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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PAVIA FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA IN PSICOLOGIA I CORRELATI PSICOLOGICI DELLA DISOCCUPAZIONE Relatore: Chiar.mo Prof. Piergiorgio ARGENTERO Correlatore: Chiar.mo Prof. Eliano PESSA Tesi di Laurea di Chiara AIELLO Anno Accademico 2004 - 2005

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PAVIA

FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA

CORSO DI LAUREA IN PSICOLOGIA

I CORRELATI PSICOLOGICI DELLA DISOCCUPAZIONE

Relatore: Chiar.mo Prof. Piergiorgio ARGENTERO Correlatore: Chiar.mo Prof. Eliano PESSA

Tesi di Laurea di Chiara AIELLO

Anno Accademico 2004 - 2005

Alla mia mamma, che mi ha insegnato a camminare da sola,

stando comunque al mio fianco.

Ad Andrea, che amo da sempre, perché tutto è iniziato

con te, perché scommetterei su di noi infinite volte, senza aver mai paura di perdere.

I CORRELATI PSICOLOGICI DELLA DISOCCUPAZIONE

Indice generaleINTRODUZIONE................................................................................................................................ 4 Capitolo 1 – Il ruolo psicosociale del lavoro .................................................................................... 9

1.1Evoluzione storica del concetto di lavoro .................................................................................. 9 1.2L’interpretazione psicosociale del lavoro ................................................................................ 11 1.3L’employment commitment ..................................................................................................... 17 1.4Studi sul rapporto fra personalità e lavoro ............................................................................... 19

Capitolo 2 – Primi studi psicosociali sulla disoccupazione ........................................................... 24 2.1 La disoccupazione: inquadramento storico ............................................................................. 24 2.2 I mille volti della disoccupazione ............................................................................................ 28 2.3 La percezione sociale della disoccupazione ............................................................................ 34 2.4 Le prime ricerche empiriche sulla disoccupazione ................................................................. 40

Capitolo 3 – Disagi e fattori modulatori della disoccupazione .................................................... 49 3.1 La disoccupazione come evento di vita................................................................................... 49 3.2 I fattori colpiti dalla disoccupazione ....................................................................................... 56

3.2.1 Il benessere psicofisico .................................................................................................... 58 3.2.2 Le strategie di coping ...................................................................................................... 65 3.2.3 Il Locus of control ........................................................................................................... 66

3.3 I fattori modulatori del disagio ............................................................................................... 71 3.3.1 Caratteristiche socio-anagrafiche .................................................................................... 71

3.3.2 Le risorse sociali................................................................................................................... 76 3.3.3 Il ruolo dell’employment commitment............................................................................ 78

Capitolo 4 – Disoccupazione e percezione di sé............................................................................. 80 4.1 Identità e calo dell’autostima .................................................................................................. 80 4.2 Autopercezione ....................................................................................................................... 84 4.3 Eteropercezione ....................................................................................................................... 88

PARTE SECONDA – La ricerca sperimentale ............................................................................. 90 Introduzione .................................................................................................................................. 90 1.1 Obiettivi generali..................................................................................................................... 90 1.2 Ipotesi...................................................................................................................................... 91 1.3 Metodo .................................................................................................................................... 91

1.3.1 Campione ......................................................................................................................... 92 1.3.2 Strumenti ....................................................................................................................... 100 1.3.3 Procedura ....................................................................................................................... 104 1.3.4 Analisi dati..................................................................................................................... 105

1.3.5 Correlazione tra le variabili............................................................................................ 109 1.3.6 Risultati e discussione ............................................................................................... 110

1.4 Conclusioni .......................................................................................................................... 113 ABSTRACT.................................................................................................................................... 115 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ............................................................................................. 116 APPENDICE A .............................................................................................................................. 124 APPENDICE B: ............................................................................................................................. 125 APPENDICE C .............................................................................................................................. 126 Appendice D.................................................................................................................................... 127

INTRODUZIONE

Le proporzioni che sta assumendo il fenomeno della disoccupazione, rendono

interessante un approccio di studio che vada oltre lo stretto inquadramento

socio-economico, che riesca a toccare una sfera più profonda della persona,

mettendo in evidenza come la condizione di “senza lavoro” modifichi

necessariamente il benessere generale dell’individuo.

I mass media contribuiscono a portare l’attenzione sulla tragicità della vita di

persone che si trovano improvvisamente disoccupate, o che vivono in modo

continuativo questa realtà.

Molte volte si legge di casi drammatici, di famiglie spezzate, tutte queste storie

sono caratterizzate da una sofferenza di fondo, un disagio che accomuna tutti i

coinvolti in un problema che ormai ha preso le caratteristiche di una piaga

sociale, e non solo in Italia.

Il nostro è uno dei paesi ai primi posti di questa classifica negativa, mostrando

drammatiche peculiarità, come ad esempio la netta differenza tra le realtà del

nord e del sud.

E’ per questo che la disoccupazione ed i fenomeni ad essa correlati devono

essere osservati a 360 gradi, per poter apportare contributi significativi alla

comprensione di uno dei problemi che maggiormente colpiscono al cuore

l’Italia.

Dalla grande crisi degli anni ’30, fino alla nuova recessione, avvenuta negli

anni ’80, gli studi psicologici hanno subito un declino, tuttavia recentemente

hanno ripreso forza con un taglio più moderno.

Infatti mentre negli anni trenta quello che maggiormente risaltava era l’estrema

condizione di povertà degli individui, ai quali non era quasi garantita neppure la

sopravvivenza, oggi grazie all’evoluzione del sistema di previdenza sociale

vengono assicurati almeno gli standard minimi di vita.

Si ha così la possibilità di concentrarsi sugli aspetti riguardanti il benessere

psicologico del disoccupato, portando a galla tutta una serie di problematiche

psicosociali correlate alla suo stato di inattività che in passato erano state

trascurate.

Le osservazioni di Lazarsfeld a livello europeo, e di Gatti a livello nazionale,

sulle prime forme disoccupazionali e sui primi fenomeni di “distress”

psicologico fanno emergere chiaramente una realtà decisamente problematica.

Da questo presupposto possono trovare spiegazione tutti quei fatti di cronaca,

gravi e meno gravi, che portano costantemente l’attenzione sul fenomeno.

Gli studi sulla disoccupazione evidenzieranno come il disagio sia in grado di

generare nell’individuo una spirale di learned-helplessness, di tentativi falliti e

conferme della propria inadeguatezza, di perdita delle proprie sicurezze, che

generano un progressivo isolamento sociale e una sempre più evidente tensione

nei rapporti familiari.

E’ comunque necessario tenere presente che, purché il tentativo sia quello di

descrivere un fenomeno il più possibile generalizzabile, non esiste un modo

unico di vivere il problema disoccupazione, ma esistono “tante disoccupazioni”

ognuna legata agli “eventi di vita” e alla caratteristiche di ognuno. (Depolo,

Sarchielli, 1998)

Per questo l’obiettivo di questa ricerca sta nel tentativo di estrarre dal

grandissimo numero di variabili individuali, che entrano in gioco nel vissuto del

disoccupato, quelle dimensioni comuni che rendano possibile una definizione

più generale del problema.

La ricerca analizzerà quindi, partendo dai primi approcci teorici, per arrivare

agli studi moderni, tutti quegli aspetti che riguardano il vissuto del disoccupato.

E’ necessario dedicare il primo capitolo ai significati del lavoro ed alla valenza

che esso ha nella vita di ogni individuo, poiché disoccupazione vuol dire, in

prima istanza, mancanza del lavoro stesso.

Inoltre i disagi psicologici che saranno analizzati nella nostra ricerca derivano

proprio dall’ assenza di questo prezioso strumento di crescita e di confronto

sociale.

Si è dunque voluto chiarire, per sommi capi, che cosa rappresenti il concetto di

lavoro e quali siano i suoi attributi.

Particolare importanza riveste il significato di emoployment commitment, che

riguarda la valenza positiva che il lavoro assume per la persona.

Una delle considerazioni più importanti che emerge, è che i disoccupati

attribuiscono al lavoro il medesimo valore degli occupati: sembrano così venire

a cadere idee preconcette per cui la disoccupazione colpirebbe persone meno

motivate al lavoro.

Si è voluto inoltre porre l’attenzione sulla crescente importanza che vanno

assumendo le caratteristiche intrinseche del lavoro, più che quelle meramente

economiche (A. Ahs and R. Westerling, 2005).

Nel secondo capitolo verrà fornito un inquadramento storico del fenomeno, da

quando negli anni ’30, dopo il crollo di Wall Street si comincia a parlare di crisi

economica mondiale, fino ai giorni nostri.

Da questo approccio storico si può trarre un quadro generale del problema, che

tuttavia non è sufficiente se non viene letto in chiave ecologica e psicologica.

E’ proprio l’insoddisfazione per una visione così schematica e limitata alle

conseguenze economiche che ha portato l’attenzione nella direzione più

“umana” della disoccupazione.

Si cercherà quindi di fare una panoramica sui primi studi in ambito

psicosociale, partendo da quello sul Marienthal, che fu promosso dall’istituto di

psicologia di Vienna, e compiuto, durante gli anni Trenta, a Marienthal, un

piccolo villaggio austriaco nel quale la chiusura di una filanda aveva causato,

per quasi tutti gli abitanti, la perdita del lavoro (Jahoda, Lazarsfeld e Zeisel,

1933).

Nel terzo capitolo si troverà il concetto di disoccupazione affiancato a quello di

"evento di vita"; ovvero la perdita del lavoro sarà descritta come un'esperienza

che distrugge la normale attività di un individuo, inducendo una profonda

trasformazione del suo equilibrio psichico.

Si parlerà quindi, a questo proposito, delle ricerche svolte a riguardo, che

valutano l'impatto della perdita o della mancanza di lavoro sul benessere

biopsicosociale di individui, famiglie e comunità.

Facendo riferimento alla letteratura che studia il benessere, andremo ad

osservare che la disoccupazione è sempre correlata con fattori negativi che

riguardano la personalità, il locus of control, la self-efficacy, e la capacità

utilizzare adeguate strategie di coping (Hammarström & Janlert, 2002, Holmes

e Werbel, 1992; Cuoco & Campbell, 1979;)

Si cercherà infine di descrivere i fattori in grado di moderare gli effetti negativi

di questi vissuti, come ad esempio l'età (Kulik, Liat, 2000), la classe sociale

(Creed, Peter A. 1,2; Klisch, 2005), il supporto sociale (T. Kieselbach, 2003).

Nel quarto capitolo verranno discussi i problemi legati alla crisi dell’identità e il

calo dell’autostima nel soggetto disoccupato.

Il concetto principale è quello di autostima , che viene considerata come il

fulcro della stima positiva che il singolo ha per se stesso.

Si vedrà come proprio l’autostima, in certe sue sfaccettature, risulti

pesantemente attaccata sia dalla condizione di disoccupazione, sia dal contorno

sociale e culturale (T. Kieselbach, 2003).

Si porrà inoltre l’attenzione su una teoria emersa da ricerche recenti, ovvero che

sia la percezione dell'individuo del proprio stato di disoccupazione, piuttosto

che la disoccupazione in quanto tale, a determinare un’influenza sul livello di

benessere generale.

Questa spiegazione concorda con la teoria secondo la quale la valutazione

personale dello stress vissuto è molto più importante dell'esistenza o meno dello

stress stesso (Latack ed altri, 1995; McKee-Ryan & Kinicki, 2002).

Possiamo affermare che in questa ricerca sono emerse quattro conclusioni

importanti sulla correlazione tra benessere psicofisico e disoccupazione.

In primo luogo, la centralità che il lavoro assume nella vita dell’individuo è

associata ad un benessere psicologico minore e scarsa soddisfazione generale

durante la disoccupazione.

Questi risultati sono confermati dalla teoria dell’identità (per esempio,

Ashforth, 2001).

In secondo luogo, strategie di fronteggiamento adeguate nell’affrontare gli

eventi di vita stressanti, sono fattori che promuovono il benessere durante la

disoccupazione.

I risultati indicano che le auto-valutazioni positive, la possibilità di ricorrere a

forme di supporto sociale e la possibilità di disporre di mezzi finanziari sono

collegati con un maggior benessere (per esempio, McKee-Ryan, Kinicki,2005

Blakely, Collings, Atkinson, 2003; Erez e Giudice, 2001; Giudice & Bono,

2001).

Inoltre gli individui disoccupati che tendono a vivere le proprie giornate con

una scarsa strutturazione del tempo hanno maggiori disagi (Jackson, 1999).

Il benessere psicologico infatti risulta più alto per coloro che possono disporre

di una strutturazione precisa della propria giornata (per esempio, Wanberg ed

altri, 1997).

In quarto luogo la ricerca attiva di lavoro può essere considerata un fattore di

protezione, infatti livelli elevati di benessere sono stati riscontrati fra coloro che

hanno cercato di controllare direttamente la loro condizione e di agire in prima

persona per risolverla (Kinicki et. al, 2000).

Capitolo 1 – Il ruolo psicosociale del lavoro

1.1 Evoluzione storica del concetto di lavoro

I diversi termini con cui è stato descritto il concetto di lavoro nelle varie lingue

ricordano spesso il concetto di fatica, sforzo, sofferenza.

I termini ponos, kopos, labor, lavoro così come il tedesco arbeiten, il russo

robotat, il francese travailler esprimono il senso di fatica e di pesantezza che

accompagnano l’attività lavorativa.

Nella lingua spagnola il vocabolo trabajo significava originariamente mettere al

mondo, essere partoriente ma alcune fonti lo riconducono al latino tripalium,

uno strumento di tortura composto di tre pali.

Non sorprende pertanto che in alcune regioni dell’Italia nordoccidentale e nelle

isole, il verbo travagliare sia ancora oggi impiegato per descrivere un lavoro

duro, faticoso, pericoloso.

Nel mondo antico prevaleva una concezione negativa dell’attività lavorativa,

intesa prevalentemente come attività manuale e considerata ora come

corrispettivo del dolore richiesto dagli Dei per concedere i beni agli uomini

(Senofonte), ora come elemento che soffoca l’intelligenza che deve essere

applicata a fini politici e speculativi (Aristotele), ora come elemento di

distrazione dalla vita contemplativa (Cicerone).

Bisogna arrivare al periodo rinascimentale per assistere ad un vero e proprio

cambiamento nella considerazione del lavoo, che diventa fondamento della

civiltà e del progresso (L.Battista Alberti); nel lavoro l’uomo trova la sua

autonomia ( Matteo Palmieri).

Proprio su queste basi possiamo rintracciare l’inizio di nuova società fondata

sul lavoro durante periodo della Riforma con l’affermazione del

Protestantesimo.

Una delle figure più importanti di questo periodo storico, e forte nemico

dell’inattività, è Lutero, che definiva il lavoro come servizio divino, affiancato

da Calvino che lo definiva come strumento di ascesi mondana diretto ad

instaurare il divino nel mondo.

La cultura etica protestante pretende una disciplina rigorosa , introduce una

dimensione religiosa in tutti gli ambiti di vita del credente , assegna al lavoro

un valore etico e considera la realizzazione professionale come dovere e virtù.

E’ proprio in questi precetti che il capitalismo trova così uno dei suoi

fondamenti nell’ obbligo e nella disciplina rigorosa del lavoro.

Nell’ambito filosofico si può evidenziare la posizione degli illuministi,

interpreti delle istanze borghesi, e che concepisce il lavoro in senso positivo,

enfatizzandone i valori morali e socia li.

Ad esempio per Voltaire lo sviluppo tecnologico esalta il progresso e l’attività

lavorativa considerata strumento privilegiato per sconfiggere i grandi mali

dell’umanità: la noia, il vizio, il bisogno.

Facendo un discorso più generale tutto l’idealismo moderno registra

un’esaltazione del lavoro.

Per Fichte è una missione religiosa dell’ uomo, per Hegel è strumento della sua

dignità.

Lo sviluppo capitalistico e lo sfruttamento porteranno a un ripensamento del

significato del lavoro.

Inizia così una teoria critica della società capitalistica che continuerà con la

scuola di Francoforte (T.W. Adorno, H. Marcuse, C.Fromm), che vedono la

realizzazione dell’uomo nel superamento dell’organizzazione industriale

capitalistica.

Per quel che riguarda il neo- idealismo italiano il lavoro è il tratto distintivo del

vivere umano, pur nell’impossibilità di eliminare il suo carattere gravoso.

Dice Benedetto Croce: “Non c’è altro modo di vincere la penosità del lavoro se

non di convertirlo da esterno in interno, da imposto in spontaneo, da forzato in

voluto, accettandolo e affezionandovisi come a qualcosa in cui si ritrova la

profonda soddisfazione del proprio essere migliore.

E quando da quel lavoro penoso si torna poi al lavoro congeniale, ci si sente sì

sgravati da un peso, ma anche dal peso del rimorso, nessuna società umana può

vivere senza disciplina interiore, senza entusiasmo morale che dia forza alla

disciplina senza sapersi rassegnare e sacrificare.”

1.2 L’interpretazione psicosociale del lavoro

Da qualche anno orma i si parla di fine della centralità del lavoro, molti hanno

definito l’epoca attuale post- industrialistica osservando che il

ridimensionamento dell’ industria e l’avanzamento del terziario sono andati di

pari passo con la liberazione di energie umane spend ibili nel tempo libero e nel

consumo culturale, in funzione di una diminuzione del tempo esistenziale

determinato dal lavoro.

Il lavoro non ha più quella funzione totalizzante che aveva per i nostri nonni e

forse per i nostri padri.

Si può capire perchè determinasse tutto il loro stile, il loro prestigio, il loro

ruolo sociale. Oggi copre un decimo della nostra vita, ma continua a pretendere

un ruolo centrale.

Nell’immaginario collettivo ognuno è ciò che fa: ma non ciò che fa

individualmente, o nelle tante ore passate in famiglia, con gli amici, con se

stesso, ma ciò che fa nelle poche ore spese al lavoro.

Una specie di "appiattimento dell’uomo sulla sua attività lavorativa, come se

questa fosse divenuta l’unico indicatore di riconoscibilità dell’uomo”

(Galimberti, 1998).

Certo è che se l’individuo viene riconosciuto solo per il lavoro che fa, quando

questo viene a mancare, egli stesso non vi si riconosce , né la società lo

riconosce più. (A. Ahs and R. Westerling, 2005)

E’ necessario anche tenere conto che nel lungo periodo di espansione degli

scorsi decenni, che sembrava assicurare condizioni di stabilità e benessere

economico, si andava consolidando un cambiamento sottocorrente di cui è stata

condotta una sistematica analisi qualitativa che coniò il termine “Rivoluzione

silenziosa” (Inglehart, 1977).

Rivoluzione che annoverava tra le sue caratteristiche uno spostamento dei

valori: da un’enfasi preponderante sul benessere materiale e sulla sicurezza

fisica, ad una maggior enfasi sulla qualità della vita, sull’autoespressione, sul

bisogno di appartenenza all’ambiente.

Contestualmente agli studi di Inglehart si sono sviluppate altre ricerche

longitudinali sui “Nuovi Valori” (Yanchelovich, 1974). Nel mondo del lavoro

si conosce sempre più l’importanza dei compensi non economici, come la

partecipazione alle decisioni, l’aspettativa e lo sforzo per un lavoro interessante

e significativo.

Il lavoro è diventato onnivoro, come se tutto il resto non contasse: come se non

contasse la famiglia, non contassero i rapporti politici, sociali.

L’ identità, specialmente quella giovanile, tende a fondarsi su ambiti diversi da

quello lavorativo: amicizie, famiglia, cultura.

Fenomeni come la disoccupazione endemica, la sottoccupazione e la

dequalificazione sono meccanismi sociali che tendono a spingere in ambiti

esterni alla sfera del lavoro i fattori di identificazione sociale.

Siamo forse in presenza di una pluralizzazione di significati.

Poiché le persone in una società complessa possono attingere da diverse fonti

per misurare la soddisfazione delle proprie aspettative il lavoro non è che una

fra di esse, anche se per molti collocato ancora in una posizione

gerarchicamente rilevante.

Ma soprattutto, il lavoro può servire a misurare dimensioni diverse: per alcuni il

reddito, per altri il prestigio, per altri la possibilità di auto-realizzarsi, per altri

infine opportunità di contatti sociali o di condividere valori. (J. E. Askildsen, E.

Bratberg, O. A. Nilsen, 2005)

Tuttavia queste affermazioni non devono sconfinare nel riduzionismo.

Per molti il lavoro conserva una sua importanza, esso è una delle dimensioni

fondamentali dell’identità.

Tra i giovani di estrazione sociale più bassa è presente una percentuale tutt’altro

che irrilevante che vede nell’attività lavorativa addirittura l’aspetto più

importante della propria vita. (Depolo, Sarchielli 1999; Eden, Aviram 1993;

Fraccaroli, 1998).

Vi è così la tendenza a conferire al lavoro una rilevanza maggiore mano a mano

che decresce il livello di estrazione sociale dei soggetti. Tanto che si potrebbe

pensare ad una distinzione ideologica di classe, dove per le classi superiori il

lavoro sembra essere uno degli aspetti importanti della vita mentre per quelle

inferiori esso conserva la centralità passata.

Molti fattori rendono ancora il lavoro uno strumento imprescindibile per

l’uomo: in un’epoca di egualitarismo e livellamento la professione svolge

ancora un ruolo di distinzione e prestigio; a fronte del crescente anonimato e

isolamento del tempo libero il lavoro assieme alla famiglia e ai circoli privati è

l’ambiente principale in cui “nel bene e nel male” l’uomo è portato a contatto

con altri uomini.

Vengono aggiunti, a queste osservazioni, altri spunti: il lavoro è la fonte

principale attraverso cui la maggior parte delle persone accede all’acquisizione

di molti diritti di cittadinanza: le prestazioni lavorative sono sovente agganciate

nelle moderne società ai diritti di sicurezza sociale, alla previdenza, alla tutela

sanitaria e pensionistica.

L’idea che il lavoro sia solo “strumentale” è inconsistente: il lavoro influenza

ancora la vita, ed è capace di orientare atteggiamenti e valori, comportamenti e

significati, in sfere ad esso non direttamente collegate. (Romagnoli, 1984;

Fraccaroli, 1998; Depolo, 1998)

Infine l’importanza del lavoro risalta maggiormente allorquando, come nel

nostro caso, la si analizza partendo dal malessere provocato dalla sua assenza;

quando cioè si studiano fenomeni come le patologie, la perdita di identità, il

disorientamento temporale che rivelano quale importanza, nei limiti di certe

settorializzazioni, rivesta ancora il lavoro (Wanberg, Sorenson et al.2005)

Dopo esserci soffermati sul concetto di lavoro e sulla sua modernità è

necessario analizzare i suoi significati.

Dal punto di vista psicosociale possiamo distinguere, riguardo il modello

tracciato dal sociologo americano Slocum, sei funzioni principali del lavoro

salariato:

1) il lavoro rappresenta una forma di reddito: un lavoro significa avere il

necessario per vivere, ma anche per poter fruire di opportunità e quindi, anche

se non sempre, saper o poter scegliere e determinare il proprio destino.

Vedremo poi le differenze di classe nell'atteggiamento nei confronti del lavoro.

E’ interessante ricordare i risultati dello studio "Senza lavoro" (Depolo, 1998)

che poneva questa domanda: "Se ti capitasse di avere abbastanza soldi per

vivere come vuoi per tutta la vita, che cosa faresti?" Ad essa il 54,5% degli

interpellati ha risposto che vorrebbe lavorare lo stesso, il 32% che per ora non

lavorerebbe ma in seguito forse sì, e solo il 13% non lavorerebbe proprio;

2) il lavoro struttura il tempo: come vedremo meglio in seguito uno dei

problemi più grandi che un disoccupato, soprattutto di lunga durata, deve

risolvere, è come affrontare la monotonia delle giornate senza lavoro. La

routine lavorativa divide il tempo in segmenti, ciascuno dei quali ha uno

specifico obiettivo e significato: determina l'ora in cui bisogna alzarsi, quanto si

sta lontani da casa e come passerà l'intera giornata. Ma il tempo di lavoro

regola anche il suo opposto, ovvero lo svago e le vacanze. E' difficile per un

disoccupato dare un senso al proprio tempo libero se non ha un'occupazione

(Pombeni, Guglielmi, 2000).

3) Il lavoro permette e facilita i contatti sociali: l'organizzazione del lavoro

offre l'opportunità per una maggiore socializzazione dell'individuo (almeno

fino a che la tecnologia non cambi radicalmente le forme del lavoro).

Vedremo in seguito l'importanza del rapporto sociale per un disoccupato.

Herzberg, prendendo in considerazione una quindicina di studi effettuati su un

complesso di oltre 28.000 lavoratori, ha verificato che la caratteristica più

pregnante legata al lavoro riguardava proprio il suo aspetto sociale;

4) il lavoro forma l'identità: ritorna qui il concetto di centralità del lavoro nella

vita; questa può essere considerata un’affermazione troppo estrema e poco

rispondente alla realtà attuale (Guichard, Huteau, 2001).

5) Il lavoro fornisce uno scopo alla vita: anche se questa può essere considerata

un’affermazione troppo estrema e poco rispondente alla realtà attuale

(Sarchielli et al., 1999).

Certo è che, in ogni caso, si stabilisce un vincolo tra l'uomo e la società; in

questo senso è lecito domandarsi se la disoccupazione non porti ad una difesa

del proprio ego consistente nello svalorizzare l’importanza del lavoro per

ridurre i connotati della frustrazione (Bartley, M; Ferrie, J Glossary, 2001).

6) Il lavoro mantiene in attività: può contribuire a rafforzare le energie fisiche e

psichiche e permette di esercitare ed ampliare le doti, le caratteristiche e le

attitudini individuali (Saks, Ashforth, 2000).

Dopo questa trattazione sulle funzioni del lavoro è necessario soffermarsi sulle

aspettative che i lavoratori hanno per la propria attività.

Uno degli aspetti, a questo riguardo, che emerge è il contrasto fra attributi

espressivi e di realizzazione personale e quelli che, al contrario, rappresentano i

valori estrinseci.

In questo contesto sarebbe dunque interessante capire perché i significati

espressivi stanno assumendo prevalenza rispetto a quelli economici negli ultimi

anni.

Un'ipotesi è che il bisogno di espressione personale nel lavoro si sovrapponga

alle esigenze economiche, più che prenderne il posto.

Non è corretto affermare che il reddito abbia perso significato, ma oggi esso è

più sicuro: dunque se le necessità economiche non vengono più citate non è

perché questo problema sia stato ormai completamente risolto. Esso resta vivo e

fondamentale soprattutto in quei lavoratori ancora privi di mezzi, e ridiverrebbe

tale per tutti, dal momento in cui dovesse venire meno da un giorno all'altro un

certo tipo di benessere (Sarchielli, 1999).

Un'altra ipotesi è che il bisogno di soddisfazione personale venga espresso con

maggior frequenza perché trova sempre minor soddisfazione.

Non è quindi il bisogno ad essere cresciuto ma la frustrazione.

I disoccupati sembrano dedicare maggiore attenzione alla sicurezza e alla

stabilità del posto di lavoro, piuttosto che al prestigio.

?In secondo luogo appare ridimensionato il rilievo dato allo stipendio,

considerato l'aspetto più importante dal campione nazionale di occupati.

In terzo luogo le qualità "intrinseche" del lavoro sembrano mantenere una

posizione preminente anche fra i disoccupati (Depolo, Sarchielli, 1997).

L'essere privi di occupazione sembra quindi favorire un accentramento

dell'attenzione sulle caratteristiche di stabilità e sicurezza del lavoro a scapito

degli aspetti retributivi.

Importante è che questa tendenza non sembra essere invece accompagnata da

una parallela svalorizzazione degli obiettivi del lavoro non strettamente legati

ad un ritorno economico, come ad esempio la possibilità di sviluppare interessi

e capacità e la ricerca di relazioni significative.

Ciò che sembra peculiare nel significato attribuito al lavoro da parte del

disoccupato è quindi l'esito del bilancio complessivo che il soggetto conduce

fra attese di stabilità, di benefici intrinseci e risorse materiali (A. Ahs and R.

Westerling, 2005).

E’ anche necessario porre attenzione al rapporto fra classe sociale, livello di

istruzione e attributi estrinseci e intrinseci. Qui la situazione è abbastanza

articolata: in linea di massima si può affermare che gli aspetti remunerativi del

lavoro appaiono assai più importanti per i lavoratori di origine sociale inferiore

che non per i loro coetanei di classe più elevata e lo stesso vale per l'opportunità

di avere buoni rapporti sia con i compagni di lavoro che con i superiori.

