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I divari regionali in Italia sulla basedegli indicatori sociali (1871-2001)
Emanuele Felice*Università degli Studi di Bologna
Questo saggio presenta e discute alcuni dei principali indica-tori sociali per le regioni italiane, per anni benchmark dal 1871 al2001: l’aspettativa di vita, l’istruzione, l’indice di sviluppo umanoe, limitatamente al periodo dall’Unità al fascismo, le misure an-tropometriche. Dal quadro d’insieme emerge un percorso di con-vergenza del Sud Italia che, avviatosi con decisione già alla finedell’Ottocento, si sarebbe arrestato sostanzialmente solo nelle ulti-me decadi del Novecento. Pur senza mostrare particolare dinami-smo, le regioni più arretrate avrebbero beneficiato di una situa-zione di avanzamento generale sul piano nazionale ed internazio-nale, per quel che riguarda l’innalzamento dei livelli di istruzione,la riduzione della mortalità e i miglioramenti nell’alimentazione.
This work presents and discusses some of the most importantsocial indicators (height, education, life expectancy and humandevelopment index), referring to the Italian regions for the periodspanning from 1871 to 2001. According to the data, there was acatching-up process of Southern Italy toward the Centre North,which started by the end of the XIXth century and came to a haltonly in the last decades of the XXth century. In order to explain thistrend, it is argued that the most backward regions have “passively”benefited from the improvements in social fields, such as nutrition,education and longevity, which spread through almost the wholeworld during this period. [JEL Classification: I1; I2; I3; N33; N34;N93; N94; O15; Y1]
1. - Introduzione
L’attenzione degli storici economici verso gli “indicatori so-
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* <[email protected]>. L’Autore desidera ringraziare per i generosiconsigli Paolo Malanima, Leandro Prados de la Escosura e Vera Zamagni. La re-sponsabilità di quanto scritto ricade solo sull’Autore.
ciali” del benessere1 appare alquanto sporadica, soprattutto se con-frontata con quella invece dedicata agli aggregati di contabilitànazionale (prodotto, reddito, consumi). Per l’Italia un punto di ri-ferimento è rappresentato dal lavoro di Giovanni Vecchi (2003),nel quale, limitatamente al periodo liberale (dall’Unità fino allaprima guerra mondiale), vengono riportati e discussi — ma solosu scala nazionale — alcuni dei più importanti indicatori di be-nessere: la speranza di vita, la mortalità infantile, la statura, l’a-nalfabetismo e il tasso di scolarità primaria, nonché misure com-posite quali l’indice di sviluppo umano (Hdi, Human DevelopmentIndex) e l’indice fisico di qualità della vita (Pqli, Physical Qualityof Life Index). In tale studio l’autore osserva come, se è vero chedomande del tipo “Quando ebbe inizio lo sviluppo economico mo-derno italiano?” non fanno fatica a incontrare risposte ampia-mente condivise nella comunità scientifica, interrogativi altret-tanto importanti del genere “In quale misura è aumentato il be-nessere della popolazione come conseguenza del processo di cre-scita economica?”, allo stato attuale della ricerca non possano tro-vare che risposte “desolatamente vaghe” (Vecchi, 2003, p. 72).
Se dall’Italia ci spostiamo all’ambito regionale — dove ancheper gli indicatori di reddito si è pervenuti solo recentemente a sti-me storiche che possiamo ritenere soddisfacenti (Federico 2003;Fenoaltea, 2003, 2006; Felice, 2005a, 2005b) — la situazione sipresenta ancora più critica. Qui il terreno è rimasto completa-mente incolto, almeno fino agli ultimissimi tempi quando, grazieprima al contributo di Conte, Della Torre e Vasta (2001) e poi alsuccessivo lavoro di chi scrive (Felice, 2007), si è finalmente riu-sciti a conseguire un quadro regionale di lungo periodo per unagamma limitata ma significativa di indicatori sociali: aspettativadi vita, istruzione e indice di sviluppo umano.
Questo saggio si propone di approfondire e per certi versi ri-discutere le più recenti stime, con particolare riguardo all’evolu-
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1 Per una loro definizione e inquadramento storico, cfr. LAND K.C. (1983). Èbene chiarire che gli indicatori sociali sono altra cosa dagli indicatori di capitalesociale (associazionismo, partecipazione civica, fiducia), per una cui ricostruzionestorica con riferimento alle regioni italiane si rimanda al recente lavoro di NUZZO
G. (2006).
zione del divario Nord-Sud. Accanto ai dati già noti, vengono pro-dotte e presentate per la prima volta elaborazioni a livello regio-nale della statura media e dell’indice di sviluppo umano “miglio-rato” (IHdi, Improved Human Development Index), un indicatoresociale — quest’ultimo — che tiene conto di alcune delle princi-pali critiche metodologiche mosse nei confronti dell’Hdi; limita-tamente alle due macro-aree del paese, Centro-Nord e Mezzo-giorno2, sia per l’Hdi che per l’IHdi l’anno di partenza delle stimeviene retrodatato dal 1891 al 1871. Le nuove misure non soltan-to confermano, ma sotto vari aspetti contribuiscono a fare emer-gere meglio le principali tendenze delineate dagli altri indicatorisociali.
2. - Le stime antropometriche
La statura è un indicatore del benessere che riflette il soddi-sfacimento dei bisogni nutrizionali; se il prodotto agricolo espri-me l’offerta di sostanze nutritive, l’altezza (sebbene per via “indi-retta”) incorpora anche la domanda, ovvero il consumo, che di es-se viene fatto (Steckel, 1995). La nutrizione è forse il bisogno pri-mario per eccellenza: rappresenta il caso più esemplare della “cur-va di Engel”, in quanto all’aumentare del reddito la quota di es-so destinata al consumo di cibo diminuisce. Questa elasticità ne-gativa al reddito ha due conseguenze in merito all’utilizzo e al-l’interpretazione delle misure antropometriche. Innanzitutto, la lo-ro efficacia nell’esprimere il livello di benessere della popolazionesi fa via via più incerta con il crescere del reddito pro capite. Se-condariamente, ed è questo forse l’aspetto più interessante, secombinate con quelle del reddito le serie storiche della staturapossono darci un’idea dei cambiamenti nella distribuzione dellaricchezza, ovvero delle ricadute che la crescita economica generasulla società. Se, ad esempio, una volta espressi il reddito e l’al-
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2 La prima comprende, a sua volta, le due macro-aree del Nord-Ovest e delNord-Est-Centro (o Nec); la seconda il Sud Italia (Abruzzo incluso) e le isole. Sitratta della stessa ripartizione adottata da Vittorio Daniele e Paolo Malanima, inquesto numero della rivista.
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tezza su scale comparabili, osservassimo che il primo è cresciutopiù rapidamente della seconda, potremmo concluderne che la cre-scita economica si è accompagnata ad un aumento delle disu-guaglianze fra le classi sociali; o viceversa.
Entro alcuni limiti, si può tentare un esperimento simile an-che con riferimento ai divari regionali: non soltanto approssima-re le differenze di benessere attraverso quelle antropometriche, maanche mettere a confronto la relazione fra crescita e distribuzio-ne della ricchezza all’interno delle diverse aree del paese. Esisto-no, certo, difformità nelle diete alimentari fra le regioni: diffor-mità che influiscono sulle altezze medie a prescindere dal livellonutrizionale, tanto da poter rendere fuorviante (più che in altricampi) la categoria della convergenza. Quello che però qui ci sipropone non è tanto rilevare l’esistenza dei divari, quanto piutto-sto descrivere il loro andamento; ovvero monitorare l’eventualemiglioramento relativo dell’alimentazione, a prescindere dalle dif-ferenze antropometriche dovute — in parte e per alcune zone —ai regimi alimentari.
A tale scopo la tavola 1 mostra le stature medie regionali peranni benchmark dall’Unità fino al fascismo, elaborate in base al-le rilevazioni delle leve militari3. Dai dati assoluti si passa alle sti-me sui divari (tavola 2), calcolate, per avere ordini di grandezzasignificativi e paragonabili con quelli riscontrabili nel reddito enegli altri indicatori sociali4, su scala logaritmica5.
Dalla ricostruzione sembrano emergere almeno tre elementidi un certo interesse. Il primo concerne la gerarchia regionale deipresunti livelli nutrizionali all’interno del Centro-Nord, la partepiù avanzata del paese. Inizialmente, nella seconda metà dell’Ot-
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3 Oltre al dato nazionale riportato da VECCHI G. (2003), vale la pena ricorda-re le stime di A’HEARN B. (2003) per il Nord Italia, ricavate anch’esse dagli ufficidi leva ma riferite ad un periodo — gli anni dal 1730 al 1860 — precedente a quel-lo qui in esame.
4 Di per sé i divari antropometrici tenderebbero ad essere poco pronunciati,data la presenza di una soglia minima di tipo “biologico” comune alle diverse po-polazioni statistiche e relativamente elevata.
