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II CCOONNGGEEDDII PPAARREENNTTAALLII

di Riccardo Del Punta

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PPRREEMMEESSSSAA La normativa relativa a questa importante ipotesi di sospensione del lavoro ha sempre goduto di una posizione peculiare nell’ordinamento lavoristico. Incardinata nella struttura del contratto di lavoro attraverso l’art. 2110 del codice civile, di fatto essa è stata sempre lasciata alla legislazione speciale, del resto già esistente al momento dell’emanazione del codice. Non è qui il caso neppure di riassumere una lunga e complessa storia transitata, per limitarsi alle tappe più recenti, attraverso le leggi n. 1204 del 1971 e n. 903 del 1977, ed approdata, da ultimo, alla legge 8 marzo 2000 n. 53, in seguito recepita, con un’opera di razionalizzazione che però non ha disdegnato qualche intervento correttivo (più o meno a rischio di «eccesso di delega», nel Testo Unico emanato con D.Lgs. 26 marzo 2001 n. 151, ed a sua volta ritoccato dal D.Lgs. 23 aprile 2003 n. 115. Nel frattempo, il 3 giugno 1996, la Comunità europea aveva adottato la direttiva 96/34 Ce, che peraltro non aveva messo in particolare difficoltà la nostra legislazione, già largamente rispondente, salvo qualche eccezione, agli standard comunitari. A partire dalla protezione del diritto fondamentale alla maternità, la normativa ha subito, nel tempo, profonde “torsioni” che hanno portato in risalto, in primis, l’interesse del bambino, inteso anche in un’accezione relazionale ed affettiva (e tale, perciò, da ricomprendere a pieno titolo le delicatissime vicende delle adozioni e degli affidamenti), e che hanno incarnato, in secondo luogo, il tentativo di creare le condizioni più favorevoli possibili ad un’effettiva conciliazione tra il diritto alla (e più ampiamente il desiderio di) maternità e il diritto al lavoro. In questa direzione si è cercato, sin dalla legge n. 903 del 1977 ma poi, soprattutto, con la legge n. 53 del 2000, di rendere la maggior parte degli istituti di protezione pienamente utilizzabili tanto dalla madre quanto dal padre, così da far emergere, come referente centrale della normativa, la nuova figura del genitore lavoratore. Pare lecito affermare, che, dal punto di vista della protezione strettamente normativa, progressi ulteriori siano difficilmente ipotizzabili. Il livello di protezione raggiunto sembra largamente soddisfacente, al di là di perfezionamenti sempre possibili, ad esempio sul terreno della normativa promozionale di soluzioni gestionali volte a facilitare la conciliazione fra tempi di lavoro e tempi di cura1. Altro potrà essere fatto (ed è talora stato fatto) dalla contrattazione collettiva. Ma, nel complesso, le norme hanno dato tutto quello, o quasi, che potevano dare. Il resto dovranno farlo le imprese, le amministrazioni, i lavoratori e le lavoratrici (ad es. sul terreno della redistribuzione dei carichi familiari e delle opportunità professionali), le associazioni sindacali, le istituzioni statali e locali preposte all’erogazione di servizi di assistenza alle famiglie. La prospettiva che si apre è di grande importanza per il futuro della nostra società, notoriamente gravata da un basso tasso di natalità. Per tornare alla normativa, un dato da segnalare, prima di inoltrarsi nell’analisi tecnico-giuridica, è che essa non riguarda soltanto lavoratrici o lavoratori dipendenti. Per quanto attiene al profilo dei congedi (e dunque dell’incidenza sul rapporto di lavoro), essa concerne anche le lavoratrici e i lavoratori a domicilio (art. 61), ai quali aveva fatto da battistrada la Corte Costituzionale. E’ stata, questa, l’apertura di una breccia che, col successivo D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (art. 66, commi 1 e 3), ha condotto a configurare un diritto alla sospensione del lavoro per 180 giorni, con parallela proroga del termine finale del rapporto, nei confronti delle collaboratrici a progetto o a programma (eredi, come è noto, delle collaboratrici coordinate e continuative). Quanto al separato profilo dell’assistenza economica, essa è stata prevista anche a favore delle lavoratrici autonome, artigiane ed esercenti attività commerciali (art. 66 ss.), e delle libere professioniste (art. 70 ss.). Ciò detto a livello di quadro generale, passiamo ad esaminare i singoli istituti, che si giovano di un variegato apparato di tecniche protettive, le quali rendono il quadro normativo più articolato rispetto a quello previsto a riguardo della malattia e infortunio. Una prima differenza consiste, segnatamente, nella previsione non di un’unica, bensì di una pluralità di ipotesi sospensive, diversamente tutelate da parte dell’ordinamento, ergo diversamente congegnate dal punto di

