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Emanuela Arnaldi AFFIDO ETEROFAMILIARE Aspetti Psicologici e Giuridici

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Emanuela Arnaldi

AFFIDO ETEROFAMILIARE

Aspetti Psicologici e Giuridici

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AFFIDO ETEROFAMILIARE.

Aspetti psicologici e giuridici

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Abstract

Questo lavoro è incentrato sugli aspetti giuridici e psicologici che l’affido eterofamiliare

comporta. Si parte illustrando i fondamenti storici e l’iter giuridico compiuto per arrivare

alla l. 184/83 e alla sua modifica con la l. 191/94. Si analizza il contenuto e significato di

queste due leggi per poi vedere quali sono gli aspetti psicologici dei protagonisti di un’azione

così complessa quale l’allontanamento di un minore dalla propria famiglia d’origine.

Emanuela Arnaldi psicologa – psicoterapeuta si occupa di Psicologia e Psicoterapia nell’età

dello sviluppo da diversi anni.

Svolge attività di Consulente Tecnico di Parte in cause civili per l’affidamento di minori.

Email: [email protected]

Sito internet: www.onlinepsicologo.it

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AFFIDO ETEROFAMILIARE.

Aspetti psicologici e giuridici

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INDICE

INTRODUZIONE ........................................................................................................... pag. 4

LE ORIGINI DELL’AFFIDAMENTO: EVOLUZIONE STORICA E LEGISLATIVA pag. 5

AFFIDAMENTO FAMILIARE DAL PUNTO DI VISTA GIURIDICO ..................... pag.11

LE VARIE FORME DI AFFIDAMENTO PREVISTI DALLA LEGGE 184/83

MODIFICATA DALLA LEGGE 194/01 ...................................................................... pag.13

L’AFFIDAMENTO “SINE DIE”................................................................................... pag.15

COMPETENZE E OBBLIGHI NELL’AFFIDAMENTO............................................. pag.17

ASPETTI RELAZIONALI E PSICOLOGICI DELL’AFFIDO FAMILIARE ............ pag.18

BENEFICI DELL’AFFIDO FAMILIARE ..................................................................... pag.19

IL MINORE TRA LE DUE FAMIGLIE ....................................................................... pag.20

LA FAMIGLIA AFFIDATARIA .................................................................................. pag.21

LA FAMIGLIA D’ORIGINE ....................................................................................... pag.22

I SERVIZI ...................................................................................................................... pag.23

CONCLUSIONI ............................................................................................................ pag. 25

BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................... pag.27

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INTRODUZIONE

L’affidamento familiare è uno strumento assistenziale in espansione come pratica operativa e

oggetto di studi da parte degli studiosi delle discipline sociali.

L’affido rappresenta un nodo relazionale complesso del quale operatori e utenti conoscono la

delicatezza e la difficoltà perchè pone un minore tra due famiglie: la famiglia biologica che,

per ragioni e in misura diverse non è in grado di provvedere al suo accudimento e alla sua

educazione, e la famiglia affidataria, che si mette a disposizione per supplire alle carenze della

prima a favore del bambino.

Attorno a questo nodo si muovono ed intervengono diverse figure professionali, generalmente

indicate come appartenenti alla rete dei Servizi, che hanno la funzione di progettare,

realizzare, seguire l’affido familiare, certamente nell’interesse primario del minore, ma

attraverso interventi rivolti anche ai due nuclei familiari di riferimento del minore stesso.

Gli sforzi degli operatori hanno in qualche caso raccolto risultati insperati, ma spesso non

hanno evitato sconfitte cocenti di elevato costo emotivo per tutti i protagonisti dell’avventura:

entrambi gli esiti inducono a riflettere e fanno nascere l’urgenza di capire.

Non c’è dubbio che il terreno sul quale si muovono i personaggi che danno vita all’affido

familiare appare pieno di insidie ed è connotato da molte ambivalenze che richiede da parte di

tutti i protagonisti l’esercizio di difficili equilibri e la tolleranza all’instabilità.

Non esiste un modello univoco di affido familiare, nonostante si tratti sempre di un minore

che viene allontanato dalla famiglia e che viene accolto in un’altra famiglia, ma si realizzano

assetti differenti e si perseguono obiettivi diversi in relazione alla gravità complessiva del

caso, all’età del minore, all’esistenza di risorse, alla condizione della famiglia d’origine e alle

sue relazioni col figlio.

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Le origini dell’affidamento: evoluzione storica e legislativa

L’affidamento familiare, inteso come il fatto che un bambino venga allevato da una famiglia

diversa da quella di origine e come mezzo particolare di aiuto all’infanzia abbandonata, è

stato praticato fin

dalla antichità: Edipo, Mosè, Paride, Dario sono stati accolti in una famiglia diversa dopo

essere stati abbandonati.

L’affidamento di bambini abbandonati o non sufficientemente curati dai propri genitori a

famiglie diverse dalla loro, è stato praticato in passato con forme e modalità diverse a seconda

dei momenti storici e dell’organizzazione sociale e istituzionale del periodo.

Il moderno istituto dell’affidamento è, dunque, la conseguenza diretta di una prassi, quella del

collocamento eterofamiliare dei minori, che ha origini antiche e che è andato evolvendosi e

consolidandosi nei secoli.

La ricostruzione della storia dell’affidamento familiare è strettamente connessa con la più

generale storia dell’assistenza, intesa come realtà socio giuridica moderna che colloca le sue

origini nel Medioevo.

È in quel periodo, infatti, che per opera della Chiesa e delle corporazioni laiche nascono i

primi luoghi di ricovero per gli infermi e i poveri e i brefotrofi per i bambini abbandonati. La

Chiesa, nei secoli successivi, allarga gradualmente la propria sfera d’azione nel sociale fino

ad assumere nel XVII secolo un ruolo fondamentale nell’assistenza e nella cura dei fanciulli e

il monopolio nella gestione delle attività scolastiche.

All’inizio dell’Ottocento si ritiene ancora che la migliore forma di educazione per i fanciulli

sia la loro collocazione in convitti e collegi, privilegio delle classi più ricche.

È nella seconda metà del XIX secolo, con l’avvento sulla scena sociale della borghesia, che si

assiste a un’inversione di tendenza nelle scelte educative. Nelle classi sociali più abbienti

cresce l’attenzione nei confronti dei minori che, quindi, non vengono più allontanati dalla

famiglia, neppure a scopo educativo. Per contro si registra un notevole potenziamento delle

strutture di assistenza e di contenimento per gli emarginati, tra i quali i bambini e i ragazzi

privi dell’assistenza familiare. Il divario tra le condizioni dei minori appartenenti ai ceti

abbienti e i loro coetanei poveri si fa più grande.

Mentre in passato la beneficenza nei confronti dei poveri era lasciata prevalentemente

all’iniziativa dei privati che si muovevano spinti da motivazioni per lo più di tipo religioso,

già nel periodo precedente all’unificazione del Regno d’Italia i vari Stati iniziano ad assumere

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un loro ruolo nell’assistenza. Lo Stato unitario raccoglie queste esperienze e le fa proprie; si

innesta così un meccanismo di scontro nell’attuazione degli interventi assistenziali tra forze

cattoliche da una parte e apparato statale dall’altra che non è ancora completamente risolto.