Al contrario, l'interesse intrinseco per il tipo di lavoro svolto, l'autonomia e la

possibilità di prendere decisioni sono aspetti assai più apprezzati al vertice che

non alla base della scala sociale.

Se possiamo quindi dire che il nuovo modello culturale, il ripetuto emergere dei

valori espressivi, è senz'altro il portatore di livelli crescenti di cultura e classe

sociale, nel senso che una popolazione giovanile più istruita e che proviene da

ambienti familiari più colti tende a privilegiare gli aspetti espressivi del lavoro

rispetto agli aspetti strumentali, è però vero che anche le classi inferiori non

risultano impermeabili all'influenza del nuovo modello e che il vecchio modello

in base al quale "bisogna lavorare per guadagnarsi da vivere" ha perso molto

della sua capacità di motivazione al lavoro.

In linea di massima, il quadro che emerge è il seguente: quanto più i soggetti

privilegiano da un lato fattori tradizionalmente acquisiti come prestigio,

notorietà e carriera e dall'altra il fattore sicurezza dell'impiego, tanto più il

lavoro viene valorizzato.

Al contrario quanto più si cerca nel lavoro un appoggio intrinseco, badando più

a tutto il suo contesto, tanto più si tende a considerare l'attività professionale

come una sfera importante ma non decisiva nella vita; atteggiamento questo in

ascesa.

1.3 L’employment commitment

L’employment commitment può essere definito come il grado di importanza

attribuita al lavoro dai lavoratori stessi, oppure come “coinvolgimento

lavorativo”.

Indica anche il grado di importanza effettivamente attribuito al lavoro, inteso

come "attività umana", distaccandosi da ogni riferimento ad una specifica

occupazione.

Attraverso l'employment commitment si cerca di valutare fino a che punto il

lavoro possa contribuire alla definizione dell'identità personale, ad una più

elevata stima di sé e soddisfazione personale, in senso non meramente

economico.

Un punto di una certa importanza è appunto stabilire se l'employment

commitment sia diverso negli occupati rispetto ai disoccupati.

Se i disoccupati attribuissero un’importanza inferiore al lavoro, si potrebbe

leggere la perdita del lavoro come "effetto", ovvero come una selezione tra

quegli individui scarsamente motivato.

Se invece si considerassi la disoccupazione come "causa" il livello di

employment commitment potrebbe essere variabile.

Chi è privo di lavoro potrebbe registrare un minore coinvolgimento lavorativo

rispetto agli occupati, dovuto a meccanismi di scoraggiamento o di

ristrutturazione cognitiva (Cote, Frank, 1995).

Depolo e Sarchielli hanno condotto un "controllo" di queste ipotesi in forma

cross-sectional.

Nel loro questionario sono state introdotte domande che rilevano appunto il

grado di importanza del lavoro, quanto esso rappresenti una risorsa

indispensabile per la soddisfazione personale e per una positiva immagine di sé.

E' stata anche rilevata un'altra dimensione che è denominata "non-financial

employment commitment".

Essa si differenzia dalla precedente in quanto si presta a misurare l'importanza

attribuita al lavoro indipendentemente dal suo ruolo economico, tenendo in

primo piano le qualità intrinseche del lavoro.

Dall’analisi dei dati ottenuti dai due ricercatori possiamo osservare che

l'importanza attribuita al lavoro dai disoccupati intervistati è pari a quella

registrata fra gruppi di occupati

Sembrerebbe anche che i disoccupati non svalutino in modo difensivo

l’importanza del lavoro.

E’ questo il risultato più sorprendente, forse da collegare al fatto che il

campione intervistato da Depolo e Sarchielli era costituito da giovani per i quali

forse le aspettative sul ruolo del lavoro sono meno sensibili al ridimensionarsi.

Le stesse indicazioni emergono rispetto al NFEC (non financial employment

commitment), la ricerca svolta dai ricercatori Snir e Harpal (2002), su un

campione di 501 Israeliani di età media 40 anni, vuole indagare sulla

connessione tra “non financial employment commitment” ed i bias

desiderabilità sociale.

I soggetti intervistati telefonicamente alla domanda su cosa avrebbero fatto in

seguito ad una consistente vincita alla lotteria hanno dato risposte significative.

Infatti analizzando i dati raccolti è emerso che la volontà di continuare ad

impegnarsi nel proprio lavoro era correlata con una condizione sociale medio-

alta, mentre nelle persone socialmente più svantaggiate era più consistente il

desiderio di lasciare l’attuale lavoro.

Questo stimola un’ulteriore riflessione, ovvero che per avere una stima esatta

del livello di importanza del lavoro per il soggetto, devono essere prese in

considerazione numerose variabili tra cui appunto la polarizzazione sociale.

Come appena affermato l'employment commitment non è impermeabile a

fattori come il sesso o la scolarità specialmente nella sua versione non

economica.

La percentuale di giovani disposti a lavorare anche senza la necessità

economica varia dal 36% dei maschi con diploma di III media, al 54% delle

femmine con pari scolarità, al 61% delle femmine diplomate al 67% dei maschi

diplomati.

Il gruppo dei meno scolarizzati mostra quindi propensione al lavoro se a questo

vengono tolte le valenze economiche, rispetto ai più scolarizzati.

Il dato sembra indicare una scarsa attenzione agli aspetti intrinseci del lavoro da

parte di chi possiede minore professionalità e sarà destinato con ogni

probabilità ad occupare posti di lavoro a più bassa qualifica. (Snir, Harpal,

2002)

1.4 Studi sul rapporto fra personalità e lavoro

In questo contesto risulta anche molto interessante prendere in considerazione

come la predisposizione all’ambizione e la stima delle proprie capacità

influiscano sul grado di energia con la quale un soggetto mette in atto strategie

di fronteggiamento, per la risoluzione o il raggiungimento dei propri obiettivi.

Infatti è possibile affermare che un’alta autostima, e una buona capacità di

gestione delle proprie risorse cognitive e strumentali, può essere considerata un

fattore protettivo nei confronti delle conseguenze della mancanza di lavoro.

Interessanti in questa direzione sono gli studi sul “need of achievement” di

McClelland e la teoria della piramide dei bisogni di Ma slow.

David McClelland, ricercatore dell’università di Harward, proponeva di

verificare se i risultati sul test di appercezione tematica di Murray potevano

essere modificati con tentativi sperimentali di influire sull’atteggiamento dei

soggetti.

In questo test il soggetto deve interpretare venti immagini, inventandoci sopra

una storia e cercando, inoltre, di immaginare cosa è successo prima e cosa

accadrà in seguito.

Le risposte riflettono i costrutti mentali, le esperienze, i conflitti e i desideri di

ognuno: essenzialmente la persona proietta se stessa nella situazione

rappresentata, identificandosi con uno dei personaggi raffigurati.

Tra “i bisogni di Murray” egli scelse appunto il need of achivement, ovvero il

bisogno di successo, e lo sviluppò in una serie di tavole rappresentative di

eventi di vita e situazioni sociali.

In questo si constatò che le persone caratterizzate da un’esistenza permeata da

alti sentimenti di riuscita proiettavano questa loro caratteristica anche

nell’interpretazione del test.

Si arrivò alla medesima conclusione anche estendendo geograficamente questo

studio e sottoponendolo a campioni eterogenei per razza, età, status sociale

Una persona motivata all’autorealizzazione cerca di porsi una meta ambiziosa e

affrontare con successo le difficoltà relative. La riuscita ha valore intrinseco per

il soggetto e conta molto di più che il conseguente rientro economico

(McClelland, 1961, Philips, Gully, 1997).

Un'altra interessante teoria sulle condizioni modulatrici della spinta

motivazionale è appunto quella di Maslow, che afferma come la volontà a

sperimentare con successo le proprie capacità e a mettersi in gioco, ad esempio

in questo caso nella ricerca di un nuovo lavoro o nel fronteggiamento dei

problemi, siano legate al soddisfacimento di bisogni di livello inferiore.

Maslow ha condotto studi in molte aree del comportamento sociale, e non solo

nell’ambito della psicologia del lavoro, distinguendosi e facendosi innovatore

rispetto a quegli approcci che consideravano i bisogni come entità separate

senza alcuna correlazione tra loro.

Dai suoi studi è dunque risultato che:

1) La “probabilità di manifestazione motivante” di un bisogno è funzione del

grado di continuità della soddisfazione del bisogno stesso, ovvero se un

bisogno è continuamente e sistematicamente soddisfatto smette di essere

“bisogno motivante” per il soggetto

2) Un bisogno non appare come “bisogno motivante” se non sonon soddisfatti

i bisogni di livello inferiore, in una piramida che ha alla base le pulsioni

fisiologiche e biologiche individuali. E’ naturale che un bisogno di livello

superiore venga percepito anche se non si trova al primo posto nella scala

delle priorità, ma il soggetto non è portato ad investire risorse per la sua

soddisfazione poiché percepisce come più urgenti altri bisogni.

Grazie a questo secondo punto possiamo dunque affermare se la

disoccupazione porta problemi di stretta sopravvivenza, l’individuo colpito da

questa non potrà impegnare le proprie risorse nella propria rimotivazione

personale, poiché vive problemi contingenti molto più gravi, per questo entrerà

in un circolo vizioso che lo porterà ad esaurire le proprie risorse cognitive e

materiali senza consentirgli di impegnarsi nella costruzione di meccanismi di

difesa.

La scala dei bisogni si struttura secondo lungo una piramide ideale che è

composta, partendo dalla base per arrivare al vertice:

a) bisogni fisiologici

b) bisogni di sicurezza

c) bisogni associativi

d) bisogni di individuazione sociale

e) bisogni di autorealizzazione

Il primo livello è costituito dal gruppo a, ovvero dai basic phisiological needs:

in condizioni normali, all’interno della nostra società industrializzata, i bisogni

fisiologici sono poco motivanti poiché quasi mai è messa in discussione la

sopravvivenza del soggetto (Maslow, 1954)

La disoccupazione può diventare però un elemento di “riattivazione” fino a

diventare, nelle situazioni più drammatiche, il motivo prevalente ed unico,

bloccando così qualunque altra iniziativa per soddisfare i bisogni di matrice più

psicologica che fisiologica, che possiamo incontrare analizzando i livelli

successivi.

Il secondo livello riguarda i bisogni di sicurezza, ovvero safety and security.

questi bisogni sono generalmente ben soddisfatti grazie all’alto livello di

benessere che caratterizza la nostra società ed anche grazie alla continuità nel

livello delle risorse, ai sistemi di assicurazione contro le malattie e gli infortuni,

alla previdenza sociale, ma possono tuttavia anch’essi essere messi in

discussione dalla condizione di mancanza di lavoro (Maslow, 1954)

Il terzo livello comprende i bisogni di appartenenza sociale, belonging social

activity, cioè il bisogno di essere accettati dagli altri, di scambiare amicizia ed

affetto, di appartenenza ai gruppi coi quali sentiamo di condividere

caratteristiche e valori. La soddisfazione di questa categoria di bisogni viene

fortemente messa in discussione da chi sperimenta una condizione di mancanza

di lavoro. Infatti ai disoccupati viene a mancare uno dei pilastri della propria

immagine di sé, che proviene dal loro vecchio ruolo di “lavoratori”. Si sentono

così estromessi dalla vita sociale produttiva sperimentando sentimenti di

estraneità e di deprivazione.

Il quarto livello comprende i bisogni di autostima e di status sociale, questi

aspetti vengono a creare, secondo Maslow, un fronte comune nell’esprimere il

bisogno dell’individuo di definire la propria identità, di individuare la propria

collocazione rispetto all’ambiente.

Un favorevole senso della propria identità viene promosso e rafforzato dal

riconoscimento e dall’approvazione altrui, dal prestigio e dallo status di cui si

fruisce. Diventa perciò chiaro come diventi difficile per il disoccupato

soddisfare i bisogni inerenti a questa categoria, venendo proprio a mancare

quelle basi per la costruzione della propria identità, e sentendosi giudicato in

modo negativo dalla società costituita dai lavoratori.

Il quinto ed ultimo livello è quello riguardante i bisogni di autorealizzazione,

self realisation fulfilment, questo è il bisogno per cui “un uomo deve essere ciò

che può essere, deve diventare ciò che è capace di diventare (Maslow, 1954)

In genere le ricerche tendono a dimostrare che la motivazione

all’autorealizzazione tende a diventare dominante con l’elevarsi del livello

economico e professionale dei soggetti.

Emerge dunque quanto la disoccupazione porti ad un impoverimento del

soggetto, che dovendo far fronte a bisogni urgenti che stanno alla base della

piramide ideale di Maslow, si vede negate tutte le possibilità di soddisfazione

personale e di autorealizzazione che si trovano ai vertici, e per le quali non ha

sufficienti energie materiali e cognitive.

L’evidenza empirica ci porta ad affermare con sicurezza che la scelta di

un’occupazione non è casuale o basata solo su criteri di opportunità, ma

rispecchia la personalità psicologica di un individuo. (Stansfeld, 2002; Spenner,

1998)

E’ altrettanto vero che viceversa il lavoro può contribuire a cambiare la

personalità, e che le differenze individuali che esso provoca possono essere

molto rilevanti.

Si può sostenere che la variabile insicurezza sul lavoro sia collegata a diversi

fattori, quali gli atteggiamenti negativi nei confronti del lavoro e

l'organizzazione e stato di salute. (Payne, 2005; Strazdins et al., 2004; Croon et.

al, 2004)

In ultima istanza si precisa in che modo le caratteristiche personali influenzino i

rapporti fra sforzo e rendimento lavorativo (Naswall et al. 2005).

Anche la ricerca di Thoresen et al, “The Big Five Personality Traits and

Individual Job Performance Growth Trajectories in Maintenance and

Transitional Job Stages”, si muove nella medesima direzione.

Questo studio amplia la letteratura su personalità e rendimento lavorativo,

utilizzando il questionario di personalità Big Five per predire le prestazioni

generali di vendite in 2 campioni di rappresentanti farmaceutici.

Nel campione di controllo il fattore coscienziosità e l'estroversione sono stati

associati positivamente con le differenze intersoggettive per quanto riguarda le

vendite totali.

Nel campione sperimentale l'apertura mentale verso nuove esperienze hanno

predetto le differenze di prestazioni e le relative tendenze generali. (Thoresen

et al., 2004)

Numerosi sono gli studi sui rapporti fra personalità e lavoro e tutti si basano

sull’idea, che emerge anche nel famoso saggio “The social psychology of

work” (Argyle, 1974), che l’atteggiamento individuale nei confronti del lavoro

differisce per numerose caratteristiche psicologiche.

Le più importanti che possiamo annoverare sono:

• Intelligenza ed altre abilità

• Motivazione

• Tratti di personalità

• Grado di estroversione

• Grado di nevrosi

• Tendenza all’autoritarismo

• Autostima

• Locus of control interno/esterno

Ovviamente queste dimensioni influenzano non sono il lavoratore, ma anche il

disoccupato ed il suo modo di reagire di fronte ad un evento fortemente

destabilizzante come la perdita del lavoro.

Capitolo 2 – Primi studi psicosociali sulla disoccupazione

2.1 La disoccupazione: inquadramento storico

A partire dagli anni ’70 ha inizio un progressivo deterioramento della

situazione occupazionale nella maggior parte dei paesi indus trializzati, che

rimette completamente in discussione l’immagine di condizione di “quasi piena

occupazione” che si era diffusa nel ventennio successivo alle seconda guerra

mondiale.

Ci si trova di fronte ad una situazione nella quale le condizioni generali di

mercato, come la domanda e l’offerta, subiscono una modifica inesorabile fino

a toccare i livelli raggiunti dalla grande depressione degli anni Trenta, che fu il

periodo di disoccupazione di massa più generalizzato, prolungato e grave dei

tempi moderni.

Con Grande Depressione si designa la crisi economica mondiale innescata dal

crollo della Borsa di Wall Street a New York nell'ottobre del 1929 e protrattasi

per tutti gli anni Trenta.

Le cause del fenomeno furono molteplici. Durante gli anni Venti negli Stati

Uniti si era verificata una straordinaria crescita finanziaria e speculativa

accompagnata però da un forte indebitamento degli agricoltori, esposti alla

concorrenza europea dopo la ripresa postbellica.

La Germania, già scossa dall'inflazione dei primi anni Venti, doveva affrontare

il problema del pagamento delle riparazioni di guerra in gran parte finanziato

dai prestiti delle banche americane. In Gran Bretagna perdurava un cronico

stato di agitazioni sociali culminato nello sciopero generale del 1926.

La brusca caduta delle quotazioni azionarie di Wall Street del 1929 provocò

una serie di reazioni a catena. Le banche americane cominciarono a esigere la

restituzione dei prestiti esteri, mentre sempre più numerosi clienti cominciarono

a ritirare i loro depositi, provocando così il collasso di molti istituti di credito.

La mancanza di liquidità comportò una drastica riduzione degli investimenti

nell'industria e una contrazione della domanda di prodotti industriali e agricoli.

Ciò indusse un'ulteriore contrazione del mercato creditizio, tanto che nel 1932

gran parte delle banche degli Stati Uniti erano fallite.

La spirale della crisi portò con sé una disoccupazione di massa senza

precedenti: 14 milioni di disoccupati negli Stati Uniti, 6 in Germania, 3 in Gran

Bretagna, mentre in Italia dalle 300.000 unità del 1929 si passò al milione di

disoccupati del 1933. In Australia il tasso di disoccupazione raggiunse livelli

record.

Un po' ovunque si ebbe anche un peggioramento del tenore di vita medio. In

Gran Bretagna, fino alla metà degli anni Trenta, circa un quinto della

popolazione aveva un reddito inferiore al minimo vitale; nelle zone più

depresse del paese ciò diede origine alle cosiddette marce contro la fame, come

il memorabile corteo di disoccupati che nel 1934 sfilò da Jarrow, nel Nord-est

dell'Inghilterra, fino a Londra.

Lange: La Grande Depressione

Questa immagine, ripresa nel 1936 dalla fotografa statunitense Dorothea Lange e pubblicata in An American Exodus,

nel 1939, documenta la tragica situazione sociale dei lavoratori stagionali provocata negli Stati Uniti dalla Grande

Depressione.

Nonostante le impegnative misure messe in atto in molti paesi per superare la

Grande Depressione, dal varo di piani assistenziali a politiche economiche

autarchiche, gli strascichi della crisi si protrassero per tutti gli anni Trenta,

fornendo terreno fertile per le forze che determinarono lo scoppio della seconda

guerra mondiale.

Disoccupati in cerca di lavoro

In questa foto dell'epoca, una lunga coda di disoccupat i all'entrata di un ufficio di collocamento.

Il periodo che seguì alla seconda guerra mondiale fu caratterizzato in Europa da

forti aumenti della disoccupazione conseguenti ai danni che il conflitto aveva

arrecato a molte industrie e al ritorno a casa dei reduci. La ripresa economica,

tuttavia, fu rapida e, negli anni Cinquanta, la maggioranza dei paesi

industrializzati capitalisti presentava bassi livelli di disoccupazione.

Negli anni Sessanta, quando il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti

raggiunse una media del 5-6% e in Canada toccò il 7%, l'Italia era al 4% e tutti

gli altri paesi industrializzati dell'Europa occidentale, al pari del Giappone,

registravano tassi del 2% o meno.

Nei paesi in via di sviluppo di Asia, Africa e America latina, un problema di

proporzioni assai gravi è la sottoccupazione, che vede le persone impiegate solo

saltuariamente o per poche ore al giorno o in un lavoro improduttivo, con un

conseguente basso reddito, insufficiente per i propri bisogni; è il serbatoio della

sottoccupazione ad alimentare, nei paesi in via di sviluppo, la migrazione dalle

zone rurali ai centri urbani.

Nei paesi industrializzati, per effetto delle indennità di disoccupazione e di altre

forme di sostegno del reddito, come, in Italia, la cassa integrazione, la

disoccupazione non è più causa di gravi stenti come un tempo. Tuttavia è la

principale causa di povertà e vi sono segni che stia diventando sempre più

difficile da affrontare.

L'Italia e la Francia in particolare devono affrontare la sfida di una grave

disoccupazione strutturale apparentemente ineliminabile, mentre altri paesi,

come il Giappone, sembrano capaci di sostenere bassi tassi di disoccupazione

durante le recessioni con manovre economiche che sarebbero giudicate

paralizzanti da molti altri paesi. Endemico è il problema della disoccupazione

nel Sud d'Italia, dove il divario tra le regioni meridionali e il resto del paese in

termini di sviluppo economico non accenna a ridursi.

Negli Stati Uniti, trascurando differenze sostanziali nei criteri di calcolo dei

disoccupati, si è ottenuta negli anni Novanta una sostanziale discesa del tasso di

disoccupazione con la liberalizzazione del mercato del lavoro, ma a prezzo di

una caduta dei salari più bassi al di sotto della soglia della povertà.

Il problema dei governi odierni è garantire ai rispettivi sistemi economici i

benefici della flessibilità del lavoro e dell'aumento della produttività e nello

stesso tempo ridurre il numero dei senza lavoro, abbreviare i periodi di

disoccupazione, sostenere il reddito dei disoccupati e aiutarli a tornare nel

mondo del lavoro con riqualificazioni professionali.

Attualmente in Italia il tasso di disoccupazione, sebbene sceso dal 12% del

1998 al 9,9% dei primi mesi del 2001, ripropone ancora una volta la spaccatura

del paese tra il Nord, dove la disoccupazione è di circa il 6-7% e in certe zone è

pressoché assente, e il Sud, dove supera il 20% e addirittura il 40% tra i giovani

e le donne.

Queste cifre appartenevano, fino a due decenni fa, ad economie più deboli

mentre oggi il problema della disoccupazione coinvolge anche i paesi altamente

industrializzati, sia perché l'automazione degli impianti e dei processi lavorativi

espelle la manodopera dalla produzione, sia perché l’industria occidentale, e

principalmente le compagnie multinazionali, trasferiscono una cospicua parte

dell’attività produttiva in paesi poco sviluppati, dove la manodopera è

infinitamente più economica.

Da questi elementi si può trarre un quadro generale del problema, che tuttavia

può essere fuorviante se non viene letto in chiave ecologica e contestualizzata.

E’ proprio l’insoddisfazione per un approccio così schematico e sintetico che ha

spinto l’attenzione nella direzione più concreta del fenomeno in modo da

delinearne di caso in caso le precise peculiarità.

Proprio per questo innanzitutto c’è la necessità di definire cosa si intende con il

termine disoccupazione e quante sono le possibili forme di questo stato in modo

da non basarsi soltanto su cifre Istat, che non rendono giustizia alla dimensione

sociale del problema.

2.2 I mille volti della disoccupazione

In generale possiamo definire disoccupazione come quel fenomeno che

riguarda gli individui che, pur essendo potenzialmente attivi, non svolgono

attività lavorativa.

Può essere totale o parziale a seconda che l'inattività sia totale o che riguardi un

numero di ore al di sotto dei limiti di legge.

Può essere ciclica o cronica se, rispettivamente, la mancanza di lavoro si

colloca in brevi periodi ricorrenti o in lunghi periodi seguiti da periodi brevi di

lavoro nero insufficiente al sostentamento. Dal punto di vista amministrativo

tutti coloro che risultano iscritti alle liste di collocamento sono considerati

disoccupati.

Il concetto di disoccupato è in realtà molto più complesso e non può rientrare in

una semplice definizione.

Per fare maggior chiarezza possiamo ricorrere a 4 dimensioni (Ciravegna 1990;

Depolo Sarchielli 1994):

1) una condizione economica: non avere un’occupazione

2) un’attività: essere alla ricerca di un’occupazione salariata o cercare di

avviare un’attività indipendente predisponendone i mezzi

3) un’attitudine: essere disponibile ad accettare un lavoro alle condizioni

esistenti

4) uno stato di necessità: avere un più o meno elevato bisogno di procurarsi un

reddito

Quando tutte le dimensioni sono presenti contemporaneamente allora non si ha

dubbio sul reale stato di disoccupazione.

Questo è il caso del capofamiglia adulto che “gira” da un possibile datore di

lavoro ad un altro e passa ore nel centro per l’impiego in attesa del primo

lavoro che capita (Accornero e Carmignani 1986)

Nei paesi economicamente avanzati da tempo, e nello specifico in Italia sal

1959, lo strumento principale per raccogliere informazioni sugli occupati,

disoccupati e inoccupati è l’indagine sulle forze lavoro: una o più volte l’anno

un questionario viene somministrato ad un campione di famiglie da un

intervistatore. I questionari sono molto diversi anche se perlopiù rimandano ad

alcune domande proposte dal Bureau Itenational du Travail, in modo da rendere

possibile anche la comparazione dei dati fra diversi paesi.

Le domande sono le seguenti:

1) Il soggetto occupa un certo posto di lavoro?

2) Da quanto tempo?

3) Attua dei comportamenti di ricerca del lavoro?

4) E’ la prima volta?

Inoltre con la riforma degli ex uffici di collocamento, approvata nel novembre

1999, è stato istituito l’obbligo del disoccupato che, in base alle nuove norme,

dovrà autocertificare, presso il Centro per l'Impiego in cui è domiciliato, di

essere disoccupato o inoccupato e dichiarare la disponibilità immediata

all'inserimento lavorativo e dovrà rispondere a “chiamate” periodiche del centro

per l’impiego finalizzate a riconfermare la propria condizione di disoccupato,

impegnato nella ricerca attiva di lavoro.

Chi non si presenterà a queste chiamate verrà automaticamente cancellato dalla

banca dati del centro per l’impiego e perderà tutti i diritti che provengono da

tale stato, quale l’assegno di disoccupazione.

In questa maniera chi risulterà iscritto alle liste di disoccupazione sarà chi a

tutti gli effetti rientra nelle categorie precedentemente elencate (Sanguineti

2002; Huffman, Torres 2001)

Ci si può basare anche sulle definizioni ISTAT,, che nella grande categorie di

“persone in cerca di un’occupazione” operano una suddivisione nel seguente

modo:

1) Disoccupati, in senso stretto, ovvero coloro che si dichiarano tali,

affermanno di cercare lavoro e sono disponibili ad accettarlo; giustificano

la perdita del lavoro precedente sulla base di almeno una di queste tre

cause: licenziamento, dimissioni, fine del rapporto di lavoro a tempo

determinato.

2) Persone in cerca di prima occupazione, coloro che non hanno mai lavorato,

sono alla ricerca di un lavoro e sono in grado di accettarlo se offerto.

3) Altre persone in cerca di lavoro, coloro che si dichiarano in posizione non

professionale, come ad esempio casalinghe e studenti, ma che si dichiarano

in cerca di lavoro.

4) Sottoccupati ovvero coloro che, considerati all’interno della categoria degli

occupati, hanno svolto un numero di ore lavorative inferiori alle abituali, e

coloro che lavorano ufficialmente part-time

5) Le non forze lavoro cioè quelle persone che non hanno un lavoro né lo

hanno cercato. Si tratta di casalinghe, studenti, ritirati dal lavoro, inabili ecc.

Il poter racchiudere la popolazione in determinate categorie più specifiche non

chiude comunque le porte ad ampie discussioni sul significato dei dati ottenuti,

soprattutto se focalizziamo l’attenzione non tanto sulle caratteristiche oggettive

di ogni gruppo, ma soprattutto sulle ripercussioni in termini psicologici sui

singoli soggetti che compongono i gruppi e sulle specifiche condizione che

caratterizzano l’esistenza sociale di ognuno (Sarchielli, Depolo, Fraccaroli,

Colasanto, 1991; Werbel 2000).

Purtroppo oltre che aiutare ad operare una catalogazione, disporre di etichette

differenziatici può essere anche un grande limite poiché favorisce, soprattutto

nei meno esperti, reali effetti di mascheramento e di manipolazione dei dati

stessi.

A seconda di quanto valore si vuol dare ad una definizione più pura o più

allargata di disoccupazione si potranno operare delle valutazioni molto diverse

del fenomeno.

La difficoltà grandissima di segnare una linea di demarcazione tra inattività e

ricerca di lavoro è dall’origine fonte di polemiche.

Le questioni messe in discussione sono due: l’intensità della ricerca e la

disponibilità verso mansioni inferiori alle attese. (Bresciani, Fraccaroli, Ghiotto,

1991; Depolo Sarchielli 1994).

Cercare un lavoro è un attività costosa sia a livello di tempo materiale sia a

livello di risorse cognitive e psicologiche, per questo le persone che non hanno

un reale bisogno di lavoro si troveranno presto a sperimentare un forte

scoraggiamento che li porterà a diminuire i comportamenti di ricerca fino, in

alcuni casi, a desistere del tutto.

