforme che hanno segnato la struttura istituzionale territoriale di di-versi Stati Europei hanno particolarmente modificato la geopolitica interna e locale dell’Italia. Per questo il nuovo concetto proposto da Giuseppe Bet-toni di “organizzazione territoriale” mi sembra molto giudizioso perché prende ben più in considerazione il ruolo degli attori nelle dinamiche terri-toriali e soprattutto nelle loro complessità. Questo al punto da renderne ogni azione ben più difficile, perché diventa ogni giorno più complesso in-dividuare il ruolo, molto opaco, degli uni e degli altri (rappresentanti politi-

  

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ci locali, imprenditori, associazioni di cittadini, dipendenti della Pubblica Amministrazione, ecc.).

Questo è un testo molto utile che contribuisce a chiarire la complessità geopolitica alla quale i cittadini sono confrontati e che può aiutarli a con-servare una parte della loro libertà di giudizio.

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

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Ringraziamenti

 

 

 

 

Non possiamo iniziare questo testo senza ringraziare diverse persone. Prima di tutto Yves Lacoste e Béatrice Giblin, miei maestri di sempre e ol-tretutto Giblin fu la prima a parlare di geopolitica interna, quindi un grazie particolare va a lei. A Agnew e Faludi che con approcci diversi, in alcune chiacchierate, hanno saputo aprirmi finestre di riflessioni che non avevo neanche visto. A Isabella Tamponi collaboratrice preziosa che ha saputo essere paziente e mettere ordine dove io lasciavo solo disordine. Un grazie di cuore va all’associazione EUROPA, la più importante rete europea di esperti di Pubblica Amministrazione e di cui ho l’onore d’essere vice-presidente da troppi anni: ho imparato moltissimo in tutte le nostre riunioni e discussioni di questi ultimi quindici anni. Devo ringraziare anche il col-lega Francesco Gastaldi dello IUAV, autentico “militante” della sua mate-ria e per questo prezioso interlocutore. Un grazie particolare deve andare a Gennaro Terracciano, della Seconda Università di Napoli, che mi onora da anni della sua amicizia e i cui commenti e riflessioni in materia di Pubblica Amministrazione sono momenti importantissimi e privilegiati: anche lui mi ha insegnato moltissimo negli ultimi dieci anni, molti dei pensieri, critiche e riflessioni di questo testo le devo a lui.

Tra i più pazienti, il più paziente di tutti: mio figlio Manfredi che ha sopportato un padre più spesso alla tastiera del computer che non a giocare con lui in spiaggia, come dovrebbe fare ogni buon padre di famiglia. Ripeto sempre: tutto questo è solo per lui.

Biarritz, 25 agosto 2012

          Giuseppe Bettoni

 

  

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Introduzione

 

 

 

 

 

La geopolitica interna è certamente sconosciuta in Italia. In genere si parla, non senza confusione, di geopolitica esterna a proposito di questioni internazionali per le contese territoriali. Altre volte ancora si vuole far in-tendere che è geopolitica tutto quello che riguarda le relazioni internaziona-li (sbagliando). L’idea di questo testo risale a molti anni fa, quando comin-ciammo a interessarci a tematiche di geopolitica interna legate all’analisi elettorale. Negli ultimi anni, poi, grazie all’esplosione dei casi manifesti di sindrome di Nimby, ci è sembrato ancora più utile cercare di spiegare quan-ti siano i casi di geopolitica interna, soprattutto per quanto riguarda il caso italiano. Il nostro Paese non riesce a trovare pace, se così possiamo scrive-re, preso dal passaggio tra centralismo, regionalismo, federalismo, da una parte, e la necessità di migliorare l’efficacia dell’azione pubblica sul pro-prio territorio dall’altra. L’Italia avanza solo tramite i contenziosi: certa-mente la classe dei magistrati (quelli amministrativi quanto quelli ordinari, senza dimenticare gli altri) sono letteralmente l’olio per un ingranaggio che proprio non riesce a funzionare come si deve: a credere che il Paese dei na-tali di Leonardo non produca più ingegneri (istituzionali) di qualità. Ma, in realtà, il problema è posto anche perché l’Italia è un vero caso esemplare di geopolitica interna. Oltre ai diversi casi di minoranze linguistiche, a cui og-gi si aggiunge un fenomeno di immigrazione sensibilmente più importante che partecipa alla costruzione di nuove comunità, abbiamo poi i diversi casi di “culture locali”. In effetti, per noi Italiani, un fenomeno autentico di “omogeneizzazione” italiana non è mai avvenuto: non ci sono riusciti i Sa-voia e neanche il fascismo. Il potere politico italiano del secondo dopoguer-ra non è mai stato un vero potere centrale, ma semplicemente una specie di delegazione dal locale a gestire a livello nazionale. Nessun partito italiano è mai stato veramente centrale (non il PCI ma neanche la DC), si è sempre trattato di forme localistiche di potere che erano rappresentate a livello na-

  

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zionale1. I Francesi non solo avevano delle culture locali con tanto di lingue locali, ma questo fenomeno non fu del tutto cancellato alla Rivoluzione Francese, bensì resistette anche all’Impero e alle prime diverse Repubbli-che. Il vero fenomeno di “omogeneizzazione” che ha imposto il ruolo dello Stato lo si è avuto alla fine della seconda guerra mondiale, quando l’attore pubblico nazionale, guidato anche dal personaggio carismatico di de Gaul-le, riuscì a dare vita alla Francia moderna, quella che vediamo oggi. La Francia venne ricostruita, e più che mai per i Francesi fu la prima vera esperienza d’incontro con lo Stato demiurgo, a tutti i livelli e in tutti i luo-ghi della Repubblica. L’Italia non ebbe questa esperienza, prima di tutto perché, a differenza dei Francesi, l’Italia fu ricostruita grazie all’intervento americano (intervento mai terminato del tutto se pensiamo al peso schiac-ciante che la difesa americana ha sulla difesa dell’Italia). Ma soprattutto perché la gestione degli interventi venne affidata letteralmente al sistema localistico e clientelare dei partiti politici. Gli Italiani non hanno quindi mai avuto la sensazione che lo Stato realizzasse, costruisse se non in rari casi e per brevi periodi, si aveva invece la sensazione che i partiti/potentati locali ottenessero, facessero fare delle cose nei diversi territorî. Questa grande frammentazione si è sedimentata e non essendosi risolta prima della secon-da crisi petrolifera, praticamente non poteva più risolversi (a causa della fi-ne di una disponibilità economica che non ha avuto paragoni possibili). Il nostro Paese è quindi cresciuto per buona parte della sua storia con una mancata costruzione non tanto identitaria quanto di sentimento nazionale. Se nella stragrande maggioranza dei casi nessuno mette in discussione l’Unità del Paese, resta comunque molto difficile gestire un Paese che man-ca di quella solidarietà geografica che permette di investire, o fare scelte di sacrifici, in un territorio piuttosto che un altro. Vedremo nel testo, in effetti, perché la differenza tra delle opposizioni molto forti a livello locale contro progetti come la TAV non sono solo attribuibili al metodo, ma soprattutto al rapporto che esiste tra cittadino e decisore politico. Il metodo ha certa-mente il suo ruolo ma l’immagine politica oramai è troppo negativa. Allo stesso modo il cittadino di brindisi non ha voglia di accogliere un rigassifi-catore che servirebbe a buona parte degli Italiani, lui pensa che solo lui ri-ceverebbe il “disturbo” di quella infrastruttura e allora non vuole sostenere il costo in nome di una eventuale solidarietà nazionale. La sindrome di Nimby riempie le pagine di letteratura scientifica quanto dei media di gran-de diffusione, ma non è un qualcosa che si produce allo stesso modo, non è

 1 J. Agnew, The dramaturgy of horizons: geographical scale in the ‘Reconstruction of

Italy’ by the new Italian political parties, 1992–1995, in “Political Geography” Volume 16, Issue 2, February 1997, Pages 99-121. 

  

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una “malattia” mondiale che attecchisce su tutti, da noi attecchisce molto più facilmente e non basterà certamente la messa in atto dei metodi dei Francesi per veder realizzare una TAV senza conflitti: significherebbe esse-re non solo incompetenti ma soprattutto ingenui. Occorre analizzare l’Italia, geopoliticamente, per capire quali distanze esistano tra i suoi diversi territo-ri, per capire quali siano i suoi territorî soprattutto.

A questo punto dobbiamo dire che l’attualità a dettato l’indice di questo volume. All’indomani del 150° anniversario dell’Unità italiana ci sembra importante tornare sulla sua ripartizione, soprattutto in questa fase di ridefi-nizione delle Province. Soprattutto l’infiammarsi delle varie questioni im-putabili alla già citata sindrome di Nimby ci ha spinto a discutere di più su tematiche di organizzazione territoriale, che rappresentano solo una parte della geopolitica interna. Per esempio, abbiamo trascurato aspetti importan-tissimi come quelli delle minoranze linguistiche o ancora di geografia elet-torale che, per diversi anni, hanno rappresentato un importante campo di ricerca. Ci è sembrato giusto, per questi motivi, prima di tutto cercare di spiegarci su “geografia”, “geografia politica”, “organizzazione territoriale” e quindi soffermarci a lungo sulla gestione del territorio italiano in materia di organizzazione territoriale. Crediamo, infatti, che sia quello uno dei punti più delicati che maggiormente rallenta la crescita del Paese. È inquietante notare quanto i migliori specialisti mai si soffermino sull’assenza di solida-rietà nazionale come ostacolo alla messa in atto di decisioni e investimenti importanti per lo sviluppo e l’affermazione del Paese. Tutti sembrano guar-dare, come sempre, solo agli strumenti, nessuno fa rilevare, invece, che da oltre quarant’anni l’Italia manca completamente di visione nazionale e so-prattutto di quell’ “investimento” necessario alla coesione nazionale. Un investimento che ovviamente non può essere quinquennale ma trentennale, cominciando dall’educazione nazionale e arrivando a una partecipazione cittadina alle decisioni e alla gestione di progetti piccoli o grandi.

Un altro punto che non possiamo trascurare e la scelta di parlare non so-lo di grandi infrastrutture, ma anche della gestione ordinaria del territorio. Diversi specialisti di geopolitica interna tendono a pensare, come degni d’interesse, solo quei progetti di un certo impatto e di una certa dimensione: TAV, discariche di un certo livello, rigassificatori, autostrade, aeroporti, ecc. Noi non siamo di questo parere. Per esperienza diretta, grazie a decen-ni oramai di partecipazioni a progetti di sviluppo locali ai diversi livelli isti-tuzionali del Paese, possiamo dire con certezza che i casi di geopolitica in-terna in materia di organizzazione territoriale riguardano proprio tutte le azioni pubbliche sul territorio. Un documento come un Piano Regionale di

  

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Sviluppo o i Piani Territoriali di coordinamento Provinciale, allo stesso modo dei piani regolatori o altro dei Comuni, sono documenti farciti di geopolitica. Si tratta di documenti che contengono strategie territoriali, vi-sioni del divenire del territorio, che creano spesso, più che ridurre, diversità e sperequazioni territoriali. Documenti che non risparmiano la creazione di numerose rappresentazioni, tutte destinate a legittimare la strategia del de-cisore autore di quel documento. L’organizzazione del territorio è una di-sciplina direttamente legata alla geopolitica interna. In un periodo di ridefi-nizione delle frontiere interne del Paese, dove più che mai si mettono in di-scussione degli attori politici sia nazionali che locali, in una fase di grande conflittualità per infrastrutture importanti per il Paese e di grande confusio-ne negli equilibri di potere tra Enti Locali, Stato centrale e Unione Europea, ci è sembrato importante concentrarci su questo aspetto della geopolitica interna. Speriamo di poter presto lavorare su un altro aspetto della geopoli-tica interna italiana, quello delle comunità linguiste, culturali, sulle contese elettorali e quindi le rappresentazioni dei partiti politici in tutto il territorio nazionale.

  

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1. Geografia, una spiegazione

Parlare di Geografia significa prima di tutto chiarirne la definizione. In effetti troppe volte si continua a pensare alla geografia come a una semplice descrizione del paesaggio, dello spazio, della terra, ecc. Come per quasi tut-te le discipline umane essa viene caratterizzata dal termine “scienza” un po’ come per l’economia o il diritto (le scienze giuridiche). Tutto questo non solo non fa chiarezza, ma crea confusione. Secondo alcuni poi esistono di-verse geografie come per quella fisica e per quella umana, ma anche questo è abbastanza inesatto.

Partiamo quindi dalla definizione stessa di Geografia:

Scienza che ha per oggetto la descrizione interpretativa della superficie terrestre o di sue parti, intendendo per “superficie terrestre” lo spazio tridi-mensionale dove la massa solida della Terra (litosfera) e quella liquida (idrosfera) vengono a contatto con l’involucro gassoso (atmosfera); spazio in cui si sviluppa la vita vegetale e animale e in cui si fissano le sedi e si svolgono le attività umane. Pur attingendo largamente a dati delle scienze naturali e di quelle umane, la geografia si colloca in una posizione originale rispetto alle une e alle altre: non studia i fenomeni fisici né le società uma-ne, ma prende in considerazione gli uni e le altre in quanto agenti responsa-bili della fisionomia e dell’organizzazione dei territori. Pertanto, un ghiac-ciaio, una foresta, una città, saranno studiati dal geofisico, dal botanico, dall’urbanista, ma nessuno di costoro perverrà alla lettura globale del terri-torio di cui quegli oggetti sono parti integranti; donde la necessità di una di-sciplina diversa, non naturale né umana, bensì ‘territoriale’, quale appunto va considerata la geografia.1

 1 http://www.treccani.it/enciclopedia/geografia/ 31/05/2012

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Come possiamo constatare si tratta di una definizione che, pur partendo dall’accezione considerata come “originale” della parola stessa (descrivere la terra), entra poi nella spiegazione di cosa significhi questa “descrizione”. Perché la questione e il malinteso sono proprio in questo punto. I neofiti, coloro i quali non si sono mai dedicati allo studio della geografia o non hanno mai potuto avere come guida qualcuno veramente sensibile e compe-tente in materia, non colgono la differenza tra una semplice descrizione di un paesaggio e quella che invece è la vera “descrizione” dell’interazione tra ambiente naturale e esseri viventi che lo coabitano.

In effetti anche quando poniamo la classica domanda che potrebbe es-serci stata fatta in un’interrogazione scolastica: “dimmi la geografia del-l’Italia”. La risposta è scontata quanto sbagliata: “L’Italia è delimitata a Nord dalle Alpi e a Est, Sud e Ovest dal mare...”. In questo caso stiamo confondendo il significato (la geografia dell’Italia) con il significante (l’Italia, quella parte di territorio di cui vogliamo sapere la geografia). Se dovessimo fare un’esemplificazione facendo riferimento alla linguistica di-remmo che l’Italia sarebbe il segno e la geografia dell’Italia il contenuto di quel segno. Il Significante è, infatti, “l’elemento formale, la ‘faccia ester-na’ del segno”2. Se leggiamo del tutto la definizione sopra citata ci accor-giamo quanto buona parte sia dedicata a questa ambivalenza tra “natura” e “umano”. La Geografia è un sapere di totale trasversalità che utilizza mol-tissime altre discipline affinché possano condurre a meglio comprendere quell’interazione appena detta tra ambiente e struttura sociale. Quindi, pen-sare di occuparsi di Geografia (di un qualsiasi territorio) significa certa-mente avvalersi anche di altre discipline per meglio comprendere, come so-ciologia, antropologia, economia e certamente storia (quest’ultima ha una posizione a parte rispetto alla geografia e ci torneremo sopra tra pochissi-mo).

Per quanto scritto sopra occorre però stigmatizzare coloro che credono d’occuparsi di geografia (umana, politica, economica, ecc…) e pretendono di potersi liberare completamente della comprensione fisica del fenomeno. Spesso, infatti, incontriamo persone che pur affermando di occuparsi di geografia, negano ogni tipo d’interesse (e spesso anche di competenza) con la parte strettamente fisica della loro disciplina. Questo perché pretendono di poter parlare di geografia del Medio Oriente, ad esempio, parlando di re-lazioni politiche ed economiche tra mondo Arabo e mondo detto Occiden-tale, trascurando elementi come le zone di fertilità o le zone di subduzione che delimitano i giacimenti di idrocarburi. In realtà tutti questi aspetti sono

2 http://www.treccani.it/enciclopedia/significante/ 07/06/2012

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tra loro è legati e un geografo non può prescindere da una (completa?) co-noscenza e dominio di queste materie.

Quello che è più sorprendente, dopo aver cominciato col precisare que-ste semplici definizioni, è che tanto più oggi abbiamo tutti a che fare con la geografia, tanto più si considera un sapere inutile, da eliminare dall’inse-gnamento scolastico. In qualche modo la geografia è già scomparsa dalle scuole. Nella misura in cui questo sapere è insegnato da una schiacciante maggioranza d’insegnanti che hanno lauree in tutto tranne che in geografia (come potrebbero in un Paese, l’Italia, che per quasi mezzo secolo non ne ha avute?) allora gli studenti ricevono un insegnamento che sicuramente non sarà “preciso”. Il problema è che noi consideriamo “geografia” qualsia-si cosa abbia a che fare con il territorio, in qualunque approccio. Quante persone abbiamo conosciuto che si consideravano specialiste di geografia economica solo perché si occupavano di distretti industriali, ad esempio, e in cui si limitavano solo a “territorializzare” la loro competenza in materia d’impresa distrettuale? Oltretutto nell’epoca di Google Earth e di Google Maps tutti credono di poter superare la conoscenza della geografia. Oramai tutte le informazioni sono su internet, ti basta lanciare un programma per vedere dove ti trovi e dove devi andare. Tanto per cominciare disegnare un itinerario non vuol dire essere capaci di fare una riflessione geografica. Ma soprattutto occorre essere abbastanza competenti (seppur non troppo) per realizzare fino a che punto esista una ineguaglianza molto pericolosa nei due strumenti che si sono appena citati. Anche il mondo della ricerca ora-mai è impregnato di queste parole: gli spazi della psicologia, il territorio dell’economia o l’economia dei territori, antropologia e geografia e così ancora. Ma, al tempo stesso, la geografia “da sola”, senza aggiunte di preci-sione, sembra quasi essere insignificante o, per meglio dire, solo e sempre il “significante”.

Frémont3 sosteneva che la geografia contemporanea potrebbe ricono-scersi in almeno quattro tratti fondamentali:

1. Un’affermazione (il geografo esiste perché c’è una geografia, una fi-gura della storia delle scienze e dell’avventura).

2. Uno strumento (cosa sarebbe la geografia se non esistessero le carte geografiche? Non si può fare geografia senza carte geografiche e so-prattutto il geografo produce carte geografiche).

3. Un concetto (le combinazioni degli uomini e delle diverse popola-zioni sulla terra costituiscono la trama dell’organizzazione del terri-

3 Frémont A., Aimez vous la géographie, Flammarion, Paris, 2005 pag.15.

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torio. Le riflessioni del geografo sono le riflessioni intorno a queste combinazioni di geografia).

4. Una domanda (La geografia è una scienza? Oppure un’arte?Ecco un altro aspetto che tratteremo più avanti).

Quello che è indicato al punto “4” in realtà è solo la punta dell’insieme perché la geografia è arte e scienza senza esserlo e soprattutto è ancora molto più di questo. È un sapere che si basa su dati empirici ma che non può produrre scientificità per il semplice motivo che s’interessa alla cosa meno scientifica che esista: l’uomo, la sua struttura sociale, le sue idee e le sue scelte come animale sociale.

Tutto questo seppur non ci aiuti a capire esattamente cosa sia la geogra-fia, ci aiuta quanto meno a meglio comprendere cosa contiene ma anche co-sa non è (e tanto per ricordarlo ancora, certamente non è una scienza nell’accezione precisa di questa parola). Crediamo che quanto afferma Dardel già nel 1952 sia importante soprattutto quando parla del concetto di “geograficità”4 e fa riferimento a un legame quasi ontologico esistente tra uomo e territorio affermando che l’uomo è collegato al proprio Spazio più di quanto noi stessi immaginiamo e influenza fin dall’inizio quello che “quell’uomo” sarà nella sua vita. Chi di noi, infatti, non ha “girato” il mon-do con un atlante tra le mani e chi non ha cercato di “sognare” un dato terri-torio guardando una carta geografica? Quello che conta qui è sapere, alme-no in questa parte iniziale, che è geografia quella riflessione dell’uomo in seno al proprio spazio terrestre. Essendo questo il nostro punto di partenza di certo non condividiamo la visione di Vidal de la Blache quando afferma che la geografia è la scienza dei luoghi e non degli uomini. Seppur non va-da dimenticato, come dettagliano molto bene Girard e Daum, che si trattava più di una sorta di stigmatizzazione nei confronti della storia e della corpo-razione degli storici che non di una vera e propria definizione della disci-plina stessa5. Già nella fine dell’ottocento la geografia in Francia era inse-gnata proprio come se si trattasse di uno strumento per formare al meglio i nuovi cittadini, proprio in difesa di quell’amor patrio che i Francesi aveva-no sentito offeso all’indomani dell’annessione dell’Alsazia-Lorena da parte della Germania. Fu vista come lo strumento in grado di far capire sia le ne-cessità del mondo moderno (quello nuovamente industriale del XIX seco-

4 Dardel E., l’homme et la terre, Colin, Paris, 1952. "(...) Connaître l’inconnu, atteindre

l’inaccessible, l’inquiétude géographique précède et porte la science objective. Amour du sol natal ou recherche du dépaysement, une relation concrète se noue entre l’homme et la Terre, une géographicité de l’homme comme mode de son existence et de son destin." (p. 2)

5 Girard E., Daum T., La Géographie n’est plus ce que vous croyez…, Editions Codex, Paris, 2010.

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lo), le sue caratteristiche, le sue risorse, ma anche utile per comprendere gli ostacoli a questa stessa nuova industrializzazione. Da qui in poi si poteva quindi comprendere la propria identità come nazione moderna e quindi po-terla affermare forte e chiaro. La Geografia e, come dirà in seguito Lacoste, la Geopolitica sono state il primo vero passo in questa direzione all’alba dell’epoca contemporanea. È con quest’obiettivo che la geografia viene an-noverata, in Francia, tra le discipline scolastiche e soprattutto universitarie attraverso la creazione di corsi di Laurea e Dottorati di Ricerca in Geogra-fia.

A questo punto una piccola digressione sulla geografia come scienza

s’impone. Infatti, nel tempo in cui Vidal de la Blache cerca di differenziare la geografia dalla storia il pensiero più evidente era quello di accomunare la geografia a una scienza vera e propria, come nella definizione data da Poin-caré nel 19056, e cioè quello di realizzare un sistema di relazioni tra i fatti che noi osserviamo in natura. Vidal de la Blache, seppur allontanandosi dal determinismo tedesco, resta comunque legato a una geografia fatta, secon-do lui, di informazioni raccolte in modo empirico e quindi di deduzioni che vengono formulate in modo, appunto, scientifico. Ma, è per questo scienza? La risposta a questa domanda è tutt’altro che anodina perché darà forma al-lo studio della geografia per il secolo a venire, oltre a essere una domanda che ha ancora senso oggi (perché senza risposta de facto) per molte altre discipline, a cominciare proprio dalla tanto discussa (famosa o famigerata) economia.

Sempre la nostra Enciclopedia Italiana definisce la scienza come: “in-sieme delle discipline fondate essenzialmente sull’osservazione, l’espe-rienza, il calcolo, o che hanno per oggetto la natura e gli esseri viventi, e che si avvalgono di linguaggi formalizzati”7.

Il problema fondamentale consiste nel fatto che, all’epoca, si poteva concordare sul fatto che la geografia potesse essere una scienza, ma questa scelta fu portatrice di derive estremamente pericolose su tutte le cosiddette “scienze umane”. Sappiamo bene che il termine scienza prima di tutto sem-brerebbe toccare quelle che gli anglosassoni definiscono “scienze pesanti”: chimica, fisica, astronomia, ecc. Mentre verrebbero inserite solo dopo le scienze dette “leggere” come politologia, antropologia e, tra le altre, anche l’economia. Elemento considerato essenziale per essere annoverati tra que-ste (e su questo aspetto v’è una certa unanimità) è la possibilità di ottenere delle modellizzazioni, particolarmente se strutturate con il linguaggio ma-

6 Poincaré H., La Valeur de la Science, Flammarion, 1905. 7 http://www.treccani.it/enciclopedia/scienza/#classificazionedellescienze-1 12/06/2012

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tematico. La geografia nella prima metà del XX secolo si è molto avvalsa di questo linguaggio così come l’economia sta facendo nella sua storia re-cente. Questo non fa di queste discipline delle scienze, ma dimostra solo la flessibilità delle stesse a poter integrare un linguaggio come quello mate-matico. Linguaggio al quale si potrebbe far dire qualunque cosa, trattandosi di una lingua come le altre con il solo vantaggio della perfetta sintesi. Re-sta però il vero problema che ci spinge a scrivere che nefasta fu la scelta di utilizzare quella parola: per noi geografi quanto per gli altri. Oggi sembra che se non definisci la tua disciplina una scienza (scienza giuridica, scienza geografica, scienza economica e così via) uno studioso non abbia la stessa legittimità a ricercare e affermare di uno studioso di chimica o di fisica. Il problema fondamentale è che noi invece studiamo l’uomo. E l’uomo di scientifico non ha neanche il proprio corpo, figuriamoci le scelte che lo spingono a spostarsi o ad associarsi con altri. Al contrario la ricerca osses-siva di una modellizzazione matematica ha fatto si che a un certo punto il risultato fosse più importante della comprensione del fenomeno che si è studiato. Si eliminavano, quindi, tutte quelle variabili che impedivano una modellizzazione generalizzabile e soprattutto riproducibile, arrivando a ot-tenere qualcosa che era abbastanza lontano da quello che si era empirica-mente osservato. Insomma moltissimi studiosi di queste discipline (scienze leggere...) hanno scelto di concentrarsi su delle derive della loro stessa di-sciplina che, per motivi tecnici di procedure e modelli, si allontanavano da quella che era la ragion d’essere del loro studio: la comprensione dell’uomo e del suo agire in quanto animale sociale.

La geografia dell’epoca di Vidal de la Blache si vuole rappresentare come, a differenza della sociologia della stessa epoca, una disciplina libera da ogni obiettivo politico. Cosa che si rivelò essere vana producendo diver-se ipocrisie. E un caso è quello di De Martonne che negava la stessa utilità di una geografia politica (non era a caso il genero di Vidal de la Blache), andando poi lui stesso a compiere operazioni della più alta Geografia Poli-tica come il disegnare il corridoio di Danzica su una carta geografica all’indomani del primo conflitto mondiale. Insomma a parere di chi scrive l’aggiunta della parola “scienza” non ha apportato nulla alle nostre discipli-ne se non confusione e errore (segno di un complesso d’inferiorità?). Pen-siamo che sia meglio liberarsi di quella parola, adottando, come più volte Lacoste ripeteva in aula, un rigore dell’osservazione e dei fenomeni quello si scientifico, senza per questo voler produrre un modello scientifico che rischierebbe solo di impedire la libertà di movimento e collegamento che deve essere quella di uno studioso onesto e attento. Alla geografia francese, per esempio, ma fu lo stesso per la scuola italiana, il concentrarsi sulla geo-grafia regionale in modo metodologico e quasi del tutto empirico, impedì

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una produzione utile sull’evoluzione della struttura sociale, pertanto così importante nello studio di un territorio.

Sarà invece l’arrivo della seconda guerra mondiale e il terremoto sociale provocato dai trent’anni di crescita economica a modificare certamente la geografia ma anche la vita delle altre discipline sociali. Lacoste con il suo famoso libro del 19768 tirerà forse il colpo più duro del secondo dopoguer-ra alla discussione sull’epistemologia della geografia, mettendo finalmente in avanti il fatto che la geografia è prima di tutto uno studio del territorio e dell’uomo che vi opera e questo con una costante proiezione di potere. E proprio Lacoste si opporrà lungo tutta la sua carriera, in tutta libertà, a quel-le forme di modellizzazione scientifica a cui si è assistito, per fortuna va-namente, fino a tutto l’ultimo decennio del XX secolo. I tentativi di liberare tutto lo spazio geografico di altri fattori che non siano l’economia per esempio, per non parlare di cartografie schematiche e di sintesi che servi-vano unicamente proporre certe modellizzazioni matematiche abolendo del tutto lo studio del territorio per quelle che erano le sue specifiche caratteri-stiche.

Insomma cos’è questa geografia? Come l’abbiamo sempre vista? Tutto sommato se in Italia è tanto trascurata nonostante il sempre più abbondante uso di carte (malfatte) un motivo valido ci sarà. Il motivo c’è ma di certo non è quello per il quale nell’era di internet e delle foto satellitari non è più necessaria. Allo stesso modo non è certo più necessaria perché oramai sono finite le terre da esplorare (anche perché non è del tutto noto il nostro pia-neta. In ogni caso oggi il pensiero diffuso tra uno studente medio sia liceale che universitario è che geografia significa imparare una serie di nozioni a memoria (il che non è del tutto falso, anche nelle altre discipline una serie di nozioni sono da memorizzare). Il peggio è che si crede che una volta im-parata questa “lista di nozioni” oramai sai e non ti serve più. Sai qual è la capitale della Cina? Bene, oramai lo sai e quindi è fatta. Conosci il fiume più lungo del mondo? Il Nilo e quindi anche questa è fatta. Insomma sem-bra quasi che, imparate una serie di localizzazioni o d’informazioni, l’utilità della geografia sia esaurita. Un sapere statico che studiata una volta non ha più bisogno di essere rivista e che con un buon Atlante a casa (in Italia pra-ticamente non ne esistono) hai addirittura eliminato anche il problema dell’apprendimento: tanto hai l’Atlante.

Ebbene questo è esattamente quello che la geografia non è! La geografia è la disciplina che pretende di spiegare quello che potrebbe accadere su un territorio osservandolo e studiandolo in tempo reale, praticamente mentre è in “movimento”. Insomma diciamolo: è il sapere cangiante per definizione.

8 Lacoste Y., La Géographie ça sert d’abord à faire la guerre, Flammarion, Paris, 1976.

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È un cercare di spiegare quello che sta già cambiando e che quindi supera la stessa spiegazione. È cercare di studiare l’uomo nel suo insieme, attra-verso tutte le sue interazioni con gli altri e con il mondo che lo circonda, un mondo selvaggio o urbanizzato, comunque modificato dalla sua stessa ma-no e che, nonostante le sue modifiche, riuscirà a cambiare la direzione che l’uomo ha scelto. Eliseo Reclus usò per la sua opera più famosa un esergo che diventò ancora più famoso e che a parere di chi scrive rende perfetta-mente quello che è la geografia. Scrive il geografo comunardo:

La Géographie n’est autre chose que l’Histoire dans l’Espace, de même

que l’Histoire est la Géographie dans le Temps9.

Stando a quello che abbiamo scritto fin qui è naturale dato che se salis-simo su una montagna e osservassimo la pianura sotto di noi evolvere nel tempo, vedremmo cosa? Vedremmo degli insediamenti realizzarsi, delle opere che si costruiscono, delle popolazioni che arrivano e che vanno via, delle strade costruirsi, vedremmo delle coltivazioni e degli allevamenti, ve-dremmo degli eventi naturali modificare quello stesso territorio. Ecco os-servare la Storia non pensando all’aspetto temporale ma cercando di imma-ginare quello che accade territorialmente a causa del passare del tempo e dell’azione dell’uomo. Questa è storia ma è esattamente allo steso modo geografia. Perché se io cerco di immaginare la geografia di un dato territo-rio non solo per quello che c’è mentre la guardo ma anche cercando di im-maginare come si è arrivati a quella situazione, allora sarò costretto a im-maginare la storia. Insomma Storia e Geografia sono le due facce della stessa medaglia. Spesso si attribuisce al greco Erodoto la paternità della storia. Si dovrebbe sapere che lo stesso Erodoto è considerato il padre della geografia. Non solo perché partecipò alla definizione delle sette meraviglie del mondo, come si pensa, ma proprio per il suo lavoro più importante: Ἰστορίαι (che vuol dire “esplorazione”). E fu grazie al suo lavoro di grande attualità per il suo tempo che Alessandro intraprese la sua lunga conquista che lo porterà fino all’Asia. Insomma le due discipline, seppur diverse nella riflessione, nel metodo, si avvalgono di una base comune enorme (buona parte delle fonti lo sono) ma soprattutto si interessano alla stessa cosa: l’uomo nel suo agire come parte di una società e come abitante del suo am-biente. Lo stesso cartografo (se ne parlerà ben più ampiamente più avanti) ha una funzione ambivalente nel momento in cui lo identifichiamo come colui che descrive il mondo. Descrivere in geometria (le forme che si fanno

9 Reclus E., L’homme et la terre, Librairie Universelle, Paris, 1905-1908. (La geografia

non è altro che la storia nello spazio, così come la storia è la geografia nel tempo. La traduzione è la mia).

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su di una carta geografica sono delle forme, irregolari ma geometriche) tracciare una retta o la sagoma di un oggetto. Ma visto l’argomento di cui questa descrizione si occupa (l’uomo, appunto) non possiamo trascendere da quello che descrivere vuol dire in poesia: arrivare all’essenza delle cose, farle vivere con parole incantevoli e penetranti. E cosa sono le carte geogra-fiche se non lo strumento che ci permette di arrivare a questo tipo di risulta-to? Queste carte geografiche non sono sostituibili né da satelliti, né da foto-grammetrie, né da google earth e nemmeno da google maps. Le carte geo-grafiche sono ancora oggi l’unico strumento che ci permetta di vedere il mondo in modo non distorto da qualunque punto (un fotografia ha un solo punto azimutale mentre in una carta geografica sono tutti in azimut) e so-prattutto a farci vedere quello che mai una foto potrà farci vedere proprio grazie al sistema dei segni, permettendoci di distinguere una casa da un ammasso di fieno, allo stesso modo in cui ci permetterà di capire perfetta-mente il livello di pendenza dei rilievi.

Insomma proprio mentre crediamo che le carte non ci servono più, non solo noi ne usiamo sempre di più grazie alle comode innovazioni tecnologi-che, ma addirittura creiamo noi stesi le nostre carte geografiche, ad uso per la nostra quotidianità. Harvey citava un famoso cartografo olandese del XVII secolo in un suo splendido libro di qualche anno fa, Joan Bleau il quale diceva: “Le carte ci permettono di contemplare, nella comodità delle nostre case, e proprio di fronte ai nostri occhi, cose che sono molto lonta-ne”. Continua lo stesso Harvey: “avvicinare ciò che è lontano, rendere visi-bile l’invisibile, questa non è scienza e non è neppure arte: è alchimia!”10. Quello che scrive Harvey sulla cartografia ci permette di meglio inquadrare quello a cui serve principalmente la carta geografica: fare geografia.

Oggi certamente la Geografia è una disciplina sociale basata su quei le-gami orizzontali che vi sono tra territorî e società. Ci si concentra molto di più sui legami orizzontali che non su quelli, oramai superati, solo verticali tra società e il suo territorio immediato o, quantomeno, e su questo l’apporto lacostiano si rivela essere fondamentale, devono essere considera-ti attentamente entrambi. Oggi le caratteristiche di un territorio trovano spiegazioni anche in territori diversi, adiacenti ma anche molto lontani. In questo il lavoro dell’analisi attraverso i diversi livelli, l’analisi attraverso il diatopo, diventa essenziale. Sul diatopo avremo modo di tornare in seguito. Va invece ricordato, qui, il ruolo quasi di separazione che viene dato alla geografia detta fisica o naturale, da una parte, come invece geografia uma-na dall’altra. Addirittura in Italia, unico caso al mondo, gli universitari che

10 Harvey M., The Islands of Lost Maps. A True Story of Cartographic Crime, Broad-

way, 2001.

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operano nella geografia fisica quasi non interagiscono rispetto a quelli che sono i geografi umani. Se si guarda la ripartizione, certo informale, che operano alcuni siti internet, si vedrà che tra le scienze pesanti appare la “geografia naturale” mentre tra le scienze leggere addirittura non si troverà alcuna geografia, neanche umana o politica. Sia chiaro che si tratta di una cosa tutta italiana e che di certo non si riscontrerebbe in nessun altro Paese, ma resta sintomatica di una percezione o forse anche più di una semplice percezione. Più avanti faremo il legame tra la povertà della competenza e sensibilità geografica in Italia e la gestione catastrofica del proprio territo-rio, sia per catastrofi naturali sia per mano dell’uomo. Ma, resta il fatto che pochissimi riescono veramente a inquadrare cosa sia la geografia e di con-seguenza a capire che la geografia fisica è strettamente legata con l’azione dell’uomo come studio. Soprattutto che non è possibile occuparsi di geo-grafia umana o comunque di geografia politica senza avere una minima competenza in geografia fisica, dimenticando di analizzare una tipologia di insediamento oppure un conflitto per il possesso di un dato territorio, tra-scurando che lo stesso è situato su una cuesta. Come si possono fare questi collegamenti (così importanti come abbiamo detto all’inizio di questa parte) se non si è studiata mai la geografia fisica? Per questo motivo ci sembrava importante, dopo aver spiegato il concetto di geografia, in generale, entrare seppur brevemente nella spiegazione di cosa sia la geografia fisica e in che modo essa sia direttamente collegata alla geografia umana.

1. Geografia fisica Si tratta dello studio degli oggetti naturali che possiamo osservare sul

nostro pianeta e l’analisi dei processi che ne hanno provocato o che ancora stanno provocando la loro distribuzione. Come metodo parte dal ricono-scimento e dalla classificazione degli oggetti presenti in natura e solo a questo punto, appoggiandosi ad altre discipline come chimica o biologia cerca di capire l’evoluzione dei divedersi fenomeni. Si tratta quindi di una forma di conoscenza molto complessa che richiede una comprensione su scale diverse. Per questo motivo è importante, potremmo dire indispensabi-le, per comprendere le molteplici relazioni che esistono tra le società e il loro ambiente naturale. Ecco perché si tratta di uno studio che non si limita a una competenza di tipo scientifico come, appena scritto, la chimica o la biologia. Attraverso la comprensione di questi oggetti, la loro evoluzione e trasformazione, la loro ineguale distribuzione sulla terra, possiamo capire al meglio come quello che abbiamo scritto sopra sia essenziale per la geogra-fia: l’uomo e il suo funzionamento come animale sociale.

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Partiamo dal nostro pianeta: la Terra. Il nostro pianeta si è formato un po’ più di 4 miliardi di anni fa partendo da una nube di gas e polveri che, diversamente aggregatasi, dava vita ai pianeti che conosciamo (e che non conosciamo ancora...) e con una sorta di implosione centrale dava vita al Sole. È stata la gravità della terra che ha fatto una sorta di decantazione, come quando mettiamo insieme acqua e olio e poi lasciamo riposare: len-tamente l’olio sale e l’acqua scende. Nel caso della terra le parti più leggere hanno cominciato ad affiorare. Così l’acqua è arrivata alla superficie e allo stesso modo i gas che compongono l’atmosfera si sono alzati ancor di più. La grande diversità dell’ambiente fisico del nostro pianeta dipende, quindi, da tre elementi principali: la presenza d’acqua, la costante trasformazione della superficie terrestre e lo sviluppo di forme di vita estremamente diver-sificate.

Spesso ci interessa guardare agli altri pianeti noti come a una possibilità di vita, particolarmente (e giustamente) pensando alla presenza d’acqua, sperando possono essere dei potenziali pianeti per noi esseri umani. Ma in realtà la Terra è decisamente unica (almeno stando a quello che sappiamo ora). L’acqua sul nostro pianeta è presente, nelle parti che noi riusciamo a raggiungere, in tre forme, secondo le temperature: gasosa, liquida e solida. Questa caratteristica è unica per il nostro pianeta. Infatti, Marte per esempio ha una presenza d’acqua in formato gassoso estremamente tenue, così come la nostra situazione è eccezionale rispetto a un pianeta caldo come Venere o addirittura gassoso come Giove. Lo spostamento delle masse di vapore ac-queo è molto più importante di quanto noi stessi immaginiamo per la Terra. È così, infatti, che ci assicuriamo il trasferimento di masse importanti d’acqua attraverso tutto il pianeta. L’acqua è principalmente conservata nei bacini oceanici e quindi diventa vapore acqueo spostandosi anche sui con-tinenti e precipitando sotto forma solida (pioggia, neve, ecc….). Cola, in seguito, sulla terra andando a finire, o nei fiumi e nei laghi, o nelle falde acquifere del sottosuolo, oppure diventando ghiaccio nelle zone più fredde. Le trasformazioni alle quali assistiamo ancora oggi sulla terra sono princi-palmente dovute o al ciclo dell’acqua o ai movimenti degli strati profondi del pianeta. Questi spostamenti interni sono dovuti proprio alla differenza di plasticità e elasticità dei diversi strati e la materia rigida all’esterno (la crosta). Sono questi spostamenti che provocano i cambiamenti del profilo terrestre, gli scontri tra le placche (i terremoti), la nascita dei rilievi. Al tempo stesso l’acqua e il vento con l’erosione partecipano alla redistribu-zione di questi materiali. Insomma un insieme in costante movimento in-torno a noi che si modifica e che noi stessi contribuiamo a modificare. Que-ste modifiche le facciamo volontariamente oppure siamo noi che ci ade-

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guiamo ai loro cambiamenti: interazione tra azione dell’uomo e natura (una delle tante volte).

Tutto questo alimenta la vita del nostro pianeta e la cambia ininterrotta-mente partecipando a quella che noi chiamiamo “biodiversità”. Questa di-versità della vita sulla Terra ha una ineguale distribuzione, sia nello spazio che nel tempo. È il frutto di interazioni complesse tra esseri viventi e mo-vimenti naturali (come lo stesso spostamento dell’acqua che abbiamo appe-na accennato). Il Ciclo dell’acqua è infatti il primo elemento di movimento della terra senza il quale non solo non ci sarebbe la vita ma probabilmente la stessa forma della Terra non sarebbe quella che sappiamo essere.

Questo movimento di masse liquidi è di grandi dimensioni e basti per questo pensare allo spostamento su scala planetaria delle correnti marine, ma anche semplicemente allo scorrere di fiumi. Se solo immaginassimo il cambiamento che porterebbe al mondo la semplice scomparsa dei venti Alisei oppure della Corrente del Golfo. Per non dimenticare le esondazioni del fiume Nilo. È proprio questo ciclo dell’acqua che garantisce una serie di cose, come una sorta di “rete di comunicazione”. Questa rete non serve so-lamente come noi crediamo a spostare dell’acqua dall’oceano al continente per permetterci di coltivare e di dissetarci. Essa ha praticamente lo stesso ruolo che una circolazione sanguigna attraverso sistema d’erosione, diversi-tà climatiche, stagionali ma soprattutto regolando il ciclo di vita di tutti noi. E questo grazie anche al fatto che il nostro pianeta è per 7/10 fatto d’acqua e rappresenta quasi il 98% della massa liquida. Basti pensare che solo il 15% del vapore acque del nostro pianeta deriva dalle acque che si trovano su un continente e non nell’oceano. È l’atmosfera che garantisce una distri-buzione più equa di un fenomeno che invece è fortemente ineguale. Infatti, le zone dove l’evaporazione è molto intensa sono ben delimitate e poi que-ste masse di vapore salgono nell’atmosfera terrestre che le trasporta nel re-sto del pianeta, garantendoci un accesso all’acqua che altrimenti non avremmo. Questo nonostante il 75% delle precipitazioni ricadano diretta-mente in mare. Ma, il ritorno dell’acqua dal continente al mare non è così immediato e automatico. Saremmo sorpresi a vedere il viaggio incredibile e lunghissimo che una goccia d’acqua compie da quando lascia sotto forma di vapore l’oceano a quando vi ritorna in uno dei tanti modi. Per un buon 60% l’acqua ritorna al mare attraverso il semplice scorrere sul terreno, ver-so le sponde di quest’ultimo. Ma il resto viene trattenuto sul continente, sia perché si ferma in un lago, sia perché finisce in una falda acquifera nel sot-tosuolo, sia perché viene trasformata in ghiaccio dalle basse temperature sulle cime delle montagne. Ma vi è anche l’apporto dei vegetali che assor-bono l’acqua e la incorporano così nella loro stessa struttura (anche gli uo-mini hanno una massa d’acqua che sappiamo essere superiore al 70% per

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esempio). Abbiamo quindi dei cicli brevi dell’acqua, cioè di una decina di giorni (e riguardano la maggioranza schiacciante dell’acqua che precipita sul continente). I cicli lunghi invece sono molto diversi. Possono andare dai tre o quattro anni agli oltre 300 anni (pensiamo alle acque che vengono bloccate nei ghiacciai dei poli per esempio). Ma questo ciclo lungo è fatto di grandi diversità, con pause più o meno lunghe nelle acque dei laghi, per non parlare dei grandi bacini sotterranei in zone oggi considerate desertiche proprio a testimonianza di un cambiamento climatico rispetto al passato.

Il ciclo dell’acqua, seppur sia quello più evidente (e comunque non ve-ramente chiaro a tutti) in realtà è solo un aspetto delle interazioni fisiche che noi possiamo osservare sul nostro pianeta. Il punto è proprio quello di spiegare come la geografia fisica sia intimamente legata alla geografia umana e, seppur nella seconda noi ci concentriamo su certi aspetti che sem-brano allontanarsi dalla prima, non possiamo pensare di occuparci dell’una senza interrogarci, almeno in parte, sull’altra. La distribuzione fortemente ineguale dell’acqua sul nostro pianeta è dovuta al ruolo che il sole e le tem-perature hanno. Lo spostamento delle masse d’acqua nell’atmosfera assicu-ra le precipitazioni e, in qualche modo, l’approvvigionamento d’acqua. Ma la precipitazione si fa diversamente secondo la latitudine a cui ci troviamo nonché la diversità dei versanti dei rilievi montuosi che abbiamo nelle di-verse parti della stessa zona. Queste precipitazioni su rilievi così diversi provocano anche erosioni diverse e questo contribuisce a modificare ancora di più il territorio, a renderlo ancora più diverso. Il modo con cui l’acqua “scorre” sul rilievo (più o meno velocemente) produce anche una diversità di penetrazione nel suolo. La diversità di penetrazione al suolo provoca una diversità di “trattenimento”, “assorbimento” dell’acqua e automaticamente una diversità di copertura vegetale, la flora. Flora diversa allora fauna di-versa. E così via. Quest’ultimo aspetto rappresenta un caso tipico dell’in-terazione tra ambiente e ciclo dell’acqua, nonché altri fattori naturali, su di una scala estremamente locale. Esistono però delle evoluzioni che si fanno su una scala più piccola, diciamo forse più estesa e cioè a livello continen-tale. In particolare per esempio i fenomeni di desertificazione dovuti a sic-cità continue e ripetute o a cambiamenti di lungo periodo nei venti che col-piscono un continente intero. Questi fenomeni hanno dalla loro il lungo pe-riodo e cioè una costanza nei decenni, spesso nei secoli, di certi fenomeni che modificano in modo lento e su una scala talmente estesa che spesso gli abitanti di un territorio non se ne rendono conto. È il caso per certi cam-biamenti climatici (aldilà dell’inquinamento come fattore di cambiamento climatico). I cambiamenti di lungo periodo che riguardano il clima o l’atmosfera per esempio non hanno poi lo stesso ritmo dei cambiamenti che riguardano la crosta terreste e quindi le forme dei rilievi. Questa diversità

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aumenta ovviamente i risultati possibili di queste interazioni tra parti diver-se dell’ambiente naturale con cui l’uomo deve comunque trovarsi a convi-vere.