La legge Rattazzi del 1862 costituisce il primo intervento normativo di disciplina della

beneficenza. In seguito a tale disposizione si esegue un censimento delle opere di assistenza

già esistenti sul territorio nazionale che mantengono la loro natura privata e vengono

denominate “opere pie”. La legge prevede, inoltre, la realizzazione in ogni Comune delle

congregazioni di carità, organizzazioni di natura pubblica che rispondono, in parte, a un primo

concetto di territorialità dell’assistenza. La successiva legge Crispi (legge 17 luglio 1890, n.

6972, Norme sulle Istituzioni pubbliche di beneficenza) è pervasa da una volontà riformatrice

e risulta più incisiva della precedente. Le opere pie vengono, infatti, trasformate in enti

pubblici, denominati istituzioni pubbliche di beneficenza, che si occupano di tutti gli aspetti

inerenti la materia sociale e che ottengono importanti finanziamenti pubblici. In materia di

minori la legge attribuisce ai Comuni e alla Province l’onere dell’erogazione dell’assistenza in

favore dei bambini abbandonati qualora le opere pie risultino inadeguate.

Nel 1918 il decreto luogotenenziale n. 1395 disciplina il baliatico e il collocamento al fine di

garantire i bisogni nutritivi del lattante (proteggendolo dalle malattie fisiche attraverso il

controllo dello stato di salute delle balie) e dispone l’inserimento degli adolescenti presso

famiglie artigiane perché imparino un mestiere.

Il regio decreto dell’8 maggio 1927 n. 798, Norme sull’assistenza degli illegittimi,

abbandonati o esposti all’abbandono, istituisce il servizio di assistenza ai fanciulli illegittimi,

abbandonati o esposti all’abbandono, attribuendo detta competenza alle amministrazioni

provinciali. È in seguito a questo provvedimento che nascono gli istituti provinciali per

l’infanzia che svolgono l’assistenza per i minori abbandonati alla nascita e per gli illegittimi

bisognosi. Questa normativa prevede, ove possibile, il collocamento dei fanciulli ricoverati

nei brefotrofi o in case di ricezione, presso nutrici o famiglie dei rispettivi territori comunali.

All’art. 14 del medesimo atto normativo si afferma, inoltre, che tutti i fanciulli collocati hanno

diritto alle cure sanitarie e all’assistenza farmaceutica gratuita da parte del Comune.

Come già ricordato, dello stesso periodo è anche l’istituzione dell’ONMI, ente nazionale

totalmente pubblico, istituito con la legge 2277 del 1925, che provvede «per tramite dei suoi

organi provinciali e comunali alla protezione e all’assistenza delle gestanti e delle madri

bisognose e abbandonate, dei bambini lattanti e divezzi fino al quinto anno dei fanciulli di

qualsiasi età appartenenti a famiglie bisognose o abbandonate e dei minorenni fisicamente e

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psichicamente anormali, oppure materialmente abbandonati, traviati e delinquenti fino all’età

di 18 anni compiuti» (RD 24 dicembre 1934, n. 2316, Approvazione del testo unico delle

leggi sulla protezione ed assistenza della maternità ed infanzia). Nel regolamento attuativo

dell’ONMI (RD 15 aprile 1926, n. 718,

Approvazione del regolamento per l'esecuzione della legge 10 dicembre 1925, n. 2277, sulla

protezione e l'assistenza della maternità e dell'infanzia) l’affido viene considerato forma di

intervento di primaria importanza per l’infanzia abbandonata. L’art. 176 afferma infatti: «i

fanciulli minori di dodici anni compiuti devono esser in regola, collocati presso famiglie,

possibilmente abitanti in campagna, che offrano serie garanzie di onestà, laboriosità, attitudini

educative e amorevolezza verso i bambini e dispongano inoltre di una abitazione conveniente

e di mezzi economici sufficienti per provvedere al mantenimento dei fanciulli in consegna. I

fratelli e le sorelle debbono essere di regola collocati presso la stessa famiglia o almeno nello

stesso Comune. I bambini lattanti debbono essere affidati a nutrici regolarmente autorizzate a

esercitare il baliatico a norma del regolamento 4 agosto 1918 n. 1395 e dell’art. 190 del

presente regolamento». La normativa esprime il dovere degli affidatari di trattare e

considerare il bambino affidato come un figlio proprio, curando che frequenti la scuola e

avviandolo a un mestiere.

Tra le normative della stessa epoca, la legge 18 giugno 1931 n. 773 afferma all’art. 118: «se il

minore di 18 anni è privo di genitori, ascendenti o tutori o se costoro non possono provvedere

alla sua educazione o sorveglianza, il Presidente del tribunale Ordinario provvede affinché il

minore sia ricoverato presso qualche famiglia onesta che consenta di accettarlo».

Il DL 20 luglio 1934 n. 1404 che istituisce il tribunale per i minorenni, all’art. 23 prevede la

tenuta, presso il medesimo tribunale, di un elenco delle persone e degli istituti di assistenza

sociale che si dichiarino disposti a provvedere all’educazione e all’assistenza dei minori

sottoposti a misura di libertà vigilata. Con lo scopo di sostenere gli affidamenti alle famiglie,

il codice civile, approvato con RD 16 marzo 1942, n. 262, introduce l’istituto dell’affiliazione

per i minori affidati da almeno tre anni a una famiglia, assumendo o aggiungendo il cognome

di quest’ultima senza però acquisire diritti successori (artt. 404-413). Il codice civile prevede

anche l’ampliamento delle funzioni del tribunale per i minorenni in campo civile, con

l’introduzione di limiti all’esercizio della patria potestà (art. 333). Si istituisce, inoltre, un

nuovo organo giudiziario monocratico, il giudice tutelare, con specifici compiti di tutela e di

difesa giuridica dei minori. Nel medesimo codice civile sono previste, infine, una serie di

misure riguardanti l’adozione (artt. 291-314) e la tutela (artt. 343-398) che sono sopravvissute

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nell’ordinamento fino ai giorni nostri per le loro caratteristiche peculiari che le differenziano

dalle fattispecie regolate dalla legge 184/83 e dalle sue successive modifiche introdotte

recentemente dalla legge 149/01.

Una notevole diversificazione nella concezione dei diritti di cui il minore è portatore e,

conseguentemente, dello scopo in base al quale si attuano l’affidamento e l’adozione, avviene

con l’approvazione della Costituzione della Repubblica italiana. L’art. 2 della Costituzione

garantisce, infatti, i diritti inviolabili dell’individuo (quindi anche del minore) sia come

singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità (famiglia, scuola,

lavoro). All’art. 3 si afferma, poi, il diritto di ogni individuo a che siano rimossi gli ostacoli

che impediscono il pieno sviluppo della personalità umana. Infine, agli artt. 30 e 31 è

sottolineato con forza il diritto/dovere dei genitori di educare, mantenere e istruire la prole

con la possibilità di avvalersi di un programma di aiuto e sostegno in caso di necessità.

