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1. I legami multipli nell’affidamento familiare e nell’adozione
I legami dei bambini adottati
in forme aperte e in affido sine die
con i genitori: alcune note psicologiche
di Marco Chistolini*
1. Si possono avere due famiglie?
Il progressivo diffondersi del fenomeno degli affidi sine-die, che rappresentano
ormai una larga maggioranza degli affidi realizzati in Italia1, e di esperienze di
adozione aperta, ci costringe a riflettere su quali forme dare al legame che i minori,
che si trovano in queste situazioni, dovrebbero avere con le loro famiglie di origine.
Si tratta di un tema interessante e delicato, per varie ragioni. Innanzitutto perché ci
chiede di riflettere sul valore che attribuiamo al legame con la famiglia di origine e
quello che il bambino costruisce con i nuovi care-givers; in secondo luogo, dobbiamo
interrogarci su quali significati abbia per un bambino crescere avendo due famiglie e
su quali rapporti deve stabilire con ciascuna.
È una sfida culturale complessa che implica aspetti teorici, pratici e culturali non
indifferenti. Nel campo dell’adozione si deve passare dalla concezione, un tempo
dominante, che vedeva in tale istituto un evento che azzerava la storia precedente per
fornire al bambino una nuova vita, un’occasione di ricominciare da capo in un altro
ambiente familiare. All’interno di questa ottica si è parlato, non a caso, di “seconda
nascita”, ad indicare l’inizio di una nuova e differente esistenza, completamente
scollegata da quella precedente, quasi che il bambino abbandonato e quello che
veniva adottato non fossero la stessa persona. L’idea di base di coloro che
condividono tale orientamento è che di famiglia possa essercene una soltanto (il
proverbio recita, non a caso: “di mamma ce n’è una sola”), e per dare legittimità al
nuovo nucleo è necessario escludere il precedente. Si tratta, a mio avviso, di una
prospettiva vecchia e incapace di dare conto della complessità della realtà dei
bambini che cambiano famiglia.
Nell’ambito dell’affido, la questione è quella di sapere uscire dalla sterile
prospettiva della temporaneità stabilità dalla legge, prendendo atto che in una larga
percentuale di casi l’affido è sine-die e che questa tipologia di affido deve essere
gestita in modo diverso dagli affidi temporanei, coerentemente con il dato di fatto
della definitività dell’accoglienza.
* Psicologo, psicoterapeuta, Pistoia. E-mail: [email protected] 1 M. Chistolini, Affido sine die e tutela dei minori. Cause, effetti e gestione di un fenomeno tanto diffuso e tanto negato,
FrancoAngeli, Milano 2014.
Indubbiamente, tra la condizione di adozione aperta e di affido sine-die vi sono
elementi comuni ma anche differenze non trascurabili. In particolare nell’adozione si
possono configurare due fattispecie: a. adozione piena (ex adozione legittimante)
aperta; b. adozione semplice, che è consentita dalla legge italiana solo in casi
particolari2. In entrambi i casi il minore è figlio della coppia adottante e
irreversibilmente parte della nuova famiglia di cui assume il cognome. Nel primo
caso i rapporti giuridici con la famiglia di origine vengono totalmente interrotti, con
familiari che, formalmente, sono stati ridotti al rango di “conoscenti”, potendo restare
in essere quelli di fatto, configurando, appunto, la condizione di apertura. Nel
secondo (adozione semplice), il rapporto giuridico non è totalmente interrotto e il
minore continua ad avere il cognome precedente a cui aggiunge quello degli
adottanti. Si tratta, pertanto, di due condizioni di integrazione del minore nel nuovo
nucleo familiare che hanno gradi diversi di “legittimazione”, ma in entrambi i casi
piuttosto corposi.
Nel caso dell’affido, il discorso cambia significativamente, il minore resta legato
giuridicamente alla sola famiglia di nascita, mantenendo il cognome originario e,
aspetto molto significativo, il suo collocamento potrebbe essere, nel tempo, rimesso
in discussione, configurando una situazione di precarietà esistenziale che, in base al
modo in cui viene gestita, può essere molto faticosa e stressante da vivere.
Chiariti gli aspetti sopra menzionati, la domanda a cui dobbiamo rispondere è:
quale tipo di rapporto è opportuno che il minore abbia con la sua famiglia di origine?
Per rispondere a questo quesito dobbiamo considerare tre aspetti importanti: il primo
è relativo al concetto di appartenenza; il secondo alla elaborazione della perdita; il
terzo alla necessità di comprendere quale impatto può avere nella vita di un bambino
il mantenimento dei legami con la sua famiglia di origine.
2. La doppia appartenenza
Un concetto molto diffuso nell’affido familiare è quello di doppia appartenenza.
S’intende suggerire che il bambino posto in affido deve essere aiutato a sentirsi
appartenente ad entrambe le famiglie (di origine ed affidataria). Talvolta, tale
concetto è stato esteso anche all’adozione3. Il tema dell’appartenenza rappresenta un
aspetto molto importante perché chiama in causa la qualità degli investimenti affettivi
che un minore è messo in condizione di fare.