Emerge così la figura dello “scoraggiato”, cioè la persona disponibile a

lavorare, ma che non cerca lavoro perché è convinto di non riuscire a trovarlo.

Mancando la caratteristica della “ricerca” queste persone sono collocate nella

categoria degli inattivi, ma basterebbe indagare più a fondo nel loro vissuto per

mettere in luce la loro particolare posizione. (Werbel, 2000)

A questa forma di scoraggiamento se ne aggiunge spesso un’altra che riguarda

solo le donne adulte, alcune delle quali non sarebbero in cerca di lavoro per la

mancanza di infrastrutture sociali e di forme organizzative del lavoro adatte a

rendere compatibili gli impegni lavorativi con quelli familiari.

Vi sono ancora tutti quei casi di lavoro sommerso e non riconosciuto

socialmente ce colpiscono soprattutto la popolazione femminile che presta

servizio a domicilio.

Per questo si può affermare che non solo i concetti di occupato e disoccupato

hanno confini molto sfumati e per nulla delimitati, ma anzi si collocano sullo

stesso continuum.

Il limite che ha dovuto subire questo ambito di studi è stato quello di voler

interpretare il nuovo fenomeno della crisi occupazionale con i vecchi schemi,

limitandosi ad operare aggiustamenti a datati strumenti di analisi, come ad

esempio le categorie marxiane.

Per superare questo genere di errori teorici e metodologici bisogna rifarsi

all’affermazione di Leontief che diceva “non c’è classificazione statistica senza

teoria”, volendo spiegare che per un fenomeno complesso quale può essere la

disoccupazione ogni teoria può spiegare soltanto un aspetto della realtà ed è

necessario anche valutare gli scopi che accompagnano ogni studio sulla

disoccupazione, che sono molteplici e non sempre conciliabili.

Dietro le cifre di questo fenomeno sociale, che comunque sono così incerte e

passibili di errori di valutazione, troviamo un fenomeno sociale incredibilmente

vario (Bikos e Furry, 1999).

Proprio per questo si parla dei mille volti della disoccupazione, che hanno

ragione di esistere innanzi tutto per le condizioni di disuguaglianza della

popolazione, alcune persone più di altre sperimentano un maggior rischio

trovandosi in una condizione di crisi economica e ne subiscono più

evidentemente i costi, sia psicologici che materiali.

Possiamo infatti osservare come il tasso di disoccupazione delle donne sia

molto più elevato rispetto agli uomini, lungo tutte le fasce di età. I giovani

risultano maggiormente vittime della disoccupazione rispetto agli adulti,

indipendentemente dal sesso.

Ci sono inoltre altri tipi di disparità che consentono di far emergere i vissuti

differenti riguardo la disoccupazione nei vari gruppi sociali.

Esempio più evidente è la disomogenea ripartizione territoriale della

disoccupazione in Italia che vede il mezzogiorno sensibilmente più colpito

rispetto alle regioni più industrializzate del Nord .

Si può dunque sostenere anche sulla base di ricerche che dagli anni ’90 ad oggi

sono state portate avanti, soprattutto in America, che la disoccupazione si

definisce come un’esperienza assai differente per le persone in rapporto ai

fattori di differenziazione sociale quali la collocazione geografica, il settore

produttivo, l’età, il sesso, il livello di formazione e di istruzione. (Artazcoz et

al., 2004)

Nel gennaio 2004 all’interno dell’ American Journal of Public Health è stato

pubblicato uno studio sull’iterazione tra disoccupazione e genere, ruolo sociale

e familiare.

La loro analisi include 3881 occupati e 638 disoccupati, con età compresa fra i

25 e i 64 anni. I risultati che hanno ottenuto fanno emergere che la

disoccupazione produce maggiori effetti sulla salute mentale e psicologica negli

uomini piuttosto che nelle donne, questo poiché le donne si identificano

maggiormente con il ruolo sociale correlato alla cura della famiglia e della casa

piuttosto che al ruolo di lavoratrice e verso di loro ci sono diverse aspettative

sociali e responsabilità rispetto a quelle che la società attribuisce all’uomo

capofamiglia. . (Artazcoz et al., 2004)

Inoltre bisogna tenere anche conto che non esiste solamente una diversa

vulnerabilità rispetto alla disoccupazione , ma bisogna tenere conto anche della

modalità con cui si è coinvolti nel fenomeno ad un momento dato.

E’ necessario comprendere il modo e le ragioni per cui si perde o si esce da una

certa situazione lavorativa, ed a che età succede.

Numerosi infatti sono gli studi che si occupano degli stereotipi sociali associati

alla figura del lavoratore di mezza età. (Perry, Kulik, Bourhis, 1996).

Uno di questi per esempio mette in evidenza in che modo agiscono le

convinzioni riguardanti determinate classi di lavoratori, nel nostro caso quelli

più anziani e a quali bias cognitivi siano soggetti i selezionatori.

I risultati di questo studio indicano che i bias collegati a lavoratori in età più

avanzata e le convinzioni di determinate interazioni tra tipo di lavoro ed età

portino a prendere delle decisioni discriminatorie nei confronti di questa

categoria di soggetti (Perry, Kulik, Bourhis, 1996).

Oltre questi fattori di interazione con il vissuto del senza lavoro, la variabile più

forte resta comunque la durata, o persistenza della disoccupazione (Brown et

al., 2003).

A questo proposito D. Brown et al. hanno pubblicato uno studio intitolato

“Association Between Short- and Long-Term Unemployment and Frequent

Mental Distress Among a National Sample of Men and Women” nel novembre

2003.

Questi autori, prendendo un campione di soggetti omogeneo per caratteristiche

sociali e anagrafiche, dimostrano come la disoccupazione e la durata siano

fortemente correlati con i frequent mental distress (FMD), ovvero episodi di

disagio psicologico che ricorrono per 14 giorni o più durante un periodo di 30

giorni (Strine TW, Balluz L, Chapman DP et. Al, 2001).

Infatti osservando il campione da loro esaminato, emerge che sono proprio i

soggetti disoccupati da più di un anno a presentare più frequentemente questo

genere di disturbi e che hanno un bisogno immediato di interventi che possano

fronteggiare il loro disagio mentale e psicologico.

Inoltre si può far riferimento al concetto di employabilitè utilizzato da

Freyssinet, e che sottolinea come le possibilità di uscire dalla disoccupazione

siano largamente collegate alla storia personale del disoccupato oltre che dalle

condizioni generali del mercato.

In questa direzione si può affermare che la reimpiegabilità di un individuo sia

inversamente proporzionale alla durata della disoccupazione. Non solo per il

progressivo scoraggiamento e la possibile rinuncia di un’attività sistematica di

ricerca di lavoro, ma anche per il graduale impoverimento delle capacità

professionali, la perdita di interesse verso l’attività lavorativa, l’esaurimento

delle risorse cognitive, usate interamente per il fronteggiamento dello stato di

disoccupazione (Guichard, Huteau, 2001).

2.3 La percezione sociale della disoccupazione

Per l’analisi della disoccupazione in termini sociali si può partire

dall’affermazione seguente: “nessuna condizione, nessun problema per quanto

drammatico o shoccante per qualcuno, diviene un problema sociale finchè i

valori di un considerevole numero di persone non contribuiscono a definirlo

come problema” (Horton, 2000)

Questo è il caso della disoccupazione che ha dovuto subire un processo molto

lungo di costruzione sociale della propria rilevanza per la collettività.

Infatti pur possedendo dati e informazioni fortemente dimostrativi della gravità

del problema, non è comparso se non agli inizi degli anni ’90 un automatico

riconoscimento sociale, che però si è focalizzato principalmente sugli aspetti

del disagio socio-economico tralasciando quasi completamente gli aspetti

psicologici di questa situazione.

Il passaggio da problematica soggettiva a fenomeno sociale non avviene

comunque basandosi sul grado di gravità del fenomeno stesso, ma utilizza,

come filtri, ben determinati parametri sociali che contribuiscono al meccanismo

selettivo di riconoscimento che consente ad un problema generale di essere

riconosciuto a livello sociale (Depolo, Sarchielli, 1987; Colasanto, 1989;

Venini, 1996; Bertani, 1998).

Si parla innanzi tutto del sistema generale di credenze, ideologie e

rappresentazioni che sono proprie di una determinata cultura e che fungono da

lente attraverso la quale leggere la realtà sociale.

A questi si possono aggiungere processi più complessi come il ruolo dei gruppi

sociali che si confrontano per far emergere un determinato punto di vista.

Si deve a questo proposito anche tenere conto di quali siano i gruppi dominanti,

il ruolo delle organizzazioni che cercano di promuovere una ben determinata

visione del problema che le favorisca nell’ottenimento di particolari benefici ed

infine il ruolo dei mass media che possono sensibilizzare la popolazione verso

un argomento piuttosto che un altro.

La psicologia tuttavia, ha stentato a produrre un contributo di studi autonomo

riguardo il problema della disoccupazione e delle strategie di intervento che

non si limitassero a semplici azioni di supporto e sostegno per i disoccupati.

Mentre solo pochi studi riguardano programmi destinati a favorire il reimpiego

(tra gli altri, Eden e Aviram, 1993; Vinokur, Van-Ryn, Gramlich e Price, 1991;

Rife e Belcher, 1994), la maggior parte delle ricerche si limitano a valutare

l'impatto della perdita o della mancanza di lavoro sul benessere biopsicosociale

di individui, famiglie e comunità, tentando di individuare i fattori in grado di

moderare gli effetti negativi di questa esperienza e di favorire il reimpiego:

motivazione al lavoro (J. E. Askildsen, E. Bratberg, and O. A. Nilsen, 2005)

l'età (Warr, Jackson e Banks, 1988), la classe sociale (Kieselbach, 2003)il

livello di disoccupazione locale, il supporto sociale (Creed; Klisch, 2004) il

locus of control, la self-efficacy e la capacità di problem-solving (Andersen,

Jergen, Goul, 2002; . Smari, E. Arason, H. Hafsteinsson, and S. Ingimarsson,

1999)

L’attenzione si è concentrata quindi sulle caratteristiche strettamente individuali

del problema, trascurando anche qui la sua importantissima dimensione sociale

che si esprime nello studio del "contesto" entro il quale il fenomeno si

dispiega.

Quando infatti un individuo si trova a uscire dal mercato del lavoro, egli entra

in relazione con:

1) Un complesso di sistemi rappresentazionali socialmente condivisi relativi a

tale evento, che assumono una funzione regolativa, costituiscono cioè strumenti

di auto-orientamento e di conoscenza-intervento del soggetto rispetto al proprio

ambiente di interazione;

2) Le reificazioni normative di quei sistemi rappresentazionali e i

"comportamenti" di enti e agenzie che a vario titolo si occupano di

disoccupazione e che si esprimono tra l'altro attraverso i parametri di

funzionamento degli ammortizzatori sociali o degli altri meccanismi di

assistenza previsti per i lavoratori espulsi dal processo produttivo (L. Artazcoz,

J. Benach, C. Borrell, and I. Cortes, 2004).

3) Le logiche interne di funzionamento del mercato del lavoro relative ad

esempio ai meccanismi di regolazione del rapporto tra domanda e offerta.

Da un punto di vista psicologico dunque, il fenomeno della disoccupazione,

restituito al suo contesto, assume i connotati di un complesso fenomeno

psicosociale: gli atteggiamenti e i comportamenti dei disoccupati non riflettono

infatti solo degli stili personali, ma anche un sistema di rappresentazioni e di

norme che si è costruito, nel corso del tempo, nella pratica dei rapporti sociali

(Benoit-Guilbot, 1995) e che costituisce il "contesto" entro il quale si svolgono

le esperienze individuali.

Tali rappresentazioni, intese come sistemi condivisi elaborati entro le relazioni

sociali organizzate (Moscovici, 1989), rivestono un ruolo vantaggioso non solo

per l'economia psichica degli individui, ma anche per quella dei rapporti sociali

stessi, in quanto sono in grado di evocare e di mantenere consenso e coesione

sociale sulla base delle comuni simbolizzazioni del contesto (Carli, 1990).

Da un punto di vista psicologico per l'interpretazione del fenomeno della

disoccupazione (anche in relazione alla elaborazione di strategie di intervento)

assume pertanto una forte rilevanza la comprensione del modo in cui insiemi di

rappresentazioni (rappresentazioni del proprio ruolo, del ruolo degli altri attori

sociali coinvolti della disoccupazione e della relazione degli individui con il

contesto-mercato) vengono organizzati costituendo specifiche "culture" della

disoccupazione, e utilizzati per dare significato all'esperienza critica della

perdita del lavoro e affrontarla.

E’ da considerare infatti che alcuni modelli rappresentazionali della

disoccupazione assunti dai disoccupati, piuttosto che favorire lo strutturarsi di

un rapporto funzionale con il loro contesto di riferimento - il mercato del lavoro

- in termini ad esempio di competenza vs incompetenza, adeguatezza vs

inadeguatezza sociale, abbiano al contrario lo scopo di allontanare la possibilità

di tale confronto e di garantire una protezione dalla oggettiva valutazione

esterna.

In qualunque modo si determini, è proprio la definizione collettiva del

problema a stimolare ed a promuovere l’emergenza sociale ed a condizionare il

modo in cui quest’ultimo viene considerato e successivamente affrontato.

Soltanto quando un fenomeno viene messo al centro del dibattito sociale può

divenire oggetti di percezioni, idee e sentimenti differenti. Ed è da questi

conflitti cognitivi che nascono e si sviluppano idee ed attività volte a migliorare

determinate condizioni problematiche.

Finchè la disoccupazione è stata considerata come un fenomeno non troppo

importante, e quasi un prezzo da pagare per mantenere un desiderabile modello

di economia aperta, scarso credito e poca attenzione hanno suscitato gli studi e

le dimostrazioni circa i costi personali e sociali dei gruppi che vivono questa

condizione.

E’ per questo motivo che ancora oggi pochissimi sono le ricerche autorevoli in

questa direzione, soprattutto nel nostro paese.

Le cose stanno però cambiando e questo si verifica molto probabilmente non

solo per la maggiore visibilità sociale del fenomeno, ma proprio perché, come

precedentemente descritto,, la disoccupazione è entrata a far parte dei cosiddetti

“problemi sociali” (G. Rojdalen, G. Gelin, and T. Ivergard 2005).

E’ da sottolineare in questo ambito la correlazione che esiste tra la probabilità

che un determinato effetto o fenomeno sia considerato “grave” e il suo grado di

importanza nella percezione di un particolare gruppo sociale.

Molti fattori possono influenzare la percezione della disoccupazione nella

collettività, facendo da filtri per determinate idee, sentimenti e per il livello di

considerazione da riporre nei confronti di questa problematica.

Tra i filtri che hanno una maggiore influenza nella percezione collettiva

troviamo innanzi tutto la visibilità dei cambiamenti della condizione di vita.

La perdita del lavoro infatti rappresenta un grande cambiamento a livello di

equilibri soggettivi nei confronti della società, che soltanto in parte riescono ad

essere mascherati dal supporto del Welfare.

L’individuo si trova nell’impossibilità di vendere le proprie capacità sul

mercato del lavoro, sentendosi così ai margini della vita produttiva della società

e sperimentando restrizioni più o meno significative del suo stile di vita

precedente e una ristrutturazione delle proprie modalità di relazionarsi a livello

sociale.

In questo contesto si può quindi parlare di perdita di status sociale e di

decremento dell’autostima personale che molto difficilmente possono tornare a

ribilanciarsi con l’ingresso in un gruppo sociale culturalmente valorizzato come

quello dei disoccupati.

Un altro filtro sociale da considerare è la diretta casualità strutturale. Perché

un problema possa trovare la sua collocazione nel folto gruppo dei fenomeni a

rilevanza sociale occorre che si possa collegare direttamente alla sua causa,

seguendo un percorso piuttosto lineare. Ad esempio la condizione di

disoccupazione può facilmente essere collegata alla chiusura di un’azienda,

oppure alla crisi economica in un determinato settore, o di un particolare

contesto.

In questa maniera si può rendere prioritaria l’esigenza di intervenire in modo

diretto sulle fonti del problema. Agire alla radice, avendo già a disposizione e

pronta una diagnosi di base del problema, può produrre certamente risultati più

soddisfacenti e stimola dunque la volontà di impegnarsi in una determinata

direzione.

Ancora possiamo considerare tra i filtri sociali principali gli effetti della

“cultura del lavoro”; da un lato la persona che non si impegna a fondo nella

ricerca attiva di un’occupazione, o che la rifiuta perché non attraente o inferiore

alle proprie capacità venga giudicata in modo negativo, ma anche dall’altro lato

che esauriti tutti i percorsi possibili di ricerca attuati dal singolo individuo

venga messo sotto accusa proprio il sistema sociale che non riesce a garantire a

tutti i suoi cittadini la soddisfazione delle singole esigenze di lavoro (Levitan,

Johnson 1982; Fraccaroli, Sarchielli 2002).

E’ questa seconda strada che ha preso sempre più forma negli ultimi anni,

promuovendo quindi l’attenzione verso il fenomeno della disoccupazione che

non è più considerato colpa dell’ indolenza del singolo, ma di un più

generalizzato disagio e di una carenza a livello sociale.

Seguendo questo punto di vista si va inoltre a ridimensionare l’immagine

sociale che stigmatizzava il disoccupato, e si passa da una valutazione di tipo

individualistico, che fa risiedere la fonte del problema nelle caratteristiche

psicologiche del singolo, ad una di tipo sociale che riscontra le mancanze e le

carenze del sistema generale entro cui si collocano gli individui.

Grazie a questa visione è sempre più importante analizzare le caratteristiche dei

diversi gruppi sociali coinvolti nel fenomeno della disoccupazione. C’è molta

più attenzione rivolta verso i costi psicologici e personali della condizione di

assenza di lavoro e ci si propone soprattutto di ricercare e trovare altre cause di

tipo sociale, economico e organizzativo da affiancare oltre l’incapacità

personale nella ricerca.

C’è ancora la percezione di elevata vulnerabilità. Al giorno d’oggi infatti

l’ampia disoccupazione che colpisce vari settori lavorativi consolida l’idea che

ogni lavoratore è un disoccupato potenziale, e non soltanto quegli individui,

come si pensava in passato, socioeconomicamente svantaggiati.

Questo fa sì che venga a rivoluzionarsi il significato di perdita del lavoro, che

viene intesa come minaccia e preoccupazione personale e non solo come

problema astratto, troppo distante dal proprio stile di vita, con ben definiti

confini e riferita a determinati gruppi sociali.

Infine è necessario citare nella lista dei filtri sociali il ruolo dei mass media.

Soprattutto negli ultimi anni il problema della disoccupazione sono al centro di

dibattiti e programmi televisivi. Non si parla soltanto di disoccupazione ma si

descrive anche l’entità del fenomeno e soprattutto viene dato forte rilievo

all’impatto psicologico che sperimentano i soggetti che si trovano a vivere una

condizione di mancanza di lavoro.

Molto spesso questo problema viene usato come punto di partenza per dibattere

sulla politica interna dello stato, oppure su determinati fenomeni sociali.

In generale l’immagine che emerge dalle varie trasmissioni tematiche è quella

che la disoccupazione sia uno dei più gravi problemi che colpiscono il mondo

occidentale, avendo caratteristiche di lunga durata e di difficile soluzione a

prescindere dalle scelte politico governative attuate da ogni paese.

L’impatto dei mass media ha una rilevanza fondamentale riguardo l’attenzione

dedicata dalla popolazione a questa problematica, i messaggi che passano

continuamente in televisione, sui giornali ed alla radio sensibilizzano ogni

individuo e catturano l’attenzione di grandi gruppi sociali.

Queste sono le principali ragioni che consentono di spiegare l’evoluzione

dell’interesse per la disoccupazione da parte della società. Ciò vuole anche

spiegare l’importanza che rivestono determinati fattori socio-cognitivi nella

determinazione del grado di importanza che il fenomeno assume a livello

sociale rispetto ad altre problematiche.

E’ comunque da tenere in considerazione che pur avendo fatto grandi passi

avanti nella conoscenza di questa problematica, la maggior parte dei dati

raccolti e degli studi riguardano il lato economico-statistico del fenomeno,

mentre l’ambito socio psicologico, soprattutto in Italia è ancora molto

sottovalutato e solo ultimamente si stanno intraprendendo studi sistematici a

riguardo.

2.4 Le prime ricerche empiriche sulla disoccupazione

La grande crisi economica che come abbiamo detto precedentemente interessò

tutto il mondo occidentale a partire dagli anni Trenta ebbe tra le conseguenze

più evidenti un aumento della disoccupazione, raggiungendo cifre mai

sperimentate prima di allora.

L’intensità e la rapidità con cui coinvolse la maggior parte dei settori produttivi

rivoluzionò la vita di milioni di persone che si trovarono di punto in bianco

senza lavoro e con grandi problemi, non solo economici, ai quali fare fronte.

Proprio per queste ragioni, per la dimensione del problema e per le sue

caratteristiche così eclatanti, in questi anni cominciarono a nascere studi sulla

disoccupazione nelle scienze sociali.

Tra tutti gli studi compiuti in quegli anni, possiamo citare quello compiuto da

J.L Halliday su un campione di 1000 operai scozzesi disoccupati, e i cui

risultati furono pubblicati nel 1935, quello di Eisenberg e Lazarsfeld “Gli effetti

psicologici della disoccupazione” pubblicato nel 1938, quello di Zawadsky e

Lazarsfeld, “Le conseguenze psicologiche della disoccupazione” pubblicato nel

1935 in “journal of social Psychology”.

Tuttavia il più approfondito è quello svolto da Jahoda et. al nel 1933, promosso

dall’istituto di psicologia di Vienna, e compiuto a Marienthal, un piccolo

villaggio austriaco nel quale la chiusura di una filanda aveva causato, per quasi

tutti gli abitanti, la perdita del lavoro (Jahoda, Lazarsfeld e Zeisel, 1933).

I dati raccolti dai ricercatori durante i 120 giorni trascorsi a diretto contatto con

la popolazione del villaggio hanno fondamento biografico , Marie Jahoda e i

suoi collaboratori hanno infatti usato la tecnica delle “storie di vita”

integrandola con altri strumenti.

Le storie di vita che furono raccolte a Marienthal sono classificabili come edite

ed estese, dove per estese bisogna intendere il fatto che queste riguardano

l’intera vita dell’intervistato e non solo una sua parte limitata; e per edite, in

questo caso specifico, il fatto che il materiale biografico raccolto è stato

manipolato e riscritto in terza persona dai ricercatori in modo da mettere in

evidenza non tanto il lato soggettivo/emotivo delle storie quanto piuttosto il lato

oggettivo/concreto dei diversi momenti del vissuto personale.

La loro finalità era quella di colmare il divario tra le statistiche ufficiali e i

resoconti a carattere letterario sulla disoccupazione approfondendo i legami

esistenti tra molti aspetti della vita psicologica e sociale dei disoccupati.

E’ proprio questa impostazione dell’indagine che consentirà allo studio sul

Marienthal di diventare un punto di riferimento per chi, ancora al giorno d’oggi,

vuole approfondire questo tema.

Il quadro che emerse dall’analisi di tutti i dati è molto articolato, per prima cosa

si evidenzia la stretta connessione tra disoccupazione e drastico abbassamento

dello stile di vita, questo dato piuttosto scontato porta però ad una riflessione

riguardo la società moderna. Chi lavora solitamente vive solamente di quello e

quando il lavoro viene a mancare crolla inevitabilmente e senza possibilità il

tenore di vita del singolo e del suo gruppo familiare.

A Marienthal infatti sono chiari gli effetti causati dal dover vivere con il 25%

del reddito che precedentemente proveniva dal lavoro.

“Per le strade sono scomparsi i cani e i gatti, che sono diventati un cibo tanto

appetibile quanto a buon mercato; l’85% delle cene è costituito dagli avanzi

del pranzo, o da pane e miscela di caffè; il vestiario è ridotto al minimo, con

gravi difficoltà nel rinnovarlo quando è usurato.” (Jahoda, Lazarsfeld, Zeisel

1972).

Ma l’elemento innovativo di questo studio e che maggiormente interessa in

questo contesto è l’esistenza di una serie di conseguenze portate dalla

disoccupazione alla sfera psicosociale.

Marienthal viene dunque descritta come una comunità “stanca”, pur avendo

abbondanza di tempo libero gli abitanti del villaggio non hanno la volontà di

impegnarlo, avendo esaurito tutte le loro risorse cognitive nel fronteggiamento

del loro problema primario.

E’ infatti proprio il tempo il primo elemento della quotidianità a cambiare di

significato.

La giornata del disoccupato è infatti caratterizzata da uno scarsissimo numero

di “eventi”, l’attività lavorativa infatti fornisce una scansione temporale netta e

formale, se viene meno il lavoro gli unici punti di riferimento della giornata

sono quelli scanditi dai ritmi biologici, questo accade soprattutto agli uomini,

visto che le mogli hanno conservato il loro status di casalinghe e continuano a

gestire la loro giornata come facevano prima della crisi. In generale si può

affermare che la comunità di Marienthal è tornata ad un rapporto più primitivo

con il tempo.

Un’altra consistente parte della ricerca è dedicata ad analizzare i principali tipi

di atteggiamento che si manifestarono nella popolazione.

Emersero quattro tipologie di soggetti e della loro reazione psicologica alla

disoccupazione: quelli in cui il morale si era mantenuto integro, il 25% circa,

che persistevano nella ricerca di occupazione ed impegnavano le loro energie

cognitive a fare progetti e piani d’azione, pur facendo i conti con le difficoltà

quotidiane.

Quelli rassegnati, che hanno perso ogni interesse in un riscatto economico e

sociale e si sono adattati alla situazione presente, rinunciando ad ogni strategia

di miglioramento.

Due famiglie su cento risultavano invece disperate, e si differenziano dalle altre

categorie per il loro stato soggettivo. Presentano vissuti di depressione, crollo

dell’autostima, rimpianto del passato che viene visto comunque migliore del

presente.

Infine il 5% dei nuclei familiari risulta apatico. Queste sono famiglie

completamente passive, in cui è venuta meno la motivazione anche a curare

casa e figli, e non solo la ricerca di lavoro. Non solo sono totalmente assenti i

progetti per il futuro, ma non c’è neanche traccia di programmi per fronteggiare

il disagio presente. In questo caso è spesso in discussione la vera e propria

sopravvivenza del nucleo familiare.

Gli autori riscontrarono inizialmente che gli effetti sull’equilibrio psicologico

degli aiuti stanziati dallo stato avevano messo in evidenza il diverso

comportamento dei quattro gruppi sopra descritti, riscontrando ovviamente un

maggior adattamento alla situazione problematica a vantaggio del primo

gruppo.

Le conclusioni misero anche in luce che la reazione individuale alla perdita del

lavoro era molto diversa, anche nel lungo periodo, da individuo a individuo.

Infatti la durata della disoccupazione e la possibilità di compiere su questi

soggetti uno studio longitudinale evidenziò le differenti fasi psicologiche

vissute dal disoccupato. Si parte da uno shock iniziale per poi passare alla fase

di adattamento alla situazione problematica e di attivazione delle proprie risorse

cognitive per far fronte al problema.

A partire dalle indagini sul Marienthal e più in generale sulla grande

depressione degli anni Trenta sono stati individuate alcune linee guida che

indirizzano l’analisi dei vissuti e delle esperienze di vita sperimentate dai

discoccupati.

Questo ha reso possibile improntare lo studio sulla disoccupazione in termini

psicologici seguendo strade già percorse, che forniscono quindi basi sicure

come punto di partenza.

Oggi come negli anni Trenta il fine principale degli studi psicologici sulla

disoccupazione non è certo quello, per altro impossibile, di eliminare il

problema, ma è piuttosto quello di far emergere una vasta gamma di

conseguenze non economiche della mancanza di lavoro, in modo da riconoscere

e spiegare i costi personali e sociali sperimentati dai soggetti disoccupati e

possibilmente promuovere degli interventi volti a attutirne le conseguenze sulla

salute psichica del soggetto.

A partire dallo studio precedentemente descritto tutte le ricerche svolte in

seguito hanno confermato le considerazioni alle quali erano giunti il gruppo di

ricercatori Jahoda, Lazarsfeld e Zeisel.

L’unica aggiunta apportata al corpus di conoscenze psicosociali è, in quegli

anni, l’individuazione di fasi tipiche nella reazione dei soggetti alla perdita del

lavoro.

I primi a formulare questa teoria in modo completo furono Zawadki e

Lazarsfeld nel 1935.

Questi due ricercatori, presso l’istituto di Economia sociale di Varsavia, ebbero

l’idea di offrire un piccolo premio in denaro alla migliore “storia di vita” di un

disoccupato.

