I Fondamenti

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I fondamenti fisici e fisiologici del tocco nel pianoforte (a proposito di un brevetto riguardante il pianoforte verticale) L’inferiorità del pianoforte verticale rispetto al pianoforte a coda non è dovuta solo alle dimensioni ed al volume di suono, ma anche ad altri motivi che spesso non sono ben compresi. Alcuni pensano che la differenza stia nella mancanza di dispositivi come la doppia ripetizione o il doppio scappamento. Altri sentono la differenza tra un tasto che “solleva” qualcosa ed uno che risponde solo ad una qualche generica resistenza . Ma la causa reale è ben più complessa, ed intreccia strettamente la fisica dello strumento (acustica e meccanica) alla fisiologia (soprattutto neuro- fisiologia) dell’esecutore. Tale causa è senza ombra di dubbio il “tocco”, che è possibile nel pianoforte a coda, ma di norma non è possibile nel pianoforte verticale. Nel suo significato intuitivo, questa parola indica una qualità del pianista che consiste nella capacità di dare significati musicali al suono, ed anche di dare un “bel suono” al pianoforte. La qualità che si richiede invece al pianoforte è semplicemente di render possibile tutto questo, ma tale qualità in realtà è molto meno intuitiva, e non è stato facile definirla in termini obbiettivi. Esiste un problema di fondo per qualsiasi tipo di pianoforte, come per qualsiasi tipo di strumento che frapponga una struttura meccanica tra l’esecutore e l’origine reale del suono (in pratica per gli strumenti a tastiera). Questo problema riguarda il rapporto tra il musicista e lo strumento musicale, e tocca l’idea stessa del far musica. Con questo tipo di

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I fondamenti fisici e fisiologici del tocco nel pianoforte

(a proposito di un brevetto riguardante il pianoforte verticale)

L’inferiorità del pianoforte verticale rispetto al pianoforte a coda

non è dovuta solo alle dimensioni ed al volume di suono, ma anche ad altri

motivi che spesso non sono ben compresi. Alcuni pensano che la

differenza stia nella mancanza di dispositivi come la doppia ripetizione o il

doppio scappamento. Altri sentono la differenza tra un tasto che “solleva”

qualcosa ed uno che risponde solo ad una qualche generica resistenza . Ma

la causa reale è ben più complessa, ed intreccia strettamente la fisica dello

strumento (acustica e meccanica) alla fisiologia (soprattutto neuro-

fisiologia) dell’esecutore. Tale causa è senza ombra di dubbio il “tocco”,

che è possibile nel pianoforte a coda, ma di norma non è possibile nel

pianoforte verticale. Nel suo significato intuitivo, questa parola indica una

qualità del pianista che consiste nella capacità di dare significati musicali

al suono, ed anche di dare un “bel suono” al pianoforte. La qualità che si

richiede invece al pianoforte è semplicemente di render possibile tutto

questo, ma tale qualità in realtà è molto meno intuitiva, e non è stato facile

definirla in termini obbiettivi.

Esiste un problema di fondo per qualsiasi tipo di pianoforte, come

per qualsiasi tipo di strumento che frapponga una struttura meccanica tra

l’esecutore e l’origine reale del suono (in pratica per gli strumenti a

tastiera). Questo problema riguarda il rapporto tra il musicista e lo

strumento musicale, e tocca l’idea stessa del far musica. Con questo tipo di

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strumenti, c’è il rischio di trovarsi di fronte, invece che ad una “voce”

mediante la quale il musicista può esprimersi, ad una “macchina sonora”.

Purtroppo nell’attuale pianoforte verticale il più delle volte ci troviamo di

fronte alla seconda ipotesi e le conseguenze, sul piano musicale e sul piano

didattico, non sono di poco conto. E’ ragionevole infatti pensare che,

anche per un pianista di qualche esperienza, uno studio condotto

esclusivamente sul pianoforte verticale possa compromettere, almeno in

una qualche misura, i processi inconsci che sono alla base dell’esecuzione

musicale, mentre in un principiante tali processi ben difficilmente possono

instaurarsi.