Quindi i tempi sono diversi, per il ciclo dell’acqua e dell’atmosfera, per la formazione delle montagne e dei rilievi orografici in generale, così come sono diversi i tempi che la vita ha, vegetale o animale. I tempi annuali delle stagioni si leggono e interagiscono a modo loro ma vi sono poi i tempi lun-ghi dei cambiamenti climatici. Questi tempi si confrontano con quelli del cambiamento del suolo della terra provocando effetti diversi da parte delle stagioni stesse e delle intemperie ma anche diversi effetti dei cambiamenti climatici. Queste interazioni a loro volta modificano profondamente il mo-do in cui gli esseri viventi occupano il suolo e a loro volta modificano le condizioni ambientali di acqua e suolo. La presenza di una foresta modifica il livello delle precipitazioni (se c’è le aumenta) e allo stesso modo tiene i fianchi di una montagna in un determinato modo. Ma se quella foresta scompare le stesse nuvole che la percorrevano potrebbero non incontrare più aria fredda (proprio perché non c’è più la foresta in questione) e quindi scorrerebbero via senza lasciar cadere pioggia o neve. Meno acqua, più ari-dità e più facilità per un suolo a disgregarsi o a provocare frane.

Ecco in cosa la geografia fisica cerca di spiegare quelle che si chiamano “catene di causalità”. Il sistema è così complesso che siamo costretti, se vogliamo cercare delle spiegazioni valide, di guardare idrologia, biogeogra-fia, climatologia, ecc. Niente di tutto ciò ci permetterà di arrivare a mode-lizzazioni scientifiche perfette (e non è l’obiettivo del geografo, infatti). Ma queste osservazioni ci permetteranno di capire le varie casistiche cercando di capire, in ogni particolare caso, le ragioni e gli scenari eventuali.

E gli uomini in tutto ciò? L’uomo da sempre ha una partecipazione di-

retta al rapporto con la Terra. Non a caso in geografia diciamo che se non c’è uomo non c’è geografia. Ecco perché la geografia della Luna o di Marte esistono solo rispetto all’azione dell’uomo qui sulla Terra. Le società nella storia dell’Umanità hanno sempre formato, modellato quello che noi chia-miamo il Paesaggio. L’uomo lo ha visto in un modo e, adattandosi a quel contesto, lo ha sempre modificato in qualche modo. Questo è cominciato con la sua storia primitiva, man mano che scopriva nuovi mezzi per domi-nare un contesto naturale che era certamente molto difficile. Queste cono-scenze tecnologiche sono servite sia a modificare direttamente la natura sia a modificare la sua capacità a semplicemente viverla. Possiamo immagina-re un paesaggio di epoche passate basandoci semplicemente sulla cono-scenza che possiamo avere delle abitudini e degli strumenti che la società dell’uomo possedeva in quel dato periodo.

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Cominciamo con l’immaginare la parte principale di un paesaggio: il ri-lievo. A quel punto se immaginiamo un dato rilievo, in un dato luogo del pianeta, non avremo difficoltà a immaginare la flora che vi potrà aver attec-chito, quindi immaginiamo foreste o colture. La presenza della flora da un punto di vista ci dice dove ci troviamo secondo la sua tipologia, ma al tem-po stesso ci dice anche quello che quello stesso territorio potrà diventare: un perfetto rapporto di oggetto influenzato e influenzante. Dal tipo di rilie-vo capiremo anche quello che l’uomo potrà o non potrà costruirci, coltivar-ci, come poterci vivere, ecc., è la natura stessa del territorio a spingere le popolazioni a insediarcisi ma al tempo stesso, natura e territorio favorevole ma ancora migliorabili. Le infrastrutture rendono più facile la vita dell’uomo in certi territori, territori che l’uomo sceglie perché già in se fa-vorevoli. Così l’uomo sceglie per determinati motivi, anche per il paesag-gio, un dato territorio. Ma a sua volta vi interviene, modificandovi il pae-saggio che è esso stesso frutto dell’azione dell’uomo.

Quando, per esempio, quelli che diventarono i primi Dogon fuggirono la regione del Mande, tra Senegal e Mali all’incirca, intorno al XIV secolo, per fuggire l’islamizzazione di quell’area, approdarono su quella che viene chiamata falesia di Bandiagara. In quell’area vivevano i Tellem, popolazio-ne assimilabile ai pigmei che troviamo ancora oggi nelle zone dell’Africa Centrale. I Tellem erano fondamentalmente cacciatori e abitavano non nelle case incavate nella roccia della parete della loro stessa falesia, ma sugli al-beri dell’abbondante foresta che ricopriva tutto il loro territorio. I Dogon (quelli che venivano dal Mande) erano invece coltivatori e cominciarono a disboscare. Questo disboscamento eliminò praticamente la possibilità di sopravvivenza dei Tellem che si spostarono così ancora più a est. Oggi di quella foresta non resta più traccia e tutta la falesia di Bandiagara, tutto il territorio stesso dei Dogon, è verdeggiante solo nel periodo delle abbondan-ti piogge. Ma per il resto dell’anno si tratta di un paesaggio rossiccio per la terra ricca di laterite e soprattutto abbastanza caldo e secco. Così i Dogon modificarono il paesaggio, profondamente, modificandone in parte anche il clima.

Ma questo tipo di cambiamento noi lo possiamo osservare anche in tempi recenti. All’inizio del XX secolo l’esplosione demografica, l’evolu-zione tecnologica diffusa anche aldilà dei settori di produzione industriale, hanno profondamente cambiato il modo d’occupazione del territorio e la dimensione delle stesse strutture urbane. Pensiamo che all’origine le società per esempio del neolitico, avevano adeguato il loro ambiente a delle colti-vazioni di base utilizzando terreni e prelevando l’acqua necessaria. Modifi-cavano la flora dell’area intensificando quella che sarebbe stata più utile per loro. Le società modellano la natura, scegliendo le tipologie di superficie o

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modificandola, seleziono le specie animali. Sempre più con l’industria-lizzazione l’uomo ha poi prelevato il suo necessario dalla natura, pensiamo alle miniere per l’estrazione prima di minerali ma poi anche di idrocarburi per la propria energia. In questo modo l’organizzazione del territorio modi-fica la struttura natura, ma non la elimina completamente: una sorta di rap-porto di forza che conduce verso un territorio ancora naturale ma diverso da quello che era prima.

Oggi, di natura ancora allo stato vergine, cioè indenne della mano del-l’uomo, praticamente non ne esiste. Anche ai poli o sulle vette più alte della terra oramai troviamo tracce dell’uomo come ad esempio le polveri che le nostre attività industriali producono e che viaggiano nell’atmosfera. Le stesse particelle radioattive viaggiano per decine di migliaia di chilometri, attraversando tutto il pianeta attraverso lo spostamento delle correnti. E allo stesso medo i nostri oggetti, i nostri idrocarburi, i nostri relitti e rifiuti si spostano tramite le correnti marine da un continente all’altro. Ma non cre-diamo per questo che la natura non riprenda i suoi diritti in diverse occasio-ni. Persino nelle zone urbanizzate, quelle che noi crediamo piche mai “pro-dotto dell’uomo” spesso la natura si impone. Pensiamo ai terremoti o ai ma-remoti, pensiamo alle intemperie, pensiamo anche a quando il mare decide di “riprendersi” una costa oppure semplicemente alzandosi di livello occu-pa spazi che prima poteva utilizzare. Per non parlare di quello che possono provocare, anche su zone urbane, degli inverni particolarmente rigidi oppu-re delle estati troppo calde. Quante volte abbiamo visto nuovi insetti arriva-re da lontano e modificare la fauna di una città (pensiamo ai coleotteri che, provenienti dall’Asia, hanno decimato le palme di Roma). Pensiamo alle alghe che stanno invadendo tutte le sponde delle fondamenta di Venezia, alghe che erano fino a pochi anni fa sconosciute e che sono state certamente trasportate da qualche nave proveniente dall’Asia. Ecco perché abbiamo ragione a parlare di ecosistema urbano.

Quando noi parliamo di “ambiente” in realtà facciamo allusione proprio a quel contesto fisico composto anche dal “sociale”, intendendo cioè pro-prio dell’uomo.

È proprio a quest’azione dell’uomo sulla natura che facciamo allusione quando parliamo di “organizzazione del territorio” intendendo con questo la traduzione del francese aménagement du territoire. Definizione erro-neamente tradotta in italiano con “pianificazione territoriale” facendo rife-rimento all’inglese territorial planning. La confusione consiste proprio nel pensare che le due definizioni, francese e inglese, siano le stesse, ma non è così e lo vedremo ben più avanti in questo stesso libro.

Un tempo il territorio per gli uomini era indicato più che in bellezza paesaggistica in quantità di risorse e di opportunità. Ma oramai l’uomo è

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arrivato a un punto di gestione del proprio pianeta sinceramente difficile, a lungo andare diciamo pure impossibile. Vi sono diversi fenomeni che van-no presi in considerazione a cominciare da quelli planetari come appunto l’aumento della temperatura media ma anche l’accumulo sproporzionato di rifiuti di ogni genere, l’inquinamento di falde acquifere e la riduzione della biodiversità. Questi fenomeni sono di dimensione planetaria e soprattutto si producono su una scala temporale medio/lunga quindi è difficile far capire quanto pericolo sia. Questo genere di fenomeni si incrocia con eventi acci-dentali come un eventuale affondamento di una nave e il conseguente in-quinamento, oppure la distruzione di una piattaforma petrolifera. Questo genere d’incidenti sono gravi e improvvisi e possono più facilmente essere stigmatizzati. Ma il riscaldamento del pianeta, per citarlo nuovamente, o la riduzione della superficie delle foreste: sono fenomeni che si producono in tempi meno evidenti e per questo discutibili. Vi sono poi quegli interventi che localmente provocano problemi e che non hanno per questo un’eco grave, immediata. La costruzione di una diga per esempio, oltre a rappre-sentare spesso l’allontanamento di decine di migliaia di persone, significa anche un cambiamento importante nelle sedimentazioni di un bacino fluvia-le, della circolazione e riproduzione di specie ittiche. Così come l’aumento incondizionato dell’irrigazione di certe superfici ha provocato danni a cui si è reagito troppo tardi (si guardi il caso del mare di Aral, quasi del tutto pro-sciugato). Ma l’allarme non è di oggi ed è interessante andare a guardare quanto già un secolo e più fa ci fosse chi si preoccupava dell’atteggiamento che l’uomo, come animale sociale, avesse nei confronti dell’ambiente natu-rale che gli permetteva di vivere. Tra queste persone citiamo almeno uno (tra i tanti che si potrebbero citare): Onésime Reclus, fratello minore del ben più famoso Elisée Reclus. Scrive Onésime Reclus nel 1886: “[…] pro-babilmente nel 2000, dal quale ci separano tre, massimo quattro, generazio-ni non resterà più granché da scoprire della Terra. E già quel giorno la Ter-ra sarà molto invecchiata, perché la mano dell’uomo è spesso criminale: noi facciamo fiorire il deserto come la rosa, ma i colpi dei boscaioli non abbat-tono solo la foresta, essi rovinano e sconvolgono anche la montagna e ogni albero che cade toglie una goccia d’acqua alle fontane”11.

Un pianeta cambia su scale diverse e in tempi diversi. Così la riduzione

della biodiversità, il riscaldamento del pianeta, devono essere incrociati con fasi d’inquinamento acute sia nell’aria che nell’acqua, nonché la modifica-zione profonda di ambienti maturali che cancellano definitivamente diverse specie viventi. La geografia non è descrizione di un paesaggio (comunque

11 Reclus O., La terre à vol d’oiseau, Hachette, Paris, 1885.

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una cosa più complessa di quanto non si creda), ma è proprio il comprende-re su scale territoriali e temporali diverse l’incrociarsi di queste diverse in-terazioni naturali, influenzandosi una all’altra e con cambiamenti profondi del nostra ambiente che inesorabilmente si ripercuoto sulle nostre strutture sociali, sul nostro modo di interagire tra noi e rispetto al nostro territorio. La geografia è quindi al centro di questo genere di riflessione e, come ve-dremo più avanti, l’organizzazione del territorio rappresenta esattamente questo modo di interagire tra l’uomo e la sua struttura sociale e l’ambiente naturale dove decide di insediarsi.

2. La Geografia Politica (che non è Geopolitica)

Abbiamo quindi potuto vedere come il geografo contemporaneo è preoccupato della natura come della politica. “(...) In mezzo secolo, la geo-grafia è passata dal campo delle scienze ‘della natura’ alle scienze sociali in un'unica migrazione nella storia delle scienze e che i geografi stessi non hanno ancora finito di misurarne le conseguenze”12. Aldilà della Geografia Politica di scuola francese, quella che ha caratterizzato di più queste righe finora, vi è anche quella altrettanto importante di stampo anglosassone, la quale ha conosciuto dagli anni ‘70, una rivoluzione epistemologica consi-derevole. Più precisamente dal secondo dopoguerra molti geografi hanno cominciato a occuparsi di geografia politica allontanandosi dalla visione di Ratzel, particolarmente quelli americani.

Basterà qui citare Richard Hartshorne, Pounds Norman, Harm a Blij, ma anche Jean Gottmann che ha fatto da ponte tra le due sponde dell'Atlantico. Per fare solo un esempio, Pounds ha condotto una riflessione esaustiva a partire dalla descrizione dei territori politici (Stati, suddivisioni amministra-tive, ma anche sulle organizzazioni regionali) e si è avvicinato ad uno stu-dio ragionato e sistematico delle frontiere e delle popolazioni, i legami tra le risorse e il potere, il Terzo Mondo, o alle riflessioni di teoria geopoliti-ca13. Sulla base di queste tematiche ben più ampie di quelle che Claude Raffestin voleva attribuire alla geografia politica, la discussione è stata ap-profondita e ampliata notevolmente a partire dagli anni 1980-90 da una nuova generazione di ricercatori, tra cui John Agnew, Peter Taylor, John O'Loughlin e Kevin Cox che sono tra i rappresentanti più importanti. John

12 Knafou R., L' état de la géographie, autoscopie d'une science, Belin, Paris, 1997. 13 Pounds N.J.G., Political Geography, McGraw-Hill Book, New York, 1963.

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Agnew 14 in un articolo diventato celebre ha sottolineato la necessità per i geografi politici di uscire dalla "trappola territoriale" e di considerare altri attori che gli Stati e altre logiche che quella territoriale (le reti, ad esempio), che obbligano a non pensare più lo Stato come il solo “contenitore” delle società sempre più transnazionali e mondializzate. Taylor analizza la geo-grafia politica attraverso il sistema-mondo, in una prospettiva rinnovata che si allontana ancora di più da Ratzel e si basa sui paradigmi del potere e met-te in evidenza l'influenza sempre più forte della geo-economia15. Più recen-temente, Cox sottolinea che “la geografia politica si basa sullo studio dei concetti dialettici di territorio e territorialità”16 dando, anche, importanza all'ecologia politica che è un argomento ancora troppo marginale nella ri-flessione francese.

Questa evoluzione che tocca la geografia politica non manca di influen-zare la geopolitica nella misura in cui, prendendo in contropiede il pensiero di Yves Lacoste, i ricercatori americani considerano la geopolitica come un sottoinsieme della geografia politica. In un altro lavoro molto importante O'Tuathail e Agnew sottolineano che la geopolitica non è solo una descri-zione di politiche pensate nello spazio, ma anche discorsi da "decostruire" per utilizzare il concetto di Jacques Derrida. Per questo viene distinta una geopolitica teorica (formal geopolitics) complessa e scientifica da una geo-politica applicata (practical geopolitics), una geopolitica popolare questa volta ridotta a semplici immagini, manichee, create dagli apparati statali e per la mobilitazione della società17. È partendo dalla riflessione di questo lavoro che O’Tuathail fonderà la Critical geopolitics, approccio nel quale ha creato il concetto di geo-power: strumentalizzazione della conoscenza geografica da parte degli Stati e dei poteri18. Ancora una volta, questo è un lavoro di decostruzione delle teorie geopolitiche che porta questo autore, considerato il più innovativo negli anni ’90, a stabilire un collegamento ri-levante tra geografia e i temi del potere, della conoscenza, della lingua e della testualità.

Se vogliamo capire quello che significa più propriamente occuparsi di geografia politica dobbiamo fare cenno al concetto di “Sistema-Mondo”

14 Agnew J., The Territorial Trap: The Geographical Assumptions of International Rela-

tions Theory, “Review of International Political Economy”, Vol. 1, No. 1 (Spring, 1994), pp. 53-80.

15 Taylor P.J., Political Geography: World-economy, Nation-state, and Locality, Long-man, London, 1985.

16 Cox K.R., Political Geography: Territory, State, and Society, Blackwell, 2002. 17 O'Tuathail G. e Agnew J., Geopolitics and discourse. Practical Geopolitics reasoning

in American foreign policy, in “Political Geography”, 2 (1992), pagg. 190-204. 18 O'Tuathail G., Critical Geopolitics, University of Minnesota Press, Minneapolis,

1996.

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apparso negli anni ’60 ad opera di due studiosi non geografi: Gunder Frank e Immanuel Wallerstein.

La tesi di fondo della loro teoria della dipendenza è che la relazione fra paesi industrializzati e periferie in via di sviluppo si realizzi tramite un meccanismo di dipendenza e per questo motivo le condizioni dei Paesi sot-tosviluppati dovrebbero essere analizzate attraverso lo studio del sistema capitolai stico mondiale per poter essere comprese. Frank parlerà di “me-tropoli” sviluppata e i suoi “satelliti” sottosviluppati, i quali interagirebbero come in un unico sistema: le “metropoli” industrializzate dominano la peri-feria19.

Erano gli anni in cui la storia era presentata come lo studio degli eventi e la scienza sociale scopriva regole universali di comportamento socia-le/umano (l’approccio nomotetico). Wallerstein affermava che “l’analisi del sistema-mondo offre un “di più” euristico della “via di mezzo” fra le gene-ralizzazioni trans-storiche e le narrazioni particolaristiche. Essa sostiene che il metodo ottimale è di perseguire l’analisi all’interno di schemi siste-matici, con orizzonti temporali e spaziali abbastanza ampi da contenere le logiche imperanti che determinano gran parte della realtà sequenziale, allo stesso tempo riconoscendo e prendendo in considerazione che tali schemi sistematici hanno un inizio e una fine e non devono pertanto essere conce-piti come fenomeni ‘eterni’”.

L’analisi del sistema-mondo sostiene che gli Stati moderni non siano ve-re e proprie società, ma rappresentino le “unità politiche” del sistema inter-statuale e dell’economia della società moderna, il che vuol dire scompiglia-re completamente l’approccio abituale fino a quel momento. Il mondo era fatto di Stati: considerati gli unici veri attori politici nello scacchiere plane-tario. Secondo Wallerstein, ci sarebbero tre generi di società (sistemi) nella storia dell’umanità: i mini-sistemi, quelli che gli antropologi denominano clan, tribù e piccoli regni. Oltre questi, vi sarebbero poi due tipi di sistemi-mondo: gli imperi mondiali composti da singoli “Stati”, come era la Fran-cia, la Spagna, etc., e le economie-mondo composte da molteplici centri di governo. I sistemi-mondo sono più grandi ed etnicamente compositi. A questo secondo tipo apparterrebbe la società moderna, denominata “siste-ma-mondo moderno”. Ma ancora più interessante, sempre secondo Waller-stain, sarebbe la sola economia-mondo, completamente capitalista, a essere apparsa tra XV e XVI secolo e arrivare a ricoprire quasi tutto il pianeta ver-so gli inizi del XX secolo.

19 A questo proposito ottima è l’analisi sul pensiero di Frank e Wallerstain fatta dal

collega Vanolo al quale rimando con piacere. Vanolo A., Geografia economica del sistema-mondo, UTET, 2008.

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Mentre la suola francese manifestava ancora le sue reticenze sulla geo-grafia politica, gli anglosassoni diventavano sempre più interessati a questo filone producendo una letteratura copiosa. È proprio partendo da Wallertsa-in, in effetti, che Taylor approfondirà la Geografia Politica diventandone forse il caposcuola inglese20.

Nei suoi lavori si trovano temi come Geopolitica, da lui però ben rivisi-tata. La geografia elettorale, invece, rappresenta un’eredità liberale come la geografia politica dei poteri locali rileva un’eredità ecologica. Taylor rea-lizza così un'abile sintesi tra la vecchia e la nuova geografia politica rein-terpretata nel contesto della geografia marxista anglo-sassone: la radical geography.

Taylor si concentrerà particolarmente sulle analisi territoriali dello Sta-to-nazione, sviluppando le nozioni di nocciolo centrale, di città-capitali, di frontiera, di territorialità umana, insistendo sempre sulle forze centripete e centrifughe, assicurando sempre l’idea di Stato: la caratteristica che demar-cherà sempre la geografia politica di stampo anglosassone da quella france-se (che prevedeva più attori politici).

Insieme anche ai suoi lavori sulla geografia elettorale, dove distinguerà tra le analisi territoriali dei voti e l’influenza del territorio sulle scelte elet-torali, Taylor rappresenta l’autore anglosassone che ha più influenzato il rinnovamento della Geografia Politica nell’epoca recente superando gli ap-procci neo-positivisti che erano imperanti nella disciplina.

Si distinguono tre scale di analisi nella teoria di Taylor: 1. l’Economia-mondo (che rappresenta la realtà, l’unico panorama con-

temporaneo con il quale dobbiamo relazionarci per quanto riguarda ogni tipo di attività socio-economica);

2. lo Stato-Nazione (che rappresenta l'ideologia, l’unità geo-politica che le società contemporanee vivono e nel quale si riconoscono: “Le Na-zioni sono le unità naturali con una omogeneità culturale basata su una comune discendenza o una storia comune, ognuna di esse richie-de un proprio stato sovrano sul proprio territorio inalienabile”;

3. il Locale (che rappresenta l’esperienza, la quotidianità dell’individuo contemporaneo, rappresentata dallo spazio concreto di vita, ma con-siderata periferia se messa in interazione con l’Economia-mondo).

La scala e l’attore principale di questa analisi è l’Economia-mondo, non

lo Stato-Nazione, come consideravano le precedenti teorie geopolitiche. Per Taylor gli Stati non possono essere analizzati come entità separate le une

20 Taylor P.J., Political Geography, World-Economy, Nation-State and Locality, op.cit.

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dalle altre, perché così si rischia di perdere le interazioni che rappresentano la caratteristica principale per gli Stati21.

Ma come vedremo tra poco, in realtà la visione di Taylor, per quanto in-novativa rispetto al pensiero dominante degli anni ’60, sarà comunque con-siderata restrittiva rispetto a pensieri che invece si concentreranno sul ruolo degli attori (tutti) e sul loro antagonismo. La vera diversità tra la visione di Taylor e quella che, pur nascendo nei primi anni ’70, esploderà solo negli anni ’80, consiste proprio nel considerare non tutto il mondo nel suo insie-me una ripartizione teorica di tipologie di attori/territorî. La diversità sarà basata sul considerare le specifiche caratteristiche territoriali, senza cercare di semplificarle o “generalizzarle” con una visione contemporanea di tutti i fattori che intervengono sugli altri livelli. Il diatopo di Lacoste su questo avrà un effetto dirompente, soprattutto nel metodo di analisi geopolitica che vedremo di seguito.

21 Taylor P.J., Political Geography, World-Economy, Nation-State and Locality, op.cit.

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2. Geopolitica

     

Geografia, Geografia Politica e quindi Geopolitica. Questo collegamen-to non è banale, al massimo è naturale. Adalberto Vallega scriveva anni fa che in realtà Geopolitica è il modo riduttivo di dire Geografia Politica. È sorprendente questa presa di posizione da parte sua. In realtà non è certa-mente così e la letteratura internazionale è abbastanza unanime nel conside-rare le due discipline ben diverse tra loro, seppur collegate, come da una matrice comune.

Come si è proceduto nel primo capitolo, anche in questo secondo capi-tolo procederemo a una spiegazione del termine Geopolitica. Partendo dalle parole perché in quelle c’è il primo passo verso la comprensione di concetti altrimenti complessi. Il termine Geopolitica non solo è tecnicamente usato con diverse declinazioni, ma è estremamente diffuso nei media oggi e la maggior parte delle volte in modo assolutamente improprio. Quante volte leggiamo titoli come: “Geopolitica delle Armi” o “geopolitica del Petrolio” o ancora “geopolitica del calcio”. Tutte definizioni che ci danno delle idee confuse di quello che potrebbe essere il contenuto, ma certamente non ci offrono un approccio chiaro.

La questione “parole” è talmente importante, soprattutto in una discipli-na che, per fortuna, si è liberata dello spettro\complesso della matematiciz-zazione della propria diffusione, che cominciamo proprio dai dizionari.

E non è un caso se due tra i maggiori geografi viventi hanno scritto (guarda caso lo stesso anno) due dizionari di geopolitica, proprio per cerca-re di mettere un po’ d’ordine intorno a certi vocaboli che, tornati di moda da alcuni anni, cominciavano a essere usati a casaccio1.

1 Si tratta di : O’Loughlin J., Dictionnary of geopolitics, Greenwood Press, Westport-

London, 1994 e di Lacoste Y., Dictionnaire de geopolitique, Flammarion, Paris, 1994 (in realtà il primo è più un glossario che un vero e proprio dizionario, quale è, invece, il secondo).

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Partendo proprio da questi due dizionari di geopolitica potremmo dire che

esistono due approcci diversi verso questa disciplina: il primo è quello che guarda alla geopolitica come alle “[...] relazioni tra Paesi o alle politiche di colonizzazione di vaste zone ad opera delle potenze mondiali”. Questa è l’indicazione che John O’Loughlin fornisce nel suo dizionario2 e in effetti egli disegna un quadro d’insieme della geopolitica abbastanza esaustivo, ma che appare oggettivamente ridotto rispetto a quelli che invece sono i campi di interesse della geopolitica (che avremo modo di vedere meglio nelle pagine seguenti). Il discorso fondamentale di O’Loughlin è che comunque la geopo-litica tratti di rapporti politici tra Stati che possono accadere principalmente (ma non solo) in scala mondiale. A questo punto ci si ritroverebbe a discutere di geopolitica anche se il Messico vota contro una certa risoluzione degli Sta-ti Uniti solo perché hanno tra loro un “conto da regolare” su un’altra faccen-da. In realtà una questione del genere poco o nulla avrebbe a che fare con la geopolitica, ma tant’è. Il problema fondamentale è che le scuole di geografia girano più o meno intorno a questa parola, dicono grosso modo le stesse cose pur conservando le loro divergenze.

O’Loughlin definisce tre possibili tipi di geopolitica il primo dei quali è semplicemente la dimensione geografica della politica estera e quindi sotto questo aspetto la geopolitica avrebbe solo due livelli: il primo è quello che ci spinge a studiare la localizzazione di popoli e la distribuzione delle di-versità (e in particolare ci spinge a studiare la diversità della loro localizza-zione). Questo rappresenta la raccolta di dati necessaria per ogni tipo di azione di politica estera che ci porta al secondo livello, quello che invece ci permette di mettere in atto le azioni necessarie al raggiungimento di speci-fici obiettivi.

Esiste poi un secondo tipo di geopolitica, relativa ai vari Stati (una geo-politica degli Usa, una geopolitica dell’Italia ecc.) e in questo caso si tratta di vedere il mondo avendo come punto di origine il proprio Paese e soprat-tutto ponendo i propri interessi in risalto rispetto allo scacchiere mondiale. Da questo punto di vista è ovvio che ogni geopolitica è diversa se esamina-ta con gli occhi di uno Stato diverso, perché la realtà mondiale verrà letta alla luce degli interessi nazionali di ciascuno Stato.

Esiste poi la terza categoria, quella che O’Loughlin definisce come “geopolitica critica” perché nasce dal convincimento che la geopolitica è sempre stata legata al potere e quindi semplicemente supporto strumentale. La geopolitica critica si limiterebbe a interpretare le posizioni ufficiali per

2 O’Loughlin J., Dictionnary of geopolitics, op. cit., pag. viii, la traduzione è la mia.

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capire bene quali sono gli obiettivi che il potere ha e quindi poterne offrire letture e analisi alternative.

Un altro geografo che ci offre un aiuto importante per chiarire i conte-nuti di questa disciplina è John Agnew, il quale, pur partendo dalle origini più remote della geopolitica, ci porta subito sull’attualità3. Agnew ricorda che la geopolitica come parola era nata nell’ottocento4, volendo semplice-mente fare allusione alle rappresentazioni geografiche utilizzate per parlare della politica internazionale nel mondo. Ma, a partire dagli anni novanta del XX secolo, l’uso continuo ma soprattutto confuso che si è fatto di questa parola l’ha portata a essere indirizzata sia a questioni di frontiera che di re-lazioni internazionali, come anche di geografia elettorale. Ma proprio que-sta forma di “espropriazione” della parola “geopolitica” ci ha condotti a ri-flettere meglio sul suo significato e quindi a cercare di definirne meglio i limiti. Proprio in questo senso Agnew cerca di definire i primi contorni: analisi delle ipotesi geografiche, designazioni e comprensioni che rientrino nella “politica mondiale”5. Egli ci porta a cercare molto indietro nel tempo quelle che potremmo definire le prime tracce della geopolitica, in particola-re rispetto alla politica di certi Stati nel XVI secolo – ma su questo aspetto in realtà si possono avere diverse perplessità. Diciamo che nel linguaggio comune raramente si parla della geopolitica di Luigi XIV o di Enrico VIII, mentre è molto frequente vedere usata questa parola a proposito del XX se-colo. Agnew dopo aver lanciato questa pista storica della geopolitica af-ferma con molta chiarezza che in realtà, al di là di quando possa essere nata con precisione la geopolitica, essa ha sicuramente conquistato una certa importanza nonché una presenza strutturale nel campo della geografia da quando il “mondo” è stato pensato come un insieme unico. Questo passag-gio negli scritti del geografo dell’Ucla è essenziale per collegarci a quello che è il punto di attualità della geopolitica. Vedremo più avanti qual è la definizione di geopolitica che ci sembra essere la più precisa e articolata e vedremo anche come la comunicazione e la rappresentazione abbiano un ruolo chiave: per questo possiamo dire che la costruzione di un “immagina-rio” per il lettore è fondamentale.

La Terra, in quanto tale, esiste da miliardi di anni con tutti i cambiamenti che ha subito e continua a subire, e questo è un dato di fatto. Ma per il cittadino del mondo di oggi essa esiste da quando la si è concepita nel suo

3 Le pubblicazioni del geografo scozzese a questo proposito sono innumerevoli e tutte

estremamente pertinenti. In questo caso ho preferito fare riferimento ad un solo testo. Ag-new J., Geopolitics: re-visioning world politics, Routledge, London e New York, 1998.

4 Sulle origini precise della geopolitica la letteratura è ricca ma noi ci torneremo tra qualche pagina, in dettaglio.

5 Agnew J., Geopolitics, op.cit., p. 2.

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insieme. Solo da quando gli uomini nella loro politica del governo degli Stati hanno cominciato a pensare alla Terra nel suo insieme, come mondo, solo allora hanno dato vita a una prima forma di geopolitica. Non solo: non è bastato il sapere che per un abitante di New York esisteva anche New Delhi e che per l’Inghilterra il controllo dell’India era importante. Quello che contava veramente era il fatto che nella percezione del quotidiano della politica di governo di uno Stato si tenesse in considerazione l’intero scacchiere mondiale e questo aspetto, non possiamo negarlo, è dovuto prima di tutto ai sistemi di informazione e comunicazione. Chi abbia creato la Terra non ci è dato saperlo (ognuno è libero di attribuirlo a chi meglio vorrà: la teologia è argomento troppo importante per poter essere trattata in questo testo) ma chi ha fatto sì che la Terra entrasse nella percezione degli uomini questo possiamo dirlo: gli strumenti di comunicazione di massa.

Per questo motivo la geopolitica è sicuramente più contemporanea che moderna e certamente difficile da situare in secoli remoti. Ma questo è un primo passo sul quale troveremo indubbiamente occasione di ritornare.

Agnew da parte sua identifica quattro scale di geopolitica: quella mondiale, in cui il mondo è concepito in tutta la sua interezza; quella internazionale, in cui si parla invece di rapporti fra due o più Stati, quindi non sempre a livello mondiale; quella nazionale, quindi propria di cia-scuno Stato; quella regionale, cioè relativa alle parti interne ai vari Stati. Tutto questo specificando che le quattro scale, come sono esposte, sono anche una scala decrescente d’importanza. Da questo punto di vista possiamo dire che Agnew cerca una ripartizione in scale, certo, ma che ci porta più a guardare alle scale alle quali esistono i vari attori politici piuttosto che definire una scala geografica vera e propria alla quale esaminare i vari avvenimenti, qualsiasi essi siano. Il rapporto, diciamo così, è più concentrato sul livello istituzionale che non sull’elemento puramente territoriale.

Nonostante i riferimenti storici fatti da Agnew a una geopolitica possibi-le anche nel passato e una citazione di scale essenziali (solo quattro per un intero pianeta) in realtà egli coglie, a parere di chi scrive, quelli che sono comunque i punti essenziali per una definizione della geopolitica.

1. Una definizione di geopolitica

Il geografo che invece più si è sbilanciato, coraggiosamente, nella defi-nizione di Geopolitica, è certamente il francese Yves Lacoste. Secondo quest’ultimo viene considerata geopolitica quella situazione in cui due o più attori politici si contendono un determinato territorio. In questo conten-

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dere, le popolazioni che abitano il territorio conteso, o che sono rappresen-tate dagli attori che se lo contendono, devono essere coinvolte in questo conflitto, attraverso l’uso degli strumenti di comunicazione di massa.

Partiamo da questa definizione6 per dare seguito alla nostra spiegazione. Superficialmente potremmo subito essere indotti a credere che tutti i

conflitti che abbiano avuto come posta in gioco un qualsiasi territorio pos-sono essere catalogati come “geopolitici”. Ma, come si vede dalla seconda parte della definizione precedente, occorre un coinvolgimento delle popo-lazioni. Questo coinvolgimento porta a una serie di pressioni sul potere esecutivo, al punto da indurlo a cambiare la sua decisione, a volte anche la più logica. Questo tipo di coinvolgimento certo non esisteva nel XVIII o XVII secolo (per non andare ancora più indietro nel tempo) e da qui il col-legamento fatto più sopra con John Agnew riguardo al fatto che per far na-scere la geopolitica come la intendiamo oggi occorreva in qualche sorta “immaginare il mondo”.

Nel passato le popolazioni erano coinvolte, ma spinte dal potere centra-le, più che il contrario. Immaginate Napoleone III che ascolta la voce del suo popolo prima di entrare in guerra contro la Prussia. Al contrario, il ruo-lo giocato oggi dai mass-media è fondamentale, senza per questo ingigan-tirlo o demonizzarlo oltre misura. Proviamo a pensare al ruolo avuto dalla stampa e dall’informazione in generale nella guerra del Golfo contro l’Iraq. In quella “strana” guerra il coinvolgimento mediatico è stato altissimo, al punto che diverse decisioni prese sul campo sono state influenzate (per non dire determinate) da situazioni e manifestazioni fatte a migliaia di chi-lometri di distanza.

Altro esempio ci viene dato dalla guerra nella ex-Jugoslavia. In questo caso probabilmente il ruolo del dibattito internazionale è stato ancora più importante, prima di tutto perché la situazione era sicuramente più com-plessa che in Iraq e poi perché i governi europei erano più reticenti nell’in-tervenire di quanto non lo fossero in Iraq e quindi la decisione d’intervento è stata in buona parte determinata dalla pressione dell’opinione pubblica. I governi del vecchio continente non potevano restare fermi mentre le prote-ste si levavano dalle loro piazze, dopo aver visto le immagini delle carnefi-cine di Croazia e Bosnia. Un intervento che veniva di volta in volta cambia-to, corretto. Spesso la pressione dell’opinione pubblica era tale da spingere i governanti a prendere serie decisioni proprio per evitare ripercussioni sgradevoli a livello interno.

Un esempio evidente che conferma quanto appena scritto ci è dato dalla campagna elettorale di Jacques Chirac durante le elezioni presidenziali del

6 Lacoste Y. (a cura di), Dictionnaire de géopolitique, Preambolo, pp. 1-35, op. cit.

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1995 in Francia. Egli seppe interpretare l’indignazione dell’opinione pub-blica francese rispetto a quanto accadeva in ex-Jugoslavia, ma seppe anche interpretare l’insoddisfazione degli stessi francesi per il modo con il quale i Governi occidentali gestivano quella delicatissima situazione. Chirac ha quindi cavalcato quell’insoddisfazione dicendo che una delle sue prime azioni sarebbe stata quella di sbloccare la situazione jugoslava e renderla più efficace. Questo aspetto che riguarda una situazione lontana dalla Fran-cia, posta in un altro Stato neanche confinante, è stato uno degli elementi che ha portato Chirac ad essere eletto Presidente del suo Paese nel suo pri-mo mandato (1995-2002).

Altri esempi ci vengono dall’Africa, più precisamente dal Ruanda, Bu-rundi e Zaire (attuale Repubblica del Congo). La Francia avrebbe voluto intervenire immediatamente nella zona dei Grandi Laghi nei giorni dell’e-sodo degli Hutu dallo Zaire, dove si erano rifugiati nel 1994, verso il Ruan-da. Ma per farlo doveva avere il consenso dell’opinione pubblica e per que-sto si è usata una tecnica estremamente semplice e diffusa: far capire che era necessario intervenire per permettere di aiutare le centinaia di migliaia di profughi che stavano rientrando nel loro Paese di origine. Questo inter-vento era effettivamente utile nella fattispecie, ma l’ostacolo è arrivato da parte americana ed inglese. Non per eccesso di cinismo da parte di questi ultimi, a danno della presunta bontà dei nostri cugini transalpini; sempli-cemente perché gli anglosassoni sospettavano che la volontà di intervento di Parigi celasse, ancora una volta, una volontà di intervenire a favore degli Hutu (come già fatto in precedenza), e di evitare una possibile destabilizza-zione nel governo dell’allora Zaire, il cui presidente (da sempre vicino alla Francia, lo ricordiamo) era in quel momento in Svizzera per problemi di salute. Di fatto la pressione dei media, principalmente di Washington e Londra, nonché la velocità con la quale i profughi sono poi rientrati in Ruanda, hanno reso vano l’intervento internazionale. Non ci soffermiamo sul fatto che questo intervento potesse essere veramente utile oppure no, ma ci interessa osservare come l’opinione pubblica abbia provocato una pres-sione sul proprio potere centrale, oppure il potere centrale abbia dovuto preoccuparsi di dare una certa immagine della propria volontà ai suoi elet-tori e contribuenti prima di agire.

Ecco perché in quei giorni alla televisione francese si trasmettevano grandi quantità di reportage sul disastro dei Grandi Laghi, sul lassismo oc-cidentale, sulla totale assenza di etica e senso dell’umanità nei governanti occidentali.

A Londra invece si susseguivano sulla stampa nazionale articoli in cui si elencavano gli interessi francesi in Africa e tutti gli interventi fatti fino a

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quel momento unicamente nel rispetto della regola della tutela dei propri interessi, a spese di qualsiasi umanità e senso di carità cristiana.

Lo stesso elemento lo troviamo nel 2003 a proposito della guerra con-dotta da Usa, Gran Bretagna e Polonia (quest’ultima spesso dimenticata ma importante da citare per poter capire altri schieramenti interni all’Unione Europea). Gli Usa sono partiti dall’Afghanistan dopo l’11 settembre e si sono ritrovati a Bagdad in teoria sotto la stessa bandiera e ragione ma in realtà alla luce di una strategia vecchia di quasi un decennio. Per riuscire a giustificare uno sforzo tale, sia militare ed economico ma soprattutto politi-co, visto che si è dovuto spezzare lo schieramento che si era costituito con-tro i Talebani in Afghanistan, è stata necessaria una campagna mediatica mondiale. Questa è stata di un’importanza tale da poter “rappresentare” le ragioni che non spingevano bensì obbligavano ad andare in Iraq. La que-stione delle armi di distruzione di massa è una rappresentazione (dato che non sono mai state trovate e lo stesso George W. Bush si è considerato de-luso per non avercele trovate) ma soprattutto quello che è interessante è il veder costruire intorno a Saddam Hussein una rappresentazione di leader unico del terrorismo mondiale. Lo stesso dittatore iracheno, da sempre fe-roce contro tutto quello che era stato integralismo islamico (basti pensare al pugno di ferro più volte usato contro la corrente sciita) aveva cominciato a ritagliarsi una immagine di buon musulmano proprio per cercare consenso tra i suoi concittadini e sollevare l’attenzione del mondo islamico interna-zionale. Ma in Medioriente il conflitto, le sue guerre, sono di religione?

Soffermiamoci un momento su questo aspetto.

2. Qualche esempio di casi ed evoluzioni geopolitiche Il caso del Medio Oriente e in particolare di Israele (che fa prima di tutto

parte di quello che noi chiamiamo Vicino Oriente e cioè Israele, Libano, Siria e Giordania), è esemplare non tanto per l’eco che suscita in questi ultimi anni, quanto perché dimostra la confusione tra Relazioni Internazionali e geopolitica. Identificare il conflitto tra Israeliani e Palestinesi come un conflitto dovuto a questioni religiose non è solo falso ma fuorviante. Ci allontana e ci distrae dalle vere situazioni. Il bombardamento e in seguito l’attacco condotto da Tsahal7nei primi giorni del 2009 hanno sollevato (giustamente) una condanna quasi unanime. Tuttavia, i media italiani

7 Tsva Haganah Le-Israel: esercito di difesa di Israele, in ebraico: צבא הגנה לישראל. Oggi

abbreviato con Tsahal.

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proponevano troppo spesso un dettagliato resoconto della tragedia quotidiana, mentre l’ascoltatore medio poco poteva capire quello che realmente accadeva su quel piccolo territorio(che è poi esattamente quello che i media italiani hanno riprodotto con il conflitto libico che ha portato alla morte di Gheddafi). Il caso di Israele, proprio perché si tratta di territorî molto piccoli (poche centinaia di chilometri), si presta perfettamente all’uso del metodo geopolitico. Questo, infatti, ci permette di analizzare il tutto sia su diversi livelli di analisi sia su diverse scale temporali. Già il territorio, fisicamente, è molto particolare. Si tratta di una linea costiera molto semplice e di una vera e propria vallata (quella che parte dal golfo di Aqba e corre lungo il fiume Giordano e il Mar Morto): due linee parallele l’una all’altra. Queste sono intervallate da altipiani che arrivano ad un massimo di mille metri e che verso oriente si allungano nel deserto siriano. È su questi altipiani, dove la pioggia cade molto più abbondante che a valle, sulla costa, che erano insediati gli arabi (sia musulmani che cristiani). Se ricordiamo tutto ciò8 è perché non si riuscirebbe a spiegare altrimenti l’insediamento dei primi coloni ebrei arrivati lungo il XIX secolo. Questi, infatti, se avessero trovato la valle sulla costa già densamente abitata, non avrebbero avuto la possibilità di acquistare facilmente la terra per potersi a loro volta insediare stabilmente. Tale insediamento, che darà anche origine alle prime forme di coltivazioni cooperative, non ha nulla a che vedere con quelle stesse cooperative fatte dopo la Seconda Guerra Mondiale manu militari a discapito dei contadini arabi. Furono proprio quei primi coloni ebrei arrivati dall’Europa nella pianura litorale palestinese a bonificare delle terre sature di paludismo e per questo trascurate dalla maggior parte della popolazione.

Ma, l’insieme di tutta quest’area deve essere esaminata anche tenendo presente prima di tutto gli altri Paesi (Egitto, Libano, Siria, Giordania) e il ruolo giocato in tutto ciò dalla colonizzazione e decolonizzazione avvenuta dopo il crollo dell’impero Ottomano. Proprio le ripartizioni tra Inglesi e Francesi contribuirono a complicare ancor di più la situazione. I Francesi avevano la mano su Siria e Libano; gli Inglesi sulla parte meridionale, cioè su quella che loro chiamarono Palestina, in memoria dei Filistei; a est del fiume Giordano vi era la Giordania che all’epoca era chiamata Transgiordania mentre dal 1948 fu chiamata Giordania perché il re Abdhalla I conquista anche quella che era chiamata West-Bank, attuale Cisgiodania. Possedendo a quel punto entrambe le rive del Giordano, nonché la parte orientale di Gerusalemme, chiamò il suo regno “di Giordania”. Gaza invece

8 Lacoste lo fa più volte in diverse pubblicazioni di cui la più recente è « La géographie,

la géopolitique et le raisonnement géographique » in Hérodote, n°130, 3° trimestre, la Découverte, Paris, 2008, pp.17-42.

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era da sempre sotto controllo Egiziano. Furono proprio gli Egiziani a non richiederne il controllo dopo il trattato del 1979, lasciandola in mano ai Palestinesi con i quali erano in profondo disaccordo. Oggi Gaza è una vera fortezza per Hamas che, va ricordato, è il braccio Palestinese dei Fratelli Musulmani (organizzazione fanatica integralista nata proprio in Egitto, dove oggi rappresenta un peso importante, esprimendo il primo Presidente dell’era post-Mubarak). Insomma dobbiamo sovrapporre diverse cose come il metodo della Geopolitica ci insegna:

1) l’insediamento dei primi ebrei da cosa fu reso possibile? Dall’ab-

bandono delle pianure costiere. 2) Perché Gaza diventa una tale base per Hamas? Perché gli Egiziani

l’abbandonano inizialmente e perché proprio gli Israeliani fanno si che l’attenzione verso la religione divampi sperando che i Palestinesi si disinteressassero di politica, senza rendersi conto in realtà che la religione era diventato il collante della protesta palestinese dopo il crollo del marxismo/comunismo.

3) Come si crea questa delimitazione di Stati che oggi vede il sovrapporsi di diversi attori territoriali? Il crollo dell’impero Ottomano, l’arrivo dei protettorati Francesi e Inglesi che spartiscono l’area in modo utile ai loro fini del momento, lasciando, dopo la loro partenza, una situazione politica complessa con attori politici oramai ben strutturati e conflittuali.

Questa situazione trova un efficace detonatore nella fine della seconda

guerra mondiale, quando cioè comincia un vero e proprio ritorno in massa degli Ebrei verso la Palestina. Non si tratta più di un ridotto numero di coloni, soprattutto perché oramai la pianura costiera non è più paludosa ma terra coltivabile (avendola, i primi coloni, completamente o quasi bonificata). La situazione era tra l’altro già abbastanza critica negli anni ’30, quando si ebbero i primi incidenti tra Arabi da una parte e Inglesi e Ebrei dall’altra. Il tentativo dell’ONU di fare una ripartizione del territorio a Ovest della vallata del Giordano sfocia in quella che passerà alla storia come la guerra del 1948, vinta a sorpresa dagli Ebrei contro gli eserciti di Egitto, Siria, Giordania, Libano e Iraq.

In quella guerra Israele riuscì ad appropriarsi di tutti i territori costieri, da cui cacciò gli arabi e dovette arrestare la propria avanzata solo davanti le alture della Cisgiordania e alla parte est di Gerusalemme. Insomma parliamo delle uniche frontiere ancora oggi riconosciute internazionalmente di Israele. Ancora più interessante è che il territorio che ufficialmente costituisce Israele oggi (si escludono quindi territori occupati nel 1967) non coincidono con

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l’immaginario biblico del “grande Israele”9, bensì coincide con il territorio dei loro nemici storici: i Filistei!