1 Come primo esempio, si v. l’art. 9 della legge n. 53 del 2000, attuato con D.M. 15 maggio 2001.

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vista dei presupposti, delle modalità di esercizio, del trattamento retributivo e/o previdenziale. Una seconda differenza consiste nel fatto che mentre la protezione del lavoratore malato od infortunato si focalizza esclusivamente sui periodi di assenza dal lavoro, quella della lavoratrice madre (a cominciare dal divieto di licenziamento) si estende anche a periodi caratterizzati dallo svolgimento della prestazione lavorativa; per questa parte, la disciplina fuoriesce dalla tematica della sospensione. LLAAVVOORRII VVIIEETTAATTII Il capo II del D.Lgs. n. 151 del 2001 prevede una serie di misure relative alla tutela della salute e della sicurezza della lavoratrice durante il periodo di gravidanza e sino a sette mesi di età del figlio, che hanno informato il datore di lavoro del proprio stato (cfr. art. 6) . Trattasi di misure inerenti al contenuto (oltre che, come vedremo, alle modalità temporali) della prestazione lavorativa, e volte a garantire che l’esecuzione del lavoro non comporti pregiudizi di sorta alla salute della lavoratrice (pur essendo ovviamente protetta, segnatamente durante la gravidanza, anche la salute del nascituro). La tutela si applica, altresì, alle lavoratrici che hanno ricevuto bambini in adozione o in affidamento, sino al compimento dei sette mesi di età (art. 6, comma 2). Previsioni legislative La prescrizione principale, al riguardo, è quella relativa al divieto di adibizione a determinati lavori ritenuti pregiudizievoli. L’art. 7 contiene, anzitutto, un generico divieto di adibire le lavoratrici al trasporto e al sollevamento di pesi, e, in secondo luogo, un divieto di assegnazione ai lavori «pericolosi, faticosi e insalubri», di cui all’elenco contenuto nella vecchia disciplina regolamentare (art. 5, D.P.R. 25 novembre 1976 n. 1026), riportata nell'all. A del Testo unico, e sottoposta ad aggiornamenti periodici2. Provvedimenti amministrativi Un ulteriore divieto può scaturire da un provvedimento amministrativo costitutivo, adottato dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro, allorché questi accerti, d’ufficio o su istanza della lavoratrice, che «le condizioni di lavoro o ambientali sono pregiudizievoli alla salute della donna» (art. 7, comma 4). Valutazioni del datore di lavoro e mutamento di mansioni Ma tali divieti3 non esauriscono la gamma delle protezioni (cfr. art. 12, comma 3) , in quanto il datore di lavoro è tenuto, nell’ambito dell’attività di prevenzione imposta dal D.Lgs. 19 settembre 1994 n. 626, e segnatamente nel quadro della valutazione dei rischi di cui all’art. 4, comma 1, ad effettuare una valutazione specifica dei rischi alla sicurezza ed alla salute delle lavoratrici4, individuando le misure di prevenzione e protezione da adottare (art. 11, comma 1), nonché informando le lavoratrici dei risultati di tale valutazione e delle misure adottate (art. 11, comma 2). In esito alla valutazione, qualora essa riveli l’esistenza di rischi, il datore è tenuto ad adottare quelle che la legge (art. 12, comma 1) definisce, genericamente, le «misure necessarie affinché l’esposizione al rischio sia evitata», modificando temporaneamente «le condizioni o l’orario di lavoro» delle lavoratrici. In tutti questi casi – ossia quando la lavoratrice sia addetta a mansioni vietate (art. 7, comma 3), o i servizi ispettivi accertino che le condizioni di lavoro o ambientali sono pregiudizievoli (art. 7, comma 4), o la modifica delle condizioni o dell’orario di lavoro non sia possibile «per

2 Tra i lavori pericolosi, faticosi ed insalubri sono altresì inclusi (art. 7, comma 3) quelli che comportano il rischio di esposizione agli agenti ed alle condizioni di lavoro, indicati nell’elenco di cui all’allegato B. 3 Cui adde il divieto di esposizione a radiazioni ionizzanti, sancito dall’art. 8. 4 Ciò, in particolare, per i rischi di esposizione ad agenti fisici, chimici o biologici, processi o condizioni di lavoro di cui all’allegato C al D.Lgs. n. 151/2001.