Personalmente considero il concetto di doppia appartenenza semplicistico e
rischioso quando applicato a collocazioni extra-familiari permanenti quali l’affido
sine-die e l’adozione aperta e quando viene inteso, come generalmente accade, che il
legame che il minore ha con le due famiglie deve considerarsi di pari valore.
Vediamo perché.
2 F. Occhiogrosso, “I percorsi comuni alle due adozioni, adozioni aperte e conoscenza delle origini”, Minorigiustizia,
2003, n. 1, pp. 244-265. 3 G. Schofield, M. Beek, Adozione, affido, accoglienza. L’attaccamento al centro delle relazioni familiari, Raffaello
Cortina, Milano 2014.
Gli studi recenti compiuti nell’ambito della teoria dell’attaccamento hanno ben
documentato come i bambini siano in grado di stabilire diversi legami di
attaccamento. È, d’altronde, esperienza comune a tutti la possibilità e la positività di
avere più legami affettivi profondi e di sentirsi “appartenenti” a diversi contesti
relazionali. Allo stesso tempo, però, non dobbiamo dimenticare che Bowlby ha
parlato della relazione di attaccamento come di una relazione “monotropica”,
caratterizzata dalla tendenza ad instaurare un legame affettivo privilegiato con una
figura specifica che “…offra cure continuative e costanti e… sia percepito dal
bambino come più forte e più saggio”4, in altre parole più capace di fornire
protezione e sicurezza.
Assumere questa prospettiva ci fa comprendere che, se da un lato è senz’altro
possibile e positivo per un bambino in affido o in adozione mantenere una pluralità di
legami e di appartenenze, dall’altro non si deve perdere di vista che questi legami non
possono (non devono!) collocarsi su uno stesso livello di significatività. In altre
parole, dobbiamo aver chiaro che le relazioni affettive si organizzano
gerarchicamente e che alcune sono percepite dal bambino come più importanti di
altre. Questa “gerarchizzazione degli affetti”, caratterizza le relazioni di qualsiasi
persona ed è utile anche a costruire un senso di appartenenza forte e strutturante.
Può essere di aiuto, per meglio chiarire questo concetto, pensare ad una esperienza
fisiologica compiuta dalla maggioranza delle persone. Quando un giovane adulto esce
dalla propria famiglia di origine per sposarsi o convivere con un’altra persona
formando un nuovo nucleo non smette certo di avere dei rapporti con i suoi familiari
di origine. Né, ovviamente, di sentirsi a loro legato affettivamente. Questa persona
continuerà a vedere i suoi genitori, i fratelli, i nonni, ecc. e a voler loro bene. Allo
stesso tempo, però, succederà che questi legami, pur restando attivi ed importanti,
assumeranno minore rilevanza dell’investimento operato nei confronti del partner e
dei figli, che dalla relazione con questo dovessero nascere. Almeno ciò è quanto ci
aspettiamo che accada e che consideriamo psicologicamente sano. Intendo dire che se
chiedessimo a questa persona: come si compone la tua famiglia? Egli risponderebbe
senza esitazioni parlando del partner e dei figli. Mentre se volessimo far riferimento
alla sua famiglia di origine dovremmo specificarlo in qualche modo. Questo esempio
dimostra, nella sua semplicità, che pur in presenza di legami ed investimenti affettivi
che restano e vengono mantenuti, si verifica una opportuna gerarchizzazione degli
stessi e del senso di appartenenza. In altre parole, si determina un fisiologico ed utile,
seppur parziale, disinvestimento dalle precedenti relazioni in favore dell’investimento
nelle nuove. Se ciò non avvenisse, e molte volte non avviene, se la giovane coppia si
recasse tutti i giorni a mangiare dai genitori di lui o di lei, configurando un legame
eccessivamente intenso tra l’adulto e la sua famiglia di origine, gli psicologi si
allarmerebbero, segnalando la presenza di un “mancato svincolo” ed evidenziando la
criticità di una simile situazione.
4 G. Attili, Attaccamento e costruzione evoluzionistica della mente. Normalità, patologia, terapia, Raffaello Cortina,
Milano 2007, p. 39.
In sintesi, quindi, intendo sottolineare il fatto che per creare nuovi legami di
appartenenza dobbiamo, necessariamente, disinvestire in parte da quelli che abbiamo
creato in precedenza e che il senso di appartenenza si organizza in modo gerarchico.