Nel cercare una soluzione del problema, ho a lungo pensato

(insieme alla maggioranza degli “addetti ai lavori”) che si trattasse di un

problema insuperabile. Per fortuna la mia curiosità è stata più forte

dell’insuperabile. Osservando gli effetti (che inizialmente mi erano

sembrati casuali) di una modifica che avevo fatto effettuare su un vecchio

piano verticale (uno strumento di grande formato e di ottima qualità,

elemento questo non secondario), ho deciso di continuare la ricerca, che

dopo parecchi anni mi ha portato a risultati inattesi. Le intuizioni che mi

hanno portato a tali risultati sono nate dalla constatazione che il martello

del pianoforte verticale costituisce, insieme con le parti ad esso

rigidamente collegate (stiletto noce e nasello) una leva di particolare

struttura, il cui baricentro durante l’esecuzione avanza verso la corda fino

a superare la verticale del perno. Ciò significa che la resistenza ad un certo

momento dopo una rapida diminuzione si annulla, e quindi il martello

scompare dalla percezione dell’esecutore proprio nel momento decisivo

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della percussione della corda. Il tocco diviene quindi impossibile, e rimane

possibile solo il controllo del volume del suono, che il pianista può

decidere con l’energia iniziale del lancio, quando un momento, benché

inferiore a quello del pianoforte a coda, c’è ancora. Mi è sembrato evidente

che tutti i tentativi di “ricostruire” artificialmente la resistenza finale del

martello mediante molle (come la molla di ritorno del martello) o magneti

non possono che peggiorare la situazione, proprio perché, introducendo

elementi automatici, diminuiscono la reale possibilità di controllo da parte

dell’esecutore anziché aumentarla.

Nella mia ricerca, con tentativi e riflessioni che hanno occupato lo

spazio di parecchi anni, ho fatto realizzare sullo stesso strumento altre

modifiche, che hanno alterato di poco l’impianto della meccanica

tradizionale, ma ne hanno modificato sostanzialmente la dinamica,

consentendo all’esecutore di percepire la resistenza del martello anche

nella fase finale della sua corsa verso la corda quando, per capacità innate

o acquisite con lo studio, le sue dita decidono il tipo di suono desiderato.

Non si tratta di un completo cambiamento della struttura stessa della

meccanica, e quindi la tipologia dello strumento è conservata, anche nelle

sue parti meccaniche. Proprio la modestia delle modifiche apportate allo

strumento mi ha indotto, quando già avevo fatto i primi passi per il

deposito all’ufficio brevetti di una prima stesura del testo, ad una serie di

ulteriori verifiche. Temevo infatti che i risultati raggiunti fossero dovuti a

particolari caratteristiche del pianoforte sul quale avevo effettuato gli

esperimenti, o ad elementi casuali di qualche altra natura. Tali verifiche

hanno richiesto ancora molto tempo, e competenze che in parte non

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possedevo, 1) e mi hanno aiutato anche a rispondere al dubbio, che da

qualche parte mi era stato avanzato, che il tocco sia solo un problema

psicologico del pianista.

Questa verifica dei termini scientifici del problema mi ha consentito

in primo luogo di definire i risultati dell’invenzione in un sistema di

rapporti di pesi e misure sufficientemente ben definiti, e quindi

generalizzabili ed applicabili con diverse ipotesi progettuali a pianoforti di

nuova costruzione, ma applicabili anche, c on modifiche da valutare caso

per caso, a buona parte dei pianoforti già costruiti. Ma soprattutto, in

secondo luogo, sul piano dei principi scientifici la verifica mi è sembrata

una sicura conferma della validità dell’invenzione.

Vediamo dunque questi principi, che ci portano sia nel campo della

fisica (acustica e meccanica) che della fisiologia (soprattutto neuro-

fisiologia).

In primo luogo, dal punto di vista dell’acustica, il tocco consiste

nella determinazione del transitorio d’attacco, cioè di quella fase di

vibrazioni apparentemente caotiche che precede l’onda stazionaria. Nel

pianoforte (a differenza che in uno strumento ad arco o a fiato) l’esecutore

non può influire sull’onda stazionaria che si ha, dopo l’attacco del suono,

nella sua continuazione. Di conseguenza, la determinazione del transitorio

d’attacco mediante il controllo delle modalità di incontro del martello con

la corda è tutto quello che il pianista può fare per influire sulla qualità del

suono, se prescindiamo dal volume. Ma questa possibilità è importante,

molto più che in altri strumenti. Nel pianoforte infatti la differenza di

intensità tra la percussione e l’onda stazionaria è talmente grande che tutto

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quello che succede dopo (a parte la durata del suono) ha un significato

tutto sommato secondario.