La legge 25 luglio 1956 n. 888, di riforma dei tribunali per i minorenni (Modificazioni al

R.D.L. n. 1404 del 20 luglio 1934 convertito in legge n. 835 del 27 maggio 1935, sulla

istituzione e funzionamento del Tribunale per i minorenni), all’art. 26 introduce l’affidamento

al servizio sociale anche nei casi in cui si applica l’art. 333 cc (limitazione della patria

potestà). L’affidamento al servizio sociale ha precise valenze educative:

il giudice prescrive per il minore tutta una serie di regole che riguardano la sua istruzione, il

lavoro, il tempo libero ecc. e affida al servizio sociale l’importantissimo compito di aiutare e

facilitare il ragazzo nel rispettare il disposto del tribunale anche attraverso una costante

verifica del comportamento del minore.

Gli anni Cinquanta e Sessanta segnano, quindi, l’avvento di profondi cambiamenti sociali con

la concentrazione di grandi masse umane nelle città e il crescente maggiore isolamento dei

nuclei familiari.

La cultura familiare diviene “puerocentrica” e ciò determina un crescente interesse nei

confronti dei diritti dei bambini piuttosto che verso le necessità degli adulti.

Da questa nuova concezione deriva la legge 5 giugno 1967 n. 431 che istituisce l’adozione

speciale, il cui rilievo è già stato menzionato in precedenza: l’adozione può essere attivata

solo nelle situazioni di reale abbandono materiale e morale del minore e l’adottato acquista lo

status di figlio legittimo della famiglia adottiva cessando i suoi rapporti con la famiglia

d’origine.

Come già segnalato nelle pagine precedenti, la politica assistenziale subisce una notevole

trasformazione negli anni Settanta, periodo in cui si concretizza il decentramento

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amministrativo previsto dalla Costituzione

e fino ad allora rimasto irrealizzato, attraverso la realizzazione delle Regioni a statuto

ordinario prima e l’emanazione del DPR 24 luglio 1977 n. 616 (attuativo della legge 382/75)

poi. In questo testo normativo i compiti di programmazione, legiferazione e regolamentazione

delle attività di carattere socioassistenziale vengono demandati dallo Stato centrale alle

amministrazioni locali.

La successiva stagione di riforma dell’ordinamento delle autonomie locali avviata con la

legge 142/90 trova un collegamento importante con questa prima fase di decentramento

determinando infine, a oggi, l’attribuzione piena della titolarità in materia di servizi sociale al

Comune, identificato come soggetto pubblico di riferimento per la gestione degli interventi

sociali ed educativi, pur in presenza di un quadro articolato sotto il profilo delle diverse

modalità di gestione delle attività e della partecipazione del mondo dell’associazionismo e del

privato sociale.

Il panorama legislativo degli anni Settanta si arricchisce, inoltre, di altre due importanti

riforme: la prima – che si riferisce ai contenuti della legge 1 dicembre 1970, n. 898,

Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, istitutiva del divorzio – mira a garantire la

tutela di tutte le componenti familiari all’atto dello scioglimento del vincolo coniugale

attraverso interventi che consentono di gestire e regolare la crisi matrimoniale alla luce degli

interessi del coniuge debole e dei figli; la seconda, che si riferisce alla legge 22 luglio 1975, n.

405, Istituzione dei consultori familiari, concerne appunto la creazione dei consultori familiari

e afferma, per la prima volta, il diritto all’informazione per una procreazione libera e

responsabile: la legge si pone l’obiettivo della tutela della donna e del figlio attraverso la

costituzione di valide reti di consulenza per la risoluzione dei problemi del singolo, della

coppia e della famiglia.

Per arrivare al tema centrale del volume, infine, la legge 184/83, che si inserisce in un quadro

di estrema portata innovatrice, introduce la riforma dell’adozione e regolamenta per la prima

volta l’istituto dell’affidamento familiare nel quale il bambino diventa titolare di un diritto

soggettivo affinché il suo benessere sia tutelato. L’affidamento familiare viene inteso come un

mezzo di “prevenzione” non più nel campo della salute fisica, ma in quello psicologico. Gli

studi di Bowlby sull’attaccamento e quelli di Spitz sui bambini istituzionalizzati, hanno posto

in evidenza la funzione dell’adulto nella costruzione dei «modelli che organizzano i

sentimenti e i comportamenti individuali lungo tutto il corso della vita» e delle conseguenze

negative dovute alla mancanza dell’interazione con l’adulto nei primi anni di vita.

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Rispetto alle forme di affidamento attuali che vedono il coinvolgimento di un terzo attore, il

soggetto pubblico, e la definizione di contenuti centrati sulla relazione, le prime esperienze

affidatarie mostrano, invece, caratteristiche diverse: ciò in relazione alla forma del contratto

tra le famiglie, di natura privata, e al contenuto del contratto, di carattere oggettivo e

materiale.

Nell’attuale contesto normativo l’affidamento familiare viene proposto come strumento

solidaristico che, nel prevedere l’accoglienza temporanea di un minore da parte di un altro

nucleo familiare, intende facilitare nella famiglia di origine il superamento delle proprie

difficoltà e quindi il recupero delle funzioni genitoriali e del rapporto con il figlio. Importanti

sono anche le modifiche all’istituto dell’adozione che perde l’aggettivo “speciale” e viene

consentita lungo tutto l’arco della minore età.

Le recenti modifiche alla legge 184/83, apportate dalla legge 149/01, contribuiscono ad

affermare ulteriormente i due principi fondamentali legati al diritto di ogni bambino a essere

educato in famiglia, in primo luogo nella propria, come luogo di accudimento e cura e, in

alternativa, quando questa non sia in grado temporaneamente di assolvere alle proprie

funzioni, in un’altra famiglia che ne assicuri il mantenimento, l’educazione e l’istruzione.

Vengono infatti introdotte, inoltre, alcune novità importanti riguardanti il limite temporale

dell’affido fissato entro e non oltre i due anni; il richiamo alle condizioni di indigenza della

famiglia d’origine del minore; il superamento dei ricoveri in istituto dei quali viene fissata la

chiusura entro il 2006; il ruolo del procuratore della repubblica che diventa il destinatario di

tutte le segnalazioni e che ha il ruolo di vigilare sugli istituti; i compiti dello Stato, delle

Regioni, degli enti locali; i compiti dei servizi; i compiti delle famiglie affidatarie; i compiti

delle associazioni; il sostegno alla famiglia affidataria.

L’affidamento è inserito, quindi, in un contesto di tutela del minore e di supporto alla sua

famiglia di origine dove l’accento viene posto sia sul concetto di “crescita” del minore sia

sulla capacità funzionale e affettiva degli “adulti” che se ne prendono cura, entro una

dimensione sistemica e relazionale. L’affidamento si apre, infine, a una dimensione di

intervento che condivide con le altre forme di intervento rivolte alla famiglia e al bambino

l’impronta di aiuto e sostegno non separato da quella preventiva e promozionale, dentro un

contesto che guarda all’operatore sociale come coprotagonista di un cambiamento che non

può prescindere dalla compartecipazione e dal coinvolgimento attivo dell’individuo/

cittadino/utente del servizio.