A sostegno di questa opinione è possibile citare Stefano Cirillo che scrive, a
proposito dei minori che pur avendo genitori non recuperabili, per varie ragioni, non
sono stati dichiarati adottabili e vengono collocati in affido o in struttura: “A questo punto la famiglia affidataria, la comunità, la comunità di famiglie devono essere
informate chiaramente della nostra prognosi (di irrecuperabilità, n.d.r.), esprimersi esplicitamente
sulla propria disponibilità ad esercitare una funzione sostitutiva del ruolo affettivo ed educativo dei
genitori, e non venire poi frastornate e confuse da richieste contraddittorie di aiutare il ragazzo a
ripristinare un buon rapporto con i familiari. Viceversa il loro compito, in assoluto contrasto con
ciò che è richiesto ad un “normale” genitore affidatario, sarà sostenere il ragazzo nella presa di
distanza dalla sua famiglia, accompagnarlo nel conseguente processo di lutto, e rispondere con la
propria disponibilità affettiva al trasferimento su di loro delle attese genitoriali di questi “figli
adottivi”, anche se giuridicamente non possono chiamarli tali. Se è necessario, per considerazione
di ordine giuridico o di altro genere, che i contatti tra il ragazzo ed i genitori biologici non siano
del tutto interrotti, bisogna comunque che siano ridotti al minimo5 e monitorati con cura, altrimenti
il messaggio contraddittorio che si invierebbe al ragazzo (“purtroppo i tuoi non sono in grado di
svolgere nei tuoi confronti una funzione genitoriale, per cui ti allontaniamo definitivamente da
loro; però ci devi tornare a fine settimana alterni e nelle feste comandate”) vanificherebbe
completamente il nostro progetto di aiutarlo a trovare un’appartenenza alternativa a quella alla
sua famiglia biologica che si è rivelata fallimentare”6.
Se teniamo conto delle considerazioni proposte possiamo bene comprendere come
l’obiettivo principale sia quello di consentire al bambino di costruire un legame di
appartenenza forte e sicuro con la famiglia che lo ha accolto e nella quale resterà
stabilmente fin quando sarà grande ed autonomo, e come, per facilitare la costruzione
di questo senso di appartenenza, sia necessario aiutare il minore a “prendere le
distanze” dalla famiglia di origine. Questa necessità, sia chiaro, è presente sia nel
caso di adozione, sia nel caso di affido sine-die, in quanto in entrambi i casi si tratta
di collocazioni definitive.
In questa prospettiva parlare di “doppia appartenenza può essere fuorviante in
quanto suggerisce l’idea che il bambino possa e debba sentirsi ugualmente parte delle
due famiglie, mentre è fondamentale che avverta di essere “autorizzato” a sentirsi
parte della nuova famiglia e a percepirla come propria, senza, ovviamente, che ciò
significhi dimenticare o rinnegare il nucleo di origine. In altre parole, si tratta di
aiutare il minore nel dare priorità a quegli investimenti affettivi e di appartenenza che
possono essere, nel presente e nel futuro, e maggiormente in grado di assicurare
relazioni utili ad una crescita positiva.
Alla luce di queste considerazioni risulta ancor meno condivisibile il concetto di
ricongiungimento familiare, inteso come: “Un processo programmato volto a riunire minori assistiti fuori dell'ambito familiare con le loro
famiglie, utilizzando diversi servizi e diverse forme di sostegno per i minori, le loro famiglie, i
genitori affidatari o altre persone coinvolte nell’aiuto al minore. Ha lo scopo di aiutare ciascun
5 L’evidenziazione è opera mia. 6 S. Cirillo, Cattivi genitori, Raffaello Cortina, Milano 2000, p. 205.
minore e ciascuna famiglia a raggiungere e conservare in ogni momento il miglior livello possibile
di riunificazione, sia che esso consista nel pieno rientro del minore nel sistema familiare oppure in
altre forme di contatto (per esempio, le visite o gli incontri), che si fondino sulla conferma della
piena appartenenza del minore alla sua famiglia”7.
Secondo questa prospettiva si dovrebbe lavorare affinché il minore senta di essere
sempre parte della sua famiglia di origine, anche quando questa non potrà mai
riaccoglierlo. In questo modo lo si orienterà a mantenere vivo e forte un investimento
emotivo che non può essere corrisposto come il bambino desidererebbe e avrebbe
bisogno di avere, distogliendo preziose energie dalla costruzione della relazione con
il nuovo nucleo familiare in cui, di fatto, si trova a crescere.
Vediamo un esempio concreto che può meglio chiarire questi aspetti. Paola è una bambina in affido da un anno. I suoi genitori sono entrambi affetti da importanti
patologie psichiatriche che li hanno portato ad avere condotte di grave trascuratezza nei confronti
della figlia. Dall’avvio dell’affido gli incontri con i genitori sono stati effettuati in spazio neutro,
con durata di un’ora e frequenza settimanale. Recentemente le condizioni della coppia sono
leggermente migliorate. Entrambi più compensati sanno relazionarsi in maniera più equilibrata alla
bambina e agli operatori. Sulla base di questo miglioramento avanzano la richiesta di vedere Paola
sempre per una volta alla settimana, ma per un tempo più lungo e senza protezione, con la
possibilità di portarla qualche volta a casa.