La loro finalità era chiaramente quella di procurarsi un consistente campione di

autobiografie da analizzare, in modo da poter studiare le reazioni alla perdita di

lavoro in funzione dell’intera vita dei soggetti

Dopo un’opera di revisione e pulitura di tutte quelle autobiografie reputate

“teatrali” o scritte da mitomani, restarono da studiare 57 autobiografie.

In questo modo si potè arrivare a formulare l’ipotesi dell’esistenza di fasi

tipiche post-perdita di lavoro.

Al licenziamento seguirebbe una fase che viene caratterizzata, a seconda del

coinvolgimento emotivo di ognuno, da paura, ansietà e rabbia (Zawadki e

Lazarsfeld,1935)

La seconda fase è quella da un’iniziale apatia che consente al soggetto di

recuperare un minimo di risorse per poter impegnarsi in una ristrutturazione

cognitiva del proprio ruolo e per poter recuperare la propria attività (Zawadki e

Lazarsfeld,1935)

Se questi sforzi però non vanno a buon fine e lo stato di disoccupazione

persiste, facendo sperimentare al soggetto una sempre maggiore ristrettezza

nelle proprie condizione di vita, si ripresentano paure ed ansietà, che possono

sfociare in un vero e proprio stato di angoscia nei confronti del futuro.

Spesso questa condizione porta a rivivere l’apatia iniziale, senza però che il

soggetto possieda più le energie mentale per riscattarsi nuovamente. Questo

può portare il soggetto ad una cristallizzazione da cui diventa problematico

uscire sbloccarsi.

Il grande interesse suscitato da questa sequenza temporale è dovuto

essenzialmente alla sua caratteristica diacronica e alla spiegazione del modo del

tutto soggettivo che ogni individuo può percorrerne le fasi, compiendole tutte o

solo in parte.

Un altro modello che si propone di studiare la reazione alla disoccupazione per

fasi è quello di Gatti, un giovane studioso che, nel 1937, basò le sue

considerazioni sulla disoccupazione sui colloqui avuti presso il Centro di Studi

del Lavoro di Torino con operai disoccupati, segnalati dall’Ufficio di

Collocamento “per il loro razionale avviamento al lavoro” .

Esaminando circa 900 casi in due anni Gatti ricavò una serie di informazioni

interessanti, poiché la sua volontà di base era quella di rintracciare le

motivazioni soggiacenti alla differenza di reazioni tra un soggetto e l’altro.

La sua visone di disoccupazione è quella di “crisi psicologica”, che può

manifestarsi attraverso tre reazioni psichiche differenti: l’apatia, la non

rassegnazione e l’ansia (Gatti, 1937).

Queste tre reazioni vengono collocate all’interno di un modello diacronico nel

quale la prima fase della disoccupazione è sempre caratterizzata dalla fiducia di

poter trovare un nuovo lavoro. Quando però questa convinzione non trova

riscontro la disoccupazione assume allora tutte le caratteristiche di una vera e

propria crisi. Il soggetto si autoconvince dell’inutilità di ogni suo sforzo e cerca

di liberarsi della tensione emotiva che cresce.

Per fare questo quando non manifesta esternamente il proprio stato emotivo,

con reazioni di rabbia o tristezza, allora il soggetto rischia di chiudersi in se

stesso e di sviluppare una personalità patologica.

Al contrario il disoccupato che non si rassegna alla propria condizione, sempre

secondo Gatti, diventa critico nei confronti della società ed opera una

supervalutazione del proprio io. Non ripone fiducia in nessuno se non in se

stesso e tende anche a rifiutare aiuti e consigli che gli vengono proposti (Gatti,

1937).

Oltre lo studio di Gatti l’unico svolto in Italia con rilevanza scientifica è quello

di Sacerdote, pubblicato sempre nel 1937, ed è un insieme di osservazioni tratte

dal lavoro quotidiano a contatto con gruppi particolari di disoccupati, con

problemi contingenti.

Per questo il ricercatore, facendo affermazioni sulla loro preoccupante

condizione, che tocca aspetti psichici, fisici ed economici giunge alla

conclusione che in una situazione di così elevata deprivazione la fase terminale

del percorso dell’esperienza di disoccupazione a cui giunge il soggetto è quella

dell’ “anestesia psichica”, ovvero di una totale desensibilizzazione e deficit

delle proprie risorse cognitive.

Un’ultima ricerca che vale la pena di citare, per l’impostazione e le finalità che

si discostano dalle altre, è quella svolta nel 1940 da Mirra Komarowsky.

Il suo obbiettivo è stato quello di analizzare la connessione tra il ruolo

dell’uomo come elemento fondamentale per il sostegno economico della

famiglia e la sua autorità all’interno di essa.

Il campione di soggetti proveniva da una grande città industrializzata vicino a

New York ed è stato selezionato secondo criteri molto severi, in modo da

assicurare la costruzione di un gruppo sperimentale il più possibile omogeneo.

Per ognuna delle famiglie selezionate, in totale 59, ne vennero intervistati 3

componenti, la madre il padre e un figlio, separatamente l’uno dall’altro.

Una delle conclusione tratte da questo lavoro è stata che l’equilibrio emotivo

della famiglia risultava tanto più compromesso quanto maggiormente l’uomo

identificava nel lavoro perso l’unica possibile fonte di autorealizzazione

personale.

Il valore di questo lavoro proviene soprattutto però dalla volontà di ampliare

l’indagine dal lato individuale alle dinamiche dei ruoli familiari, da considerarsi

fattore rilevante nella comprensione delle conseguenze legate alla perdita del

lavoro.

Analizzando dunque gli studi qui esposti, che sono i più rilevanti dell’epoca, in

campo nazionale ed internazionale, si può concludere che già allora si tentò di

dimostrare la connessione diretta di causa-effetto tra perdita del lavoro ed una

serie di conseguenze negative per le persone coinvolte, direzione sulla quale si

sono orientati anche gli studi successivi.

A questo si aggiunge la modalità di considerare i disoccupati, che vengono visti

come una categoria nella quale sono molto più importanti le somiglianze che le

differenze, in questo modo si può tentare di costruire un modello che cerchi di

spiegare in modo uniforme gli effetti psicosociali della disoccupazione.

Questa idea di basarsi sulle somiglianze, per formulare modelli di studio, è

supportata dal fatto che come gli operai di Marienthal presentavano una storia

di vita molto simile una con l’altra è lecito pensare che questa somiglianza si

possa estendere a tutti i disoccupati.

E’ comunque necessario tener conto anche delle differenze che si possono

riscontrare, e gli studi fin qui descritti costituiscono la base su cui si sono

poggiati i ricercatori successivi, che partendo dalle loro conclusioni hanno

potuto investire risorse per investigare in maniera più adeguata sull’importanza

e la funzione delle differenze soggettive, che spiegano il perché determinati

soggetti percorrono in modo diverso da altri le fasi tipiche del percorso di vita

sperimentato del senza lavoro.

Ed il punto fondamentale di differenziazione, di cui parlerò nei prossimi

capitoli, e che è emerso negli studi successivi è il significato attribuito al lavoro

da ognuno.

Se infatti l’attività lavorativa è caricata da molte valenze positive, se diventa

luogo di formazione importante per il soggetto e se da questo provengono le

maggiori risorse, economiche e cognitive, per costruire una buona immagine di

sé, per incrementare la propria autostima allora la disoccupazione può portare

ad uno stato di deprivazione che può condurlo a sviluppare reazioni patologiche

a questo evento stressante.

Questo ovviamente a parità di altre variabili, come ad esempio la condizione

economica, infatti al di sotto di una certa soglia, quando è in discussione la

sopravvivenza del soggetto, basandosi anche sulla teoria della piramide dei

bisogni di Maslow, il peso di tutto il resto tende a sparire, per far fronte al grave

problema contingente.

Volendo fare un quadro generale di quanto detto finora possiamo affermare che

alla disoccupazione sono associate forme di malessere sociale e psicologico che

vanno dalla diminuzione dell’autostima, dalla destrutturazione della propria

identità sociale nel tempo fino ad arrivare ad episodi di depressione.

Gli effetti individuati nei primi studi sono stati maggiormente descritti piuttosto

che spiegati, ma hanno fornito la base teorica su cui poter costruire le teorie

successive.

Infine la concezione della disoccupazione come evento di vita catastrofico ha

consentito di trovare un punto che accomuna ogni disoccupato e che riduce le

differenze intersoggettive.

Capitolo 3 – Disagi e fattori modulatori della disoccupazione

3.1 La disoccupazione come evento di vita

Un "evento di vita" è definibile come un'esperienza che distrugge (o che si teme

possa distruggere) la normale attività di un individuo, inducendo una profonda

trasformazione del suo equilibrio psichico.

Tale trasformazione assume il valore e l'intensità di un'esperienza

psicologicamente stressante. Il lavoro sistematico di ricerca sugli eventi di vita

è nato agli inizi degli anni '60.

In quel periodo si tendeva a correlare la sintomatologia psichica con una serie

di eventi riscontrati lungo l'esistenza delle persone stesse.

Molti studiosi hanno analizzato i processi per cui questi eventi di vita

condizionano lo stress psicologico.

In uno studio su un campione di adulti a Chicago, Pearlin e Liebermann hanno

trovato che 5 su 10 degli event i di vita con la più alta correlazione con lo stress

psicologico sono collegati allo stato occupazionale.

Warr, nell'articolo "Work, job and unemployment" ha messo in evidenza 9

possibili aspetti negativi dell'evento di vita disoccupazione:

1) è chiaro che la disoccupazione può provocare un decremento delle entrate

economiche. Gli studi suggeriscono che lo stress finanziario, in particolare nelle

classi operaie, è molto alto.

2) Senza una retribuzione la varietà della vita di una persona è piuttosto

ristretta. Questo è in parte dovuto al non poter uscire di casa spesso.

Non vi è da sorprendersi se gli uomini disoccupati si dedichino più spesso della

cura dei bambini della casa.

3) La disoccupazione crea meno obiettivi e non permette quella che in inglese

si definisce "traction" e che corrisponde allo slancio motivazionale chr offre un

lavoro;

4) un altro aspetto negativo è una ridotta capacità di prendere decisioni. Può

sembrare che la disoccupazione offra più libertà nelle decisioni quotidiane ma

queste riguardano strettamente le "routine".

Invece per quel che riguarda le decisioni più importanti la gamma di opzioni

disponibili è senz'altro ridotta

5) Il ridotto esercizio di abilità lavorative che portano alla soddisfazione

personale,

6) l'esposizione ad alt ri eventi di vita potenzialmente minacciosi,

7) l'insicurezza per il futuro,

8) la diminuzione dei contatti interpersonali,

9) la diminuzione del prestigio sociale e in una certa misura dell'autostima in

forma che vedremo meglio successivamente.

Come abbiamo visto, la perdita del lavoro come evento di vita può causarne

altri come cambiamento delle relazioni familiari, debiti che richiedono prestiti

di denaro, perdita della casa, consumo dei risparmi, spostamenti di residenza e

cambiamenti di status sociale che a loro volta generano stress fisico e mentale.

Uno studio specifico sugli eventi di vita è quello di Dohrenwend.

Egli ha suggerito possibili modelli di come la disoccupazione possa stimolare

processi psico-patologici.

La prima ipotesi è quella della "vittimizzazione”: essa implica che gli eventi di

vita causino la psicopatologia direttamente.

La seconda ipotesi, detta della "vulnerabilità", pone l'accento sulle risorse

personali del singolo come decisive per mediare l'impatto dell'evento

disoccupazione.

Di grandissima importanza appaiono le modalità di "coping", ossia

l'atteggiamento cognitivo che modula la portata dell'evento stressante, e il

rapporto sociale, ossia le persone o istituzioni che possono offrire appoggi

morali o finanziari.

Un quesito, all'interno di questa seconda ipotesi, è se l'evento disoccupazione

influenzi il disagio direttamente o agisca anche come "peso aggiunto" sui fattori

modulatori rendendone problematica l'azione.

La terza ipotesi, quella del "fardello cronico" ipotizza che gli eventi di vita per

quanto gravi abbiano un peso relativo rispetto ai disagi cronici presenti nella

vita del singolo.

Disagi come la povertà, la bassa educazione, la morte di un genitore sono

spesso legati a situazioni stressanti e sono di per sé sufficienti a spiegare

situazioni patologiche.

L'evento disoccupazione aggiungerebbe poco alla spiegazione e sarebbe più da

considerare l'effetto di un disagio antecedente.

Si può pensare la disoccupazione come un meccanismo di selezione fra persone

più o meno vulnerabili oppure come l'origine e la causa stessa del disagio.

Questo è un tema piuttosto ampio che solo ricerche approfondite possono

chiarire.

In questo contesto possiamo dire che la maggior parte degli studi effettuati ha

un'impronta causalistica nel senso che considera i disagi come successivi

all'evento disoccupazione. Insonnia, irritabilità, ansia, depressione sono visti

come sintomi di un processo patologico messo in moto dall'evento di vita

sfavorevole (Bartley, M; Ferrie, J Glossary, 2001).

Le analisi più comuni sui disoccupati sono di tipo cross-sectional ,osservano le

differenze nelle condizioni dei disoccupati e degli occupati in una dimensione

temporale.

Questo modo di procedere, benché ricco di spunti e indicazioni sul grado di

disagio, non permette un'analisi causalistica del processo di formazione del

disagio, proprio invece di studi longitudinali che si sviluppano nel tempo.

L'ideale sarebbe uno studio che seguisse l'evoluzione del disagio nel tempo, in

momenti antecedenti e successivi all'evento disoccupazione in modo da

scoprirne nessi di causalità.

Uno studio longitudinale di questo tipo è quello di Banks e Jackson del 1982

"Unemployment and risk of minor psychiatric disorder".

Qui un indicatore di disagio è stato somministrato a due gruppi di studenti della

cittadina inglese di Leeds.

Il primo, composto da 647 ragazzi, è stato esaminato nell'anno in cui avevano

lasciato la scuola; il secondo, formato da 1.096 allievi che ancora la

frequentavano, è stato esaminato nell'anno successivo.

Ciascun gruppo è stato seguito per oltre un anno e mezzo. Particolarmente

interessanti sono i confronti effettuati in due successivi periodi sul gruppo che

in partenza era ancora a scuola.

Un primo controllo è stato effettuato 20 mesi dopo che essi avevano lasciato la

scuola e un secondo ad un intervallo ancora successivo.

Distinguendo al momento del primo controllo i campionati secondo il loro

attuale stato occupazionale vediamone i risultati.

L'indice di disagio è dato dal GHQ di Goldberg.

Emerge che il disagio aumenta notevolmente per i disoccupati mentre cala per

coloro che hanno trovato un'occupazione. Analoghe rispondenze si ritrovano

nel secondo controllo che distingue ancora i campionati per il loro attuale stato

occupazionale.

La principale osservazione che emerge da queste analisi è il fatto che i valori

del disagio nel periodo scolastico erano simili e che quindi il processo di

acutizzazione del disagio è effetto esclusivo del successivo stato occupazionale,

in senso positivo per gli occupati e in senso negativo per i disoccupati, il che ci

fa escludere l'interpretazione della disoccupazione come effetto di situazioni

patologiche.

La conclusione di questo studio è che pare che la disoccupazione sia la causa

prima del disagio. In realtà questa affermazione è piuttosto forte.

Diciamo pure che essa si addice molto bene ad una situazione come quella

attuale, dove il disagio disoccupazionale è dilagante, dove una persona

"normale" se vuole lavorare trova spesso molte difficoltà per farlo.

Ma il problema è forse più complesso. Pensiamo ad una situazione di alta

occupazione dove solo poche persone restano disoccupate.

Non si potrebbe forse pensare in questo caso che la disoccupazione agisca come

selezione? Ossia che le persone che rimangono inoccupate siano per così dire

predisposte a restarlo?

Si pensi a gruppi svantaggiati come gli immigrati, i giovani, gli anziani e gli

handicappati. In quel caso allora non si potrebbe definire la disoccupazione solo

l'effetto di una condizione di precedente marginalità?

Probabilmente vi è una parte di causalità diretta della disoccupazione nel

disagio, ma sicuramente agiscono altri fattori predisponenti , che fanno sì che il

modo di affrontare la disoccupazione sia personale e che vi siano tante

"disoccupazioni diverse" per ognuno.

La grande quantità di tempo libero che si offre a un disoccupato può divenire

un grande problema che coinvolge l’identità stessa dell’individuo. A seconda di

come riesce a gestire questa forzata libertà dipendono molti dei suoi equilibri

psicologici.

Un articolo di Brenner e Bartell, “The psychological impact of unemployment:

a structural analysis”, mette bene in luce il legame con il disagio psicologico

formulando due ipotesi: che il tempo occupato o disoccupato influenzi

direttamente lo stato mentale, oppure che il disagio occupazionale sia

precedente e che quindi da esso dipenda la capacità di un positivo impiego del

tempo.

Quel che conta è l’importanza per il disoccupato di strutturare correttamente la

propria giornata e da qui la propria identità, tenuto conto delle funzioni che ha

il lavoro in questo senso e dei vuoti che crea la sua perdita.

Sono stati fatti diversi studi sui modi in cui viene impiegato il tempo libero da

parte dei disoccupati: un interessante tentativo di categorizzare le attività è

quello di Rosemary Kilpatrick che si propone di studiare gli atteggiamenti di un

campione di disoccupati nordirlandesi in relazione ad alcune caratteristiche

personali.

L’autrice distingue due tipi di comportamenti, quello “home centred”,cioè

rivolto verso la famiglia e la casa, e quello rivolto più verso le relazioni sociali,

dividendo poi questi in due sottogruppi.

Nell’ambito dell’ atteggiamento home-centred distinguiamo i gruppi:

“domestico” : caratterizzato dallo spendere la maggior parte del tempo a casa in

attività domestiche (cucinare, lavoretti, fare giardinaggio, pitturare, pulire la

macchina, fare shopping, curare animali )

“passivo”: caratterizzato da una gran parte del tempo spesa in passatempi

passivi ( ascoltare la radio, guadare la televisione, studiare a casa, leggere,

chiaccherare)(Kilpatrick, 2002).

Nell’ ambito degli atteggiamenti sociali vengono distinti il tipo

“attivo”: caratterizzato dalla maggior parte del tempo speso in passatempi attivi

(fare e guadare sport, passeggiare) e attività di ricerca del lavoro, e quello

“sociale”: caratterizzato dal fatto di passare gran parte del tempo con gli altri (

giochi, discoteche, bar, biblioteche, seguire lezioni, visitare amici e parenti).

Un dato che emerge con chiarezza è il fatto che il benessere psicologico

diminuisca progressivamente nel seguente ordine:

attivo? sociale? domestico? passivo (Kilpatrick, 2002).

Come emerge dalla tabella tratta dalla ricerca di R. Kilpatrick.

Attivo 10,75

Sociale 12,03

Domestico 14,20

Passivo 17,48 Valori di GHQ per i diversi gruppi

Interessanti sono anche le caratteristiche dei singoli gruppi:

il gruppo “attivo” , che rappresenta il 19% del campione, ha la maggior

percentuale di uomini con donne che lavorano. Questo dovrebbe essere

considerato assieme al fatto che i membri di questo gruppo hanno famiglie

piccole con figli sopra i cinque anni e che quindi non abbisognano di

grandissime attenzioni.

Un’altra caratteristica del gruppo è che ha la maggior percentuale di “nuovi”

disoccupati , il 50% dei quali essendo fuori dal lavoro per meno di tre mesi e

che quindi non ha ancora subito le più nefande ripercussioni della

disoccupazione.

Il gruppo “sociale” rappresenta il 25% del campione e ha la maggior

percentuale di giovani e singol, ma con una famiglia di parenti che vive loro

vicino. Questo gruppo contiene anche la maggior percentuale di lavoratori con

esperienze passate di prolungata disoccupazione.

Il gruppo “domestico” che rappresenta il 32% del campione, ha caratteristiche

mediane in tutti i valori e non si distingue per nessun particolare aspetto se non

che ha la maggior percentuale di sposati.

Il gruppo “passivo” è il 24% del campione ed è quello con a carico un maggior

numero di bambini e per di più sotto i cinque anni (Kilpatrick, 2002).

Tutto questo può voler dire che l’identità del lavoratore è rimasta legata al suo

lavoro istituzionale; solo quello ha per lui una sua dignità, il resto viene

consciamente ”censurato” in quanto estraneo alla sua identità e da inserirsi nel

limbo di una condizione precaria e conflittuale.

Possiamo quindi dire che una buona struttura del tempo dell'individuo della è

un'altra risorsa capace fare fronte ai danni di natura psicologica e fisica durante

la disoccupazione.

Alcuni disoccupati, per esempio, possono organizzare il loro tempo, mantenere

le proprie routine, ritenere il loro tempo abbia comunque uno scopo anche

senza il lavoro.

Questo evita di concentrarsi eccessivamente sulla propria condizione passata

(Feather, 1989).

Una buona strutturazione della propria giornata dipende dalle variabili

soggettive dell’individuo (atteggiamento, predisposizione, motivazione) e dalla

sua situazione (obblighi familiari o altre attività che costituiscono punti fermi

nell’organizzazione della giornata).

Dopo aver visto come può essere vissuta la dimensione del tempo da un

disoccupato si potrebbe cercare di costruire un "modello a fasi" per vedere se

esistono delle fasi comuni nell'esperienza di disoccupazione di un individuo.

Abbiamo spesso parlato di "tante disoccupazioni" volendo con ciò affermare

che in questo tipo di esperienza è fondamentale la risposta personale del

soggetto che ha un vissuto tutto suo dell'evento, tuttavia almeno per quel che

riguarda una disoccupazione di lunga durata si può tentare di tracciare un

modello per stigmatizzare i vissuti che si riscontrano con maggiore frequenza.

I maggiori tentativi in questo senso risalgono a molti anni fa e si possono

sintetizzare nei due principali studi di Hopson e Adams e quello successivo di

Harrison.

Hopson e Adams hanno selezionato le risposte ad un questionario

somministrato a 100 disoccupati e riscontrato sette diverse fasi del ciclo

dell'autostima.

Vi è un primo periodo di immobilità nel quale la persona è sopraffatta

dall'evento, seguito da un tentativo di minimizzare il cambiamento, dove si

cerca di comportarsi come se nulla fosse avvenuto.

Una terza fase è quella depressiva, caratterizzata da un profondo senso di

inutilità. Seguirebbe un nuovo tentativo di razionalizzare la situazione con un

momento di accettazione e di seguente attivismo, cui seguirebbe la ricerca di un

nuovo significato da dare alla vicenda con una fase conclusiva di accettazione e

interiorizzazione.

Il modello tuttavia più interessante e maggiormente accettato è quello di

Harrison.

Esso, per quanto simile sotto molti aspetti, si distingue dal precedente in

quanto, nella fase finale dell'esperienza, non vi sarebbe un innalzamento

dell'auto-stima a seguito dell'accettazione della nuova realtà ma al contrario si

entrerebbe in una fase di profondo fatalismo.

Sinteticamente la disoccupazione di lunga durata configura le seguenti fasi

comuni:

a) la reazione iniziale è traumatica (shock): come risposta a questo shock, il

disoccupato passa prima attraverso un tentativo di negazione dell'esistenza

dell'evento

b) poi c’è la reazione alla perdita di lavoro come se si trattasse di una

liberazione (ottimismo)

c) quindi nella terza fase, quella intermedia, che è assai debilitante dal punto di

vista psicologico rispetto a quello iniziale, il disoccupato entra nella prospettiva

dove l'accettazione della nuova identità comporta una diminuzione del grado di

autostima fino all'esaurimento delle capacità di reazione.

La persona si sente sempre più depressa, annoiata, pigra. K. Briar ha

identificato questa fase come un "modo di vita senza lavoro",

subendo l'individuo una sorta di scivolamento verso il basso nel quale la

depressione si unisce all'inerzia e alla passività (A. Preti, 2003)

d) dopo questo periodo di forte difficoltà psicologica l'individuo entra in una

quarta fase (quella terminale) contraddistinta dall'adattamento psicologico alla

nuova realtà. Tuttavia, lo stato di ansia e le residue energie e speranze, che nella

fase precedente si contrapponevano alla progressiva accettazione della realtà,

evolvono verso una sorta di fatalismo e inerzia (A. Preti, 2003).

Lo stato di non lavoro diventa condizione routinaria e la disoccupazione

diventa, in tal modo, una nuova maniera di vivere.

Ricordiamoci sempre, prima di chiudere l'argomento che il modello proposto è

pensato per una disoccupazione di lunga durata e che in quanto modello

sviluppa un “percorso tipo” che a volte può non corrispondere alla realtà della

situazione.

3.2 I fattori colpiti dalla disoccupazione

Malattia e salute sono due concetti labili se applicati alle strutture mentali

dell'organismo. Una persona con una costituzione debole ma senza sintomi

specifici è fisicamente in salute o malata? Una persona che va alla deriva senza

riuscire ad opporvi la propria volontà, va considerato pienamente capace di

intendere e di volere? La risposta a tale quesito dipende ovviamente dalle nostre

aspettative su come una persona dovrebbe comportarsi. Per non addentrarci nel

campo dei valori, valgono alcune precisazioni: il binomio salute-malattia non

rappresenta i due poli antitetici di una stessa condizione, come se la presenza di

una implichi l’assenza dell'altra; esiste al contrario un'ampia gamma di

sfumature del fenomeno (D. W. Brown et al. 2003).

Nel caso della disoccupazione si ha a che fare con una varietà di sintomi

difficilmente classificabili nell'area della psicopatologia: essi sono la

prostrazione, la noia, l'ansia, il senso di inutilità, l'isolamento.

Solo per una percentuale relativamente piccola di disoccupati si può parlare di

manifestazione di disordini psichiatrici.

La maggior parte dei disoccupati non soffre di disordini psichiatrici. Quello che

essi esperiscono è un abbassamento del morale. La confusione nasce dalla

comunanza dei sintomi fra persone che hanno disordini psichici e altre che

hanno perso un positivo attaccamento alla vita. Così una definizione esatta di

disagio mentale del disoccupato è aleatoria.

Si riscontra un'ampia gamma di sintomi che variano a causa di molti fattori

determinando reazioni personali al fenomeno disoccupazione.

Vediamo di analizzare questi disagi partendo dall'idea della disoccupazione

come evento di vita.

Possiamo prendere ad esempio uno studio recente di Lindstrom pubblicato su

Occupational Medicine nell’ Ottobre 2005.

Sono stati inviati circa 10000 questionari postali per un’analisi trasversale sulla

sanità, sia a persone disoccupate che occupate, in età compresa tra i 18 e i 64

anni.

I dati sono stati analizzati in modo da far emergere l'associazione fra i fattori

psicosociali lavoratore-disoccupato ed il benessere psicologico.

Lo strumento utilizzato è il General Healt Questionare di Goldberg.

L’ analisi a più variabili ha incluso l'età, il paese d'origine, la formazione,

l’impegno economico economico e la partecipazione sociale.

I risultati emersi sono i seguenti.: su un totale di 5180 questionari restituiti il

loro questionario, al 15% degli uomini e al 20% delle donne è stata riscontrata

la presenza di disturbi psichiatrici minori.

I disoccupati hanno evidenziato una probabilità significativamente più alte di

manifestare problemi. (Lindstrom, 2005).

Lo studio ha quindi trovato che determinati fattori psicosociali del lavoro sono

associati a i livelli elevati di malessere psicologico .

Come riscontrato in altri studi precedenti, quindi, essere disoccupato è una

condizione predittiva per la manifestazione di disagio.

Esistono molte lacune nella letteratura psicologica circa l’impatto sulla salute

psicofisica del disoccupato.

Purtroppo invece il fenomeno ha continuato a crescere negli anni ed è ancora

aumentato dopo l’ 11 settembre 2001.

Per esempio, il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti ha avuto un forte

incremento, da 4,0% nel 2000 al 6,0% del 2003 e la durata media di

disoccupazione è andata dalle13 settimane ad oltre 19 settimane (U.S. Bureau

of Labor Statistics, 2003).

Durante i primi nove mesi del 2003, si sono verificati 5.206 episodi di

licenziamento negli Stati Uniti che hanno portato ad milione di separazioni

(U.S. Bureau of Labor Statistics, 2002)

Queste nuove tendenze evidenziano l’importanza di un approccio più

sistematico verso la disoccupazione.