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Affidamento familiare dal punto di vista giuridico

Il minore ha il diritto di essere educato, mantenuto e istruito nell’ambito della propria famiglia

come è enunciato dall’art.30 Cost. e dall’art. 1 della l.184/83, modificato dalla l. 149/01, ma

dallo stesso articolo della carta costituzionale si evince che, se pure ai genitori è riconosciuto

il diritto di mantenere, istruire ed educare i figli, tuttavia, l’interesse del minore a crescere in

una famiglia risulta prevalente rispetto all’interesse del genitore a occuparsi del proprio figlio.

Lo stato e l’ente locale in particolare si deve attivare affinchè questi due diritti possano

trovare effettiva applicazione, l’affidamento tuttavia è l’ultima soluzione possibile, per

garantire i diritti del minore e della famiglia d’origine.

L’istituto dell’affidamento, che è caratterizzato da un indirizzo altruistico e solidaristico,

comprende varie tipologie, regolate da diverse fonti legislative, tra loro non coordinate, che

hanno come elemento comune, la finalità di aiutare il minore, privo di idoneo ambiente

familiare, a trovare altro spazio in cui possa essere aiutato a formare e a sviluppare la propria

personalità.

L’affidamento può essere determinato da difficoltà o da ragioni di opportunità a carattere

temporaneo e quindi lo stesso può risolversi nell’ambito familiare o presso persone al di fuori

di esso per un periodo non superiore ai sei mesi, anche senza l’intervento dei giudici e dei

servizi sociali.

Le modifiche alla legge 184/83 apportate dalla legge 149/01 accanto ai compiti già

consolidati dei servizi socioassistenziali degli enti locali, detta nuovi ambiti di intervento, in

particolare nei confronti dell’affidamento familiare quale espressione della solidarietà e

riconoscendo a questo strumento una valenza preventiva e terapeutica per il bambino.

Questa norma stabilisce in primo luogo un principio generale essenziale, cioè il diritto di ogni

minore a crescere all’interno della propria famiglia. Questo significa che, di fronte a una

famiglia in difficoltà, lo Stato deve essere in grado di aiutarla e di sostenerla.

Lo stato di indigenza della famiglia d’origine non può rappresentare un ostacolo al diritto del

minore a restarne all’interno (art.1, co.3.2). A questo proposito occorre precisare che, in

effetti, lo stato di indigenza della famiglia non è sempre sinonimo di abbandono del minore

stesso.

Soltanto nei casi in cui il minore non può restare con la sua famiglia, nonostante l’intervento

di aiuto e sostegno da parte dello Stato, la legge prevede una gerarchia di altre possibilità:

l’affidamento familiare, nei casi di inadeguatezza temporanea dei genitori o della famiglia

allargata, a un’altra famiglia preferibilmente con figli minori, o a una persona singola, in

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grado di assicurargli il mantenimento, l’istruzione e le relazioni affettive di cui ha bisogno

(art. 2 co.1); ove ciò non è possibile, l’affidamento del minore all’interno di una comunità a

carattere familiare (Gulotta,2002).

Nei casi di affidamento familiare, la legge favorisce l’affidamento del minore all’interno di

una famiglia preferibilmente con figli, o come ultima alternativa ad una persona singola. Due

ragioni giustificano l’attenzione alla presenza di figli nella famiglia affidataria: non solo per

evitare che la motivazione delle famiglie affidatarie sia quella di procurarsi un figlio ma,

principalmente prchè l’integrazione del minore all’interno della famiglia affidataria è in molti

casi generalmente considerata più facile per la presenza di altri bambini.

All’opposto dell’adozione, nell’affidamento familiare non si cercano delle figure genitoriali

sotitutive alla famiglia d’origine. E’ per questo motivo che l’affidamento familiare a una

persona singola può funzionare nella stessa misura in cui questa è capace di garantire al

minore un ambiente familiare rassicurante.

La riuscita dell’affidamento può essere considerata strettamente collegata sia a una effettiva

disponibilità di chi accoglie temporaneamente un bambino a mantenere e rafforzare i suoi

legami con la sua famiglia, sia alla positività delle dinamiche che si vengono instaurando

dopo l’affido tra la famiglia d’origine e quella degli affidatari.

D’altra parte il numero delle famiglie effettivamente disponibili all’affidamento, nei term ini

della temporaneità e della conservazione del legame tra il bambino e la sua famiglia, non è

certo elevato. Altissimo è anche nella prassi il numero degli affidatari che non hanno alcun

rapporto con i genitori dei bambini che accolgono.

Esistono una pluralità di interventi che vengono attuati nei confronti delle famiglie in

difficoltà, quando quest’ultima è solo temporaneamente impedita e le carenze familiari non

sono talmente serie da richiedere l’allontanamento del minore, possono essere messi in atto

differenti interventi di sostegno tra i quali:

l’affido educativo a tempo parziale che viene utilizzato per minori in fase adolescenziale e

con famiglie multiproblematiche già note ai servizi, dove la famiglia affidataria si occupa del

minore solo per un periodo della giornata o della settimana per supplire alle difficoltà della

famiglia d’origine;

l’accoglienza nei centri socioeducativi, strutture intermedie che funzionano con finalità

socioterapeutiche e accolgono minori nelle ore post scolastiche;

contributi economici e assistenziali che comprendono l’assistenza domiciliare per evitarne

l’istituzionalizzazione.

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Le varie forme di affidamento previsti dalla legge 184/83 modificata dalla legge 194/01

La legge prevede due tipi di affidamento.

L’affido consensuale (art.4, co. 1, l.184/83) si pone come intervento di sostegno al minore e

della sua famiglia. Nei casi in cui le famiglie naturali siano d’accordo, l’affidamento familiare

viene attuato dal servizio sociale locale, dopo avere ascoltato il parere del minore se ha

compiuto 12 anni o anche di età inferiore tenendo conto del suo grado di comprensione. In

questi casi il giudice tutelare renderà esecutiva la misura dell’affidamento tutelandone la

temporaneità e la consensualità dell’atto.

L’affidamento giudiziario (art. 4, co. 2, l. 184/83), invece, viene predisposto coattivamente

dal tribunale per i minorenni o dal tribunale ordinario in sede di separazione e divorzio dei

coniugi, anche contro il parere dei genitori, per porre rimedio a situazioni di carenze di cure

materiali e affettive e all’incapacità da parte del genitore naturale di provvedere al figlio o in

caso di condotta pregiudizievole nei confronti del minore o comunque di impossibilità del

minore di permanere nella sua famiglia perchè tale permanenza potrebbe causare danni allo

sviluppo della sua personalità. Il provvedimento di affidamento incide sulla potestà

genitoriale, escludendola o limitandola (artt. 330 e 333 c.c.)