È proprio con la “guerra dei sei giorni”10 che si viene a modificare anche la percezione di una parte degli Ebrei Israeliani (ma anche del Ebrei ortodossi nel resto del mondo). In effetti, gli ebrei ortodossi videro sempre con grande disprezzo il sionismo nazionalista e ogni tipo di lotta per la realizzazione di un vero e proprio stato di Israele. Per loro era importante essere su quella terra e, religiosamente, aspettare il ritorno del Messia. Per questo motivo gli ebrei dei Kibbutz erano per la maggior parte di sinistra e atei o, comunque, con un rapporto con la religione più laico dei loro conterranei ortodossi. Dalla guerra dei sei giorni invece, anche gli ortodossi iniziano a leggere in quella vittoria lampo un “segno del Signore” e quindi iniziano a vederne lo strumento per tornare ad occupare tutte le vere terre della Bibbia (non la pianura litoranea): Giudea e Samaria! In molti casi i gruppi ortodossi arrivano a sostenere che occorrerà rioccupare tutti i luoghi santi della Bibbia per poter assistere al ritorno del Messia.

Tutto questo, visto in prospettiva dal nostro presente, ci aiuta a capire meglio la recrudescenza del conflitto che si maschera dietro un fanatismo religioso ma che invece prende in ostaggio popolazioni, utilizza rappre-sentazioni altisonanti, da una pare e dall’altra, per controllare delle porzioni precise e piccole di territorio. La stessa costruzione della barriera (o muro) tra territorî controllati da Israele e quelli che sarebbero lasciati agli Arabi, è molto interessante: il suo tracciato si allontana sistematicamente dalla linea della guerra dei sei giorni (la famosa linea verde) per andare a inglobare diversi insediamenti ebraici. Allo stesso modo che la politica d’insediamento nella parte nord-orientale di Gerusalemme rende sempre più difficile la realizzazione di un accordo sul territorio tra Arabi e Israeliani.

Proprio nel caso di Gerusalemme occorrerebbe analizzare attentamente le posizioni che molto ebrei ortodossi occupano (gli haredim detti anche uomini neri per il loro abbigliamento rigorosamente in nero a parte una camicia bianca, con un tasso di fertilità altissimo: una media di otto figli a famiglia). L’insediamento degli Ebrei Israeliani è spesso presentato dai media come semplicemente una sorta d’invasione che miri a occupare tutto il territorio a scapito della popolazione araba. In realtà la politica degli insediamenti è molto più complessa è denota un’evoluzione particolare della politica in scala urbana tra ebrei non ortodossi e ebrei ortodossi. La popolazione haredim era particolarmente numerosa nella parte nord-occidentale della

9 Èretz Israèl ( ארץ ישראל ) in ebraico “Terra di Israele”, territorio tradizionalmente individuato come riferimento geografico della religione ebraica.

10 E così che viene chiamata la guerra vinta da Israele nel 1967 a causa della sua corta durata: 5-11 giugno.

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città (al di fuori di Gerusalemme l’unico insediamento comparabile è quello di Bné Brak, sulla costa settentrionale). Ma oramai il loro numero cresce a dismisura contro la volontà della stessa popolazione ebraica “laica” di Gerusalemme. Fino a quando gli ortodossi non s’interessavano di sionismo, nazionalismo o politica in generale, la cosa non era molto importante. Da quando invece hanno cominciato a costituirsi in formazioni politiche e a partecipare alla gestione della stessa capitale la situazione è cambiata. Quando poi si alleano al governo di Netanyahou del 1996 è proprio il Ministero dell’Edilizia e degli Alloggi che viene consegnato loro; in quel mandato di Governo ben 62 terreni, per un totale di 90.000 m², sono consegnati a istituzioni ortodosse contro i soli 2 per 1.700 m² consegnati a istituzioni laiche11. Questo ha una ripercussione immediata pesantissima: Gerusalemme vede diminuire la propria popolazione a vantaggio di aree come Haifa e Tel-Aviv e sono proprio i “laici” che partono. Uno dei fe-nomeni tipici quando gli haredim s’installano in un quartiere è un immediato abbassamento dei prezzi immobiliari e la popolazione non ortodossa resiste per un periodo ma dopo lentamente comincia ad abbandonare il quartiere stesso. L’arrivo degli haredim conduce a un cambiamento della vita quotidiana nel quartiere: tipologie di negozi che cambiano, tipologie di prodotti alimentari diversi, circolazione di vetture impossibile durante lo shabbat (in molte strade se si gira con la macchina ci si fa prendere letteralmente a sassate), bar e discoteche che chiudono. In questi ultimi anni l’insediamento degli haredim si sposta lentamente verso Est (la parte della città che prima del 1967 era sotto il controllo arabo e la cui occupazione da parte di Israele non è riconosciuta dal diritto internazionale). Oramai diverse parti a Est sono occupate da insediamenti più che stabili, allo stesso modo che diversi insediamenti ortodossi si sono strutturati in alcune parti di Cisgiordania e che, pur essendo in una parte di territorio occupato e quindi che prima o poi andrebbe restituito all’autorità Palestinese, sono oramai inclusi dalla barriera che Israele sta costruendo come rientrante nel territorio israeliano12. Questo vuol dire che Gerusalemme scivola in modo abbastanza rapido verso una sua “colonizzazione” religiosa-ortodossa? Non si può ancora affermare, ma certo non si tratta più della città nelle mani di partiti laici (fossero essi di destra o di sinistra) e questo pone già oggi seri problemi per il futuro. È probabile che la prossima tappa di “occupazione” da parte degli haredim sia proprio la città vecchia, dove nel quartiere arabo au-mentano sempre più gli acquisti fatti ad opera di ortodossi grazie ai

11 Encel F., « L’évolution spatial des Juifs orthodoxes à Jérusalem et en Cisjordanie : simple extension démographique ou réelle stratégie territoriale ? », in Hérodote, n° 130, 3° trim. 2008, la Découverte, Paris, 2008, pp. 43-58.

12 Encel F., Atlas géopolitique d'Israël, Autrement, Paris, 2008.

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finanziamenti fatti da fonti internazionali13. La cosa più interessante è che, nella disputa tra haredim e laici, un alleato della fazione ortodossa potrebbe proprio essere quella popolazione araba che voterebbe per loro alle elezioni municipali, pur di rallentare la politica di penetrazione Israeliana. Agli Arabi poco importa, in effetti, della rigidità nel rispetto della regola dello shabbat, molto importa invece se possono essere sicuri di vedere rallentare i nuovi insediamenti. 3. A una scala più piccola: lo scacchiere regionale e la Turchia

L’obiettivo di queste pagine non era quello di offrire un’analisi esaustiva

della questione israeliano-palestinese (una volta era chiamata arabo-israeliana), ma di mostrare come il metodo geopolitico, partendo da questioni territoriali precise, sovrapponendo livelli diversi di analisi, ci permette di arrivare a una migliore comprensione della faccenda. Certo poco si presta a un servizio televisivo di pochi minuti, o a un articolo di giornale molto breve, ma non si può sintetizzare troppo senza temere di non capire del tutto o, peggio, di offrire interpretazioni che possono condurre in errore. La questione israeliana e palestinese non è comprensibile se la si esamina senza ricordare il contesto in cui ci si trova, senza considerare il ruolo dei suoi vicini, senza considerare le dispute infinite tra sciiti e sunniti, trascurando il disprezzo che gli arabi più integralisti come i wahhabiti (a cui apparteneva lo steso Bin Laden)14 hanno per i Palestinesi. Come non esaminare l’ascesa di Hamas se non si guarda al movimento dei Fratelli Musulmani in Egitto e senza considerare il ruolo degli sciiti Hezbollah nel sud del Libano, alimentati proprio dagli sciiti Iraniani.

Proprio per questa situazione il ruolo dell’unico vero alleato di Israele e dell’occidente ma musulmano e in ottimi rapporti con quest’area del Medio Oriente è la Turchia, tanto vituperata e spauracchio di parte della popolazione europea. Il dibattito sull’ingresso della Turchia in Europa è, in effetti, un’altra prova (semmai ce ne fosse stato bisogno) di quanto i dibattiti nei media sono troppo spesso l’ombra di un vero dibattito. Questo terrore sull’eventuale ingresso della Turchia, dei musulmani che avrebbero invaso il vecchio continente, la paura di veder scomparire le radici cristiane della cultura europea, hanno in realtà impedito una visione più oggettiva della

13 Encel F., «L’évolution spatial des Juifs orthodoxes à Jérusalem et en Cisjordanie :

simple extension démographique ou réelle stratégie territoriale?», op.cit. 14 I Palestinesi sono storicamente molto laici, oltre tutto parte di loro sono Cristiani,

spesso hanno avuto dei leader omosessuali o donne, cosa inaccettabile per un walabita.

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questione. L’ingresso della Turchia in Europa sarebbe forse una delle cose più sensate in questa fase storica della politica mondiale e le nostre prove d’ignoranza rispetto a un Paese che ha fatto della laicità un vero dogma repubblicano non fanno altro che irritare (giustamente) i Turchi e spingerli sempre più lontano da noi.

Strategicamente il loro ruolo è fondamentale nella soluzione del contesto medio-orientale. Per esempio una delle richieste principali di Israele è una forza d’interposizione tra Egitto e Gaza per controllare il traffico di armi attraverso i famosi tunnel. Il Cairo si oppone ma un alleato di Israele sicuro che sarebbe accettato anche dall’Egitto è proprio la Turchia. Oltretutto la ricostruzione di Gaza dovrà essere fatta per venire incontro a una delle principali richieste di Hamas e questo può essere fatto proprio grazie al-l’industria edile turca. In questo modo Hamas sarebbe accontentata, l’Egitto accetterebbe il controllo delle truppe Turche e Mahamoud Abbas otterrebbe quella tregua lunga da Hamas per poter concludere gli accordi con Israele15. Oltretutto sono anni che Ankara vuole lanciarsi in un progetto di acquedotto che approvvigioni Israele (e ovviamente i Palestinesi) attraversando il territorio siriano. Insomma la Turchia potrebbe giocare un ruolo ancor più importante di quanto già non stia facendo la sua diplomazia (seppur la stampa italiana sistematicamente ne trascuri il ruolo). Non solo la Turchia avrebbe un ruolo fondamentale nei confronti della questione israeliano-palestinese, ma sarebbe fondamentale anche nella questione energetica. In effetti, il raddoppio del gasdotto “Nabucco” (in progetto) permetterebbe di aumentare l’indipendenza energetica dell’Europa rispetto a una Russia oggettivamente scomoda, ma quello che più conta non è tanto l’indipendenza rispetto a Mosca, quanto il coinvolgimento dell’Iran da parte di Ankara in modo da ridurre il ruolo degli estremisti sciiti a favore di fazioni più moderate, sempre in Iran, e automaticamente moderare il ruolo degli sciiti di Damasco e di Beirut.

Possiamo quindi concludere questa breve esposizione della questione Mediorientale proprio per mostrare come per capire e risolvere questioni che si osservano a livello locale si debba spesso procedere ad un’attenta analisi di eventi che si producono su scale ben diverse, spesso regionali, internazionali. E come si è potuto osservare di religione si è parlato ben poco.

Si sta cercando di mettere in risalto l’aspetto delle comunicazioni di

massa, non per rendere la geopolitica “moderna”, quindi come una piccola

15 Dello stesso parere era l’analista francese Adler che scriveva questa stessa analisi

nelle colonne del quotidiano le Figaro il 24 gennaio 2009.

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parte aggiunta per dare un senso di nuovo. Al contrario è qui che si scopre una delle caratteristiche più importanti della geopolitica e della sua contemporaneità: l’aspetto della rappresentazione (attraverso gli strumenti di comunicazione di massa). Più avanti affronterò direttamente questo aspetto, per ora continuerò a parlare della attualità del concetto di geo-politica.

È evidente come questo concetto sia contemporaneo, mentre non si può dire lo stesso dei conflitti territoriali dei periodi precedenti. Il coinvolgi-mento delle masse non è solo un aspetto strumentale o, peggio ancora, un corollario, come una nuova scenografia. Questo coinvolgimento ha portato ad un cambiamento sia dell’atteggiamento dei poteri centrali dei vari Stati che del modo di condurre la lotta/competizione per un determinato territorio. E in effetti questo denota una debolezza da parte dello Stato centrale nel condurre le proprie strategie “territoriali”: esso deve impe-rativamente cercare di ottenere la legittimità popolare. Se poi questa legittimità la si ottiene con delle false informazioni questo è relativo (in questo libro); conta che la geopolitica si caratterizza così con due elementi: democrazia e una certa debolezza dello Stato di fronte ai propri cittadini. Potremmo discutere sui livelli di democratizzazione dei vari Stati ma certamente non potremmo parlare di situazioni geopolitiche in casi in cui il popolo non ha la minima voce in capitolo; anche in casi di certe dittature il dittatore in questione può non permettersi di avere certe posizioni estreme senza cercare il consenso dei propri “sudditi” o quanto meno quello dell’opinione pubblica mondiale (era appunto il caso di Saddam Hussein quando oramai gli Usa stavano per attaccare l’Iraq). È la ricerca del consenso popolare che spinge l’attore politico a offrire delle rappre-sentazioni particolari della realtà.

Quanto fin qui scritto è di estrema importanza per la comprensione della geopolitica perché fino ad oggi la si considerava appannaggio del fascismo e del nazismo, quindi di Stati forti e non democratici. È per questo motivo, tra l’altro, che la geopolitica è stata tenuta in disparte per tutti questi anni!

Ma andiamo a vedere da dove trae origine la geopolitica, come prende forma, dove riesce a conquistare spazi di dibattito e divenire un vero e proprio strumento di analisi. 4. Come nasce la geopolitica

Per capire come nasce la geopolitica occorre fare un primo passo indie-tro e più precisamente a prima della nascita della Germania, quando v’era una Prussia importante e innumerevoli piccoli stati indipendenti ma che

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ruotavano comunque intorno all’Austria e al suo impero. L’Impero Au-striaco era molto diverso perché conteneva al suo interno nazioni molto di-verse tra loro. La strategia della Prussia, nella volontà unificatrice, era pro-fondamente diversa, perché mirava a unire tutti i “micro-stati” in cui l’area germanofona era frammentata, lasciando però fuori proprio l’Austria, per-ché troppo legata al suo Impero. Proprio per meglio diffondere questo pro-getto unificatore della Prussia, arrivando a costruire quella che sarà poi chiamata Germania, si decide, grande novità per l’epoca, d’insegnare la geografia a scuola e di farla insegnare dagli insegnanti di storia. Questa di-sciplina, insegnata insieme alla storia, avrebbero dovuto diffondere questo progetto e persuadere il futuro cittadino della Germania del bene d’un simi-le progetto. Il problema che richiede la geografia è quello della questione linguistica. Non volendo difatti fare l’unità di tutti i germanofoni (altrimen-ti avrebbero dovuto includere gli austriaci e questo l’elite prussiana non lo voleva) si disse che occorreva unire, nella Germania, tutti quei territori che venivano considerati omogenei. Nei manuali scolastici, quelli che potrem-mo comparare ai nostri “sussidiari”, questo tipo di paesaggi sono meticolo-samente descritti e non fanno altro che elencare la tipologia dei territori che oggi compongono la Germania: dal Baltico alle Alpi Bavaresi. È a questo punto quindi che prende prima di tutto piede un insegnamento scolastico della geografia. Questo richiede dei docenti che ovviamente devono essere formati all’università. Da questo nasce il primo passo per un’università di Geografia e il fatto che nasca in Germania è, come abbiamo appena scritto, tutt’altro che casuale. Tra l’altro proprio Kant fu insegnate di geografia per un breve periodo e fu uno strenue anche a riguardo non mancava di avere un parere ben preciso. Il filosofo, infatti, affermava quanto tempo e spazio fossero imprescindibilmente legati l’uno all’altro perché appartenenti en-trambi alle categorie primordiali del sapere. Per questo proprio lui era uno strenue difensore del fatto che fosse lo stesso insegnante a insegnare sia la geografia che la storia.

Il padre della geopolitica è considerato Friedrich Ratzel, a cui farebbe

seguito Haushofer che l’avrebbe resa vera “scienza” con i nazisti. In realtà non è esattamente così.

Il primo a usare questo termine fu un geografo svedese, Rudolph Kjel-

len (1864-1922), fortemente influenzato dall’opera del geografo tedesco Friedrich Ratzel. Ma va riconosciuto che Kjellen creò questa parola solo come diminutivo di Geografia Politica (esattamente quello che si critica oggi). Cioè realizzò un neologismo ma che non riempì di un significato specifico, semplicemente vi trasferì quello che c’era nei concetti di geogra-

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fia politica. Il primo studioso che veramente ne fa un uso diverso è certa-mente Ratzel che come tutti gli studiosi dell’epoca era sedotto dalle teorie darwiniane. Da qui, la selezione naturale, prenderà spunto Ratzel per pro-porre quel tristemente famoso spazio vitale. Teoria che verrà rapidamente adottata dai Nazisti (e ancora peggio copiata dai Fascisti nostrani) per giu-stificare “scientificamente” le ragioni di specifiche invasioni a scapito di altri popoli. Proprio Ratzel, sostenendo che le pianure fossero degli spazî naturali di espansione dei popoli più evoluti, incitava all’occupazione di quelle città che avevano una cultura tedesca. È su questo che salteranno a piè pari i nazisti di Hitler per poter dar libero sfogo alle loro intenzioni di invasione e sottomissione in un delirio di superiorità e di onnipotenza. Di-segno al quale gli Italiani del periodo mussoliniano non tardarono di crede-re e unirsi, galvanizzati anche dalla (seppur brevissima) occupazione Etio-pe. Ma, non fu direttamente Ratzel a spingere la Geopolitica alla notorietà e all’apprezzamento dei Nazisti, bensì il suo allievo Haushofer. Questi da mi-litare infatti guardò con grande interesse all’uso della Geopolitica per ar-gomentare una serie di cose, tra le quali proprio il concetto dello “spazio vitale”. Fu proprio Hausofer a entrare in contatto con Hitler tramite l’incontro che ebbe con Hess. Hausofer aveva ancora troppo chiare le ra-gioni della sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale (assenza di una vera visione strategica oltre i disordini operai di Berlino) per ripetere il medesimo problema. Sviluppa quindi quest’idea della Germania come grande potenza che deve diventare uno dei pilastri dell’Europa. Perché que-sto accada, occorre conquistare del territorio e quindi ribaltamento delle frontiere quali quelle definite dal trattato di Versailles. Riunificazione delle popolazioni germanofone in un solo stato e quindi eliminazione della So-cietà delle Nazioni. Sarà questa la vera linea della Geopolitica tedesca e particolarmente all’avvento dei Nazisti. Questo è il contesto in cui la Geo-politica tedesca diventerà famosa, non quello che le ha permesso di attec-chire. Abbiamo visto da dove viene l’inserimento della Geografia come di-sciplina sia scolastiche sia, di conseguenza, universitaria. Parliamo però della Geografia e non della Geopolitica. La ragione dell’elezione di questa a materia d’insegnamento deve però farci già capire come mai prenderà poi piede un insegnamento di Geopolitica: perché qui e non in un altro Stato.

Per essere precisi, il contesto in cui la geopolitica prende piede è la

sconfitta tedesca del 1918, cioè una situazione in cui il potere dello Stato era assolutamente debole (e non il contesto nazista degli anni trenta, quando lo Stato era più che mai forte). Alla fine del conflitto il Reich non esisteva più e la nuova Repubblica si vide imporre la più dura resa possibile. In effetti, sia l’arrivo degli americani nel conflitto, sia le rivolte comuniste di Berlino non

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lasciavano più spazi di manovra a questo giovane Stato che aveva visto la luce solo trentasette anni prima e che si chiamava Germania: ecco perché fu costretta a firmare un armistizio molto pesante. Ma proprio a un punto così critico della propria storia e soprattutto in un momento in cui lo Stato centrale era sicuramente meno forte, si scatena un dibattito profondo e articolato sul destino territoriale di questo Paese. Un dibattito che coin-volgeva tutta l’opinione pubblica tedesca e non solo una parte degli intellettuali o della classe politica. I primi a scatenarlo furono proprio i reduci di guerra che, dopo aver combattuto e tornati sconfitti dal fronte, subivano le scelte di frontiera imposte come assolutamente ingiuste: accettare oppure rifiutare (quindi continuare la guerra fino in fondo) le clausole imposte dalla coalizione vincitrice? Quali sono i territori da abbandonare? Quali sono quelli su cui non cedere? Con quali argomenti riuscire a conservare la sovranità sulla Prussia Orientale da cui traeva origine la stessa Germania?

Fino ad allora, mai un capo di Stato avrebbe chiesto il parere al proprio popolo su certe questioni, ma nella Germania dell’immediato primo dopo-guerra si era instaurato un dibattito autenticamente democratico (a parte certi incidenti) su problemi riguardanti la Nazione ed i suoi territori. La popolazione fino a quel momento poteva essere coinvolta su determinate questioni, come morale pubblica, chiesa, voto alle donne, ecc., ma mai su questioni concernenti lo Stato e il suo territorio, che erano considerate ap-pannaggio unicamente del re.

In questo dibattito un ruolo chiave fu giocato da quei docenti di geogra-fia e storia i quali si rendevano conto che i corsi di geografia, così come erano stati strutturati da Ratzel, non servivano assolutamente a dimostrare l’ingiustizia dei confini imposti. Le presupposte leggi geografiche scientifi-che ratzeliane non permettevano assolutamente di argomentare la critica alle frontiere designate dai vincitori. Ecco perché si cercò di sviluppare una nuova corrente: la geopolitica.

All’inizio il corpo accademico dei geografi era assolutamente contrario, ma i geografi esterni all’università trovarono appoggio in Haushofer, il quale, a causa della sua carriera militare e diplomatica, era rimasto a margine dell’università. Fu lui a dare vita alla rivista Zeitschrift für Geopolitik (Qua-derni per la geopolitica), indirizzata a tutta la popolazione, quindi semplice, con carte estremamente schematiche e ad effetto. Anche se Haushofer non di-sdegnò di riproporre certi argomenti della geografia politica, egli proclamò la geopolitica come una nuova scienza: “era un mezzo d’imporre le proprie tesi secondo un procedimento esplicitamente politico, molto diverso dal discorso accademico che aveva tenuto Ratzel nell’università”.

Fu proprio questo obiettivo che permise, all’arrivo del Nazismo al potere, di pervertirne l’uso facendone una disciplina che doveva servire prima di tutto

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a giustificare o legittimare una strategia di “conquista”. Questa strategia ebbe le conseguenze catastrofiche che noi tutti sappiamo: l’invasione verso Est del-la Germania nonché poi l’apertura a Ovest. Lo scoppio del secondo conflitto Mondiale e tutte le catastrofi di una guerra di scala dobbiamo cercare di fare il legame tra lo sviluppo che Hausofer saprà dare alla disciplina e la ragione del suo collegamento con questa volontà di occupazione di un territorio fonda-mentale, considerato come pilastro di una potenza. Questo è pienamente nella cultura di quel periodo particolarmente se pensiamo ai lavori di Mahan e di Mackinder. Entrambi parlano del ruolo fondamentale per una potenza di un determinato territorio. Il primo parado alla fine dell’800 del primato Britanni-co sul mare e quello Russo sulla terraferma. Il secondo pochi anni dopo par-lando del ruolo dell’heartland che si trova nell’Eurasia, in territorio russo. En-trambi in realtà non avranno poi ragione (particolarmente Mackinder indivi-duando un’area che già dal secondo conflitto mondiale in poi non avrà più questo ruolo importante) ed entrambi non scriveranno la parola geopolitica in nessuno dei loro lavori. Entrambi però saranno un solidissimo riferimento per tutti coloro che alla geopolitica si dedicheranno. E soprattutto offriranno un’altra base su cui appoggiare le teorie che sostenevano la Germania nella sua scelta di affermazione di potenza. La connotazione della Geopolitica con il nazismo (e il fascismo, non dimentichiamolo) la si che con la fine della se-conda guerra mondiale si assiste a una vera e propria proscrizione della parola geopolitica.

A conclusione di questa parte possiamo indicare il punto di origine di due importantissime scuole di geografia contemporanea (quella tedesca e quella francese) nelle persone di Haushofer da una parte, che come abbiamo appena visto era rimasto ai margini del mondo universitario, e di Élisée Reclus in Francia, anche lui rimasto al di fuori del mondo universitario francese. En-trambi quasi a dimostrare che il percorso della ricerca universitaria di due Paesi, in cui certo non mancavano delle scuole di geografia, fosse entrato in una specie di cul de sac dal quale bisognava farlo uscire al più presto.

5. Caratteristiche di una situazione geopolitica

Abbiamo fin’ora parlato di situazioni geopolitiche, ma in realtà occorre essere più precisi a riguardo.

Quando parliamo di geopolitica alludiamo a un metodo di analisi utiliz-zabile in determinate situazioni, quelle che definiamo come geopolitiche per l’appunto. Affinché determinate situazioni possano essere analizzate con il metodo proprio della geopolitica occorre che esse posseggano deter-minate caratteristiche.

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Queste caratteristiche sono: a) la posta in gioco: il territorio; b) due o più attori che si contendano la posta in gioco; c) una popolazione che venga coinvolta in questo contendere. Una situazione geopolitica si definisce, stando alla definizione di questa

data da Yves Lacoste e citata poco sopra, in un dato momento di un’evo-luzione storica, attraverso delle rivalità di potere (qualunque sia la loro importanza) e dei rapporti tra le forze situate sulle diverse parti del territorio in questione. Tutto questo qualunque sia l’estensione territoriale (dalla scala planetaria a quella urbana) e qualunque sia la complessità dei dati geografici (rilievo, clima, struttura della popolazione, ecc.). Chiaramente le rivalità di potere a cui per prime facciamo riferimento sono quelle tra Stati, grandi o piccoli che possano essere. Sono essi i primi attori che si contendono parti di territorio. Le ragioni del contendere sono tante e diverse tra loro. Possono essere il volersi accaparrare una risorsa presente su di un dato territorio, come giacimenti petroliferi, gas naturali, minerali preziosi, ecc. Ma esistono anche ragioni difficili da comprendere (e da comunicare) che non sono neanche rare da trovarsi. Sono forse quelle – oggi più frequenti – che fanno riferimento ad origini storiche, spesso confuse ed alterate nella loro origine, oppure a complicati interessi economici incrociati ed estremamente articolati. Su quelle che sono le conflittualità interne torneremo nella seconda parte di questo testo e lo faremo anche in modo molto articolato. Qui ci limiteremo a parlare ancora delle caratteristiche della geopolitica e più particolarmente delle rappresentazioni e dei livelli di analisi.

Nei conflitti troppo spesso ci lasciamo prendere da punti estremamente circoscritti, fatti delimitati nel tempo e nella loro effettiva ripercussione ter-ritoriale. Mentre quello che non bisogna mai dimenticare è di cercare di comprendere le ragioni, le idee degli attori di questi conflitti, anche qualora si rivelassero false. Sono queste ragioni, queste idee che uniscono l’attore con la parte di opinione pubblica che rappresenta. È questa relazione, que-sto modo di influenzarsi a vicenda, tra attore e opinione pubblica, che de-termina le possibili strategie e ci aiuta a comprendere i veri obiettivi delle forze in campo. La comunicazione che si viene a creare tra attore ed opi-nione pubblica è la rappresentazione.

Vediamo cosa vuol dire, per un geografo, la parola rappresentazione (e ci renderemo conto che è fondamentale).

Sappiamo che etimologicamente essa proviene dal latino repraesentare, che vuol dire “rendere presente”, e che il suo uso attuale proviene in realtà dal Medio Evo quando cominciò a essere utilizzata per le “rappresentazio-ni” artistiche sia teatrali che plastiche. Ma è dal XVIII secolo che il termine

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rappresentazione assume anche una connotazione politica attraverso l’uso delle rappresentazioni della Nazione e sarà dall’ottocento in poi che ve-dremo apparire le prime rappresentazioni della realtà fatte con la fotografia.

A questo punto è importante ricordare il collegamento fondamentale con la geografia: la cartografia.

Le carte geografiche, in quanto riduzione della realtà, sono delle rappre-sentazioni della stessa e, col passare del tempo, sempre più dettagliate e complesse. Ricordiamo che in realtà la cartografia ci permette di vedere quello che non è altrimenti visibile. Pensiamo alla visibilità del delta del Po, per esempio, o del Nilo, ma anche l’insieme delle valli delle Alpi. Si tratta di cose non visibili senza una cartografia perché senza il volo non si potevano vedere queste cose dall’alto e comunque anche volando ci sono dei punti di vista che sono coperti e che quindi verrebbero nascosti. Anche se per esempio la fotogrammetria aerea ci permette oramai una visione d’insieme, in realtà essa da sola non riesce a sintetizzare quello che una carta geografia invece fa. Da questo punto di vista, quindi, le carte geografiche sono la prima rappresentazione del territorio che permette all’uomo di vedere quello che altrimenti non poteva vedere.

Joan Blaeu (1596-1673), un famoso olandese autore di due bellissimi globi, sia terrestre che celeste, datati 161616, secondo molti pirata, secondo altri cartografo (molto probabilmente era entrambe le cose), diceva una co-sa bellissima: “Le mappe ci permettono di contemplare, nella comodità del-le nostre case, e proprio di fronte ai nostri occhi, cose che sono molto lon-tane”. “Avvicinare ciò che è lontano, rendere visibile l’invisibile, questa non è scienza e non è neppure arte: è alchimia”17. E comunque ha ragione Svetlana Alpers quando ci ricorda come era definito come cartografo: “[...] Colui che descrive il mondo”18 o ancora meglio riesce a fare Harvey dicen-do che “In geometria descrivere significa disegnare o tracciare una retta o la sagoma di un oggetto. In Poesia, significa arrivare all’essenza delle cose, farle vivere con parole incantevoli e penetranti”19.

Ma, la nozione di rappresentazione per i geografi non si ferma qui, anzi, dovrebbe avere ancora più importanza come ci mostra la sua stessa storia. La parola “geografia” significa, da sempre, rappresentare la Terra, dato che graphein in greco significa scrivere, ma anche disegnare, rappresentare.

16 Si possono vedere nella sala più importante della collezione Spada a Palazzo Spada,

sede del Consiglio di Stato, a Roma. 17 Harvey M., L’isola delle mappe perdute, Rizzoli, Milano, 2001, p. 117. 18 Alpers S., The Mapping Impulse in the Dutch Art, in Art and Cartography: Six Historical

Essays, a cura di David Woodward, University of Chicago Press, Chicago 1987, p. 59. 19 Harvey M., L’isola delle mappe perdute, op.cit., p. 115.

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Come ci fa notare Lacoste20 “[...] logos, il discorso, si scrive anche lui, ma fa riferimento a delle rappresentazioni disegnate della realtà solo a partire dal XVIII secolo (il termine geologia, che data 1751, all’inizio voleva solo dire discorso sulla Terra). Se si è dedicata tanta energia nella costruzione di queste rappresentazioni cartografiche, è perché la loro utilità era evidente, non solo per i navigatori ma anche per i ‘signori’ della guerra e i grandi servitori degli Stati”.

Sarà nel XX secolo che la parola “rappresentazione”, utilizzata come strumento di conoscenza della realtà, troverà diffusione anche nelle altre scienze, comprese in quelle che si avvalgono del linguaggio matematico, in quanto segni e immagini che vengono costruiti progressivamente in funzione delle ipotesi e delle esperienze e che rappresentano determinate parti della realtà. Proprio perché si tratta di rappresentazione, parole come “struttura” e “sistema” conoscono un tale successo nelle varie discipline scientifiche.

Il bisogno di confrontare le diverse rappresentazioni negli studi delle va-rie scienze umane deve essere applicato anche a questioni riguardanti l’o-pinione pubblica, perché i mass-media propongono diverse rappresentazio-ni secondo i vari casi, i conflitti e i vari attori in causa. Cerchiamo quindi di concludere intorno al tema della “rappresentazione” (in effetti si potrebbe scrivere un libro intero solo su questa parola).

La parola “rappresentazione” è perfetta per indicare ciò che si vuole spiegare, perché si presta a due interpretazioni:

1. la prima interpretazione è quella di disegno e le carte geografiche so-

no una rappresentazione. Sempre più nelle decisioni politiche che ri-guardano il territorio vengono usate le carte come supporto “scienti-fico”, come base di obiettività, perché le carte sono “scientificamente vere”. Dobbiamo invece tenere sempre presente che le carte geogra-fiche sono assolutamente soggettive: esse sono lo strumento con il quale un geografo comunica un’idea (la sua idea, una tra le tante);

2. la seconda interpretazione del termine “rappresentazione” è quella teatrale. L’atto teatrale che rende presente simbolicamente perso-naggi e situazioni drammatiche, cosa che è anche propria della geo-politica.

Ripartiamo quindi da questo punto per cercare lentamente di avvicinarci

al significato completo della parola “geopolitica”, almeno nel senso che io voglio darle in questo libro.

20 Lacoste Y., De la géopolitique au paysage. Dictionnaire de la Géographie, Armand

Colin, Paris, 2003. Vedere voce “répresentation” p. 330.

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Ricordiamo che “[...] le opinioni geopolitiche che si affrontano o si con-frontano, trattandosi di rivalità di potere su dei territori e sugli uomini che vi abitano, sono rappresentazioni cariche di valori, più o meno parziali, ba-sate su situazioni reali le cui caratteristiche obiettive non sono assolutamen-te facili a determinarsi”21. Un attore che cerca di battere il proprio rivale ar-riva ad inventarsi qualsiasi cosa, prima tra tutte l’affermazione della scien-tificità della propria tesi al fine di ottenere la supremazia sul territorio con-teso. Per questo si fa riferimento a tesi storiche “scientifiche”, o a “leggi naturali”. Non ultimo il ricorso alla geografia fisica, dove si cercano spie-gazioni da imporre al proprio avversario, mostrando così l’indiscutibilità delle proprie affermazioni.

A questo proposito un altro esempio ci viene fornito da un attore politi-co italiano che sicuramente non manca di fantasia riguardo alla panoplia di strumenti utilizzati per affermare una identità propria.

La Lega Nord, nata dalla fusione di tre movimenti regionali profonda-mente divisi e che ancora oggi non smettono di guardarsi con vera diffiden-za, ha sempre cercato di mostrare la “scientificità” della propria esistenza su delle basi identitarie precise. In realtà, in quanto partito politico a base carismatica, essa si appoggia su un elettorato ben preciso e che molti hanno già copiosamente studiato22. Quello che interessa mostrare in questo lavoro è l’uso dei discorsi fatti e delle indicazioni date.

Il bisogno di ancorarsi a un solo territorio, inteso come un unico insie-me, è tale che si sono dovuti andare a pescare i famosi Celti per poter cer-care del “sangue” comune. La cosa è estremamente interessante visto che se c’è un territorio d’Europa in cui mai potremo individuare del “sangue comune” (ammesso che questa definizione abbia un senso) questo è proprio il territorio italiano, dove praticamente fin dall’alba dei tempi ci si dava ap-puntamento per potersi fare la guerra, e in particolare proprio in Val Pada-na. Effettivamente tra “barbari” del Nord e “barbari” del Sud la nostra pe-nisola è stata un incredibile luogo di passaggio e di scontro e cercare quella che possa essere indicata come la sola e unica identità, l’originale, quella del Dio Po, è impresa assai ardua.

Ma quello che ci interessa di più non è dare ragione o torto a coloro i quali fanno appello ai Celti per dire da dove vengono. Quello che ci impor-ta è vedere come si costruisce questa rappresentazione. Da qui i festival di musica celtica e se si accende Radio Padania Libera, tra un dibattito e l’altro, troveremo sicuramente un brano di musica celtica. Ovviamente chi

21 Lacoste Y. (a cura di), Dictionnaire de geopolitique, op. cit., la traduzione è mia. 22 Uno per tutti, per non citarne troppi, Ilvo Diamanti con il suo oramai famoso La Lega,

Donzelli, Roma, 1993.

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scrive non ha nulla contro questo tipo di musica, al contrario, ma sorprende molto vederla usata come la musica delle “origini”.

Lo stesso simbolo del Sole delle Alpi è in sé una fonte interessante. Nel caso della Regione Lombardia, il suo simbolo è una forma stilizzata

della Rosa Camuna, un graffito, ritrovamento archeologico, rinvenuto in una grotta della Valle Camonica, e sul sito web della stessa Regione Lombardia si trovano tutte le informazioni utili sulle origini di tale simbolo, tra cui foto-grafie varie e spiegazioni su come dalla “rosa originale” si è passati a quella stilizzata di oggi sulla bandiera regionale. Certo molti discutono di un simbolo camuno collegato a tutta la regione, compresi, solo per citarne due, Pavesi e Mantovani: si sentiranno uniti da questo simbolo? A loro rispondere.

Il Sole delle Alpi invece esisteva già e per vederlo basta andare in alcu-ne località dei Paesi Baschi francesi e visitare qualche negozio di bianche-ria per la casa. Infatti, i Paesi Baschi sono famosi per produrne un genere un po’ rustico ma sicuramente resistente; oltretutto questi prodotti hanno sempre più successo. Il simbolo classico dei Paesi Baschi è estremamente simile alla Rosa Camuna utilizzata dalla Regione Lombardia, e cioè un fio-re a quattro petali a svastica curvata. Ma vi è un altro simbolo sempre, nei Paesi Baschi, utilizzato un po’ meno di quello più famoso e che diversi an-ni fa fu adottato da un’azienda francese che produce biancheria per la casa: è lo stesso Sole delle Alpi della Lega Nord, però in rosso.

Fermiamoci a questo punto per evitare di addentrarci troppo nella deco-dificazione dei simboli, discorso più adatto a un semiologo che a un sem-plice geografo; diciamo solo che le “rappresentazioni” hanno un ruolo fon-damentale e certamente non sono semplici da decodificare: nel caso della Lega Nord occorreva qualcosa che andasse contro la “romanità” magari an-che antecedente, ma che al tempo stesso non scendesse nel dettaglio locale di Friulani, Veneti, Lombardi, Piemontesi, ecc. Ecco quindi apparire i Celti. L’esercizio è sicuramente periglioso, ma comunque oramai ha preso piede.

Possiamo affermare a questo punto che esiste, forse, una sola maniera per affrontare con un rigore “scientifico” qualsiasi situazione geopolitica: il dirsi fin dall’inizio che qualsiasi situazione geopolitica verrà sostenuta da rappresentazioni divergenti, contraddittorie e più o meno antagoniste.

Bisogna, quindi, affrontare tutte le rappresentazioni date con questo principio; ma si deve cercare anche di andare oltre, superando l’opposizio-ne dei punti di vista in campo per cercare di produrre una visione più obiet-tiva della situazione. Non facciamoci ingannare dal fatto che la maggior parte dei conflitti frontalieri veda la presenza di due attori (due Stati, salvo dovute eccezioni) per poter affermare che esistono semplicemente due rap-presentazioni. La maggior parte degli Stati hanno più vicini e con ciascuno di essi hanno rappresentazioni diverse. Per analizzare queste situazioni bi-

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sogna andare oltre l’analisi delle tesi ufficiali sostenute, esaminando tutto quello che dietro una determinata affermazione vi può essere.

Esempi se ne possono fare tanti. Basti pensare che un Paese A può avere con un Paese B suo vicino dei rapporti e delle strategie influenzate da un Paese C situato a migliaia di chilometri. E non è assolutamente detto che questo possa trasparire nelle tesi ufficiali sostenute dai due Paesi confinanti (A e B).

La particolarità, però, non si ferma qui. Non è difficile trasporre questa griglia di lettura al confronto che due

partiti possono avere su di una parte del loro territorio nazionale. La rap-presentazione che un partito proietta di se stesso in un dato territorio può essere diversa da altre rappresentazioni date in altre parti del territorio na-zionale, sempre dallo stesso partito. E le motivazioni che possono condurre a simili contraddizioni possono non essere lette nell’immediato, trovando spiegazioni in fatti passati, o azioni che verranno condotte in futuro e di cui si prepara il campo.

Il caso dei partiti è particolarmente interessante perché in Italia essi hanno una fortissima connotazione locale e quindi il gioco delle scale è an-cora più evidente.

6. L’uso della cartografia come rappresentazione

Le rappresentazioni hanno un ruolo fondamentale nella geopolitica e per questo motivo sarà necessario dedicare qualche riga in più a questo concet-to.

In particolare ci interessa l’uso della cartografia fatta per veicolare certe rappresentazioni. Sappiamo oramai che le carte geografiche in sé non han-no nulla di scientifico e non sono altro che una forma di rappresentazione. Tutte le cartografie, anche la semplice carta murale dell’Italia fisica che ve-diamo appesa ai muri delle classi di liceo. La carta geografica non rappre-senta altro che l’idea del cartografo che l’ha disegnata e se un altro carto-grafo si cimentasse, anche se dovesse rappresentare lo stesso territorio, non la farebbe mai allo stesso modo. Da questo punto di vista possiamo affer-mare che ogni carta è unica nel suo genere, persino le carte tematiche rea-lizzate con un computer.

L’aspetto cartografico è talmente importante e talmente efficace che nessuno degli addetti ai lavori se ne priva e d’altronde le cartografie vengono sempre più spesso utilizzate dai media sia per questioni di politica interna che di politica estera. Questo sempre con il principio secondo il quale “perché c’è una cartina a mostrarlo allora le cose sono certamente vere”. Diciamo che si

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assiste a una certa “scientificità” acquisita, solo per il fatto che si usa una cartografia a supporto dell’ipotesi che si vuole sostenere.

In Italia l’uso delle cartografia a supporto di un’ipotesi è meno diffuso che in altri Paesi europei, perché la scarsa abitudine del grande pubblico alla lettura delle cartine geografiche fa sì che ci sia anche poca dimesti-chezza alla lettura del “messaggio” che esse possono contenere.

Cominciamo quindi da un esempio di grande rilevanza per la politica dell’Unione Europea.

All’inizio degli anni novanta un gruppo di geografi francesi proponeva una rappresentazione dell’Europa e con essa della Francia abbastanza parti-colare. Si trattava della dorsale europea (anche definita cuore d’Europa) in seguito soprannominata “banana blu”.

La cartografia era fatta in modo molto semplice con la dorsale in Blu (da cui il nome di Banana Blu appunto) l’area economicamente più ricca d’Eu-ropa o quanto meno quella che rappresenterebbe il ruolo della locomotiva. Gli assi indicherebbero, invece, gli assi principali di comunicazione tra le varie città Europee. Sul lato sinistro vi era poi l’arco atlantico che includerebbe tutte le Isole Britanniche e la costa atlantica della Francia, nonché tutta la metà oc-cidentale della Spagna, compresa Madrid, e il Portogallo. Chiediamo ci quindi quale fosse vent’anni fa l’obiettivo di questa rappresentazione.

Prima di rispondere occorre precisare che quella cartografia ha conosciuto il massimo successo durante il periodo in cui Ministro degli Interni era Charles Pasqua (tra un po’ vedremo perché sottolineiamo questo punto). Se si osservava con attenzione si poteva notare che vi erano due cose di rilievo: un errore e una truffa.

L’errore era l’inspiegabile collocazione di Vienna al di fuori dell’Au-stria. La truffa invece era un’altra. Se gli assi indicano i punti di maggior traffico e intensità di comunicazione d’Europa, come mai mancava l’asse Londra-Parigi che è sicuramente quello con la più intensa circolazione di uomini come di merci?

Il sentimento che suscita questa cartografia quando viene mostrata al pubblico francese (perché è stata costruita prima di tutto per loro) è proprio quella di “paura”, di essere stati estromessi da qualcosa, di essersi ritrovati a “margine”. I francesi, abituati da sempre a vedere nella politica “comuni-taria” un semplice prolungamento della politica francese (basta vedere la collezione di quotidiani come Le Monde e Le Figaro per rendersi conto di quanto poco spazio l’Unione raccolga nella stampa transalpina), di colpo si ritrovano “tagliati fuori”.

Perché un Ministro degli Interni come Pasqua di colpo sostiene una car-tografia di questo genere? Perché improvvisamente si ritrova a sostenere una rappresentazione della “perifericità” della Francia?

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Il discorso era molto più semplice di quanto ci possa sembrare in realtà. Pasqua era da sempre un antieuropeista o comunque la sua visione di Unio-ne Europea (che tanto per cominciare non sarebbe mai dovuta arrivare a chiamarsi così) era di poco oltre un mercato comune – ovviamente di mo-neta unica o di difesa comune o peggio ancora di politica estera comune non si sarebbe neanche dovuto parlare.

Quando Pasqua arriva al Ministero degli Interni nel 1993 con il governo Balladur, iniziò una strategia precisa, che era quella di fermare la dele-gazione di poteri all’Europa.

La rappresentazione di quella cartografia era molto semplice da questo punto di vista (ogni cartografia in geopolitica deve essere semplice, chiara e d’effetto): Parigi veniva rappresentata totalmente fuori dalla zona “motrice” dell’economia europea e soprattutto veniva mostrata quasi periferica. Basti pensare che nella cartografia della “banana blu” l’unico collegamento in-ternazionale degno di nota per la capitale francese sarebbe stato quello con Bruxelles, come a dire che si assiste a una fase di regressione della ville lumière.

La sintesi di quella rappresentazione era efficacissima. Pasqua mandava a dire ai suoi connazionali che tutto il lavoro fatto negli anni precedenti al governo Balladur, quindi gli ani del primo settennato di Mitterand, con po-litiche fatte per andare verso un certo tipo di Europa e che ha visto la Fran-cia consegnare, come tutti gli altri Paesi d’Europa, una grande quantità di potere a Bruxelles, non ha fatto altro che ridurre il ruolo della Francia. Il ruolo considerato importante e centrale (soprattutto) dall’esagono d’oltralpe di colpo diventava marginale (fuori dal cuore pulsante d’Europa) e di poca importanza (gli altri Paesi non comunicano molto con “noi”).

Si mostrava quindi una Francia che non contava più (o sempre meno) a Bruxelles, quindi che doveva cambiare politica se avesse voluto ritrovare un nuovo ruolo internazionale e importante da giocare. Questo avrebbe le-gittimato una maggiore libertà d’azione da parte di Pasqua all’interno del proprio Paese e soprattutto il via libera a delle politiche di sviluppo interne alla Francia riducendo il ruolo dell’Unione Europea.

Non è un caso se accanto a questa rappresentazione (la banana blu) si proponeva quella dell’arco atlantico. La linea che corre da sud includendo Madrid fino a nord includendo la parte occidentale della Scozia è stata di-segnata sempre dai geografi di Montpellier23 e lasciava intendere che tutti i territori a ovest di quella linea avevano delle caratteristiche e delle proble-matiche comuni dovute al fatto che si affacciano sull’Atlantico (sic!) e

23 Si tratta del gruppo chiamato “GIP-Reclus” che faceva capo, all’epoca, al geografo

francese Brunet, oramai ritiratosi da ogni tipo di attività.

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quindi meritavano degli strumenti precisi di intervento per coordinare la loro azione. La ragione è presto detta.

Delle sei porte d’accesso alla zona dell’arco atlantico la più importante è quella di Nantes, che guarda caso si trova proprio in Francia.

In poche parole la rappresentazione completa di quella cartografia qual è?

Per i francesi l’Unione Europea non doveva più avere un ruolo. Anni di politica pro-Unione non avevano portato grandi frutti. I francesi dovevano per questo motivo ridurre il loro pro-europeismo e soprattutto dovevano identificare nuove realtà, dove potevano invece giocare un ruolo centrale, nuove situazioni in cui potevano prendere le cose in mano e gestirle con una nuova centralità.