5 In base alla seguente formula: (1) [Log(ValMax-ValMin) – Log(ValMax-Xi)] / Log(ValMax-ValMin) Dove Xi è il valore di volta in volta osservato e il valore massimo (ValMax) è
fissato a 1,90 metri, il valore minimo (ValMin) a 1,50.
tocento, le regioni di testa non risultano quelle del Nord-Ovest,ovvero le più ricche in quanto a reddito pro capite, bensì quellenord-orientali e centrali; il sorpasso si verifica solamente negli an-ni della prima guerra mondiale, con un certo ritardo quindi ri-spetto al decollo del triangolo industriale, collocabile a cavallo delsecolo. A ben guardare, nel cosiddetto Nec sono soprattutto treregioni a trovarsi in posizione favorita, il Veneto, l’Emilia-Roma-gna e la Toscana. Difficile pensare a significative differenze nel re-gime alimentare, ad esempio, fra l’Emilia-Romagna e la Lombar-dia; il primato del Nec sembra piuttosto attribuibile ad altri fat-tori, quali il sistema mezzadrile di conduzione agricola ed una piùequa distribuzione della ricchezza fra le classi sociali. Rispetto al-l’agricoltura capitalistica con salariati la mezzadria favoriva unmaggiore autoconsumo, che evidentemente contribuiva al miglio-ramento della dieta alimentare più di quanto le statistiche sul pro-dotto agricolo commercializzato non lasciano trasparire; in que-sto senso, il reale livello di benessere degli abitanti poteva esseremaggiore di quanto non rilevato dai dati monetari, specie nel ca-so dell’Emilia-Romagna e della Toscana, le quali ad esempio — edifferenziandosi in ciò anche del Veneto — dal 1876 al 1914 pre-sentano una quota di emigranti sulla popolazione relativamentebassa, inferiore persino a quella della Lombardia e del Piemonte(Felice, 2007, p. 46). Con riferimento alla seconda motivazione, sipotrebbe ipotizzare che le regioni del Nec vantassero una distri-buzione della ricchezza più equilibrata, che favoriva un livello nu-trizionale medio più elevato a parità di reddito pro capite; talemaggiore equità distributiva potrebbe essere un tratto caratteri-stico di queste aree legato a fattori istituzionali e sociali (specienel caso delle regioni “rosse”), oltre che alla stessa conduzionemezzadrile, ma potrebbe anche essere il risultato dei diversi tem-pi di decollo industriale fra le regioni: in linea con l’andamentokuznetsiano (ad U rovesciata) secondo cui la disuguaglianza frale classi aumenterebbe nelle prime fasi di rapida industrializza-zione, per poi diminuire anche per l’avvento di politiche distribu-tive salariali o sociali (Kuznets, 1955); lo stesso sorpasso del Nord-Ovest in epoca relativamente tarda, successiva alla formazione deltriangolo industriale, potrebbe essere spiegato in maniera specu-
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lare, venendo peraltro a coincidere con l’avvio della trasforma-zione in senso industriale delle contigue regioni Nec.
I diversi tempi di decollo, inoltre, possono forse aiutare a com-prendere le ragioni per cui, in base alla stima dell’indice di Ginielaborata da Rossi, Toniolo e Vecchi (2001), a livello nazionalenon sembra prodursi l’atteso aumento della disuguaglianza incoincidenza della fase iniziale di industrializzazione. Una corri-spondenza tra crescita industriale e aumento delle disuguaglian-ze potrebbe invece essere riscontrata — e siamo con questo al se-condo elemento di interesse — su scala regionale, o macro-regio-nale, come la stazionarietà o addirittura la diminuzione delle al-tezze medie nel Nord-Ovest (e in particolare in Liguria e in Lom-bardia) durante il periodo giolittiano sembrerebbero indicare, se-gnalando un peggioramento delle condizioni di vita delle classipiù povere.
Il terzo elemento di interesse riguarda l’andamento del Mez-zogiorno d’Italia. Non la sua posizione relativa, evidentementepeggiore della media italiana ma attribuibile anche al diverso re-gime alimentare, con poca carne e meno latticini; quanto piutto-sto la sua evoluzione nel corso del tempo: se è vero che il diva-rio non viene colmato, esso almeno non va allargandosi, ma an-zi il distacco diminuisce leggermente, specie nella seconda metàdell’Ottocento. Le stime del reddito attestano che la posizione eco-nomica del Sud Italia in termini relativi peggiora per tutto il pe-riodo dall’Unità all’avvio dell’intervento straordinario (Felice,2005a e 2005b; Fenoaltea, 2003 e 2006; Daniele e Malanima inquesta rivista); il diverso andamento dei dati antropometrici ri-sulta invece in linea, come vedremo, con quello di altri indicato-ri sociali quali l’istruzione e — in misura minore — la speranzadi vita. Se è vero insomma che nelle decadi successive all’Unità ilMezzogiorno cresce economicamente meno del Centro-Nord, ilmiglioramento delle condizioni di vita delle sue classi più disa-giate sembra viceversa seguire un ritmo in proporzione più in-tenso. Ma torneremo su questo punto nei paragrafi successivi enelle conclusioni.
Vi sono tuttavia dei periodi in cui anche il divario Nord-Sudnella nutrizione torna ad allargarsi: quello intorno alla prima guer-
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ra mondiale, ad esempio, oppure gli anni ottanta dell’Ottocento, chesono quelli della crisi agraria. Stefano Fenoaltea e successivamen-te Giovanni Federico hanno messo in dubbio la reale incidenza ditale crisi, alla luce di nuove stime della produzione ma anche deidati antropometrici nazionali (Fenoaltea, 1993 e 2006; Federico,2003, pp. 108-109); ancora una volta, un’ipotesi formulata per l’I-talia nel suo complesso potrebbe trovare una più precisa enuncia-zione alla luce delle diverse dinamiche locali: guardando alle sta-ture regionali, infatti, si ha l’impressione che sui ceti deboli del Mez-zogiorno la crisi in realtà i suoi effetti li abbia prodotti.
Interessante sarebbe infine riflettere su quel che accade nellesingole regioni del Sud, in questo caso più in linea con l’anda-mento del reddito: il primato della Campania (e in misura mino-re quello di altre grandi regioni quali la Puglia e la Sicilia), bensaldo alla metà dell’Ottocento, si va fortemente ridimensionando,mentre assistiamo alla rapida ascesa dell’Abruzzo e Molise, so-prattutto in epoca giolittiana. Se, quindi, a differenza che nel red-dito per quel che riguarda i (presunti) livelli nutritivi il Mezzo-giorno migliora leggermente la sua posizione rispetto al Centro-Nord, al proprio interno le gerarchie fra le varie regioni si modi-ficano tutto sommato in corrispondenza di quel che ci si aspette-rebbe in base alle stime reddituali.
Le misure antropometriche possono dunque fornire utili ele-menti di riflessione per l’analisi del benessere e della distribuzio-ne della ricchezza; hanno però il limite di farci indagare solo suun aspetto delle condizioni di vita, per quanto importante, quel-lo della nutrizione, il cui peso relativo, peraltro, tende a diminui-re con il trascorrere del tempo, mano a mano che un’alimenta-zione adeguata diviene alla portata di fasce sempre più estese del-la popolazione. Si aggiunga un ulteriore problema derivante (po-tremmo dire) dal “principio di realtà”: per l’epoca repubblicananon si dispone più di relazioni sulla leva militare che riportino lealtezze dei coscritti a livello regionale, e pertanto a questo puntole stime antropometriche non sono più producibili. È allora ad al-tri indicatori sociali, di ben diversa portata e significatività, oltreche di maggiore copertura temporale, che occorre rivolgersi: l’a-spettativa di vita, l’istruzione e quindi l’indice di sviluppo umano.
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3. - Il divario nella speranza di vita
La speranza di vita alla nascita è forse fra gli indicatori so-ciali quello che maggiormente riesce a combinare il valore de-scrittivo con la semplicità di elaborazione e di interpretazione.Com’è noto, essa esprime la capacità di vivere a lungo: un aspet-to biologico della massima importanza da qualunque ottica si vo-glia considerare la storia umana, in grado di rivaleggiare con lemisure monetarie nell’approssimazione del benessere. Nel fornir-ci informazioni sulla durata media della vita, questo indice ci of-fre inoltre, sia pure indirettamente, indizi sulla sua qualità: indi-zi per certi versi complementari a quelli del reddito, in quanto in-vestono la sfera della distribuzione e più in generale dell’impiegodella ricchezza: la speranza di vita, ad esempio, riflette meglio delreddito (perlomeno della sua misurazione ufficialmente accolta intermini di Pil) il deteriorarsi delle condizioni ambientali, così co-me la possibilità di accesso ai servizi sanitari pubblici e privati, oanche l’evoluzione e l’applicazione delle conoscenze mediche.
La praticità di questo indicatore risalta facilmente ad un con-fronto con altre misure. A differenza dell’altezza, ad esempio, lasperanza di vita non presenta problemi di comparabilità fra pae-si e aree geografiche, sia perché trova significato in sé e non co-me approssimazione di un altro fenomeno (la nutrizione nel ca-so dell’altezza), sia perché si può ragionevolmente ritenere che ladurata della vita umana assuma ovunque un identico valore. Al-trettanto evidenti sono i vantaggi rispetto al reddito. Quest’ultimo,in genere espresso come prodotto interno lordo per persona, è unaggregato di misure fisiche e monetarie, o di stime del valore deiservizi, che comporta inconvenienti di elaborazione e quindi di at-tendibilità sia nel presente (Fuà, 1993), sia nel passato; nelle sti-me storiche, ad esempio, spesso per mancanza di dati si rende ne-cessario ricorrere a procedure di elaborazione “indiretta”, comequella proposta da Geary e Stark (2002) basata sulla forza lavoroe sulla produttività per addetto. Per il reddito c’è poi il problemadelle differenze nel costo della vita: per poter ragionare in termi-ni di parità di potere d’acquisto, ovvero affinché serie del redditosiano confrontabili fra diversi paesi o epoche storiche, è necessa-
RIVISTA DI POLITICA ECONOMICA MARZO-APRILE 2007
368
rio avvalersi anche di corrispondenti serie dei prezzi, le quali peròspecie per il passato non sempre sono disponibili; è il caso anchedelle regioni italiane, per le quali si è riusciti ad elaborare stimeindirette del reddito dal 1891 al 1951 basate sulla forza lavoro ela produttività, ad un livello di scomposizione settoriale piuttostodettagliato (Felice, 2005a e 2005b), ma a tutt’oggi non è possibi-le operare un confronto che tenga conto delle (presunte) diffe-renze nel potere d’acquisto. La speranza di vita non soffre di que-sti limiti e si presenta quindi come un indicatore di benessere percerti versi più affidabile del reddito; e forse altrettanto significati-vo, come si diceva.