In secondo luogo, dal punto di vista della fisica meccanica, è

evidente che la capacità di un pianista di esercitare il tocco è condizionata

dalla possibilità di controllare le caratteristiche della corsa del martello

nelle sue diverse fasi, cioè prima l’avvicinamento veloce del martello alla

corda e poi la caratterizzazione del suono con la regolazione dell’impatto

del martello secondo l’intenzione dell’esecutore. Questa possibilità c’è nel

pianoforte a coda, dove le forze esercitate dalla mano del pianista per

sollevare, o meglio lanciare il martello verso la corda vengono contrastate

(oltre che dalle resistenze dovute alla meccanica dello strumento, come del

resto nel pianoforte verticale), sopratutto dalla resistenza dovuta alla forza

di gravità che, dato il movimento verticale del martello, genera una

resistenza di valore sostanzialmente costante nella sua corsa verso la corda.

E’ quindi costante la percezione dell’esecutore nel sentire un’opposizione

all’azione del dito sul tasto, e poi nel regolare il tocco, che può essere

graduato fino alla fine del movimento. Nel pianoforte verticale invece, a

causa della posizione verticale delle corde e della conformazione

conseguente della meccanica ed in particolare della leva che comprende il

martello, la resistenza generata dal peso del martello stesso passa

rapidamente a zero e diventa addirittura forza traente nell’ultima parte

della corsa. Ciò significa che, in presenza di variazioni repentine della

resistenza e di bassi valori (fattori questi che renderebbero comunque

problematica sia la percezione della resistenza sia la regolazione del

tocco) nella maggior parte degli attuali pianoforti verticali, quando il

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baricentro del martello (o meglio del sistema di cui il martello fa parte)

oltrepassa la verticale del perno, questi valori scendono al di sotto dello

zero, rendendo impossibile qualsiasi tipo di controllo da parte

dell’esecutore. La percezione della massa del martello è possibile solo

all’inizio della corsa (il momento iniziale è pari a circa i 2/3 di quello del

piano a coda) ed anche allora le altre resistenze della meccanica rischiano

di prevalere nella percezione dell’esecutore. Alla fine, praticamente tutta la

resistenza è dovuta solamente alle molle, e quindi tutta l’azione è

automatizzata.

Altri fattori, come la conformazione delle leve che precedono il

martello, tasto e cavalletto, oppure gli inevitabili attriti nel funzionamento

della meccanica, o l’elasticità delle parti in legno, potrebbero avere una

rilevanza teorica. Ma io ho concentrato l’attenzione, ed ho effettuato i

calcoli, sulla dinamica del martello (anche se, ovviamente non sono

intervenuto solo sul martello), assumendo come ipotesi di partenza una

situazione “standard” del pianoforte verticale che in effetti non è lontana

dalla realtà. Inoltre non sono certamente irrilevanti i fattori che

determinano la qualità della meccanica e dello strumento, ed è abbastanza

ovvio che il tentativo di applicare le modifiche suggerite nel brevetto ad

uno strumento mediocre potrebbe dare risultati deludenti.

Va invece affrontato il tema delle caratteristiche meccaniche del

feltro del martello, elemento questo di importanza probabilmente decisiva

per la sua connessione con le dinamiche che determinano il tocco, ed utile

anche per comprendere il modo di ottenerlo. E’ un problema estremamente

complesso, e non so quale super-computer potrebbe analizzarlo, ma ritengo

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sufficiente affrontarlo in modo intuitivo. Il feltro usato per i martelli del

pianoforte, benché sia particolarmente compatto, mantiene una qualche

deformabilità, caratterizzata da una reazione elastica modesta e piuttosto

lenta. A lungo termine, manifesta una certa plasticità che dà luogo a dei

solchi in corrispondenza delle corde, ma è una caratteristica di misura

irrilevante per quel che riguarda il tema che sto affrontando. E’ quindi

evidente che un impatto di breve durata con la corda metallica in tensione

non concede il tempo necessario ad una reazione elastica del feltro, che

quindi si comporta come se fosse più duro di quanto non sia, rendendo

possibile un suono preciso e controllabile. Un impatto troppo lento

lascerebbe il risultato sonoro in balia delle reazioni incontrollabili e forse

in buona parte casuali del feltro. Per questo la meccanica del pianoforte è

concepita in modo da ottenere, con l’azione di leve successive, un’elevata

velocità del martello.