Nella disposizione di affidamento (art.4, co.3, l.184/83) devono essere indicati

specificatamente:

i motivi dell’affidamento; deve cioè contenere le ragioni su cui è fondato l’atto e

precisamente l’indicazione delle difficoltà familiari al momento esistenti, degli interventi

di sostegno attuati dal servizio sociale locale di esito negativo e del pregiudizio derivante

dalla permanenza del minore nella propria famiglia d’origine;

i tempi e i modi dell’esercizio dei poteri riconosciuti all’affidatario;

le modalità per regolare i rapporti della famiglia d’origine con il minore;

l’esistenza di privazione della potestà o di limitazioni all’esercizio di questa e le

eventuali prescrizioni per tale esercizio;

il servizio sociale responsabile del programma di assistenza e vigilanza, che ha l’obbligo

di segnalare, senza indugio, ogni fatto rilevante ai fini della prosecuzione

dell’affidamento e di inviare ogni sei mesi una relazione all’autorità giudiziaria

sull’andamento dell’affidamento e sull’evoluzione delle condizioni di difficoltà del

nucleo familiare d’origine;

il periodo presumibile della durata dell’affidamento in relazione al programma di

interventi per il recupero della famiglia d’origine, che in ogni caso non può superare i 24

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mesi, anche se prorogabili nei casi in cui la sospensione potrebbe essere pregiudizievole

per il minore. L’indicazione molto precisa della durata dell’affidamento da parte dei

servizi sociali e del tribunale è un punto di importanza fondamentale per evitare dei

fraintendimenti pericolosi. Alcuni tribunali inoltre ritengono positivo il limite di durata

dell’affidamento reputandolo importante il senso di responsabilità maggiormente

attribuito ai servizi territoriali in relazione all’assistenza, vigilanza e al sostegno al rientro

del minore nella famiglia d’origine.

Gli affidamenti prolungati possono comunque porre in evidenza molti problemi:

principalmente il rischio di poter abusare di questo strumento e di trasformare il caso in un

caso dimenticato.

Il successo di un affidamento dipende in grande parte dall’elaborazione di un progetto

individuale di affidamento e dalla sua attenta applicazione.

L’affidamento giudiziale cessa con provvedimento disposto dal Tribunale per Minorenni,

tenuto conto dell’interesse del minore, che va sentito nel caso in cui siano cessate le difficoltà

nella famiglia d’origine o quando la prosecuzione dell’affidamento gli sia pregiudizievole;

quanto al pregiudizio esso può consistere nell’eventuale diradarsi dei rapporti tra il minore e

la sua famiglia d’origine o nell’inizio di un’identificazione degli affidatari nel ruolo di

genitori del minore.

Il decreto di affidamento, che è immediatamente esecutivo, può essere impugnato entro dieci

giorni davanti alla Corte di appello, sezione per i minorenni.

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L’affidamento “sine die”

La legislazione italiana prevede anche un affidamento diverso da quello previsto dalla l.

184/83 ed è il cosiddetto affidamento a tempo indeterminato o “sine die”.

La fonte legislativa va ricercata negli artt. 330 e 333 cc., che prevedono la decadenza o la

limitazione della potestà genitoriale con il possibile allontanamento del minore dalla

residenza familiare.

Tale affidamento non è però, disciplinato in modo organico e trova applicazione quando il

rapporto fra i genitori e i figli è così forte da non consentire l’adozione legittimante, ma nel

contempo, non risulta opportuna la permanenza nella famiglia d’origine, cosicchè

l’allontanamento da questa non sembra una soluzione di breve durata.

Nei venticinque anni di applicazione della legge 184/83 da parte dei servizi, gli affidi sine die

risultano essere in numero rilevante su tutto il territorio nazionale.

Per affido sine die, così come abbiamo già illustrato, intendiamo progetti di affido attinenti a:

situazioni per cui non è previsto il rientro in famiglia, ma non sussistono le condizioni

per decretare lo stato di abbandono/adottabilità del minore;

situazioni in cui il progetto di affido temporaneo si modifica nel tempo a seguito di

cambiamenti nelle condizioni della famiglia di origine o dello stesso minore, per cui un

eventuale rientro in famiglia risulterebbe pregiudizievole;

situazioni in cui il tribunale per i minorenni, stabilendo il collocamento in affido

familiare, non ne ha definito la durata.

La presenza di una o più delle caratteristiche sopra indicate è riscontrabile nella maggior parte

degli affidi sine die. L’obiettivo che si prefigurano i servizi nell’attuare questo intervento è il

raggiungimento dell’autonomia personale del minore, sia psicologica (capacità di

individuarsi, di elaborare la propria storia, di autodeterminarsi ecc.) sia gestionale (capacità di

provvedere adeguatamente a se stesso) e economica.

Per l’esperienza degli operatori l’affido sine die si connota come:

a) Utile: quando è stata valutata la non opportunità di una adottabilità del minore. Infatti:

permette al bambino di non perdere le tracce della sua famiglia di origine;

gli consente di conoscere pregi e difetti della sua famiglia di origine, accettandola e

utilizzando al meglio quello che può dare;

permette di mantenere un rapporto accettabile e sostenibile dal bambino con almeno uno

dei due genitori o altri familiari;

permette un’alternativa alla istituzionalizzazione;

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risulta un progetto particolarmente utile per gli adolescenti.

b) Reale e dichiarata necessità: quando la famiglia di origine non sarà mai in grado di

assumere in toto le responsabilità genitoriali o solo in modo limitato, tale quindi da non

potersi prevedere una “convivenza” del minore con la stessa. Quindi:

vi è una valutazione positiva a che, nel suo interesse, il minore mantenga un legame e

periodici contatti con la famiglia di origine;

si evidenzia l’impossibilità di recidere il legame con la famiglia di origine;

vi è una diagnosticata necessità di riconoscersi come figlio di genitori naturali presenti.

c) Dato di realtà inevitabile: quando vi è impossibilità di procedere con l’adozione; si

verificano continui rinvii nella decisione di apertura di adottabilità; la famiglia di origine è

altamente compromessa e si riscontrano gravi difficoltà nei processi terapeutici.

In tali situazioni l’affido sine die:

permette alternative a istituzionalizzazioni sine die;

sopperisce ad adozioni fallimentari;

tampona carenze familiari e istituzionali (Istituto degli innocenti, 2002).

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Competenze e obblighi nell’affidamento

Nella logica e nella filosofia dell’affido c’è l’intervento sul bambino, sulle modalità con le

quali viene informato, sul significato che attribuirà alla moltitudine dei rapporti che si

creeranno intorno a lui. C’è però la presa in carico delle reali difficoltà della famiglia

d’origine.

Come spesso accade nelle famiglie multiproblematiche sono i problemi di disagio psicologico

a carico della madre o del padre a rendere “incompetenti” questi genitori.

La legge stabilisce gli stessi obblighi da parte della famiglia affidataria nei confronti del

minore in affidamento così come nei confronti dei propri figli, cioè l’obbligo di accoglierli

presso di loro, di provvedere ai loro bisogni, alla loro istruzione alla loro educazione (art.5,

co. 1). L’esercizio di questi obblighi deve esser conforme alle indicazioni dei genitori del

minore, nei casi in cui questi conservano l’esercizio della potestà genitoriale, e alle

prescrizioni dell’autorità che dispone l’affidamento. L’obbligo di provvedere ai loro bisogni

comporta allo stesso tempo l’assistenza economica, la promozione dei rapporti con l’esterno,

l’assistenza morale del minore.

Mantenere il minore nelle condizioni socioeconomiche significa inserire il minore in una

famiglia con una situazione socioeconomica simile a quella d’origine, per evitare che il

minore al momento del rientro nella sua famiglia non abbia dei contrasti troppo forti.