L’andamento della speranza di vita a livello regionale è ri-portato nella tavola 3. Per gli anni dal 1871 al 1991 le stime sidevono a Leandro Conte, Giuseppe Della Torre e MichelangeloVasta, elaborate in occasione del citato working paper del 2001ma rimaste inedite fino ad una recente pubblicazione di chi scri-ve (2007); i dati relativi al 2001 sono stati elaborati dallo scri-vente su fonti Istat e pubblicati nello stesso volume. Nel presen-te lavoro per il calcolo dei divari viene utilizzata la trasforma-zione logaritmica6 (tavola 4); oltre ad essere analoga a quella ado-perata per le altezze e quindi con essa direttamente confrontabi-le, tale procedura, accentuando l’entità degli scostamenti rispet-to alla media, presenta il vantaggio di evidenziare meglio il trenddi lungo periodo, riducendo quella tendenza all’appiattimento chesi riscontra comparando i livelli di aspettativa di vita fra i paesipiù avanzati con il metodo lineare7. Ma ovviamente si tratta so-lo di un “effetto ottico”, che ha un peso nella misura in cui l’an-damento della speranza di vita viene affiancato a quello di altriindicatori, siano essi sociali come le altezze o monetari come ilreddito.
E. FELICE
369
I divari regionali in Italia sulla base, etc.
6 In base alla formula: (2) [Log(ValMax-ValMin) – Log(ValMax-Xi)] / Log(ValMax-ValMin) Dove Xi è il valore di volta in volta osservato e la soglia massima (ValMax)
viene fissata a 85 anni, quella minima (ValMin) a 25.7 Come in FELICE E. (2007) e nella formula tradizionale dell’Human Develop-
ment Index. La nuova procedura è inoltre la stessa di quella adoperata per il con-teggio della componente dell’aspettativa di vita (longevity) nell’Improved HumanDevelopment Index.
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All’inizio del periodo in esame l’ampiezza del divario Nord-Sudappare simile a quella che si riscontra nelle altezze. Tuttavia neltrend storico emergono fondamentali differenze fra l’aspettativa divita e la statura, e ancor di più fra la prima e il reddito pro capi-te. In termini di longevità, infatti, dalla seconda metà dell’Ottocen-to fino agli anni settanta del Novecento il divario Nord-Sud si ri-duce inequivocabilmente: se nel reddito pro capite i divari erano an-dati ampliandosi fra il 1871 e il 1951, se nelle altezze essi erano ri-masti stazionari pur con significative oscillazioni, in questo caso bi-sogna invece parlare di un vero e proprio processo di convergenza(già a partire dal 1871, se si escludesse la Sicilia). Vi sono è veroalcune discontinuità, con una cadenza non dissimile da quelle chesi evidenziano nel trend dei divari antropometrici od anche di red-dito; il crollo in termini relativi della Sicilia fra il 1871 e il 1891,per esempio, è accostabile a quanto visto nelle altezze durante glianni ottanta dell’Ottocento, nel periodo della crisi agraria; anchel’aumento del divario Nord-Sud fra il 1938 e il 1951 risulta in li-nea con le più recenti stime del reddito (Felice, 2005a), che indi-cano un netto peggioramento del Mezzogiorno in quella difficilecongiuntura storica. E tuttavia non può non essere rimarcato co-me, con riferimento alla durata della vita, nell’arco di quasi un se-colo il divario Nord-Sud sia andato sostanzialmente colmandosi.
Negli anni settanta del Novecento il divario addirittura si ca-povolge, sebbene poi, nelle ultime due decadi, esso torni a ria-prirsi a svantaggio del Mezzogiorno. Si tratta di un regresso in li-nea con le stime di reddito (il processo di convergenza avviato ne-gli anni cinquanta e sessanta si arresta con le crisi petrolifere),ma solo in parte con quelle dell’istruzione (nel cui trend si verifi-ca invece solo un rallentamento). Ad ogni modo sussistono pochidubbi sul fatto che nell’ultimo frangente del secolo scorso il Mez-zogiorno abbia visto vanificate molte delle speranze di riscatto nu-trite soprattutto — e per certi versi concretizzatesi perfino — ne-gli anni cinquanta e sessanta: in questo senso il trend nell’aspet-tativa di vita non fa che riflettere (e confermare) un’opinione con-solidata.
Veniamo ora ad analizzare più da vicino la situazione dellesingole regioni, osservando dapprima il Centro-Nord. A differen-
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za che nelle altezze, al 1871 il primato è detenuto dal Nord-Ove-st, per quanto anche nel Nec compaiano alcune regioni in posi-zione di vantaggio: le Marche e soprattutto l’Umbria (che non era-no fra le più prospere del paese), accanto al Veneto, che facevaregistrare un primato persino sul versante antropometrico; non in-vece l’Emilia-Romagna e la Toscana, le quali pure venivano im-mediatamente dopo il Veneto in quanto a statura media. Già sulfinire dell’Ottocento il Nord-Ovest si trova surclassato dal Nord-Est-Centro, con un distacco che va ampliandosi proprio negli an-ni del suo decollo industriale; un andamento simile si riscontranelle misure antropometriche, ma nel caso della longevità esso ap-pare molto più accentuato. Se ne potrebbe dedurre che durantele sue prime fasi il processo di industrializzazione ha sì avuto unimpatto negativo sulle condizioni di vita delle classi più povere —con un aumento delle disuguaglianze — ma solo in parte per quelche concerne la sfera dell’alimentazione (che si riflette nelle al-tezze). Le maggiori conseguenze negative si sarebbero avute su al-tri aspetti, che influiscono più marcatamente sull’aspettativa di vi-ta: ad esempio i livelli di inquinamento, le più generali condizio-ni di esistenza (fatica fisica, stress, incidenti sul lavoro), o l’inci-denza delle malattie legate ai nuovi stili di vita come quelle tu-morali e cardiovascolari; si tenga presente che nel 1891 e nel 1911anche i tassi di suicidi e di alcolismo risultano molto più elevatinelle regioni del triangolo industriale (Felice, 2007, p. 109).
Un’analoga correlazione fra industrializzazione e urbanizza-zione da un lato, e aspettativa di vita dall’altro, si può constatareosservando le posizioni regionali all’interno dell’Italia meridiona-le. Basandoci sui dati del 1911, i primi a livello disaggregato peril Mezzogiorno continentale, possiamo ipotizzare che anche nelperiodo precedente, a cavallo fra Otto e Novecento, le regioni mag-giormente urbanizzate e più prospere fossero quelle con l’aspet-tativa di vita più bassa (lo stesso primato della Sicilia alla finedell’Ottocento potrebbe essere il rovescio del fatto che sul Mez-zogiorno continentale pesavano negativamente le performance del-la Puglia e soprattutto della Campania). Al contrario le regionimeno urbanizzate e più povere — oltre che (ad eccezione dell’A-bruzzo) con i più bassi livelli di altezza — sono quelle in cui l’a-
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spettativa di vita si presenta relativamente più elevata; da notarecome l’Abruzzo si ponga al di sopra della media nazionale già nel1911, mentre la Calabria a quella data si trovava sostanzialmentenella media: le due regioni, insieme alla Basilicata, quanto a red-dito pro capite si collocavano in Italia nel gradino più basso. Di-scorso analogo può essere fatto per l’Italia centrale, confrontandoil citato vantaggio delle Marche e dell’Umbria con la bassissimaposizione di partenza della regione di Roma.
In alcuni periodi storici, come nella fase di decollo industriale,reddito ed aspettativa di vita potrebbero risultare quindi inversa-mente correlati. In aggiunta si può ritenere che, con il cresceredel reddito, la correlazione fra questo e l’aspettativa di vita tendaa farsi sempre più labile. Laddove il primo raggiunge un livellotale per cui le necessità di base vengono comunque soddisfattedalla stragrande maggioranza della popolazione, quel che contaper l’aspettativa di vita non è tanto l’ammontare medio della ric-chezza quanto piuttosto la sua distribuzione e, con essa, il livellodi servizi sociali (sanitari ma non solo) e di beni pubblici non mo-netizzabili8 (aria salubre, intensità delle relazioni umane) di cui icittadini possono a vario titolo usufruire. Almeno nel caso italia-no, la nuova relazione che si instaura appare piuttosto duratura:il primato che già a fine Ottocento il Nec acquisisce rispetto alNord-Ovest non viene mai rimesso in discussione durante tutto ilsecolo successivo, ed è tuttora ben saldo.