Al contrario esistevano assi di sviluppo nuovi (sempre secondo l’autore della carta n. 1).

Nella cartografia in questione, infatti, l’asse principale delle relazioni europee era quello che corre da Copenhagen fino a Madrid, via Bruxelles-Parigi. Quest’asse sarebbe dovuto diventare addirittura ben più importante dell’asse Londra-Parigi-Lione (che dovrà proseguire per Torino-Milano-Lubiana).

La forzatura di questa rappresentazione è evidente. L’asse Parigi-Bruxelles esiste e sicuramente è uno dei più intensi d’Europa (oramai si fa in 80 minuti di TGV) ma certo non si può dire che esista un asse importante che corra diagonalmente dalla Scandinavia alla penisola Iberica, come in-vece si sosteneva nella cartografia della dorsale europea.

Come un’altra enorme forzatura era quella di voler mostrare che un pe-scatore delle isole Shetland avrebbe dovuto avere qualcosa da spartire con un allevatore di pecore della Castiglia.

Per quanto possa sembrare assurdo, soprattutto dopo questi commenti, oc-corre dire che invece la cosa ha avuto successo. Prima di tutto la zona definita come arco atlantico si ritrovò all’interno di una delle zone previste da Interreg III, quindi una delle zone in cui le regioni che ne fanno parte potevano propor-re dei progetti comuni. In questo modo, quindi, si offre una legittimità politica a una delimitazione che praticamente non ha senso o comunque non più di al-tre che potremmo inventarci. Basti pensare che il commerciante di Glasgow può proporre progetti comuni con l’imprenditore di Madrid, ma invece non si può proporre un progetto di cooperazione tra Tolosa (capitale europea dell’aerospaziale e dell’aeronautica) e Torino (che è la città italiana che più lavora nel settore aerospaziale).

Come possiamo capire la rappresentazione iniziale, che è evidentemente una proposta opinabile (assolutamente non più valida di qualunque altra e certamente priva di ogni tipo di scientificità), si ritrova a essere integrata

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ufficialmente nei piani di sviluppo dell’Unione Europea (qualunque possa essere il loro peso).

E la banana blu? Le cose in questo caso sono ancora più semplici. L’origine “scientifica”

di quella cartografia è una foto satellitare notturna dell’Europa che quindi mostra i punti più luminosi. Il principio è quello di dire che le aree for-temente illuminate sono quelle che producono di più, visto, per l’appunto, che non smettono di aver bisogno di luce. La logica è efficace, anche se certamente non univoca. Restano alcuni problemi.

Il Belgio ha le strade illuminate. Ma soprattutto è vero che Parigi ha una zona di discontinuità con la parte più a Nord-Est (c’è una vasta zona della Picardie che non è illuminata e che è totalmente campagna), ma è anche ve-ro che se si è inserita Londra, nonostante il buio della Manica, e Milano, Torino e Genova (nonostante il buio delle Alpi) perché non inserire anche Parigi? Se è chiaro che esiste una logica nell’aver inserito la capitale ingle-se e le città industriali italiane (anche se non c’è una illuminazione continua è evidente che fanno parte della zona motrice d’Europa), perché non aver fatto la stessa cosa con Parigi che con la regione Ile-de-France è sicuramen-te una delle più dinamiche d’Europa?

Perché la rappresentazione che si voleva dare era quella di una Francia quasi in pericolo di estromissione. La costruzione di una rappresentazione basata sulla “paura” ha un chiaro senso logico e cioè quello di legittimare ulteriormente la “nuova” strategia dell’attore pubblico nazionale. La paura dell’estromissione, del restare indietro (sentimento terribile nella cultura dei francesi) è tale che legittimerebbe delle politiche diverse purché fossero volte al recupero di un ruolo centrale.

La stessa rappresentazione della banana blu, per quanto possa sembrare opinabile o direttamente criticabile, ha comunque ottenuto una tale legitti-mità e soprattutto una tale notorietà da essere non solo definita con una cer-ta ufficialità (basti pensare che è stata pubblicata per questo motivo, in tutti i manuali scolastici di quel periodo) ma è riuscita a trovare spazi importanti all’interno delle strategie di sviluppo dell’Unione Europea.

Lo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo (SSSE), documento non coercitivo dell’Unione che contiene le linee guida dello sviluppo territoriale dell’Unione stessa (firmato a Potsdam nel 1999 da tutti i Paesi membri), ha pienamente integrato quello che è il concetto della banana blu e cioè questa visione di un cuore pulsante del continente al quale si deve agganciare il re-sto dell’economia europea. Quello che è paradossale è che lo stesso SSSE in realtà mette in atto tutta una serie d’indicazioni proprio per evitare una forma

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di mono-centralità e cercare di costruire una forma di policentrismo nelle va-rie parti della UE; al tempo stesso però tutte le grandi infrastrutture volute da Bruxelles (quelle che vengono indicate come le quattordici grandi infrastrut-ture di cui la stessa Malpensa 2000 faceva parte) lavorano sempre di più per agganciarsi alla sola linea che conta e cioè alla dorsale europea. In dieci anni, quella che non era altro che una rappresentazione nata da una fotografia not-turna satellitare è diventata una vera e propria visione ufficiale di istituzioni europee. Ma non solo: essa è stata utilizzata a sua volta da istituzioni interne ai vari Stati come una vera e propria forma di “documento ufficiale” a cui fa-re riferimento, come rappresentazione originale a partire della quale costruire altre rappresentazioni.

È stato il caso della regione francese Alsazia che ha usato la rappresen-tazione della dorsale europea come punto di partenza per mostrare una va-riazione che servisse le strategie del proprio consiglio regionale di fronte alla strategia del governo centrale.

Come abbiamo potuto modo di spiegare la dorsale europea, come indi-cata originariamente, non è una forma definita con precisione ma è appros-simativamente definita come un arco centrale che attraversa una certa parte del territorio dell’Unione.

Nella definizione fatta dall’Alsazia, invece, la banana blu è definita in modo diverso in tre diverse parti:

– la parte Nord, che resta approssimativamente indicata da una curva

come nella sua forma originale seppur con l’aggiunta di frecce che indicherebbero uno spostamento verso est della parte produttiva del-l’Europa;

– le due estremità, indicano scivolamento abbandonando l’Inghilterra a favore dell’Italia e soprattutto verso Roma;

– la parte Ovest, che invece ha una incredibile stranezza. Infatti a diffe-renza della sua parte Nord la linea non è più una curva approssimati-va che attraversa territori in modo generico, bensì è particolarmente precisa e si sovrappone perfettamente alle frontiere sia dell’Alsazia che del resto della frontiera nord della Francia. Più precisamente in-clude perfettamente la Regione Alsazia al suo interno ma estromette, con la stessa precisione, tutta la parte nord della Francia che invece era inclusa nella versione originale della dorsale europea.

Si era partiti da una cartografia dell’Europa nata da una fotografia satel-litare che mostrava le zone di concentrazione luminosa dell’Unione per ot-tenere una cartografia che (condivisa oppure no) individuava un’area ap-prossimativa che avrebbe dovuto indicare il cuore economico dell’Europa.

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Da quella rappresentazione (opinabile) di una certa parte d’Europa si è ar-rivati a una rappresentazione che è fatta da una parte precisa tanto da so-vrapporsi a delle frontiere amministrative come quelle regionali e statali francesi, dall’altra invece continua a essere basata su una rappresentazione approssimativa.

Le ragioni della Regione Alsazia sono molto semplici: voleva ritrovare una certa centralità rispetto alla strategia del governo centrale. Se da una parte il governo francese lamentava una perdita di centralità rispetto al “cuore” dell’Europa, l’Alsazia per parte sua affermava che essa, come re-gione francese, rappresentava l’ultima possibilità per poter restare ancorati alla dorsale europea e permettere alla Repubblica Francese di restare ag-ganciata alla locomotiva dell’economia europea.

Dietro la loro rappresentazione esisteva tutta una proposta. Si trattava di rilanciare il ruolo della parte orientale francese facendo di Basilea la capita-le finanziaria, della parte tedesca confinante (il Baden-Wuttenberg) la zona “parco imprese” e di Strasburgo il polo sia di ricerca che di servizi per le imprese. In questo modo la Regione Alsazia, con la costruzione di questo triangolo, avrebbe dato vita a una nuova entità che diventava centrale e quindi giustificava anche un rilancio degli investimenti da parte dell’attore pubblico nazionale (infrastrutture, specifici fondi per la ricerca, delocaliz-zazione di altre strutture pubbliche, ecc.). In particolare la Regione Alsazia riproponeva con forza la costruzione della linea TGV Parigi-Strasburgo che in quegli anni si pensava di non costruire più per sostituirla semplicemente con la messa in opera di treni con sistema Pendolino, i quali non richiedono la costruzione di una nuova linea ferroviaria come nel caso del TGV (oltre a fondi per altri investimenti).

Tutto questo la Regione Alsazia lo propose ufficialmente sia in docu-menti del Consiglio Regionale, sia e soprattutto attraverso i media che ven-nero prontamente sollecitati in una vera e propria campagna di lobby, che comunque obbligò il governo a rispondere. Proprio il Prefetto Regionale controbatté battuta su battuta dicendo quanto in realtà l’Alsazia non era in misura di posizionarsi su uno stesso piano dei suoi vicini svizzeri e tedeschi e come quindi il loro piano di sviluppo concertato era impossibile da mette-re in atto. Di conseguenza gli investimenti richiesti diventavano inutili.

Quello che qui ci interessa è questo utilizzo di una certa rappresentazio-ne (quella della banana blu) in maniera completamente autonoma e addirit-tura opposta: all’origine era nata per indicare il rischio di marginalizzazione della Francia nel contesto europeo, in seguito invece dava delle chiare indi-cazioni su come essi erano ancora all’interno e come avrebbero dovuto in-vestire in quella direzione, per restarci ancorati.

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A conclusione di questa parte dobbiamo dire che non dobbiamo mai sot-tovalutare la forza di certe rappresentazioni; in queste pagine ci siamo preoccupati di “smontarle” e come ogni oggetto fatto in tanti pezzi esse ci sembrano semplici, quasi banali. In realtà non è così che dobbiamo pensar-le e vederle. Dobbiamo immaginarle quando vengono costruite e rappresen-tate in tutta la loro interezza e forza, quando un attore istituzionale le pro-pone pubblicamente mostrandole insieme a vaste e articolate argomenta-zioni. In quel momento esse diventano argomenti di grande forza e incisivi-tà che colpiscono profondamente chi le vede. Diventano spesso argomenti scientifici che coinvolgono diversi attori istituzionali e che portano a risul-tati incredibilmente inattesi o inaspettati, soprattutto se visti dalle pagine di questo libro, quando cioè esse appaiono denudate di tutte le loro forze.

Solo per restare al nostro esempio dell’Unione Europea e della dorsale della “ricchezza”, dobbiamo ricordare che questa rappresentazione, tutt’al-tro che scientifica e sicuramente opinabile, ha guidato più di un decennio di politiche comunitarie e questo vale per tanti altri aspetti. Lo Schema di Svi-luppo dello Spazio Europeo, pur proponendo una visione futura del-l’Europa basata sul policentrismo, in diverse sue proposte prende in consi-derazione una connessione tra periferia e centro andando quindi verso una visione tradizionale della connessione della “periferia povera” con il centro “ricco” in modo da far beneficiare tutti della ricchezza della “banana blu”.

D’altronde anche altri argomenti sono stati inizialmente proiettati come una rappresentazione e in seguito integrati all’interno dello SSSE. È il caso delle politiche a sostegno del mondo rurale da parte della Francia.

Sempre a partire dagli anni novanta, il governo della Francia ha propo-sto una rappresentazione di un Paese che polarizzava la sua popolazione in cinque o sei grandi centri urbani a svantaggio del restante suo territorio, andando verso un aggravamento del disequilibrio città/campagna. Lo stesso governo spingeva in questa direzione proponendo una rappresentazione su un arco temporale che andava dal 1960 al 1990, quando invece il fenomeno di svuotamento del mondo rurale cominciava a rallentare se non a invertirsi già dalla fine degli anni ottanta.

La rappresentazione di un Paese in profondo disequilibrio, dove vaste parti del territorio perdevano popolazione andando verso uno svuotamento che in pianificazione territoriale si traduce direttamente in perdita di con-trollo dello stesso, provocava un evidente sentimento d’inquietudine e preoccupazione nella popolazione. Si tratta di sentimenti che permettono di ottenere all’attore politico delle vere e proprie deleghe in bianco. L’attore ottiene praticamente, tramite questo sentimento di paura, una importante libertà d’azione nel mettere, in questo caso, in opera delle precise e im-portanti politiche a favore del mondo rurale.

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Queste politiche, tramite le varie forme di negoziazione, trovano poi una diretta connessione con le istituzioni europee. Infatti, le politiche a favore del mondo rurale (giusto per restare sull’esempio appena citato) si sono tradotte in politiche precise nei Fondi Strutturali Europei (il che significa delle precise possibilità di finanziamento) ma anche in punti importanti in-tegrati all’interno dello SSSE.

Infatti, uno degli elementi principali dello Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo è proprio la lotta all’abbandono delle zone rurali e soprat-tutto la messa in atto di politiche precise da parte degli enti territoriali di-versi in questa stessa direzione. Per quanto lo SSSE non avesse, alla sua fir-ma, una capacità coercitiva, esso ha sempre avuto, al tempo stesso, un ruolo importante nella definizione delle politiche territoriali al punto che molti enti lo hanno integrato nelle proprie leggi o comunque nei propri program-mi24. Quindi possiamo sintetizzare (e comunque sull’Europa e il Territorio torneremo dopo con abbondanti precisazioni) dicendo che una rappresenta-zione non dev’essere mai sottovalutata e al contrario richiede un’attenta analisi per capire quale strategia contiene e quindi dove può condurre.

7. Scale e rappresentazioni: in geografia e geopolitica

Il termine “scala” in geografia ha un ruolo chiave e un significato prin-cipale: le scale sono il rapporto tra la realtà e la rappresentazione carto-grafica (si tratta del numero che in genere vediamo sulle carte geografiche e che è una frazione; per esempio 1:200.000 è la tipica scala regionale che serve a creare cartine geografiche per una regione come le Marche o la To-scana). Ma oltre questo significato cartografico che ci indica la “quantità di sintesi” della realtà, esistono altri significati, come effetti di scala, o scale di rappresentazione. Cerchiamo quindi di capire meglio che cosa si vuole intendere in questo senso anche perché tra i geografi esistono delle confu-sioni che è bene dissipare se si vuole arrivare fino in fondo a quella che è la vera riflessione geografica che è, a sua volta, il cuore dell’analisi geopoliti-ca di un evento.

La parola “scala” – di cui in questo caso evitiamo l’etimologia –, così come è usata in geografia, deriva proprio dalle scale in legno e dall’alternarsi

24 È il caso della Regione Lombardia che lo ha integrato nella Legge Regionale e che

quindi lo ha reso, se non coercitivo, con dei riferimenti precisi ai quali i vari enti dovrebbero attenersi, sicuramente coercitivo nel principio. Così facendo la Regione Lombardia non può (anche volendo) supportare o finanziare degli interventi di altri enti che andassero even-tualmente contro i principi contenuti nello SSSE.

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dei colori (in genere bianco e nero), e ci dice a quanti chilometri corrisponde la distanza che vediamo sulla carta, fatta appunto in bianco e in nero, per renderla più visibile e meglio leggibile. Questa gradazione indica sempli-cemente il rapporto che esiste tra una distanza reale, intesa come quella che è misurata nella realtà, sul terreno, e la distanza, ovviamente più piccola, che la riproduce sulla cartina che stiamo guardando. È ovvio che sulla stessa cartina geografica quel rapporto deve essere uguale ovunque, in ciascuno dei suoi punti. Se così non fosse, allora, quella cartina sarebbe sbagliata, in buona fede nella migliore delle ipotesi, oppure falsata volontariamente, nel qual caso si deve leggere quest’atto come un gesto di malafede. L’esperienza ci ha spiegato che raramente l’errore è fatto in buona fede.

La scala di una carta è quindi un rapporto matematico anch’esso in genere indicato sulla cartina. Nell’esempio che citavo prima la scala può essere scrit-ta in due modi diversi: 1:200.000 oppure 1/200.000. Questo banalmente ci dice che una qualsiasi distanza sulla Terra è indicata come 200.000 volte più piccola sulla cartina e quindi 1 Km reale in questo caso corrisponderebbe sulla carta a 1/2 cm; da questo si capisce al volo come il numero che indica la realtà è 1 mentre il denominatore ci dirà quante volte il dato è stato ridotto o meglio quante volte il valore reale sia stato diviso. In geografia raramente si va al di sopra di una scala di 1/10.000 perché ci ritroveremmo a pensare in termini di planimetrie, tipo i lavori di un architetto o di un ingegnere. Ragionando in scale di 1/10 o 1/100 e in casi abbastanza rari di 1/1000, non si può facilmente passare a ragionamenti con 1/50.000 se non addirittura 1/200.000. Cito questo esempio perché penso a tutti gli architetti e ingegneri che dopo il loro corso di studi si trovano a confrontare con bisogni basati su cartografie, loro che si sono mossi solo su piante e planimetrie. Il ragionamento e, quindi, l’uso strumentale sono completamente diversi.

Vi è ancora un’altra confusione che credo vada definitivamente chiarita:

la differenza tra una grande scala e una piccola scala. Partiamo dalla cartina citata come esempio della scala 1/200.000 dove

possiamo vedere rappresentata una regione italiana, per esempio. Se invece noi la confrontiamo con una scala come quella di un insieme provinciale allora passiamo almeno a una scala di 1/100.000. In questo caso la prima contiene al suo interno una dimensione territoriale maggiore, cioè riproduce più territorio (una regione intera) di quanto non ne riproduca una cartografia 1/100.000 che invece contiene una o due Province. Tendenzialmente noi tenderemmo a dire che la prima è a una scala più grande di quanto non lo sia la seconda. Invece, geograficamente è esattamente vero il contrario dato che 1/200.000 è un numero decisamente più piccolo di 1/100.000 (esattamente la

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metà). Ecco perché in geografia si definiscono cartografie su grande scala quelle carte che riproducono piccole porzioni di territorio, e che ovviamente hanno un maggior dettaglio. Viceversa le carte su piccola scala sono certamente quelle che inglobano maggior territorio ma che per ovvi motivi contengono meno dettagli.

Purtroppo spesso incontriamo delle frasi tipo “lanciata operazione su grande scala per il controllo della criminalità organizzata” la quale non vuol propriamente dire che si tratta di un’operazione su una scala comunale o provinciale, ma nella maggior parte dei casi si intende con grande dispie-gamento di mezzi e spesso su tutto il territorio di un Paese.

Ma sulle scale applicate alla geografia, di certo, non mancano gli autori. Tra quelli citati fin qui c’è certamente Agnew, il quale si è confrontato non soltanto con la tematica della scala ma anche applicandola allo studio dei partiti politici (e tra l’altro, da buon specialista dell’Italia, John Agnew l’ha particolarmente utilizzata proprio per studiare il nostro Paese)25. Egli co-mincia con il definire le scale ma al tempo stesso, conscio della confusione che spesso regna intorno a questa definizione, afferma chiaramente che non esiste nulla di veramente definito rispetto all’uso che regolarmente viene fatto di questa parola. Termini come “locale” o “globale” sono usati attri-buendo loro diverse accezioni. Nelle scienze sociali, per esempio, la parola “scala geografica” è praticamente attribuita alla proiezione dei vari livelli istituzionali, partendo dai Comuni, passando per Province e Regioni, fino ad arrivare a Stati nazionali.

Sul caso italiano Agnew fa chiaramente riferimento al caso PCI e DC e sottolinea come, pur avendo un tipo di elettorato molto simile, Emilia Ro-magna e Veneto erano due regioni inaccessibili per ognuno di questi due partiti. Effettivamente la DC, potentissima nel Veneto, non è mai riuscita a penetrare l’elettorato della regione rossa per definizione e dicasi la stessa cosa sul PCI parlando del Veneto. Eppure non mancano gli studi che ci mostrano come l’elettorato, da un punto di vista squisitamente sociologico, sia molto simile in queste due regioni. Entrambi i partiti, pur avendo una proiezione nazionale, hanno comunque una particolare rappresentazione di se stessi in queste due aree.

Ma il PCI, il partito dei lavoratori, rappresentante della classe operaia, in realtà aveva una forza particolare in tre Regioni italiane: Umbria, Tosca-na e Emilia Romagna. In queste stesse Regioni la rappresentazione che questo partito proponeva di sé era ovviamente diversa da quella che propo-

25 Agnew J., “The drammaturgy of horizons: geographical scale in the ‘Reconstruction

of Italy’ by the new Italian political parties, 1992-95”, in Political Geography, vol. 16, n°2, February 1997.

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neva nella periferia di una città di Torino: quindi alludiamo a diversità che non sono solo basate sulla frattura Nord/Sud del Paese.

Il PCI si trasformò in seguito in PDS, poi in Democratici di Sinistra (DS) per poi confluire nell’attuale Partito Democratico composto dalla vec-chia Margherita ma privata della sua ala di sinistra più estrema. Certo, il confronto con il PCI di quegli anni è ingiusto. Non solo il partito è profon-damente cambiato, ma moltissima gente che oggi milita nei DS, anni fa non avrebbe mai pensato di iscriversi al PCI. Fatto sta che se facciamo un col-legamento tra questi due partiti e accettiamo il fatto che il secondo è erede in qualche misura del primo, possiamo riscontrare anche continuità nel-l’ancoraggio territoriale. In effetti, i punti forti dei DS oggi restano (più o meno) quelli che erano i punti forti del PCI. È ovvio che la polarizzazione territoriale odierna è molto più stemperata di quella dei tempi del PCI, ma certo non possiamo dire che i DS non abbiano nell’Umbria uno dei loro ba-stioni. Quello che ci interessa mostrare è che mentre in una periferia di una grossa metropoli (come Torino o Milano) i DS sono fortemente legati alla rappresentazione a tutela degli operai, in zone come l’Umbria invece (ma anche in Toscana e Emilia), i DS si propongono una rappresentazione di-versa.

In effetti, qui il tessuto delle piccole imprese è diffusissimo e i DS modi-ficano la loro rappresentazione in questo senso. Da qui nasce la rappresenta-zione che privilegia sempre un ruolo di protezione da parte dello Stato, ma questa volta non si tratta di sostenere le classi più basse della nostra struttura sociale, quella che una volta veniva indicata come la classe operaia, bensì di occuparsi delle piccole e medie imprese. Quindi ci si concentra sul ruolo del-lo Stato nel sostenere la competitività delle imprese. Anche se sostenendo i più “deboli”, si tratta comunque di sostenere la competitività di un tessuto imprenditoriale. Quello che certamente fa più differenza rispetto al resto del-la rappresentazione nazionale e che sicuramente contribuirà alla costruzione di ancoraggi locali dell’attuale sinistra italiana (ma non solo), è proprio l’esistenza di quella che Agnew chiama “municipal socialism”26 e che diven-ta l’elemento di contrapposizione certamente della rappresentazione “indivi-dualista” di Forza Italia e Lega Nord, ma anche rispetto alle battaglie proprie della sinistra in senso “nazionale” che miravano in realtà a lottare a favore di una “cosiddetta classe operaia” internazionale.

Questo effetto di scala non riguarda certo solo i DS ma tutto lo scacchie-re politico italiano e, proprio come dice Agnew nelle conclusioni del suo

26 Agnew J., “The drammaturgy of horizons: geographical scale in the ‘Reconstruction

of Italy’ by the new Italian political parties, 1992-95”, op.cit., p. 112.

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articolo27, “[...] None of them (i partiti politici) can be understood satisfac-torily without understanding how they construct scale and how that affects their politics”.

È questo il punto essenziale che noi dobbiamo sempre tener presente: il ruolo delle rappresentazioni e delle scale che vengono usate.

Certo l’esercizio non è semplice e richiede una certa abilità, ma si tratta semplicemente di applicare a un oggetto di studio “politologico” quella che è la riflessione territoriale, quello che si chiama “ragionamento geografi-co”. Al tempo stesso non bisogna commettere degli errori di superficialità in questo senso.

Applicare il ragionamento geografico non vuol dire sommare le compe-tenze di un politologo con quelle di un geografo, ma coniugare il tutto in uno stesso ragionamento. Come prendere in considerazione le scale non si-gnifica passare da una scala all’altra. Tradotto in termini pratici, significa che quando studiamo un dato fenomeno o evento a una certa scala, per esempio esaminiamo una certa crisi economica di una certa Provincia, dob-biamo tenere presente tutto quello che accade alle scale superiori, re-gionale, nazionale e persino intercontinentale. Tutte cose che influenzano in modo diverso il territorio su cui si produce l’evento che vogliamo studia-re.

Torniamo in maniera conclusiva sulle rappresentazioni. Dietro queste rappresentazioni, non vi sono Stati o popoli, bensì poche

persone (a volte anche una sola), gruppi di intellettuali o uomini politici, che diffondono queste tesi; solo in un secondo momento esse verranno fatte proprie da parte di masse più sostanziose di cittadini. Queste rappresenta-zioni sono state create per esprimere il punto di vista di gruppi ristretti di persone. Ecco perché a volte esistono divergenze non solo tra le parti oppo-ste in campo, ma anche all’interno delle varie compagini in disputa, a causa di un diverso modo di vedere le cose.

Per quanto si cercherà di prendere in considerazione tutte queste possibili rappresentazioni, non si potrà mai dare a questo metodo di analisi la benché minima parvenza di “scienza”. Si tratta di analizzare delle rivalità di potere tra diverse forze, ognuna delle quali avrà diverse rappresentazioni, ovviamente parziali e contraddittorie. Queste forze avranno chiaramente delle strategie che saranno a loro volta divergenti e antagoniste. Quello che diventa necessario imporsi, prima ancora di cominciare, è di seguire comunque un’osservazione di tutto ciò che compone la situazione geopolitica in maniera assolutamente imparziale (o quantomeno il più possibile). Detto questo viene

27 Agnew J., “The drammaturgy of horizons: geographical scale in the ‘Reconstruction

of Italy’ by the new Italian political parties, 1992-95”, op.cit., p. 117.

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da sé che definire “scienza” la geopolitica risuonerebbe presuntuoso e condurrebbe ad errori che hanno avuto in passato tristi ripercussioni.

Ritornando al rapporto tra “scienza” e geopolitica, Yves Lacoste defini-sce la geopolitica come un procedimento scientifico. “[...] la geopolitica può essere vista come un procedimento scientifico [...] dal momento in cui tutte le tesi rivali siano presentate in buona fede e si cerca di comprendere ciascuna di esse e le loro ragioni profonde come cause indirette ed acciden-tali della loro disputa”28.

Questo procedimento scientifico non deve essere visto semplicemente come strumento per lo studio di rappresentazioni opposte e in contraddi-zione tra loro. Quello che deve essere il vero uso della geopolitica è, inve-ce, la volontà di produrre delle rappresentazioni più obiettive di quanto non lo possano essere quelle in disputa tra loro. In questo modo la geopolitica si rivela strumento di grande efficacia per la soluzione di situazioni altrimenti difficilmente districabili, ma anche per la previsione di possibili scenari fu-turi.

Tra gli addetti ai lavori si definisce in questo punto la differenza tra geo-politica e storia. In quest’ultima l’obiettivo fondamentale è di capire come e perché una battaglia ha avuto un tale esito. Nella geopolitica l’obiettivo è di cercare di prevedere evoluzioni di una determinata situazione che potrebbe-ro sfociare in battaglie e questo facendo anche, ma non solo, uso della sto-ria attraverso i suoi insegnamenti su esiti di situazioni passate.

La geopolitica usa quindi tutto ciò che può essere utile nel dirimere “matasse intricate”. Quello che accade su un territorio ingloba l’azione umana, diventa quindi essenziale fare ricorso a tutte quelle scienze umane, come sociologia, economia e ovviamente anche storia. Ognuna di queste scienze o discipline sono utili per la comprensione di una data situazione territoriale; da questo diventa facile desumere come la multidisciplinarietà sia un’altra caratteristica fondamentale dell’analisi geopolitica.

Anche se la multidisciplinarietà è un elemento caratterizzante, esiste forse un legame originario che questo metodo porta con sé fin dall’inizio. Abbiamo scritto ormai infinite volte questa parola e sicuramente la si trove-rà altre infinite volte nel seguito di queste pagine: territorio. Esso è palco-scenico e posta in gioco al tempo stesso, è il vero punto di riferimento, l’elemento da cui partire. Non vi può essere situazione geopolitica se non vi è un territorio. Il rapporto col territorio è così essenziale che è proprio ri-

28 Lacoste Y. (a cura di), Dictionnaire de geopolitique, op. cit. Per maggiore precisione

riporto di seguito il testo tratto dalla pagina 29: “[...] La géopolitique peut être envisagée comme démarche scientifique [...] dès le moment où l’une et l’autre des thèse rivales sont présentées de bonne foi et si l’on cherche à comprendre chacune d’elles et les raisons pro-fondes comme les causes indirectes ou accidentelles de leur affrontement”.

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spetto alla sua leggibilità che ci si trova a riflettere maggiormente, per me-glio capire e decodificare quello che vi accade. Per questo motivo ora ve-dremo come delle rappresentazioni cartografiche di scale diverse possano essere determinanti per capire eventi che possono sembrare del tutto scolle-gati.

8. Dai livelli di analisi al diatopo

Questo aspetto della geopolitica è troppo spesso confuso, da un punto di vista metodologico, con l’uso delle scale geografiche. I livelli di analisi so-no qualcosa che richiede un certo esercizio analitico soprattutto perché ob-bliga a prendere in considerazione tutto quello che influenza un territorio, a livelli diversi. Ma cerchiamo di definire meglio la problematica.

Facciamo un esempio di come l’applicazione dei diversi livelli di analisi

ci possa aiutare a mettere meglio in evidenza le diversità con le quali ci tro-viamo ad essere confrontati.

Prendiamo il caso dell’Europa. Oggi con questo nome vengono indicate più entità. Possiamo indicare l’insieme fisico propriamente detto e quindi il territorio compreso tra gli Urali e le Isole Britanniche. Politicamente la cosa è più confusa. Quando leggiamo “Europa” in un giornale pensiamo all’U-nione Europea, dalla quale sono però escluse Svizzera e Norvegia. A questi due Paesi dobbiamo poi aggiungere tutti quelli che facevano parte del vec-chio Patto di Varsavia, ma di cui buona parte sono oramai membri dell’U-nione Europea.

In molte carte geografiche oggi l’Europa è rappresentata come com-prendente tutti i Paesi dell’Est fino alla frontiera con la Russia: quest’ul-tima verrebbe così esclusa dal vecchio continente.

Se cerchiamo di identificare l’Europa attraverso una comunanza clima-tica, le cose non si semplificano di certo. Non è possibile identificarla con la tesi secondo la quale tutta l’Europa sarebbe compresa nella fascia clima-tica temperata. Semplicemente perché parti non trascurabili dell’Europa ne sono al di fuori29. A questo bisogna aggiungere tutte le varie differenzia-zioni climatiche che esistono all’interno della stessa Europa. Pensiamo al

29 Ricordiamo che geograficamente viene indicata quale zona climatica temperata quella parte del pianeta compresa tra il 40° parallelo ed il circolo polare artico (quindi fino a 66°33’ di latitudine). È bene ricordare che al di sotto del 40° parallelo si trova la metà della Spagna, parte del Portogallo, buona parte della Grecia, per non parlare della Calabria e di tutta la Sicilia. Una parte sostanziosa di Russia, Finlandia, Svezia e Norvegia si trovano al di là del Circolo Polare Artico.

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clima oceanico che accomuna tutta la parte occidentale del nostro continen-te dal Portogallo fino alla Penisola Scandinava. Questo clima è caratterizza-to da abbondanti piogge.

Oltre a questo tipo di clima, possiamo riferirci al clima continentale, il quale è caratterizzato da una scarsa influenza oceanica sia sulle precipita-zioni che sulle temperature, grandi escursioni termiche tra le varie stagioni e scarse precipitazioni. Chiaramente questo clima continentale può ancora essere differenziato, passando dal clima continentale dolce a quello iper-continentale. Gli spazi compresi in questo tipo di clima sono quegli spazi interni, abbastanza lontani dal mare che da ovest penetrano nel cuore del continente verso l’Europa centrale e le grandi pianure orientali e più ci si addentra, più esso diventa rigido.

Non dimentichiamo poi quello Mediterraneo, il quale è ben caratterizza-to da una lunga stagione secca, quella estiva, ma con precipitazioni inver-nali che raggiungono lo stesso livello di quelle continentali. Anche qui spesso gli insiemi disegnati sono alquanto approssimativi e aleatori. Pen-siamo all’Italia che viene considerata integralmente abbracciata da questo tipo di clima, ma sappiamo bene che non si può certo parlare così della pia-nura Padana, per non dire della zona alpina. E sempre per restare in materia di clima, ricordiamo che il Mar Nero ha un clima piovoso in estate, a diffe-renza delle estati secche del Mediterraneo.

Un altro modo di distinguere l’Europa potrebbe essere quello della ric-chezza, misurata nel nostro caso dalla crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) dei vari paesi che stiamo considerando.

Se prendiamo in considerazione la crescita del PIL nel 1993 si vedrà che esiste un blocco orientale che non supera una crescita dell’uno per cento, composto da Bulgaria, Moldavia, Ucraina, Bielorussa e Lituania (per i pri-mi quattro si ha addirittura un calo). Mentre paesi dell’Europa Mediana (come la chiama Lacoste) come Romania, Ungheria, la Repubblica Ceca e la Slovacchia hanno un tasso di crescita che rientra perfettamente nella me-dia europea. Questo sembrerebbe confermare quella rappresentazione dell’Europa che fa riferimento alla UE oppure all’Europa occidentale, ma eccezioni sono anche la Spagna, il Portogallo e la Grecia, che si trovano nella stessa situazione del blocco orientale appena descritto.

Ecco quindi che, di fronte a questa grande diversità, il metodo di analisi che stiamo esponendo, quello geopolitico, viene applicato attraverso l’osservazione delle intersezioni tra questi insiemi spaziali come anche di tutti gli altri che possiamo definire. Attenzione a notare che quando parlia-mo di insiemi “spaziali” non stiamo parlando di insiemi teorici caratterizza-ti da determinate variabili in essi contenute, ma di insiemi precisi che han-no un riscontro autentico nella realtà e che soprattutto sono caratterizzati

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anche da contorni delimitanti i quali devono essere esposti con precisione ed esaminati con altrettanta cura, perché sono questi i limiti che si interse-cano tra loro. Queste intersezioni sono incroci che spesso possono spiegarci molte cose, trovando nella presenza della variabile di un dato insieme su di un dato territorio (per esempio il clima) la spiegazione di un determinato fenomeno (per esempio politico) sullo stesso territorio. Anche se a volte queste intersezioni non possono spiegarci dei fenomeni precisi o degli eventi, esse possono però farci scoprire interazioni che forse non avevamo preso in considerazione. Il miglior modo di rappresentare questi insiemi non è quello di affiancare più carte, ma di sovrapporle. Ma, attenzione: questa sovrapposizione non è assolutamente un metodo scientifico per rile-vare qualsiasi tipo di fenomeno e trovarvi quindi una soluzione. Tutto que-sto è fatto per dare atto della presenza di molte variabili, a volte più di quante si possano immaginare, e cercare quindi di rilevarne quante più è possibile.

Il tipo di operazione che abbiamo appena descritto, quella cioè della so-

vrapposizione delle carte, non è però sufficiente per dare ragione della complessità dello spazio che dobbiamo studiare. Diventa essenziale a que-sto punto passare a un altro procedimento da affiancare a quello appena svolto: prendere in considerazione insiemi spaziali dalle dimensioni molto diverse tra loro.

Quindi, ricapitolando, abbiamo: sovrapposizione di insiemi spaziali alla stessa scala, per poi passare ad una sovrapposizione di insiemi su scale di-verse della stessa porzione di territorio.

Il fatto di identificare l’Europa nella fascia climatica temperata ci per-mette di identificare un insieme spaziale abbastanza grande da poter com-prendere tutto il vecchio continente, ma non ci permette di prendere in con-siderazione le diversità climatiche come nel caso dell’Italia meridionale. Per poter disegnare insiemi spaziali di grandi dimensioni, siamo obbligati a fare astrazioni di diverse variabili che, se prese in considerazione, ci impe-direbbero di avere una rappresentazione d’insieme così vasta.

Questo stesso esempio può valere se viene fatto prendendo in conside-razione le variabili economiche. Particolarmente nel nostro Paese la percentuale di crescita del PIL ha un certo senso se la si prende in scala nazionale, ma cambia radicalmente se viene presa in scala provinciale, magari insieme alle percentuali di disoccupazione. Non è semplicemente una diversità dovuta alle scale, dove possiamo dire che secondo l’esigen-za di studio procediamo all’uso di una o di un’altra scala. La sovrapposi-zione delle scale e delle diverse variabili ci permette di cogliere il perché a un certo andamento della disoccupazione, per esempio, è corrisposto un

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determinato andamento del PIL in una parte del territorio anziché in un’altra.

Se disegniamo un insieme spaziale del clima tipicamente mediterraneo, in Puglia non riusciremo a mettere in evidenza delle diversità essenziali tra il Salento e le Murge. La rappresentazione regionale rientra perfettamente nelle medie che ci permettono di identificare la zona come climaticamente mediterranea, ma i millimetri di pioggia caduta sono sensibilmente diversi tra le due zone prese ad esempio. Nel Salento nel 1993 si sono avute preci-pitazioni per 733 millimetri, mentre a Bari ve ne sono stati 46930. Anche se è vero che il 1993 è stato un caso eccezionale, è pur vero che abitualmente il Sud della Puglia riceve più precipitazioni del centro, ma se si vanno a guardare le frequenze si scopre che ci sono più giornate piovose nel centro di quante non ce ne siano nel Sud. Questo ci porta ad affermare che oltre alle rappresentazioni spaziali su scale geografiche diverse, bisogna poter fare at-tenzione anche a quelle temporali. La preoccupazione del contadino del Sud della Puglia, di fronte a questo problema, non è tanto di sapere quanta piog-gia riceverà la sua terra, ma più che altro in quale periodo essa verrà concen-trata. In questo caso il dato delle precipitazioni annuali è sì importante, ma per il nostro contadino è più importante il dato mensile delle stesse.

Evidentemente, questa differenziazione è valida non solo per gli aspetti propriamente meteorologici, ma certamente anche per quelli politici e so-ciologici.

Vi sono dinamiche come il tasso di disoccupazione, per esempio, che ri-sultano interessanti su scala mensile e annuale, ma affiancata a questa va-riabile può essere essenziale l’andamento demografico, il quale per parte sua è leggibile su scale decennali.

Per un’analisi territoriale delle diverse variabili che ci possono interes-sare, procedere secondo questo metodo è assolutamente essenziale; questo perché nella geografia lo studio viene fatto su insiemi che partono dalla scala planetaria per arrivare ai diversi quartieri delle città.

Questa problematica delle diverse scale è sempre stata tipica dei geo-grafi, i quali si trovano di fronte al problema tecnico di rappresentare (di-segnare) degli spazi di dimensioni diverse su carta. Secondo la dimensione dello spazio da rappresentare e della dimensione di questa rappresentazione si può usare un determinato tipo di scala.

Alla luce di quanto ho appena scritto possiamo elencare quali sono i li-velli di analisi – e come si articolano tra loro –, ognuno dei quali corrispon-de a un tipo di scala, questo per comodità di riferimento. Lacoste espone questo tipo di catalogazione come formalizzazione a cui fare riferimento in

30 Dati Istat del 1993.

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seguito nello studio dei fenomeni della geopolitica31. Egli articola i diversi ordini come segue:

– 1° ordine di grandezza: si tratta di quegli insiemi spaziali che ven-

gono misurati in decine di migliaia di chilometri e che comprendono continenti interi, leggibili su planisferi, oppure che rappresentano oceani, catene di montagne, ecc. Questo tipo di ordine di grandezza viene rappresentato con un rapporto di scale che va da un ventimilio-nesimo fino a un centomilionesimo;

– 2° ordine: gli insiemi che vengono misurati in migliaia di chilometri, cioè insiemi climatici, oppure grandi bacini fluviali o mari come il Mediterraneo. In questo caso le scale usate andrebbero dal milione-simo al decimilionesimo;

– 3° ordine: sono quegli insiemi spaziali che vengono misurati in cen-tinaia di chilometri. Sono generalmente le Regioni italiane, per fare un esempio di casa nostra, o bacini fluviali come quello del Po. La scala migliore da usare per queste rappresentazioni è quella compre-sa tra 1/500.000 e il milionesimo;

– 4° ordine: sono gli insiemi spaziali misurati in decine di chilometri e che generalmente si usano per i grossi agglomerati urbani, come Roma o Milano, ma anche per porzioni di catene di montagne, come una parte delle Alpi. Le ritroviamo particolarmente utili per gli in-siemi locali riferiti a Province, molto in voga oggi. Le scale migliori per rappresentare questi insiemi su carta sono comprese tra 1/50.000 e 1/200.000;

– 5° ordine: si tratta degli insiemi spaziali misurati in chilometri e che possono essere utilizzati in numerosissimi casi. Pensiamo ai laghi, pic-coli fiumi, ma anche foreste oppure i grossi quartieri delle metropoli, grossi centri portuali e industriali, ecc. Le scale utilizzate per la rappre-sentazione di questo tipo di insiemi sono comprese tra 1/20.000 e 1/50.000;

– 6° ordine: si tratta degli insiemi misurabili in centinaia di metri e evidentemente riguardano piccole porzioni di territorio che possono andare da piccoli quartieri di villaggi o piccoli quartieri urbani. Le scale usate per la loro rappresentazioni vanno da 1/1.000 a 1/10.000;

– 7° ordine: si tratta di insiemi che si misurano in decine di metri e che quindi riguardano più che altro grossi immobili, scarpate naturali, isolati urbani, ecc.

31 Lacoste Y., Unité et diversité du Tiers Monde: des représentations planétaires ou

stratégies sur le terrain, Édition La Découverte/Hérodote, Paris, 1984.

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Questa ripartizione in ordini di grandezza permette quindi dei riferi-

menti precisi, più chiari. Ma dobbiamo ricordarci che questo tipo di riparti-zione non è unico. Se la geografia fa ampio uso dei diversi livelli di analisi, lavorando ora su insiemi continentali e ora su insiemi locali, passando così da un livello all’altro, la storia fa altrettanto. Non dobbiamo, infatti, dimen-ticare che esattamente come nella geografia, anche nella storia esistono fe-nomeni che vengono letti su piccole e grandi scale, ma questa volta non parliamo di scale geografiche, bensì di scale temporali.

Proprio in questo contesto, lo stesso ideatore dell’analisi su diversi livel-li, conia un neologismo: “diatopo”. Lacoste, infatti, pur avendo sempre proposto questa tecnica non l’aveva mai così bene inquadrata fino al 200632. Aveva cominciato esponendo delle carte sovrapposte già nel 197633 chiamando questa tecnica “schema grafico d’analisi dei fenomeni di spazia-lità differenziale su livelli d’analisi diversi”). La figura di un diatiopo è, in-fatti, quella di uno stesso territorio rappresentato in più scale con cartogra-fie diverse. Per esempio il caso scelto da Lacoste come copertina del suo testo è quello di Gerusalemme e la carta che è in basso rappresenta la città vecchia con i nuovi quartieri ebraici; giusto sopra vi è la cartografia del ter-ritorio attuale di Israele con la Cisgiordania e Gaza, lungo la costa. Al diso-pra vi è la terza cartografia che mostra invece tutto l’insieme del Medio Oriente e la quarta e ultima cartografia, posta come livello superiore, mira a rappresentare il sostegno che gli USA danno allo stato di Israele.

In genere le cartografie che vengono utilizzate un caso geopolitico (quando ci sono perché in genere se ne fa categoricamente a meno…34) so-no uniche, una sola carta per volta e in genere a una scala piccola (che in-clude cioè una parte estesa di territorio) e quindi hanno un solo livello di grandezza. Ma noi abbiamo detto fin dall’inizio che fenomeni che si produ-cono ad una scala sono spesso provocati o influenzati da fenomeni che si producono su altre scale. Allora come fare per mostrare questi diversi livel-li? Soprattutto come fare a mostrare le interazioni che vi possono essere tra i diversi livelli? Secondo Lacoste è molto più efficace mostrare le carte a una scala più grande (quindi quando serve con una porzione di territorio meno estesa, più da vicino potremmo scrivere). Man mano che si va verso una scala più piccola, allora si sovrappongono a quella a scala più grande. Si va verso una sorta di rappresentazione prospettica, come se si vedesse dall’alto, da un aereo in volo: nella parte più bassa della figura si mettereb-

32 Lacoste Y., Géopolitique. La longue histoire d'aujourd'hui, Parigi, Armand Colin, 2006.

33 Lacoste Y., La Géograhie ça sert d’abord à faire la Guerre, Parigi, F.Maspero, 1976. 34 Bettoni G., Tamponi I., Geopolitica e Comunicazione, FrancoAngeli, Milano, 2012.

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bero quelle che rappresentano il livello d’altitudine più basso e quindi le cartografie a scala più grande, mentre man mano che si va in alto nella fi-gura si vedrebbero le cartografie a più piccola scala, come se ci alzassimo sempre più in volo e vedessimo delle distese sempre più ampie di territorio. Lacoste lo chiama “diatopo” definendolo come lo “schema di sovrapposi-zione di cartografie in prospettiva dalla scala più grande (osta in basso) alla scala più piccola (posta in alto): topo, dal greco topos che significa il luogo e, per estensione, lo spazio, ma anche dia che sempre in greco significa “separazione-distinzione” come anche “attraverso”. Il risultato ottico che abbiamo di un diatopo è quella della visione di un aereo in picchiata dall’alto verso il suolo35. La cosa più delicata è senza dubbio non tanto la rappresentazione , oggi facilitata dagli strumenti informatici, quanto la de-codifica delle interazioni tra i diversi livelli. L’innovazione tecnologica de-gli ultimi trent’anni, tra telecomunicazioni e trasporti, ha fatto si che il nu-mero di queste interazioni crescesse a dismisura: da qui la grande difficoltà d’interpretazione e decodifica. Eppure è probabilmente la chiave di volta di tutto il ragionamento geopolitico.

Proprio come abbiamo appena visto per il territorio, attraverso la spiega-zione del neologismo lacostiano di diatopo, anche il tempo è una variabile di primaria importanza nell’analisi geopolitica.

Esistono tempi diversi per ogni tipo di fenomeno, come ere geologiche, anni solari, anni borsistici, ma anche mandati presidenziali. Ognuna di queste cose ha ritmi evolutivi assolutamente diversi, però ciascuna di esse può inter-venire in una data situazione geopolitica, con rapporti di causa/effetto spesso sorprendenti. Quello che spesso si mette in atto nella geopolitica è un’analisi diacronica diversa da quella classicamente storica. Anziché partire dai tempi passati discendendo fino al presente, si cerca di privilegiare una marcia con-traria: dal presente verso il passato. Questo permette di conservare meglio in-nanzi a sé l’“effetto” di cui si vorrebbe spesso trovare la “causa”, anche per-ché nella geopolitica il presente è l’oggetto di studio. Questo presente è chia-ramente collegato a eventi e situazioni passate, che possono essere leggibili in tempi brevi o lunghi. Sono questi i legami che in geopolitica sono chiamati legami di casualità36. Si tratta di legami che danno luogo a concatenazioni che a loro volta conducono agli eventi di cui ci interessiamo. Questi eventi sono frutto non solo di una concatenazione, ma spesso e volentieri di incroci fra le stesse diverse concatenazioni. Sono esattamente questi gli eventi che si deve cercare di prevedere. Anche se può sembrare azzardato, questo è uno dei ruoli principali della geopolitica, o comunque è uno degli elementi caratterizzanti di

35 Lacoste Y., Géopolitique. La longue histoire d'aujourd'hui, op.cit. 36 Letteralmente tradotto dal francese “chaîne de causalité”.