A ciò si aggiunge una legge della fisica, di importanza decisiva, che

ci dice che la forza impulsiva che produce il suono è data dalla differenza

tra la quantità di moto (cioè massa per velocità) finale e la quantità di moto

iniziale, divisa per la durata dell’impulso. Un qualche calcolo fatto sulla

base di questa legge darebbe risultati sorprendenti. Per chiarire meglio

queste affermazioni, che potrebbero sembrare astratte o difficilmente

comprensibili, può essere utile ricordare un esperimento che veniva

descritto nei vecchi libri scolastici. Un uomo armato di fucile spara una

candela contro una tavoletta di legno e la perfora. Poi prende la candela e

la preme contro la tavoletta con una forza tale che la “quantità di moto”

(cioè il prodotto della massa per la velocità) sia la stessa. La candela non

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può attraversare la tavoletta, al massimo si spiaccica o forse anche si

deforma solo un po’. La sorprendente differenza dell’effetto delle due

azioni si ha perché, data l’estrema brevità dell’impulso, il fucile produce

una forza di gran lunga maggiore.

Questi due dati, cioè da un lato l’estrema velocità con la quale il

martello deve colpire la corda perché il feltro non soffochi il suono e

dall’altro l’estrema brevità dell’impulso necessaria perché questa velocità

sia raggiunta con il minimo impegno muscolare definiscono l’unico modo

corretto di usare il pianoforte: il dito deve lanciare il tasto, in modo che

questo agisca sul martello, per mezzo del cavalletto, come una fionda. Ma,

a differenza dell’esempio della fionda, il dito non deve mai “perdere” il

proiettile (cioè il martello), ma ne deve controllare la corsa fino a pochi

millimetri dalla fine, quando tale corsa diviene libera per via del sistema di

scappamento.

Tutto questo contrasta evidentemente con la diffusa opinione che

sia necessario produrre uno sforzo per produrre un suono forte, e che

comunque suonare richieda forza fisica, per la necessità di scaricare peso

sulla tastiera, premendo o percuotendo il tasto, nella convinzione che il

volume, o la “solidità” del suono dipenda dalla massa con la quale si

colpisce o si preme il tasto. E ciò sembra intuitivo osservando un certo

modo “atletico” di suonare che appare come l’immagine stessa della forza

muscolare. Ma questa impressione contrasta in modo evidente con la fisica,

sia per quanto abbiamo detto finora, sia perchè la meccanica del

pianoforte, verticale o a coda che sia, è costituita da un sistema di tre leve,

sostanzialmente indipendenti l’una dall’altra. Il tasto lancia il cavalletto

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che lancia il martello, ma ciascuna delle leve conserva la sua massa e (a

differenza di quel che riguarda la velocità) non può trasmetterla, e quindi

aggiungerla, alla successiva. Quindi qualsiasi sia il peso che viene

scaricato sulla tastiera, la massa che colpisce la corda è sempre esattamente

la stessa, cioè il peso del martello, (o meglio della leva di cui il martello fa

parte) e su questo fatto il pianista non ha assolutamente nessuna possibilità

di intervenire. E ciò rivela un fatto sorprendente, cioè che la meccanica del

pianoforte, sia verticale che a coda, ha un in realtà un funzionamento

contro-intuitivo, del tutto diverso dall’idea che hanno molti ascoltatori

abituali di musica, ma anche, talvolta, pianisti e insegnanti, del modo di

suonare il pianoforte. Spesso si insegna a premere per “marcare” la

melodia, ma più si preme e meno espressivo è il suono, oppure si insegna a

usare spalla, braccio o polso per suonare più forte, ma ciò inevitabilmente

rallenta l’azione e rende più difficile controllare il suono. Molti criticano il

pianista che “pesta”. Ma pochi sanno che il suo brutto suono dipende dal

fatto che le vibrazioni delle corde sono immediatamente soffocate e

distorte dal feltro che impedisce loro di espandersi liberamente. I suoi

muscoli uccidono la sua musica, e questo è sempre inevitabile quando si

suona forzando, anche di poco, l’azione muscolare.