Al di là di queste osservazioni generali, vi sono alcuni fattorispecifici che hanno influenzato l’andamento crescente dell’aspet-tativa di vita e con esso l’evoluzione dei divari, sui quali è benesoffermarsi più da vicino. Prima di procedere, però, sarà oppor-tuno rimarcare un dato di fondo: a prescindere dagli andamentirelativi, in termini assoluti assistiamo ad un processo di crescitache non ha precedenti, forse anche più impressionante di quelloverificatosi nel reddito: dal 1871 al 2001 l’aspettativa di vita me-dia in Italia aumenta da 33 fino a quasi 80 anni. Si tratta indub-
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8 Che tuttavia potrebbero diventarlo: si pensi ad esempio al Genuine ProgressIndicator, Gpi, che si propone di conteggiare i costi ambientali e della criminalità(COBB C. - HALSTEAD T. - ROWE J., 1995; ANIELSKI M. - SOSKOLNE C., 2001; LAWN
P.A., 2003).
biamente di un grande successo, persino in confronto ad altri pae-si europei che disponevano di maggiori risorse. In un quadro co-sì dinamico, la convergenza dell’Italia meridionale non sorprendepiù di tanto, anche se il fenomeno non era affatto scontato (e in-fatti nel reddito non si verifica). Può stupire maggiormente, inve-ce, il fatto che per tutto il Novecento, come si diceva, il primatodel Nec sul Nord-Ovest sotto questo profilo non sia mai venutomeno: segno che nelle regioni della “Terza Italia” si è realmenteriusciti a trovare un modello di sviluppo capace di coniugare me-glio reddito e benessere; un modello di sviluppo che anzi, proba-bilmente, ha saputo fare proprio della maggiore attenzione allaqualità della vita un fattore di crescita economica.
Ad un’analisi più approfondita, comunque, il recupero delleregioni meridionali in questo campo appare piuttosto il portatodi un processo di modernizzazione “passiva”, per riprendere unacategoria introdotta da Luciano Cafagna (1988), che non di unruolo attivo svolto dalle istituzioni e dagli altri attori locali. L’im-pressione è che il Mezzogiorno si sia limitato a beneficiare, pas-sivamente, di una situazione di avanzamento del quadro genera-le, in misura maggiore di altre parti del paese solo per il fatto cheesso partiva da una posizione più arretrata; tale ipotesi ha comerequisito che la convergenza realizzata dal Sud Italia nel campodell’aspettativa di vita sarebbe stata prevalentemente di tipo eso-geno, ovvero indotta da fattori esterni.
A titolo chiarificatore si possono citare gli esiti di alcuni prov-vedimenti e interventi di ambito nazionale che hanno inciso dra-sticamente, nel breve ma soprattutto nel lungo periodo, sulla ridu-zione delle cause di morte nelle regioni del Sud: ad esempio la leg-ge del 23 dicembre 1900 sulla distribuzione gratuita del chinino,che ha ridotto ovunque la percentuale dei morti fra i contagiati dal-la malaria (Corti, 1984); oppure gli interventi per la realizzazionedi infrastrutture idriche e sanitarie, i quali nel corso del Novecen-to hanno permesso di debellare il tifo e il colera; oppure, ancorapiù importante ai fini della riduzione della mortalità, la vaccina-zione obbligatoria contro il vaiolo introdotta con la legge del 22 di-cembre 1888, che ha aperto la strada alla completa estirpazione delmorbo nel secolo successivo. La legislazione crispina del 1888 se-
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gna il momento fondativo della politica sanitaria in Italia (Vicarel-li, 1997), in quanto unifica i diversi codici sanitari degli stati pre-unitari e istituisce il servizio sanitario nazionale. Con essa il SudItalia viene coinvolto in un intenso processo di modernizzazionedelle strutture e dei servizi sanitari, che se pur lentamente com-porta anche la riduzione del divario nella dotazione ospedaliera, intermini di posti letto e non solo (Felice, 2007, p. 114).
Ma le politiche sanitarie nazionali nel Sud non producano unesito migliore che nel resto del paese; al contrario la loro applica-zione qui si scontra con arcaiche resistenze e vischiosità. Ed è inquesto senso che la categoria della “modernizzazione passiva” ac-quista pieno significato. Per ragioni di ordine culturale e istituzio-nale, la legge sulla vaccinazione antivaiolosa incontra nel Mezzo-giorno maggiori difficoltà di applicazione (Tucci, 1984, p. 425), tan-to che ancora all’inizio del Novecento le regioni del Sud (ad ecce-zione dell’Abruzzo e Molise) risultano quelle più colpite da epide-mie di vaiolo (Mortara, 1925). Allo stesso modo il tifo e il colerahanno continuato a riproporsi con maggiore frequenza nel Sud Ita-lia (Forti Messina, 1984), dove l’opera di infrastrutturazione è statapiù lenta soprattutto nei piccoli centri, mentre in alcuni dei mag-giori (Napoli, Palermo e Catania) i suoi benefici sono stati ridi-mensionati dalla contemporanea esplosiva crescita della popolazio-ne (Faccini, 1984). Gli interventi di bonifica contro la malaria han-no avuto, anche a giudizio dei commentatori dell’epoca (Fortunato,1973), esiti più insoddisfacenti nel difficile contesto meridionale, inquanto non accompagnati da progetti di trasformazione complessi-va dell’assetto fondiario. Persino al giorno d’oggi in termini di strut-ture e servizi sanitari il divario Nord-Sud, se pure storicamente ri-dottosi, si presenta particolarmente marcato (Scaramellini, Dell’A-gnese e Lucarno, 1997, pp. 358-386).
Nonostante ciò la situazione del Mezzogiorno in questi cam-pi è di molto migliorata: anche qui come nel resto d’Italia è stataenormemente ridotta l’incidenza fra le cause di morte delle ma-lattie infettive e parassitarie. Contemporaneamente, rispetto al Cen-tro-Nord il Sud ha beneficiato della minore presenza di malattiein qualche modo collegate al processo di industrializzazione, il cuipeso fra tutte le cause di morte sul piano generale è invece anda-
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to aumentando: in primis i tumori e le malattie cardio-vascolari,la cui diffusione ha determinato anche il declino dell’aspettativa divita nel Nord-Ovest rispetto al Nec (Felice, 2007, p. 109). La con-vergenza del Mezzogiorno è derivata quindi dal combinarsi di dueprocessi: la scarsa industrializzazione, che ha comportato una mi-nore incidenza delle nuove malattie; la condivisione di una corni-ce politica e istituzionale di ambito nazionale, la quale l’ha resobeneficiario, per quanto in maniera “passiva” (e infatti con più len-tezza), dei processi di modernizzazione che fra Otto e Novecentoin questo campo hanno investito l’intero paese (e in verità si sonospinti anche oltre i confini del mondo sviluppato).
A quanto detto occorre aggiungere un ultimo elemento: pur inun quadro di fortissima riduzione della sua incidenza complessiva,nel Mezzogiorno è rimasta relativamente più alta la mortalità in-fantile (nel primo anno di vita); ed anzi in tale ambito il divario siè ampliato, mentre risulta confermato il primato del Nec, conse-guito, come nel caso della speranza di vita, durante il periodo a ca-vallo fra Otto e Novecento (si osservi al riguardo la tavola 5).
Rispetto ad altre misure, la mortalità infantile, oltre ad esse-re maggiormente legata alle condizioni di vita generali della po-polazione, riflette meglio i diversi tempi della transizione demo-grafica (è più elevata nelle famiglie numerose). Questo dato pureindica come il recupero del Mezzogiorno in termini di aspettati-va di vita non sia il frutto di una parallela convergenza di reddi-to, quale portato a sua volta dei processi di industrializzazione epiù tardi di terziarizzazione, con i conseguenti cambiamenti ne-gli stili di vita. Eppure è proprio qui il punto da mettere in risal-to: nonostante la maggiore arretratezza economica, e quindi lapresenza di una mortalità più alta per alcuni aspetti, nel corso delNovecento dal punto di vista della mortalità complessiva il Mez-zogiorno riesce a porsi sullo stesso livello del resto del paese. Pro-babilmente questo significa che, oltre una certa soglia di reddito,almeno nel confronto fra Nord-Ovest e Mezzogiorno i benefici ei costi della crescita economica per la durata della vita hanno fi-nito per equivalersi. Come si diceva, quel che conta non è tantolo sviluppo in sé, quanto il tipo di sviluppo; non il livello mediodel reddito ma la sua distribuzione.
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4. - Il livello di istruzione
Il livello di istruzione è strettamente riconducibile alla di-sponibilità e al funzionamento dei servizi scolastici (che sonoprevalentemente pubblici), ovvero alla sfera della distribuzionedella ricchezza. A differenza della statura o dell’aspettativa di vi-ta, l’istruzione può diventare però anche una determinante nel-la produzione della ricchezza. Numerosi economisti, in partico-lare gli studiosi della crescita endogena, da decenni non smet-tono di interrogarsi su questa seconda relazione (Rosenberg,1970; Mansfield, 1975; Romer, 1986 e 1990; Lucas, 1988); anchegli storici economici, a partire dalle suggestioni di Cipolla (1969)o Easterlin (1981) fino ai modelli econometrici di Prados de laEscosura - Sanchez - Oliva (1993) e O’Rourke - Williamson (1995e 1997), hanno a più riprese individuato nell’istruzione, quale ap-prossimazione del capitale umano, uno dei fattori chiave che sa-rebbero alla base della moderna crescita economica. Stando aquesta linea interpretativa, l’istruzione verrebbe a configurarsicome uno dei canali principali attraverso cui le politiche di di-stribuzione della ricchezza (a valle) influiscono positivamentesulla sua produzione (a monte). Ma l’istruzione, così come l’a-spettativa di vita, possiede anche un valore in sé, tanto che ac-canto al reddito e all’aspettativa di vita costituisce una delle tredimensioni della nozione di sviluppo umano, utilizzata comecomponente del relativo indice (Anand - Sen, 1993): la cono-scenza (knowledge) esprime la possibilità per ciascuno di allar-gare il paniere delle proprie opportunità e di valutarle in ma-niera adeguata; è quindi requisito essenziale per l’esercizio del-la libertà, non secondario rispetto alla disponibilità materiale dibeni e servizi.