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questo metodo di analisi, che lo differenzia dalla storia. Quest’ultima si preoc-cupa prevalentemente di studiare “come sono andate le battaglie, anziché pre-vedere quelle future”.

Per trovare un’esemplificazione di come i tempi brevi e lunghi possano incrociarsi su di un evento, possiamo pensare a una protesta popolare che può trovare scintilla in un evento preciso e anche abbastanza recente. Ma quello che conduce in realtà all’accendersi delle manifestazioni può essere frutto di un periodo di evoluzione ben più lungo, anche decennale. A questo possiamo aggiungere un tipo di cambiamento su quel territorio che conti-nua da quasi un secolo, come andamenti demografici o abbassamenti delle falde acquifere che costringono a mutamenti nello sfruttamento dei fondi agricoli. Ma possiamo anche pensare ad innovazioni tecnologiche che mu-tano le esigenze sociali. Queste evoluzioni si basano su tempi diversi, brevi e lunghi, ma danno vita, nel loro incrociarsi, ad un evento preciso e ben cir-coscritto, il quale a sua volta può condurre a ben altre situazioni o eventi.

È bene precisare che l’uso delle scale temporali, a cui si è fatto riferi-mento poco sopra, è quello esposto da Fernand Braudel37, con i suoi “tempi della storia”. Nella sua opera egli fa spesso riferimento ai diversi tempi che la storia si trova a dover studiare, passando da archi di tempo misurati in migliaia di anni, se non milioni, dove la storia sembra essere immobile, per arrivare quindi non al tempo del quotidiano, ma bensì ai tempi del quoti-diano. Questo perché i tempi e i ritmi con cui ci scontriamo nella quotidia-nità della storia sono infiniti nella loro diversità.

Ecco quindi come la ripartizione in diversi ordini di grandezza e il loro “incrocio”, la loro sovrapposizione, sia in scala geografica sia in scala tem-porale, ci permette di prendere in considerazione più variabili in maniera di cercare di esporre e comprendere al meglio la realtà nella sua ampia com-plessità.

È bene precisare a questo punto che questo metodo di analisi (ripetiamo) non ha alcuna pretesa né scientifica né originale. I problemi demografici sono ben trattati dai demografi, come per i problemi economici esistono gli economisti. Quello che si vuole fare è cercare di prendere in considerazione queste diverse variabili scartandone quante meno è possibile, per poter stu-diare la realtà nella maniera più precisa possibile.

Non ci troviamo di fronte ad una geopolitica con pretese scientifiche e imperialistiche, come poteva essere concepita nella Germania dell’inizio del ’900, ma ad un metodo di analisi che cerca di mostrare i diversi aspetti

37 Si tratta dei diversi tempi storici enunciati da Fernand Braudel nella sua famosissima

opera La Méditerranée et le mond méditerranéen à l’époque de Philippe II, Paris, Armand Colin, 1966.

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e punti di vista delle realtà che si trovano su di un territorio. Non si tratta di qualcosa con pretese di riferimento originale al quale le altre scienze o di-scipline devono attingere, ma di uno strumento di lavoro che ci permetta di “osservare” nella maniera più attenta possibile.

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3. Dalla geopolitica esterna alla geopolitica interna

Fin qui abbiamo parlato di Geografia (politica o umana e non solo), so-prattutto di geopolitica. Abbiamo potuto constatare quanto la geopolitica non sia tanto una semplice questione (se così potremmo definirla) di rela-zioni tra “Stati” ma piuttosto una questione di “antagonismi” tra attori poli-tici per il controllo di territori. Proprio per questo abbiamo accennato fin dall’inizio di questo testo che oltre a una geopolitica “esterna” e cioè carat-terizzante gli antagonismi tra Stati diversi, vi è anche una geopolitica “in-terna” e cioè caratterizzante gli antagonismi tra attori politici per il control-lo di territorî interni a uno stesso stato. Potremmo subito pensare che quest’ultima, siccome molto meno nota con questa definizione, particolar-mente nel nostro Paese, rappresenti qualcosa di poco importante. Mentre gli antagonismi più importanti, proprio perché trovano un’eco importante nella stampa, sembrerebbero essere quelli che si hanno tra Stati diversi. Seppur dovendo riconoscere che quelli più “importanti” per eco (per interesse della stampa, probabilmente anche per ripercussioni apparenti sul mondo) sem-brano essere quelli tra Stati, dobbiamo invece riconoscere che i casi di geo-politica interna rappresentano senza dubbio la maggioranza. Lo capiremo subito, non appena cominceremo ad addentrarci nelle diverse casistiche che a questa parte della disciplina rientrano.

In effetti, esiste una scuola di pensiero in cui le “conflittualità” che la geopolitica dovrebbe prendere in considerazione sono quelle certo collegate all’Organizzazione del territorio ma di natura straordinaria. Stiamo quindi parlando di grandi infrastrutture o di problematiche che da circa qua-rant’anni colpiscono l’opinione pubblica e toccano particolarmente quelle iniziative che colpiscono l’ambiente e l’opinione pubblica. Per esempio la TAV in Italia, ma pensiamo al referendum sul nucleare del 1987 o meglio ancora la più che ventennale storia della “variante di valico” tra Bologna e

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Firenze, oltre alle questioni di discariche e inceneritori. Tutte queste sareb-bero certamente casistiche che, facendoci assistere a conflitti tra attori poli-tici sul divenire di un territorio, sono da definirsi quindi geopolitici. Essen-do interni a uno stesso Stato sono certamente di geopolitica interna.

Cominciamo però col precisare alcune cose. I casi di antagonismo tra at-tori territoriali in realtà riguardano un numero di casistiche ben maggiori di quelle che abbiamo fin qui descritto. Non solo grandi infrastrutture, come centrali nucleari, vedono crearsi situazioni antagonistiche. Tutte le azioni degli attori politici si concretizzano sul territorio e la stragrande maggio-ranza di queste hanno un’influenza forte e di lungo periodo sulla fruibilità di quest’ultimo.

Ma, come sempre, cominciamo dalle parole. Leggendo queste poche ri-ghe, e soprattutto mentre si leggeranno le prossime pagine, è facile pensare che si stia parlando di pianificazione territoriale. Cos’è? Molto probabil-mente si penserà a tutte quelle azioni che, particolarmente gli Enti Locali e le Regioni, mettono in atto per “organizzare” il loro territorio e soprattutto per mettere in atto la loro visione del divenire del territorio di cui sono re-sponsabili. In questo rientrano per esempio tutte le infrastrutture, ma anche l’organizzazione di tutti quelli che chiamiamo “servizi d’interesse genera-le” (l’acqua, gli ospedali, le scuole, ecc.). Ma anche tutte quelle politiche che mirano a favorire lo sviluppo economico di un dato territorio, in un qualsiasi settore. Generalmente tutto quello che noi colleghiamo alle infra-strutture concrete (ai manufatti per dirla chiaramente) rientra in genere nel-la “pianificazione territoriale”, mentre le politiche di natura socio-econo-mica, che non si concretizzeranno per forza in un “manufatto”, rientrereb-bero tra quelle politiche genericamente chiamate di “programmazione”. Questa distinzione è impropria. Possiamo dire che conduce a un errore mol-to importante che ha chiare conseguenze sul territorio : scindere due cose che invece dovrebbero essere fatte sempre insieme: scelte infrastrutturali e strategie di sviluppo socio-economico. I Francesi usano una sola parola, in-fatti: aménagement. Questa parola in Italia è erroneamente tradotta “piani-ficazione territoriale” (in francese esiste la definizione di planification ter-ritoriale). Chi scrive ha sempre invece affermato che un modo più vicino alla vera accezione di quella parola (che bene sintetizza l’azione dell’attore pubblico sul territorio) sarebbe quello di parlar di “organizzazione territo-riale”.

Cerchiamo di spiegare meglio facendo riferimento a delle definizioni. Merlin definisce l’aménagement come «l’action et la pratique (plutôt

que la science, la technique ou l’art) de disposer avec ordre, à travers l’espace d’un pays et dans une vision perspective, les hommes et leurs acti-vités, les équipements et les moyens de communication qu’ils peuvent utili-

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ser, en prenant en prenant en compte les contraintes naturelles, humaines et économiques, voire stratégiques»1. Lo stesso Pierre Merlin modifica la sua definizione qualche anno più tardi in un altro suo lavoro dicendo che si cer-ca di raggiungere quello stesso “ordine” in modo da permettere che le “fun-zioni e le relazioni tra gli uomini si esercitino nel modo più comodo, eco-nomico e armonioso”2. Ma, se Merlin si sofferma sull’aspetto del processo di aménagement (questa disposizione armoniosa, questa messa in ordine del territorio) vi è un’altra definizione che invece si sofferma su altri aspetti e che si collega a quella relazione che cerchiamo di stabilire tra turismo e geopolitica. Lacoste, infatti, definisce l’aménagement come «action en principe volontaire et réfléchie d’une collectivité et surtout de ses dirigeants (et personne relativement influentes) visant à mieux répartir sur son terri-toire de nouvelles activités économiques et culturelles»3. Chiaramente la sua spiegazione è più articolata ma conviene qui sottolineare come Lacoste invece sottolinei il ruolo degli attori, comprensibilmente, visto il suo per-corso. Il ruolo degli attori nella gestione del territorio è spesso trascurato o considerato come un aspetto in qualche modo accessorio, potremmo quasi dire ininfluente ma ci sbaglieremmo perché è il suo difficile peso che spes-so spinge i geografi a non considerarlo fino in fondo. Siamo troppo presi dalla considerazione di quello che è oggettivabile per dedicarci alla valuta-zione di qualcosa che invece resta molto difficile da pesare in modo ogget-tivo: la visione e il potere dei vari attori. Una definizione molto più diretta ci viene data da un universitario che ha anche avuto il ruolo di “gestore” del territorio avendo ricoperto diversi incarichi politici locali: il modo in cui il potere organizza il suo territorio in una data società4.

In Italia il “dito sulla piaga” lo mette Carlo Salone quando distingue in Italia l’attuazione delle politiche territoriali come divise in due ambiti spe-cifici: quello della programmazione economica e quello della pianificazio-

1 Merlin P., Aménagement du territoire, pp. 38-43, in Merlin P. e Choay F., (a cura di)

«Dictionnaire de l’urbanisme et de l’aménagement», PUF, Paris, 2003. Possiamo tradurre il testo in: «l’azione e la pratica (piuttosto che la scienza, la tecnica o l’arte) di disporre ordinatamente, nello spazio di un paese e in una visione prospettica, gli uomini e le loro attività, le infrastrutture e i mezzi di comunicazione che possono utilizzare, prendendo in considerazione i vincoli naturali, umani ed economici, nonché strategici».

2Merlin P., L’aménagement du territoire, PUF, Paris, 2002, Introduzione. 3Lacoste Y., De la Géopolitique aux paysages, dictionnaire de la géographie, voce

«Aménagement», Armand Colin, Paris, 2003. «Azione principalmente volontaristica e ragionata di una collettività e soprattutto dei suoi dirigenti (e persone relativamente influenti) mirante a meglio ripartire sul suo territorio delle nuove attività economiche e culturali».

4 Girardon J., Politiques d’aménagement du territoire, Ellipses, Paris, 2006. Intro-duzione.

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ne urbanistica e territoriale (facendo direttamente riferimento al termine anglosassone planning)5. Non ci soffermeremo sulle ragioni che hanno spinto l’Italia su un cammino che l’ha portata sempre più a una sconsidera-ta separazione tra territorio da una parte e azione politico-economica dall’altro, anche se le ragioni vanno cercate probabilmente nella messa al bando della geografia italiana (a torto o a ragione, qui poco importa) fin dalla fine della seconda guerra mondiale. Lo spettacolo è davanti a tutti: un Paese che evolve nel suo territorio in un modo profondamente disordinato, con tutti i costi (economici, sociali, ambientali) che vi sono connessi. È proprio quest’assenza che ci spinge ad approfondire questa domanda sul concetto di aménagement.

Francesca Governa sottolinea questa separazione tra politiche e territo-rio, dove quest’ultimo sarebbe presente solo come “supporto passivo dell’azione, modellato da processi esterni ad esso” e verrebbe ridotto a “in-sieme delle relazioni favorite dalla prossimità fisica dei soggetti”6. Nel suo lavoro si spingerà poi a meglio esaminare l’evoluzione del ruolo del territo-rio rispetto soprattutto a elementi come la governance, ma soffermiamoci qui unicamente sul diverso approccio e le sue conseguenze che i geografi italiani hanno comunque dato al territorio nelle politiche che chiamano di Pianificazione territoriale ma che noi preferiamo definire di organizzazione non solo per un capriccio linguistico ma per una ragione di accezione più vicina alla traduzione francese di aménagement. Perché è di questo che si tratta: di organizzare un territorio in tutti i suoi aspetti ogni qual volta si co-struisce una strada o si vuole collocare un asilo nido. Le due cose per quan-to estremamente distanti non appartengono una a un ingegnere o architetto e l’altro a un assistente sociale ma derivano dalla volontà e visione di un attore pubblico e dalle scelte che territorialmente questi si presta a fare. Si-gnifica cioè mettere “ordine” come scrive Merlin in un territorio con un obiettivo di “armonia” o di “visione scelta” direbbe Lacoste: quella del-l’attore.

In materia di sviluppo territoriale si tratta di fare principalmente questo tipo di scelte.

Ciò che rende più delicato il parlare di aménagement è proprio la molte-plicità degli attori/decisori nonché la trasversalità delle leve d’azione che hanno a loro disposizione. Dopo quanto scritto fin qui, è chiaro che ciascu-

5Salone C., Politiche territoriali: L’azione collettiva nella dimensione territoriale,

UTET, Torino 2005. 6Governa F., Territorio e azione collettiva nelle politiche di sviluppo locale, in

«Geotema», n. 26, Anno IX, maggio-agosto, 2005, pp. 49-66.

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na azione pubblica su un territorio rappresenta un processo politico fondato su delle forme di razionalità collettiva7.

La definizione data da Healey sottolignea ciò che è stato appena scritto a svantaggio di una visione che spesso è troppo legata al “manufatto” archi-tettonico o quanto meno è una visione eccessivamente tecnica (quasi asetti-ca).

La studiosa inglese sottolinea il ruolo dell’attore definendolo come “[…] l’oggetto di critiche e ostilità e oggetto delle nostre speranze in mate-ria di regolazione effettiva della comunità”8.

È vero che Healey propone quella che lei stessa definisce come la “nuo-va teoria della pianificazione comunicativa”, cioè una forma di pianifica-zione più collaborativa, cosa che, se è certamente auspicabile, sappiamo es-sere difficile da mettere in atto. Quello che però ci interessa maggiormente del suo lavoro è il rifiuto di una ripartizione settoriale preferendo invece una prospettiva “territoriale” per meglio comprendere come le nostre attivi-tà interagiscono con il nostro sistema di vita. Se da una parte è vero che siamo giunti alla modernità attraverso delle tappe positive (sanità e ascesa sociale), è anche vero che diversi elementi negativi sono apparsi come l’aumento delle ineguaglianze economiche o dell’esclusione sociale.

Possiamo sintetizzare queste ultime affermazioni dicendo che sia se chiamata pianificazione sia se chiamata aménagement, la gestione del terri-torio da parte dei diversi attori è certamente complessa, multidisciplinare e conflittuale9. Vedremo più avanti, nel dettaglio, come la riforma costitu-zionale del 2001 è stata portata avanti non solo per attribuire più di potere alle Regioni, cosa non criticabile in sé tecnicamente, ma anche con l’obbiettivo d’aumentare la capacità di sviluppo del territorio nazionale at-traverso uno sviluppo differenziato. È qui, in qualche modo, che si colloca il principio della competitività dei territorî. Una competitività che ha con-tribuito, nel quadro della riforma italiana, a aumentare le ineguaglianze dei territorî e, di conseguenza, le ineguaglianze tra cittadini.

Continuiamo sulle specificità dell’aménagement, ma prima cerchiamo di cambiare il livello della nostra analisi per meglio comprendere da dove viene questa disaffezione per la scala “nazionale” a vantaggio di quella “lo-cale”, oramai considerata come dominante. Esiste certamente una vasta let-teratura su fenomeni come mondializzazione o “globalocal” e non voglia-mo certo aggiungerci anche noi. L’obiettivo qui è semplicemente di com-

7 Subirats J ., R. Gallego, Veinte años de autonomias en España : Leyes, Politicas pùbli-

cas, instituciones y opinion pùblica, Madrid, CIS, 2002. 8 Healey P., Collaborative Planning: Shaping Places in Fragmented Societies, Palgrave

Macmillan, Londra, 2006. 9 Bettoni G., Dalla Geografia alla Geopolitica, FrancoAngeli, Milano, 2009.

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prendere da dove viene questa spinta che ha portato Paesi come Italia o Gran Bretagna (ma anche la stessa Francia in qualche sorta) a lanciarsi in complesse riforme istituzionali, spesso anche abbastanza eccentriche. Il Regno Unito è uno di questi, dato che Irlanda del Nord, Galles e Scozia hanno il loro proprio Parlamento con rappresentanti unicamente eletti tra la loro popolazione, mentre l’Inghilterra non ha un parlamento diciamo “loca-le” ma solo quello nazionale dove però sono presenti anche rappresentanti scozzesi, gallesi e dell’Irlanda del Nord.

In materia di globalizzazione e glocalizzazione dovremmo considerare sia il periodo storico in cui questi fenomeni si sono prodotti che le aree geografiche che ne sono state interessate. Infatti, se da una arte il periodo coincide con l’arrivo di tecnologie precise come internet e telefonia mobile nella nostra vita quotidiana, dall’altra parte vi troviamo anche un cambia-mento storico molto preciso: la fine del mondo bipolare. In molti Paesi il bipolarismo planetario giustificava e teneva in piedi il sistema politico di governo – era proprio il caso dell’Italia, per esempio. Con la fine del bipo-larismo si assiste a una vera e propria ridefinizione degli equilibri: certa-mente a livello planetario ma anche, in certi Stati, interni agli stessi. Per questi molti Paesi cominciano diversi problemi a cominciare, per esempio, dall’Italia e dal Belgio (seppur la natura di questi problemi sia certamente diversa). I famosi “trent’anni gloriosi” (quelli del secondo dopoguerra, ca-ratterizzati da una grande crescita economica) sono trascorsi senza che certi Stati riuscissero a costruire una “coscienza nazionale” condivisa; di conse-guenza lo Stato fu considerato unicamente una sorta di macchina di riscos-sione senza coglierne l’importanza del suo ruolo unificatore. L’esempio dell’Italia è parlante, particolarmente se si considera che gli attori concor-renti sono proprio quelle Regioni la cui identità è la più fragile fra le diver-se identità territoriali italiane (e lo vedremo nel dettaglio più avanti), senza dimenticare mani-pulite che nel 1992 delegittima un’intera classe politica nazionale. Per lo Stato, il centro della “nazione” italiana, il trasferimento di una larga parte delle proprie competenze diventa ineluttabile.

Aldilà dello stesso caso italiano quello che ci interessa è sottolineare i diversi impatti che un fenomeno di taglia planetaria – la fine del bipolari-smo mondiale – ha avuto sui diversi Paesi Europei, con risultati estrema-mente diversi. Potremmo considerare in seguito anche i diversi risultati elettorali che si sono avuti in Italia – la lega nel Nord del Paese, Forza Italia che sfonda ovunque ma appoggiandosi al nord con la Lega e al Sud con il MSI/AN (partiti che tra loro si percepiscono come nemici), la frammenta-zione in modo diverso (tra destra e sinistra) del voto cattolico, una volta unito intorno alla Democrazia Cristiana, partito d’ispirazione religiosa. Stiamo in questo modo facendo riferimento direttamente ai livelli di analisi

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di Yves Lacoste sia per quanto riguarda l’aspetto territoriale che temporale. Questo ci porta a un legame ancora più forte tra “governance” e geopolitica interna.

Le diverse ripercussioni sui territorî hanno un rapporto diretto con il modo di gestire e organizzare l’azione pubblica anche perché è il territorio il luogo sul quale si concretizza l’azione pubblica e non solo infrastruttura-le. L’azione dell’attore pubblico, come definizione, viene espressa al singo-lare, trascurando invece che per ogni territorio gli attori pubblici sono mol-teplici e spesso con visioni contrastanti tra loro. È anche per questo motivo che la competitività dei territori ha portato alla luce dei tipi di antagonismo che fin qui o erano sconosciuti o abbastanza trascurati. Oramai i diversi at-tori locali sono coinvolti in prima persona, mediatizzati, per conflitti di di-versa natura: perché vogliono che si finanzi qualcosa, perché vogliono che non venga fatta una determinata infrastruttura, perché temono che accada loro qualcosa che non potranno controllare. Insomma in tempi di crisi (ma non solo!) organizzare un territorio è complesso, soprattutto quando le re-gole del gioco sono molto confuse (o quasi non ce ne sono proprio) come nel caso dell’Italia.

Allora se parliamo di geopolitica interna che cosa vuol dire conflittualità nel caso dell’organizzazione del territorio? Cerchiamo prima di capire quali casistiche abbiamo, cioè quali sono le situazioni in cui spesso ci si trova quando si gestisce un territorio e si cerca di intervenire con dei progetti di sviluppo o delle infrastrutture.

La politica dell’Italia in materia d’intervento infrastrutturale è stata estremamente discontinua (come un po’ in tutte le diverse materie di Go-verno, a dispetto della grande continuità della composizione dei governi Italiani fino al 1994. In effetti, l’Italia ha certamente conosciuto moltissimi Governi nascere e morire, ma le alleanze che li componevano erano estre-mamente stabili (la DC ha praticamente governato ininterrottamente dalla nascita della Repubblica fino alla sua scomparsa come partito Cattolico unico). La vera difficoltà dell’Italia è certamente stata quella della sua composizione “localistica”. Ogni partito, anche il PCI per dirla tutta, era in realtà a Roma come il frutto di forze locali, deferenziate. L’Unico vero par-tito nazionale dell’Italia è stato Forza Italia, ma solo nella fase 1994-1996. Da allora in poi anche FI si basò su un funzionamento di “baronati cliente-lari” locali, come tutti gli altri partiti Italiani: dall’inizio a oggi. Le infra-strutture Italiane (visto che stiamo concentrandoci su quelle, poi verremo a parlare anche di politiche di sviluppo e programmazione) si sono fatte prin-cipalmente prima degli anni ’80. Anni cioè in cui si poteva accontentare qualunque attore locale con progetti se non faraonici, quantomeno inutili. Teniamo però presente che nel secondo dopoguerra fu fatta una scelta in-

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frastrutturale e di sviluppo molto precisa e che faceva capo a u grande me-ridionalista italiano: Manlio Rossi Doria. Senza soffermarci troppo sul la-voro di questo indimenticabile studioso e antifascista, limitiamoci a spiega-re (semplificandolo e ce ne scusiamo) il suo concetto dell’osso e la polpa10. Fondamentalmente quando occorreva ricostruire l’Italia, alla fine della se-conda Guerra Mondiale, occorreva fare una scelta sul “dove” andare a in-vestire. L’idea era quella d’investire laddove esisteva maggiore forza viva, più popolazione, attività economiche almeno un minimo già presenti, ecc. Insomma la “polpa” del Paese (che era fondamentalmente sulla costa per quanto riguarda l’Italia peninsulare e insulare) avrebbe ricevuto quelle grandi industrie e infrastrutture che avrebbero avuto un ritorno economico importante, più elevato che se si fosse investito dov’era l’“osso”. Quella ricchezza così prodotta avrebbe poi portato sviluppo anche nel resto del Paese, dove non c’era la polpa insomma. Il ragionamento è chiaro e effica-ce solo che Rossi Doria non prevedeva le follie clientelari e le assurdità in materia di politiche di sviluppo che i diversi Governi Italiani misero in atto nel Mezzogiorno. Non sappiamo cha ne sarebbe stato della politica del-l’“osso e la polpa” di Rossi Doria se fosse stata portata avanti da una classe di decisori politici di migliore qualità. Sappiamo che le famose “cattedrali nel deserto” vengono, in un certo senso, da questo approccio. Questa picco-la precisazione, prima di spiegare le differenti casistiche di conflitto in ma-teria di interventi infrastrutturali, era necessaria per capire come si arriva al quadro di oggi. Un quadro fatto di diversi punti: paura di perdita di compe-titività e di impoverimento, paura di danni ambientali o sconvolgimenti (inutili) paesaggistici. Queste paure non erano presenti nel Paese durante i primi tre decennî della Repubblica. Diventano invece sempre più diffusi dalla famosa stagione del referendum abrogativo sul nucleare che, ricor-diamolo, ebbe luogo in Italia il novembre del 1987. Perché possiamo quasi considerarlo una linea spartiacque? Perché quel nucleare che aveva il so-stegno (a favore dell’abrogazione) del PCI significò una presa di coscienza collettiva del ruolo dell’ambiente, tema che diventava sempre più importan-te anche nello scenario nazionale. Non è indifferente sottolineare qui che quel referendum non aveva tutte le sue ragioni sull’aspetto ambientale, ma al contrario gli oppositori al nucleare lo erano prima di tutto perché non vo-levano missili a testata nucleare e cioè per questioni politiche e pacifiste. L’aspetto ambientale era presente ma era minore rispetto a questa chiave di lettura e motivazione.

10 Rossi Doria M., Scritti sul Mezzogiorno, Einaudi, Torino, 1982.

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Oramai, dopo il maremoto che ha colpito il Giappone nel 2011 e provo-cato la catastrofe nucleare di Fukushima, ogni desiderio di ritorno al nu-cleare è stato abbandonato. Ma, per diversi anni in Italia ci si apprestava a fare ritorno a questa tecnologia e il Governo Berlusconi sembrava essere più che mai deciso in questo senso. Eliminata la questione nucleare però non si smette di avere situazioni conflittuali a livello territoriale. Prima fra tutte, ma non certo unica, la questione “No TAV” in Val di Susa (l’oppo-sizione al progetto del treno ad alta velocità che, rilegando Lione a Torino, completerebbe il progetto d’alta velocità che andrebbe prima di tutto da Londra a Lubiana). Non entriamo in questa sede all’interno di ogni specifi-co caso, ma cerchiamo solo di far notare quanto questo genere di situazioni oramai sia all’ordine del giorno, coinvolgendo inceneritori o centrali di trat-tamento rifiuti, stabilimenti chimici, grosse infrastrutture di trasporto come TAV e aeroporti intercontinentali, insomma tutti interventi che modificano profondamente il territorio e che non vedono certamente unanimità. Que-sto genere di conflitti è certamente portato a piene mani dai media ma conta anche su una relativamente recente presa di coscienza che non esisteva ne-gli anni ’60 o ’70, almeno non nella stessa dimensione. Eppure incidenti non ne mancavano: basti pensare solo a Seveso11. Insomma possiamo dire che da un buon venticinquennio la conflittualità in questo settore è esplosa per i motivi più diversi: l’opposizione di chi rischia di essere accanto a un aeroporto o a un treno che va a 300 Km/h, cittadine in collera perché una fabbrica de localizza o perché un tribunale o un ospedale vengono chiusi. Questi casi hanno in comune una sola cosa: il territorio, il suo controllo. Sono invece molto diversi su alcuni punti: prima di tutto la posta in gioco, i rapporti con l’organizzazione del territorio e all’attore politico che porta avanti l’azione, i tipi di attori politici coinvolti, i rapporti di forza presenti, gli strumenti d’azione che vengono utilizzati, soprattutto le rappresentazio-ni geopolitiche usate nonché gli impatti che queste diverse azioni possono avere sul territorio. Da qui la necessità di definire almeno una grossolana tipologia di classifica. Su questo concordiamo (ma solo su questo) sulle tre principali tipologie che elabora anche Philippe Subra: minacciato, desidera-to e respinto12.

11 Il 10 luglio 1976 nell'azienda ICMESA di Meda si ebbe una fuoriuscita di diossina

che coinvolse diversi comuni della Bassa Brianza e in particolare il Comune di Seveso con danni gravissimi alle persone e all’ambiente. Da allora in poi la regolamentazione di sicurezza per le aziende chimiche pericolose, a livello internazionale, viene chiamata come regolamentazione Seveso, proprio per la gravità dell’incidente.

12 Subra P., Géopolitique de l’aménagement du territoire, Armand Colin, Paris, 2007.

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“Minacciato” è quello che riscontriamo ad ogni chiusura d’azienda (fe-nomeno diffuso per un Paese come l’Italia visto che buona parte della sua produttività era legata a dei settori con un valore aggiunto sempre più bas-so, come tessile, calzaturiero, ecc. Oggi quasi del tutto de localizzati fuori dalla UE). Ogni qual volta assistiamo a una delocalizzazione verso Paesi in via di sviluppo o comunque con basso costo della manodopera, si assiste immediatamente a delle forme di contestazione più o meno violenta da par-te degli abitanti dei territori coinvolti. Ma, in realtà si tratta anche di altri casi, come le chiusure delle basi militari in determinate aree (nel caso ita-liano si è trattato particolarmente delle Regioni nord-orientali come Veneto e Friuli-Venezia Giulia) oppure di grossi stabilimenti industriali che appar-tenevano allo Stato. Si tratta di casi in cui il territorio è in “difesa” rispetto a qualcosa di cui sta per essere privato, sia come fonte economica perché occupa diversi abitanti locali, sia perché fornisce un servizio pubblico, co-me appunto ospedali o tribunali. In questo caso il territorio viene rappresen-tato come in declino, colpevolizzando chi vuole indebolirlo, impoverirlo, come lo Stato o la Regione (che chiude eventualmente un ospedale). Rap-presentanti politici locali, sindacati, associazioni, in genere, scendono in piazza dando una prova di drammatizzazione, proprio come dice Yves La-coste quando parla di rappresentazione come drammatizzazione del conflit-to. In genere, infatti, i rappresentanti locali giudicano la struttura di cui li si vuole privare come indispensabile: oltre quel momento vi sarebbe un decli-no e una fine per il territorio in questione ineluttabili. Quasi sempre si arri-va alla fine, cioè alla chiusura o spostamento dell’impresa. Allora lo stesso fronte che chiedeva di non perdere quel servizio o quell’attività produttiva, chiede una sorta di compensazione economica: volete toglierci l’azienda principale? Allora dovete darci qualcosa che ci permetta di vivere, di so-pravvivere. Una sorta do “organizzazione territoriale di riparazione”. In Paesi con forte centralizzazione, in cui lo Stato centrale ha evidentemente più potere, termina quasi sempre in questo modo, cioè con lo Stato che eventualmente paga qualcosa ma comunque chiude quello che voleva chiu-dere o lascia spostare quello che si voleva de localizzare. In Paesi come il nostro, le cose sono diverse. Lo Stato è certamente oggi più debole, ma non dimentichiamo che lo era già in passato, prima della riforma del Titolo V della Costituzione. Proprio per le ragioni che abbiamo accennato riguardo alla natura della rappresentanza politica italiana. Essendo fatta di feudi lo-cali che “delegano” a Roma, il rapporto di forza tra locale e Centro è sem-pre stato discutibile. Nel momento in cui il rappresentante nazionale di un determinato territorio (e qui non si parla di Parlamentari ma di rappresen-tante nazionale in senso di forza, di potere) batteva i pugni sul tavolo del proprio partito, o del Governo al quale il suo partito partecipava, il suo peso

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specifico, la sua capacità di ricatto era molto elevata, quindi spesso poteva mettersi di traverso. Allora o il progetto si bloccava o veniva a costare, at-traverso le compensazioni economiche necessarie, somme faraoniche, ri-spetto a qualunque Paese europeo. Un esempio interessante ci viene dato la bacino minerario (di carbone prevalentemente) della Sardegna sudocciden-tale: Carbonia e Iglesias. Quel bacino carbonifero, che dava lavoro a decine di migliaia di famiglie si rivelò essere verso la fine degli anni ’70 e soprat-tutto anni ’80, pochissimo competitivo a livello internazionale (la qualità di carbone era scarsa rispetto a quello di altre parti del mondo) a un certo pun-to andava verso un declino certo e, sintetizzando decenni d’interventi, si cercò in tutti i modi di dirigere il territorio verso altre tipologie economi-che. Il problema è che la relativa debolezza degli attori nazionali rispetto a quelli locali, nonché la confusione sulle azioni da portare avanti (una vera e propria cacofonia di sviluppo territoriale) ha fatto si che decine di miliardi di euro (convertendo anche le vecchie lire) siano oggettivamente buttati via senza realizzare nessun intervento decisivo, capace di dare una svolta a quel territorio verso altre linee di crescita economica. Lo Stato infatti fu in-capace di allontanare dal settore estrattivo gli attori locali e gli abitanti che restavano estremamente attaccati a un settore che caratterizza moltissimo a livello identitario. Oggi il Sulcis-Iglesiente, quella che per pochissimo è stata la provincia Carbonia Iglesias, continua ad annaspare in una riconver-sione che sia capace di portarla lontano da un settore definitivamente scomparso. In altri Stati, dove il funzionamento della macchina istituziona-le era più chiaro, questo genere di riconversione è stata effettuata in modo certo sempre doloroso, ma indubbiamente più efficace (e meno dispendio-sa). Ci sembra chiaro a questo punto che in quanto a minaccia, la minaccia tipica che un territorio può subire è quella della perdita, una perdita che è di ricchezza, di popolazione, di attrattiva. L’Italia ha un punto di diversità ri-spetto ad altri Paesi Europei: una densità abitativa molto alta. Paesi come Francia, Spagna, Polonia, Turchia, per non parlare dei Paesi Scandinavi, hanno un grosso problema di scarsa densità abitativa. L’Italia supera i 60 milioni di abitanti, come la Francia all’incirca, ma con un territorio che è della metà (un po’ di più rispetto alla Francia, un po’ di meno rispetto alla Turchia), problemi come desertificazione o disequilibrio generazionale sembrano esserci estranei. Ma, non è così. Vi sono aeree importanti del no-stro territorio che o si svuotano o hanno una percentuale di persone anziane che è “preoccupantemente” alta. Si tratta di questioni che gli specialisti di organizzazione territoriale e di sviluppo economico devono però osservare da vicino. In questo senso la perdita di aziende dove poter lavorare o di servizi pubblici, necessari alla nostra realizzazione di vita, rappresentano pericoli che conducono ancora di più verso situazioni di disequilibrio. Gli

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esempi che ci potrebbero interessare non li troviamo solo in aree prevedibi-li, come per esempio la Barbagia dove effettivamente siamo a fronte di per-centuali di densità degne di un paese scandinavo (fra i 30 e gli 80 abitanti per km2) oppure aree della Basilicata o del Molise (tra le più scarsamente abitate. Un problema serio di disequilibrio sia di densità sia di fasce di età lo troviamo, per esempio, anche in Lombardia. A fronte di territori estre-mamente densi, come Busto Arsizio, Legnano, Gallarate (prendiamo l’e-sempio della Provincia di Varese ma potremmo fare lo stesso con Brescia o Bergamo) troviamo aeree che invece hanno percentuali bassissime di abi-tanti, soprattutto nella parte nord, montagnosa, della stessa provincia. A Pavia invece il problema è tra un’area a valle, vicino al capoluogo, forte-mente abitata e soprattutto da persone in fascia di età attiva, mentre nella stessa provincia, appena si attraversa il Po e si sale in collina, ci si trova con delle percentuali di pensionati che supera la media provinciale anche del doppio. Insomma se mai si discute di questo problema (in un paese, il nostro, che ha comunque la percentuale di natalità più bassa d’Europa) non lo si fa certo preoccupandosi delle profonde ineguaglianze che vi sono (ba-sti pensare alle differenze tra la costa napoletana, tra i territori col più alto carico antropico d’Italia e l’interno del Sannio e dell’Irpinia). Qualunque specialista di politiche territoriali si preoccuperebbe di questo e capiamo molto in fretta quanto questo disequilibrio si aggrava in caso di chiusura di fabbriche o di scuole o di ospedali, rendendovi la vita per gli abitanti sem-pre più difficile e sempre più complicata. Questo per l’Italia che ha già co-nosciuto direttamente il costo durissimo di fortissime emigrazioni interne e abbandoni di vasti territorî. Da qui la preoccupazione forte degli attori loca-li per le chiusure di servizi pubblici che invece sono considerati essenziali. Gli attori locali, spesso in conflitto tra loro, arrivano però a unirsi in queste situazioni per difendere il loro territorio comune dagli “attacchi esterni” di attori politici (lo Stato o la Regione) che rischiano di compromettere la so-pravvivenza e l’identità della loro terra. Perché poi la questione è molto portata proprio su questo punto: l’identità. Un’identità spesso resa esempla-re per antichità di cultura, per qualità della vita (natura, rispetto della tradi-zione, salute, paesaggio, ecc.). Gli attori si uniscono e difendono il loro ter-ritorio rappresentandolo quasi come idilliaco ma al tempo stesso in pericolo di esistenza. Dovremmo a questo punto aprire un’altra parentesi ma che di-venterebbe troppo vasta, sulla questione del servizio pubblico o, come do-vremmo ormai dire, sul servizio d’interesse generale. È uno strumento chiave, una vera arma nelle mani dell’attore pubblico, proprio per gestire l’evoluzione del proprio territorio determinandone la vivibilità. Ci tornere-mo più avanti, dopo aver spiegato le tre tipologie di conflitti per l’organiz-zazione del territorio, alla fine di questa stessa parte.

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Un tipo di conflitto certamente più recente e quello per l’organizzazione

territoriale “desiderata” e che riguarda esattamente la competitività tra terri-tori. Attrarre un investimento, sia interno che dall’estero, in un determinato territorio significa “organizzarlo” in modo da renderlo appetibile per l’in-vestitore. Questo richiede degli interventi (soprattutto ma non solo infra-strutturali) specifici per l’attrattiva di un settore economico. Così se vo-gliamo fare in modo che un territorio riesca a attirare degli investitori del settore biotecnologico dovremo preoccuparci d’intervenire in quegli aspetti considerati sensibili (per quel preciso settore). Nel nostro esempio un ele-mento di poca importanza è il costo della manodopera perché un ricercatore di un’azienda farmaceutica di grande livello è generalmente di altissimo livello di formazione. Infatti, uno dei distretti mondiali più importanti in questo settore è quello di “oxbridge” (un insieme territoriale tra Oxford e Cambridge dove il costo della manodopera è altissimo ma dove altrettanto alto è il livello della formazione e della ricerca utile per questo settore in-dustriale): la competitività di quel territorio non è il basso costo della ma-nodopera o del metro quadro, ma l’altissima qualità della ricerca che vi si produce. Gli attori territoriali, quindi, faranno una serie d’interventi per rendere quel territorio attrattivo, ma per questo avranno molti concorrenti (altri territori dello stesso Paese oppure di altri Paesi). Non solo. La compe-titività è anche nel far pressione sull’attore nazionale, o per ottenere un’infrastruttura importante, o perché la si preferisce ad altri territori per degli insediamenti suscettibili di apportare ricchezza o sviluppo economico. Spesso si tratta anche di concorrenza per una determinata infrastruttura co-me fermate d’alta velocità (sembra strano ma c’è chi le vuole), linee tram o trasporto urbano, poli universitari, ospedali, centri di ricerca, grandi inter-venti di riconversione urbana, grandi infrastrutture sportive o culturali. È la ragione anche della grande competizione internazionale per un grande evento, come le esposizioni universali o i giochi Olimpici. Tutti eventi che negli ultimi vent’anni si sono rivelati essere più costosi che utili, ma che tutti continuano a desiderare per almeno due motivi: il primo è la grande visibilità internazionale che in genere si speri resista anche dopo l’evento stesso, il secondo è l’afflusso di grandi somme d’investimento necessari per la preparazione all’evento, come a dire un’occasione per rilanciarsi. In que-sto caso la rivalità è estremamente forte, sia nella comunicazione che nell’attività di lobby. Spesso si tratta anche d’infrastrutture che vedono conflittualità non nel volere o meno la realizzazione ma le condizioni di uso e sfruttamento. In materia di “competitività”, l’attrazione dei grandi eventi resta certamente la più visibile e l’Italia ne ha conosciuti due abbastanza vicini: Torino per le Olimpiadi invernali e l’Expo di Milano. In entrambi i

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casi si è dovuto fare un gioco di lobby che ha visto muoversi in tutti i modi e con tutti i mezzi, tutti gli attori territoriali. Abbiamo già detto che la rica-duta di un grande evento è discutibile (la catastrofe finanziaria greca è in parte dovuta all’organizzazione delle loro Olimpiadi del 2004: fra i giochi più costosi della storia olimpica, oggi la quasi totalità degli impianti realiz-zati è stata abbandonata) ma sono tanti che vogliono comunque giocarsi le loro carte per riuscirci. Milano non è da meno in questa corsa. La lotta è certamente anche tra attori, per una ridefinizione degli equilibri di forza: quello che sta accadendo a Milano tra Regione e Comune, sia in materia di Expo che di fermata della TAV, ne è la prova più evidente. Aldilà delle de-cisioni in materia di expo, la TAV che noi oggi vediamo solo come movi-mento di opposizione in atto in Val di Susa è da anni posta in gioco per gli attori territoriali di Piemonte, Lombardia e Veneto.

Certe infrastrutture sono invece estremamente ricercate per diversi mo-tivi. Se la TAV in Italia la si collega al movimento di opposizione degli abitanti della Val di Susa, in realtà per la stessa linea si battono diversi sin-daci, a cominciare da quelli di Milano e di Brescia. La linea ad alta velocità che attraverserà la Lombardia, provenendo da Torino, avrà una fermata ov-viamente a Milano, il problema era individuare in quale stazione (oramai si è individuata in Milano Centrale). In effetti, la saturazione della principale stazione milanese spingeva a pensare di far fermare l’alta velocità o in un’altra stazione dello scalo milanese (Milano Certosa, dove tra l’altro pas-sa, ma senza farla arrivare in Centrale) o addirittura di farla fermare nella corona urbana milanese e in questo caso si pensava al comune di Rho. Pa-radossalmente tra i più grandi oppositori a quest’ultima soluzione v’era proprio il comune di Milano: la contesa era, semplificandola all’estremo, proprio questa: anche se la Stazione Centrale è satura e Milano è comunque la “capitale” del nord, l’Alta Velocità deve passare da qui perché si ha pau-ra di perdere qualcosa.

La stessa faccenda l’abbiamo sul probabile aeroporto intercontinentale che la Regione Lombardia cerca di costruire da anni a Montichiari, in pro-vincia di Brescia. La scelta di questo comune fu fatta perché v’è già un ae-roporto, ma attualmente è piccolissimo (appena 30.000 passeggeri all’anno e la società che lo gestisce non è lombarda ma quella dell’aeroporto di Ve-rona, quindi Regione e città concorrente!). La Regione vorrebbe farne un grande aeroporto intercontinentale (Malpensa ha diversi limiti e la Regione ha bisogno di maggiori connessioni aeree che al momento con gli aeroporti di Linate, Malpensa e Orio al Serio non riesce a soddisfare, rappresentando un grave limite al suo potenziale sviluppo). Il legame tra la costruzione di un grande aeroporto e la fermata dell’Alta Velocità Milano-Brescia-Verona è semplice. Se non c’è un grande aeroporto intercontinentale, la fermata del

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treno sarà fatta chiaramente nel Comune di Brescia, nella sua attuale sta-zione che verrà adattata per questo. Se invece si realizzasse l’aeroporto di Montichiari allora la fermata del treno potrebbe farsi nell’aeroporto in mo-do da realizzare una connessione tra due mezzi di trasporto veloci Europei (se non li si facesse si provocherebbe quella che tecnicamente viene chia-mata “rottura di carico”). Da qui la lotta del Comune di Brescia per avere la fermata nel proprio comune perché se così non accadesse si ha la sensazio-ne di perdere una grande opportunità di sviluppo e di prestigio per la città. Insomma nella competitività dei territorî le conflittualità sono all’ordine del giorno e il Governo del Paese, una volta decisore, oggi può essere arbitro o a volte di supporto: ma per quale parte in causa? Una delle lamentele tipi-che degli attori politici territoriali è proprio quella di dire che le Regioni non sono abbastanza forti per fare pressione a livello internazionale e che il Governo di Roma non è capace invece di condurre una vera strategia di lobby a livello planetario per attirare investitori esteri. In ogni caso se l’eco della Val di Susa vi sembra enorme, ricordate che sono molti di più i con-flitti per ottenere delle infrastrutture solo che la larga maggioranza delle volte non sono coperti dai media.

Proprio a quest’ultimo caso citato appartiene la terza categoria di con-flitto legato all’organizzazione territoriale, quello che forse è il più noto da qualche anno a questa parte, quello “respinto”. In questo caso l’infrastrut-tura, l’intervento è al centro del conflitto perché contestato in quanto dan-neggia l’ambiente sia a livello locale (per inquinamento dell’area circostan-te, distruzione dell’ecosistema, perché danneggia il paesaggio, ecc.) sia a livello globale per la produzione di gas a effetto serra che danneggiano l’atmosfera del pianeta. Esiste anche la resistenza perché ci si oppone al di-sturbo (sotto molti aspetti) che tale infrastruttura può apportare, rendendo difficile, sgradevole, insopportabile, la vita quotidiana in quel territorio. Spesso tutte queste motivazioni coesistono nella stessa infrastruttura. In quest’ultimo caso va inserita anche un’altra casistica, nella specificità del “disturbo”: quella del disturbo non di rumore o di odore o visivo, ma un di-sturbo prettamente sociale, legato al rifiuto dell’arrivo di popolazioni inde-siderate. Per esempio si respinge un centro accoglienza per i senzatetto per-ché dopo l’area vedrà molto rifugiati arrivare, così com’è il caso per i centri d’accoglienza degli immigrati per esempio sull’isola di Lampedusa.