3.2.1 Il benessere psicofisico

Tantissimi articoli sono stati scritti circa l'esperienza della perdita di

lavoro o delle prospettive di coloro che non trovano un impiego (per citarne

alcuni, Solomon, 2005; Howe, Levy, Caplam, 2004; Blakely, Collings,

Atkinson, 2003; Price et al, 2002; Wanberg, Kammeyer-Mueller, & Shi, 2001;

Hanisch, 1999) e ritraggono la perdita di lavoro come un’ esperienza altamente

stressante che provoca reazioni quali ansia, depressione e problemi generali alla

salute fisica.

Tuttavia, la sintesi quantitativa della letteratura riguardo al rapporto fra

disoccupazione e il benessere è molto limitata.

Una meta-analisi completa è necessaria all'interno di questo campo di ricerca

perché il numero ampio di studi che esistono possono produrre conclusioni

errate .

Esistono tre tipologie di ricerche che hanno appoggiato la tesi dell'effetto

negativo della disoccupazione

Gli studi rappresentativi hanno indicato che i gruppi disoccupati tendono ad

avere più bassi livelli di benessere psicologico e fisico rispetto ai gruppi di

occupati, esattamente come ipotizzato nella mia ricerca (Wanberg ed altri,

2001).

In secondo luogo, gli studi longitudinali che hanno seguito gli individui nella

loro esperienza di disoccupazione e di eventuale successivo ricollocamento

lavorativo, mostrano chiaramente l’aumento di benessere psicologico e fisico

fra coloro che sono stati riassunti.

Non possiamo, tuttavia, trarre conclusioni causali da questo tipo di dati. Un

ricercatore, per esempio, che trova un gruppo di disoccupati con un livello di

salute mentale più bassa di un gruppo di controllo di occupati di non può

concludere che il livello più basso di salute mentale è una conseguenza certa

della disoccupazione.

Può infatti essere possibile che gli individui con un livello di benessere

psicologico più basso siano più a rischio di perdere il proprio lavoro (Blakely,

Collings, Atkinson, 2003)

Questa preoccupazione è stata chiamata "polarizzazione di selezione" (Kessler,

Turner, & House, 1987) o semplicemente "selezione" (Claussen, Bjørndal, &

Hjort, 1993)

Gli studi longitudinali presentano un vantaggio a riguardo, ovvero di

confrontare gli stessi individui nel tempo, mentre hanno lo di doversi

confrontare con la mortalità dei soggetti (Vinokur et al., 2002).

Infine, bisogna tenere conto che gli studi longitudinali fanno emergere anche i

cambiamenti naturali e biologici del soggetto e del suo benessere benessere .

Una meta analisi basata su nove studi longitudinali intrapresi fra il 1986 e il

1996 ha fornito le informazioni iniziali sulla dimensione potenziale dell’effetto

della disoccupazione sulla salute mentale (Murphy & Athanasou, 1999).

Warr (1987) e Jahoda (1979) hanno fornito le spiegazioni teoriche sul perchè la

disoccupazione può avere effetto negativo sul benessere degli individui.

Warr (1987) ha ipotizzato che la disoccupazione conducesse a conseguenze

psicologiche e fisiche negative perché gli individui disoccupati non avvertono

una categoria di nove benefici positivi connessi con occupazione:

1) l'occasione di sperimentare controllo,

2) L’occasione di utilizzare le proprie abilità,

3) La motivazione apportata dal porsi obiettivi,

4) Varietà nell’utilizzo del proprio tempo,

5) Benessere ambientale,

6) Disponibilità di soldi,

7) Sicurezza fisica,

8) L’occasione per avere contatto tra persone

9) Stima dela posizione sociale.

Jahoda (1982) ha concluso similmente che la perdita di lavoro può spiegare i

risultati negativi sul benessere, perché gli individui disoccupati sono meno

portati ad essere ottimisti riguardo la loro condizione.

Inoltre ha spiegato che l'occupazione impone di strutturare temporalmente in

modo preciso la propria giornata, questo permette che gli individui socializzino

con gli altri, fornisce alle persone in senso di avere uno scopo.

Alcune ricerche recenti hanno parzialmente sostenuto le suddette precedenti

ipotesi (Kinicki, Prussia, & McKee-Ryan, 2000; Wanberg, 1995; Winefield,

Winefield, Tiggemann, & Goldney, 1991).

In base alla discussione precedente, si può supporre che nella nostra ricerca

troveremo più bassi livelli di benessere fra gli individui disoccupati in paragone

agli individui.

Un piccolo numero di studi ha esaminato il rapporto fra benessere psicologico e

fisico di operai in mobilità e la loro probabilità di trovare un nuovo impiego.

Claussen ed altri (1993) hanno tratto i loro risultati da un campione scelto a

caso tra gli operai disoccupati registrati in Norvegia.

Coloro i quali hanno ottenuto risultati normali sulle prove di afflizione e salute

generale sono i soggetti che hanno una probabilità maggiore di essere riassunti

in breve tempo.

Questi risultati sono stati sostenuti anche dagli studi recenti intrapresi nei Paesi

Bassi (Taris, 2002), in cui i punteggi di più alta salute mentale sono stati

collegati con la probabilità di ricollocamento lavorativo fra 98 adulti

disoccupati.

Anche se i risultati empirici non sono univoci, l'analisi teorica suggerisce una

correlazione positiva fra benessere durante la disoccupazione e la probabilità

percepita di ottenere una nuova occupazione.

Taris (2002), per esempio, ha spiegato in che modo agisce la percezione di

reinserimento lavorativo, sostenendo che i valori di salute mentale negativi

possono deteriorare la capacità degli operai disoccupati di modellare

attivamente il proprio ambiente e ridurre così i loro comportamentidi ricerca,

diminuendo così, in una catena di rinforzi negativi, la loro probabilità di

ricollocamento.

Un breve accenno va fatto anche per quanto riguarda gli effetti più

propriamente fisici della disoccupazione sulla salute dei nostri disoccupati.

Abbiamo già visto come le conseguenze dell' inoccupazione possano essere di

vario genere; qui ci preme mettere in evidenza alcuni risultati ottenuti da

ricercatori che si sono concentrati proprio sulla salute fisica di chi è

disoccupato, di chi ha ancora un lavoro (ma ha paura di perderlo), chi lo sta

perdendo (ma non lo ha ancora perso) e chi dipende economicamente dalla

persona disoccupata (famiglia, parenti, dipendenti).

Questi sintomi fisici vanno dalla bronchite al cancro polmonare, alle

cardiopatie, alla nascita di bambini sotto peso, al ritardo della crescita infantile.

Un elemento emerso in svariati studi e su cui vale la pena soffermarsi è

l'aumento della pressione arteriosa.

Documentare un innalzamento pressorio a carico di chi ha perduto il lavoro non

solo rappresenta un'operazione semplice e facilmente verificabile, ma è

certamente utile per spiegare l'aumento osservato della mobilità causata dalle

malattie cardiocircolatorie e la conseguente accresciuta mortalità, tra la

popolazione disoccupata, per infarto o ictus cerebrale. I pionieri in questo

settore di ricerca furono i due studiosi americani S. Kasl e S. Cobb, i quali con

le loro ricerche svolte nello stato del Michigan agli inizi degli anni '70,

proposero all'attenzione degli studiosi un'enorme massa di dati.

Questi autori effettuarono uno studio longitudinale, seguendo per un lungo

tempo gruppi di operai con un'età compresa tra i 35 e i 60 anni che avevano

perso il lavoro per la chiusura della loro fabbrica.

Le informazioni furono raccolte per un periodo di due anni iniziando qualche

mese prima della chiusura della fabbrica. I dati riguardavano alcuni indicatori

sia biologici (pressione arteriosa, esame del sangue) che psicosociali (difficoltà

a rilassarsi, ridotta capacità di reagire). Studiando l'andamento della pressione

arteriosa, gli autori scoprirono che questa tendeva ad aumentare prima

dell'effettivo licenziamento e che chiamarono "fase anticipatoria". Kasl e Cobb

scoprirono inoltre che l'ipertensione presentava valori mediamente più alti tra

chi viveva più intensamente l'evento stressante, mentre tendeva ad essere meno

elevata tra chi riusciva a trovare in tempi brevi un altro lavoro e si manteneva

alta tra quegli operai per i quali il periodo di disoccupazione si prolungava nel

tempo.

Dalle ricerche citate è emerso anche che vi è una correlazione tra ipertensione e

stato psicologico del disoccupato: tra le persone il cui senso di auto-stima era

più colpito e tra quelle più depresse, gli alti valori pressori non accennavano a

diminuire per lungo tempo (M. Heriksson, U. Lindblad, B. Agren, P. Nilsson-

Ehle, and L. Rastam, 2003).

Ciò che questi studi ed altri ancora sottolineano è comunque un legame fra certi

sintomi patologici e la diminuzione dell'auto-stima. E' emerso che l'incidenza

delle patologie riscontrate aumenta vieppiù quando i livelli individuali di auto-

stima decrescono.

Altre ricerche hanno successivamente cercato di confermare gli esiti delle

ricerche di Kasl e Cobb. Una di queste è la ricerca inglese "Regional heart

study" svolta agli inizi degli anni '80. I risultati dimostrarono un aumento

nell'incidenza di alcune malattie (bronchiti,

polmoniti, angine) tra coloro che erano disoccupati. In un'altra ricerca la

percentuale di persone che hanno dichiarato di aver avuto rilevanti problemi di

salute, nell'anno precedente l'intervista, è doppia tra i disoccupati (22%) rispetto

agli occupati e che questo dato tende ad aumentare con l'età (38% tra i

cinquantenni).

Le ricerche citate hanno dimostrato che non solo chi è disoccupato ha una

probabilità maggiore di ammalarsi di chi lavora, ma anche che chi non trova

lavoro si rivolge al proprio medico di base o si rivolge a specialisti assai più

frequentemente di chi lavora. A conferma di queste affermazioni vi è

l'interessante ricerca di un medico di base inglese Norma Beale e di un esperto

in statistica S. Nethercott.

Essi seguirono 80 uomini e 49 donne che risiedevano in una zona rurale

dell'Inghilterra, per un periodo di 10 anni, 5 precedentemente alla chiusura di

una grossa fabbrica di insaccati e 5 successivamente. Si calcolò che il numero

di visite mediche dei familiari dei disoccupati era aumentato del 20% rispetto al

gruppo di controllo.

Accanto a queste ricerche sugli effetti della pressione arteriosa altre ricerche

hanno cercato di legare la disoccupazione con gli alti tassi di mortalità. In

particolare H. Bremer ha correlato dal punto di vista statistico i tassi di

disoccupazione con i cambiamenti di alcuni indicatori di salute, principalmente

i tassi di mortalità. Bremer partiva dalla constatazione della correlazione tra la

disoccupazione e la crescita del numero degli ingressi negli ospedali

psichiatrici.

Successivamente l'interesse del ricercatore americano si è spostato allo studio

della mortalità cardiovascolare. Le sue ricerche hanno dimostrato che

l'incremento della mortalità per infarto del miocardio e per ictus cerebrale tra i

disoccupati raggiunge il suo apice 2-3 anni dopo la perdita del lavoro, secondo

un'associazione che prevede che ogni aumento di un punto percentuale della

disoccupazione corrisponde ad una crescita del 2% della mortalità per i sei anni

successivi. Ricerche successive hanno confermato la sua teoria, individuando lo

stato di disoccupazione come un "life-event" capace di indurre reazioni da

stress misurabili appunto in termini di una maggior incidenza della mortalità

per varie cause.

Dati interessanti vengono dall'indagine compiuta dall'economista irlandese Mac

Avinchey che ha trovato una correlazione significativa anche se con una

distribuzione non omogenea, tra le classi di età ed il sesso: mentre infatti tra i

maschi con meno di 35 anni l'aumento della

disoccupazione è correlabile ad un calo degli indici di mortalità, tra le persone

con un'età superiore questo rapporto si inverte.Tra le donne invece accade

esattamente il contrario. Per questi gruppi a rischio la correlazione, secondo

Mac Avinchey è calcolabile in un aumento dello 0,4% della mortalità per ogni

punto percentuale di crescita della disoccupazione.

Uno studio interessante e molto più recente è lo studio longitudinale di Tapia, i

cui risultati sono stati pubblicati nel 2005 sull’ European Journal of Population-

Revue Europeenne de Demographie. La sua ricerca evidenzia la correlazione

esistente fra i cambiamenti di condizione economica e la mortalità

considerando dati ricavati in Spagna durante gli anni 1980-1997, quando la

disoccupazione nazionale oscillava fra 7% e 24%. Emerge che il tasso di

mortalità delle province spagnole era fortemente funzione della struttura

demografica e della situazione economica.

Con la diminuzione delle possibilità di impiego aumentava in modo

corrispondente il tasso di mortalità. (Tapia, 2005)

Un altro recente studio longitudinale portato avanti da un gruppo di ricercatori

Italiani è quello di Ponticello et al, Deprivation, immigration and tuberculosis

incidence in Naples.

Questa ricerca illustra come la maggior parte dei casi di tubercolosi in

Campania si possono riscontrare a Napoli, la città più grande del sud Italia e

con i più alti tassi di immigrazione e di disoccupazione.

Si descrive appunto l'incidenza della tubercolosi e la relativa associazione con

le condizioni di immigrazione e deprivazione socio-economica nella città di

Napoli durante il periodo che va dal 1996 al 2000.

Il disegno sperimentale di base era uno studio ecologico, correlato con i dati di

incidenza della tubercolosi, calcolati in base ai casi comunicati alle asl ed ai

dati censuali sull'immigrazione e sulla deprivazione socio-economica.

(Ponticello et. al, 2005)

Fox e Goldblatt hanno studiato gli effetti potenziali della disoccupazione sulla

salute con studi di tempo sufficientemente lungo per permettere che l'eventuale

processo patologico producesse i suoi sintomi.

Un altro studio recente è quello di Grossi ed altri (1998) che hanno esaminato le

variabili psicologiche e i livelli del cortisolo in risposta ad un'attività stressante

in un gruppo dei disoccupati di lunga durata.

Hanno identificato un gruppo degli impiegati "esauriti" che hanno avuto livelli

nei test sulla depressione, sull’irritabilità e sulla resistenza all’ ansia e che

hanno mostrato una reattività limitata ai fattori di sforzo in termini di secrezioni

di cortisolo.

Inoltre, gli individui disoccupati sono le persone che maggiormente

evidenziano e manifestano disturbi fisici (per esempio, Schwarzer ed altri,

1994; Turner, 1995) e sono più portati a manifestare comportamenti di alto

rischio, come l’utilizzo di alcool o di droga (J. Mullahy and J. Sindelar, 2005)

3.2.2 Le strategie di coping

Le diverse strategie di fronteggiamento dei problemi, e nello specifico della

disoccupazione, dipendono in gran parte dalle caratteristiche interne del

soggetto e dalle circostanze ambientali che una persona utilizza per cercare di

affrontare al meglio il problema (Latack ed altri, 1995; Lazarus & Folkman,

1984).

Osservando il repertorio delle strategie di fronteggiamento che una persona può

utilizzare in una situazione stressante possiamo affermare che le risorse di

coping possono ridurre gli effetti negativi della perdita di lavoro.

McKee-Ryan e Kinicki (2002) hanno identificato tre tipi di risorse che possono

aumentare la resistenza allo stress:

• Personale

• Sociale

• Finanziario

Che sono particolarmente legate al fronteggiamento dello stress derivante dalla

perdita di lavoro

Possiamo aggiungere a queste una quarta risorsa, ovvero la struttura del tempo,

teoricamente ed empiricamente dimostrata in correlazione con il benessere

generale relativo al periodo di disoccupazione(per esempio, Hepworth, 1980;

Wanberg, Griffiths, & Gavin, 1997).

Le risorse personali di coping sono "risorse interne sulle quali un individuo può

contare per fare fronte alle difficoltà" (McKee-Ryan & Kinicki, 2002, p. 18).

Coerentemente con con McKee-Ryan e Kinicki (2002), la nostra ricerca ha

rivelato che le risorse personali che sono state teorizzate e studiate in

correlazione al benessere psicologico e fisico durante la disoccupazione si

riferivano alle auto-percezioni dei singoli individui sul loro valore, locus of

control, autostima (giudice, Locke, & Durham, 1997).

Per esempio, gli individui con più alta autostima, locus of control interno

elevati livelli di ottimismo hanno generalmente dimostrato di far fronte più

efficacemente ad una varietà fenomeni stressanti (per esempio, Armstrong-

Stassen-Stassen, 1994; Aspinwall & Sarto, 1992, Judge, 2001; Judge et al

altri, 1998 ).

Le strategie di fronteggiamento hanno origine successivamente al processo

conoscitivo e valutativo.

Queste strategie sono classificate in due categorie generali:

• Focalizzate sul problema (Latack & Havlovic, 1992) ovvero tentativi di

risolvere la causa di una situazione stressante "alla radice".

• Supporto sociale (Lazarus & Folkman, 1984; Kanfer ed altri, 2001).

Queste strategie di fronteggiamento sono state analizzate per comprendere

come possano ridurre i disagi durante la disoccupazione. Le ricerche e gli studi

recenti hanno fatto emergere che il rapporto fra le strategie di fronteggiamento

e benessere è complesso e reciproco.

Per esempio strategie adeguate di coping possono, con il tempo, migliorare il

livello generale di benessere individuale (Cooper, Dewe, & O'Driscoll, 2001).

3.2.3 Il Locus of control

Le reazioni individuali al problema della perdita di lavoro dipendono in larga

parte da come il soggetto vive la disoccupazione ed a chi attribuisce la

responsabilità dell’evento (Warr ed altri, 1988).

Modelli generali riguardo alle strategie di far fronte allo stress (di Lazarus & di

Folkman, di 1984) e modelli specifici per far fronte alla perdita vera e propria

di lavoro (Latack ed altri, 1995; McKee-Ryan & Kinicki, 2002)

Uno studio longitudinale di Prussia, Kinicki e Bracker (1993), per esempio, ha

indicato che un locus of control interno circa la perdita di lavoro ha una

correlazione negativa con la stabilità emotiva del soggetto dalle aspettative di

riassunzione.

I dati di Hope e Mugnaio (1994) hanno rivelato congruentemente che la

variabilità nelle conseguenze psicologiche può essere prevista misurando lo

stile di attribuzione degli operai in mobilità.

Per concludere, Wanberg (1997) ha trovato che bassi livelli di locus of control

interno riguardo al ricollocamento sono collegati con bassi livelli di salute

mentale in un campione di individui disoccupati.

CONCLUSIONI

Volendo riassumere almeno una parte delle numerose ricerche sugli effetti della

disoccupazione, bisogna dividere gli studi in due gruppi.

a) Studi trasversali, nei quali la prevalenza di disturbi mentali riscontrata in

gruppi di occupati viene messa in relazione ed analizzata statisticamente con

quella emersa in gruppi di disoccupati. Queste ricerche hanno il pregio di

offrire una notevole mole di dati e permettono di prendere in considerazione

alcune variabili esterne; il loro limite riguarda la difficoltà di usare in senso

causalistico i risultati che ne derivano (questione della direzione).

Un secondo tipo di studi trasversali o cross-sectinal è basato sul confronto fra

certi gruppi di disoccupati, in un certo momento. Questo permette di inferire su

variabili all'interno della disoccupazione stessa piuttosto che in relazione agli

occupati.

b) Studi longitudinali, nei quali una popolazione selezionata secondo alcune

caratteristiche individuate a priori viene seguita per un certo periodo di tempo.

Tale popolazione di disoccupati può essere considerata in diverse fasi,

comprese alcune prima della perdita del lavoro.

Analizzando gli effetti della disoccupazione si farà riferimento ad un articolo di

P. Warr "Unemployment and mental health: some british studies".

Questo articolo, ricco di citazioni, riassume 11 studi inglesi sull'impatto della

disoccupazione sulla salute mentale, sia di tipo cross- sectional che

longitudinali.

Le indagini trasversali dimostrano ripetutamente un minor livello di benessere

effettivo tra i disoccupati. Le misure del disagio vengono riportate tramite il

General Health Questionnaire (GHQ).

In generale questi studi riportano conclusioni simili: i nostri disoccupati sono

più ansiosi, depressi, irrequieti e moralmente sfiduciati.

Una ricerca significativa è quella compiuta nel 1982 da Warr e Payne, nella

quale è stato studiato un campione randomizzato (cioè scelto a caso) di

popolazione adulta in Inghilterra, Scozia e Galles, composto da 3.077 persone: i

sintomi di sofferenza psichica furono riscontrati nel 16% dei disoccupati contro

il 6% degli occupati. In un'altra ricerca è risultato che il 50% del 954

disoccupati presi in esame (di età compresa fra i 16 e i 64 anni) hanno

dichiarato che le proprie condizioni psichiche erano andate progressivamente

deteriorandosi da quando avevano perso il lavoro: i sintomi riportati con

maggiore frequenza erano ansia,

depressione insonnia, irritabilità, indifferenza, difficoltà di concentrazione.

E' però interessante che l'8% di questi avevano invece denunciato un netto

miglioramento delle proprie condizioni psichiche in quanto liberati dagli aspetti

negativi della loro occupazione.

Lo stesso Warr, raffrontando 28 studi trasversali compiuti fin dagli anni '60, ha

individuato 12 indicatori di salute mentale fortemente correlabili al vissuto

delle persone disoccupate: felicità, soddisfazione per l'attuale condizione di

vita, esperienza di piacere, sentimenti negativi, ansia, atteggiamento depressivo,

disturbi nevrotici, condotte suicidarie, diminuzione dell'auto-stima, tensione

emotiva, stress.

Altri studi riguardano anche patologie psichiatriche più gravi. Il uno di questi il

ricercatore americano Jaco ha calcolato che, tra i 10.000 casi di persone

ricoverate nel 1951 e nel 1952 in un ospedale psichiatrico con diagnosi di

psicosi, i disoccupati rappresentavano l'8% contro il 2% della popolazione

generale. Il dato, tuttavia, trattandosi di persone già ospedalizzate, non ci dice

se esse erano ospedalizzate in quanto affette da psicosi o in quanto la

disoccupazione aveva influenzato in loro la patologia.

L'alto numero di disoccupati riscontrabile tra l'utenza dei servizi psichiatrici è

confermato da quanto emerge nel nostro paese ove, come è no to, è in atto da

circa un decennio una profonda trasformazione dell'assistenza psichiatrica. Se

si prende in considerazione quanto

scaturisce dal registro del dipartimento di salute mentale di Portogruaro, si può

notare che, mentre la percentuale di disoccupazione in quell'area è il 5,9%, i

disoccupati soggetti a cure psichiatriche sono il doppio: 12,4%.

Volendo passare alle ricerche longitudinali, mi vorrei soffermare su alcune di

una certa curiosità: nello studio di E. Kirchler, "Job loss and mood", viene

sfruttato il "diary model", ossia il registrare su un diario con precisione alcuni

avvenimenti della giornata. L'unica limitazione a tale metodo è che il numero

degli intervistati è forzatamente limitato. A questo studio hanno partecipato 30

persone. Il metodo del diario ha fornito informazioni sia sull'attività del

soggetto che sulle sue motivazioni predominanti, attribuzioni e stati d'animo.

Le registrazioni hanno avuto luogo in quattro momenti diversi: durante il 1°, il

2°, il 3° mese dal licenziamento e dopo 6 mesi. Il campione era composto da 18

uomini e 12 donne residenti intorno a Linz in Austria. Ogni volta essi dovevano

rispondere a domande sul loro attuale stato d'animo, e come definirlo. Vennero

usati degli strumenti per misurare la

struttura di personalità dei partecipanti, la loro "soddisfazione nella vita", la

loro auto-stima.

Analizzando i risultati, la personalità appare già come un fattore mediatore

dello stress: le persone che potremmo definire "dominanti" esperirono lo stesso

livello di disagio dei loro colleghi con caratteristiche di "insicuri" o "sensibili

dipendenti". Gli "insicuri" riportarono poi maggiori miglioramenti degli altri

nel caso di riassunzione, indicando con ciò che la personalità può essere

considerata un importante fattore mediatore, forse più del sesso. Intervistati con

maggiori disturbi nevrotici riportarono generalmente peggiori stati d'animo

rispetto ai colleghi estroversi ed emotivamente stabili ma maggiori

miglioramenti nel caso ritornassero al lavoro. Gli stati d'animo più sensibili alla

depressione sono un calo dell'autostima, del senso di prestigio, del senso di

potere.

I caratteri più sensibili si sentivano peggio sotto il profilo dell'autonomia,

potere e benessere fisico. Gli insicuri si sentivano peggio con bisogni di

affiliazione e sensibilità.

Un altro studio longitudinale di un certo interesse è quello di H. Tiggeman e

A.M. Winefield. Ad essere analizzati sono 761 studenti in 2 ripetute

circostanze: una prima volta ancora a scuola e poi un anno dopo. I risultati

indicano i disoccupati come annoiati, soli e depressi e con una bassa

motivazione nel fare qualunque cosa.

L'effetto più rimarcabile è una perdita del morale, dell'auto-stima, del rispetto

personale e del proprio valore con meccanismi di autodifesa e coping che

vedremo meglio in seguito.

Emerge dai dati raccolti che i disoccupati sono più annoiati, più soli (in

particolare le ragazze), più arrabbiati con la società, meno felici (in misura

minore le ragazze), più "senza aiuto" (di più le ragazze) e più depressi.

Quello compiuto da Cook e Shaper in "Unemployment and health" rappresenta

un altro studio longitudinale interessante non solo per i risultati ottenuti, ma

anche per la metodologia utilizzata. Gli autori hanno seguito 113 operai di due

industrie americane (una in città, l'altra in campagna) nelle quattro settimane

che hanno preceduto la chiusura e per i due anni successivi (il gruppo di

controllo era costituito da 76 occupati in altre tre industrie dello stesso ramo

produttivo).

Ad ogni lavoratore era stato chiesto di giudicare quotidianamente il proprio

stato di salute appuntandolo liberamente in un diario personale. Il punteggio è

stato calcolato solo in quei casi nei quali la persona dichiarava di non sentirsi

bene come al solito per un periodo minimo di 14 giorni consecutivi (un calcolo

definito "days complaint score"). I punteggi più alti registrati nel periodo

immediatamente seguente la chiusura delle fabbriche (4-7 settimane) hanno

segnato un decremento nel successivo periodo di 4-8 mesi (durante i quali una

parte degli operai aveva trovato un'occupazione), per poi risalire nuovamente

(quando alcuni avevano perso nuovamente il lavoro, mentre altri continuavano

a non trovarlo).

I dati sono statisticamente significativi rispetto al gruppo di controllo, ma non è

stata trovata alcuna correlazione né con l'età né col sesso.

Il dato più interessante di questa ricerca riguarda il fatto che chi aveva

sperimentato molti cambiamenti (cioè più volte aveva trovato e perso il lavoro)

aveva conseguito punteggi molto alti rispetto a chi aveva avuto una storia

lavorativa (o di disoccupazione) più continuativa.

Simili conclusioni vengono anche da un'indagine di J.P. Grayson che ha seguito

il periodo di chiusura di una fabbrica.

Anche in questo caso i punteggi relativi alla sintomatologia psichica appaiono

significativamente crescenti dopo i primi sei mesi di disoccupazione e

rimangono elevati per tutto il successivo periodo. E' interessante notare che in

questa ricerca sono stati calcolati anche gli effetti psicologici espressi dalle

mogli dei disoccupati, le quali hanno denunciato una sintomatologia psichica

del tutto simile a quella dei rispettivi mariti.

Per concludere accenniamo a un'altra area di interesse clinico che riguarda

alcune costanti biologiche e i dis turbi psicosomatici.

Olafsson e Svensson hanno dimostrato che fra i giovani la disoccupazione o il

solo timore di perdere il lavoro inducono uno stress emotivo tale da far crescere

i rischi di ulcera duodenale, asma, affezioni cutanee e aritmia cardiaca.

3.3 I fattori modulatori del disagio

Analizziamo ora alcuni fattori modulatori che si ritengono di una certa

importanza; con il termine di fattori modulatori si designano alcune

caratteristiche dei disoccupati, (che vanno da quelle anagrafiche o di contorno

sociale o di personalità), che fanno variare l’ intensità del disagio

disoccupazionale, facendo in modo che ognuno viva poi l’evento in maniera

personale, rendendo la disoccupazione un evento dotato di più possibili

significati e implicazioni per i diversi soggetti . I

principali fattori che è opportuno sottolineare sono: l’employment

commitment, il sesso, la classe sociale, l’età, il supprto sociale, la durata della

disoccupazione, la famiglia (L. Artazcoz, J. Benach, C. Borrell, and I. Cortes,

2004).

3.3.1 Caratteristiche socio-anagrafiche

L'argomento sui diversi atteggiamenti fra uomini e donne di fronte alla

disoccupazione è abbastanza complesso. Spesso bisogna considerare la diversa

posizione in cui la donna si pone per quanto riguarda il mondo del lavoro.