All’epoca dell’unificazione, nella seconda metà dell’Ottocento,in Italia i divari regionali nei livelli di istruzione erano ben mag-giori di quelli nel reddito o nell’aspettativa di vita. L’indicatore inquesto senso più eclatante, e di più facile interpretazione, èsenz’altro il tasso di alfabetismo, la percentuale di persone in gra-do di leggere e scrivere (almeno ufficialmente). Il suo andamentoè riportato nella tavola 6.
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Nel 1871 le differenze risultavano sorprendentemente elevate,non solo fra il Sud Italia e il Centro-Nord, ma, seppure in misu-ra più lieve, anche all’interno di quest’ultimo, con le regioni delfuturo triangolo industriale in netto vantaggio rispetto al Nord-Est-Centro; un qualche dislivello era presente anche all’interno delMezzogiorno, dove troviamo la Campania in una posizione un po’più favorita, paragonabile a quella delle Marche o dell’Umbria. Nelsuo insieme, al 1871 nel Mezzogiorno appena del 16% della po-polazione era in grado di leggere e scrivere, contro il 30% nel Nece il 55% nel Nord-Ovest.
Da questa situazione così sconfortante, il recupero del SudItalia appare inizialmente abbastanza lento, più veloce dopo le pri-me decadi. In un quadro complessivo di notevole innalzamentodei dati assoluti, la convergenza è proseguita per tutto il Nove-cento — senza arrestarsi nelle ultime decadi di difficoltà econo-miche per il Mezzogiorno — fino a portare alla quasi scomparsadei divari. Pur tuttavia ancora nel 2001 qualche differenza rima-ne, fra il Sud Italia e il Centro-Nord; mentre nello stesso tempoil Nec ha lasciato la sua posizione intermedia e si è attestato su-gli stessi livelli del Nord-Ovest.
Anche nel caso dell’alfabetizzazione — come in quello dell’a-spettativa di vita (il cui trend di convergenza è infatti molto si-mile) — per il Sud Italia possiamo parlare di modernizzazionepassiva. Forse anzi proprio questo fenomeno ne rappresenta la vi-cenda esemplare. Non da ultimo per il fatto che le disposizionisull’innalzamento dell’obbligo scolastico emanate a livello nazio-nale demandarono ai singoli municipi, quantomeno fino alla leg-ge Daneo-Credaro del 1911, il compito di predisporre le necessa-rie strutture: un onere difficilmente sostenibile per molte ammi-nistrazioni meridionali, per ragioni economiche ma spesso anchedi ordine culturale e istituzionale9. In linea di massima, quindi, ilrecepimento della normativa nazionale è risultato più difficile pro-prio nelle zone maggiormente arretrate.
Una soglia minima di alfabetizzazione, di solito collocata in-torno al 40% (Bowman — Anderson, 1963; Sandberg, 1982; Nuñez,
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I divari regionali in Italia sulla base, etc.
9 Per una breve analisi, si veda FELICE E. (2007, pp. 115-117).
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1990), viene considerata un requisito indispensabile per potere svi-luppare le tecnologie della rivoluzione industriale e, quindi, peravviarsi con successo sulla strada della moderna crescita econo-mica. Al momento dell’unificazione nazionale tale soglia era giàstata raggiunta da tutte le regioni del futuro triangolo industria-le, con in testa il Piemonte. Le principali regioni del Nec, guida-te dal Veneto, la supereranno tra il 1871 e il 1891, ma le Marchee l’Umbria dovranno attendere il volgere del secolo. Per il Sud Ita-lia occorrerà aspettare fino agli anni immediatamente precedentiil primo conflitto mondiale, con l’eccezione di due regioni, la Ba-silicata e la Calabria (che insieme all’Abruzzo erano anche quellecon il più basso reddito pro capite), per le quali bisognerà arriva-re addirittura al periodo fra le due guerre.
Alla vigilia del miracolo economico, nel 1951, i tre quartidella popolazione meridionale risultavano ormai alfabetizzati,perlomeno stando alle rilevazioni ufficiali; nel resto d’Italia talequota superava il 90%. In tutti i casi si trattava di percentualimolto ampie, al cui interno potevano celarsi differenze anchemarcate nei reali livelli di istruzione e di capitale umano, diffe-renze che il solo tasso di alfabetizzazione non era in grado diesprimere. Si aggiunga che con l’affermazione della seconda epoi della terza rivoluzione industriale erano aumentati la com-plessità del sistema tecnologico e quindi il livello di conoscenzeda esso richiesto: l’istruzione superiore e più tardi universitariaerano destinate a diventare non solo generalizzate, ma anche in-dispensabili.
Nell’elaborazione di un indicatore del livello di istruzionecomplessivo, questi cambiamenti andrebbero tenuti in conto. Ma,nel caso delle regioni italiane, entrano in gioco anche problemi direperibilità delle fonti, che impediscono di retrodatare il numerodi anni di istruzione, la misura meglio adatta ad esprimere il li-vello medio di capitale umano, anteriormente al 1951: i necessa-ri dati regionali10 vengono infatti riportati solo a partire da tale
10 Numero di alfabeti senza titolo di studio, dei possessori di licenza elemen-tare e di scuola media inferiore, dei diplomati e dei laureati. Per la procedura distima, cfr. FELICE E. (2007, p. 145).
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I divari regionali in Italia sulla base, etc.
anno, nei censimenti della popolazione che da allora si susseguo-no a scadenza decennale. Per tutto il periodo precedente si è fat-to ricorso al tasso di scolarità, per quanto questo sia un indica-tore di “flusso” del capitale umano (ovvero indipendente dalle os-servazioni precedenti), non di stock come invece gli anni di istru-zione e il tasso di alfabetizzazione (ed anche gli altri indicatorisociali). Un quadro riassuntivo degli indicatori di scolarità è pre-sentato nella tavola 7: per il 1871, il 1911 e il 1938 viene mostratoil tasso di scolarità totale; dal 1951 al 2001 è indicato sia l’anda-mento degli anni di istruzione pro capite, sia quello del tasso discolarità superiore e universitaria.
Come si può vedere, all’Unità il divario nel tasso di scolaritàtra le diverse aree del paese era molto elevato, paragonabile a quel-lo nei livelli di alfabetizzazione. Nel periodo liberale è diminuitopiuttosto lentamente, tenuto conto che si trattava di un dato diflusso e non di stock, ma fra le due guerre il recupero del Mez-zogiorno ha subito una accelerazione; va inoltre sottolineata l’a-scesa del Nec, che già nel 1938 presentava un tasso di scolaritàcomplessivo più alto del Nord-Ovest.
Se concentriamo l’attenzione sul solo tasso di scolarità supe-riore e universitaria, nel 1951 le differenze erano ancora a favoredel triangolo industriale; tuttavia durante il miracolo economicoil Mezzogiorno recupera anche in questo campo il suo svantaggiorispetto al resto del Paese — almeno stando alle rilevazioni uffi-ciali — mentre il Nec supera il Nord-Ovest, che dal 1971 finiscesotto la media nazionale. Nel 2001 anche il Sud Italia (con l’ec-cezione di Abruzzo e Sardegna) finisce di nuovo al di sotto dellamedia; a primeggiare è tutta l’area del Nec, ad eccezione di Ve-neto e Trentino-Alto Adige.
Nel seguire l’andamento dei tassi di scolarità occorrono tutta-via almeno due cautele. La prima rimanda al fatto che le rileva-zioni ufficiali non considerano la dispersione scolastica, in alcuneregioni molto elevata e comunque, in generale, maggiore nel Mez-zogiorno che nel Centro-Nord; non abbiamo una quantificazionedi questo fenomeno, possiamo solo fare supposizioni: i dati del pe-riodo liberale segnano un divario elevato che può far passare insecondo piano il problema di una sovrastima del Sud, ma in se-
guito, nella seconda metà del Novecento, compaiono alcuni risul-tati inaspettati (i più eclatanti sono i livelli molto alti della Cam-pania e della Sicilia nel 1951, ma anche il dato complessivo delSud Italia nel 1971) che forse non corrispondono alla situazionereale. Secondariamente, va tenuto presente che i divari nel tassodi scolarità universitaria possono avere scarso significato quandoandiamo a confrontare le regioni di uno stesso paese: la mobilitàinterregionale (dal Sud al Nord, ma anche dalle regioni più pic-cole verso quelle di maggiori dimensioni con atenei di richiamo)è diventata particolarmente intensa nelle ultime decadi del Nove-cento, ed ovviamente gli studenti meridionali iscritti nelle univer-sità del Centro-Nord o della Capitale mantenevano frequenti con-tatti (e in genere la residenza) nelle regioni di provenienza, dovespesso hanno fatto ritorno una volta terminati gli studi.