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motivi organizzativi o produttivi») –, la lavoratrice è addetta (id est, deve essere spostata) ad altre mansioni5. Tale mutamento forzato di mansioni non è assoggettato al limite dell’equivalenza professionale di cui all’art. 2103 c.c., nel senso che – come si desume implicitamente dall’art. 7, comma 5 - può indirizzarsi anche verso mansioni di contenuto professionale inferiore alle ultime effettivamente svolte. Ma l’eccezione è duplice, giacché in tal caso, e sempre in virtù del comma 5, la lavoratrice ha comunque diritto a conservare la retribuzione corrispondente alle mansioni precedenti, nonché la qualifica originaria. Si applica il normale regime di cui all’art. 2103 c.c., invece, nel caso in cui la lavoratrice sia adibita a mansioni equivalenti o superiori. La previsione deve essere coordinata con quella di cui all’art. 7, comma 6 (riprodotta, per il caso ivi considerato, dall’art. 12, comma 2), secondo la quale: “quando la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni, il servizio ispettivo del Ministero del lavoro, competente per territorio, può disporre l’interdizione dal lavoro per tutto il periodo di cui al presente Capo, in attuazione di quanto previsto dall’art. 17”. Specularmente, l’art. 17, comma 2, lett. c), include, fra le ipotesi in cui il servizio ispettivo del Ministero del lavoro può disporre l’interdizione anticipata dal lavoro (fino all’inizio del congedo di maternità), quella in cui la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni, secondo quanto previsto dagli articoli 7 e 12. In verità, l’interdizione (di norma) anticipata può anche risolversi in un’interdizione posticipata, giacché tanto l’art. 7, comma 6, quanto l’art. 12, comma 2, fanno esplicito richiamo, al fine, a tutto il periodo previsto dal Capo II (l’art. 7) o dall’art. 6, comma 1 (l’art. 12), che si estende potenzialmente sino al settimo mese di età del figlio. Il coordinamento con l’art. 7, comma 5, induce a ritenere che l’impossibilità di adibizione ad altre mansioni, che rappresenta il presupposto di adozione del provvedimento in discorso, debba intendersi riferita alla disponibilità di mansioni non soltanto equivalenti, ma anche inferiori. Ciò significa che se mansioni inferiori fossero disponibili e (ovviamente) la lavoratrice fosse in grado di svolgerle, ella dovrebbe esservi adibita e non dovrebbe farsi luogo ad un’interdizione dal lavoro. Più delicata è la questione se il diritto della lavoratrice al mutamento delle proprie mansioni si estenda a mansioni professionalmente e retributivamente superiori, e dunque se, ove esse siano disponibili, il servizio ispettivo possa rifiutarsi di disporre l’interdizione (anticipata o posticipata) del lavoro. Delicata perché, al di là del maggior costo retributivo per il datore, da un’adibizione protratta per più di tre mesi nascerebbe un diritto all’assegnazione del superiore livello di inquadramento (cfr. art. 17, comma 5, ultimo inciso), il che pare eccessivo. L’inosservanza delle disposizioni esaminate è penalmente sanzionata, essendo punita con l’arresto sino a sei mesi (art. 7, comma 7, e art. 12, comma 4). DDIIVVIIEETTOO DDII LLAAVVOORROO NNOOTTTTUURRNNOO Un ulteriore divieto, dotato di un’autonoma estensione soggettiva ed oggettiva, riguarda una particolare modalità temporale di esecuzione della prestazione lavorativa, che si presenta, per le sue caratteristiche, intrinsecamente pregiudizievole. Si allude al lavoro notturno, intendendosi per tale quello dalle 24 alle 6 del mattino6. Tale lavoro è assolutamente vietato, per le lavoratrici gestanti e puerpere, dall’accertamento dello stato di gravidanza (dunque, non dal suo inizio) sino al compimento di un anno di età del bambino. Ciò era stato prescritto, a suo tempo, dall’art. 5 della legge 9 dicembre 1977 n. 903, ed è stato ribadito dall’art. 53, comma 1

5 L’art. 12, comma 2, dispone, infatti, che ove la modifica delle condizioni o dell’orario di lavoro non sia possibile, il datore di lavoro applica quanto stabilito dall’art.7, commi 3, 4 (un richiamo, questo, poco comprensibile, n.d.a.), e 5, dandone contestuale informazione scritta al servizio ispettivo del Ministero del lavoro competente per territorio, ai fini di un’eventuale interdizione anticipata dal lavoro . 6 V., invece, l’art. 1, comma 1, lett. d) del D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66, che colloca il “periodo notturno” fra le 24 e le 5 del mattino.