Nell’ottica della doppia appartenenza e del ricongiungimento familiare, non ci
sarebbero dubbi ad accogliere la richiesta dei genitori, in fondo, si potrebbe dire, sono
sempre i suoi genitori… Nella prospettiva proposta in questo articolo, invece,
andrebbe considerato che il messaggio che verrebbe dato al minore (“in fondo sono
sempre i tuoi genitori”), per quanto veritiero, potrebbe costituire un ostacolo alla
costruzione della relazione di attaccamento con i nuovi care-givers, orientando il
bambino a mantenere attivo l’investimento nei confronti di chi, sfortunatamente, non
è in grado di prendersi cura di lui. Quindi la richiesta dei genitori non dovrebbe
essere accolta.
Purtroppo, come ho argomentato in un mio precedente scritto8, molto spesso gli
operatori psicosociali e i giudici minorili hanno una opinione “ideologica” dei
rapporti tra un bambino e la sua famiglia di origine e, quindi, vengono fatte scelte che
si basano più su degli astratti costrutti teorici che sulle effettive esigenze di quel
minore.
3. L’elaborazione della perdita
È necessario, a questo punto, portare l’attenzione su di un altro aspetto importante
del percorso che un bambino allontanato definitivamente dal proprio nucleo familiare
deve fare e che viene spesso trascurato dagli operatori psicosociali e dai giudici
minorili. Si tratta del fatto che un minore che si trova nella condizione di non poter
7 A.N. Maluccio & altri, citato in C. Canali, D.A. Colombo, A.N. Maluccio, Figli e genitori di nuovo insieme, la
riunificazione familiare. Guida per apprendere dall’esperienza, Fondazione E. Zancan, Padova 2001, p. 32. 8 M. Chistolini, “Il diritto del figlio di crescere nella propria famiglia e i compiti di sostegno attivati dal tribunale per i
minorenni”, in Minorigiustizia, 2014, 2, pp.
più rientrare nella propria famiglia di origine, sperimenta una perdita che richiede di
essere compresa ed accettata. Molti professionisti sembrano non rendersi conto che,
pur continuando a vedere i propri genitori, il minore non potrà non chiedersi perché
gli stessi non creano le condizioni per riprenderlo con loro, sperimentando un vero e
proprio senso di abbandono.
È questo il caso di Angelo un bambino di nove anni, in affido da tre anni, dopo varie
peripezie (comunità madre e bambino, rientro a casa, due comunità educative…) e
senza nessuna possibilità di rientrare nella sua famiglia di origine. Angelo vede
regolarmente la madre ed il padre, con i quali ha un rapporto sufficientemente
sereno. Tutto ciò non gli impedisce di scrivere, in un tema fatto a scuola: “la mamma
dice che se il babbo non era cattivo e non ne aveva combinate grosse eravamo tutte
insieme, chissà se è vero…” e ancora: “a volte mi chiedo se è meglio per i bimbi
avere la mamma in difficoltà o la mamma che è morta”. Domande importanti.
Domande sul significato della propria storia. Domande generate dal bisogno di
comprendere e dare senso a quanto è accaduto e sta accadendo.
Il bambino deve, quindi, essere aiutato ad elaborare la perdita attraverso interventi
specifici che lo aiutino a comprenderne la propria storia e ad accettare quanto
avvenuto, arrivando a “mettersi il cuore in pace”. Scrive, in proposito, Cirillo: “Al bambino deve arrivare solo questo messaggio, che chi lo ha messo al mondo non era capace, o
non è più stato capace, di fare il genitore, e che, siccome un bambino per crescere ha bisogno di
avere dei genitori, il giudice ha deciso che ne potrà avere due anche lui. … solo se riesce a rompere
il vincolo con i genitori biologici il bambino potrà stringerne uno con i genitori adottivi9: deve
spezzare la lealtà, vincere i sensi di colpa, autorizzarsi a sentire il dolore e la sofferenza che i
genitori gli hanno inflitto. Non è un taglio, che gli si chiede, doloroso ma rapido, ma un lungo
percorso, in cui si mescolano processi cognitivi ed affettivi. …accompagnandolo su uno stretto
crinale: se non dobbiamo cadere, come sopra dicevamo, nel burrone che si spalanca da un lato,
cioè giustificare i genitori, non dobbiamo cadere neanche nel burrone che minaccia di inghiottirci
dalla parte opposta, istigare il bambino contro di loro con l’effetto probabile di rafforzare per
reazione il suo legame con le loro immagini idealizzate, oppure di spingerlo verso una irrealistica
posizione di pseudoadulto che giudica dall’alto, autosufficiente ed onnipotente”10.