L’utilizzo degli anni di istruzione pro capite consente comun-que di ovviare anche a simili problemi, sia quelli della dispersio-ne scolastica, sia quelli legati alla mobilità universitaria. Ancoranel 1951 l’indicatore ci segnala un divario Nord-Sud molto eleva-to, più alto di quello nell’alfabetizzazione. Divario che però con-tinua a ridursi durante tutta la seconda metà del Novecento, nonsolamente negli anni cinquanta e sessanta, quindi, ma anche nelperiodo successivo, quando invece il tasso di scolarità superioredel Mezzogiorno arretra rispetto al resto d’Italia. Tale contraddi-zione costituisce una riprova del fatto che la mobilità universita-ria può avere effettivamente un forte peso nello sfasare i dati sultasso di scolarità; come confermato peraltro dai casi del Trenti-no-Alto Adige e della Val d’Aosta, territori relativamente piccolicon molti studenti fuori regione e che infatti, nonostante il bassotasso di scolarità universitaria, presentano un numero di anni diistruzione pro capite al di sopra della media. Anche da questo in-dicatore traspare l’ascesa del Nec rispetto al Nord-Ovest, sebbenecon minore vigore rispetto al tasso di scolarità, trattandosi di unavariabile di stock (che riflette anche la situazione pregressa). Sirinnovano anche le dinamiche differenziate all’interno del Nord-Est-Centro: si noti in particolare il declino del Veneto, che nel1871 era la regione del Nec con i più elevati livelli di istruzione,ma che al 2001 si ritrova al di sotto della media nazionale.
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7).
A causa della frammentarietà dei dati, per costruire un indi-catore di sintesi dell’istruzione regionale occorre adottare un cri-terio di composizione variabile, che sia anche coerente nel tem-po. Se dal 1951 in avanti si possono utilizzare gli anni di istru-zione, per il periodo precedente si rende inevitabile ricorrere aduna combinazione del tasso di alfabetizzazione e del tasso di sco-larità; per esigenze di comparabilità temporale, si renderà poi ne-cessaria una procedura di passaggio “morbido” dal 1938 al 1951,ad esempio mantenendo una quota per il tasso di alfabetizzazio-ne anche nel periodo del secondo dopoguerra, se pure in dimi-nuzione.
Può essere utile guardare al modo in cui il livello di istru-zione viene stimato nel calcolo dell’indice di sviluppo umano, dicui come accennato costituisce una delle tre componenti. Nellaformula tradizionale è stato assegnato un peso di due terzi al tas-so di alfabetizzazione e di un terzo a quello di scolarità. Questametodologia può andare bene quando si tratti di confrontare pae-si diversi, in un arco di tempo omogeneo o relativamente limita-to, come avviene nei report a scadenza periodica pubblicati dalleNazioni Unite. Nel nostro caso sarebbe invece più coerente attri-buire alle singole misure un peso variabile nel tempo, facendo di-minuire la quota del tasso di alfabetizzazione: come accennato,l’importanza delle componenti dell’istruzione si modifica a secon-da dei periodi storici e quella dell’alfabetizzazione tende a ridur-si, anche perché finisce per raggiungere in tutte le regioni la qua-si totalità della popolazione.
In linea con questa impostazione, nel nostro caso al tasso dialfabetismo viene assegnato un peso del 100% nel 1871, quandole stime sul tasso di scolarità sono comunque più incerte, dei dueterzi nel 1891 e nel 1911, del 55% nel 1938 e quindi del 50% nel1951; dal 1951 la quota viene diminuita di cinque punti ogni die-ci anni, scendendo quindi al 25% nel 2001. Per la restante parte(che sale da un terzo nel 1891/1911 fino ai tre quarti nel 2001),per il 1891, 1911 e 1938 viene utilizzato il tasso di scolarità; dal1951 in avanti il numero di anni di istruzione. I risultati di que-ste operazioni sono riportati nella tavola 8.
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L’andamento coincide con quanto visto nelle precedenti tabel-le. Il recupero del Sud Italia prosegue a ritmi sostenuti fino a tut-ti gli anni settanta. Nelle ultime due decadi la convergenza frenama, a differenza di quanto accade nel reddito o nella speranza divita, il processo non si arresta. Nel Centro-Nord il primato del Nord-Ovest viene eroso pressoché incessantemente; tuttavia è solo negliultimissimi anni che tale area viene sostanzialmente eguagliata dalNec. All’interno di quest’ultimo si delineano comunque andamentidifferenziati: spicca soprattutto il declino del Veneto, a fronte del-l’ascesa di Emilia-Romagna, Marche e Umbria. Ancora più marca-to risulta, nel Nord-Ovest, l’arretramento speculare del Piemonte,regione che nell’Ottocento era la più avanzata d’Italia.
Vale forse la pena sottolineare come, nella seconda metà del-l’Ottocento, per quel che riguarda i livelli di istruzione esistesse-ro sostanzialmente tre Italie, grosso modo corrispondenti alla ri-partizione per macro-regioni qui adoperata: ovvero il Nord-Ovest,il Nord-Est-Centro e il Mezzogiorno. Nonostante il recupero con-seguito da quest’ultimo, il suo divario non viene del tutto colma-to. Non così per il Nec, di modo che al volgere del nuovo mil-lennio le Italie diventano due: il Centro-Nord nel suo complesso,cui in parte è accostabile anche l’Abruzzo, e sull’altro versante ilMezzogiorno.
5. - L’indice di sviluppo umano
L’indice di sviluppo umano, o Hdi (Human Development Index),elaborato all’inizio degli anni novanta grazie soprattutto agli studidel premio Nobel Amartya Sen (Sen, 1984 e 1992; Anand - Sen,1993) e presto fatto proprio dalle Nazioni Unite (United Nations,1994), ha riscosso un successo che non trova eguali fra le misuredi benessere alternative al reddito. Non sono mancate tuttavia cri-tiche stringenti, sotto certi aspetti prevedibili, sulle quali ci soffer-meremo più avanti. L’Hdi è un indicatore composito, che in quan-to tale incorpora tre dimensioni diverse del benessere: le risorse (re-sources), misurate con il reddito pro capite, l’aspettativa di vita (lon-gevity) e la conoscenza (knowledge, o education), quest’ultima ap-
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prossimata — come abbiamo visto — da altri due indicatori, il tas-so di alfabetismo e quello di scolarità. Nella formula tradizionale,le tre dimensioni vengono conteggiate attraverso una semplice me-dia aritmetica, in cui ognuna è pesata per un terzo. Poiché l’Hdi èun indice normalizzato, il cui campo di variazione può andare da0 a 1, nei casi del reddito e dell’aspettativa di vita sono state intro-dotte una soglia minima e una massima (100 e 40.000 dollari in-ternazionali 1990 per il reddito, 25 e 85 anni per la speranza di vi-ta11) per normalizzare i singoli valori; inoltre il reddito viene espres-so in forma logaritmica, assumendo quindi rendimenti decrescenti:ovvero, mano a mano che la ricchezza si avvicina alla soglia mas-sima, diminuisce il beneficio marginale di un’unità aggiuntiva.
L’Hdi si è affermato soprattutto fra gli economisti che ana-lizzano le problematiche dei paesi in via di sviluppo. L’utilizzo daparte degli storici economici, per confrontare nel tempo le perfor-mance dei paesi industrializzati, ma anche più in generale per ri-discutere la relazione fra crescita e benessere, è stato invece as-sai più sporadico; in questo campo i punti di riferimento sono ilavori, per certi versi ancora preliminari, ad opera di NicholasCrafts (1997) e di Leandro Prados de la Escosura (2004 e 2006).Per l’Italia la base di partenza è il citato working paper di Conte,Della Torre e Vasta (2001), recentemente aggiornato, in cui allastima nazionale dell’Hdi si affianca quella per macro-aree (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro e Sud); in esso sono stati calcolati per laprima volta i divari regionali nella speranza di vita a partire dal1871. Grazie alle nuove stime del reddito regionale per anni ben-chmark dal 1891 al 1951 (Felice, 2005a e 2005b), ed a quelle deilivelli di istruzione mostrate nel paragrafo precedente, recente-mente è stato possibile pervenire ad una valutazione più affida-bile anche dell’indice di sviluppo umano regionale, dal 1891 al2001 (Felice, 2007, p. 152)12. I risultati sono mostrati nella tavo-la 9, che riporta anche una stima per il 1871 limitata alle macro-
11 Per i tassi di alfabetismo e di scolarità, che sono valori percentuali e quin-di già normalizzati, si suppone che tali soglie siano 0 e 100.
12 Nel mio caso si è reso necessario introdurre una soglia massima e una mi-nima anche per gli anni di istruzione, fissate rispettivamente a 12 e a 2 anni distudio (come abbiamo visto, gli analfabeti vengono conteggiati a parte).
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aree del Centro-Nord e del Sud Italia, realizzata grazie alla rico-struzione del reddito pro capite da parte di Vittorio Daniele e Pao-lo Malanima pubblicata su questa rivista.
In termini di “sviluppo umano” dall’Unità al secondo conflit-to mondiale il Sud Italia si avvicina ai valori del Centro-Nord: ilmiglioramento si verifica nonostante il contemporaneo aumentodei divari di reddito, ed è quindi interamente riconducibile all’i-struzione e all’aspettativa di vita. Questo processo di convergenzaappare più difficoltoso nelle prime due decadi postunitarie, in se-guito, quando anche l’aspettativa di vita converge, più spedito. Du-rante il miracolo economico, in cui si assiste ad un miglioramentorelativo anche nel reddito pro capite, la convergenza accelera ul-teriormente; e prosegue perfino negli anni settanta, nonostante ilrecupero sul versante del reddito nel frattempo si arresti. Nelle ul-time due decadi del secolo scorso il tasso di convergenza appareinvece molto più lento, attribuibile esclusivamente alla compo-nente dell’istruzione.