Mi pare che il processo che ho descritto quando ho parlato della

meccanica del tocco dimostri questa necessità, ma nello stesso tempo si

pone il problema di chiarire come la complessa azione che questo processo

meccanico richiede al pianista, in tempi estremamente brevi, sia possibile.

Solitamente a questo riguardo si parla della necessità del rilassamento

muscolare, ma questa espressione è troppo generica e non spiega in modo

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sufficientemente preciso gli elementi fisici che rendono possibile questa

azione. Come si possano controllare le ultime fasi della corsa del martello,

decidendo con quale velocità o accelerazione lanciarlo verso la corda è

una cosa che sfugge ad ogni ipotesi di misura. In effetti la complessità

dell’atto da compiere e l’estrema brevità del tempo in cui lo si compie

rientrano nelle capacità del nostro cervello, che possiamo considerare

praticamente illimitate. Ma non sono illimitate le capacità degli strumenti

di cui il cervello si serve, vale a dire le varie parti e le varie funzioni del

nostro corpo. Sta di fatto che continuamente dobbiamo dare all’organo

fondamentale del nostro corpo istruzioni per le azioni che desideriamo

compiere. Se queste istruzioni sono sbagliate, le “capacità illimitate” si

riducono più o meno drasticamente o addirittura scompaiono.

Dare istruzioni corrette in realtà è possibile solo costruendo

immagini percettive che diventano sempre più dettagliate e nitide man

mano che si procede nel corso di uno studio che certamente non ha tempi

brevi, e ciò può avvenire sulla base di certi criteri. Ci sono, intanto, ragioni

ben chiare per cui il martello deve essere lanciato con il dito e non con

altre parti del corpo come spalla , braccio o polso. Accanto alla fisica, che

ci dice che lanciare grandi masse (cosa assolutamente inutile, come ho

dimostrato prima) rallenta un’azione nella quale la velocità è di

un’importanza decisiva, le ragioni fisiologiche sono altrettanto chiare,

perché le piccole muscolature delle dita sono molto più veloci e sensibili.

Sono più veloci perché composte in prevalenza di fibre muscolari rosse,

dotate di una velocità di reazione tripla non solo delle altre cellule

muscolari ma anche degli organi della vista e dell’udito, ed anche perché si

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tratta di moltissime fibre muscolari che si inseriscono sulle falangi con

angolazioni diverse permettendo movimenti in diverse direzioni. E’ quindi

evidente che la possibilità di ottenere una elevata velocità del dito esige il

totale disimpegno dalle grandi muscolature, ma d’altra parte va detto che è

fondamentale il totale riposo dopo ogni singola azione, per evitare

l’accumulo delle tensioni, e quindi la fatica, che può giunger fino al blocco

muscolare. Solo questo riposo (potremmo dire questa reale conclusione

dell’azione) dà la possibilità di suonare velocemente, che dipende dalla

capacità di modulare il tono e la contrazione della muscolatura con estrema

rapidità tra un’azione e l’altra. Sono inoltre più sensibili perché ogni

singola fibra muscolare è dotata di una innervatura, e quindi il rapporto tra

il numero di terminazioni nervose ed il numero di fibre muscolari è

addirittura migliaia di volte più favorevole rispetto alle grandi muscolature,

che assolutamente non sarebbero in grado di compiere un’ azione

sofisticata come il controllo del tocco. Ma questa sensibilità è possibile

solo con la libertà da qualsiasi interferenza di segnali estranei sulla

formazione delle percezioni (penso sia qualcosa di simile al problema del

rapporto segnale-disturbo negli impianti di ascolto ad alta fedeltà). Tra

questi segnali intendo sopratutto la sensazione di impegno muscolare,

anche se minima. Penso che un allenamento alla fatica muscolare non

risolva questo problema (visto che una sospensione di tale tipo di

allenamento, anche per pochi giorni, lo ripropone), ma che invece con tali

sistemi lo sforzo continui ad accompagnare l’azione muscolare, e ne venga

solo mascherata o attenuata la percezione. Naturalmente con certi tipi di

allenamento la muscolatura può aumentare di volume ed esprimere più

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forza, ma le terminazioni nervose aumentano anch’esse? Certamente ci

sono casi diversi, date le diverse attitudini individuali ed i diversi livelli

dell’attenzione prestata, più o meno spontaneamente, agli aspetti musicali

del lavoro che si fa. Ma in generale, è elevato il rischio che un certo tipo di

studio sul pianoforte in realtà diminuisca la sensibilità muscolare, e quindi

la tecnica. Purtroppo un’azione corretta del dito (ed in realtà di tutto il

corpo, messo per così dire al servizio delle dita) è qualcosa di estraneo,

nella massima parte dei casi, ai nostri abituali processi motori, e quindi va

costruita con un lungo e paziente lavoro, che non può essere del tutto

abbandonato neppure dopo una lunga esperienza.