Dovrebbe essere chiaro che un simile percorso psicologico mal si concilierebbe
con una modalità di lavoro che andasse nella direzione di mantenere vivo
l’investimento del bambino verso la sua famiglia di origine, invitandolo, nei fatti, ad
avere delle aspettative e sperare in un possibile futuro rientro. Eppure è molto
comune e diffusa la prassi di mantenere rapporti intensi tra i minori ed i loro genitori
nelle situazioni in cui un rientro in famiglia è palesemente impossibile (adozione
aperta o affido sine-die). Davvero non si comprende quale possa essere il vantaggio
per il minore di una simile modalità di lavoro. In quale altra situazione
incoraggeremmo una persona ad investire e sperare in una relazione che è
chiaramente infruttuosa? Credo nessuna. Non solo, si deve considerare che anche per
i genitori è necessario poter compiere un percorso di elaborazione della “perdita” del
9 L’evidenziazione è opera mia. 10 S. Cirillo, Cattivi genitori, op. cit., p. 206.
figlio e di accettazione della loro incapacità a occuparsene pienamente. Non sono rari
i casi, nella mia esperienza, in cui si assiste ad una sorta di “accanimento terapeutico”
degli operatori che “obbligano” i genitori ad occuparsi del bambino ben oltre le
possibilità e le risorse degli stessi, restando “sordi” alle comunicazioni che, con i loro
comportamenti, i genitori stessi inviano.
Ricordo la situazione di Anita, una giovane ragazza, con un passato drammatico di sfruttamento e
violenze subite, madre di un bambino di tre anni collocato in una comunità educativa. Lei
continuava a mancare agli incontri previsti due volte alla settimana e gli operatori, invece di leggere
questo comportamento come una comunicazione sulla sua difficoltà ad assumersi il compito di
occuparsi del figlio, riducendo drasticamente la frequenza delle visite e dando a lui un’altra
famiglia, continuavano a sollecitarla affinché andasse a trovarlo, raccontandogli come lui restava
deluso ogni volta che l’aspettava vanamente… Ottenendo così di farla sentire in colpa e renderle
molto più doloroso il già difficile percorso di rinuncia alla genitorialità.
Se assumiamo la prospettiva di aiutare il minore a compiere un percorso di
elaborazione della perdita e di disinvestimento affettivo, è evidente che la frequenza e
le modalità delle visite dovrà essere “messa al servizio” di tale percorso, valutando, di
volta in volta, quale sia la modalità più congrua per quella situazione specifica.
4. L’impatto della continuità delle relazioni sulla crescita del minore
Ultimo aspetto da considerare è quanto il mantenimento dei rapporti tra il bambino
ed i suoi genitori costituisca un fattore protettivo o meno per la sua crescita. Negli
ultimi anni diversi autori hanno sostenuto l’importanza della continuità degli affetti e
delle relazioni nella vita di un minore11, portando a sostegno argomentazioni
assolutamente corrette e convincenti.
Sottolineare l’importanza di mantenere la continuità degli affetti non deve, però,
farci perdere di vista gli effetti negativi che, in taluni casi, tale continuità, potrebbe
avere. Essa, infatti, può: esporre ad input disturbanti (richiami inappropriati, ricatti
affettivi, responsabilizzazioni, ecc.), consentire di fantasticare ricongiungimenti
impossibili e/o dannosi e, come ampiamente illustrato, mantenere vivo l’investimento
affettivo, ostacolando la possibilità di costruire nuovi legami affettivi.
Quale deve essere allora l’atteggiamento più corretto? Può aiutarci, a questo
proposito, operare una distinzione tra continuità interna e continuità esterna. Si tratta,
infatti, di due dimensioni diverse che vengono spesso confuse, ma che è importante
mantenere ben distinte tra loro.
La continuità interna è riferibile alla possibilità di conoscere e comprendere la
propria storia personale, acquisendo una sufficiente “competenza autobiografica”12.
In altre parole evitare che il soggetto si trovi nella necessità di operare scissioni e/o
negazioni di parti importanti e dolorose della sua vita. Perché ciò non accada è
11 P. Dorigoni, “La continuità giuridica degli affetti”, in AIAF, 2005, 1, pp. 25-29; F. Occhiogrosso, Manifesto per una
giustizia minorile mite, FrancoAngeli, Milano 2009. 12 J. Holmes, La teoria dell’attaccamento, Raffaello Cortina, Milano 1994.
necessario che i minori vengano correttamente informati relativamente a ciò che è
capitato a loro e alla loro famiglia. Mi preme sottolineare che quello
dell’informazione ai minori, soprattutto se bambini, è un aspetto spesso trascurato e
gestito con omissioni, bugie e informazioni vaghe dagli operatori e dai giudici
minorili, sulla base del convincimento che i bambini devono essere protetti da
informazioni troppo dolorose e difficili da comprendere. In realtà, sappiamo che la
capacità di riflettere sul proprio percorso di vita, sugli eventi salienti che lo hanno
caratterizzato e su ciò che albergava nel cuore e nella mente delle persone che ne
sono state protagoniste rappresenta un fattore protettivo molto importante nella
crescita psicologica della persona.