Rimane un dato di fondo: il significativo percorso di conver-genza del Sud Italia dal 1871 al 1981. Si è trattato, tuttavia, di unprocesso di modernizzazione che può essere definito di tipo “pas-sivo”: per quel che riguarda gli indicatori sociali, ma in verità an-che con riferimento al reddito, perlomeno stando all’importanzache hanno assunto gli interventi industriali top-down realizzatidalla Cassa per il Mezzogiorno soprattutto negli anni sessanta. Oc-corre aggiungere che nelle ultime due decadi, dal 1981 al 2001, ilprocesso si è praticamente arrestato, a causa dell’arretramento re-lativo del Mezzogiorno nel reddito e nell’aspettativa di vita; la-sciandoci, ancora nel 2001, un divario non irrilevante. A tale pro-posito giova considerare che nel mondo “sviluppato” esiste ormaiuna notevole omogeneità nei livelli di Hdi, con una differenza mas-sima che fra i primi venti paesi supera di poco i tre punti per-centuali. Preso separatamente, il Mezzogiorno sarebbe al di fuoridel gruppo dei paesi di testa; il suo dato contribuisce a peggiora-re significativamente la posizione dell’Italia nel suo insieme, chenel 1999 figura appena ventesima nell’indice di sviluppo umano,mentre è diciottesima per reddito pro capite (United Nations, 2001).
La tendenza ad appiattire le differenze è uno dei problemi più
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seri evidenziati dai critici dell’Hdi; nel caso italiano essa può alte-rare la reale entità del processo di convergenza del Sud Italia, fa-cendola apparire maggiore. Questo appiattimento si verifica per di-verse ragioni. Primo, nella formula di calcolo dell’Hdi il redditoviene espresso in forma logaritmica; come accennato, con questaprocedura al crescere del reddito diminuisce il suo contributo mar-ginale: poiché nel tempo il reddito pro capite aumenta in terminiassoluti, con riferimento a questa componente i divari tendono aridursi pur a prescindere dal delinearsi o meno di un processo diconvergenza. Restano le due componenti misurate da indicatori so-ciali, education e longevity. Anche nell’istruzione i divari si con-traggono, ad esempio perché nel corso del Novecento il tasso dialfabetizzazione raggiunge ovunque, nei paesi sviluppati, soglie vi-cino alla totalità della popolazione (ma nel nostro caso questo pro-blema è ridimensionato dalla procedura di calcolo adottata, che ri-duce il peso dell’alfabetizzazione). Nella speranza di vita, all’inter-no del mondo sviluppato i divari risultano meno elevati che nelreddito e nell’istruzione, se non altro per il fatto che la soglia mi-nima è ben più alta dei 25 anni di età; ma per la verità questo ef-fetto si produce anche nel più ampio contesto mondiale: la cre-scita economica ha avuto inizio prima di quella nell’aspettativa divita, ma questa si è poi diffusa più rapidamente, grazie alla pro-gressiva affermazione di nuovi metodi di prevenzione, di efficacivaccini e adeguati medicinali (Easterlin, 1999; Nicolini, 2004).
Per le componenti sociali, il problema può essere in parte ri-solto introducendo la trasformazione logaritmica qui utilizzata perle altezze e l’aspettativa di vita (tavole 2 e 4): una procedura che,come abbiamo visto, in questi casi aiuterebbe ad evidenziare me-glio i divari. Vi è tuttavia una seconda critica di ordine metodo-logico, che stigmatizza la “sostituibilità” fra le componenti del-l’Hdi: occorrerebbe quindi trovare una soluzione in grado di ga-rantire che ognuna delle tre dimensioni risulti parimenti crucialenella determinazione dell’indice finale. La trasformazione logarit-mica può aiutare in questo senso (Desai, 1991), ma ancora più ef-ficace risulterebbe l’uso della media geometrica in luogo di quel-la aritmetica (Sagar - Najam, 1998): con la media geometrica, unmiglioramento nell’indice di sviluppo umano si otterrebbe solo se
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crescessero tutte e tre le sue componenti; l’Hdi sarebbe davveroun indicatore di sintesi, e non la mera somma di misure fra loroindipendenti.
Su queste due modifiche, la trasformazione logaritmica e lamedia geometrica, si è incentrata la nuova formula dell’ImprovedHuman Development Index (IHdi, indice di sviluppo umano “mi-gliorato”), proposto da Leandro Prados de la Escosura (2004 e2006) a partire dalla modellizzazione di Kakwani (1993). L’IHdimantiene la semplicità e l’eleganza formali che sono probabil-mente tra i maggiori elementi di successo dell’Hdi. Anche per que-sta ragione tale strada appare preferibile ad altre, pure intraviste,come ad esempio quella di modificare i pesi relativi delle singolecomponenti per tenere conto dei cambiamenti rilevati nelle fasistoriche o fra i paesi (Srinivassan, 1994): in questo caso ci sem-bra che le ipotesi necessarie siano difficilmente generalizzabili edi discutibile traducibilità sul piano matematico.
Nell’IHdi la trasformazione logaritmica è quindi applicata nonsolo per il reddito ma anche per le due componenti sociali, man-tenendo (per le regioni italiane) le stesse soglie dell’Hdi13; in que-sti casi la formula è la stessa di quella utilizzata nella tavola 4 peril calcolo dei divari nell’aspettativa di vita. I pesi delle singole com-ponenti restano immutati, ma l’indicatore di sintesi è ottenuto at-traverso la media geometrica. I risultati sono mostrati nella tavo-la 10.
Quali sono le differenze più importanti fra i due indicatori disviluppo umano? In generale l’IHdi presenta un valore assolutomeno elevato, ma maggiori tassi di crescita o di diminuzione: èquindi più sensibile ai cambiamenti, meglio adatto a cogliere ledifferenze nel trend, rispetto all’Hdi che risulta invece più “stati-co”. Da questa caratteristica di fondo, e dal fatto che l’IHdi espri-me il movimento “sinergico” delle tre componenti, derivano an-che le principali novità nell’andamento dei divari regionali.
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I divari regionali in Italia sulla base, etc.
13 Prados de la Escosura spostava le due soglie per l’aspettativa di vita a 20 e80 anni: il motivo principale era la necessità di adeguarsi ai valori del campione in-ternazionale, dove il dato minimo era 24 e il massimo 78,8. Non è questo il nostrocaso, in cui il minimo è 29,1 e il massimo 81,3 (si torni alla tavola 3): pertanto lesoglie massime e minime restano immutate, rispettivamente a 25 e 85 anni.
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Con l’IHdi dal 1871 al 1891 la posizione del Sud Italia peg-giora: la sola convergenza nell’istruzione non basta, infatti, a com-pensare il contemporaneo arretramento nel reddito e nella spe-ranza di vita. Per contro si evidenzia una crescita del Sud Italiaun po’ più elevata nel periodo 1891-1911: in questa fase, infatti,la posizione relativa del Mezzogiorno, oltre a migliorare per quelche riguarda l’aspettativa di vita e l’istruzione, sembra tutto som-mato tenere in termini di reddito pro capite. Il processo di con-vergenza del Sud Italia è più intenso anche durante gli anni 1911-1938, quando i divari sociali mostrano una più accentuata ten-denza alla riduzione grazie alla trasformazione logaritmica. Percontro si registra un più marcato peggioramento durante il pe-riodo 1938-1951, in cui il Sud Italia avanza leggermente solo nel-l’aspettativa di vita, mentre arretra nell’istruzione e nel reddito. Laconvergenza è di nuovo più elevata negli anni cinquanta, grazieal simultaneo miglioramento di tutte e tre le componenti; questoeffetto si ripete, in misura minore, anche nel decennio successi-vo. Nelle ultime tre decadi l’andamento dei due indicatori è inve-ce sostanzialmente analogo, solo leggermente più pronunciato nelcaso dell’IHdi.
Nell’insieme, con la nuova formula il Sud Italia parte da unaposizione peggiore nel 1871 e si attesta ugualmente, nel 2001, suun punteggio più basso: tuttavia dal 1891 in poi converge più ve-locemente. L’IHdi conferma e rafforza le principali conclusioni chegià si potevano trarre dall’analisi dell’indicatore standard: ovveroil recupero del Sud Italia fino agli anni settanta del Novecento eil rallentamento successivo; inoltre il fatto che tale processo siastato insufficiente a colmare i divari, i quali al 2001 rimangonorelativamente elevati. L’arretramento del Sud Italia fra il 1871 e il1891 risulta invece in linea con quanto emergeva non solo dai da-ti sul reddito e sulla speranza di vita, ma anche da quelli sulle al-tezze, configurandosi quindi come un risultato più attendibile diquello dell’Hdi. Anche alcuni trend di singole regioni vengono adelinearsi meglio: più accentuato, ad esempio, è il distacco che siproduce fra l’Abruzzo e il resto del Mezzogiorno, con il primo chenel 2001 finisce addirittura leggermente al di sopra della medianazionale.
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I divari regionali in Italia sulla base, etc.
Forse ancora più importanti sono le conferme per quel cheriguarda l’andamento dei divari all’interno del Centro-Nord. An-che qui il trend di fondo si presenta accentuato, in particolare conriferimento al miglioramento del Nec rispetto al Nord-Ovest: tan-to che nel corso dell’ultima decade si realizza il sorpasso, cosic-ché nel 2001 il Nord-Est-Centro appare più avanzato in terminidi sviluppo umano. Un dato, questo, che non emergeva in basealla formula tradizionale.