Per quanto riguarda il rifiuto di una grande infrastruttura o dell’insedia-mento di uno stabilimento industriale, negli ultimi decenni ha fatto la sua apparizione un nuovo acronimo: Nimby (Not In My Back Yard). In Italia i casi sono tanti (il rigasificatore di Brindisi, l’alta Velocità ferroviaria nel suo tracciato della Val di Susa, ecc.). Insomma sono tutti quegli interventi a cui gli abitanti del territorio interessato si oppongono (quasi sempre in mo-

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do aggressivo e mediatizzato), e tentano di ostacolare perché suscettibili di modificare in modo insopportabile il loro contesto di vita, il loro territorio. È sempre esistita la sindrome di Nimby? È solo un modo nuovo di chiama-re vecchie opposizioni? Oppure una volta non ci si opponeva al fatto che ci mettessero un’industria chimica a poche centinaia di metri da casa nostra? È nell’ambito della scuola americana di sociologia degli anni ’60 che nasce quella che sarà chiamata la “sindrome di Nimby” e, come vedremo di se-guito, non è esattamente la stessa cosa di quello che accadeva per esempio negli anni ’80 in opposizione al nucleare. La cosa è bene diversa e non di poco conto. Quelli che oggi sono i primi a reagire per la sindrome di Nimby non sono i militanti di Greenpeace o Lega Ambiente italiana oppure i diversi partiti ecologisti. La vera differenza è che i primi a reagire e classi-ficabili come appartenenti alla sindrome di Nimby sono gli abitanti locali che protestano contro un progetto per il disturbo che quel progetto provoca e che possono essere rumore, inquinamento, rovina del paesaggio, valoriz-zazione del patrimonio immobiliare esistente. Giusto per accennare al caso della Val di Susa: i primi a reagire furono gli stessi abitanti della valle che non è detto che si sarebbero opposti all’alta velocità se questa fosse stata fatta in un’altra valle diversa dalla loro. Cioè non si tratta di un’opposizione di principio a quella data infrastruttura (come appunto farebbero Greenpea-ce o Lega Ambiente) ma semplicemente non vogliono che sia fatta a casa loro: fatela altrove se volete ma non qui. Potrebbero addirittura essere favo-revoli alla stessa infrastruttura, se solo fosse fatta altrove. Spesso la diffe-renziazione che viene fatta tra ambientalista e oppositore che rientra nella sindrome di Nimby è che da una parte l’ambientalista cerca di proteggere quel bene comune che è l’ambiente, ovunque e comunque, mentre spesso l’azione delle persone che rientrano ella sindrome di Nimby è il loro pre-sunto egoismo, il fatto cioè di non voler sopportare il costo di quella infra-struttura ma non per questo di opporsi al che si faccia altrove. Da un certo punto di vista è senz’altro così: le opposizioni Nimby non sono, nella mag-gioranza dei casi, legati a movimenti sinceramente ambientali: quanti vo-gliono gli inceneritori ma non vicino casa loro? E quanto vogliono in Italia il nucleare ma sarebbero i primi a protestare se questa si facesse a meno di 100 Km da casa loro? L’accusa che viene portata loro è quella di mettere a rischio il principio stesso di servizio d’interesse generale. Si mette in di-scussione la coesione e solidarietà nazionale (siamo italiani ma se fate qualcosa di pericoloso vicino casa mia allora non lo sono più). Quello che è interessante è che la sindrome di Nimby provoca reazioni diverse a seconda del paese in cui si hanno questo tipo di reazioni. Per esempio in Francia, dove la solidarietà nazionale e l’identità nazionale sono certamente più so-lidi e coesi che non da noi, dove l’importanza del servizio d’interesse gene-

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rale è riconosciuto come pilastro stesso della nazione, la reazione Nimby è estremamente criticata e fin dall’inizio l’immagine degli abitanti che rifiu-tano per esempio il passaggio dell’alta velocità è molto negativa. Lì si vede come un gruppo di abitanti che per la loro comodità locale rifiutano che è certamente utile alla nazione tutta. In Italia questo genere di critica, pur es-sendo presente, è certamente meno marcata. Forse per la prima volta, pro-prio nel caso della Val di Susa, il fenomeno di critica fatto agli abitanti per il loro rifiuto ad accattarla, era anche basata su questo aspetto. Ma oramai nei media i due fronti (favorevoli o non favorevoli) si sono spostati sul li-vello nazionale, cioè i diversi partiti politici o movimenti di livello naziona-le (nonché internazionale) che si oppongono negando l’utilità e soprattutto ricordando l’eventuale dispendio di risorse inutilmente. Insomma se ini-zialmente il movimento di opposizione era locale, rapidamente la rappre-sentazione si è spostata su una scala politica nazionale, si sono cioè uniti i diversi movimenti ambientalisti o i diversi partiti politici nazionali. L’opposizione tra i due fronti viene a galla solo quando vi sono (regolar-mente) degli scontri tra i diversi movimenti di protesta (senza più distin-guerli tra locali, nazionali e internazionali) e le forze dell’ordine che cerca-no di imporre il cantiere. Questo conduce anche a degli strani amalgami tra manifestanti che sono rappresentanze locali (legati alla sindrome di Nimby) e movimenti ambientalisti diversi e che hanno una composizione sociologi-ca profondamente diversa. Gli ambientalisti sono quasi sempre dei soggetti giovani, di origine urbana, di classe media e con una buona preparazione o un buon livello di studi, di classe media e quasi sempre non abitano nel ter-ritorio per il quale protestano e manifestano. Invece i manifestanti che rien-trano nella casistica Nimby hanno un profilo molto diverso. Tanto per co-minciare sono dei proprietari locali e in genere si diventa proprietari di ter-reni e case non certo a venticinque anni, quindi hanno un’età più elevata. E per lo stesso motivo hanno un quadro diverso, spesso sono addirittura pen-sionati, oppure dirigenti come anche operai di aziende locali, certamente quasi mai cittadini. Quello che però è interessante ricordare è la convergen-za di questi due profili sociologici abbastanza diversi tra loro e che riescono a mettere in difficoltà, quasi invertendo i rapporti di forza, le grandi impre-se che devono realizzare l’infrastruttura. La loro alleanza è effettivamente estremamente pericolosa perché sul territorio gli abitanti riescono a appor-tare quel numero di persone necessarie a far blocco, oltre quelle che posso-no venire da fuori, mentre gli ambientalisti e i movimenti nazionali appor-tano tutta la competenza in materia di comunicazione. Questo rende molto complicato riuscire a portare avanti dei progetti importanti in aree in cui questa sorta di “alleanza” tra abitanti e ambientalisti si mette in atto.

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Ci sembra necessario ricordare quel caso che abbiamo indicato come di “disturbo sociale”. È forse quello meno citato e certamente il più pericolo-so. Infatti, si tratta di reazioni che spingono a non volere aree di mescolan-za sociale, come a dire che un’area considerata costosa e magari prevalen-temente abitata da gruppi sociali agiati, non deve essere per esempio coin-volta in progetti di centri sociali o nuove strutture carcerarie. Il disturbo so-ciale in Italia è molto spesso frutto di un cattivo controllo da parte del-l’attore territoriale del divenire del proprio territorio. Un attore che spesso non è capace di anticipare e agire. Il caso urbano di Brescia, ma ce ne sono decine come per esempio l’Esquilino a Roma, oppure la famosa area cinese di Milano. Si tratta sempre di casi che s’innescano sulla libera iniziativa privata e l’attore pubblico insegue intervenendo sempre quando oramai il fenomeno ha già raggiunto un elevato livello di conflittualità. Negli anni ’60 e ’70 questo problema riguardava l’insediamento delle aree di Edilizia Popolare che in genere raccoglievano le famiglie più disagiate di una città e le mettevano tutte nella stessa aree e quasi sempre senza quei servizi ne-cessari a una dignitosa qualità della vita. Vi furono ovunque risultati terribi-li a cui ancora oggi non si riesce a trovare una soluzione (a parte qualche rarissimo e molto mediatizzato caso). Questo fenomeno prende sempre più piede in Italia portando a una sorta di omogeneizzazione dei quartieri non senza pericoli per l’attore pubblico che deve garantire una determinata qua-lità dei servizi pubblici in aree estremamente diverse tra loro per tessuto so-ciale. Anche in questo caso, quindi, il rigetto di servizi essenziali è legato al desiderio di vedere tutelata una qualità della vita nel proprio territorio, sen-za per questo respingere il principio stesso di quell’infrastruttura. Il vero pericolo in questi casi di “disturbo sociale” che conduce a una sempre mi-nore mescolanza sociale è anche la sempre più difficile solidarietà tra citta-dini. Come se a un certo punto i cittadini dell’area più ricca si rifiutassero di pagare le tasse per finanziare servizi sociali nei quartieri più poveri, dove abitano cittadini che spesso sono esonerati dalle tasse a causa del loro bas-sissimo reddito. Si asseterebbe a quella che è stata chiamata “secessione urbana”13.

Questa casistica, quella del rifiuto, rilancia una discussione importante: dove realizzare le opere necessarie? Il caso del rigassificatore di Brindisi ne è la prova patente. Il processo di rigassificazione ci permetterebbe di acqui-stare praticamente da qualunque Paese del Mondo (quanto meno a distanze di 7.000 o anche più chilometri), mentre noi oggi dipendiamo quasi com-pletamente da approvvigionamenti via gasdotto che provengono dall’Al-

13 Jaillet M.-C., Peut-on parler de sécession urbaine à propos des villes européennes?,

in « ESPRIT », n° 11, novembre 1999, Parigi, pp.145-167.

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geria (33%), Russia (30%), Olanda (19%), Libia (11% prima della rivolu-zione). L’uso della rigassificazione come procedimento, aumentando i luoghi di approvvigionamento, ci permette di negoziare i prezzi e quindi di ottenerlo a prezzi più bassi rispetto al gasdotto, che è fisso verso un solo produttore. Questo sarebbe quindi a vantaggio di tutto il Paese ma solo un territorio avrebbe la presenza di disturbo del rigassificatore. Il nostro Paese ne avrebbe bisogno di almeno quattro se non cinque (la spagna che ha me-no abitanti di noi ne ha già cinque e vorrebbe costruirne un sesto addirittu-ra). Attualmente solo un rigassificatore è operativo e si trova al largo di Venezia. A Brindisi la British Gas ha abbandonato il progetto dopo undici anni di procedura, come a Porto Recanati, ma anche a Zaule (Trieste) dove ci sono moltissime difficoltà ivi compresa la Slovenia che chiede una pro-cedura di Valutazione Ambientale Strategica Transfrontaliera. Insomma tutti hanno bisogno dei rigassificatori ma nessuno li vorrebbe propriamente vicino di casa. È qui che si denota l’aspetto più critico del Nimby, il suo aspetto considerato individualistico, egoistico (non a caso si usa il termine “sindrome” con una chiara accezione negativa). Secondo il Nimby forum che è a sua volta gestito dall’associazione ARIS (che lo ha creato) vi sareb-bero 331 casi dove si riscontra una opposizione che possiamo collegare alla sindrome di Nimby14. Oltre la metà di questi conflitti sarebbero legati a in-frastrutture destinate all’energia e subito sarebbero seguiti dai casi per la gestione dei rifiuti. Questa situazione conduce a un vero e proprio blocco di quelle politiche infrastrutturali che sembrerebbero necessarie allo sviluppo e alla crescita del Paese. In realtà il problema è molto più complesso, ri-guardo all’Italia, e lo si vedrà proprio nelle pagine che seguiranno, quando si parlerà della riforma del Titolo V della Costituzione. Certo è che per il Nimby forum la soluzione potrebbe essere in un maggiore coinvolgimento delle popolazioni locali nel processo di decisione e di realizzazione, il che è certamente vero. Più precisamente come esempio è indicato quello francese del “dibattito pubblico” (istituito nel 1995). Per essere precisi, più che il “dibattito pubblico”, dovremmo andare a guardare il “Bureau des audience publiques sur l’environnement” istituito in Quebec nel 1978. È da quello strumento che attinge il procedimento francese del 1995 (e non dimenti-chiamo anche il public hearing degli USA). Esiste poi il procedimento Da-nese delle conferenze pubbliche di Consenso, adottate anche in Olanda e Svezia e che mira a identificare un gruppo di liberi cittadini identificati tramite un sondaggio e che vengono in seguito adeguatamente preparati.

14 In realtà è semplicemente affermata questa cosa ma non comprovata, visto che la loro banca dati è inaccessibile, pur trattandosi di una ONG che ha il patrocino di ministeri e presidenza del consiglio dei ministri. Un caso tipico dell’Italia in cui le informazioni si tesoreggiano a scapito della trasparenza.

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Questi devono poi produrre un rapporto. Ma questo approccio è utilizzato su questioni tecnologiche e scientifiche, non sulle questioni di organizza-zione territoriale. Ma se i Francesi sono giunti alla messa in atto del dibatti-to pubblico è proprio perché si sono trovati di fronte a un grave conflitto e si trattava proprio di un treno ad alta velocità: il TGV Méditérrannée. Per la prima volta un governo centralizzatore e decisore soprattutto in questa materia era confrontato a una grandissima resistenza. L’utilità pubblica dell’opera fu dichiarata nel 1994 e la linea sarà inaugurata nel 1999. Non è casuale che la legge che instaura il Dibattito Pubblico sia promulgata nel 1995. Quando fu istituito, il Dibattito pubblico, riguardava un campo molto ristretto, limitandosi solamente alle infrastrutture più grandi e certamente non quelle che erano decise dagli attori locali. Oltretutto poteva discutere delle scelte tattiche (quali tracciati, quale tecnologia utilizzare) ma non de-gli aspetti strategici (fare o non fare una determinata linea ferroviaria?). Nel 2002 però le competenze e i funzionamenti della Commissione Nazionale del Dibattito Pubblico, quella stessa che decideva se lanciare o non lanciare un dibattito su una dato progetto e se si era anche lei a decidere con quale metodo portarlo avanti. Senza ora entrare nei dettagli di questo metodo, possiamo dire che visto dall’esterno sembrerebbe uno strumento di demo-crazia partecipativa utile a coinvolgere e fare partecipi le popolazioni locali su interventi che modificherebbero il loro fruire del territorio (in questo te-sto dovremmo scrivere “che modifica la loro geografia”). Ma questo stru-mento, oltre ad avere un costo, è anche una posta in gioco di potere per gli stessi attori territoriali. Durante tutta la messa in atto del dibattito pubblico, gli attori politici di ogni genere fanno di tutto per ridefinire gli equilibri di potere e farli spostare a loro vantaggio, far muovere il progetto secondo la loro visione. È del tutto illusorio pensare che tramite il dibattito pubblico il conflitto scompaia e che tutto si svolga verso un compromesso pacifico. Il conflitto c’è come prima solo che assume forme più pacifiche, meno vio-lente. La Commissione Nazionale per il Dibattito Pubblico francese tiene da sempre un discorso secondo il quale l’obiettivo (e il risultato raggiunto secondo loro) è una maggiore “intelligenza collettiva”15. Ma, in realtà, è fatto di ricerca del potere da parte dei diversi attori e questo non è certo in contraddizione con il procedimento democratico. Non sarà la presenza del Dibattito Pubblico a cancellare la conflittualità intorno a certi progetti, non rendere più facile la realizzazione di nuovi servizi d’interesse generale. D’altronde gli strumenti di Democrazia partecipativa nel nostro Paese non mancano e, se da una parte hanno decisamente aumentato la partecipazione dei cittadini, non hanno certo però eliminato la conflittualità e l’oppo-

15 Subra P., “Géopolitique de l’aménagement du territoire”, op.cit.

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sizione a diversi progetti di scala urbana. E comunque, nonostante la pre-senza di certi strumenti di democrazia partecipativa, non si è riuscita ad impedire una vera e propria esplosione del sentimento d’antipolitica, un sentimento basato prima di tutto sulla diffidenza verso il rappresentante po-litico, di livello nazionale quanto locale.

Oltretutto il caso francese male si collega a quello italiano, per delle dif-ferenze molto importanti. La Francia, seppur divisa in Regioni, ha uno Sta-to centrale con una tradizione decisionale ancora forte: agli Enti Locali è demandato ben poco, quindi il centro di potere è ancora a Parigi permetten-do una capacità d’azione che per noi è lontana anni luce (cinque anni per realizzare il TGV Méditérranée, abbiamo ricordato che solo per decidere il rigassificatore di Brindisi ci sono voluti undici anni, senza mai giungere a una vera decisione, l’Alta Velocità Milano-Roma ha richiesto quasi vent’anni di lavori…). Ma ancor di più dobbiamo ricordare che treni, auto-strade, aeroporti, rigassificatori, inceneritori, ecc. sono tutti servizi d’in-teresse generale. In Italia il concetto non è integrato nella cultura comune, non è parte della nostra identità nazionale come in Francia. La conflittualità territoriale nel nostro Paese (e vedremo più avanti anche il motivo) è estre-mamente elevata, molto più elevata della Francia. Lo strumento del dibatti-to pubblico quindi può essere utile, ma come tutti i germogli innestati su alberi diversi, non porteranno proprio allo stesso frutto.

Un caso interessante per l’Italia in questo senso è il movimento No-SAT16, cioè quel movimento che si oppone alla trasformazione della Statale Tirrenica in autostrada (quindi a pagamento) tra Rosignano e Civitavecchia (attraverserebbe la Maremma). L’opposizione in questo caso (badiamo be-ne: si tratta di un progetto che fu pensato nel 1969, insomma in perfetta tra-dizione italiana) si concentra sul fatto che inizialmente bisognava fare un’autostrada a parte oltre la superstrada (gratuita) che già esiste. Se ini-zialmente l’opposizione era alla costruzione di una nuova struttura, in se-guito ci si è opposti alla messa a pedaggio dell’attuale superstrada (che sa-rebbe stata comunque adeguata a questo fine). Il conflitto è quindi prima di tutto perché non si vuole un’infrastruttura che andrebbe a modificare la na-tura e il paesaggio di quella terra e comunque ci si oppone al fatto che gli abitanti locali dovrebbero pagare per un servizio che fino ad oggi è stato gratuito. Oramai il conflitto è rivolto all’agevolazione che permetterebbe agli abitanti locali di non pagare il pedaggio dell’autostrada.

Ritornando alla definizione dei tre tipi di aménagement conflittuale data

da Subra è utile ma a nostro parere non esaustiva. Essa infatti considera le

16 http://www.nosat.it/ 05/08/2012

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azioni pubbliche per la realizzazione di grandi opere (infrastrutturali ma non solo). Nel seguito vedremo come in realtà riguardi l’azione pubblica nel suo insieme, compresa quella che non si concretizza in un manufatto e che rientra nell’ordinaria amministrazione.

Ci sembra però utile soffermarci sul ruolo del Servizio Pubblico (servi-zio d’interesse generale) in Geopolitica, prima di tutto perché contribuisce a chiarire quanto detto fin qui (nonché quello che seguirà) e soprattutto per-ché ci fa capire meglio quanto la casistica di geopolitica interna di organiz-zazione territoriale non possa essere limitata unicamente alle grandi infra-strutture e ai grandi progetti, come lo fa Subra, ma è molto più estesa. 1. Geopolitica interna e servizi d’interesse generale

Sulla scala locale è fondamentale svolgere un’attenta analisi delle carat-teristiche politiche della zona: studio delle varie personalità politiche, parti-ti o correnti di appartenenza, possibili obiettivi politici ed opportunità di carriera di queste personalità. È in funzione di queste variabili che si pos-sono comprendere delle scelte d’intervento pubblico in determinate zone, anziché delle altre17.

Ogni personalità politica, che occupa un ruolo di responsabilità, in scala locale, Sindaco, Presidente della Provincia, Presidente della Regione, Se-gretari Generali di Camere di Commercio, ecc., hanno una propria rappre-sentazione del territorio su cui svolgono la propria mansione. Spesso questa rappresentazione è antagonista rispetto a quella che ha il potere centrale e molte volte anche rispetto ai rappresentanti dei diversi poteri (un sindaco rispetto a un presidente di regione, per esempio)18 oppure si pensi ai conflit-ti tra sindaci.

Ogni personalità darà una rappresentazione che, vera o falsa che possa essere, contribuirà al raggiungimento degli obiettivi che la stessa personali-tà o attore politico si è fissato. Per arrivare a questo obbiettivo ogni tipo di argomentazione sarà buona: storica, sociale, geomorfologica, economica. Per spiegare queste rappresentazioni saranno usate delle carte geografiche, chiaramente, che saranno esse stesse delle rappresentazioni d’idee ...di par-

17 Fondamentale per cogliere quanto proficua possa rivelarsi l’analisi multidisciplinare

su scala locale per la comprensione delle politiche pubbliche, è la lettura dei lavori fatti dall’equipe della rivista Herodote, diretta da Yves Lacoste, e dall’Institut Français de Gépolitique fondato dallo stesso Lacoste e oggi diretto da Barbara Loyer, dell’ università di Paris VIII - St.Denis-Vincennes.

18 Illuminante può essere a questo proposito l’articolo di Giblin B. “Les territoires de la Nation à l’heure de la décentralisation et de l’Europe” in Hérodote, n° 62, III trimestre 1991.

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te. Quest’affermazione del “di parte” non vuole dare una accezione negati-va al termine, vuole unicamente mettere in luce come esistano delle diverse visioni e rappresentazioni della medesima situazione ed entrambe possono essere vere.

Per determinare se costruire un passante stradale su di una parte di terri-torio anziché su di un’altra possono essere addotte delle motivazioni parti-colari, diciamo di natura sociale o storica. Per opporsi a questa decisone e preferire un altro luogo possono essere addotte delle motivazioni economi-che, o altre motivazioni storiche. Entrambe sono vere, ma spingono in dire-zioni diverse. Spesso dietro una motivazione storica, si può celare una buo-na motivazione di utilità personale. Sempre per il solito passante stradale: se si vuole che colleghi la città principale a una certa cittadina, a danno (purtroppo) di un’altra, il sindaco della prima potrebbe addurre tutta una serie di motivazioni di natura storica, geomorfologica, per spingere verso una decisione che in realtà privilegia la sua città a quella di un altro.

L’intervento sul territorio è un’azione che appartiene particolarmente all’attore Pubblico, a qualsiasi livello lo si voglia pensare, da quello comu-nale a quello sovranazionale. Pochi sono gli attori privati che possono per-mettersi interventi ampi sul territorio al punto da pensare di influenzarne l’evoluzione.

L’attore pubblico invece vi interviene quotidianamente con la sua azio-ne. Lo strumento usato, l’arma che quest’attore possiede per mettere in atto la sua volontà si chiama “servizio d’interesse generale” (quello che una volta veniva semplicemente indicato come servizio pubblico perché era in genere l’attore pubblico che lo erogava).

Generalmente noi non colleghiamo a queste due parole un significato estremamente positivo, sia per i costi che ci impone, le tasse, sia per la fre-quente scarsa qualità del servizio pubblico (spesso comunque luogo comu-ne agitato in discorsi populistici).

Sanità, Poste e Telegrafi, Ferrovie dello Stato, Aeroporti, Scuole, Strade e Autostrade, conosciamo bene queste parole, ma non pensiamo mai a essi come ad un’arma geopolitica.

Si tratta invece proprio di questo: il servizio pubblico è lo strumento es-senziale dell’azione dell’attore pubblico sul proprio territorio. Va da se che quest’azione non può essere generica o uguale in qualunque parte del suolo dello Stato. Situazioni diverse richiedono azioni diverse, ma per fare ciò è necessario che alla fonte esista un’analisi territoriale che metta l’attore pubblico in condizione di prendere la decisione migliore. Sottolineiamo, a questo punto, che quando parliamo di “decisione migliore” non vogliamo intendere la decisione che oggettivamente sia la “migliore” (ammesso che esista), bensì quella che soddisfa la strategia dell’attore pubblico.

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È opportuno dire che lo stesso concetto di servizio pubblico è lentamen-te evoluto, particolarmente in questi ultimi anni e con l’aumento del ruolo che in ogni Paese europeo gioca l’Unione Europea.

Prima il concetto di servizio pubblico variava da paese a paese. Pensate alla differenza che vi poteva essere tra il servizio pubblico inglese e il ser-vizio pubblico francese. Certo questa differenza continua ancora a esistere, ma la UE è diventata il luogo di confronto e dove lentamente si regolamen-ta il servizio pubblico in tutti i suoi Paesi membri, cercando di arrivare a un certo livello di omogeneità.

In Italia il servizio pubblico è sempre stato considerato per antonomasia il servizio nazionale. Con questo termine si voleva precisamente intendere che il servizio offerto dallo Stato (qualunque potesse essere) doveva essere identico sia in Lombardia sia in Sicilia.

Indubbiamente il concetto di servizio pubblico universale risiede pro-prio in questo. Tra l’altro è questo uno degli elementi salienti delle difficol-tà delle privatizzazioni. Se si privatizza la posta, ad esempio, vi saranno in-tere parti del territorio che non saranno certamente redditizie e che per ora sono servite “a perdere” perché lo Stato assicura l’eguaglianza dei propri cittadini proprio garantendo loro gli stessi servizi. Quindi, anche per il pen-sionato che abita nella piccola frazione della zona del Pollino, tra Basilicata e Calabria, deve essere garantita la consegna della posta, ad esempio, ogni mattina. Esattamente come per l’abitante di San Babila a Milano. Questa universalità del diritto, però, non deve essere confusa con la strategia terri-toriale che lo Stato, o qualsiasi livello istituzionale italiano, hanno sul loro territorio.

L’Unione Europea ha comunque già cominciato a far evolvere questo concetto tramutandolo da “assistenza” a “promozione”, da “generico” a “specifico”, ma l’obbiettivo vero di questa evoluzione del servizio pubblico è quello di passare dal concetto di intervento a quello di regolamentazione, dove cioè lo stato regolamenta un servizio di interesse pubblico che però sarà un privato a fornire.

Vedremo tra poco come il servizio pubblico diviene utensile nelle mani dell’attore pubblico per la sua strategia territoriale, per la sua politica di pianificazione e sviluppo. Per ora soffermiamoci sulla descrizione di questi strumenti, particolarmente quelli adatti per lo sviluppo locale, bisogna sa-per valutare tali strumenti, come i fondi strutturali europei oppure alla pro-grammazione negoziata tra i vari attori istituzionali. Non facciamoci ingan-nare se gli ultimi due esempi citano solo dei fondi, cioè dei soldi e non dei servizi precisi, perché in realtà quei fondi sono mobilitati solo dietro pre-sentazione di progetti precisi di sviluppo. Entrambi cioè sono basati su pia-ni e progetti che diversi attori pubblici, in concertazione tra loro e coinvol-

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gendo anche attori privati, devono produrre per poter ottenere l’afflusso di fondi.

Il territorio cambia continuamente e a questa evoluzione gli attori politi-ci partecipano in modo attivo, spesso conflittuale. La decisione pubblica modifica sensibilmente questa evoluzione e affinché questo avvenga nel modo più efficacie possibile occorre perseguire una strategia. La disposi-zione della rete dei servizi pubblici è il modo più pesante, per l’attore pub-blico, d’intervenire in questo mutamento.

Facciamo un esempio di come la decisione pubblica intervenga a propo-sito di quanto finora scritto.

Poniamo l’esempio di tre città A, B e C.

Esempio iniziale: solo due città sono collegate Mentre B e C sono direttamente collegate tramite una strada tra di loro,

la città A non è collegata a nessuna delle due. L’ente pubblico preposto al collegamento tra queste tre città decide di costruire una prima strada di col-legamento tra A e una delle due città restanti: B o C.

Se si decide di costruire la strada di collegamento tra A e poniamo B, si prende una decisone che può avere profonde ripercussioni geopolitiche e che comunque cambierà la geografia dell’area non solo da un punto di vista fisico.

A

B C

110

B diventa il punto di collegamento A questo punto, cioè dopo aver collegato A con B, tutte le tre città sa-

ranno collegate tra loro, ma per andare da A a C occorrerà necessariamente passare attraverso la città B. Questo renderà B un ganglio “vitale” delle comunicazioni tra le tre città che abbiamo preso ad esempio e dando così a quella città una serie di opportunità molto più importanti che non quelle di C nonostante anche questa sia in comunicazione con A. C è obbligata a passare da B e B avrà invece una comunicazione privilegiata con A non dovendo passare attraverso nessun’altra città.

Se la scelta tra B e C è già di per sé estremamente politica, la questione non si ferma a questo punto.

Ammettiamo in seconda ipotesi che si decida di passare alla costruzione di una nuova strada che colleghi C direttamente con A. In questo caso po-tremo pensare che, avendo costruito un collegamento diretto anche tra A e C, ora non esistano più diseguaglianze tra le tre città e che si sia così potuta costruire una situazione paritetica. Ma, così non è perché bisogna prendere in considerazione il fattore temporale della scelta.

A

B C

111

C viene collegata ma solo in una seconda fase

Tra la costruzione della prima che avrà richiesto un certo tempo (n) e

della seconda strada ci sarà stato un determinato arco di tempo (n+1) e pro-babilmente anche abbastanza lungo, il quale avrà permesso alla città B (la prima ad essere stata collegata direttamente con A) di procurarsi un certo vantaggio rispetto a C. Si tratta del normale vantaggio che una città divenu-ta centro di un traffico, di un commercio, può accumulare grazie ai nume-rosi investimenti e gli impieghi che essi potranno. Si lancia così una spirale virtuosa che non è assolutamente detto che si fermi o riequilibri con la co-struzione della seconda strada, quella di collegamento diretto tra A e C. L’infrastruttura appena costruita non è sufficiente in sé a recuperare quel disequilibrio che la costruzione della prima strada ha invece provocato.

Il semplice decidere “quale città sarà la prima” è una scelta di natura geopolitica che possiamo definire primordiale: sia per la variabile geografi-ca sia per quella temporale.

Questo esempio che abbiamo appena citato si basa sulla scelta della co-struzione d’infrastrutture, ma non per questo dobbiamo lasciarci ingannare, pensando che le ripercussioni appena descritte riguarderebbero solo le stra-de, i ponti, ecc. Lo stesso identico ragionamento vale per ogni tipo di servi-zio pubblico, di decisone, che l’attore pubblico vorrà assumere. Sia che si parli di Poste, di Scuole, o di assistenza sanitaria.

Il servizio pubblico è quindi l’arma privilegiata d’intervento sull’e-voluzione territoriale per l’attore pubblico. Per troppo tempo si è pensato al servizio pubblico come a uno standard, un elemento uguale ovunque ci si trovasse. Questa idea era accompagnata alla fallimentare concezione che

A

B C

n n+1

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bastasse fare affluire dei soldi in un’area per automaticamente portare una ricchezza che sarebbe durata in eterno. Se quest’ultimo concetto sta lenta-mente (molto lentamente) scomparendo, il primo non lo è ancora.

Esiste certamente una base minima di servizio pubblico che deve co-munque essere garantita allo stesso modo in tutto il territorio (ricordiamo l’esempio della posta nelle aree quasi spopolate), ma questo rappresenta il punto di partenza di un servizio pubblico. Oramai si deve cercare di affron-tare un altro tipo di ostacolo, si deve cercare di approdare cioè al servizio pubblico “intelligente”. Se, come dice Platone, l’intelligenza è la capacità di adattarsi all’ambiente in cui ci si trova, allora la nuova frontiera del ser-vizio pubblico è dare prova di intelligenza.

Quando parliamo di “intelligenza” del servizio pubblico si deve intende-re la capacità di rispondere alle esigenze dell’area in cui ci si trova. Certo potremmo più serenamente parlare di flessibilità del servizio proposto da parte dell’ente pubblico. Ma, in realtà, il termine “intelligenza” vuole rap-presentare una vera e propria capacità d’interazione da parte del servizio pubblico con le necessità specifiche della zona in cui ci si trova, non sem-plicemente le richieste dei cittadini. Si tratta cioè di capire nell’insieme co-sa può essere più utile per valorizzare l’iniziativa privata e riuscire quindi nello specifico a favorire lo sviluppo economico locale che non dipenda da un flusso assistenzialistico di risorse finanziarie. Occorre da un lato una at-tenta e sottile analisi di tutta la situazione locale, sia economica che sociale, e quindi occorre individuare come cambiare il servizio proposto affinché possa essere da sostegno alla situazione dell’area.

È accaduto in diversi Paesi, non ultimo la Francia. In una delle aree che più soffriva dello svuotamento delle campagne, nella regione Limousine (dove capitale è Limoges famosa per le porcellane), il prefetto e il direttore Regionale delle Poste (quale strana e sorprendente accoppiata) hanno deci-so di usare le sedi della Posta sia per favorire i momenti di aggregazione sociale, sfruttandoli per momenti espositivi e al tempo stesso per momenti di informazione sui prodotti della Posta. Ma hanno anche favorito degli scaglionamenti del servizio in modo più adatto per le imprese.

Il risultato è molto soddisfacente. Vi erano, infatti, diversi uffici che per causa di riduzione degli impiegati rischiavano di essere abbandonati e che invece continuano ad essere usati come luogo d’incontro tra pubblico e cit-tadini e come momenti aggreganti tra i vari cittadini stessi, dando già una buona risposta a una parabola discendente della presenza della popolazione del territorio. Ma soprattutto si è riusciti a rilanciare l’uso del servizio po-stale aumentandone il ruolo identitario su scala locale. La gente riprende a usare sempre più la Posta come elemento di comunicazione, per non parlare del riavvicinamento tra impresa e servizio pubblico. Il tutto ovviamente

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senza nessun dispendio di fondi pubblici ovviamente, visti i tempi di restri-zione.

Questo esempio rappresenta il punto estremo di come il servizio pubbli-co possa essere lo strumento per l’attore pubblico di cambiare una data si-tuazione territoriale, dato che si parlava di un servizio composto di pura presenza e comunicazione. Proviamo a immaginare casi in cui si parla di interventi strutturali sui prodotti che il servizio pubblico può proporre hai propri utenti.

Un esempio interessante di come spesso la mancata valutazione dei ser-vizi pubblici sul territorio possa avere risultati pericolosi, o quantomeno possa non rispondere alle aspettative che lo hanno motivato all'’inizio, ci viene offerto dal TGV francese.

Quando Mitterrand inaugurò, nel settembre del 1981, il primo TGV che collegava Parigi alla seconda città di Francia, Lione, tutti brindarono al successo che aiutava ad andare ancora di più verso la decentralizzazione. Ma, anche qui molte scelte oggi sono viste con amarezza. Se è vero che il TGV ha rappresentato maggiore fluidità nelle comunicazioni, è però anche vero che non ha assolutamente contribuito a una localizzazione diversa del tessuto economico dell’esagono francese. L’effetto è stato assolutamente contrario, contribuendo a una polarizzazione attorno ai grandi centri urbani e creando il vuoto tra le stazioni dove questo treno si ferma. Si viene a crea-re un incredibile avvicinamento tra le stazioni collegate, ma al tempo stesso si crea il vuoto nei territori compresi tra le sue stazioni. Lo svuotamento di queste zone non si è fermato.

Possiamo semplicemente dire che è chiara l’importanza dell’uso del Servizio d’Interesse generale in geopolitica interna, perché è certamente con questa missione che si dovrebbe fare “organizzazione territoriale” e perché la gestione di questi servizi, creando diversità tra i territori, automa-ticamente crea antagonismo. Un antagonismo che non è detto sia negativo, ma che certamente è un fattore di scontro/confronto tra gli attori territoriali. Poi possiamo chiamarla come organizzazione territoriale collaborativa o come polifonia territoriale (come vedremo più avanti), ma resta il fatto che c’è questa conflittualità, che non faremo andare avanti un territorio facen-dolo crescere senza considerare questo e integrarlo alla nostra azione. Un’azione che non è solo straordinaria (come un eventuale ponte sullo Stretto di Messina) ma è ordinaria amministrazione, come la gestione degli acquedotti o la collocazione di asili nido. Un servizio d’interesse generale può unire o dividere un territorio e chi lo fa è l’attore pubblico. Se in Italia si ha una percentuale troppo alta d’incidenti in ospedali come quello di Lecce o Vibo Valentia, mentre poi riesci a fare trapianti ai più alti livelli a Palermo, allora vuol dire che i cittadini in un paese non sono tutti uguali,

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con gli stessi diritti. Se il costo dell’acqua è di 100 in media in Italia, ma poi in Toscana è 117 e in Lombardia è 47 allora i cittadini non hanno le stesse opportunità e questo intacca profondamente un bene che in Italia è molto scarso: l’identità e la solidarietà nazionale. Due elementi essenziali per fare sforzi, a cominciare dal pagare le tasse.

Tutto questo solo per sollevare il velo sull’intera questione, che per certi versi vedremo da vicino nelle pagine seguenti.

2. Geopolitica e Governance Prima di procedere facciamo un breve ritorno alle due definizioni ini-

zialmente date di “organizzazione territoriale” (aménagement) di Merlin e Lacoste. Ricordiamo semplicemente quanto entrambi i due studiosi, pur avendo un approccio diverso, parlino di “ordine”. La difficoltà comincia proprio da questo: chi definisce cos’è l’ordine? Questo ci pone immediata-mente a fronte di uno dei problemi maggiori dell’organizzazione territoria-le: l’assenza di parametri certi e riconosciuti. Il fatto di avere sempre un at-teggiamento estremamente preciso, certo, scientifico in materia di organiz-zazione territoriale – probabilmente perché da sempre in Italia è appannag-gio di ingegneri e perché da sempre è legata alla realizzazione di strade, ponti, linee ferroviarie : tutte cose che necessitano delle competenze tecni-che e scientifiche molto importanti – costituisce una grande contraddizione. Ma, quello che interessa ancor di più è l’azione oggetto della decisione, al-dilà di quella che sarà la sua concretizzazione (in genere si tratta di un ma-nufatto).

Allo stesso modo numerosi sono quelli che si concentrano sull’aspetto umano (chiamiamolo politico o economico o sociologico) facendo però astrazione del ruolo che il territorio ha sulle strutture sociali e sul loro fun-zionamento.

Il termine governance ha da anni una grande eco nella letteratura specia-lizzata ma oramai anche nei media di diffusione popolare e sembra quasi essere utilizzato in opposizione al termine governement: una sorta di antite-si al modo tradizionale di gestire la “cosa pubblica”. Nonostante un grande specialista francese ne propone un’analisi che risale fino al termine medie-vale di gubernantia19, qui, quello che consideriamo un po’ come il punto di partenza, è il lavoro di Renate Maynz. La sua definizione di Governance coincide, almeno in Germania, con quella di Steuerungstheorie (letteral-

19 Le Galès P., Avant-Propos, « Gouvernement et gouvernance des territoires », in Pro-

blèmes Politiques et Socieaux, n°922, marzo 2006, p. 5.

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mente: teoria del controllo) che dovrebbe coincidere a sua volta con l’inglese governing. Stiamo cioè parlando di parole che non hanno ancora un significato preciso e riconosciuto e che però si rifanno sempre al concet-to di “governare la cosa pubblica”. Le Galès ricorda come a un certo punto questo concetto, quello di governance e particolarmente in Gran Bretagna, è diventato lo strumento d’opposizione all’azione del Governo stesso (ag-giungiamo che si tratta di una definizione proposta da una corrente neolibe-rale ma che non ebbe un grande successo20). Sempre Maynz, in lavori però ben più recenti, propone una definizione diversa della governance: “La go-vernance fa riferimento insomma a un modo di governare non gerarchico, dove gli attori non di governo della società privata (organizzazioni informa-li) partecipano alla formulazione e alla messa in opera delle politiche pub-bliche”21. A noi sembra che queste definizioni diverse e evolutive del con-cetto di Governance – la qual cosa denota ugualmente l’evoluzione della percezione stessa del termine e quindi del concetto che ci si vorrebbe asso-ciare – cerchino di dare sempre più l’idea che l’azione pubblica vive mo-menti difficili sui diversi territorî.

Gli antagonismi, citati da Lacoste, Subra o Merlin, nonché questa ma-niera di governarne “non gerarchica” e partecipativa, ci sembrano il riflesso di una ridefinizione dei ruoli tra i diversi attori pubblici: ridefinizione che è lontana dall’aver trovato il suo punto d’arrivo. In effetti, l’apparire di una quantità infinita di strumenti destinati all’intervento pubblico sul territorio (basti pensare agli strumenti di programmazione negoziata), dopo la caduta del muro di Berlino, coincide con la fine di un sistema di azione pubblica praticamente univoco (lo Stato come decisore principale). In Italia questo accade dopo il 1992, anno cioè in cui si ha una crisi totale del sistema poli-tico nazionale. Ma, se facciamo attenzione, ci rendiamo conto che questo non riguarda solo l’Italia, ma anche altri Paesi. In Francia, per esempio, le regioni appaiono (con pochissimi poteri, sia chiaro) nel 1982 e nello stesso periodo fu riformata l’autonomia degli enti locali Spagnoli. Si tratta di una fase particolare durante la quale, per motivi abbastanza diversi, gli equilibri tra attori istituzionali, furono ridefiniti. Fine del bipolarismo mondiale, au-mento del ruolo dell’Unione Europea, perdita di legittimità (come conse-guenza) dei governi centrali e, soprattutto, il fenomeno della mondializza-zione hanno portato alla comparsa di nuovi ruoli per gli altri attori politici sullo scacchiere. In tutto questo, però, si è anche avuto un aumento sensibi-le della conflittualità tra attori nella gestione dei territorî locali, cioè a quel

20 Le Galès P., Avant-Propos, «Gouvernement et gouvernance des territoires», op.cit. 21 Maynz R., “News Challenes to Governance theory”, in Bang H.P., Governance as so-

cial and political communication, Manchester University Press, Manchester, 2003, pp. 27-40.

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livello che è il più vicino al cittadino nella sua vita quotidiana. Arriviamo cioè a una trasformazione “[…] del rapporto tra rappresentanti politici e cit-tadini, tra regolazione politica e intervento della società civile in direzione dell’autonomia dei diversi attori, della giurisdizione delle relazioni e dei conflitti. Della concertazione”.22

Certo l’elaborazione degli strumenti dell’azione pubblica23 non è co-minciata con la fine del bipolarismo planetario. Ciò che è veramente cam-biato è che la situazione ha permesso una vera e propria ridistribuzione dei poteri e che quella redistribuzione non è ancora finita. A voler essere anco-ra più precisi e usando il metodo di Yves Lacoste nell’analisi dei diversi livelli, ci si rende conto che gli effetti dei cambiamenti planetari appena ci-tati sono di natura diversa nel contesto europeo e ancor più differenti se si osservano i diversi contesti nazionali.

Le politiche di gestione urbana francesi, per esempio, quelle che hanno portato al fenomeno delle banlieues, ne sono un esempio eclatante e hanno fatto la prima pagina di diversi media (seppur principalmente per i fatti di violenza che si sono avuti). Questi territorî, concepiti nel trentennio definito “glorioso”, oramai sono più un problema che altro per l’attore pubblico e questo a diversi livelli istituzionali. Sino a divenire un vero e proprio labo-ratorio delle politiche pubbliche costose e inefficaci, provocando conflitti sociali (e qui il ruolo delle rappresentazioni è essenziale), così come diven-tano uno strumento di concorrenza politico-elettorale24.

Per il caso italiano, la dimostrazione di questa rottura d’equilibrio che ha rivoluzionato lo scacchiere politico italiano e, soprattutto, il funziona-mento stesso della macchina pubblica, è ancora più chiaro.

3. Geopolitica e coesione territoriale Dopo aver esaminato, o quantomeno capito, qual è il rapporto tra il ser-

vizio d’interesse generale e la geopolitica interna, ci sembra impossibile non soffermarci su un concetto già menzionato ma non a sufficienza appro-fondito: la Coesione territoriale. La storia di questo concetto è in realtà la storia di un conflitto: quello tra Commissione e Stati Membri per l’integra-zione del concetto di “organizzazione territoriale” all’interno delle preroga-

22 Le Galès P., Avant-Propos, «Gouvernement et gouvernance des territoires», op.cit., p.

9. 23 Lascoumes P., Le Galès P., Introduction, Gouverner par les instruments, Presse de

Sciences Po, Paris, 2004, p. 13. 24 Giblin B., «Les Banlieues en question», in Dictionnaire des banlieues, Larousse, Pa-

ris, 2009, pagg.7-44.

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tive della Commissione stessa. In parole più semplici abbiamo da una parte i Governi degli Stati Membri che desiderano mantenere per loro l’autorità in questa materia e dall’altra la Commissione che, dovendo intervenire in diversi settori economici come lo sviluppo industriale, chiede di avere una capacità d’intervento in questa materia. Il territorio come luogo d’azione per un altro nuovo attore: la Commissione. I Governi non ne volevano sen-tir parlare: la Commissione doveva eventualmente elargire fondi che poi il Governo di ciascun paese avrebbe deciso in quali territorî e come avrebbe potuto impiegare. Bisogna sapere, comunque, che la questione “territorio” occupa la preoccupazione dei fondatori dell’attuale UE fin dal trattato di Roma. In effetti, prima ancora di firmarlo, proprio perché si cercava di ri-lanciare i diversi territori e compensare le diverse situazioni che si stavano creando all’indomani della seconda guerra mondiale, fu proposto di fare uno studio con un rapporto finale. Si tratta del rapporto Spaak dal nome del Ministro degli affari esteri belga incaricato della redazione di questo rap-porto. La preoccupazione di Spaak fu semplice e chiara fin dall’inizio: Pre-vedeva di coordinare le politiche che i diversi Paesi volevano mettere in piedi e quelle che la futura Comunità prevedeva di finanziare. Ma già da allora il messaggio fu chiaro: è bello e interessante questa proposta di una relativa armonizzazione tra politiche nazionali e quelle comunitarie, ma nessun quadro comune verrà messo in atto. Stiamo parlando dei lavori di preparazione alla firma del Trattato di Roma e quindi del 1957 (e ricordia-molo: i Paesi che aderivano all’epoca erano solo sei, quindi in teoria poteva essere semplici metterli d’accordo).

Anche in seguito la questione non perse d’interesse. Ci furono diversi studi che spinsero la Commissione a suonare il campanello d’allarme sull’assenza da parte dell’Autorità di Bruxelles a poter intervenire con poli-tiche d’armonizzazione tra i diversi territorî Europea. Particolarmente per quanto riguarda un centro che traeva incomparabilmente più benefici ri-spetto alle zone periferiche dalle politiche Europee aumentando quindi le distanze tra queste due parti. E già si cominciava a parlare direttamente di aménagement du territoire25. Ma questo avrebbe fatto a pugni con la visio-ne di un’Europa fatta come una confederazione di Stati sovrani. Il vantag-gio consisteva però nel fatto che, stimolati da queste prime discussioni a livello europeo, i diversi specialisti e istituzioni competenti dei diversi Pae-si, confrontandosi tra loro, realizzavano fino a che punto il concetto d’organizzazione territoriale” fosse diverso da paese a paese.

25 Husson C., L’Europe sans territoire: Essai sur le concept de cohésion territoriale,

DATAR/éditions de l’aube, Paris, 2002.

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Fu alla volta del Consiglio d’Europa a concentrarsi sulla questione, spinto proprio dai diversi addetti della materia a livello europeo. Da qui, il rapporto “Aménagement du territoire – Problème européen”26 che fu il pun-to di partenza per poi giungere, quindici anni dopo, alla “carta di Torremo-linos”27 del 1983. Questa Carta fu prodotta dalla Conferenza europea dei Ministri responsabili per l’organizzazione del territorio e che fu convocata proprio su richiesta di quel Consiglio d’Europa che aveva prodotto il rap-porto del 1968. Se compariamo la versione francese e quella italiana pos-siamo già constatare che il termine “aménagement du territoire” è tradotto in italiano non come “pianificazione territoriale” (la traduzione inappro-priata più frequente ai nostri giorni) bensì come “assetto del territorio”, che a nostro parere meglio si avvicina al significato originale dell’aménage-ment alla francese, e che abbiamo già esaminato nelle definizioni di Merlin e Lacoste. Ma nel confronto tra i due testi, quello francese a cui all’epoca si faceva riferimento, e la versione italiana, possiamo constatare che, al para-grafo riguardante l’applicazione, si traduce quello che in francese è scritto come “L’aménagement du territoire doit prendre en considération l’exi-stence d’une multitude de décideurs individuels et institutionnels influen-çant l’organisation du territoire” nell’italiano “L’assetto del territorio deve prendere in considerazione l'esistenza di una miriade di fattori decisionali, individuali ed istituzionali che influenzano l'organizzazione del territorio”. Cioè quello che in francese è “la moltitudine dei decisori, individualmente definiti, cioè come attori territoriali” diventa in italiano “fattori decisiona-li”. Gli Italiani hanno molto più degli altri Paesi membri, trascurato il ruolo fondamentalmente geopolitico dell’organizzazione territoriale più partico-larmente il ruolo degli attori in questi conflitti.