Analizzando gli studi di Banks e Jackson (1982) e Warr e Jackson (1983), si

potrebbe concludere che i gradi di stress, self-esteem e soddisfazione di vita

siano gli stessi per uomini e donne disoccupate.

Nel caso delle donne bisogna valutare con cura alcune caratteristiche proprie

del soggetto: il senso comune ci dice, per esempio, che solo le disoccupate per

mancanza di lavoro, rispetto alle disoccupate volontarie, possono essere

assimilate ai lavoratori maschi e che solo per esse valgono i confront i con

questi.

Altre variabili da tenere in considerazione sono lo stato matrimoniale, il livello

socioeconomico, il numero di figli, la soddisfazione di vita e il supporto

sociale.

G. Parry, in un celebre articolo sull'argomento, considera moltoimportante il

ruolo dell'ambiente di supporto che potremo identificare nella famiglia; un

ambiente familiare gradevole, al di là dello specifico problema economico, può

ridurre l'identificazione con il ruolo lavorativo e quindi alleviare il trauma da

perdita del lavoro.

La distinzione fondamentale è quella fra donne sposate e nubili. Per le prime il

lavoro assume un significato diverso che per le seconde, per esse è meno

collegato a un maggior benessere psicologico.

In generale si può così pensare che la disoccupazione possa concedere "sconti"

alle donne, quanto agli effetti psicologici negativi.

A una donna è socialmente meno richiesto di avere un'occupazione fuori casa

(per di più quando ha dei figli), per cui lo stigma di natura sociale associato

all'adulto che non lavora ha minor possibilità di verificarsi; analogamente la

destrutturazione temporale e il venir meno delle richieste di erogazione di

attività possono non verificarsi grazie all’impegno nello svolgere i compiti del

"ménage" domestico.

In un'analisi sociologica dell' ISFOL della regione Piemonte del 2003, che ha

per oggetto i comportamenti degli operai Fiat in mobilità, l'immagine della

donna è vista molto legata alla famiglia, sia quella di origine che quella adulta

indipendente, rispetto ai coetanei maschi.

Le caratteristiche della donna disoccupata sono quindi il forte legame con il

nucleo familiare e il fatto che il lavoro sia intrapreso più per esigenza di quel

nucleo che per sentimenti autorealizzativi.

Il ruolo del lavoro è così prevalentemente strumentale. Le aspettative sembrano

essere minori da cui consegue una minor ricerca di mobilità.

Durante la loro permanenza alla Fiat solo il 2,9% è andato alla ricerca di un

altro lavoro, mentre lo ha fatto il 14,3% dei maschi.

E' così che l'importanza del ruolo domestico e dei valori identificatori che esso

garantisce "salva" per così dire la donna dall'immagine di biasimo della Cassa

Integrazione tanto che il 48,5% delle donne contro il 70% degli uomini ritiene

la propria condizione peggiorata con l'entrata nel nuovo ruolo di

disoccupazione: l’entità di questo scarto è notevole.

Emerge così un'immagine di donna protetta molto legata al suo ruolo familiare

che sembra quasi limitarne le ambizioni autorealizzative.

E' certo che questo modello ha una sua validità diffusa ma è anche vero che

ultimamente il ruolo della donna è mutato.

Essa, specialmente nelle classi sociali superiori, tende ad assumere ruoli sempre

più centrali nel mondo lavorativo distaccandosi sempre più dai quelli

tradizionali che la società le impone (come mostra tra l'altro il calo negli indici

di natalità in particolare al Nord).

Inoltre di primo impatto potrebbe sembrare che la classe media soffra di più di

quella povera per l'innegabile maggior coinvolgimento personale nel lavoro,

che una volta perso dovrebbe lasciare cicatrici più profonde (L. Artazcoz, J.

Benach, C. Borrell, and I. Cortes, 2004).

Inoltre lo stigma associato alla perdita del lavoro ( con tutto ciò che vi può

conseguire in termini di auto-stima e percezione di sé) è comprensibilmente più

pesante tra le classi sociali più privilegiate anche perché questo evento è assai

più raro.

Vi sono elementi che fanno sì che per le classi medie l'impatto sia a minore

portata: ad esempio lo stress finanziario, a parità di altre condizioni, pare meno

accentuato per la classe media, creando così meno problemi impellenti e

favorendo l'idea che la perdita del lavoro potrebbe essere una spinta a cercarne

un altro.

Cohn ha suggerito che la componente dell’identità rappresentata dal lavoro è

meno importante per le persone con una più alta qualificazione professionale.

Ad un’analoga conclusione è giunto Heworth, il quale ha dimostrato che la

salute psichica dei disoccupati con alta qualificazione professionale è meno

suscettibile a deterioramento rispetto a quella dei “blue-collar”.

Una ricerca che può chiarificare le nostre idee è quella di Roy Payne e P. Warr:

"Social class and psychological ill-health during unemployment", rara nel suo

genere.

Lo studio ha analizzato il disagio di uomini sposati della classe media e della

classe lavoratrice.

Nessuna differenza fra le due classi appare a livello di disagio calcolato con il

GHQ di Goldberg.

Alcune differenze tuttavia compaiono: la classe lavoratrice ha riportato

maggiori problemi finanziari. Essa ha registrato più alti punteggi su un numero

di variabili che riguardano la difficoltà di organizzare la propria giornata

(mantenersi attivo e non annoiato; mantenersi alla ricerca di un lavoro).

L’esperienza psicologica di essere disoccupato è sembrata simile nei due

gruppi, anche se la classe operaia era in peggiori condizioni materiali.

Notevole è il fatto che i risultati riguardo l'employment commitment sono

identici nelle due classi (L. Artazcoz, J. Benach, C. Borrell, and I. Cortes,

2004).

Molte ricerche hanno anche rivelato il legame fra età e disagio psicologico fra i

disoccupati.

Vediamo subito i risultati di alcuni studi che hanno calcolato il diasagio dei

disoccupati livello tramite il GHQ.

Analizzando i dati emerge che i livelli di maggior disagio sono riscontrabili

nelle classi di età intermedia, le persone di "mezza età".

Brinkmann, in un'indagine su un campione rappresentativo di 5.000 disoccupati

tedeschi dai 20 anni in su, analizza il peso dei carichi finanziari e psicosociali

che gravano in chi è senza lavoro: i più colpiti dal punto di vista finanziario

sono i 35-40 enni, e da quello psicosociale i 45-55 enni; sopra tale età i

problemi diminuiscono molto in entrambe le fasce.

Possiamo così riscontrare due categorie, per così dire, protette di disoccupati: i

giovani e gli “anziani”.

In generale si può dire che i giovani abbiano meno pressioni finanziarie rispetto

ai colleghi più anziani, vivendo spesso nella casa dei loro genitori.

Possono portarsi dietro dalla scuola un gruppo di amici e stabilire con loro

attività di svago durante i periodi di disoccupazione.

Lo stigma associato al disagio disoccupazionale può venire sentito molto meno.

In questi casi l'età dei soggetti coinvolti è rilevante non certo come mero fattore

cronologico, quanto per i suoi correlati sociali: sembra di poter affermare che

per motivi diversi i più giovani e le persone che hanno superato la mezza età si

trovino in fasi della loro vita che offrono loro maggiori risorse per affrontare le

conseguenze della perdita del lavoro.

E' più facile che i giovani - come si è osservato - subiscano in misura

relativamente minore l'impatto economico della disoccupazione e possano

affrontare la perdita del posto di lavoro come un evento difficile ma

rimediabile, riproponendosi sul mercato del lavoro anche a prezzo di eventuali

riconversioni professionali: entrambi questi fattori giocano a sfavore della

"mezza età" che nel confronto si trova a disporre di minori risorse per attenuare

gli effetti della situazione (Kulik, Liat, 2000).

Per i più anziani, invece, non è irrealistico affermare che i costi del divenire

disoccupato possono essere mitigati dalla minore pressione sociale percepita,

sia per gli aspetti di identità sociale che per quelli finanziari, così da configurare

nella disoccupazione subita una condizione in qualche modo assimilabile a un

pensionamento che arriva in anticipo sui tempi previsti. (Kulik, Liat, 2000)

E’ necessario anche soffermarci sulle dinamiche della disoccupazione

all'interno della famiglia.

In particolare la figura del capofamiglia disoccupato è degna di nota: il suo

ruolo di autorità all'interno del nucleo viene subito messa in discussione

(Vinokur & Schul, 2002).

Egli è visto come ridotto nel suo status e colpito nel rispetto della sua identità.

Questa situazione può creare dei disagi. In generale l'uomo si rinchiude in se

stesso e diventa irritabile il che può preoccupare la famiglia.

Anche agli occhi dei figli e mogli supportative egli sembra meno positivo,

meno l'uomo che era, anche talvolta a causa di una minor resistenza fisica

ridotta dalle cattive condizioni. (Vinokur & Schul, 2002).

Per quel che riguarda l'evoluzione delle relazioni all'interno del nucleo, la

disoccupazione raramente trasforma la situazione, anzi, in generale, la polarizza

in direzioni che già vi erano alla base verso un maggiore aiuto reciproco o verso

il collasso.

Una ricerca interessante di Mowen presenta un modello teorico ed empirico

della ricerca del lavoro centrato sulla famiglia, assunta come unità di analisi.

Questo studio si occupa del disagio psicologico ma mette in luce alcune

dinamiche dell'attività di ricerca del lavoro, che spiegano i fattori in gioco

quando si parla di effetti psicosociali della disoccupazione.

La ricerca si propone di analizzare quali siano i fattori che concorrono a

determinare, per ogni soggetto, l'entità del salario minimo che questi è disposto

ad accettare per un lavoro.

Molto spesso la ricerca del lavoro è stata trattata come un problema che

riguarda il singolo individuo mentre si tratta di un processo che implica una

soglia di ottimizzazione all'interno della famiglia, la quale determina il processo

decisionale collegato alla ricerca.

Il modello suggerisce che il livello minimo di salario accettabile è influenzato

da diversi fattori fra cui le altre entrate della famiglia.

A parità di periodo di disoccupazione, il fatto che un altro membro della

famiglia trovi lavoro (aumentando il reddito familiare) fa aumentare il salario

minimo accettabile.

Ancora, il fatto di avere familiari a carico dà luogo a differenze: per i maschi fa

chiedere qualche cosa in meno, mentre il contrario avviene per le donne, come

era presumibile: la presenza di familiari a carico sembra essere un

incoraggiamento a trovare lavoro, abbassando il livello del salario minimo

accettabile.

I mezzi finanziari di un individuo sono pari al reddito della famiglia di

appartenenza, a conti correnti, ed anche, soprattutto per le donne, ad un

eventuale assegno di mantenimento.

Jones (1991-1992) ha suggerito che "la disponibilità di reddito può essere la

variabile che protegge maggiormente il soggetto da conseguenze sulla salute

psicologica e fisica dovute alla perdita di lavoro”.

Ciò può essere il caso perché possedere i mezzi finanziari migliora l'accesso ad

altre risorse importanti, quali le attività di svago e sociali, l'alimento,

l'alloggiamento e la sicurezza fisica generale

Come si poteva prevedere considerato il rapporto positivo fra i mezzi finanziari

e la condizione di benessere, alcune ricerche hanno evidenziato una

correlazione negativa fra sforzo finanziario percepito e benessere durante la

disoccupazione (per esempio, Feather, 1989; Vinokur & Schul, 2002).

3.3.2 Le risorse sociali

Le risorse sociali e le reti di relazioni sono un’ ulteriore componente esterna,

che fornisce all’individuo la possibilità di continuare a strutturare il proprio

tempo almeno sulla base delle interazioni sociali, ed offre un forte supporto

emotivo e concreto.

Il ruolo del supporto sociale è stato ripetutamente esaminato come fattore

moderatore del disagio in diverse ricerche ed associato a minori livelli di

sofferenza fra i disoccupati che avevano ricevuto del "sostegno" nei mesi

precedenti al licenziamento.

Gore nel 1978 ha studiato 100 persone le cui industrie avevano chiuso. Sedici

uomini che non erano supportati e ancora disoccupati dopo un mese dalla

chiusura erano i più depressi (Gore, 1978)

Un altro studio è quello di Pearlin del 1981, in una survey di 1.106 persone

intervistate due volte in un intervallo di 4 anni ottenendo simili risultati.

Quel che appare fra le conseguenze più drammatiche della disoccupazione è il

diminuito senso di stima personale, il disoccupato lotta contro un'immagine

svalutata di se stesso (Pearlin, 1981).

Ricordiamo quel che si era detto sulle funzioni psicologiche del lavoro: esso

restituiva al lavoratore un'immagine di se stesso come individuo capace di

esprimere determinate potenzialità.

Quello che il supporto sociale fornisce al lavoratore è proprio questa risanata

immagine di sé, all'interno di un nucleo che lo stima e che conosce le sue

qualità.

E' questo il ruolo di quel che si può definire un supporto "emozionale" che

riguarda i legami più importanti, quelli che dovrebbero conferire più aiuto e con

cui il disoccupato ha la possibilità di parlare delle cose che lo preoccupano.

Esistono però anche altri tipi di supporti: quello strettamente sociale ossia

l' "interazione sociale" più comune con i colleghi e amici, e quello che riguarda

l'assistenza materiale che può fornire aiuti economici, di cibo o di vestiti

(Creed, Peter A.; Klisch, 2005).

Quel che ci sembra importante sottolineare è che il rapporto sociale non ha

effetti diretti sul grado di depressione, ma indiretti, aumentando o diminuendo

il grado di vulnerabilità allo stress.

L'effetto del supporto sociale è quello di aumentare le difese del disoccupato

agendo così indirettamente sulla sua capacità di risposta a situazioni

minacciose.

Lazarus e Folkman (1987) hanno concluso che le risorse sociali contribuiscono

al benessere psicologico e fisico in due maniere differenti.

In primo luogo, la rete sociale di aiuti delle persone disoccupate favorisce la

continuatività del precedente stile di vita, impedendo l’isolamento

dell’individuo, cosa che a sua volta aumenta la tendenza ad avere una visone

più positiva della propria condizione durante la disoccupazione.

In secondo luogo, le risorse sociali servono ad attenuare lo sforzo per il

fronteggiamento dello stress derivante dalla mancanza di lavoro, agendo come

cuscinetto fra l’individuo direttamente coinvolto e la situazione stressante,

riducendo in questa maniera le relative conseguenze negative sulla salute

psichica e fisica (T. Kieselbach, 2003).

Due meta-analisi differenti hanno sostenuto queste ipotesi.

Pinquart e Sörensen (2000) hanno trovato che la qualità dei contatti sociali è

stata collegata positivamente con benessere soggettivo e Viswesvaran, Sanchez,

Fisher (1999) hanno rilevato che il supporto sociale attenua le percezioni dello

sforzo e della fatica sul lavoro.

Kinicki et al.(2000) hanno ancora indicato che le risorse sociali degli operai in

mobilità risultano esaurite durante i periodi di disoccupazione e vengono

recuperate totalmente in seguito al reinserimento lavorativo.

Ciò che emerge da questi studi è che la qualità delle relazioni sociali di un

individuo può moderare l’impatto della durata della disoccupazione sul

benessere psicologico e fisico (Vinokur, prezzo, & Caplan, 1996; Vinokur &

van Ryn, 1993).

Il supporto sociale negativo invece è stato definito come quella serie di

comportamenti verso un individuo che comprendono la rabbia, l'avversione, o

la critica o che ostacolano il raggiungimento dei suoi obiettivi.

Il supporto sociale negativo è correlato negativamente con il benessere generale

(Vinokur ed altri, 1996; Vinokur & van Ryn, 1993) e con l’accettazione della

propria condizione di disoccupato (Abbey, Abramis, & Caplan, 1985).

3.3.3 Il ruolo dell’employment commitment

Si è gia accennato in precedenza al ruolo dell' employment commitment.

Si è visto che esso rispecchia l'importanza che i singoli attribuiscono al lavoro

in sé, come attività, a prescindere dagli aspetti meramente economici.

Ora è necessario evidenziarne l'importanza in quanto fattore modulatore del

disagio, cioè in quanto capace di accentuare o ridurre la portata dello stress

psicologico dovuto all'evento disoccupazione.

Uno dei lavori più interessanti in questo settore è "Unemployment and

psychological distress: the moderating role of employment commitment" (P.

Jackson, E. Stafford, M. Banks e P. Warr, 1988)

Qui vengono seguiti longitudinalmente due campioni di giovani, nei primi tre

anni della loro vita lavorativa adulta, con differenti gradi di attaccamento al

lavoro.

Un primo esito della ricerca si basa su dati trasversali: emerge che il disagio è

legato al grado di employment commitment rispettivamente in senso diretto per

gli occupati e inverso per i disoccupati.

Ovvero i disoccupati con maggior attaccamento al lavoro soffrono in misura

maggiore della loro condizione.

Un altro dato interessante emerge dall'analisi longitudinale. Qui i giovani

campionati sono stati divisi a seconda del loro stato occupazionale al momento

dell'intervista. I dati più interessanti per quel che ci riguarda si riferiscono ai

giovani che hanno cambiato situazione cioè da occupati sono divenuti

disoccupati e viceversa.

Analizzando i dati si può sostenere che l'attaccamento dei singoli al lavoro

modera il livello di disagio: i più attaccati sono anche quelli che rimangono più

delusi se non riescono a concretizzare le loro attese (P. Jackson, E. Stafford, M.

Banks e P. Warr, 1988).

Sul discorso dell'employment commitment si può aggiungere poco, la sua

variabilità nei lavoratori è legata sia a fenomeni culturali di cui abbiamo già

parlato, sia a circostanze del tutto personali per cui può risultare difficile trarre

conclusioni su una sua maggiore o minore influenza in individui più giovani o

anziani o più o meno istruiti.

Capitolo 4 – Disoccupazione e percezione di sé

4.1 Identità e calo dell’autostima

Fra gli aspetti che danno vita all'identità di un individuo c’è sicuramente

l'autostima, ossia il risultato del processo di guardare se stessi come a degli

oggetti distinti cui dare una valutazione.

L'autostima si riferisce in un certo senso a un sentimento di orgoglio, visione

positiva di se stessi e di solito è associata a concetti come sicurezza di sé,

fiducia, positività.

Nei nostri disoccupati vedremo che il concetto di autostima è molto importante,

vuoi per le componenti che lo determinano, tra cui l’importanza da noi

attribuita ai valori espressivi del lavoro, vuoi per la sua presunta fragilità a

situazioni di stress come può essere la disoccupazione (L. Artazcoz, J. Benach,

C. Borrell, 2004).

Da più parti è stato suggerito che la disoccupazione causi un profondo

abbassamento dell'autostima.

Jean Hartley ci ricorda che il concetto ha assunto diverse definizioni nei diversi

autori. Alcuni hanno parlato di "io danneggiato", altri di mancanza di

autofiducia, di autorispetto, di autoconfidenza, sentimento confusi di inferiorità

o perdita di identità.

Si è anche legata la bassa autostima con un abbassamento del morale e forme di

"distress" psicologico.

Senza entrare troppo nel teorico cerchiamo ora di capire come avviene questa

crisi di identità.

L'uomo agisce e si rappresenta in generale attraverso schemi, mappe, modelli o

rappresentazioni interne; Bartlett (1932) li ha chiamati proprio "schemi".

Noi agiamo quotidianamente in questi schemi di autoconsapevolezza in modo

direi quasi automatico, cioè scarsamente consapevoli o per meglio dire poco

interessati o poco attenti a quel che siamo in realtà. In pratica ci diamo per

scontati, per certi.

Ognuno può occasionalmente divenire conscio di se stesso in momenti

straordinari: in posti sconosciuti, nell'incontrare persone nuove, il primo giorno

di lavoro e, in generale, a confronto con situazioni nuove ove si è chiamati a

muoversi al di fuori del soliti schemi. Dopo un breve periodo di auto

consapevolezza la situazione entra nelle maglie dello schema e viene per così

dire "internalizzata", diventa parte di noi.

Naturalmente ciò può non essere vero in assoluto; ogni persona ha gradi di

coscienza diversi ma è certo che un eccesso di auto-analisi può portare a

situazioni patologiche.

L'evento di perdere il proprio lavoro stimola marcatamente l'auto

consapevolezza. Abbiamo già analizzato le funzioni del lavoro e ciò che il

lavoro rappresenta in questa struttura di maglie formanti una rete che avvolge il

lavoratore con una sua strutturazione del tempo, un significato della

quotidianità, etc. Perdere il posto è come perdere il vestito che si porta

abitualmente; si impongono molte riflessioni: sulla propria situazione presente,

sul perché di una tale perdita, a chi attribuirne le colpe, sugli scenari futuri. Una

serie di domande nascono contemporaneamente: esse coinvolgono l'identità

dell'individuo e la sua situazione economica in una spirale di disorientamento

cui si cerca di porre rimedio (L. Artazcoz, J. Benach, C. Borrell, 2004).

E' così che nasce e si accentua una forte autoconsapevolezza.

Il disoccupato ha bisogno di molte informazioni su questo suo nuovo "io". Una

parte di queste viene dall'autosservazione e una parte dall'osservazione degli

altri.

Nel primo caso l'individuo ha la capacità di osservare se stesso come se si

trattasse di un oggetto oppure di un'altra persona.

Gli stati interni nascosti e misteriosi vengono inferiti dai loro comportamenti

aperti e dalle circostanze in cui si manifestano, dalla stessa posizione che

avrebbe un osservatore esterno che, fra le altre cose, giudica come le cose

dovrebbero andare.

La letteratura sulla disoccupazione sottolinea questa tendenza a guardare se

stessi come ad un oggetto, a volte curioso. Così i disoccupati si trovano

sorpresi, incerti e ambivalenti su come stanno agendo e reagendo e si chiedono

chi sia quella persona che agisce così: la discrepanza fra quel che vedono o quel

che avevano visto e quello che vorrebbero vedere è per lo più grande; e questo

non farà che aumentare la loro autoanalisi.

Nel caso invece delle informazioni che si ricevono dall'esterno ci è utile un

richiamo all'interazionismo simbolico. Il meccanismo consiste nella capacità

dell'individuo di prendere il posto degli altri, che lo osservano. Da qui deriva

una delle assunzioni fondamentali dell'interazionismo simbolico: ci vediamo

come ci vedono gli altri, sia che essi siano i nostri conoscenti sia che sia la

gente comune, la società. Questo fatto è fondamentale per capire la psicologia

del disoccupato. Nascono fra l'altro problemi sul come si vorrebbe essere visti,

domande incerte su come si è e decisioni sulle persone da vedere e quelle da

evitare. E' in gioco l'identità che in precedenza era stata internalizzata

(Kieselbach, 2003).

Molte storie di disoccupati riportano il processo che mina l'autonomia

funzionale dell'identità data per certa in precedenza: il disoccupato diviene

eccezionalmente dipendente da come è visto e da come percepisce di essere

visto. Psicologicamente ed economicamente, il disoccupato è in una condizione

di forzata dipendenza che lo rende molto vulnerabile agli altri. E', in un certo

senso, una situazione di regressione all'infanzia dell'uomo umiliato nella

dipendenza e nel bisogno.

Ma quanto questo presunto calo dell'autostima è duraturo e definitivo? Quanto

investe l'identità più generale del nostro disoccupato e quanto invece ne intacca

aspetti di contorno?

Probabilmente ad essere colpiti sono aspetti della personalità più sensibili alle

avversità contingenti mentre il nocciolo di questa può rimanere salvo. Dunque

una parte dell'autostima del disoccupato cala in modo preoccupante (la fiducia

in se stessi, la sicurezza, la stabilità), dando vita a fenomeni di angoscia, ma

un'altra parte rimane salda, oserei dire quello che è l'amore per se stessi, il

legame con le parti più intime della personalità. Le difficoltà in questo senso

sono forse da correlarsi con una definizione non univoca di ciò che si intende

per autostima (A. H. Winefield and M. Tiggemann, 1994).

Uno studio che, seppure non recentissimo, avvalora le nostre tesi è quello di P.

Warr e P. Jackson del 1983: "Self-esteem and unemployment among young

workers".

Furono intervistati due gruppi di studenti di una città inglese. Il primo gruppo

fu intervistato in 3 occasioni rispettivamente 8 mesi, 15 mesi e 31 mesi dopo

aver lasciato la scuola.

L' "autostima negativa" è significativamente minore per i disoccupati (ossia essi

stanno peggio) rispetto agli occupati. Per di più gli uomini stanno meglio delle

donne. Mentre per l'"autostima positiva" i punteggi sono simili sia per gli

occupati che per i disoccupati (Warr, Jackson, 1988).

I risultati avvalorano così le nostre tesi. Solo l’autostima negativa registrerebbe

dei cali.

Sembra quasi che ci sia uno "sdoppiamento" dell'autostima che potremmo

ricondurre alla diversità degli aspetti che essa misura.

In appendice riportiamo anche un ulteriore risultato ripreso dallo stesso studio e

che è assai interessante per la nostra tesi.

Esso ci mostra le correlazioni fra l'attaccamento al lavoro (work involvement) e

i gradi di autostima per stato occupazionale.

Dai dati emerge la correlazione appare significativa nel caso dell' "autostima

negativa": maggiore è l'attaccamento al lavoro, che nel nostro lavoro metteremo

in correlazione con il disagio calcolato con una scala di GHQ , maggiore è il

malessere per i disoccupati mentre minore lo è per gli occupati.

E' un discorso che coinvolge le aspettative sul lavoro, aspetti dell'autostima,

centralità del lavoro e disagio e che ci ricorda come maggiori siano queste

aspettative maggiore è la frustrazione.

Come si vede, analoghe correlazioni riguardo occupati e disoccupati non

compaiono nel caso di quegli aspetti della personalità che abbiamo racchiuso

sotto il nome di "autostima positiva": aspetti della personalità più radicati non

soffrono gli stessi disagi.

Riguardo all'autostima uno studio importante è quello di R. Cohen "The effect

of employment status change on self-attitudes".

Qui il calo dell'autostima , per il disoccupato, è visto come legato a una

componente della personalità definita "employment status component", cioè

quella componente che è relativa specificamente all'importanza che assume il

lavoro per il singolo (Cohen, 1978)

In pratica in questo studio la personalità è divisa in vari "settori" i quali hanno

una loro importanza relativa.

Un calo in una componente, in questo caso quella più legata al valore del

lavoro, può abbassare l'autostima nella misura in cui ciò è consentito dalle altre

componenti che si riferiscono ad altri aspetti della personalità; alcuni aspetti

dell'identità possono cioè fare da contrappeso ad aspetti più strettamente legati

al lavoro.

Un primo aspetto analizzato è l'importanza del ruolo familiare come alternativo.

Abbiamo già visto che per l'uomo questo ruolo, specialmente se è capo

famiglia, entra in crisi essendo di importanza relativa molto minore rispetto alla

grande componente lavorativa che gli è assegnata culturalmente; nella donna

invece il ruolo di sostegno all'ambito familiare è molto più sicuro.

Quel che più è importante è l'analisi dei diversi pesi che hanno le componenti

del lavoro nell'autostima degli operai e degli impiegati. Molti studi hanno

documentato un maggior "involvement" nel lavoro a partire dagli impiegati per

poi crescere nella scala gerarchica.

Ciò dovrebbe suggerire che gli effetti della disoccupazione sull' autostima

dovrebbero essere maggiori fra questi ultimi.

Tuttavia gli impiegati hanno maggiori componenti dell'autostima che fungono

da contrappeso: questi potrebbero essere precedenti maggiori soddisfazioni, ad

esempio uno status occupazionale più elevato e migliori risultati a scuola.

La presenza di queste componenti "storiche" riduce l'importanza nell' "ego"

della componente lavorativa e modera l'impatto della disoccupazione.

In precedenza si è visto che il disagio si poteva considerare simile fra operai e

impiegati.

Inoltre un livello di educazione superiore può fornire componenti di

autosoddisfazione maggiori che mettono al sicuro da forti cali nell'autostima.

4.2 Autopercezione

Autopercezione può essere intesa sia in senso stretto, cioè delle proprie idee,

pensieri e comportamento, oppure osservazione della propria situazione

generale.

Una delle cose più importanti sarebbe quella di continuare ad identificarsi col

lavoro che si è perso; prima o poi comunque il lavoratore diventa cosciente dell'

apparente infinita quantità di tempo libero di cui dispone.

I casi in cui il tempo libero è visto come possibilità di sviluppare interessi e

attività sono rari.

Dagli anni '30 ai giorni nostri le ricerche hanno documentato la consapevo lezza

del disoccupato della sterilità delle proprie giornate.