Provvedere alla sua educazione, implica favorire la formazione della personalità. Provvedere

alla sua istruzione, vuol dire vegliare sulla sua formazione scolastica. Tra le facoltà della

famiglia affidataria, la legge include i rapporti con le autorità scolastiche così come con quelle

sanitarie.

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ASPETTI RELAZIONALI E PSICOLOGICI DELL’AFFIDO FAMILIARE

Gli affidatari sono chiamati a fare le veci della famiglia naturale, ma non possono non tenere

conto dell’esistenza, reale e fantasmatica, della famiglia d’origine del minore affidato alle loro

cure. L’affido familiare è per definizione uno strumento assistenziale a termine, ma richiede

investimenti affettivi alle parti in causa e dà luogo a legami reciproci destinati a durare nel

tempo. Gli affidatari devono comunicare sotto varie forme al loro figlio provvisorio il loro

autentico interesse per lui e per la sua crescita, ma anche rassicurarlo che non lo tengono per

forza, cioè contro la sua volontà e a danno dei suoi genitori .

I piani di aiuto e recupero della famiglia d’origine costituiscono una componente

fondamentale dell’intervento complessivo a favore del minore.

L’aspettativa di tutti è che l’affido familiare sia utile al bambino, lo aiuti a crescere e ne

“ripari” i danni legati a una situazione di partenza difficile e spesso pericolosa. La famiglia

affidataria quindi deve muoversi con grande saggezza tra un serio impegno educativo a favore

del minore e una disposizione di fondo alla comprensione del bambino e della sua storia, al

rispetto dei suoi limiti e anche dei suoi obiettivi.

Tanto gli affidatari quanto l’affidato si troveranno costantemente a fare i conti con la

provvisorietà e la sperimentazione al tempo stesso gli effetti ansiogeni e l’aspetto

implicitamente rassicurante.

L’operatore che si fa carico dell’affido familiare dei minori deve attuare una lettura attenta

delle modalità relazionali del bambino, della famiglia affidataria e della famiglia d’origine. La

psicologia ha ormai superato il concetto di diagnosi statica della personalità, per mettere in

luce che la situazione, il contesto agisce potentemente nel provocare comportamenti e risposte

da parte dei soggetti interagenti.

In particolare, poichè i provvedimenti riguardano persone in evoluzione e relazioni spesso

precarie, gli operatori che progettano e realizzano l’affido familiare devono tenersi pronti ad

apportare aggiustamenti al sistema che permettano di ottenere il risultato desiderato.

L’obiettivo di fondo, evidentemente, è la crescita armonica del minore e il suo possibile

rientro nella famiglia d’origine. Il successo del progetto deriva dalle convergenze positive di

fatti ed interventi rivolti al nucleo familiare in difficoltà, al minore e alla famiglia e, più in

generale, all’ambiente che lo accoglie. Per gli adulti che si fanno carico del progetto affido,

spesso è assai arduo valutare l’andamento, un comportamento burrascoso può corrispondere,

a volte, un reale progresso del bambino e, al contrario, un eccessivo adattamento può

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mascherare un calo di vitalità e perfino una distanza ostile da parte del minore verso

l’ambiente che lo circonda. Spesso Il tempo dimostra che il bambino ha assimilato

orientamenti e regole, però accade anche di dover constatare che la permanenza nella famiglia

affidataria non giova all’affidato e in qualche caso mette in pericolo la stabilità della coppia

genitoriale o il benessere dei figli naturali

La capacità di interpretare il processo in atto e di comprenderne l’evoluzione è certamente un

requisito essenziale per gli operatori dell’affido familiare, deve cogliere i segnali e i bisogni

emergenti del minore e della sua famiglia per studiare eventuali aggiustamenti o

modificazioni dell’assetto. Come spetto accade nelle professioni d’aiuto, l’operatore deve

agire in una situazione che rimane piena di incognite: il suo impegno per tenere sotto

controllo le variabili in gioco e deve porre l’attenzione alle complesse dinamiche relazionali.

Fondamentale per una buona efficacia che le figure professionali che intervengono nel

progetto siano abituate al confronto, al riconoscimento delle rispettive competenze, alla

decifrazione collegiale di fenomeni non solo complessi, ma fortemente coinvolgenti sul piano

emotivo (Mazzuchelli, 1993).

D’altronde è noto che un progetto chiaro e condiviso rende autorevole la proposta che gli

operatori fanno al minore, alla famiglia d’origine e agli affidatari.

Benefici dell’affido familiare

Per il minore affidato, molto spesso, il solo fatto di condividere con una famiglia sana i gesti e

gli scambi della quotidianità costituisce un’esperienza arricchente e forse correttiva: egli può

esercitarsi alla comunicazione verbale e alla negoziazione (riducendo in tal modo la sua

tendenza all’agito), può trovare spazi e luoghi più adeguati all’età rispetto a quelli che gli

erano stati riservati nella famiglia d’origine, può trovare stimoli e modelli per la crescita

intellettuale e sociale, può recuperare fiducia in se e nelle persone che lo circondano, può

maturare ipotesi e progetti per il suo futuro professionale.

Una vita ordinata spesso giova anche alla salute di questi minori che possono avere

sperimentato in passato abitudini igieniche ed alimentari piuttosto sregolate.

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Il minore tra le due famiglie

La storia, le caratteristiche e lo stile relazionale della famiglia d’origine incidono in modo

determinante non solo nel rendere possibile il progetto di affido, ma durante tutta la sua

durata. Una famiglia in difficoltà, ma dignitosa e affettivamente presente darà, al figlio che

deve venire allontanato ed anche alla famiglia che si prepara ad accoglierlo, messaggi assai

più rassicuranti di quelli di due genitori instabili, conflittuali, inaffidabili.

Il minore, in ogni caso, manterrà i contatti con la famiglia d’origine, saranno però ben diversi

per lui il rapporto diretto con i suoi parenti e la sua posizione di cerniera tra le due famiglie se

coglie da entrambe le parti rispetto e comprensione o se le percepisce come antagoniste e

reciprocamente svalutanti.

Quando la famiglia affidataria vive i periodici rientri del bambino nella famiglia d’origine

come autentici incidenti del bambino nella famiglia d’origine come autentici incidenti di

percorso e considera i genitori naturali come “coloro che continuano a rovinare il bambino”,

introduce un pregiudizio nel proprio rapporto con l’affidato. Il bambino esposto ad azioni

obiettivamente negative da parte della sua famiglia (promesse non mantenute, istigazioni a

non fidarsi di nessuno, assenza di regole e così via) si carica di tensioni talvolta insostenibili

perchè sperimenta nuovamente frustrazione e confusione. D’altra parte si sente tenuto a

difendere i propri genitori agli occhi della nuova famiglia e al tempo stesso, forse

desidererebbe essere maggiormente dagli affidatari.