In ogni caso la Carta di Torremolinos presentava l’organizzazione del territorio come un fattore importante, identitario, per la popolazione di quella che sarebbe diventata di lì a pochi anni l’Unione Europea. Un’or-ganizzazione del territorio che doveva essere vista come una tecnica ammi-nistrativa e una disciplina scientifica (sic!) che avrebbe permesso alle Re-gioni uno sviluppo equilibrato. Un’organizzazione territoriale che avrebbe dovuto essere democratica, estesa, funzionale e, soprattutto, a lungo termi-ne. Da questi principi nascerà l’importante Schema di Sviluppo dello Spaio

26 Consiglio d’Europa, Aménagement du territoire – Problème européen, Rapprto

redatto dal gruppo di lavoro creato dalla risoluzione 289 (1964), Strasburgo, 1969. 27Cosnsiglio d’Europa, Charte européenne de l aménagement du territoire,

http://www.coe.int/t/dg4/cultureheritage/heritage/cemat/versioncharte/Charte_bil.pdf o la versione italiana:

http://www.irre.toscana.it/ambiente/leggi%20e%20documenti/carta_assetto_territ.html

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Europeo firmato dai rispettivi Ministri nel 1999 e che resterà l’unico docu-mento veramente importante in materia d’organizzazione del territorio per l’Unione Europea. In ogni caso, senza fare il completo filo storico che ha portato da Roma ad oggi la questione del territorio inesistente dell’Unione Europea, abbiamo assistito semplicemente a una disputa abbastanza surrea-le. Da una parte la Commissione, prima da sola e poi con la Conferenza delle Regioni Periferiche e Marittime (accompagnata anche dall’Assemblea delle Regioni d’Europa) che cercano di ottenere una sorta di coerenza tra le politiche regionali che l’Unione finanzia e le politiche messe in atto dai di-versi Paesi membri. Dall’altra i Paesi Membri che continuano a pretendere un finanziamento delle diverse azioni di politica regionale da parte di Bru-xelles, ma senza alcuna opportunità d’ingerenza sul metodo e soprattutto sui casi che sarebbero stati finanziati. I vari rapporti, i diversi interventi, andavano tutti in questa direzione e l’arrivo della Direzione Generale XVI (oggi chiamata DG Regio e cioè Direzione Generale della Politica Regiona-le) ha aggiunto altra pressione. La visione della DG Regio è sempre stata la stessa: partendo dal principio che l’integrazione europea esigeva una ri-composizione del territorio europeo, essa preconizzava che tutta la politica regionale doveva essere concepita non dal solo punto di vista nazionale ma anche dalla prospettiva europea28. Il che a qualunque specialista di organiz-zazione territoriale sembrerebbe quanto di più sensato esista in materia d’allocazione di risorse. Il problema è che non si tratta di una materia aset-tica e tantomeno scientificamente esatta, si tratta di un qualcosa di estre-mamente discutibile che prevede un approccio certamente tecnico e un ri-gore (quello si) scientifico, ma con un enorme livello di opinabilità. È so-prattutto una materia con un’enorme posta in gioco di potere. Ed è su quest’aspetto che si areneranno dieci anni circa di lavori cercando di far “metabolizzare” ai diversi Paesi Membri le parole “aménagement du terri-toire”. Un elemento particolare, visto che a fronte di queste parole oramai si era elevato un vero è proprio muro, fu l’arrivo del concetto di coesione ter-ritoriale. In realtà con la politica di redistribuzione che la UE aveva messo in piedi, grazie ai fondi europei in qualche modo una sorta di politica d’organizzazione del territorio era stata messa in atto, malgrado quello che gli stati membri opponevano. Perché i finanziamenti europei, male, spesso in modo iniquo, intervenivano e modificavano il territorio. Soprattutto per-ché oramai la mondializzazione e l’apertura del Mercato della UE metteva-no i diversi territorî a fronte d’importanti concorrenze e quindi rischi. Ed è

28 Faludi A., “La Cohésion territoriale à la croisée des chemins”, in Bettoni G., Gouver-

ner les territoires : antagonismes et partenariats entre acteurs publics, Comité pour l’histoire économique et financière de la France, Paris, 2011. Pag. 33.

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a questo punto che s’inserisce la politica di coesione (prima economica e sociale, per non dire la parola “territorio” e quindi direttamente come coe-sione territoriale, facendo scomparire invece dall’uso corrente le parole so-ciale ed economica). La politica di coesione rappresenta la pietra angolare per la messa in atto di un modello sociale veramente europeo, con degli aspetti precisi che erano quelli di moderare gli effetti della mondializzazio-ne e aprire a un nuovo modello di governance, aperto a tutti. È, infatti, da qui in avanti che nascono i diversi Fondi Europei (FSE, FEDER, FEADER, ecc.), ma anche la Rete dei Trasporti Europei (RTE) o NATURA 2000. Se però da un certo punto di vista la UE si dota sempre più di strumenti che integrano il principio di coesione, la lotta tra stati membri e Commissione a questo riguardo è tutt’altro che finita. Oltretutto comincerà a questo punto un periodo di perdita di fiducia e di declino del ruolo della UE che non è ancora terminato e che avrà avuto il suo punto più elevato il rigetto da parte di Francesi e Danesi del testo per la Costituzione Europea. Ma cosa vuol dire “coesione territoriale”?.

Inizialmente questo concetto entra dalla “porta di servizio” essendo cita-to in un articolo del Trattato di Amsterdam, del 1997, e aveva un obiettivo di contenimento del principio di liberalizzazione in materia di Servizi d’Interesse generale (proprio perché si voleva fare attenzione a che le diffe-renze tra territori in questo campo non aumentassero fino a diventare in-sormontabili per i cittadini. Il secondo rapporto sulla Coesione cancellò, per la prima volta, l’uso delle parole aménagement du territoire (quelle che in italiano erano tradotte come “assetto del territorio”) poiché erano termini intorno ai quali oramai la conflittualità era diventata irrisolvibile. E furono sostituite con “Coesione Territoriale”. Sono cose diverse? Faludi nega que-sta cosa, dicendo che “dato si considera l’aménagement come la formula-zione di strategie che possano servire da quadro d’azione per l’autore pub-blico sul territorio, allora c’è coincidenza tra i due concetti”29. Questo sarà definitivamente integrato da tutti i Paesi Membri durante la Presidenza Francese del 2008 e che vedrà il momento più importante proprio in un convegno tenuto a Parigi sul concetto di Coesione Territoriale. Oramai gli Stati sembrano aver accettato la politica di coesione territoriale dell’Unione Europea ma la questione non è per questo conclusa. La Germania continua per esempio a non voler far definire i contorni d’intervento della Politica di Coesione territoriale, soprattutto perché il Governo di Berlino tiene all’Europa Centrale e Orientale e quindi cerca di non definirne i limiti per cercare di includere le parti più a oriente possibile (ivi inclusa la Russia).

29 Faludi A., “La Cohésion territoriale à la croisée des chemins”, op.cit., p. 41.

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Abbiamo già spiegato come questo concetto s’ispiri a un tentativo di coordinazione delle politiche territoriali che ciascun livello istituzionale mette in opera. Questo è diventato ancor più vero da quando il procedimen-to di liberalizzazione dei servizi d’interesse generale ha dato un ruolo più d’arbitro che d’attore vero e proprio all’attore pubblico. E proprio per tute-lare il cittadino, far si che la liberalizzazione dei servizi non compromettes-se l’uguaglianza d’accesso a questi nelle diverse parti d’Europa, si è pensa-to al concetto di “coesione territoriale”. Quindi coesione territoriale come accesso equo alle diverse infrastrutture e servizi, tenendo conto delle diver-sità territoriali interne alla UE.

Negli ultimi vent’anni l’Italia ha vissuto cambiamenti profondi (con più o meno successo) e che hanno modificato la sua stessa struttura istituziona-le, sia dal punto di vista istituzionale e amministrativo che da quello della cultura politica (nel bene o nel male). Molti cambiamenti quindi, ma sem-pre con il retrogusto dell’incompleto. Cosa provoca questa sensazione e so-prattutto cos’è che è cambiato e in che senso?

Certamente possiamo dire oggi che realmente l’Italia sia passata dallo stato di una Repubblica divisa certamente in Regioni ma che era comunque centralizzato, di tipo quasi francese, a quello di un modello che oscilla tra Spagna e Germania, regionale.

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4. Cambiamenti storici e ridefinizione degli equilibri costituzionali in Italia

In realtà, la conflittualità che qui si vuole considerare è quella legata a qualunque tipo di azione pubblica che abbia un impatto sul territorio. Per questo motivo la riforma del Titolo V della Costituzione italiana è da con-siderarsi un elemento di ridefinizione degli equilibri per la gestione del ter-ritorio in Italia. Questa trasformazione deve essere letta in una prospettiva storica precisa, che comincia con il crollo del muro di Berlino nel 1989. In effetti, la scomparsa degli equilibri mondiali dell’epoca precedente ha mo-dificato anche gli assetti istituzionali italiani. Così tutti i partiti politici che sono esistiti fino al 1989 persero completamente legittimità e nell’arco di pochi anni nessuno è sopravvissuto. La ridefinizione degli equilibri politici (accompagnata anche da una situazione di bilancio dello Stato completa-mente fallimentare) fece si che anche il ruolo principale dello Stato venne definitivamente meno1.

La scelta fatta dopo la crisi petrolifera del Kippur spinse a uno sconvol-gimento mondiale preciso: occorreva pagare per lo stesso petrolio molto più caro di quanto non si fece fino a quel momento. Quest’affermazione (che potremmo definire semplicissima) fu integrata da tutti i Paesi Europei che modificarono le proprie politiche di Bilancio. L’Italia decise di conti-nuare la propria azione come se i propri costi non fossero aumentati e que-sto portò, nel decennio degli anni ’80, all’esplosione del debito pubblico fino a superare il 100% del PIL (oggi si trova, all’incirca, al 118%).

A questa situazione viene a sovrapporsi una delegittimazione del livello nazionale rispetto a quello locale, ma questa perdita di legittimità, in Euro-pa è legata da una parte all’influenza crescente del livello mondiale nella vita quotidiana anche delle scale più “locali”. Dall’altra si ha una Commis-

1 Bettoni G., Dalla geografia alla Geopolitica, op.cit.

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sione Europea sempre più desiderosa di veder ridotto il ruolo del livello Nazionale (e per arrivare a questo obiettivo ripetutamente l’Unione Euro-pea ha cercato di sostenere il ruolo della scala Regionale. Il cosiddetto ruo-lo della Globalizzazione ha visto riempire tantissime pagine della letteratu-ra in materia e la ragione è comprensibile. Il ruolo dello Stato/Nazione nel nuovo contesto della Globalizzazione veloce non è scomparso ma forte-mente modificato. L’attore Regionale (o locale più in generale) non ha per-so l’occasione per approfittare a ritagliarsi un ruolo non poco importante.

In Italia il caso si è prodotto con maggior rilievo che in altri nostri vicini Europei.

La riforma del Titolo V della Costituzione ha spostato prima di tutto il potere legislativo più importante da Parlamento Nazionale (Camera dei Deputati e Senato della Repubblica) verso le diverse Assemblee Regionali. In effetti, come vedremo di seguito, è questo il punto fondamentale di que-sta riforma.

Fin dalla Costituzione del 1946 si faceva riferimento alle Regioni, ma non venne mai trasferito loro alcun ruolo, fino al 1970. Ma anche in quel caso il potere che venne trasferito alle Regioni Italiane era ben poca cosa. Si trattò più che altro di permettere una nuova crescita alla classe politica locale che faceva pressione per poter andare verso il livello nazionale. Nel-la gestione delle Politiche Pubbliche, ben poco era concesso a questo nuovo livello istituzionale, e la maggior parte degli Italiani ignorava il nome del loro presidente Regionale (allo stesso modo che spesso si ignorava il nome del proprio Sindaco).

I primi cambiamenti furono le elezioni dirette del Sindaco (1993) e dei Presidenti Regionali (1995). Per ultima la pubblicazione del Testo Unico degli Enti Locali DL 267/2000 che andava a integrare la Legge 265/1999. Già a questo punto la riforma era andata molto avanti ma non era certamen-te completa.

Quello che preme affermare è che la letteratura è unanime nel definire che sia la riforma Costituzionale fatta con la Legge Costituzionale 1/1999 che quella fatta con la Legge Costituzionale 3/2001 è da considerarsi in-compiute pur avendo apportato cambiamenti più che profondi nel funzio-namento istituzionale della Repubblica Italiana.

Tra i vari cambiamenti apportati, prima ancora della nuova definizione dei ruoli sia legislativi sia di azione, si pensi che ciascuna Regione avrebbe il potere di disciplinare il sistema elettorale e i casi di ineleggibilità e di in-compatibilità del Presidente, dei membri della Giunta e del Consiglio. Que-sto, di fatto, assegna alla Regione il potere di stabilire il sistema Politico interno, lasciando allo Stato unicamente il ruolo di definire i principi fon-damentali e la durata degli organi elettivi. A questo va aggiunto che il nuo-

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vo articolo 123 della Costituzione disciplinava anche il Consiglio delle Au-tonomie Locali “en tant qu’organe de consultation entre la Région et les collectivités locales” dando loro anche il potere di definire la struttura delle relazioni verticali interne alla stessa Regione.

Quello che lascia più perplessi è però il riferimento all’art. 11 della Legge Costituzionale 3/2001 dove si fa allusione a una futura riforma (mai avvenuta) del Parlamento in modo da integrarvi anche il lavoro degli Enti Locali. Ad oggi il ruolo fondamentale dell’Art. 119 resta comunque inat-tuato.

Ma, vediamo più da vicino, quali sono le riforme fatte. In questa sede ci basterà citare semplicemente le riforme apportate dagli

articoli 117 e 119 per cogliere la dimensione della riforma. Teniamo ben chiaro che questa riforma resta non del tutto attuata al punto da far conti-nuamente echeggiare l’affermazione di “riforma della riforma” in molte pubblicazioni.

Il nuovo art. 117 della Costituzione (sostituito con l’art.3 della Legge Costituzionale del 2001) prevede:

La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunita-rio e dagli obblighi internazionali.

Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Sta-

to con l’Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea;

b) immigrazione; c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose; d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed

esplosivi; e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concor-

renza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; perequazione delle risorse finanziarie;

f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; ele-zione del Parlamento europeo;

g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali;

h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrati-va locale;

i) cittadinanza, stato civile e anagrafi; l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giu-

stizia amministrativa;

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m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;

n) norme generali sull'istruzione; o) previdenza sociale; p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di

Comuni, Province e Città metropolitane; q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale; r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo

statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regiona-le e locale; opere dell’ingegno;

s) tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali. Ma, se fin qui tutto sembrerebbe abbastanza chiaro quello che apporta

confusione è la vastità delle materie definite in Concorrenza tra Stato e Re-gioni.

Più esattamente, l’articolo 117 recita così: “Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; istru-zione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; previdenza complementare e integrativa; armoniz-zazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promo-zione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. “Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”.

È chiaro, come a questo punto la mancanza di una chiara definizione dei ruoli o, peggio ancora, un elenco così vasto di materie la cui responsabilità non è chiaramente definita, hanno portato a una situazione a geometria va-riabile. Una prova di quanto questa riforma non sia fatta bene ce la offre la Corte Costituzionale. Prima della Riforma del 2001, in effetti, il contenzio-so di cui si occupava la Corte era occupato solo per il 20% per questioni che riguardavano Stato e Regioni. Oggi il contenzioso tra Stato e Regioni occupa oltre il 50% del lavoro della Corte Costituzionale. Si attribuisce in

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questo modo alla Corte Costituzionale un ruolo che non aveva: quello di gestore, in qualche sorta, della vita istituzionale del Paese nei suoi vari li-velli.

Un’ulteriore conferma della incompiutezza di questa riforma ci è dato dall’art.119 della Costituzione che recita così: “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno ri-sorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armo-nia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al getti-to di tributi erariali riferibile al loro territorio.”

Chiaramente non essendo mai state messe in atto attraverso delle leggi di attuazione, l’azione stessa delle Regioni ne esce non solo confusa, rispet-to a quanto scritto riguardo all’art.117, ma anche ridotta dato che non viene messo in atto un vero sistema di “alimentazione” finanziario per le Regioni stesse.

A questo va ancora aggiunto il trasferimento di responsabilità importanti alle Regioni. La prima di queste è certamente la Sanità. Con il suo trasferi-mento, si è praticamente “bloccato” il potere d’azione delle Regioni dato che con essa si è trasferita una spesa che rappresenta ormai gran parte del loro bilancio.

Si arriva a casi come il Lazio ma anche la Calabria, dove il peso sul bi-lancio della Sanità è tale da rendere difficilissima qualunque altra azione. Altre Regioni riescono a trovare spazi di manovra migliori, ma tutte certa-mente sono sottoposte a grandi difficoltà.

Prima di entrare nello specifico in materia di politiche pubbliche nella scala locale, come avevamo annunciato più sopra, è bene fare alcuni com-menti sul contesto italiano dopo questa importante riforma (incompiuta).

Aldilà di quelli che possano essere gli aspetti tecnici che sembrano crea-re maggiori problemi, è, secondo chi scrive, il concetto stesso di cittadinan-za a essere messo in discussione.

In effetti, il non aver definito il livello di cittadinanza principale che su-scita il maggior problema. Ciascun cittadino ha degli interessi diversi se-condo il livello istituzionale a cui viene sollecitato. Un rigasificatore, ad esempio, è importante per ciascuno di noi a livello nazionale perché au-menta la concorrenza tra fornitori di gas (estendendola anche a Paesi non direttamente collegati a noi da gasdotti) e quindi diminuisce il costo che ognuno di noi deve sostenere per utilizzarlo. Al tempo stesso i miei interes-si di cittadino sono direttamente toccati se questo rigasificatore viene fatto nel mio quartiere o comunque non troppo lontano (disturbo acustico, olfat-tivo, visivo, pericoli sanitari eventuali, ecc.). Qual è l’interesse “dominan-

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te” tra i vari livelli che coinvolgono un cittadino? Quello locale? Quello Regionale? Quello nazionale? La costituzione tedesca, ad esempio, lo defi-nisce per il livello “nazionale” seppur il maggior potere sia nelle mani del livello “regionale”. In Italia questa precisazione non è stata fatta provocan-do in questo modo una conflittualità irrisolta.

L’esempio della programmazione negoziata è pertinente perché ci mo-stra un aspetto “concreto” delle politiche pubbliche, in tutta la loro difficol-tà e confusione.

Ricordiamo solo che fu un contesto di bilancio oramai insostenibile (come abbiamo accennato prima) nei primissimi anni ’90 che obbligò a ri-definire i criteri dell’azione Pubblica a tutti i livelli, compreso un cambia-mento radicale delle politiche di sviluppo. Fu in questo contesto che venne messa in atto la Nuova Programmazione Negoziata.

Da dove viene la scelta di attuare una politica di programmazione così come noi l’abbiamo conosciuta nel decennio che va dalla metà degli anni novanta ad oggi? Il punto di origine è sicuramente, partendo dal dopoguer-ra, in una visione della politica di programmazione basata sull’azione prin-cipale dell’attore pubblico: lo stato quale “controllore” dell’economia. Che cosa voleva dire “programmare” in quel periodo? Semplicemente si trattava dell’azione dei vari enti pubblici attraverso delle vere e proprie contratta-zioni con gli attori privati.

Possiamo dire che questo periodo coincide con la fase dove il “territo-rio” non è assolutamente considerato. Nessuno s’interessava alle varie pe-culiarità territoriali che avrebbero potuto imporre politiche d’intervento specifiche, bensì si trattava di interventi nella migliore delle ipotesi setto-riali se non di finanziamenti a pioggia. Il tutto era comunque su delle politi-che d’intervento nazionale che non facevano alcuna distinzione per le aeree in cui si interveniva. Il livello molto sostenuto della crescita non lasciava apparire quanto degli interventi di successo in talune aree nascondessero sprechi colossali in altri territorî senza trarne il minimo vantaggio. In questa fase l’analisi dei vari territori era considerata di totale inutilità, soprattutto veniva considerata come inutile la conoscenza e considerazione delle varie reti locali: il “centro” sapeva tutto quello che serviva e soprattutto ideava gli interventi. Questo in sé era considerato sufficiente, ma non voleva dire una forma di centralismo alla francese in cui il centro amministrava e pro-grammava ogni territorio dello Stato in totale autonomia, al contrario. Il centro “programmava”, in Italia, sotto la pressione dei varî attori locali ma in una situazione di totale asimmetria dell’informazione, senza conoscere, cioè, quelle situazioni, quelle reti di conoscenza e soprattutto quegli equili-bri di potere così importanti a livello locale. Insomma si assisteva ad una caotica forma di negoziazione tra i diversi attori locali che trovavano la for-

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za di emergere e negoziare con il centro a discapito degli altri attori locali, meno forti, che venivano messi da parte. DA qui la situazione di asimme-tria dell’informazione, dove il centro viene a conoscere solo la strategia dell’attore locale dominante. La mancanza totale d’informazioni da parte del “centro” faceva si che in realtà non potesse sapere tutta una serie di co-se. Si assisteva, di conseguenza, a un proliferare incredibile di sussidi, con-cessioni diverse, deroghe diverse ai piani regolatori, ecc. Insomma quella che Barca definisce “Negoziazione senza programmazione”2.

La grande svolta del Paese nasce da due decisioni importanti: la chiusu-ra dell’Agenzia del Mezzogiorno e il divieto dell’intervento dello stato per colmare i deficit delle aziende partecipate dallo Stato. Queste scelte, colle-gate alla oramai consumata fine dei tassi di crescita che si erano avuti nei primi trent’anni del dopoguerra (quelli che furono definiti “gloriosi” come è stato scritto nelle pagine precedenti), impongono una chiara razionalizza-zione delle spese e soprattutto una gestione più coerente e trasparente dell’azione dell’attore pubblico ma prima ancora una valutazione delle sue risorse finanziarie. Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale che comincia proprio in quel 1992 che avevamo poco sopra indicato come linea di spartiacque, l’anno di “mani pulite”, a poca distanza dalla caduta del Muro di Berlino, il quale delegittima i vecchi partiti facendo venire alla lu-ce un sistema di finanziamento dei partiti basato sul clientelismo e sulla corruzione: sistema oramai insostenibile. Questo porterà alla modifica dello stesso linguaggio in uso nella Pubblica Amministrazione e all’apparizione di metodi di valutazione diversi sia dagli investimenti, ma anche dalle poli-tiche e dall’azione amministrativa. Lentamente i principi come la gover-nance, che fino ad allora avevano trovato spazio solo negli articoli di riviste scientifiche, ora cominciamo a trovare spazio nell’azione quotidiana del-l’attore pubblico e si comincia a dare vita a dei progetti che non sono più voluti e decisi dall’attore pubblico dopo una negoziazione con l’attore terri-toriale più forte. Si tratta invece di progetti che vedono la partecipazione autentica dei vari attori pubblici, ai diversi livelli, e degli attori privati inte-ressati (l’esempio più importante di questi ultimi anni sono sicuramente i Patti Territoriali).

L’origine di questo cambiamento, aldilà degli eventi e dei contesti so-praccitati, ha come punto d’origine principale l’Unione Europea che ha chiaramente costretto l’Italia a modificare i suoi interventi per lo sviluppo nel Mezzogiorno dato che erano costellati da una quantità di insuccessi. Proprio sul Mezzogiorno si concentra la volontà di cambiamento maggiore attraverso nuove iniziative:

2 Barca F., Italia Frenata, Donzelli editore, Roma, 2006, p. 72.

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1) si concentra l’intervento sull’offerta di quelli che Barca chiama ser-vizi collettivi integrati3 ;

2) tentativo di creare un governo degli interventi multilivello dove il centro ha un ruolo di indirizzo e di concentrazione della competenza, la regione deve invece selezionare i varî progetti mentre il livello lo-cale deve avere il ruolo propositivo degli stessi progetti;

3) ammodernamento della Pubblica Amministrazione (in particolare grazie all’uso delle premialità cioè un Aumento di finanziamento per ogni sforzo ulteriore fatto in questa direzione);

4) messa in atto della “valutazione” e diffusione della sua cultura. Tutto questo, lo si può facilmente capire, ha l’obiettivo di accrescere

prima di tutto quello che possiamo definire social capital. Ma il problema di questa direzione di cambiamento era che si basava interamente sul fatto che tutto questo creasse negli attori privati delle aspettative positive e che quindi essi stessi cominciassero ad aumentare la quota dei capitali investiti. Proprio ciò che non accade. Probabilmente la messa in atto della nuova po-litica Regionale non suscitò, come si sperava (come il Dipartimento delle Politiche di Sviluppo e Coesione sperava) la creazione di aspettative positi-ve intorno alle quali avere il coraggio di far partire delle nuove idee con in-vestimenti conseguenti innescando quella spirale virtuosa di crescita così tanto desiderata. Addirittura sempre lo stesso Barca non esita a confessare che si aspettava un tasso di crescita, per il mezzogiorno dell’Italia, doppio rispetto al tasso di crescita medio dei Paesi dell’Unione Europea4.

Possiamo certamente riconoscere il risultato positivo più importante raggiunto dalla nuova Politica regionale nel Sud dell’Italia e cioè l’avere creato un punto di svolta epocale nel funzionamento istituzionale dello Sta-to, in particolare nel rapporto tra attori pubblici da una parte e privati dall’altra. Ovviamente a tutto questo sono collegati una serie diversa di cambiamenti conseguenti come l’arrivo della “trasparenza” e la “semplifi-cazione” del funzionamento burocratico (persino del linguaggio ammini-strativo). Ma, come sempre, a dei successi spesso sono collegati dei mezzi successi e degli autentici insuccessi.

Il “mezzo successo” è certamente un livello di crescita positivo, ma ben al di sotto dell’obiettivo prefissato e non si può attribuire l’intera colpa di tutto ciò al fatto che una profonda crisi internazionale abbia impedito que-sto salto verso l’alto delle Regioni meridionali dell’Italia. Per molti (primo

3 Barca F., “Italia frenata”, op.cit., p. 74. 4 Ibidem.

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fra tutti sempre Fabrizio Barca5) questo sarebbe dipeso da una spesa in con-to capitale inferiore rispetto agli obiettivi iniziali6 ma anche da una netta percezione da parte di imprenditori e cittadini di questa minore crescita, creando una specie di effetto frenata. Ma, a questo punto è Barca a fare la differenza di successo tra i vari settori prendendone in considerazione l’istruzione, la Ricerca, la valorizzazione delle risorse naturali e culturali, i sistemi produttivi locali, le città e per ultimo il turismo. Probabilmente però uno degli elementi principali d’insuccesso risiede proprio in questa enne-sima differenziazione settoriale a cui non ha mai veramente fatto seguito una politica d’intervento differenziata territorialmente, aspetto che esami-neremo più avanti.

Facciamo un passo indietro e andiamo invece a vedere meglio in cosa è consistito il successo e cioè il positivo cambiamento istituzionale innescato dalla nuova Politica Regionale.

In effetti, all’inizio degli anni novanta nei vari enti del sud dell’Italia non esisteva una vera politica di programmazione e tutti quei documenti scritti per la politica di sviluppo (ad esempio un eventuale Piano Regionale di Sviluppo) erano fatti, come si diceva tra gli addetti ai lavori, “per finire poi in un cassetto della scrivana”. Non solo, non esisteva alcuno strumento che potesse incentivare uno di questi Enti a modificare questo status quo. Oltretutto nell’utilizzo delle risorse finanziare non esistevano centri di re-sponsabilità né di controllo e valutazione. Potremmo semplificare dicendo che era un vero e proprio regno dell’anarchia fatte salve alcune rare ecce-zioni. Ma il punto peggiore di quella situazione era l’approssimativa coope-razione tra Stato ed Enti perché tutto era basato su un canale diretto di co-municazione tra questi livelli che non faceva altro che confermare scelte giustamente definite “paternalistiche” e arrivando anche a scoraggiare la partecipazione di altri attori, in particolare quelli privati. Con la nuova Poli-tica Regionale si è finalmente abbandonato questo modello in cui, pratica-mente, lo Stato allocava delle risorse solo accertandosi che venissero rendi-contate ma non certamente cercando di verificarne l’azione. Oggi invece i diversi livelli di governo, insieme agli attori sociali, fissano le priorità per l’utilizzo delle risorse; questi fondi vengono poi attribuiti a delle autorità che ne sono responsabili che possono impiegarle nel rispetto delle regole e obiettivi predefiniti: si tratta di un modello di conditional grants in uso già in molti Paesi. L’unico difetto che possiamo sottolineare in questo metodo che è sicuramente felice rispetto allo scenario passato, è la sua quasi cecità

5 Barca F., “Italia frenata”, op.cit., p. 74. 6 La principale critica in materia viene da Rossi N., Mediterraneo del Nord. Un’altra

idea del Mezzogiorno, Laterza, Roma-Bari, 2005.

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rispetto alla diversificazione territoriale. Barca, infatti, scrive che, tra le priorità ed indirizzi, solo qualche volta si dice “dove” allocarle, mentre si parla sempre di quali servizi, quali incentivi, quale tipologia di progetto7.

1. Difetti e pregi: verso una visione geopolitica?

I punti positivi comunque della politica regionale condotta in quel de-cennio sono diversi e di notevole importanza proprio sul lungo periodo, molti dei quali lasciavano scettici diversi tra gli addetti ai lavori. Secondo il DPS essi sono almeno dieci, citiamo in quest’articolo i più importanti co-minciando dal fatto che la politica regionale sia divenuta con questo meto-do “programmabile” e soprattutto “monitorabile”. È cambiata in profondo l’amministrazione locale e la sua cultura dominante, migliorandone l’ef-ficacia e l’efficienza, seppur quest’ultima sia sicuramente difficile da misu-rare.

Inoltre venne così iniziata una sorta di unificazione della politica regio-nale nazionale sulla stregua della politica regionale europea, costituendo un “Fondo per le aree sottoutilizzate”. Questo fondo unico risponde alle stesse regole di allocazione delle risorse europee almeno per quel che riguarda i principî di assegnazione delle risorse e selezione dei progetti nonché di monitorabilità simili a quelli europei. Quest’aspetto è a nostro parere abba-stanza ambiguo essendo risaputo che la politica regionale europea ha inno-vato certamente in materia di razionalizzazione, trasparenza e monitoraggio ma è anche vero che è rimasta completamente cieca in materia di selezione da un punto di vista territoriale e questo per delle ragioni che oramai sono storiche. Si tratta di quelle stesse ragioni che hanno costretto la scrittura di un trattato unico dove non si poteva parlare di coesione territoriale ma solo di coesione sociale ed economica con tutti i danni che questo ha potuto comportare (oramai la cosa è cambiata con la costituzione europea). La scelta delle caratteristiche settoriali che permettono di avere accesso alle risorse comunitarie si fa, infatti, solo rispetto a variabili settoriali (se una zona è più o meno industriale, se è in declino da un preciso numero di anni, se raggiunge un preciso tasso di disoccupazione, ecc.). Questa rigidità non tiene conto in nessun modo delle caratteristiche di ciascun territorio e anco-ra meno delle caratteristiche precise delle reti sociali che vi sono insediate e che sono una discriminante fondamentale per il successo di un intervento. Le ragioni di questa “cecità” territoriale sono legate non a ragioni di ogget-tività scientifica (come spesso è stato detto) bensì per il fatto che i Paesi

7 Barca F., Italia Frenata, op.cit., p. 80.

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membri vi si sono sempre opposti impedendo così alla Commissione di po-ter entrare nel merito delle scelte territoriali che nei varî Paesi sono effet-tuate. Non è un caso, infatti, che il Trattato Unico parli solo di coesione So-ciale ed Economica (a parte l’eccezione dei servizi di interesse generale dove la variabile “territoriale” viene inserita per la prima volta) mentre lo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo parli di Coesione Territoriale (infatti quest’ultimo documento, al contrario del Trattato Unico, non è coercitivo)8. Visti i problemi che questa strategia ha provocato (basti guar-dare i risultati positivi per la Politica Agricola in Francia e quelli catastrofi-ci sia sociali sia economici provocati in Portogallo) ci si chiede perché ap-plicare alla Politica Regionale nazionale delle caratteristiche coordinate con la politica Europea ma a loro volta autonome e sicuramente con discrimi-nanti non solo settoriali ma territoriali. Certo, possiamo ricordare che il concetto di “coesione territoriale” viene finalmente iscritto nel testo della nuova Costituzione Europea, esattamente nel terzo comma dell’art. 3 non-ché tra quelle competenze condivise tra UE e Paesi Membri, ma resta la difficile definizione del concetto di Coesione Territoriale, nonostante i nu-merosi rapporti e libri verdi in tutti questi anni. Questo lascia completamen-te aperto il problema della gestione coerente delle Politiche Infrastrutturali e di Sviluppo regionale dell’Europa. In questo memento questa è più simile alla situazione Italiana (cioè una situazione confusa molto conflittuale, quindi profondamente dannosa) anziché verso una direzione alla francese dove, con tutti i difetti che sappiamo, la politica di sviluppo e di intervento dell’attore pubblico è meglio definita (e certamente più efficace).

Gli altri punti positivi della nuova Politica Regionale sono certamente gli Accordi di Programma Quadro che hanno creato situazioni di coordina-zione verticale altrimenti difficili e conflittuali. Vi è stata poi la concentra-zione degli interventi riuscendo ad evitare in questo modo l’elevata fram-mentazione che spesso porta a gravi difficoltà di ottimizzazione e raziona-lizzazione e per ultima sicuramente va citata la nascita di strumenti come “patti territoriali” e “Progetti Integrati Territoriali” che hanno portato a una maggiore integrazione tra le politiche territoriali dei diversi attori.

A questo proposito il collegamento con la Geopolitica Interna è d’ob-bligo se pensiamo al fatto che il grande merito dei Patti o dei varî progetti è stato quello di obbligare i diversi attori a programmare insieme il loro in-tervento. Al tempo stesso si è pensato a questo tipo di progetti come a un qualcosa che fosse basato su scelte di tipo “economico” senza considerare la diversità e la conflittualità delle diverse visioni che ciascuno dei vari at-

8 Husson C., L’Europe sans territoire, Editions de l’Aube, Paris, 2002 e Bettoni G.,

“Dalla Geografia alla Geopolitica”, op.cit.

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tori poteva avere. Quest’approccio ha caratterizzato anche il metodo di va-lutazione dei varî progetti, cercando, giustamente, un metodo che fosse il più oggettivo possibile e lasciasse il meno spazio possibile a quegli inter-venti che portavano incoerenza nelle politiche di programmazione a scapito anche della loro stessa efficacia. Questa ricerca dell’oggettività ha, però, portato a sottovalutare gli altri elementi di disturbo e si sa che quando si sottovalutano certi aspetti (addirittura in certi casi non vengono presi del tutto in considerazione) è l’impianto totale della programmazione e valuta-zione che rischia di essere almeno in parte inefficace. Lo stesso Barca nota come elementi essenziali che hanno portato al mancato raggiungimento de-gli obiettivi iniziali della nuova politica Regionale siano proprio “[...] poli-tiche settoriali non coerenti con la politica regionale [...] nell’integrazione territoriale degli interventi nazionali”9, oltre chiaramente ad una inadeguata cooperazione tra le varie amministrazioni. A questo è strettamente legato il fatto che non si è riusciti, come si voleva, a realizzare comunque un “cen-tro” che desse delle indicazioni in materia d’indirizzo delle varie politiche e come luogo di alta competenza a disposizione dei livelli locali. Questo pun-to è forse il più importante e denota la forza degli attori locali (regionali in particolare) di voler raccogliere i mezzi che l’Unione e il Governo centrale davano loro, ma senza subirne gli eventuali vincoli in materia di indirizzo che avrebbero permesso una maggiore coerenza nella progettualità di tipo orizzontale. Ecco forse il miglior esempio di limite di questo metodo e che invece è al cuore del metodo della geopolitica interna: i rapporti antagonisti tra attori territoriali per la decisione delle linee di sviluppo del loro territo-rio (che in questo caso significa avere il controllo dell’evoluzione del pro-prio territorio, cosa che è l’obiettivo di ogni attore territoriale).

Il contesto italiano è particolarmente delicato se non pericoloso. Prima di tutto, nei tempi brevi o medi, è in pericolo un’organizzazione

del territorio tale da renderla competitiva sia per la produttività del Paese sia per l’attrattiva di eventuali altri progetti imprenditoriali (e la confusione che si sta creando intorno alla riforma delle province ne è la prova). La grande confusione che resta sul livello locale rende difficilissimo, per qua-lunque attività produttiva, cercare di fare una seria programmazione dei propri investimenti. Non solo. Non esiste un documento nazionale, condi-viso anche dagli altri livelli istituzionali, che faccia capire qual è il progetto di sviluppo delle varie parti del Paese. Esistono molti documenti settoriali, per delle visioni d’insieme, ma nessuno ci dice quale dovrà essere il proget-to condiviso per il Sud-Est (per esempio) dell’Italia. Oppure un progetto del Paese nel tentativo di realizzare un “sistema” non come Paese (come viene

9 Barca F., Italia Frenata, op. cit., p. 99.

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definito), ma Mediterraneo. Un sistema integrato, cioè, tra le due sponde del nostro Mare (quella Sud e quella Nord). Come potranno gli attori locali decidere le loro Politiche se non sanno quale sarà il progetto del Paese nel suo insieme?

Ma, il pericolo maggiore è la totale mancanza di “collante nazionale”. Se una comunità non ha più delle autentiche basi di solidarietà e di condivi-sione delle direzioni da prendere, vengono meno le stesse ragioni di esi-stenza della “nazione”. Possiamo definire l’Italia un Paese in pericolo di esistenza? Difficile dirlo, ma certamente gli ingredienti per arrivare a que-sta drammatica situazione sono tutti presenti. Seppur (ce lo auguriamo) non si arriverà a un tale drammatico scenario, è molto più probabile che l’Italia non sarà in grado di affrontare la competitività dei suo concorrenti e si sta-bilizzerà su una pendenza di declino che ha già intrapreso da diversi anni ma che nessuno osa affermare pubblicamente e chiaramente. Oggi l’Italia è un caso esemplare ma non è il solo Paese a trovarsi in questa situazione. Certo il Belgio è sotto gli occhi di tutti, ma anche Paesi con tradizioni cen-traliste come la Francia non sono al riparo da pericolose confusioni che in-ficiano l’azione pubblica prima e rendono quindi conflittuale il contesto na-zionale.

Partendo da questa conclusione del caso italiano si capisce come il le-game tra governance e geopolitica sia diretto. Una politica di organizzazio-ne territoriale è basta sull’armonizzazione di una strategia che dovrebbe es-sere condivisa (come dicono Merlin e Legalès), ma il contesto storico e po-litico che si è creato nelle ultime due decadi fa si che questa “armonizza-zione” diventi estremamente conflittuale. La volontà della Governance, come concetto diffuso a partire dagli anni ’80, è proprio quella di operare in questo contesto, trovare un modo di gestire questo rapporto tra attori politi-ci per la messa in atto delle loro visioni del territorio (a tutte le scale, da quella Europea a quella locale di un comune).

La Governance è, quindi, una questione eminentemente geopolitica per-ché è una “questione” che entra direttamente nella gestione dell’azione pubblica tra diversi attori che hanno rappresentazioni diverse10. Il problema

10 Su questo se abbiamo la definizione di Lacoste in memoria, va ricordata anche Las-

coumes e Le Galès quando parlano di strumenti d’azione pubblica e scrivono: “un instru-ment d’action publique constitue un dispositif à la fois technique et social qui organise des rapports sociaux spécifiques entre la puissance pubblique et ses destinataires en fonction des représentations et des significations dont il est porteur” in Lascoumes P. et Le Galès P., In-troduction, op.cit., p. 13.

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è che se una delle sue prime definizioni era grossomodo quella di “governa-re con il consenso”, oggi si è trasformata in “governare il conflitto”11.

2. La ripartizione interna dell’Italia

La ripartizione amministrativa dell’Italia in Province è certamente, a parte quella dei Comuni, la maglia amministrativa più antica (a esclusione di quella delle Diocesi ovviamente). Diciamo pure che si tratta della scala amministrativa di aggregazione più antica del nostro Paese e questo non è certo senza conseguenze. Gli abitanti di Cavallino o Maglie si sentiranno Salentini (intendendo con questo la provincia di Lecce, seppur sbagliando) e non certamente “Pugliesi” (nonostante due dei Presidenti Regionali eletti dal 1995 ad oggi vengano proprio dal Salento). Quando le Regioni non esi-stevano (e neanche l’Italia) esisteva già la Terra di Bari (attuale provincia di Bari) e la Terra del Lavoro (attuale provincia di Caserta), mentre non esistevano, appunto, né Puglia né Campania.

Allora la domanda si impone: perché cancellarle? Ha un senso? È un

bene per l’Italia? Queste domande hanno un senso soprattutto se guardiamo intorno a noi,

Paesi come Germania, Spagna, Austria, Francia, Gran Bretagna…. Tutti questi Paesi, non solo hanno l’equivalente delle nostre Regioni, ma hanno e mantengono il livello istituzionale della “provincia”. Da qui il fondamento della domanda riguardo alle motivazioni di una loro “soppressione” in completa controtendenza. In effetti, vedremo meglio in seguito che l’elimi-nazione della scala provinciale sarebbe l’ennesimo capitale storico di lungo periodo che verrebbe dilapidato, distrutto, negli ultimi vent’anni…

Occorre ricordare che l’Italia non ha mai veramente vissuto un vero momento accentratore, un momento in cui il centro abbia emanato un pro-getto nazionale. Infatti, non è accaduto per il Regno Sabaudo fatto da re-gnanti che non hanno mai visto un elemento identitario nel loro territorio “nazionale” . Per loro contava la corona su un Paese più grande, più ricco. Ma mai i Savoia hanno avuto un progetto che fosse propriamente “naziona-le” (in questo senso fece molto di più Federico II di Svevia ostacolato dal Papa dell’epoca, a cominciare da Onorio III).

11 È una frase detta da Gennaro Terracciano, professore di Diritto Amministrativo presso

la Seconda Università di Napoli in sede di un dibattito privato nel marzo del 2010.

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La parentesi fascista ha avuto vita nel punto più alto di quella che viene definita “epoca nazionalista” e molto hanno fatto (i fascisti) per cercare di dare vita a una identità solida, ampia (sul “condivisa” non c’era discussio-ne). Va confermata la fragilità di un’imposta in modo solo violento: rara-mente attecchiscono. È in fatti in questo “metodo” che va cercata la spiega-zione di quell’antinazionalismo tipico del secondo dopoguerra.

In tutto questo periodo si è continuato sempre a delegittimare l’avver-sario politico, dai tempi dell’Unità, senza mai fermarsi, sino ad arrivare ai giorni nostri . Questa forma di delegittimazione ha impedito una costruzio-ne identitaria, nazionale, condivisa. In questo contesto le ripartizioni ammi-nistrative si sono lentamente trasformate in uno strumento con cui colpire colui o coloro fossero percepiti come “avversari” nel controllo del potere e soprattutto del territorio. Questo in una visione lacostiana della geopolitica e cioè viene definita come geopolitica quella situazione in cui “[…] due o più attori politici si contendono un determinato territorio. In questo conten-dere, le popolazioni che abitano il territorio conteso, o che sono rappresen-tate dagli attori che se li contendono, devono essere coinvolte in questo conflitto, attraverso l’uso degli strumenti di comunicazione di massa” . In effetti, sia la creazione delle Regioni che la eliminazione delle Province Ita-liane avvengono in una strategia eminentemente “geopolitica”, proprio co-me inteso nella definizione appena citata.

Prima di arrivare a capire le conseguenze di una eventuale “eliminazio-ne” delle Province vediamo prima come si sono create le Regioni Italiane le quali, come è stato scritto sopra, rappresentano certamente l’insieme terri-toriale più recente ma anche quello di cui con più facilità possiamo rico-struire il procedimento di delimitazione. 3. L’invenzione delle Regioni Italiane

L'Italia nasce, dopo la seconda guerra mondiale, come repubblica costi-tuita da Regioni. Queste regioni però vengono semplicemente indicate nella Costituzione, ma le istituzioni non vengono di fatto create (a parte le cinque regioni a statuto speciale) se non a partire dal 1970 e questa per un motivo molto semplice.

I partiti al governo nel secondo dopoguerra (ovviamente si tratta prima di tutto della Democrazia Cristiana, ma nella fase finale furano MSI e PLI i più acerrimi oppositori) sapevano che alcune delle nuove Regioni sarebbe-ro andate nelle mani dei comunisti e temevano con questo di offrire loro delle basi d'azione nonché di legittimità istituzionale che avrebbero potuto influenzare il futuro dell'Italia e aprire a eventuali pericoli di sovietizzazio-

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ne. Alla fine degli anni Sessanta, considerata oramai l'Italia fuori da que-st'ultimo pericolo e soprattutto non essendo più possibile il rinvio (a quasi venticinque anni dalla scrittura della Costituzione repubblicana), si diede vita alle Regioni Italiane quali le si conosceva dalle ripartizioni statistiche stabilite all'unita d'Italia nel 1861.

In realtà I'importanza del discorso risiede proprio in questo punto (da dove prende origine la definizione dei limiti regionali?).

I due nomi più importanti all'origine della ripartizione dell'Italia in Re-gioni sono Cesare Correnti, che sicuramente è l'iniziatore della ripartizione italiana con ipotesi indicate ancor prima dell'Unità, e Pietro Maestri, che invece ne riporta ufficialmente la paternità.

Correnti era tra quegli studiosi che avevano il sogno dell'unificazione italiana e che ne conduceva la battaglia, se non fisica, quantomeno politica e intellettuale, al punto di scriverne le caratteristiche costitutive e territoria-li. Egli affermava che l'Italia era divisibile in tre aree: continentale, penin-sulare e insulare.

Aggiungeva che “a volerla considerare nella sua fisionomia estetica e economica, si individuano sedici regioni: la Pedemontana (che corrisponde all'antico Stato piemontese); la Cispadana (la parola e scelta facendo preci-samente riferimento al modo di parlare dei fiorentini i quali, all’epoca, con-sideravano “transpadano” tutto ciò che era al nord del Po e “cispadano” ciò che invece era a sud: per Correnti quindi la regione cispadana includeva le legazioni di Ferrara e Bologna); la Transpadana (la Lombardia); l’Adriatica (il Veneto); la Riviera Appenninica (il Genovesato); la Costa Adriatica (le Marche); la Valle dell’Arno (la Toscana); la vallata del Tevere (la Campa-gna Romana); l’Appenninica Centrale (Umbria, Abruzzo e Sannio); la Ter-ra di Lavoro (Napoli e il resto della Campania); la Pianura dei Due Mari (la Puglia); l’Estremità Bipeninsulare (la Calabria); la Sicilia; la Sardegna; la Corsica; l'Istria.

Evidentemente dobbiamo leggere questi riferimenti come li avrebbero interpretati nel XIX secolo; il Veneto, per esempio, si estendeva ben oltre il Tagliamento per arrivare praticamente fino all’Istria. Così, nella ripartizio-ne Appenninica Centrale, che abbiamo indicativamente riferito all’Abruz-zo, Correnti include unicamente la parte interna dell’area mesoadriatica, mentre l’odierna Regione Abruzzo include anche la parte costiera. La Basi-licata, che invece non appare nella divisione dettata dal Correnti, è divisa tra la Terra di Lavoro, la Pianura dei Due Mari e l’Estremità Bipeninsulare.