La maggior parte dell'esperienza giornaliera risulta destrutturata; il risultato è

un generale abbassamento del tono, fisico come psicologico.

Dai commenti e dalle redazioni diaristiche dei disoccupati si avverte che essi

sono consci del deteriorarsi della loro situazione (Kieselbach, 2003).

Di frequente annoiato e frustrato, il disoccupato è un problema per gli altri oltre

che per se stesso ed egli lo sa.

La donna disoccupata ha meno problemi in questo senso: non è vero che non ha

nulla da fare, al contrario essa ha più da fare sotto circostanze più difficili:

piuttosto si può sentire confinata e privata di una sua vita autonoma,

specialmente di una sua propria vita sociale.

E’ chiaro che il disoccupato non solo vede se stesso come annoiato e frustrato,

ma vedersi così lo rende irritabile.

L'irritabilità diviene una caratteristica regolare del comportamento quotidiano;

egli ne è consapevole come tutta la sua famiglia.

Questo è guardato come un cambio di personalità, anche se sia il disoccupato

che la sua famiglia attribuiscono il cambio alla sua situazione contingente.

Da un punto di vista psicologico però vi sono anche altre spiegazioni, come gli

effetti disorientativi di essere disoccupati, il bisogno di riconsiderare una

quantità di cose date per scontate e i dubbi e le ansietà generate da queste

riconsiderazioni.

Il disoccupato è psicologicamente rinchiuso nei suoi problemi e fisicamente

"rinchiuso" a casa sua.

L'attività informale, così come il puro divertimento, può esteriormente avere le

stesse caratteristiche di un'ordinaria attività riconosciuta, ma quel che conta è

che il disoccupato è cosciente soprattutto di quello che non sta facendo: il

tempo è vissuto come sprecato in quanto non è sfruttato per il lavoro per il

quale si è qualificati.

Questo sentimento di spreco si sviluppa progressivamente.

All'inizio tutti i disoccupati fanno degli sforzi: andando ai centri per l’impiego,

seguendo contatti personali, facendo telefonate, scrivendo lettere, facendo

interviste.

Nel campo dell'identificazione e in particolare dell'autoidentificazione,

convergono oltre alle aspettative riguardo il raggiungimento dell’immagine del

sé ideale, anche spinte da parte della famiglia, della società più in generale e del

momento storico che definiscono le coordinate dell'accettazione.

In conclusione si può dire che la disoccupazione strappa l'individuo da una

serie di sicurezze costruite negli anni precedenti.

Questo cambiamento e il desiderio di riorientarsi sono da soli sufficienti ad

accrescere la consapevolezza di se stesso; e proprio in questa consapevolezza,

in questo continuo specchiarsi in sé, vi è il fulcro del disagio (L. Artazcoz, J.

Benach, C. Borrell, 2004).

Inoltre il problema più grave è che il disoccupato ha enormi quantità di tempo

libero e poche attività con le quali riempirlo. Inevitabilmente in questa

situazione il tempo da dedicare all'introspezione è vasto e può essere fonte di

grandi disagi.

Il primo impatto con la condizione di disoccupazione viene spesso descritto

come la sensazione di essere in vacanza.

E' un sentimento tipico della disoccupazione post-bellica che ricorda come la

condizione del disoccupato sia migliore, almeno materialmente, rispetto a

quella degli anni '30.

Psicologicamente il "viversi come in vacanza" implica che un individuo non si

identifichi ancora nella sua nuova condizione.

Ad un certo punto però il disoccupato prende consapevolezza della propria

situazione.

Inizia una sensazione di risentimento, rabbia, frustrazione nel vedersi

accomunato a tutti gli altri disoccupati, spesso sottoposti ad umilianti pratiche

burocratiche che invadono la privacy: si diventa cittadini di secondo rango.

Il passaggio da una condizione di vacanza alla triste consapevolezza della

situazione coincide con la sensazione di un evento fuori dal proprio controllo.

Vi sono stati casi in cui intere comunità sociali hanno sofferto la piaga della

disoccupazione.

Qui non si palesa solo un distacco dalla vita sociale ma una generale

disaffezione alle attività comunali e sociali come se l'umiliazione si

trasmettesse alle strutture del comune.

Si pensi ai giardini comunali di Marienthal, una volta fonte di orgoglio per la

cittadinanza e poi trascurati.

Uno dei problemi più gravi che il disoccupato vive è il fatto che la

disoccupazione porti con sé la dissoluzione di una quantità di punti fissi

dell'ambiente sociale precedente, in particolare di una rete di relazioni che

strutturavano l'identità.

Anche se all'inizio vi possono essere positive reazioni all'evento negativo, ossia

assumere un atteggiamento attivo o conservare nella disoccupazione aspetti del

proprio precedente lavoro, tuttavia queste attività sono spesso solitarie, non si

hanno partners.

Vi è poco rinforzo sociale nel proprio ruolo, solo una crescente consapevolezza

che uno può contare solo su se stesso e alla fine può nascere la sensazione che

uno stia semplicemente giocando. Il lavoro fa dell'attore una parte di un sistema

di relazioni, di aspettative: vede se stesso come portatore di aspettative di altri e

delle proprie.

Cessato il lavoro, sfumano anche le aspettative e le prassi di comportamento

associate ad esso.

Anche la famiglia è coinvolta dai problemi del disoccupato. Nel matrimonio il

disagio aumenta le tensioni fra marito e moglie e questo può portare o alla

rottura di rapporti già fragili o al consolidamento di un'unione meglio riuscita.

Il concetto di sé nel matrimonio, qualsiasi sia la qualità dell’unione, può essere

accresciuto dall'esperienza della disoccupazione ma raramente è trasformato da

essa (Howe, George W.; Levy, Mindy Lockshin; Caplan, Robert, 2004)

Particolarmente importante è il rapporto coi figli e il sentimento di perdita di

autorità ai loro occhi. Molto dipende anche qui dal precedente rapporto prima

della disoccupazione. In ogni caso i problemi più gravi sono, per motivi chiari,

con i figli adolescenti piuttosto che con i bambini sotto i 12 anni.

Più sottilmente inoltre il disoccupato padre teme di non essere in grado di

mantenere la propria famiglia.

Dal punto di vista economico le situazioni non sono sempre felici e il

disoccupato è spesso penosamente consapevole delle deprivazioni che la sua

situazione ha portato ai figli e alla moglie.

Un’immagine che è stata ripetutamente studiata è quella del lavoratore

scoraggiato, ossia l'individuo che si reputa così inadatto a cercare lavoro che si

ritira volontariamente dal mercato.

Quel che è più interessante è che l'evoluzione della situazione lavorativa di

questi lavoratori è molto sensibile a circostanze contingenti e ambientali.

Grande influenza in questi casi hanno anche le terapie di sostegno che associate

a periodi di ripresa economica possono offrire maggiori possibilità ad un

lavoratore "incoraggiato".

4.3 Eteropercezione

Per la definizione della nuova identità del disoccupato è importante, oltre

l'auto-osservazione, anche il modo in cui si è visti dagli altri che per riflesso

diviene il modo in cui ci vediamo.

Una tale sensibilità non è legata solo all'evento disoccupazione: succede ogni

qual volta un individuo, per una determinata ragione, diviene conscio del suo

stato e crede che tale stato sia rilevante per gli altri, o che almeno dovrebbe

esserlo se ne fossero consapevoli.

Tutto ciò è un tratto comune della disoccupazione che crea numerose incertezze

e come abbiamo visto la tipica risposta all'incertezza e all'ambiguità è quella di

rendere l'individuo più consapevole di sé e della propria posizione; come

risultato egli prende in maggiore considerazione del solito ogni segnale che gli

altri gli mandano e che possa chiarirgli la sua situazione.

Vi sono molti "altri": una parte sono certamente la famiglia e gli amici, un'altra

sono le persone con cui si hanno rapporti funzionali ad esempio lo staff degli

uffici previdenziali e i datori di lavoro, e infine quella che è la moltitudine che

noi chiamiamo "gente", la generalità delle persone che uno vede per strada, con

cui si sofferma a parlare nei negozi che si può identificare con termini del tipo

"essi pensano", "essi dicono".

Sembra importante soffermarsi sulla categoria degli altri generici, la folla, che

ha grande importanza per la definizione dell'identità personale e sociale del

disoccupato interessato all'immagine che la società e la cultura gli rimandano.

L'immagine degli altri che ha il disoccupato è quella di "fortunati", questo non è

sorprendente viste le difficoltà che egli incontra per trovare qualche lavoro e le

privazioni cui deve sottoporre la sua famiglia.

Oltretutto vi è una spiegazione psicologica per cui "gli altri" sono fortunati.

Essere fortunati non ha niente a che fare con l'essere migliori; nega la

possibilità di abilità e qualità diverse dalle sue. Definendoli fortunati il

disoccupato dichiara che le differenze fra lui e gli altri sono fuori dal suo

controllo.

La mancanza di aspetti di autodefinizione legati al lavoro porta verso forme

alternative di definizione personale, quali ad esempio i rapporti convenzionali

all'interno della famiglia, come stereotipi del ruolo del partner e dei figli

(Kieselbach, 2003).

E’ comunque da evidenziare che un’acuta sensibilità può spesso voler dire iper-

sensibilità e a volte paranoia; inoltre per "ipersensibilità" si intende

principalmente la tendenza a scoprire sempre nuove minacce alla propria

persona.

Una forte vulnerabilità si unisce ad un'acuta sensibilità: si può dire che il

disoccupato ha validi motivi per essere sensibile ad aspetti della vita che altre

persone possono dare per scontate (Kieselbach, 2003).

PARTE SECONDA – La ricerca sperimentale

Introduzione

L’obiettivo della ricerca empirica, che sarà descritta successivamente, è quello

di rilevare in che misura la presenza di disoccupazione di lunga durata possa

essere correlata con stati depressivi, con condizioni di malessere generale, con

attribuzioni di causalità esterne e con inadeguate strategie di coping.

Facendo riferimento alla letteratura a riguardo (tra gli altri, Brown et al., 2003;

Taris, 2002; Artazcoz et al., 2002; Strine TW, Balluz L, Chapman DP et. Al,

2001; Price R. H., Choi J. N., Vinokur A. D., 2002) verranno formulate alcune

ipotesi sui valori che dovrebbero assumere determinate variabili psicologiche,

quali la depressione, il disagio psicologico, il locus of control lavorativo e le

strategie di coping, all’interno di un campione composto da 100 soggetti.

50 soggetti costituiranno il gruppo sperimentale, composto da disoccupati di

lunga durata, iscritti al centro per l’impiego di Sanremo.

I restanti 50, lavoratori, assunti con contratto a tempo indeterminato,

costituiranno il gruppo normativo.

Somministrando 4 test standardizzati, (BDI, GHQ-12, LOC-L, COPE) già

utilizzati in precedenti studi sulla disoccupazione e analizzando statisticamente

i dati raccolti, si trarranno alcune conclusioni.

Facendo riferimento agli studi precedentemente descritti, si osserverà se le

conclusioni di questa ricerca empirica sono in linea con i precedenti studi svolti

nello stesso ambito.

1.1 Obiettivi generali

L’obiettivo di questa ricerca, come già detto, è quello di indagare in che misura

una condizione di disoccupazione di lunga durata possa essere correlata con

stati depressivi, con condizioni di malessere generale, con attribuzioni di

causalità esterne e con inadeguate strategie di coping.

Lo scopo risulta quindi quello di verificare la presenza di stati depressivi nei

soggetti del campione e di misurare il loro benessere generale, la loro tipologia

principale di fornteggiamento degli eventi stressanti (coping), e la direzione che

assume il loro locus of control lavorativo; rilevando se esistono differenze

significative all’interno dei due gruppi del nostro campione (disoccupati e

lavoratori).

1.2 Ipotesi

Alla luce degli studi compiuti in questo ambito, e della letteratura di

riferimento, ampiamente descritta nei capitoli precedenti, la nostra ricerca si

propone di evidenziare:

1) una differenza significativa tra i due gruppi del campione

(disoccupati/lavoratori) per quanto riguarda la presenza di stati depressivi,

ipotizzando che il gruppo di disoccupati manifesti livelli di depressione

decisamente più alti rispetto al gruppo di lavoratori.

2) Una differenza significativa tra i due gruppi del campione per quanto

riguarda la variabile “benessere generale”, ipotizzando che il gruppo di

disoccupati manifesti livelli molto più alti di malessere generale rispetto al

gruppo di lavoratori.

3) Una differenza significativa tra i due gruppi del campione per quanto

riguarda la variabile “Locus of control lavorativo”, ipotizzando che il

gruppo di disoccupati manifesti un’orientamento delle attribuzioni di

causalità prevalentemente esterno, al contrario dei lavoratori che lo

manifesterebbero prevalentemente interno.

4) Una differenza significativa tra i due gruppi del campione per quanto

riguarda la variabile “Strategie di coping”, ipotizzando che il gruppo di

disoccupati utilizzi strategie di coping meno efficaci per il fronteggiamento

degli eventi stressanti, rispetto ai lavoratori.

5) L’esistenza di correlazioni tra elevati livelli di depressione e malessere

generale, attribuzioni esterne di causalità e strategie di fronteggiamento

inefficaci.

1.3 Metodo

La raccolta dei dati è stata svolta tra il mese di marzo 2005 e il mese di giugno

2005. La nostra batteria di test è stata somministrata a 100 soggetti, che si

suddividono in due gruppi:

• 50 disoccupati di lunga durata iscritti al Centro per l’impiego di Sanremo

• 50 lavoratori, assunti con contratto a tempo indeterminato, dipendenti della

Beach & Sun spa, società a carattere turistico-alberghiero.

Il questionario è stato consegnato personalmente a ciascuno dei partecipanti e la

somministrazione è stata collettiva.

1.3.1 Campione

Il gruppo sperimentale

I soggetti facenti parte del gruppo sperimentale sono stati reclutati presso la

Provincia di Imperia, Centro per l’impiego – Sezione di Sanremo, grazie alla

disponibilità accordata dalla dirigente del settore, Anna Rossi.

I Centri per l'Impiego hanno sostituito nel 1999 gli Uffici di Collocamento, a

seguito della riforma che ha delegato alle Province compiti in materia di

politiche attive del lavoro. Attraverso l'esperienza, la conoscenza del mercato,

del tessuto economico locale e della normativa in materia di impiego, i Centri

forniscono una serie di servizi reali a imprese e persone, per favorire l'incontro

tra domanda e offerta di lavoro.

Il gruppo sperimentale della nostra ricerca è composto da 50 disoccupati, ( il

50% dei soggetti che hanno preso parte alla compilazione dei test).

Tale gruppo è stato selezionato tra gli iscritti al centro per l’impiego in modo

che avessero come caratteristica quella di essere disoccupati da più di un anno,

requisito necessario per considerarli disoccupati di lunga durata, al fine di poter

studiare i correlati psicologici di disoccupazioni durature.

Il gruppo è composto da soggetti che vivono la condizione di assenza di

occupazione da un minimo di un anno ad un massimo di 7 anni.

Osserviamo nella tabella sottostante come si distribuisce la frequenza della

“durata della condizione di disoccupazione”.

Durata disoccupaz.

in anni

Frequenza Percentuale Percentuale valida

Da 1 a 2 anni 14 28% 28%

Da 2 a 3 anni 12 24% 24%

Da 3 a 4 anni 8 16% 16%

Da 4 a 5 anni 4 8% 8%

Più di 5 anni 12 24% 24%

Totale 50 100% 100%

Dalla tabella si ricava il seguente grafico

28%

24%

16%

8%

24%

0%

5%

10%

15%

20%

25%

30%

Durata disoccupazione

1-2 anni

2-3 anni

3-4 anni

4-5 anni

più di 5 anni

Questi sono soggetti da ritenersi “attivi” poiché sono stati reclutati durante le

“chiamate” predisposte dalla nuova riforma dei centri per l’impiego, che

prevede che i disoccupati si presentino al proprio CPI nel momento in cui

vengono convocati.

Questo succede almeno due volte l’anno ed ha la finalità di dimostrare e

sottoscrivere la propria ed immediata disponibilità al lavoro, pena la

cancellazione del proprio nominativo dal database del CPI stesso.

Abbiamo inoltre cercato di operare delle scelte che garantissero la maggior

omogeneità possibile del campione.

Come possiamo infatti osservare dalla tabella sottostante il gruppo è suddiviso

in maniera uniforme secondo la variabile “Sesso”.

Hanno infatti compilato correttamente il nostro questionario 25 Maschi (50%) e

25 femmine (50%)

Sesso Frequenza Percentuale Percentuale valida

Maschi 50 50% 50%

Femmine 50 50% 50%

Totale 50 100% 100%

Per quanto riguarda la variabile “età” troviamo una distribuzione che presenta il

picco massimo di frequenza nella fascia di età compresa tra i 30 e i 40 anni.

Possiamo quindi affermare che i disoccupati del nostro campione non sono

composti in prevalenza da giovani alla ricerca di prima occupazione, bensì da

persone che erano già collocate e che improvvisamente si sono trovate a passare

nella condizione di “senza lavoro”.

Età Frequenza Percentuale Percentuale valida

Da 20 a 30 anni 10 20% 20%

Da 30 a 40 anni 24 48% 48%

Da 40 a 50 anni 13 26% 26%

Da 50 a 60 anni 3 6% 6%

Totale 50 100% 100%

20%

48%

26%

6%

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

Età

20-30

30-40

40-50

50-60

Ancora, analizzando la variabile “titolo di studio” rileviamo un dato

interessante, infatti il nostro gruppo sperimentale è composto in prevaleza da

soggetti di media cultura, con licenza media la netta maggioranza (52%) o con

diploma (26%). Il restante 22% si distribuisce in maniera piuttosto uniforme

nele rimanenti 3 categorie

Titolo di studio Frequenza Percentuale Percentuale valida

Nessuno 2 4% 4%

Licenza media 26 52% 52%

Qualifica

professionale

5 10% 10%

Diploma 13 26% 26%

Laurea 4 8% 8%

Totale 50 100% 100%

4%

52%

10%

26%

8%

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

Titolo di studio

Nessuno

Licenza media

Qualifica Professionale

Diploma

Laurea

Per finire possiamo compiere un’ultima osservazione utile alla nostra ricerca, la

maggior parte dei soggetti si dichiara Coniugato/a (62%) ciò vuol dire che la

maggioranza del campione deve provvedere oltre che al proprio sostentamento,

anche a quello del proprio nucleo familiare, condizione che può aumentare lo

stress proveniente dalla deprivazione economica.

Stato civile Frequenza Percentuale Percentuale valida

Celibe/nubile 5 30% 30%

Sposato/a 31 62% 62%

Divorziato/a 4 8% 8%

Stato civile

30%

62%

8%

Nubile/Celibe

Sposato/a

Divorziato/a

Il Campione – Il gruppo di controllo

I componenti del nostro gruppo di controllo sono 50 soggetti lavoratori,

reclutati tra i dipendenti della stessa azienda, la ” Beach and Sun, in modo che i

fattori che entrano in gioco nelle dinamiche di Benessere Generale,

depressione, coping e locus of control fossero indipendenti al massimo dal

fattore “ambiente lavorativo”.

Abbiamo cercato di conservare più possibile l’omogeneità dei dati con il

gruppo sperimentale, cercando di diminuire più possibile l’incidenza delle

variabili soggettive all’interno della nostra ricerca e non creare grandi gap tra

un gruppo e l’altro.

Anche per questi soggetti il primo requisito era quello che lavorassero presso

la stessa azienda da almeno un anno, in modo da costituire un gruppo che

potesse essere considerato appartenente alla categoria ideale dei “lavoratori

stabili”.

Osserviamo qui di seguito la distribuzione della frequenza della variabile

“Durata della condizione lavorativa”.

Durata Condizione

lavorativa

Frequenza Percentuale Percentuale valida

Da 1 a 2 anni 6 12% 12%

Da 2 a 3 anni 5 10% 10%

Da 3 a 4 anni 3 6% 6%

Da 4 a 5 anni 5 10% 10%

Più di 5 anni 31 62% 62%

Totale 50 100% 100%

Dalla tabella delle frequenze si ottiene il seguente grafico:

12% 10%6%

10%

62%

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

70%

Durata condizione lavorativa

1-2 anni

2-3 anni

3-4 anni

4-5 anni

più di 5 anni

Per quanto riguarda la variabile “sesso” no tiamo una totale corrispondenza con

la distribuzione del gruppo sperimentale, anche in questo caso abbiamo un 50%

di donne e un 50% di uomini.

Nella variabile sociodemografica “età” troviamo un’ alta concentrazione di

soggetti nella fascia di età compresa tra i 20 e i 30 anni. Si può quindi affermare

Sesso Frequenza Percentuale Percentuale valida

Maschio 25 50% 50%

Femmina 25 50% 50%

Totale 50 100% 100%

che si tratta in prevalenza di lavoratori giovani, attivi, e motivati a conservare il

proprio posto di lavoro non essendo vicini all’età del pensionamento.

Età Frequenza Percentuale Percentuale valida

Da 20 a 30 anni 22 44% 44%

Da 30 a 40 anni 15 30% 30%

Da 40 a 50 anni 7 14% 14%

Da 50 a 60 anni 6 12% 12%

Totale 50 100% 100%

44%

30%

14%12%

0%

5%

10%

15%

20%

25%

30%

35%

40%

45%

50%

Età

20-30

30-40

40-50

50-60

Nella variabile “titolo di studio” il gruppo di controllo presenta una

maggioranza di soggetti diplomati (62%).

La distribuzione evidenzia anche in questo caso un bassissimo numero di

soggetti all’estremo inferiore (nessun titolo 0%) e superiore (laurea 16%) della

distribuzione.

Titolo di studio Frequenza Percentuale Percentuale valida

Nessuno 0 0% 0%

Licenza media 7 14% 14%

Diploma 31 62% 62%

Qualifica

professionale

4 8% 8%

Laurea 8 16% 16%

Totale 50 100% 100%

0%

14%

62%

8%

16%

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

70%

Titolo di studio

Nessuno

Licenza media

Diploma

Qualifica professionale

Laurea

Per finire i soggetti lavoratori sono per la maggior partre Celibi/Nubili (56%)

rispetto ai coniugati (26%).

La più bassa risulta comunque, anche in questo caso, la percentuale di separati

(18%).

Stato civile Frequenza Percentuale Percentuale

valida

Celibe/nubile 28 56% 56%

Sposato/a 13 26% 26%

Divorziato/a 9 18% 18%

Totale 50 100% 100%

Stato civile

56%26%

18%

Nubile/Celibe

Sposato/a

Divorziato/a

1.3.2 Strumenti

Ai soggetti sono stati somministrati: una scheda sociodemografica, Il Beck

Depression Inventory, il GHQ-12, il LOC-L e il Cope Orientation to Problems

Experienced.

1. La scheda sociodemografica

La prima parte della scheda sociodemografica che riguarda le variabili

socioanagrafiche (sesso, età, stato civile, titolo di studio) è uguale per entrambi

i gruppi.

Nella seconda parte si rilevano invece per ciascun gruppo le seguenti

condizioni:

• Disoccupati à condizione lavorativa e durata della disoccupazione

• Lavoratori à Condizione lavorativa e durata dell’attuale attività lavorativa

2. Il Beck Depression Inventory (BDI)

Il BDI ,di Beck et al. 1961, validato in Italia da Montano A., Flebus G. B., Pizzi

E., Barlascini L., è costituito da 21 item, per i quali il soggetto deve scegliere,

entro 4-5 alternative, quella che meglio descrive come si è sentito nell’ultima

settimana (si rimanda alle opere dello stesso Beck citate in bibliografia per

un’analisi più attenta delle caratteristiche e delle proprietà metriche della stessa)

L’Alfa di Cronbach per la scala totale è riportato pari a 0.82, la fedeltà

temporale misurata con la procedura di test-retest a distanza di 30 giorni pari a

0.74; buona la validità concorrente con strumenti analoghi.

Questa scala valuta la presenza di sintomi depressivi dal punto di vista

cognitivo, motivazionale, vegetativo e psicomotorio, in modo conforme con i

criteri di valutazione della depressione presenti nel DSM-IV.

Il BDI è stato più volte adottato in ricerche, anche molto recenti, sulla

psicologia della disoccupazione (si veda ad es. Price R. H., Choi J. N., Vinokur

A. D., 2002), sono quindi reperibili numerose verifiche sulla sua coerenza

interna e sulla sua validità.

I punteggi del test possono essere divisi in 4 categorie:

da 5 a 9 il livello di depressione è considerato normale

da 10 a 18 indica una presenza del sintomo da modesta a moderata

da 19 a 29 indica una presenza del sintomo da moderata a severa

da 30 a 63 indica una presenza decisamente severa del sintomo.

Tuttavia è da considerare che se il punteggio risulta inferiore a 5 allora il

soggetto potrebbe aver risposto in maniera fasulla al test, per generare una

buona impressione di se e negare la depressione, mentre punteggi superiori a 40

possono indicare, oltre un grado molto alto di presenza di depressione, anche la

possibilità di trovarsi di fronte a soggetti con disturbi istrionici o borderline

(Groth-Marnat, 1990).

3. Il General Health Questionnaire (GHQ)

Il General Health Questionnaire di Goldberg (1972; 1978), tradotto ed adattato

in italiano da Fraccaroli, Depolo, Sarchielli, serve ad individuare la presenza di

disturbi psichiatrici minori a carattere non psicotico che nel recente passato

possono aver interessato il soggetto.

La versione dello strumento qui utilizzata è costituita da 12 items (GHQ-12) e

rappresenta la soluzione abbreviata dell’originale che conta 60 items.

Gli items che compongono la versione GHQ-12 sono per la metà costituiti da

affermazioni positive che descrivono stati di salute e attività quotidiane

normali.

L’altra metà degli items è costituita da affermazioni negative che costituiscono

stati di disagio psichico. In questo caso un aumento, nell’ultimo periodo

rispetto al passato, della presenza di tali sintomi è da considerare come

indicatore di disagio psichico.

La somma totale dei punteggi di ogni singolo item permette di ottenere un

indicatore sintetico del grado di gravità del disturbo del soggetto.

Questo strumento è stato più volte adottato in ricerche occupazionali, anche

nello specifico campo della “psicologia della disoccupazione”, sono quindi

reperibili numerose verifiche sulla coerenza interna e sulla validità.

Lo scoring methods adottato è “il metodo GHQ”, che procede dicotomizzando i

punteggi e attribuendo il punteggio 0 in caso di assenza del sintomo ed il

punteggio 1 in caso di presenza del sintomo.

L’analisi delle proprietà scalari del GHQ-12 ha dato generalmente risultati

soddisfacenti per questo metodo di scoring, come per quanto riguarda la

validità interna degli item.

4. Il LOC-L

Il questionario di locus of control lavorativo (Loc-L) di Argentero e Vidotti,

1994, si propone quale scala specifica per la misurazione del locus of control in

ambito lavorativo.

Il numero di item che compongono la scala e la loro varietà per tema, direzione

e fonte del controllo, permettono inoltre l'individuazione di eventuali

dimensioni sottostanti la misura generale del locus of control.

La scala Loc-L è costituita da 31 item, selezionati attraverso indagini

preliminari a partire da un più vasto gruppo di affermazioni concernenti le

aspettative sul controllo del rinforzo in ambito lavorativo/organizzativo. La

scelta degli item è stata operata seguendo il criterio della comprensibilità e

dell'unicità del significato.

Tutti gli item del questionario riguardano la sfera della attività lavorativa e si

sviluppano attorno a quattro grandi aree che ne hanno guidato la stesura:

a. 6 affermazioni riguardano il rapporto con i superiori;

b. 7 si riferiscono all'aspetto economico legato all'attività svolta;

c. 6 al raggiungimento degli obiettivi nel lavoro;

d. 12 item sono legati al cammino lavorativo di una persona nel mercato del

lavoro; di questi, 6 si riferiscono in particolare all'avanzamento di carriera e 6

all'ottenimento - o alla conservazione - di un "posto" di lavoro.

Attraverso tali item si è ritenuto di cogliere tutti gli aspetti più rilevanti legati

all'attività lavorativa.

Non vi sono item specifici per particolari attività, in quanto lo strumento si

propone di essere applicabile in qualsiasi contesto professionale.

Le affermazioni sono state formulate in parte in direzione "interna" e in parte in

direzione "esterna"; così per quattordici item un forte accordo è indice di

esternalità, mentre per i rimanent i diciassette l'accordo indica un locus of

control interno.

I rispondenti sono chiamati ad esprimere il loro grado di accordo con ciascuna

delle frasi, utilizzando una scala tipo Likert a 5 punti variante da 1 = per nulla a

5 = moltissimo.