6. - Uno sguardo di sintesi
Nella tavola 11 vengono riportati i tassi medi annui di con-vergenza del Mezzogiorno per i quattro principali indicatori so-ciali (speranza di vita, istruzione, Hdi e IHdi), nei diversi periodistorici. Elaborato in base ai dati dei precedenti paragrafi, il gra-fico 1 mostra un quadro d’insieme sull’evoluzione del divarioNord-Sud, con linee di tendenza di lungo periodo.
Sulla parte più a sinistra del grafico, che corrisponde all’epo-ca dell’Italia liberale (1871-1911), risalta il forte avvicinamento neilivelli di istruzione, a fronte della sostanziale stazionarietà dei di-vari nella speranza di vita e nelle altezze. Ma il trend della spe-ranza di vita può essere diviso in due fasi distinte: quella dal 1871al 1891, in cui si produce addirittura una divergenza; gli anni dal1891-1911 che segnano un’inversione di rotta, la quale si accen-tua nelle decadi successive. Fra il 1891 e il 1911 anche negli in-dici di sviluppo umano si può osservare una certa convergenza,che invece, come abbiamo visto, è alquanto incerta per le decadiprecedenti.
Gli anni dal 1911 al 1938 sono quelli di maggiore conver-genza, sia nella speranza di vita che nell’istruzione; il recuperoin termini di sviluppo umano è abbastanza elevato, ma frenato,soprattutto nel caso dell’IHdi, dalla forte divergenza di reddito.La congiuntura favorevole subisce una brusca rottura nel perio-do 1938-1951, in coincidenza con la seconda guerra mondiale;se si ipotizzasse un effetto simile anche per la guerra del 1915-18, ne deriverebbe una convergenza del Mezzogiorno durante
RIVISTA DI POLITICA ECONOMICA MARZO-APRILE 2007
396
gran parte del periodo fascista ancora maggiore di quanto nontraspaia dai dati esibiti (ma solo negli indicatori sociali, non nelreddito).
L’arretramento del 1938-51 è comunque solo temporaneo; l’a-scesa del Sud Italia riprende negli anni del miracolo economico,dal 1951 al 1971. In questa fase i tassi di convergenza nella spe-ranza di vita e nell’istruzione sono ancora sostenuti, mentre quel-lo dell’indice di sviluppo umano, in particolare nella sua versio-ne “migliorata”, sale al suo massimo storico: è questo infatti l’u-nico periodo in cui si verifica un sostanzioso recupero del SudItalia anche in termini di reddito pro capite. Gli anni settanta se-gnano una frenata; stiamo entrando nella fase discendente dellacurva, sebbene vada sottolineato come anche in tale decennio ilrecupero del Mezzogiorno negli indicatori sociali risulti ben mar-cato, a differenza che nel reddito. Nell’ultimo ventennio del se-colo subentra invece una fase di stagnazione, che per la speran-za di vita equivale addirittura ad un arretramento in termini re-lativi.
Ad un’analisi di lungo periodo, ci sembra che la categoriadella convergenza, non valida per il reddito, si possa senz’altroapplicare all’andamento degli indicatori sociali; merita attenzio-ne soprattutto il recupero nei livelli di istruzione, almeno stan-do alle misure qui adoperate. Resta però il fatto che, anche ne-gli indicatori sociali, nelle ultime due decadi del Novecento siverifica un vistoso rallentamento. L’ipotesi suggerita per dareconto della convergenza attuata dal Sud Italia, quella della mo-dernizzazione passiva, potrebbe risultare utile, di riverso, ancheper spiegare l’arresto del processo; benché in quest’ultima faseprenda risalto soprattutto il reddito, a sua volta componente del-l’indice di sviluppo umano. Stando a tale interpretazione, il Mez-zogiorno si sarebbe limitato a beneficiare passivamente, ed an-che per la verità con un certo ritardo (che si è tradotto in untasso di convergenza solo in virtù delle più basse condizioni dipartenza), dei miglioramenti verificatisi su scala nazionale, espesso prodotti in ambito internazionale; nei periodi di maggio-re difficoltà del quadro di contesto — in Italia gli anni settantae novanta del Novecento e ancora di più quelli della seconda
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guerra mondiale — la convergenza in base alla modernizzazio-ne passiva viene meno.
Il discorso ovviamente non andrebbe concluso qui. Resta in-fatti da chiedersi — ed è tema cruciale — per quale ragione, no-nostante un processo di convergenza così intenso, e di duratasecolare, il Mezzogiorno rimanga comunque intrappolato neimeccanismi della modernizzazione passiva, incapace di avviar-si lungo un autonomo percorso di crescita. Il passaggio da sog-getto “passivo” a soggetto “attivo” dello sviluppo è riuscito percerti versi al Nord-Est-Centro già nella prima metà del Nove-cento, e in tempi recenti persino ad alcuni limitati territori me-ridionali, ma non al Sud Italia preso nel suo insieme. Di fron-te ad un simile fallimento, che non sarebbe azzardato definireepocale, diverse sono le spiegazioni proposte. Quelle che verto-no sul capitale sociale (che quindi chiamano in gioco la crimi-nalità organizzata) paiono indubbiamente le più convincenti. Manon è questa la sede per riproporle. Qui ci si limita a rimarca-re come anche dal fondamentale versante degli indicatori socialie dello sviluppo umano il Mezzogiorno, nonostante il grande re-cupero pur conseguito, sembri impantanato tra i vincoli delladipendenza.
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TAV. 11
TASSI ANNUI DI CONVERGENZA (O DIVERGENZA)DEL MEZZOGIORNO RISPETTO AL CENTRO-NORD
Speranza di vita Istruzione HDI IHDI
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Nota: i tassi di divergenza hanno segno negativo.
7. - Linee conclusive
Solo in tempi recentissimi per le regioni italiane è stato pos-sibile giungere ad una ricostruzione storica articolata dei princi-pali indicatori sociali. Con riferimento al periodo che va dalla se-conda metà dell’Ottocento al miracolo economico, se i dati regio-nali sull’istruzione erano facilmente reperibili e da tempo oggettodi analisi, quelli sulla speranza di vita si sono resi disponibili so-
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Altezze Speranza di vita IstruzioneHDI IHDI
Lineare (HDI)Lineare (Speranza di vita)
Lineare (Istruzione) Lineare (IHDI)
Nota: nella parte superiore del grafico sono riportati i dati per il Centro-Nord, inquella inferiore i dati per il Sud e isole (su Italia = 1); come da tavole 2, 4, 8, 9,10. Per il Sud e isole è riportata anche la linea di tendenza (lineare), ad eccezio-ne che nel caso delle altezze.
GRAF. 1
EVOLUZIONE DEL DIVARIO NORD/SUD NEGLI INDICATORISOCIALI (ITALIA=1)
lamente nel 2007, consentendo in tal modo di pervenire a plausi-bili stime sull’indice di sviluppo umano, una misura compositacostituita in parti uguali da reddito, istruzione e speranza di vita;i dati sulla statura media, che possono fornire indicazioni sui li-velli nutrizionali e in via più indiretta sulla distribuzione della ric-chezza fra le classi sociali, vengono presentati per la prima voltain questa sede, limitatamente agli anni dall’Unità all’epoca fasci-sta.
Dal quadro d’insieme che forniscono questi parametri — al-tezze, speranza di vita, istruzione e indice di sviluppo umano —emerge un percorso di convergenza del Sud Italia verso il Cen-tro-Nord di durata quasi secolare: avviatosi con decisione nelleultime decadi dell’Ottocento, esso prosegue per buona parte delsecolo successivo, nonostante l’arretramento subito con la secon-da guerra mondiale, per arrestarsi solamente negli anni ottantae novanta. Questo avvicinamento verificatosi sul versante degliindicatori sociali contrasta con quanto accaduto dal lato reddi-tuale, dove invece si assiste ad un aumento dei divari per tuttoil periodo che va dall’Unità al secondo dopoguerra, e ad una si-gnificativa convergenza soltanto negli anni del miracolo econo-mico.
La categoria interpretativa della “modernizzazione passiva”proposta da Luciano Cafagna appare la più consona per dare con-to degli avanzamenti del Mezzogiorno nel campo sociale, forse piùdi quanto essa non lo sia relativamente al reddito. Il Sud, comegià detto, si sarebbe semplicemente avvantaggiato dei migliora-menti del quadro generale, nazionale ed anche internazionale (perquel che riguarda, ad esempio, l’estensione dell’istruzione obbli-gatoria e di base, oppure la diffusione delle pratiche e delle in-frastrutture igieniche e sanitarie); ne avrebbe beneficiato “passi-vamente”, ovvero senza particolare reattività da parte di autono-mi soggetti locali, ed anzi con una certa lentezza, dovuta a con-dizioni endogene di ordine istituzionale e culturale. E tuttavia uncomplessivo processo di convergenza su questo versante si è co-munque realizzato, stante i bassi livelli di partenza.
Al di là di poche eccezioni, il Sud Italia, nonostante i pro-gressi compiuti, non sembra uscito da questa condizione di di-
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pendenza, in ciò differenziandosi, per avere un confronto più di-retto, dalle regioni del Nec. Si spiegherebbero in tal modo tantol’arretramento verificatosi in occasione del conflitto mondiale,quanto la sostanziale stagnazione subentrata nelle ultime due de-cadi del Novecento. Anche a causa di queste battute d’arresto, laconvergenza negli indicatori sociali si presenta dunque parziale edinsufficiente: il divario Nord-Sud resta a tutt’oggi elevato, speciese confrontato con le ridottissime differenze riscontrabili in que-sto campo all’interno del mondo più avanzato.
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