Naturalmente alla dimensione informativa andrà affiancata quella esplicativa, in
quanto conoscere gli avvenimenti è necessario ma non sufficiente ed è fondamentale
che agli stessi venga dato un significato realistico e coerente. Per un bambino che ha
sperimentato un percorso di vita frammentato, ricco di avvenimenti dolorosi ed
inconsueti, di perdite e separazioni, è, quindi, essenziale essere aiutato a “tenere il
filo” della propria esistenza. Si tratta di consentire e sostenere un percorso di
“esplorazione interna”, nel quale la riflessione sulle informazioni disponibili consente
di capirle e dar loro un significato che aiuta a comprendere e a trovare un senso a ciò
che si è vissuto13. Pertanto non possono esserci dubbi sull’importanza di garantire a
tutti i minori un contesto relazionale ed interventi che favoriscano il mantenimento
della continuità interna.
La continuità esterna si riferisce, invece, al piano di realtà, ovvero al mantenimento
dei rapporti con le persone significative della propria vita. In questo caso,
diversamente da quanto osservato per la continuità interna, la questione è più
complessa e la strada da percorrere meno scontata. A favore di regolari rapporti tra
bambino e familiari si cita spesso il fatto che essi aiuterebbero il minore a non
idealizzare la sua storia e i suoi genitori, confrontandosi con delle persone reali e non
con dei fantasmi, permettendogli di meglio integrare passato e presente; inoltre, il
rimanere in contatto gli consentirebbe di continuare a rendersi conto del grado di
difficoltà che i genitori hanno e, conseguentemente, di quanto sia inopportuno un suo
rientro in famiglia. Ulteriore sostegno all’idea che il mantenimento dei rapporti sia un
fattore positivo per la crescita, viene dagli studi operati nei paesi anglosassoni
nell’ambito della “open adoption”. Questi studi indicano, complessivamente, un
effetto positivo sulle condizioni di quei minori che sperimentano questo tipo di
adozione14. Infine, si deve considerare il fatto che una eventuale rottura dei legami o
una loro sostanziosa rarefazione potrebbe, per taluni soggetti, essere intollerabile e
ottenere l’effetto di rafforzare il legame invece di indebolirlo.
Nel dare corretto significato alle differenze che intercorrono tra continuità interna e
continuità esterna, ci viene in aiuto la teorizzazione proposta da David Brodzinsky,
13 M. Chistolini, “La conoscenza della propria storia nei bambini, un diritto tutelato in ambito europeo?”, in
Minorigiustizia, 2008, 2, pp. 89-101. 14 J.J. Haugard, “Outcomes of open adoptions”, Adoption Quarterly, 2001, vol. 4, pp. 63-73.
relativa al concetto di apertura nell’adozione15. Brodzinsky distingue tra apertura
comunicativa (communication openness) e apertura strutturale (structural openness).
La prima indica la disponibilità dei genitori adottivi a favorire l’espressione ed il
confronto aperto e sincero di pensieri, sentimenti, emozioni che il nucleo adottivo
nutre nei confronti della propria condizione. La seconda il grado di contatti reali che
intercorrono tra il figlio adottivo e la sua famiglia biologica. Le ricerche mostrano
che mentre l’apertura comunicativa è sempre positiva e da praticare, pur stando
attenti alle esagerazioni, l’opportunità della seconda va valutata di volta in volta,
presentando sia benefici, sia criticità. Sulla base di questi risultati, è possibile
affermare che poter riflettere ed esprimere ciò che si pensa e si prova relativamente
alla propria condizione (continuità interna), sia complessivamente più importante del
mantenere rapporti diretti con i familiari di nascita (continuità esterna).
Aggiungo che l’attenzione a contenere le relazioni dirette tra il minore e i suoi
genitori deve essere maggiore nei casi di affido sine-die, in quanto questa
collocazione è giuridicamente più fragile e meno in grado di garantire senso di
sicurezza. In questo senso il bambino che si trova in questa situazione è
maggiormente esposto a possibili messaggi disturbanti, diretti ed indiretti, agiti dai
familiari di origine che, anche legittimamente, possono sentirsi in diritto di affermare
l’appartenenza a loro del figlio più di quanto potrebbero fare se fosse stato adottato.
5. Come organizzare le relazioni
A questo punto è possibile provare a tirare le fila delle considerazioni proposte ed
individuare alcuni criteri che possano essere di aiuto per prendere delle decisioni
sulle modalità più corrette per gestire i rapporti tra il minore e la sua famiglia di
origine nell’affido e nelle adozioni aperte. Innanzitutto, è opportuno ricordare che è
possibile mantenere i legami con diverse modalità. Solitamente si distinguono
contatti diretti ed indiretti: i prime sono riferibili alle telefonate e agli incontri che il
minore ha con i familiari di origine, in presenza o meno di altre persone; i secondi
riguardano lo scambio di informazioni che possono essere attivati mediante lettere,
mail, social-network, intermediari, eccetera. Avere in mente queste diverse possibilità
di contatto può aiutare gli operatori ed i giudici minorili a stabilire, caso per caso e
nel corso del tempo, quale sia la modalità più utile a quella specifica situazione.