Il punteggio totale della scala Loc-L viene calcolato dopo l'inversione dei

punteggi relativi agli item interni, in modo tale che maggiore è il punteggio

risultante, maggiore è il grado del controllo esterno.

5. Il Coping Orientation to Problems Experienced (COPE)

Il Coping Orientation to Problems Experienced (COPE) di Carver, Scheier e

Weintraub (1989), è un questionario Americano tradotto ed adattato in Italiano

da Sica, Novara, Dorz e Sanavio (1977).

Il COPE è utilizzato per indagare le strategie di fronteggiamento dello stress ed

è costituito da 60 items a cui il soggetto deve rispondere indicando la frequenza

con la quale utilizza il meccanismo di coping descritto (da 1: Di solito non lo

faccio a 4: Lo faccio quasi sempre).

Il questionario fornisce punteggi per 15 scale, composte da 4 items ciascuna,

che sono:

• Attività (5, 25, 47, 58)

• Pianificazione (19, 32, 39, 56)

• Soppressione di attività competitive (15, 33, 42, 55)

• Contenimento (10. 22, 41, 49)

• Ricerca di informazioni (4, 14, 30, 45)

• Ricerca di comprensione (11, 23,34, 52)

• Sfogo emozionale (3, 17, 28, 46)

• Reinterpretazione positiva e crescita (1, 29, 38, 59)

• Accettazione (13, 21, 44, 54)

• Dedicarsi alla religione (7, 18, 48, 60)

• Umorismo (8, 20, 36, 50)

• Negazione (6, 27, 40, 57)

• Distacco comportamentale (9, 24, 37, 51)

• Distacco mentale (2, 16, 31, 43)

• Uso di droghe o alcool (12, 26, 35, 53)

Oltre a queste scale vengono misurate cinque dimensioni, quelle che

interesseranno direttamente la nostra ricerca, e che sono emerse dall’analisi

fattoriale del test:

• Supporto sociale

• Strategie di esitamento

• Attitudine positiva

• Orientamento al problema

• Religione

La maggior parte delle scale ha una buona consistenza interna e una discreta

stabilità temporale.

1.3.3 Procedura

La batteria di test è stata somministrata ai soggetti in durante incontri di gruppo,

con un massimo di 10 partecipanti ad incontro.

Per i soggetti disoccupati il contesto di questi incontri era il centro per

l’impiego di Sanremo, che organizzava le “chiamate” ai disoccupati, richieste

dalla nuova riforma dei centri per l’impiego.

Per i lavoratori invece il luogo degli incontri era la propria azienda, al termine

dei rispettivi turni.

Dopo aver spiegato ai partecipanti come compilare correttamente il test in tutte

le sue parti, veniva lasciata loro un’ora per portare a termine il compito.

Terminato l’incontro, ogni soggetto riponeva il proprio test in una scatola, per

garantire al massimo l’anonimato, in modo che ognuno si sentisse libero di

rispondere con sincerità ad ogni item della batteria.

1.3.4 Analisi dati

I dati sociodemografici sono stati analizzati attraverso statistiche descrittive

(distribuzione delle frequenze, indici della tendenza centrale, variabilità, tavole

di contingenza).

Relativamente al BDI, al GHQ, al LOC-L e al COPE le medie dei punteggi

grezzi ottenuti nei test dai disoccupati sono state confrontate con quelle ottenute

dai lavoratori utilizzando il t di student per campioni indipendenti.

Sono state infine calcolate le correlazioni tra BDI e GHQ, tra BDI e LOC-L, tra

BDI e COPE.

Per la significatività statistica è stato adottato il valore di p=.05.

Tutti i dati sono stati analizzati con il sistema SPSS (Statistical Package for

Social Sciences), versione 13.0 per Windows.

Il Beck depression inventory (BDI)

Relativamente al BDI sono stati calcolati i punteggi sulla presenza, e in che misura, di una

patologia di natura depressiva all’interno dei due gruppi di ricerca.

Come illustrato in tabella 6.11 la depressione risulta significativamente maggiore (con una

media nella fascia di presenza del sintomo moderata) nel gruppo di disoccupati rispetto ai

lavoratori, che invece presentano valori nella norma (soggetti in assenza di patologia

significativa).

Disoccupati

Media +/- DS

Lavoratori

Media +/- DS

p

Depressione 16,92 +/- 5,42 7,02 +/- 2,72 .001

Media e deviazione standard dei punteggi BECK dei campioni

Otteniamo anche il grafico della distribuzione:

20%

32% 36

%

12%

66%

30%

2% 2%

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

70%

Nessunsintomo

Basso livellodi

depressione

Moderatolivello di

depressione

Alto livello didepressione

% Soggetti disoccupati

% Soggetti lavoratori

Considerando i punteggi ottenuti, e l’osservazione delle medie dei due gruppi, le

differenze risultano significative nella scala Depressione

(p= .001).

General Healt Questionnaire (GHQ-12)

Per quanto riguarda i risultati del GHQ-12 sono state calcolate le medie dei soggetti nel

punteggio ottenuto sulla variabile “benessere generale”.

Da evidenziare che maggiore è il punteggio ottenuto al test, minore è il benessere generale

del soggetto.

Confrontando i punteggi dei disoccupati con quelli dei soggetti lavoratori emergono

differenze significative all’interno delle medie dei due gruppi (p=.01).

Il gruppo di disoccupati manifesta un’elevata condizione di disagio psicologico se si

considera che il punteggio medio ottenuto è di 5,42, contro la media di 2,72 del gruppo dei

lavoratori, come possiamo osservare nella tabella 6.12

Disoccupati

Media +/- DS

Lavoratori

Media +/- DS

p

Benessere generale 5,42 +/- 2,27 2,46 +/- 1,82 .01

In base ai dati ottenuti possiamo quindi ottenere il seguente grafico:

Disagio psicologico

5,42

2,46

0

1

2

3

4

5

6

Livello di disagiodisoccupati

Livello di disagiolavoratori

Pu

nte

gg

i med

i gh

q

Disagio psicologico

Considerando i punteggi osservati, le differenze tra i due gruppi risultano significative

all’interno della variabile “Disagio psicologico” (p= .01).

Locus of control lavorativo (LOC-L)

Per quanto riguarda i risultati del LOC-L sono stati calcolati i punteggi medi dei soggetti

ottenuti sulla scala “locus of control lavorativo”, dopo averli espressi in direzione

“interna” o “esterna”.

Come detto in precedenza i punteggi potevano variare da un minimo di 31, che indicava

un locus of control totalmente interno, a un massimo di 155, che indica un locus di

contol totalmente esterno.

Confrontando i punteggi dei disoccupati con quelli dei soggetti lavoratori emergono

differenze significative tra le medie dei due gruppi (p=.001).

Nel gruppo di disoccupati si riscontra un locus of control lavorativo fortemente esterno

se si considera che il punteggio medio ottenuto è di 95,44, contro la media di 72,24 del

gruppo dei lavoratori, come possiamo osservare nella tabella 6.12

Disoccupati

Media +/- DS

Lavoratori

Media +/- DS

p

Locus of control 95,44 +/- 13,97 72,24 +/- 11,17 .001

In base ai dati ottenuti possiamo quindi ottenere il seguente grafico:

Locus of control lavorativo

95,44

72,24

0

20

40

60

80

100

120

LOC-L Disoccupati LOC-L Lavoratori

Pu

nte

gg

i med

i LO

C-L

Locus of controllavorativo

Coping orientation to problems experienced

Per quanto riguarda i risultati del cope sono state calcolate le medie dei soggetti

nei punteggi raggiunti in ciascuna delle 15 scale misurate dal questionario

(range: 4-16)

Confrontando i punteggi dei soggetti disoccupati con quelli dei lavoratori

emergono differenze significative per le scale di Attività (p=.001),

Pianificazione, Crescita, Distacco mentale, Distacco comportamentale

(p=.001), Umorismo (p=.01), Negazione (p=.01), Uso di droghe o alcool

(p=.05).

I soggetti disoccupati dimostrano di usare maggiormente strategie inefficaci di

coping, come la negazione, il distacco mentale e comportamentale. Anche l’uso

di sostanze stupefacenti risulta più frequente nei disoccupati rispetto ai

lavoratori.

I risultati dimostrano ancora come la strategia maggiormente utilizzata dai

disoccupati sia quella della Negazione, mentre per i lavoratori sia quella della

crescita e della pianificazione.

Relativamente alle due scale fattoriali definite “Ricerca di supporto sociale”

(range 8-32) e “Strategie orientate al problema” (range 7-28), che raggruppano

rispettivamente 8 e 7 items emergono ancora differenze significative all’interno

dei due gruppi

Disoccupati

Media +/- DS

Lavoratori

Media +/- DS

p

Supporto Sociale 19,7 +/- 5,9 21,5+/- 6,9 .01

Focalizzazione sul problema 14,5 +/- 6,3 20,4 +/- 3,5 .001

Modalità di coping

19,7621,51

14,52

20,4

0

5

10

15

20

25

Disoccupati Lavoratori

Pu

nte

gg

i med

i CO

PE

Supporto sociale

Focalizzate sulproblema

Osservando l’andamento del campione si può affermare che i soggetti

appartenenti al gruppo dei disoccupati utilizzino in modo significativamente

minore (p=.001) strategie focalizzate sul problema rispetto ai lavoratori e in

maniera significativamente maggiore strategie orientate al supporto sociale.

(p=.01)

(In appendice sono riportati media, deviazione standard, minimo e massimo dei

punteggi delle scale e delle dimensioni del COPE).

Correlazione tra le variabili

1) Risultano presenti correlazioni significative tra le misure del BDI e del

GHQ-12.

In particolare la variabile “Depressione” correla positivamente con la variabile

“Malessere generale” evidenziata da alti punteggi al test GHQ (r=.747, p=.001).

2) Osservando il rapporto fra valori del BDI e tutte le scale del COPE possiamo

evidenziare come la variabile depressione correli negativamente con la scala

“Attività” (r=.259, p=.01) “Pianificazione” (r=.442 p=.001) “Crescita” (r=.409

p=.001) “Accettazione” (r=.227 p=.01).

Troviamo invece correlazioni positive con le scale “Negazione” (r=.260 p=.01)

“Distacco comportamentale” (r=.304 p=.001) “Distacco mentale” (r=.313

p=.001) ed “Uso di droghe o alcool” (r=.415 p=.001).

Relativamente alle due scale fattoriali definite “Ricerca di supporto sociale” e

“Focalizzazione sul problema” si può notare come la variabile depressione sia

correlata negativamente con la scala “focalizzazione sul problema” (r=.349

p=.001).

3) Risultano presenti correlazioni significative tra le misure del BDI e del

LOC-L.

In particolare la dimensione esterna del “Locus of contol lavorativo” correla

positivamente con la variabile “depressione” (r=.565, p=.001).

Considerando i fattori di ordine superiore del COPE emergono

significativamente le correlazioni negative con le scale “Attitudine positiva”

(r=.177 p=.05) ed “Orientamento al problema” (r=.250 p=.01) e positive con le

scale “Strategie di evitamento” (r=.346 p=.001) e “Religione” (r=.343 p=.001).

1.3.5 Risultati e discussione

La perdita del lavoro è considerata un “evento di vita” con forte impatto sulla

salute mentale e fisica dell’individuo.

Molti studi hanno tentato di spiegare questa correlazione, per esempio Jahoda

(1979) ha dimostrato che la disoccupazione produceva profondi cambiamenti

nella vita dei lavoratori adulti, nella struttura del tempo, nelle loro relazioni

sociali e nella loro immagine di sè.

In linea con queste posizioni anche Warr (1987) ha affermato che il lavoro è

necessario per l’affermazione del proprio ruolo sociale, per sperimentare

controllo personale e per allargare i propri contatti sociali.

La privazione di queste attività di crescita personale provoca nel disoccupato

forti ripercussioni di carattere psicologico, come depressione, calo

dell’autostima e malessere generale.

Il mio studio ha voluto verificare, in linea con le ricerche precedenti, alcune

ipotesi riguardanti la correlazione fra livello di depressione e diversi aspetti di

personalità, come malessere generale, locus of control lavorativo e strategie di

coping.

Esiste una vasta letteratura che documenta l’impatto della perdita del lavoro

sulla salute psicofisica dell’individuo e che dimostra, in larga scala, come

elevati sintomi di depressione siano fortemente correlati con disoccupazioni di

lunga durata.

Per esempio nello studio di Rodriguez E., Frongillo E. A., Chandra P., 2001, è

stata dimostrata:

• una correlazione tra depressione e durata della disoccupazione,

• una differenza significativa fra il gruppo sperimentale di disoccupati e

quello normativo di lavoratori, con livelli di depressione decisamente

più alti all’interno del primo gruppo rispetto al secondo.

A questo riferimento si può dire che i risultati emersi dalla mia ricerca sono in

linea con i dati citati nella letteratura di riferimento e con le ipotesi formulate

all’inizio dello studio sperimentale.

Il livello di depressione ed il disagio psicologico percepito dai soggetti del

nostro campione risultano essere significativamente maggiori nel gruppo di

disoccupati di lunga durata rispetto al gruppo normativo.

Sembra quindi confermata la teoria secondo la quale la disoccupazione è

connessa con la depressione e la perdita della fiducia in se stessi.

Questi scompensi tendono ad essere più acuti appunto tra i disoccupati di lunga

durata, cioè tra quelle persone che sono senza lavoro da oltre sei mesi. (ad es.

Turner e Blakely 2004, Whooley et al 2002, Price 2002, Ferrie 2001).

Appare confermata anche l’ipotesi secondo la quale i disoccupati avrebbero una

dimensione esterna delle attribuzioni di causalità riguardanti la propria attività

lavorativa.

Questo potrebbe significare che i disoccupati percepiscono gli eventi connessi

con il lavoro come gestiti e controllati da fattori esterni.

I lavoratori di contro si sentirebbero personalmente responsabili di ciò che

accade loro e fanno dipendere gli eventi significativi dalla propria azione, dalla

propria volontà, da capacità e caratteristiche personali.

Ciò vuol dire che il nostro gruppo di disoccupati sembra essere passivo, ha una

maggiore vulnerabilità nei confronti degli eventi stressanti ed in situazioni di

frustrazione risponde con comportamenti distruttivi e di opposizione.

Il gruppo di lavoratori invece in media potrebbe riuscire ad avere un’alta

resistenza allo stress, di fronte alle difficoltà tenderà ad acquisire nuove

informazioni per affrontare il problema e si aspettarà che il proprio intervento

possa essere risolutivo (per confronti con la letteratura di riferimento si rimanda

a Latack et al, 1995; McKee-Ryan & Kinicki, 2002).

Per quanto riguarda le dimensioni del coping, sembra esserci un’ulteriore

conferma alle nostre ipotesi.

Le risorse di coping sono repertori comportamentali consentono di far fronte ad

eventi stressanti. (Latack et al., 1995; Lazarus & Folkman, 1984).

Queste strategie di fronteggiamento intervengono attivamente per ridurre gli

effetti negativi della disoccupazione (McKee-Ryan, Kinicki, 2002).

La ricerca ha concentrato l’attenzione sulle risorse interne del soggetto, facendo

riferimento agli studi precedenti che hanno dimostrato come il benessere

psicologico dell’individuo durante la disoccupazione sia correlato con le

disposizioni personali di fronteggiamento, come per esempio la predisposizione

a focalizzare l’attenzione sul problema, l’attitudine alla crescita, la

pianificazione di strategie (McKee-Ryan, Kinicki, 2002).

I risultati emersi sembrano dimostrare che i disoccupati del nostro campione

con alti livelli di depressione, manifestino mediamente di utilizzare strategie di

coping non produttivo, basate sulla negazione, l’evitamento e in generale

incapacità di fronteggiare la situazione.

Una minore reattività fa sì che il soggetto abbia un adattamento peggiore alla

realtà, e quindi ostacola una risoluzione veloce dei problemi, portando a

somatizzare lo stress ed a manifestare sintomi acuti di sofferenza psicologica.

I lavoratori al contrario appaiono essere in media più disposti e spinti ad

affrontare positivamente le situazioni problematiche, cercando di superarle e di

ridurne i possibili svantaggi (punteggi più alti sulle scale di Pianificazione,

Crescita, Attività e nella categoria superiore Focalizzazione sul problema).

E’ interessante notare come la scala “utilizzo di sostanze stupefacenti” correli

significativamente con lo stato di depressione individuale, maggiore è la

depressione maggiore è il ricorso a sostanze alteranti.

Analizzando infine le correlazioni esistenti tra elevato livello di depressione e

le restanti 3 variabili (disagio psicologico, Locus of control lavorativo e

strategie di coping) notiamo come al crescere del livello di presenza del

sintomo depressivo, cresca il livello di disagio psicologico percepito

dall’individuo, facendo emergere un quadro di alterazioni dell'umore, assieme a

varie condizioni di sofferenza soggettiva variamente classificabili come:

nervosismo, stress, ansia ecc.

Si tratta spesso di situazioni le quali, pur non presentando una sintomatologia

bio-medica ben specifica, o non riferendosi a un disagio comportamentale ben

definito, riguardano comunque stati di disagio psicologico.

Inoltre possiamo notare come alti punteggi di depressione correlino con

punteggi alti al test sul locus of control lavorativo, dimostrando come i soggetti

depressi facciano anche difficoltà a controllare direttamente gli eventi, ed a

prendere in mano le decisioni che riguardano la propria vita lavorativa, a

sentirsi fautori del proprio destino.

Questo risultato, insieme alle osservazioni fatte riguardo le strategie di coping

adottate dai soggetti disoccupati, ci può portare a pensare che un locus of

control esterno circa la propria condizione lavorativa sia quasi una scelta

obbligata per tentare di salvare la propria persona da fenomeni tipici di self-

blame.

Da questi dati emerge la necessità di tentare di dare una spiegazione alle

correlazioni esistenti tra salute mentale e condizione del disoccupato.

Infatti, mentre il rapporto generale fra benessere e condizione lavorativa è

sufficientemente noto, i rischi sottostanti rimangono in gran parte inesplorati.

1.4 Conclusioni

Questa ricerca ha permesso di confrontare i livelli di depressione, le strategie di

coping, l’orientamento del locus of control e il disagio psicologico percepito tra

soggetti disoccupati di lunga durata e lavoratori assunti con contratto a tempo

indeterminato.

La scelta di questo campione deriva dall’interesse personale volto a cercare di

capire quanto la disoccupazione possa rendere vulnerabile un soggetto in molti

aspetti della propria personalità.

Il disoccupato è spesso un soggetto emarginato, al quale attribuiamo le colpe

della propria condizione, i centri per l’impiego sono quasi sempre sovraccarichi

di richieste ed incombenze e non riescono a far fronte alle reali necessità

dell’individuo.

Risulta per questo importantissimo portare alla luce quali siano le dimensioni

psicologiche compromesse dalla disoccupazione ed in che misura vengano

toccate.

E’ necessario portare alla luce problematiche che a tutt’oggi, soprattutto nel

nostro paese, vengono sottovalutate, lasciando più spazio, ed attribuendo più

importanza alla gestione burocratica del disoccupato piuttosto che a quella

psicologica ed umana.

ABSTRACT INTRODUZIONE: La presente ricerca ha come obiettivi:

1) rilevare in che misura la presenza di disoccupazione di lunga durata possa

essere correlata con stati depressivi, con condizioni di malessere generale,

con attribuzioni di causalità esterne e con inadeguate strategie di coping.

2) Verificare la presenza di eventuali correlazioni tra depressione e disagio

psicologico, locus of control lavorativo e strategie di coping

METODI: La batteria somministrata comprende il BDI di Beck, Il COPE di

Goldberg, il LOC-L di Argentero, Vidotto, il GHQ12 di Goldberg ed una

scheda sociodemografica.

Il campione risulta composto da 100 soggetti, suddivisi in un gruppo

sperimentale, formato da 50 disoccupati di lunga durata, iscritti al centro per

l’impiego di Sanremo ed un gruppo di controllo composto da 50 lavoratori

assunti con contratto a tempo presso la Beach & Sun s.r.l di Savona.

RISULTATI: il livello di depressione ed il disagio psicologico percepito

risultano essere significativamente maggiori nel gruppo di disoccupati rispetto

al gruppo normativo. E’ quindi confermata la teoria secondo la quale la

disoccupazione è connessa con la depressione e la perdita della fiducia in se

stessi (ad es. Blakely, Collings, Aktinson 2004, Whooley et al 2002, Price

2002, Ferrie 2001).

Sembra inoltre che i disoccupati abbiano una dimensione esterna delle

attribuzioni di causalità riguardanti le proprie attività.

Per quanto riguarda il coping, troviamo un’ulteriore conferma alle nostre

ipotesi. I dati emersi dalla ricerca sembrano dimostrare che i disoccupati

manifestino mediamente di utilizzare strategie di coping non produttivo, basate

sulla negazione, l’evitamento e in generale incapacità di fronteggiare la

situazione.

CONCLUSIONI: i risultati di questa ricerca empirica hanno confermato tutte le

ipotesi fatte riguardo i correlati psicologici della disoccupazione, rilevando

altissimi livelli di disagio nel gruppo di controllo.

Potrebbe essere utile quindi incrementare interventi mirati a questa fascia

debole di soggetti, al fine di limitare i danni causati dalla perdita del lavoro.

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APPENDICE A Media, Dev. Standard, Minimo e Massimo del COPE

N Media Dev. Standard

Minimo

Massimo Attività Disoccupati 50 9,30 3,177 4 16 Lavoratori 50 11,06 1,800 7 15 Pianificazione Disoccupati 50 7,56 2,314 4 14 Lavoratori 50 11,28 2,872 6 16 Soppressione attività competitive

Disoccupati 50 8,70 2,705 4

14

Lavoratori 50 8,92 2,320 4 15 Contenimento Disoccupati 50 9,76 2,462 4 16 Lavoratori 50 9,80 2,129 7 14 Ricerca informazioni Disoccupati 50 9,92 3,325 5 16 Lavoratori 50 11,46 3,039 4 16 Ricerca comprensione Disoccupati 50 9,40 3,769 4 16 Lavoratori 50 10,68 3,419 4 12 Sfogo emozionale Disoccupati 50 7,58 2,596 4 12 Lavoratori 50 8,00 2,441 4 16 Crescita Disoccupati 50 8,70 3,649 4 16 Lavoratori 50 11,70 2,410 7 16 Religione Disoccupati 50 9,58 4,603 4 16 Lavoratori 50 7,30 3,856 4 16 Umorismo Disoccupati 50 8,16 3,383 4 16 Lavoratori 50 10,18 3,685 4 16 Negazione Disoccupati 50 7,60 2,792 4 15 Lavoratori 50 5,80 2,347 4 15 Distacco comportamentale

Disoccupati 50 9,62 3,149 4

16

Lavoratori 50 6,28 2,214 4 14 Distacco mentale Disoccupati 50 10,08 2,863 4 16 Lavoratori 50 7,88 2,994 4 16 Uso di droghe o alcool Disoccupati 50 5,88 2,782 4 15 Lavoratori 50 4,58 1,430 4 16

APPENDICE B: Grafico dei punteggi medi delle 13 scale del COPE

Modalità di coping9,

3

7,56

8,7

9,76

9,4 9,

92

7,58

8,7

8,2

9,58

8,16

15,7

6

9,62 10

,08

5,88

11,0

6

11,2

8

8,92

9,8

10,6

8

11,4

6

8,04

11,7

10,8

2

7,3

10,1

8

5,8 6,

28

7,88

4,58

0

2

4

6

8

10

12

14

16

18

Atti

vità

Pia

nific

azio

ne

Sop

pres

sion

e at

tività

com

petit

ive

Con

teni

men

to

Ric

erca

com

pren

sion

e

Ric

erca

info

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Sfo

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moz

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le

Cre

scita

Acc

etta

zion

e

Rel

igio

ne

Um

oris

mo

Neg

azio

ne

Dis

tacc

oco

mpo

rtam

enta

le

Dis

tacc

o m

enta

le

Uso

di d

rogh

e o

alco

ol

DisoccupatiLavoratori

APPENDICE C Correlazioni tra BDI, GHQ e LOC-L

1 ,565** ,747**,000 ,000

** 1 ,529**

,000

** ** 1

prp

rp

Livello depressione

Locus lavorativo

Benessere generale

Punteggiototale

depressione

Punteggiototale LocusLavorativo

Punteggiototale

Benesseregenerale

La correlazione è significativa al livello 0,01 (1-coda).**.

Appendice D Correlazioni tra BDI e scale del COPE

1 -,259** -,442** -,087 -,020 -,154 -,157 ,025 -,409** -,227* ,383** -,191 ,260** ,304** ,313** ,415** ,082 -,349**.01 .001 ,390 ,847 ,125 ,120 ,805 .001 .05 .001 ,056 .01 .001 .001 .001 ,416 .001

** 1 ,378** ,183 ,239* ,141 ,136 ,125 ,324** ,359** -,004 ,201* -,036 -,111 -,174 -,162 -,057 ,508**

.001 ,069 .01 ,162 ,177 ,216 .001 .001 ,967 .05 ,720 ,272 ,084 ,107 ,571 .001

** ** 1 ,151 ,152 ,207* ,144 ,117 ,577** ,336** -,102 ,300** -,223* -,351** -,265** -,266** -,227* ,526**

,134 ,131 .05 ,154 ,247 ,000 .001 ,312 .001 .05 .001 .01 .01 .01 .0011 ,385** ,112 -,120 -,038 ,164 ,125 -,149 -,104 ,003 ,016 -,153 -,017 -,054 ,234*

.001 ,265 ,235 ,709 ,102 ,216 ,140 ,302 ,973 ,871 ,129 ,868 ,596 .01

* ** 1 ,068 -,075 -,048 ,299** ,172 -,005 ,021 ,002 -,026 ,015 -,131 ,011 ,117

,502 ,456 ,637 .001 ,086 ,958 ,833 ,982 ,794 ,883 ,195 ,917 ,246

* 1 ,754** ,568** ,138 ,286** -,043 ,280** ,222* -,057 ,183 ,011 ,216* ,194

.001 .001 ,169 .01 ,668 .01 ,027 ,574 ,068 ,914 .01 ,053

** 1 ,582** ,053 ,279** -,080 ,169 ,117 ,052 ,269** -,001 ,178 ,116

.001 ,602 .01 ,426 ,092 ,248 ,610 .01 ,991 ,076 ,250

** ** 1 -,074 ,116 -,041 ,120 ,212* -,019 ,156 ,134 ,194 ,260**

,464 ,251 ,686 ,235 ,035 ,852 ,122 ,185 ,053 .01

** ** ** ** 1 ,298** -,217* ,377** -,351** -,289** -,088 -,319** -,151 ,363**

.001 .01 .001 .001 .01 ,386 .001 ,134 .001

* ** ** ** ** ** 1 -,132 ,203* -,084 -,125 -,064 -,019 -,153 ,295**

,192 ,043 ,408 ,215 ,526 ,851 ,130 .01

** * 1 -,049 ,357** ,208* ,099 ,216* ,003 -,128

,630 .001 .01 ,327 ,031 ,979 ,203

* ** ** ** * 1 ,003 -,082 ,060 -,164 ,031 ,222*

,975 ,415 ,556 ,102 ,759 .01

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Ringraziamenti: Ringrazio il Prof. Piergiorgio Argentero e il Dott. Zanaletti per il supporto durante lo svolgimento del mio lavoro. Un grazie particolare alla Provincia di Imperia, nella figura della dirigente del settore Anna Rossi, per la disponibilità e la fiducia concessa. Ringrazio il Dott. Sandro Brezzo per la pazienza e l’affetto con cui mi ha seguito durante la somministrazione dei questionari, ma soprattutto per tutti gli insegnamenti che ho potuto trarre osservandolo lavorare. Un grazie di tutto cuore a Sara, con la quale ho cominciato questa avventura, cinque anni fa, e che nonostante le nostre strade abbiano preso a volte percorsi diversi, non ho mai perso. I ricordi che condividiamo resteranno sempre nel mio cuore, incancellabili. Grazie mille ad Ilaria, che mi ha fatto ridere nei momenti difficili, che ha impedito che mi abbattessi e che è stata tra le prime *amiche* ad essere orgogliosa di me. Un grazie particolare a Valentina ed Elena , che mi hanno sostenuta e mi hanno sempre ricordato che pur essendo piccolina ho, dentro di me, tutta la forza che serve. Un grazie infinito alle persone che considero la mia famiglia: la mia mamma, mio papà, Andrea, Paola, Sandro, Pierfrancesco, Marina. Senza di voi non avrei trovato la serenità. Vi voglio bene.