Il bambino spesso è consapevole dei limiti dei propri genitori o dell’unico genitore che gli

rimane e, specialmente se l’affido gli è d’aiuto, può sentirsi in colpa perchè non è rimasto a

casa a prendersi cura della mamma malata di mente o dei genitori tossicodipendenti:

comunque sente di avere delle responsabilità nei loro confronti e teme che, in sua assenza,

possa accadere loro qualcosa di grave. In questi casi è molto importante che l’operatore

comunichi al minore che la responsabilità dell’allontanamento è dei grandi, i quali hanno

formulato per lui un progetto che ha come scopo il suo benessere e la sua serenità.

Il minore con la sua personalità e con i suoi modi di entrare in relazione con l’altro giocano un

ruolo importante ai fini del successo dell’affido, un bambino sano, socievole, studioso,

affettuoso con i genitori naturali e con i genitori affidatari è il benvenuto in ogni famiglia e

rappresenta l’orgoglio degli adulti che se ne prendono cura.

Se ragazzini “adeguatamente” disordinati, impulsivi, ribelli ed egocentrici appaiono

accettabili e persino interessanti alla maggior parte delle famiglie, ci sono due opposte

categorie di affidati che si presentano di assai difficile assimilazione da parte del nucleo che li

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Aspetti psicologici e giuridici

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accoglie: i cosiddetti disadattati, turbolenti, poco capaci di processi di mentalizzazione e

portati invece ad improvvisi passaggi all’atto talvolta precocemente stimolati dal punto di

vista sessuale e quindi particolarmente disarmonici sul piano della strutturazione personale e,

all’opposto, i ragazzi che hanno subito gravissime deprivazioni affettive nei primi anni della

vita e si presentano non in grado di instaurare relazioni personali significative e ugualmente

incapaci non solo di colmare il loro vuoto emotivo, ma persino di credere possibile uno

scambio affettivo con l’altro (Lebovoci, 1988). Spesso anzi, questi minori, sotto l’apparente

indifferenza e immobilismo interiore covano in silenzio sentimenti intensi di rabbia

distruttiva, di persecutorietà, di invidia devastante che impedisce ogni contatto con l’altro

(Boston et al. 1987). In entrambi i casi, nonostante che i comportamenti si presentino tra loro

discordanti, questi “ospiti” comunicano con chi si vuole mettere in relazione con loro un

drammatico senso di irraggiungibilità, di non appartenenza, di estraneità.

Se la collocazione del minore nella famiglia affidataria fa nascere in lui un attaccamento e una

disposizione fiduciosa verso i genitori provvisori, l’affido ha buone probabilità di riuscita,

nonostante esistano obiettive difficoltà da superare, ma se il minore esibisce distacco emotivo,

silenzio ostile, rifiuto al riconoscimento dell’altro, anche l’adulto più disponibile si trova a

fare i conti con sentimenti di impotenza e forse di demotivazione.

La famiglia affidataria

Il ruolo della famiglia affidataria sarà quello di seguire il minore nella ricerca del proprio

equilibrio fornendogli gli strumenti necessari per far fronte al disagio emotivo provocato dal

senso di smarrimento che nasce dal vivere questa doppia appartenenza. E’ assolutamente

necessario che la famiglia affidataria non abbia bisogno di giocare un ruolo per realizzarsi. E’

vero che l’esperienza d’accoglienza arricchisce molto la coppia e ciascun membro del nucleo

familiare, ma è tuttavia importante che coloro che accolgono abbiano raggiunto la loro

pienezza e il loro equilibrio al di là dell’affidamento.

Inoltre la famiglia affidataria deve conoscere bene e comprendere l’ambiente familiare da cui

proviene il minore cercando di coesistere con la famiglia d’origine, a condizione che i legami

tra la famiglia e il bambino siano costruttive.

Come abbiamo già detto il problema del minore in affidamento non è quello di avere due

famiglia ma quello di rischiare di non averne nessuna. Il minore in affidamento ha paura, da

una parte, di perdere la sua famiglia d’origine, anche se questa non è affatto appropriata, e

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Aspetti psicologici e giuridici

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dall’altra, non crede di potere avere fiducia nella famiglia affidataria.

In un momento così delicato, la famiglia affidataria deve essere capace di entrare dentro la

vita del bambino affidato e dentro la sua famiglia d’origine con molta discrezione.

Quello della famiglia affidataria non è dunque un compito semplice, agli affidatari viene

chiesto di mantenere un costante contatto affettivo nei confronti del minore senza mai

disconoscere allo stesso tempo l’esistenza della sua famiglia d’origine. Tutto questo

considerando la temporaneità del compito.

Gli affidatari quindi possono non reggere al peso dell’affido se si sono mossi spinti dal

bisogno di avere un’occupazione, oppure quando la vita di coppia è tanto strutturata da non

tollerare lo sconvolgimento radicale che l’arrivo dell’affidato produce. Non è raro il caso che

il minore stesso “lavori” per scindere la coppia e venga percepito come u potenziale

deflagratore. Ancora gli affidatari possono avere prospettive irrealistiche sul conto della

persona del minore che arriva nella loro casa e anche della rapidità del suo progresso e quindi

possono non sopportare l’impatto con una realtà che sembra a loro troppo in contrasto con le

attese.

Il bisogno di appropriazione del minore da parte dei nuovi genitori può rappresentare un

pregiudizio oggettivo

La famiglia d’origine

La famiglia d’origine può esercitare un’azione di disturbo rispetto all’affido opponendosi al

progetto stesso, istigando il figlio a boicottarlo, compiendo sistematicamente irruzioni

telefoniche e di persona nella casa degli affidatari o peggio ancora presso la scuola o altri

ambienti frequentati dai ragazzi, spesso contro ogni divieto e all’insaputa di coloro che

seguono il minore.

Spesso i genitori naturali, più o meno consapevolmente, mettono il figlio di fronte al ricatto

che la sua lontananza li farà stare male.

Un rischio reale per il minore allontanato da nuclei familiari particolarmente disgregati è che

la lontananza allenti i legami con lui, fino ad una sorta di tragica “dimenticanza” almeno

apparente.

Se una famiglia in grave difficoltà contingente, ma sufficientemente sana, riesce ad utilizzare

la provvisoria assenza di uno o più figli come un effettivo alleggerimento del carico dei suoi

problemi e può vivere l’allontanamento dei bambini come una molla che la induce a trovare le

vie per superare il momento difficile, i nuclei più compromessi non riescono a riconoscere i

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Aspetti psicologici e giuridici

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bisogni del figlio e i sintomi del suo disagio, anzi spesso boicottano le iniziative sociali a suo

favore, manifestando in tal modo la loro radicale sfiducia nella possibilità di cambiamento

tanto per la generazione dei genitori che per i figli.

Discriminante è l’atteggiamento dei genitori nei confronti del futuro dei figli, se essi riescono

ad intravedere per loro un avvenire dignitoso e si percepiscono come possibili artefici di esiti

positivi, appariranno più collaboranti con operatori ed agenzie che si adoperano a favore dei

minori. Diversamente alimenteranno in sè e nel figlio l’illusione di essere gli unici depositari

della responsabilità del suo benessere e così, in realtà finiranno col coinvolgere il piccolo nel

loro disordine, nella loro precarietà, nell’instabilità affettiva e relazionale e col caricarlo di

persi emotivi insostenibili. Essi infatti potranno comunicare al bambino il divieto di stabilire

altrove legami affettivi o di identificare possibili punti di riferimento esterni alla famiglia,

consolidando col figlio patti mortiferi (Cirillo et. al., 1994).