Alcuni criteri operativi.
1. Il primo criterio che ritengo utile enunciare è quello della flessibilità e del non
avere dogmi. Potrebbe sembrare superfluo ricordarlo, ma ogni situazione è diversa e
deve essere considerata in maniera specifica. Le regole di mantenimento di contatto
devono tenere conto di tante variabili e non essere stabilite una volta per tutte (a
questo proposito è molto condivisibile quanto afferma Brodzinsky in merito alla
frequenza degli incontri nelle adozioni aperte: “… the primary message in the 15 Si veda M. Casonato, “Adozione e mantenimento dei legami: una revisione della letteratura psicologica sull’adozione
aperta”, in questo stesso fascicolo, pp.
literature is that openness is fluid, it waxes and wanes over time” (…il messaggio
principale in letteratura è che l'apertura è fluida, cresce e decresce nel tempo)16.
2. Il secondo criterio è riferibile alla progressività. Vale a dire che il giusto livello
di rapporti tra il minore e i genitori biologici può essere raggiunto in forma
progressiva (progressiva, non eterna!), in modo che il distanziamento sia più soft e
non produca “strappi” interiori. Ovviamente non sempre è possibile muoversi con
progressività e la velocità dei cambiamenti da attuare andrà considerata di volta in
volta.
3. Terzo criterio: tutti i bambini e gli adolescenti hanno diritto a vivere in un
contesto di relazioni affettive definitivo e stabile nel tempo. Ciò significa che tutti gli
interventi che facciamo debbono essere coerenti con questo obiettivo, dovremo,
quindi, chiederci quale sia, per quel dato minore, la frequenza di rapporti che meglio
ne garantisce il senso di stabilità e sicurezza.
4. Quarto criterio: il mantenimento dei rapporti tra il minore e la sua famiglia di
origine non è un bene assoluto. Posto che, come precedentemente chiarito, la
continuità è un fattore protettivo importante nella crescita dei bambini e che è
necessario distinguere tra continuità interna e continuità esterna, affermiamo che il
mantenimento dei rapporti tra il minore e la sua famiglia di nascita deve essere
garantito solo e soltanto quando sia di effettiva utilità alla sua crescita e non come
modus operandi applicato indiscriminatamente, in nome di un principio che non
appare scientificamente fondato se applicato in maniera acritica e generalizzata.
5. Quinto criterio: l’età del bambino. È evidente che, nello stabilire quali rapporti
il minore collocato in adozione aperta o in affido sine-die, dovrà mantenere con i
propri genitori biologici si deve tener conto della sua età e delle sue caratteristiche. In
generale, quanto più un bambino è piccolo, tanto maggiore è l’impatto che avrà su di
lui mantenere rapporti intensi con i genitori di origine, perché meno in grado di
attribuire un corretto significato a queste relazioni (soprattutto se nessuno si
preoccupa di sostenerlo). In altre parole, minore è l’età maggiore è la valenza del dato
“pragmatico” rappresentato dall’esperienza di contatto, pertanto, a parità di
condizioni, la frequenza dei contatti deve essere più ridotta.
6. Sesto criterio: le caratteristiche del bambino. Ogni bambino ha delle proprie
caratteristiche: affettive, cognitive, di capacità di resilienza, ecc. Sono, questi, aspetti
importanti che devono essere considerati nel valutare quale modalità di relazioni sia
più opportuno stabilire con i genitori.
7. Settimo criterio: le ragioni che hanno portato all’allontanamento. Dovrebbe
essere scontato, ma spesso non lo è affatto, che se un bambino ha avuto delle
esperienze particolarmente negative e pregiudizievoli nel rapporto con i genitori, se
ne dovrà tenere conto nel decidere frequenza e modalità dei contatti che potrà avere
con questi una volta in affido o in adozione.
8. Ottavo criterio: il tipo di relazione sussistente tra il bambino e i familiari di
nascita. Intendo riferirmi sia alla concretezza delle relazioni che fino al momento del
collocamento in affido o in adozione il minore ha avuto con i genitori, sia al ruolo che
16 Brodzinsky, 2014, comunicazione non pubblicata.
si è trovato ad assumere nei loro confronti. In merito al primo aspetto ritengo che non
sia opportuno introdurre modifiche, particolarmente significative, al regime di
incontri con i familiari in coincidenza con il nuovo collocamento. Ciò per due
ragioni: la prima non far pensare che la causa dei cambiamenti che verranno
introdotti sia dovuta solo ed esclusivamente alla nuova sistemazione familiare (i
rapporti si ridurranno perché, come più volte sottolineato, il minore deve disinvestire
dai suoi genitori, non perché vada in affido o in adozione aperta); la seconda ragione
è di evitare di introdurre eccessive novità in contemporanea (nuovo collocamento e
nuove modalità di rapporto). Non intendo dire che nessuna modifica sia opportuna,
piuttosto che i cambiamenti andranno introdotti nel tempo e progressivamente,
coerentemente con il percorso di elaborazione che il minore va compiendo. Sono
consapevole che queste mie opinioni confliggono con la prassi in uso in diverse realtà
italiane, nelle quali è previsto che in coincidenza con l’avvio dell’affido, anche
quando il progetto prevede un’accoglienza temporanea, venga operata
un’interruzione provvisoria dei rapporti con i familiari per favorire l’inserimento nel
nuovo contesto. Ritengo si tratti della cattiva applicazione di un ottimo principio.