Occorre ricordare che la proposta di Correnti risale al 1852, quando cioè

l’Unità italiana era tutt'altro che una certezza, e la sua importanza è legata a due aspetti: il territorio che egli considera come “Italia” e il tipo di riparti-

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zione che propone. Il resto del suo lavoro è dedicato a spiegare perché l’Italia debba essere unita e come le sue varie parti siano così ben definite da poterne «leggere il nome delle regioni inciso nelle montagne e nei fiu-mi”. Qui la diversità è usata in totale sintonia con l'unità: come sua stessa essenza. La situazione che secondo Correnti più rappresenterebbe l’Italia è: “Unita nella diversità”. Ma la sua analisi va ben oltre e si sofferma anche sui dettagli climatici (che qui tralasciamo) per ogni parte del territorio ita-liano, in base ai quali includeva cinque zone climatiche, aggiungendo anche l'arcipelago di Malta, definito come le “Antille italiane”. Soli tre anni dopo la pubblicazione del suo primo lavoro, Correnti propone un'altra pubblica-zione, dove ridefinisce le Regioni italiane in un modo che per lui sarà defi-nitivo.

La ripartizione dell'Italia in compartimenti fu per Correnti un esercizio difficile e soprattutto carico di pressioni, perché disegnare una frontiera è sempre sinonimo di un’azione di potere e sempre si farà in una condizione di conflitto rispetto a qualcun altro. Correnti scriveva a riguardo: “La que-stione della ripartizione è spinosa e molti mi hanno fatto delle critiche e delle pressioni. Per parte mia io credo che quando le distinzioni, le articola-zioni e i nomi geografici prevarranno sulle divisioni abituali delle sub-nazionalità e del provincialismo, avremo fatto molti progressi”.

All’epoca si trattò di fare un vero e proprio gioco da equilibristi. Corren-ti dice chiaramente, in effetti, che la ripartizione dei nuovi compartimenti avrebbe dovuto in qualche modo rispettare delle coerenze preesistenti e so-prattutto prendere in considerazione le ripartizioni passate, ma in nessun modo riproporle.

L’obiettivo era evitare che le identità locali potessero persistere nel tempo, per evitare delle fratture future. Correnti quindi dovette valorizzare la diversità dell’Italia, dato che era incancellabile e soprattutto evidente, ma al tempo stesso evitare che identità preesistenti potessero definirsi antece-denti all’Italia.

Egli affermò chiaramente: “Se noi consideriamo i tredici stati e quasi stati attraverso i quali l’Italia e oggi suddivisa, noi contiamo 110 province, 495 distretti, 10.041 comuni: ma province, distretti e comuni che, anche in maniera approssimativa, non hanno lo stesso valore economico e politico. Proprio da questo punto parte la necessità di modificare la prima ripartizio-ne esistente: per riprodurre l’unità di questo stesso Paese. Correnti articola il suo pensiero nel modo seguente: “Le quindici province dei domini bor-bonici hanno una popolazione media di 440.000 abitanti per ciascuna e possono perciò ragguagliarsi alle divisioni Piemontesi e ai dipartimenti Francesi. Alquanto meno popolose e soprattutto meno estese sono le sette provincie della Sicilia: ma si le une come le altre sono suddivise in 77 di-

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stretti, che toccando per medio una popolazione d'oltre 100 mila anime, non hanno alcuna analogia coi 127 distretti in cui e stratagliata la Lombardia, la media popolazione dei quali non passa i 22.000. I distretti napoletani sono invece da pareggiarsi alle cinquanta provincie sarde, che l’una per l’altra hanno centomila abitanti ciascuna. In nessuna parte dell'Italia il distretto ha un carattere suo proprio ed un organismo fecondo, come nella Lombardia e nella Venezia: frutto delle istituzioni censuarie, che mancano in quasi tutti gli altri stati italiani” .

A questo punto non entriamo nel dettaglio comunale: ci basti ricordare che Correnti ne solleva il problema. Infatti, non solo i comuni sono ecces-sivamente numerosi, ma soprattutto vi è una enorme diversità della densità stessa dei comuni. Per esempio tra Lombardia, dove i comuni sono tanti e piccolissimi, e Sicilia, dove i comuni sono molti di meno ma più estesi; di-versità che ritroviamo anche nella notevole differenza nel numero di abitan-ti per comune.

Perché ci soffermiamo così tanto su questo aspetto? Perché, come dice lo stesso Correnti: “il problema di una distribuzione territoriale corretta, più complicata di quanto non si immagini, è profondamente legato alle que-stioni politiche e sociali. Perché da questo piccolo e ultimo livello ammini-strativo dipende la possibilità di far concorrere in maniera equa gli interessi locali, che sono i grandi interessi degli individui, e l’interesse generale”.

La principale rappresentazione delle regioni italiane fu quella data da Pietro Maestri, in seguito ai lavori effettuati dallo stesso Correnti. Appare chiaro che il dibattito a proposito di un’eventuale ripartizione interna dell’Italia esisteva già ed era anche vivace, proprio perché si era consape-voli dell’importanza che essa poteva avere.

È grazie a Maestri che questa ripartizione assurge all’ufficialità delle pubblicazioni italiane nel 1864. Maestri afferma chiaramente che se avesse dovuto definire delle regioni con un ruolo politico allora non solamente avrebbe proposto uno studio più approfondito, ma avrebbe previsto la pos-sibilità di modificare queste stesse frontiere nel tempo, perché egli afferma che l’evoluzione del tessuto che compone i diversi territori dell’Italia non permette di definire le regioni con dei limiti stabiliti per sempre. Egli si rende conto che sarebbe esistito il bisogno di individuare degli insiemi sub-nazionali tali da poter mettere in migliori condizioni di operare la macchina amministrativa del nuovo Stato italiano. II problema è che, per individuare queste entità con valenze sociali, politiche e economiche, sarebbe occorsa tutta una serie di dati statistici e d’informazioni che erano invece introvabi-li. Proprio per sopperire a questa enorme carenza dello Stato da un punto di vista informativo, Maestri decide di “omogeneizzare” quelli che erano gli

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uffici statistici dei vari Stati, in modo da rendere utilizzabili i dati che sa-rebbero stati raccolti.

Per dover di cronaca dobbiamo dire che fu Minghetti, quando era mini-stro degli Interni nel 1862, a proporre al parlamento la legge sulla nuova organizzazione amministrativo-territoriale (la proposta cominciò a essere elaborata dal suo predecessore, Farini). Ovviamente la proposta Minghetti partiva dalla ripartizione fatta da Correnti e asseriva che le eventuali regio-ni avrebbero dovuto essere composte da province e che queste ultime sa-rebbero state delimitate da elementi naturali o da limiti storici. Ma, lenta-mente, il parlamento si arena a questo proposito e fu Maestri che invece continuò il lavoro di ripartizione dell’Italia. Egli rimproverava ai politici l'aver fermato quel processo, che considerava importante per il futuro del Regno anche perché: egli non sarebbe stato contrario a un paese con strut-tura federale (senza pero mettere a rischio l’unità dell’Italia). Ma non è per questa ragione che propose la sua ripartizione: essa fu proposta unicamente per adempiere agli imperativi del suo lavoro di statistico, secondo le sue stesse parole. Per essere più chiari, Maestri non intendeva attribuire alcun ruolo politico alle regioni (allora chiamate compartimenti) che proponeva . Ma, questa difficoltà fu anche del parlamento italiano: tutti sapevano che sarebbe stato necessario individuare delle ripartizioni interne, ma nessuno voleva lanciarsi nella definizione di questi limiti e così fu il tempo a fare il suo lavoro. Infatti, considerare la ripartizione in compartimenti (furono chiamate “regioni” nei primi anni del XX secolo) unicamente come riparti-zione statistica permise di far in qualche modo dimenticare la fragilità della sua definizione. Fino ad arrivare alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando fu quasi automatico identificare le regioni che venivano menzionate nella Costituzione con i compartimenti di Maestri. Tanto più che i Costi-tuenti sapevano bene che quelle regioni non avrebbero avuto alcun potere politico, per il momento. Nel 1970, quando poi venne dato un ruolo ammi-nistrativo alle Regioni, esse erano così marginali che nessuno si preoccupò di affrontare la questione della loro delimitazione da un punto di vista poli-tico: le Regioni avevano un potere quasi insignificante ed erano piuttosto viste come una palestra per i leader locali prima d’arrivare a Roma in Par-lamento, quasi una maniera di proporre un’offerta politica ulteriore alla domanda pressante che veniva dalla base. Questo problema venne sollevato già prima della costituzione delle Regioni nel 1970. Diversi specialisti lo fecero: il più famoso tra questi sicuramente fu Lucio Gambi. Nel 1963 egli affrontava direttamente il tema dell'ambiguità dell'identificazione di com-partimenti statistici e regioni e più precisamente affermava: “Di conse-guenza, le cosiddette regioni di cui l'art. 131 della Costituzione dà l’elenco - un elenco nominativo che avrebbe dovuto venire integrato da una defini-

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zione precisa di ciascuna nei suoi termini topografici, mediante una carta riassuntiva - sono entità che a mio parere non esprimono territorialmente il significato di regione così come lo si trae dalla Costituzione. È scritto che la regione deve esercitare con istituti propri (art. da 121 a 125) “funzioni amministrative” (art. 118): ma a parte il fatto che simili operazioni non si riferiscono più a una esecuzione di deliberazioni amministrative stabilite dai governi romani e diventano in realtà azioni politiche, in quanto s’inseri-scono in una struttura autonoma e sono svolte da organi costituiti in termini politici, se tali funzioni [...] si vogliono veramente efficienti e coordinate, occorre che esse siano interpretate come elementi di una complessa pianifi-cazione. Quindi, se il loro scopo mira a un potenziamento economico, a una più razionale intelaiatura sociale etc., è quindi indispensabile che quei compiti si svolgano su di una regione dotata, o dotabile, di una chiara orga-nicità. Ecco, quindi, trasparire netto il dubbio sulla effettiva organicità di quei compartimenti statistici e soprattutto sulla “destinazione d’uso” che la Costituzione individua. Ma Gambi non si limitò a quanto citato. Tredici anni dopo tornò formalmente sull'argomento, sottolineando come l’identifi-cazione di una regione interna a uno Stato fosse lavoro complesso e artico-lato, che richiede una serie di informazioni demografiche, economiche, sto-riche ecc. Gambi afferma chiaramente come la Costituente avrebbe dovuto essere più attenta, in questa lavoro di delimitazione, e punta l’indice contro la superficialità dell’Assemblea. Ricorda come il lavoro fatto da Maestri (ascrivendolo a un mero bisogno statistico e citando le parole dello stesso Maestri, che aveva sottolineato come i compartimenti non avrebbero potuto essere destinati a nessun altro scopo, perche inadeguati) non fosse altro che un’evoluzione del lavoro fatto dallo stesso Correnti. Egli conclude citando Cattaneo: “Le nostre regioni costituzionali sono dunque ripartizioni statisti-che riverniciate di nome (Cattaneo lo scriveva già ne11861: “il più grave loro pensiero è quello di dare sulle cose vecchie una mana di bianco" ) e fondate, poco dopo l'unificazione nazionale, su una situazione economica, urbanistica, di reti viabili e di panorami demografici che nei quindici lustri venuti poi si modifica radicalmente in molte pieghe, e oggi quasi ovunque irriconoscibile” . Il problema sorge quando quegli attori politici ottengono sempre più potere e arrivano a farsi volentieri chiamare “governatori” e ad-dirittura a domandare ai loro assessori di giurare sulla bandiera della regio-ne (bandiere che sono in taluni casi create ex-novo).

Che sembri inutile il dibattito sulla delimitazione delle Regioni italiane è un errore, perché se le Regioni si ritrovano con grandi responsabilità, ma al tempo stesso con grandi difficoltà (potremmo dire grandi fragilità delle loro azioni proprio al loro interno) è esattamente per questo motivo. I pre-sidenti delle Regioni in molti casi conducono strategie importantissime di

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costruzione dell'identità, per poter strutturare il loro ruolo e renderlo condi-viso dai propri cittadini. Il problema maggiore è che i cittadini si identifica-no pochissimo nella propria Regione (anche se più oggi di quanto non ac-cadesse trent'anni fa). Il mancato riconoscersi nelle “identità” Regionali non è banale e ancora meno inspiegabile. La stampa ha spesso messo in ri-lievo la mancanza di identità “italiana” in tutti sensi sottolineando sempre il ruolo dei Campanili (il campanilismo degli Italiani certo non è poco) ma non si tratta solo di questo. Anche perché sia Correnti sia Maestri parlano chiaramente di quella ripartizione sub regionale che già sanno essere im-portante, precedente. Correnti li definiva distretti e guarda caso in un terri-torio non molto più grande di oggi erano 110 (praticamente le stesse pro-vince che oggi ci sono sul territorio nazionale).

Tutto questo per chiarire prima di tutto la “giovane” età delle Regioni, per quanto si cerchi di presentarle come antiche. Soprattutto mostrare l’arbitrarietà della loro delimitazione (fatta in un dato momento storico e con obiettivi precisi). E, infine, sottolineare quanto queste Regioni non rap-presentano e, scriviamolo pure, non rappresenteranno mai un elemento ag-gregativo tra i cittadini dell’Italia. Gli Italiani potranno eventualmente, in certi casi, riconoscere alla loro Regione un ruolo operativo preciso, ma cer-to non quello identitario fondamentale che spesso, purtroppo, faticano a identificare persino con il loro Paese tutto.

Ma la discussione in questa sede non deve essere concentrata sull’inutile argomento “meglio la Regione o meglio la Provincia”. Il punto è l’interesse e l’importanza della presenza della ripartizione provinciale nell’Italia d’oggi, a 150 anni dalla sua Unità.

4. Le Province dopo la riforma del 2001

L’ampio dibattito che qui si preferisce non riportare sull’importanza del-la soppressione dell’Istituto provinciale nasce da una vessazione da parte del cittadino italiano nei confronti del dispendio di risorse pubbliche in ge-nerale, verso le cosiddette “auto blu” oppure le remunerazioni esorbitanti di diversi rappresentanti dell’attore pubblico o più in generale della classe dei rappresentanti (parlamentari ma non solo). Questa stanchezza, insofferenza, interviene verso qualunque cosa possa essere fatta con i fondi versati dal contribuente e che non trovasse un’immediata spiegazione e utilità. Il punto più alto di questo tipo di “rappresentazione” è certamente il lavoro giornali-stico sulla cosiddetta “casta” dei parlamentari .

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Nella foga di tutta questa discussione le Province furono facilmente in-dicate per la loro “inutilità”, soprattutto perché dopo la riforma del Titolo V della Costituzione fatta nel 2001 alle Province restava un ruolo certamente debolissimo all’interno di una struttura istituzionale francamente fragile e incerta. Una riforma che si voleva federalista, su un’onda di delegittima-zione dello Stato Centrale che risaliva prima di tutto alla caduta del Muro di Berlino nel 1989, spazzando via il ruolo dei vecchi partiti politici. In se-guito a quell’evento e finito un equilibrio internazionale che copriva anche il nostro Paese, si ebbe la famosa fase di “mani pulite”. Dal 1992 in avanti l’obiettivo era sempre stato la riduzione dei costi, riduzione che però si in-terrompe proprio intorno al periodo della riforma del 2001 e in cui i costi del funzionamento dell’amministrazione ricominciano a salire. Quella ri-forma in realtà produce un grave vulnus tra Stato da una parte e Regioni e Enti Locali dall’altra. Questa ferita si crea intorno alla nuova ridefinizione dei poteri e non si risanerà mai, neanche oggi. Il fatto che il primo potere legislativo oramai rientri nelle mani delle Regioni e non più dello Stato centrale ha in qualche modo celato il grave problema della competenza concorrente tra i diversi livelli. Se questo principio esiste anche in altri Pae-si, in nessun caso esso include così tanti punti. Questo fino ad arrivare a utilizzare la corte Costituzionale come strumento di funzionamento ordina-rio dello Stato Italiano. Infatti prima della riforma del Titolo V meno di un quarto dei contenziosi trattati dalla suprema Corte riguardavano contenziosi Stato/Regioni. Dopo il 2001, anno della riforma, la percentuale supera la metà. In pratica l’impianto ingegneristico costruito con quella riforma non funziona, la macchina non gira.

È da questo periodo in poi che si crea questa grande contraddizione ita-liana che condurrà all’anno 2012, anno in cui in teoria le Province italiane dovrebbero scomparire. La contraddizione è basata sul fatto che, spieghe-remo meglio di seguito, tutto il funzionamento del Paese dovrebbe girare intorno a Comuni, Regioni e Stato centrale. Questo in contraddizione con la volontà di dare vita alle Aree Metropolitane contemplate dalla Costituzione e in contraddizione con tutto il dibattito intorno ai Piani Strategici e cosid-dette “Aree Vaste”. Esaminiamo attentamente questi ultimi punti.

Nel funzionamento del Paese così come indicato dalla riforma del Titolo V il ruolo principale lo dovrebbero giocare Regioni, Stato e Comuni (sep-pur tutti in via di principio su un piano di pariteticità). Alle Province veniva (il passato sembra quasi d’obbligo oramai) lasciato un ruolo abbastanza marginale e, come si è potuto leggere già in diversi lavori, lo Stato centrale ha deciso di liquidare le Province facendole letteralmente morire d’asfissia. Un’asfissia fatta di mezzi risicatissimi nonché di poteri ridottissimi. È evi-

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dente che un’istituzione priva quasi di ruolo e soprattutto di mezzi finanzia-ri finisca per risultare ai più come inutile e, quindi, da sopprimere.

Poco sopra, però, si è lasciato intendere un ruolo chiave per la Provincia e quantomeno completamente in contraddizione con questa corrente di pen-siero che la vorrebbe inutile. Per capirlo meglio occorre avere più chiaro il quadro della “organizzazione territoriale” nonché avere ben in mente l’e-voluzione della gestione del territorio praticamente dalla nascita di quella che oggi chiamiamo Unione Europea. 5. Organizzazione territoriale e Provincia

Senza entrare nei dettagli di quelli che sono i principi dell’organizza-zione territoriale ricordiamo che almeno tre concetti da diverso tempo sono stati riportati alla luce o creati ex-novo:

1. Governance; 2. Piano strategico; 3. Area vasta. Tutti questi tre punti ci riportano, vedremo qui di seguito, direttamente

alla parola “provincia”. Il concetto di Governance possiamo facilmente sintetizzarlo nella defi-

nizione che una delle studiose pioniere della materia ne ha dato: “La Go-vernance fa riferimento essenzialmente a un metodo di governo/gestione non gerarchica dove gli attori non-statali, attori privati, partecipano all’e-laborazione e la messa in opera delle politiche pubbliche” . Questa visione ha impregnato l’azione pubblica dello stato (con risultati che non giudiche-remo con precisione in questa sede) praticamente dalla metà degli anni ’90. Soprattutto l’obiettivo era quello di invertire una rotta fino a quel punto ca-tastrofica: quella dei trasferimenti provenienti dallo Stato senza nessuna coerenza vera e propria, senza una verifica d’impatto. Furono gli anni del Dipartimento Politiche Sviluppo e Coesione, gli anni dell’Unità di Valuta-zione del Ministero dell’Economia. Anni in cui l’efficacia della spesa pub-blica era una specie di chimera che voleva coprire solo una cosa: le casse dello stato non permettevano più quel tipo di trasferimento. È sulla scia di quel cambiamento che si arriverà prima al Testo Unico per gli Enti Locali e poi alla riforma del 2001. L’obiettivo era semplice: far si che la concerta-zione di tutti gli attori territoriali portasse a una coerenza e maggiore so-prattutto a una maggiore efficacia di spesa. Per questo motivo tutto andava costruito con una visione (aldilà che potesse essere dall’alto o dal basso) condivisa e soprattutto frutto del lavoro di tutti i livelli istituzionali. Infatti,

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qui saremmo dovuti arrivare alla “visione” o alla “strategia” d’azione sul territorio e la Regione era già vista come pietra angolare attraverso un Pia-no Territoriale. Infatti, fu in quegli anni e soprattutto dopo le prime espe-rienze dei Piani Strategici che il Piani Territoriali Regionali cominciarono a vedersi non solo come uno strumento di settore (in genere quello Patrimo-niale o Paesaggistico) bensì come vero punto di riferimento in cui far con-vergere sia i Piani di Governo del Territorio (fatti dai comuni) che i Piani Territoriali di Coordinamento Provinciali (i PTCP). L’esempio del Lom-bardia ce lo mostra chiaramente affermando che il PTCP “[…] definisce, ai sensi e con gli effetti di cui all'articolo 2, comma 4, gli obiettivi generali relativi all'assetto e alla tutela del proprio territorio connessi ad interessi di rango provinciale o sovracomunale o costituenti attuazione della pianifica-zione regionale; sono interessi di rango provinciale e sovracomunale quelli riguardanti l'intero territorio provinciale o comunque quello di più comuni. Il PTCP è atto di indirizzo della programmazione socio-economica della provincia ed ha efficacia paesaggistico-ambientale per i contenuti e nei termini di cui ai commi seguenti” .

Il problema, grave, che si verificò fu proprio quello di una incapacità da parte di molte delle Regioni Italiane a produrre il Piano Territoriale a cui Province e Comuni avrebbero dovuto far riferimento. Così in moltissimi casi, non ultimi quelli di Lombardia e Lazio, ma non solo, i PTR non arri-vavano e i PTCP venivano prodotti senza quel riferimento che era conside-rato fondamentale. Questo ci deve far riflettere su due aspetti:

1) l’incapacità più volte provata, da parte delle Regioni, di concepire e soprattutto di far condividere, un piano, una visione, una strategia territoriale (quindi generale, d’insieme) a tutti gli attori del loro terri-torio.

2) Probabilmente la scala Regionale non è adeguata per dare vita a quella cabina di Regia che dovrebbe declinare le diverse direzioni e situazioni per i diversi territori avendo però chiaro un obiettivo d’insieme, Regionale (seppur questo possa sembrar banale in un Pae-se lo Stato non ha più da decenni una vera strategia territoriale né un documento ufficiale di questo genere).

Probabilmente lo sforzo che si chiede di fare alle Regioni è inadeguato

se si considera che esse non hanno mai (o quasi) impedito azioni di svilup-po da parte di altri attori territoriali in completa contraddizione con la loro strategia, pur avendone pienamente l’autorità per farlo. In sintesi diciamo pure che la Regione fin qui non ha mai avuto il riconoscimento necessario a coordinare l’azione dei diversi attori sul proprio territorio, come sarebbe invece indicato nei principi della Riforma fatta nel 2001.

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L’attore provinciale in questo senso era certamente l’anello debole della

catena, non certamente quello che, una volta scomparso, permetterà una manovra più agevole e condivisa. Eppure la condivisione era la parola “guida” fin dalla metà degli anni ’90. Infatti, i Piani Strategici, che oggi hanno una forza completamente diversa, in quegli anni non avevano alcun poter coercitivo, eppure diversi attori li sottoscrivevano. Aree come Torino, Trento, Pesaro e tante altre, decisero di lanciarsi in questo tipo d’espe-rienza. Si trattava di Piani che avevano come unico obiettivo quello di met-tere fine a piani comunali realizzati in completa solitudine, senza prendere in considerazione l’azione del proprio “vicino”. È questo atteggiamento “individualista” che ha dato vita negli anni ‘60 e ’70 a mostruose città sen-za discontinuità tra Novara e Verona (la città infinita, appunto). Tutte aree comunali concepite allo stesso modo e con enorme dispendio di risorse per servizi e infrastrutture che avrebbero potuto essere condivisi a vantaggio del contribuente e del paesaggio. Quei Piani Strategici aggregavano insiemi diversi comuni, la maggior parte delle volte con un comune principale, più densamente abitato, e dei comuni più piccoli, spesso a composizione di una corona periurbana. Insomma, una specie di “piccola” area Metropolitana. Ed è proprio in questi stessi anni che si ritorna a parlare di Aree Metropoli-tane, resuscitate da quella stessa riforma che le pone sullo stesso piano de-gli altri EE.LL., delle Regioni stesse e dello Stato. Ma si dimentica che le quattordici aree metropolitane furono concepite troppi anni prima e delimi-tate in un modo oramai superato e che avrebbe richiesto un nuovo interven-to del legislatore per ridefinirle. Poco importava, restava il fatto che si po-teva mirare a un nuovo attore territoriale che fosse aggregazione di Comu-ni, non coincidesse con le Province e che fosse però sub-regionale (perché nessuno nega che la Regione da sola non potrebbe mai occuparsi della ge-stione di un territorio che spesso ingloba migliaia di comuni e milioni di abitanti in condizioni orografiche disparate al proprio interno). Da diversi anni, infatti, il dibattito è aperto sulla dispersione della decisione, del terri-torio stesso, delle infrastrutture . È un territorio che si disgrega, in completa antitesi con il concetto stesso di Coesione Territoriale diventato oramai concetto essenziale delle politiche europee e iscritto nella stessa Carta Co-stituzionale Europea. Resta da sottolineare, a questo punto, questa incoe-renza tra la volontà di soppressione dell’istituzione Provinciale come in-sieme di diversi comuni e la tendenza a realizzare qualunque tipo di proget-to considerando quella che viene chiamata l’ “area vasta”. Molto numerose sono certamente le aree vaste a cui si è dato vita e facilmente si potrà os-servare come esse siano disparate. È al tempo stesso difficile trovare una definizione univoca di quello che possa essere questa sorta di “dimensione

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territoriale”. La maggior parte dei casi di Area Vasta che si sono create in Italia aggregano insiemi sovra comunali ma sub-provinciali. Al tempo stes-so ve ne sono alcune che aggregano più provincie (la Toscana per esempio ne ha create tre diverse, a fini di organizzazione sanitaria, di cui quella del-le Province Tirreniche tramite l’Intesa istituzionale del 2002). In ogni caso l’Area Vasta viene vista come un qualcosa che deve aggregare Comuni e essere sub regionale.

In questa stessa direzione vanno le Unioni di Comuni che con alterne fortune oramai sono una forma istituzionale definitivamente integrata con il Paesaggio del nostro Paese. Fino al marzo 2010, secondo i dati forniti dall’ANCI, le Unioni di Comuni erano 311 e interessavano 17 Regioni ita-liane. Un importante successo a dispetto anche di una drastica riduzione dei trasferimenti Statali destinati a questo tipo di istituzioni intermedie. Anche in questo caso in molti tessono le lodi di questo tipo di “opportunità” per quella miriade di Comuni che spesso non hanno spazi di manovra per la messa in atto di qualunque tipo di servizio pubblico per i propri cittadini (so-prattutto i piccolissimi comuni, quelli cioè sotto i mille abitanti che rappre-sentano il 25% dei comuni italiani e più precisamente 1974 comuni) . Inte-ressante è l’individuazione chiara dell’incapacità sia delle Regioni da una parte che dei Comuni dall’altra a assolvere una serie di funzioni che sono comunque legate all’attore pubblico. Secondo Ceschini sono almeno quattro i punti che spingono verso l’aggregazione, tipo l’Unione di Comuni:

1. diseconomie di scala; 2. impossibilità di esercitare a pieno la gestione di funzioni e servizi; 3. carenze di competenze professionali; 4. rigidità strutturale (entrate, uscite, personale, ecc.). E sempre secondo Ceschini il quadro normativo, il d.lgs. n. 267/2000

art.33 ha introdotto: • Il trasferimento di funzioni dalle Regioni agli EE.LL.; • L’individuazione regionale dei livelli ottimali di esercizio delle fun-

zioni; • Il programma regionale di individuazione degli ambiti per la gestione

associata; • Il metodo della concertazione.

Tutto questo è ascrivibile a un ruolo della Provincia eppure in nessun

caso si fa riferimento, in quel lavoro, al ruolo delle Province come possibile in questo quadro, preferendo una lettura totalmente a favore dei Comuni da sembrare praticamente “faziosa”. Eppure tra i servizi da gestire in modo “associato” tra comuni, sempre secondo i dati ANCI, vi sono dei punti im-

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portantissimi come assistenza e servizi alla persona, asili nido, attività pro-duttive e commerciali, cantieri lavoro, depuratori, edilizia privata, edilizia sismica, gestione dei beni demaniali e patrimoniali, gestione economica, finanziaria e programmazione, lavori pubblici, partecipazione e decentra-mento, pianificazione territoriale, ecc. (in tutti sono 67 i tipi di servizi che queste unioni di comuni gestiscono insieme). La gestione di questi servizi, che altrimenti le amministrazioni comunali non riuscirebbero a fare in mo-do efficace, rappresenta un’evidente prova della necessità di una scala ag-gregativa tra comune e regione, quale potrebbe essere la provincia.

Abbastanza sintomatiche del quadro operativo che vive l’Italia in questo periodo sono le parole dell’ex vice-sindaco di Livorno, Cristiano Toncelli:

“Livorno ha necessità di individuare aree industriali, operazione difficile per la limitatezza del proprio territorio, mentre a Collesalvetti ci sarebbero possibilità molto maggiori. Le province non possono aiutare molto nel favo-rire il dialogo. I comuni sono gelosi delle proprie prerogative e la difficoltà a parlarsi c'è anche tra province. Quel municipalismo che è tratto caratteristico della nostra cultura identitaria a volte diventa una gabbia che ci impedisce di vedere più lontano del nostro ristretto ambito. Una proposta concreta. Che gli assessori all'urbanistica e allo sviluppo economico di comuni e province di Pisa, Livorno e Collesalvetti, paritariamente, si riuniscano in un tavolo di programmazione con il mandato politico di stendere delle linee guida per ar-monizzare le programmazioni dei diversi territori e favorire lo sviluppo eco-nomico complessivo. Si tratterebbe in pratica di un Piano Strutturale di Area Vasta. L'area tra Livorno e Pisa ha grandi potenzialità, molto superiori ai venti contrari della crisi che sta mordendo il territorio. Dobbiamo solo supe-rare storiche diffidenze per costruire un miglior futuro comune”.

Questa dichiarazione contiene quasi tutto: il campanilismo di cui quasi ci vantiamo, l’inutilità alla quale sono state condannate le Province dal le-gislatore, l’inazione territoriale da parte di personale amministrativo e deci-sori politici. In sintesi, l’incapacità tutta italiana, di questo decennio, nel gestire il proprio territorio.

Il problema fondamentale è che il territorio nella fattispecie non è solo il luogo sul quale realizzare infrastrutture o manufatti diversi. Il territorio è qualcosa che ci modifica nella nostra struttura sociale e che noi modifi-chiamo a nostra volta. Non è solo un palcoscenico ma è attore quanto lo sono le politiche di sviluppo che vogliamo mettere in atto, quanto le comu-nità che lo abitano sperando di renderlo sempre migliore.

Merloni aveva sottolineato la direzione intrapresa di abolizione delle provincie e l’aveva definita sbagliata senza mezze misure. Anche lui evi-denzia l’assurdità di un Paese che non smette di inventare mille strumenti e modi da oltre vent’anni per far aggregare i Comuni e farli lavorare insieme.

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Ma, al tempo stesso, preda d’una sorta di furia semplicistica, si cerca di colpire una parte di quella Pubblica Amministrazione che si rappresenta come inutilmente onerosa: ci sarebbe da interrogarsi sul perché le Province. Merloni sostiene che la ripartizione delle Province sia artificiale ma in real-tà in questa sede non si condivide questa posizione. Se artificiale vuol dire “fatta dall’uomo” allora non esistono delimitazioni che non lo siano (Co-muni inclusi). Se artificiali vuol dire recenti, allora abbiamo già affermato in apertura di questo lavoro che le Province sono le più antiche e le sole a dar vita a una forma d’identità territoriale vera, riconosciuta e che va aldilà del Comune. Se invece voleva con questo affermare superate allora occorre dire che tutte le delimitazioni amministrative sono prima o poi superate. Superate dall’evoluzione tecnologica e dai bisogni delle società che vivono su quei territori. Di questo stesso avviso erano due grandi specialisti in que-sto lavoro già citati: Piero Mestri e Lucio Gambi.

Il problema vero è che occorrerebbe prevedere un periodo dopo il quale ogni delimitazione amministrativa andrebbe ridefinita almeno in parte (ogni vent’anni? Ogni mezzo secolo?). Ma ciascuna di queste delimitazioni dà vita a un potere e questo stesso potere si rifiuterà quasi sempre di modificare il proprio territorio o di rinunciare anche a una piccola porzione di esso. È l’eterna contraddizione delle delimitazioni amministrative di cui tutti gli spe-cialisti hanno sempre parlato: da Correnti a Gambi passando per Maestri.

Resta una cosa fondamentale: alle Province italiane, definite dalla Costi-tuzione con poteri eletti democraticamente, si vogliono sostituire degli in-siemi a geometria variabile, non condivisi e soprattutto di grande opacità giuridica e di cui il cittadino non solo non coglierà nulla ma soprattutto non deciderà nulla.

Tutti sappiamo, infatti, che un Paese fatto solo di Comuni e Regioni non

potrà esistere e non esisterà. Si lascerà quindi carta bianca agli attori locali di dar vita a loro piacimento ad aggregazioni di dimensioni diverse, con contenuti diversi e che potranno disfarsi in ogni momento (un Comune può uscire da una Unione di Comuni quando vuole allo stesso modo con cui un’Area Vasta si crea con un’intesa istituzionale che potrà essere disattesa in ogni momento). Non è un caso che tra i maggiori oppositori alle Provin-ce vi siano quegli addetti ai lavori che operano nelle strutture che dovrebbe-ro dar vita alle Aree Metropolitane. Questo nella semplice visione di smon-tare l’altro attore territoriale (quello ufficiale: la Provincia) per prenderne prontamente il posto nella gestione del territorio. Ma, cosa accade per quei comuni che non rientrerebbero nelle aree metropolitane? Insomma, come si può facilmente capire è una contesa per il controllo del territorio tra più at-tori politici, della geopolitica interna quindi .

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Merloni parla di riaggregare le Province e potrebbe essere una buona via da percorrere, ma prima di tutto occorre dare loro una ragion d’essere, resti-tuire loro quelli che sono i poteri che la loro scala richiederebbe a comin-ciare da infrastrutture e politiche di sviluppo economico nonché di pro-grammazione sanitaria. Andare verso una semplice (semplice?) cancella-zione delle Province a vantaggio di un futuro di aggregazioni disparate e imprevedibili di cui nessuno può oggi prevedere costi e efficacia è né più né meno che suicida. Per non parlare di quel patrimonio di lunghissimo pe-riodo che è rappresentato dalle identità che la stragrande maggioranza delle Provincie ha sul proprio territorio (a parte forse alcune delle più recenti).

Nella carta della pagina precedente si possono osservare le Diocesi Ita-liane quali appaiono nell’ultimo lavoro pubblicato qualche hanno fa per conto della Conferenza Episcopale Italiana. È sorprendente osservare la si-militudine, in moltissimi casi, tra Diocesi e scala Provinciale attuale. Ma ancor più interessante è proprio il fatto che quel tipo di delimitazione corri-sponde molto bene a un’operatività di scala locale che corrisponde a quella delle ATO. Si tratta di delimitazioni di scala locale che aggregano i Comu-ni e che permettono gestire buona parte dei servizi pubblici locali che al-trimenti i Comuni non riuscirebbero a gestire e garantire ai cittadino. La domanda sorge spontanea : perché non partire da quella scala, concentran-dole intorno a delle aree metropolitane capaci di gestirle e quindi ottenere così una sorta di area provinciale ancora più estesa (si ridurrebbe così il lo-ro numero). Ma questa aggregazione avrebbe un senso, una sorta di “catena di gestione”. E queste province potrebbero quindi ritrovarsi in Regioni più grandi (a questo punto certamente non più di una quindicina). Ma, Regioni aggregate partendo da queste nuove limitazioni, avendo al loro centro aree provinciali più estese che raccolgono al loro centro delle aree Urbane di una certa importanza. Ecco quindi delle Regioni più corpose (si è sempre pensato che le nostre Regioni non avessero massa critica) e delle province più coerenti con le loro aggregazioni territoriali (e con dei poteri precisi in quanto a gestione del loro territorio). Ma questo richiede una visione d’insieme dell’organizzazione territoriale, una visione che oggi sembra es-sere impossibile, preda di una sorta visione dogmatica che opporrebbe il locale al centrale.

È sbagliato vedere la gestione territoriale come dualistica: il locale vs. il centrale, dove il locale è il comune al massimo riunito nel quadro Regiona-le e questo a dispetto delle visioni opposte liberale e strutturalista. A nostro parere ha ragione Schapiro quando parla di una sorta di polifonia territoria-le dovuta soprattutto alla natura cangiante delle relazioni tra spazio e potere e che non ha mai smesso di mettere sotto scacco quasi tutti i modelli attuali di Governance fino ad oggi. Che si rifletta pure su una riaggregazione nuo-

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va di Province riducendone così il numero, ma resta il fatto che l’obiettivo non deve essere ciecamente la loro riduzione perché eventualmente costose, l’obiettivo sarebbe di individuare la giusta scala contemporanea e dare loro i giusti poteri.

Chi scrive pensa al contrario in una visione profondamente diversa che passerebbe, comunque, per una scala intermedia tra Regione e Comune, che possiamo continuare a chiamare Provincia. Ma non possiamo sempre ripartire dalle delimitazioni attuali e sperare di modificare in meglio senza cambiare, come usare le stesse province per farne delle nuove, allo stesso modo in cui anni fa la fondazione Agnelli proponeva delle nuove Regioni aggregandone alcune di quelle esistenti (la sola che era divisa era la Basili-cata scomparendo a vantaggio di Campania e Puglia) . Sarebbe come conti-nuare ad avanzare rattoppando quello l’esistente: all’epoca era di moda la tendenza a fare del “locale” ma di massa critica superiore alle Regioni esi-stenti, si credeva che le esse fossero troppo piccole per fare lobby a livello europeo.

Ora si è superata quell’idea: nessuno si sente abbastanza forte da spinge-re le Regioni a essere ridefinite, ridisegnate. Ma si può sperare di offrire una visione a venti, trent’anni a un Paese, strutturarlo, renderlo reattivo e soprattutto capace d’adattarsi alle sollecitazioni che riceve dal mondo inte-ro lasciandolo semplicemente in preda ai movimenti di pensiero di tenden-za? Soprattutto, anziché riflettere a una riforma istituzionale solo italiana non sarebbe venuto il momento per una riforma istituzionale degli stati Eu-ropei offrendo a tutti, nella loro autonomia e libertà, una griglia comune e condivisa di funzionamento istituzionale? Perché non trovare un sistema unico Europeo intorno al quale far muovere i funzionamenti dei vari Paesi? Se è vero che gli USA possono essere considerati una federazione Metro-politana con le loro 363 economie metropolitane e le loro 100 regioni me-tropolitane, perché l’Europa e più particolarmente l’Italia (il Paese delle 100 città) non dovrebbe partire da questo concetto e aggregare intorno alle proprie aree urbane tutti quei Comuni che maggiormente interagiscono tra loro, che rappresentano struttura di lungo periodo e sistema di produzione di beni e servizi? Non è in fondo intorno alle Aree Vaste, intese come in-siemi urbani, che si stanno svolgendo tutte le discussioni del momento? E non è forse alle aree Metropolitane che si pensa come gradino di successio-ne alla scomparsa delle Province? Allora perché non pensare a una Provin-cia come prevista dalla Costituzione e cioè con rappresentanti eletti, ma con poteri diversi, maggiori, come quelli che pretendiamo dare alle Aree Vaste o le funzioni che spesso facciamo svolgere alle Unioni di Comuni? Questa rete metropolitana che includerebbe nella propria gestione e programma-zione anche gli spazi di ruralità come parte integrante della zona metropoli-

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tana (non esistono forse anche delle ruralità urbane come la letteratura ci ha mostrato da decenni e come lo stesso Schema di Sviluppo dello Spazio Comunitario firmato nel 1999 indica chiaramente?) potrebbe aggregare Comuni e ritrovarsi poi nelle stesse Regioni. Ma dovremmo accettare di rimettere in discussione il ridisegno delle frontiere interne del Paese e farlo pensando alla stessa Rete Metropolitana di scala Europea.

Le Province italiane sono un bagaglio preziosissimo e che sarebbe scel-lerato disperdere. Occorre semplicemente riprendere in mano l’Istituzione Provinciale in tutta la sua tradizione storica italiana e renderla moderna, partendo dalle aree urbane o metropolitane e inserirla in una riflessione moderna sia per il Paese che per l’Europa. Questo si ci farebbe risparmiare risorse e saprebbe dare nuovi stimoli, rispondendo perfettamente a tutti quei bisogni, che ci vengono ricordati ogni giorno, di mettere insieme gli attori territoriali e farli lavorare insieme. Se poi riuscissimo anche a mettere mano alle loro delimitazioni e non semplicemente unendo l’esistente, fa-cendo cioè come nella migliore tradizione geopolitica e come auspicava da sempre Lucio Gambi (quanto Maestri a suo tempo per le Regioni) allora sarebbe perfetto. Perché il territorio cambia, la geografia del nostro Paese non smette di evolvere, proprio perché parliamo di geografia e non di Sto-ria, allora l’uomo deve trovare la forza e il coraggio di toccare anche argo-menti delicati de conflittuali per farlo, come i tracciati delle frontiere, inter-ne e o esterne che siano. Questa è geopolitica.

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Conclusioni

Territorio e conflitto: inevitabile? Non lo sappiamo e non crediamo che ogni volta che si parli di territorio dobbiamo pensare a un conflitto, ma cer-to è qualcosa di estremamente delicato che tocca la sopravvivenza stessa dell’uomo come animale sociale. Credo che una sintesi quasi lapalissiana sia che, tutto sommato, l’uomo esiste solo attraverso il territorio che occupa e quindi la sua struttura sociale ne è direttamente influenzata, allo stesso tempo l’uomo da sempre cerca di modificare il territorio (e ci riesce, nel bene o nel male). Potremmo definire il rapporto tra uomo e territorio un po’ come quello che si ha in una laguna, come quella di Venezia. Salzano lo definisce un “accidente della natura”1 perché in equilibrio instabile. Due forze concorrenti che si bilanciano: “da una parte le acque dei fiumi porta-no verso il mare gli apporti solidi che strappano alla terra, li accumulano alla loro foce: lì si depositano, assumendo le forme di lunghe barre semi-sommerse che, poco a poco, solidificandosi, generano i più stabili lidi”. In-somma, da una parte i fiumi, dall’altra il mare, cercano di strappare uno spazio l’uno all’altro: il mare cercando di modificarlo, cercando di spazzare i detriti e occupandolo del tutto, dall’altra i fiumi, accumulandoci detriti e quindi estendendo lo spazio terrestre intorno alla propria foce. Insomma un lavoro di delicato equilibrio che comunque produce un territorio che non appartiene definitivamente né all’uno né all’altro. Ci sembra che questa de-finizione sintetizzi perfettamente il rapporto tra uomo e territorio facendoci capire che si tratta di un rapporto unico, inevitabile, delicato, di contesa.

Ma il sistema sociale degli uomini è complesso, anch’esso in continuo evolvere, proprio perché modificato da tante cose (non ultimo il territorio e i mezzi con cui gli uomini lo modificano). Gli uomini sanno che il “potere” vero è quello del controllo del territorio, soprattutto il controllo del suo di-

1 E. Salzano, La laguna di Venezia: il governo di un sistema complesso, Corte del Fon-tego, Venezia, 2011, pag.6.

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venire. Ecco perché il decisore politico esiste rispetto al territorio, esiste perché deciderà come modificarlo, direttamente o indirettamente. Questo vale certamente per le contese tra stati, per quello che è spesso considerato un territorio “vitale” ma che in realtà da sempre sintetizza solo un rapporto di forza. Napoleone decide di andare a “prendersi” la Russia perché pensa-va di avere l’esercito più forte (e per certi versi era vero) e di essere il mi-glior stratega del suo tempo (e questo era proprio vero): è quindi naturale che lui decida d’andare a Mosca. Alessandro il Macedone per molti arriva in India per ispirazione poetica o sogni di grandezza diversi, ma partico-larmente perché, avendo letto Erodoto, capì che aveva i mezzi per fare quello che voleva fare. Insomma, fino a pochi anni fa in Europa (non si di-mentichi la guerra della ex-Jugoslavia o la questione albanese) ancora si combatteva per un territorio perché lo si credeva giustamente proprio e per-ché si pensava, soprattutto, di avere i mezzi per prenderlo.

Ma questa forma di potere noi l’abbiamo anche all’interno di uno stesso stato e crediamo di averlo dimostrato abbondantemente con queste pagine. L’esempio italiano ci dimostra molto bene quanto la frammentazione mal fatta dei poteri tra i diversi livelli Istituzionali, una coesione nazionale mai compiuta, possano avere effetti devastanti sulla vita di un Paese. L’Italia è riuscita a raggiungere livelli altissimi di sviluppo economico, come hanno saputo fare altri grandi Paesi quali Gran Bretagna, Francia, Germania e altri ancora. Ma ogni volta il nostro Paese si arena per incapacità di dare vita a sforzi o accelerazioni socio-economiche che gli altri Paesi appena citati rie-scono a mettere in moto meglio di noi. Molto di questo lo si capisce attra-verso il funzionamento interno di un Paese, nei suoi diversi territori, nelle sue strategie nazionali coniugate a livello locale. Un Paese che non ha un piano d’azione territoriale (non settoriale) a livello nazionale, non può an-dare molto lontano: è come avere un corpo in cui gli arti si muovono cia-scuno per proprio conto. È possibile lasciare autonomia a Regioni, Province e Comuni, ma occorre farlo avendo una direzione comune e una strategia comune e soprattutto condivisa. Un esempio fra tanti ci può essere dato dal caso delle Province. Tutti vogliono abolirle perché le considerano inutili (e tra i primi attorti a voler abolire le province ci troviamo proprio le città Me-tropolitane che altro non sono se non un insieme territoriale di dimensione provinciale: si abbatte un’istituzione per farne una gemella al suo posto). Ma come possiamo pensare di abolire le province quando tutti parlano in organizzazione territoriale di “area vasta” e che rappresenta un insieme ter-ritoriale a metà tra la Regione e il Comune. Anche qui in pratica, si avanza sotto la pressione del momento, la demagogia di chi giustamente non sop-porta più gli sprechi ma che poi se la prende con un capro espiatorio che

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non risolverà nulla anzi: comprometterà ancora di più la gestione del con-fuso e maltrattato territorio italiano.

La geopolitica interna è quindi una disciplina che, alla luce delle defini-zioni di Lacoste e dei lavori di Giblin, ma anche di tutto l’Insitut Fraçais de Géopolitique, ci permette di analizzare e comprendere, spesso anche di prevenire situazioni critiche, di conflittualità, nella gestione del divenire del territorio. Questo riguarderà le questioni delle comunità\minorità (purtrop-po non toccato in questo testo), le conflittualità urbane, sempre più impor-tanti, ma soprattutto le questioni infrastrutturale e di relazioni tra i diversi attori territoriali. L’esplosione della letteratura sulla sindrome di Nimby ne è la dimostrazione. Prima di tutto ci dice che quest’argomento è importante e tocca sempre di più il quotidiano dei cittadini; ci dice anche che assistia-mo da decenni a un cambiamento in corso, ancora incompiuto, che dob-biamo affrontare se non vogliamo mettere a rischio cose preziosissime co-me ambiente e coesione nazionale.

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Riferimenti bibliografici

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