Ritengo ora necessario chiarire un ultimo problema, che in realtà è

il problema di fondo, che ha determinato tutta la mia ricerca ed in

particolare il lavoro sul brevetto. Cioè se si possa definire in termini

obbiettivi il rapporto tra una certa struttura della meccanica del pianoforte

e le possibilità del pianista di esercitare il tocco. La risposta è che

certamente nessun pianista può controllare le qualità del suono, fatta

eccezione per il volume, se il momento angolare è insufficiente, o

addirittura pari o inferiore a zero nel momento in cui il martello viene

lanciato sulla corda dal sistema di scappamento. Non potrebbe controllare

nemmeno il volume del suono se il momento fosse nullo anche alla

partenza del martello. Esistono quindi certamente delle condizioni fisiche

dello strumento che rendono possibile tale controllo, e che possono essere

definite e misurate. Ma queste misure sono uguali per tutti, o dipendono

dalla sensibilità o dall’esperienza dell’esecutore?

Per rispondere è necessario definire il tocco da un punto di vista

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soggettivo, cioè nella percezione del pianista, come prima l’ho definito dal

punto di vista fisico. Il controllo del tocco è un processo a “feedback”, e

cioè una certa azione muscolare determina un certo effetto sonoro, e questo

influenza in tempo reale l’azione muscolare successiva, e così di seguito

fino a creare un automatismo che è alla base della capacità di dare

significati musicali al suono. Ma questo processo parte solo da una certa

soglia cioè dal minimo necessario del livello percettivo. Ciò significa che,

se le dita del pianista non “sentono” il martello a causa dei limiti dello

strumento, l’orecchio non può sentire una variazione di timbro tale da

influenzare l’azione motoria. Al di sotto di una soglia così definita,

evidentemente non è possibile nessun feedback, e ciò obbiettivamente

significa che lo strumento in quanto tale non possiede, o più esattamente

non consente il tocco. Si tratta di una soglia soggetta solo ad una variabilità

individuale di modesta misura (e tale variabilità è largamente compresa nei

limiti di misura previsti nel brevetto).

Altra cosa è la capacità di distinguere consapevolmente le

sfumature timbriche del suono ottenuto, capacità che non dipende da una

soglia percettiva ma va piuttosto definita come un’attitudine, talvolta

almeno in parte spontanea, ma che di norma si sviluppa con lo studio, che

se correttamente impostato porta ad un continuo affinamento della

sensibilità musicale. E evidente che questo affinamento può avvenire solo

su un pianoforte che consente il tocco. Spero che questo divenga ora

possibile anche sul pianoforte verticale.

Paolo

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Pancino

(pancino.paolo

@libero.it)

1) Per l’impostazione del problema in termini fisici, e per tutta la mia ricerca, è stata essenziale la

collaborazione di Elena Pancino, ricercatrice presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica, (osservatorio

di Bologna), mentre per la verifica delle ipotesi scientifiche concernenti la fisica e la revisione del

testo debbo ringraziare Sandro Maluta, ingegnere meccanico, già docente presso il politecnico di

Milano ed ora Amministratore Delegato in una importante azienda internazionale. Dal punto di vista

fisiologico, sia per la verifica di tutte le mie affermazioni che per la revisione e l’integrazione del

testo, anche dal punto di vista terminologico, debbo essere grato a Paola Cesari, titolare della

cattedra di Scienze Motorie presso l’omonima facoltà dell’Università di Verona e ricercatrice nel

dipartimento di Scienze Neurologiche e della Visione della stessa Università, che ho potuto

incontrare grazie alla cortesia di Giuseppe Moretto, direttore dell’unità operativa di Neurologia dell’

Azienda Ospedaliera Universitaria di Verona. A Giuseppe Moretto devo anche alcuni utili

orientamenti sul piano neurologico.