9. Nono criterio: l’atteggiamento dei familiari nei confronti dell’adozione. Se,
come abbiamo detto, nei casi di adozione aperta e di affido sine-die, l’obiettivo
prioritario è quello di favorire la costruzione di un adeguato senso di appartenenza del
minore alla nuova famiglia, molta importanza nel determinare qualità e quantità dei
rapporti che egli potrà avere con i genitori di nascita dipenderà da quale
atteggiamento questi hanno nei confronti della nuova collocazione del figlio. Se nei
contatti con lui sapranno dargli un messaggio di approvazione per questa nuova
situazione, invitandolo a legarsi ai nuovi care-givers, i contatti, pur sempre contenuti,
potranno avere una valenza sicuramente positiva. Viceversa, se manifestassero
opposizione e una postura denigratoria nei confronti della famiglia
adottiva/affidataria, ritenendo ingiusta e sbagliata la collocazione del figlio, i rapporti
dovrebbero essere maggiormente limitati e monitorati.
10. Decimo criterio: l’opinione della famiglia che accoglie. Infine, ma non certo
per importanza, si deve ascoltare e tenere in grande considerazione l’opinione dei
nuovi genitori del bambino. Purtroppo ciò accade poco, soprattutto negli affidi sine-
die, prevalendo la convinzione degli operatori e dei giudici che spetti a loro stabilire
quali siano le scelte giuste per il minore e che la famiglia di accoglienza sarà
inevitabilmente gelosa ed “ostile” nei confronti della famiglia di origine. Non vi è
dubbio che vi sia del vero in questo convincimento: possiamo considerare frequente e
fisiologica una certa rivalità tra le due famiglie, ed è vero che gli operatori ed i
giudici hanno, nell’affido, la titolarità della tutela del minore. Ma sarebbe un grave
errore se questi elementi portassero a non attribuire grande considerazione
all’opinione dei nuovi genitori. Per due ragioni: la prima è che essi hanno sempre una
conoscenza approfondita (solitamente più approfondita degli operatori e dei giudici
minorili) del minore; la seconda è che avendoli scelti come coloro che, da lì in avanti
e in modo definitivo, dovranno occuparsi della crescita di quel bambino, è
inconcepibile non dare rilevanza al loro punto di vista su un aspetto così importante e
delicato come quello dei rapporti che il loro figlio (uso volutamente questo termine
anche per gli affidi sine-die), deve avere con i suoi genitori di origine.
6. Conclusioni
Sono consapevole che il tema del mantenimento dei rapporti tra minore e genitori
di origine nelle adozioni aperte e negli affidi sine-die è molto complesso e ricco di
variabili specifiche che rendono estremamente difficile e controindicata
l’individuazione di prassi da applicarsi in maniera sistematica e generalizzata.
Ciononostante, ritengo necessario ed utile lo sforzo di rendere espliciti e condivisi i
criteri che, spesso inconsapevolmente, ci guidano quando, come giudici minorili e
operatori psicosociali, decidiamo su questo delicato argomento.
Questo articolo intende rappresentare un modesto contributo in questa direzione e
un invito a rivedere complessivamente il senso e l’utilizzo che, solitamente, viene
fatto degli incontri tra il bambino ed i suoi familiari di origine nelle adozioni aperte e
negli affidi sine-die. Coerentemente con quanto fin qui esposto, infatti, ritengo che
tali rapporti dovrebbero avere frequenze ben più rarefatte di quelle normalmente
applicate nella realtà. In una logica di progressività, che accompagni il percorso di
elaborazione della perdita e di disinvestimento del bambino dai suoi familiari di
nascita, si dovrebbe arrivare, a “regime” a 3/4 contatti all’anno, tra diretti ed indiretti
(ad esempio due incontri diretti e due telefonate). Questa indicazione non deve essere
interpretata come il frutto di una sottovalutazione del rapporto con la famiglia di
origine. Essa nasce dalla convinzione che questo rapporto possa essere positivamente
esplorato solo a partire da una condizione di effettiva appartenenza al nuovo nucleo.
Tale condizione consentirebbe, a mio avviso, un miglior equilibrio tra l’esigenza di
mantenere un rapporto con i familiari di origine e l’esigenza di “mettere al riparo” il
minore da stimoli disturbanti, massimizzando i benefici potenziali sia del mantenere
la relazione, sia del prendere le distanze.