Spesso i genitori preferiscono un inserimento del figlio in comunità, piuttosto che in una

famiglia affidataria perchè le paure di perdita e di essere sostituiti diventano troppo

angoscianti, cercando di privare quindi i propri bambini della possibilità di godere di un

accudimento e dell’educazione di cui una famiglia sostitutiva, si farebbe volentieri a carico.

I servizi

Lo strumento dell’affido familiare è di elevata complessità ne è quindi sconsigliabile l’uso da

parte degli operatori non forniti di sufficientemente esperienza e di adeguato supporto da

parte dell’Ente di appartenenza. Anche l’eccessiva discontinuità di servizio da parte delle

figure professionali “addette” all’affido familiare o l’eccessivo carico di lavoro che non

permetterebbe di dedicare al progetto il tempo, l’attenzione e le energie necessarie

sconsigliano di avventurarsi.

In qualche caso i Servizi vengono sentiti come poco efficaci o poco collaboranti dagli

affidatari e forse anche dalla famiglia d’origine.

Può accadere che la famiglia affidataria si senta esposta a rischi eccessivi se gli operatori

affidano un minore dalle caratteristiche del tutto diverse rispetto a quelle che essa aveva

indicato al momento di porre la propria candidatura all’affido familiare. Oppure che venga a

trovarsi in situazioni di difficile gestione, pratica ed emotiva, se gli operatori sovrappongono

proposte diverse, spinti dall’urgenza di trovare soluzioni per i loro assistiti.

Un’eventualità ricorrente che può pregiudicare l’affido familiare è la scarsa capacità degli

operatori di Servizi diversi di comunicare tra loro e di trovare un’integrazione, di obiettivi e di

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Aspetti psicologici e giuridici

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competenze, a favore del progetto. Può accadere che scattino “agiti” da parte di una o più

figure, rappresentanti dalle parti, dettati dalla competizione, dall’incomprensione del disagio

altrui, dall’eccessivo allineamento con una delle due famiglie in gioco o, al contrario, da

posizioni di pregiudizio e di squalifica delle stesse (Dell’Antonio, 1992).

Spesso gli operatori possono agire istanze sadiche nei confronti della famiglia d’origine,

pensando “ora il bambino sta bene”, non riconoscendo le risorse da valorizzare e le

problematiche su cui intervenire per il recupero della famiglia naturale. In questi casi il

ripiegamento sugli affidi sine die è piuttosto frequente.

Come già descritto più volte la posizione degli operatori nello scenario complessivo

dell’affidamento familiare è quanto mai delicata e difficile e proprio per questo abbiamo

affermato che coloro che svolgono questo compito hanno bisogno non solo di una solida

preparazione di base, ma anche di supporti teorici e pratici in corso d’opera che li sottraggano

all’isolamento e all’autarchia (Barbero Avanzini, 2003).

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Conclusioni

L’affidamento familiare è uno strumento difficile e complesso, parte di un progetto più

generale che trova le sue radici nell’etica dell’accoglienza e della condivisione delle

responsabilità, il cui successo dipende da alcuni prerequisiti:

deve essere riconosciuto da tutti, e in primis dagli amministratori e dagli operatori dei

servizi, il diritto dei bambini e dei ragazzi a una famiglia, come scelta primaria di tutela;

la scelta dell’affidamento familiare deve avvenire all’interno della rete più vasta di

servizi a favore dell’infanzia e dell’adolescenza, nella consapevolezza che l’affidamento

non è uno strumento adeguato per tutti i minori che vivono in situazione di disagio

familiare;

la comunità in cui il minore vive deve essere sensibile a raccogliere la sfida della

giustizia e della solidarietà, spinta da cui nasce la disponibilità all’affido;

la società nel suo insieme deve tollerare il “disordine” generato dal malessere, deve

astenersi dal giudicare le responsabilità della famiglia di origine (compito che spetta ad

altri individuati e interconnessi sistemi quale quello della magistratura) e favorire modelli

culturali centrati sul rispetto, sulla solidarietà, sull’accettazione. Appare quindi evidente

come il governo di tale complessità possa essere realizzato solo attraverso la rilettura

dell’affidamento familiare come un “intervento di rete” nel quale devono essere previsti e

mantenuti alcuni criteri metodologici.

L’affidamento familiare è possibile solo nell’attuazione di un sistema di aiuto a rete con

una conseguente maggiore integrazione e collaborazione tra servizi diversi e diverse

figure professionali e tra pubblico e privato sociale e volontariato.

La legge 149/01 ha ribadito che la titolarità dell’intervento sia nei compiti di selezione,

formazione, abbinamento della famiglia affidataria, sia riguardo all’elaborazione del

progetto globale per il minore in affido è del servizio sociale pubblico.

Un servizio quindi che deve essere rafforzato nelle sue competenze professionali e dotato

di mezzi sufficienti per svolgere bene il proprio lavoro.

Deve essere posta particolare attenzione ai mutamenti (demografici, economici e

culturali) che interessano le famiglie e che iniziano a rappresentarsi anche nelle situazioni

in carico ai servizi, dove si va definendo una nuova tipologia di utenti”, con nuove

problematicità, ma anche desiderio e capacità di essere soggetti attivi nel miglioramento

della propria situazione (anche nell’accettare il paradosso, ancora una volta, che il “bene

della famiglia” può essere in alcuni momenti l’allontanamento del figlio);

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Deve essere riconosciuto il nuovo ruolo delle famiglie affidatarie che sempre più spesso

si organizzano collettivamente decidendo di aderire o di far nascere associazioni e reti di

famiglie accoglienti che chiedono a istituzioni e servizi pubblici di relazionarsi come

soggetto collettivo e non come singoli.

In tal senso la costruzione di un linguaggio e di una prassi comune tra i diversi attori

coinvolti, pur nel rispetto delle diverse funzioni, identità professionali, ruoli istituzionali o

meno, va riconosciuta quale elemento essenziale posto a premessa della possibilità di

collaborare tra enti locali e associazioni.

Assumono, pertanto, molta importanza gli scambi di conoscenze e le forme di coordinamento,

a livello nazionale, regionale o di affinità, tra gli operatori dei servizi affidi, nonché tra questi

e il privato sociale per i minori.

Delle elaborazioni e delle prassi prodotte da tali confronti devono poter beneficiare sia

l’amministrazione pubblica nel suo complesso sia la magistratura. La prima perché promuova

e favorisca la nascita di coordinamenti regionali e interregionali sui temi dell’affidamento

familiare e dell’organizzazione dei servizi a favore delle famiglie, la seconda perché faccia

tesoro dell’esperienza di quanti ogni giorno sono vicini alle storie delle bambine e dei

bambini, degli adolescenti e delle loro famiglie.

Page 27: Emanuela Arnaldi AFFIDO ETEROFAMILIARE Aspetti Psicologici ...affido+etero... · Aspetti psicologici e giuridici 7 psichicamente anormali, oppure materialmente abbandonati, traviati

AFFIDO ETEROFAMILIARE.

Aspetti psicologici e giuridici

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Bibliografia

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