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del D.Lgs. n. 151/2001, a propria volta duplicato dall’art. 11 , comma 2 del D.Lgs. 8 aprile 2003 n. 66. Dal divieto consegue che la lavoratrice dovrebbe essere assegnata ad una posizione di lavoro diurno, in altre mansioni equivalenti, se esistenti e disponibili (cfr. l’art. 15, comma 1 del D.Lgs. n. 66/2003), ovvero inferiori (arg. dalla possibile applicazione analogica dell’art. 7, comma 5), ma in tal caso con conservazione della qualifica e della retribuzione superiori. Ove non vi fossero mansioni diurne disponibili, dovrebbero essere ritenuti sussistenti i presupposti di adozione del provvedimento i cui all’art. 17, comma 4. Non v’è invece un divieto assoluto e bilaterale, ma semplicemente il diritto di rifiutare la prestazione di lavoro notturno, ove richiesta, per:

• la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a tre anni o, in alternativa, • il lavoratore padre convivente con la stessa, e la lavoratrice o il lavoratore che sia

l'unico genitore affidatario di un figlio convivente di età inferiore a dodici anni (art. 53, comma 2);

• la lavoratrice o il lavoratore che abbia a proprio carico un disabile ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (art. 53, comma 3).

Anche tale previsione è stata ripresa, senza variazioni, dall’art. 11, comma 2 del D.Lgs. n. 66/2003. Tale decreto, nella versione integrata dal D.Lgs. 19 luglio 2004 n. 213, ha peraltro dettato la sanzione penale applicabile in caso di inosservanza del divieto di lavoro notturno delle gestanti e puerpere (art. 53, comma 1), nonché in quello di adibizione al lavoro notturno, nonostante il loro espresso dissenso delle lavoratrici e dei lavoratori di cui all’art. 11, comma 2 del D.Lgs. n. 66/2003 (e art. 53, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 151/2001): l’arresto da due a quattro mesi o l’ammenda da 516 a 2.582 euro. CCOONNGGEEDDOO DDII MMAATTEERRNNIITTÀÀ Il cuore della normativa protettiva consiste, tuttora, nella previsione di un periodo nel quale vige un divieto assoluto di adibizione al lavoro della lavoratrice madre, per ragioni insuperabili, e di ordine pubblico, inerenti alla tutela della salute della lavoratrice e del bambino. Per tale periodo è stata, anzitutto, adottata una nuova denominazione: non si chiama più, come in passato, “astensione obbligatoria”, dato che il suo inizio, come vedremo subito, è variabile, e può dipendere, entro certi limiti, da una scelta della lavoratrice, e dato che ne possono fruire pure i padri e i genitori adottivi e affidatari, senza che nei loro confronti l’astensione dal lavoro abbia carattere di obbligatorietà. Nei confronti della madre naturale permane, tuttavia, l’assolutezza in sé del divieto, la cui violazione è penalmente sanzionata, con l’arresto fino a sei mesi (art. 18). Ciò premesso, l’art. 16 prevede i seguenti periodi nei quali è vietato adibire al lavoro la donna:

a) i due mesi precedenti la data presunta del parto; b) ove il parto avvenga oltre tale data, per il periodo intercorrente la data presunta e

la data effettiva; c) durante i tre mesi dopo il parto (o quattro nel caso di posticipazione del momento

iniziale del congedo, ex art. 20) ; d) durante gli ultimi giorni non goduti prima del parto, qualora esso avvenga in data

anticipata rispetto a quella presunta. Questi giorni sono aggiunti al periodo di congedo di maternità dopo il parto.

Per quanto riguarda l’ipotesi, sub d), del parto prematuro, la soluzione accolta pone rimedio al deficit di tutela che si era verificato nel vecchio regime, e viene incontro ai rilievi formulati dalla Corte Costituzionale, la quale aveva lasciato al legislatore la scelta fra due soluzioni, una delle quali è stata quella poi adottata.

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Al parto prematuro è equiparata l’interruzione della gravidanza verificatasi dopo il 180° giorno dall’inizio della gestazione. Tanto si desume, a contrario, dall’art. 19, primo comma, il quale prevede che l’interruzione, spontanea o volontaria, nei casi previsti dagli artt. 4, 5 e 6 della legge 22 maggio 1978 n. 194, è considerata a tutti gli effetti malattia. Se quella descritta è la collocazione nonché l’estensione normale del congedo di maternità (la cui attivazione è resa possibile dall’obbligo della lavoratrice di consegnare al datore, oltre che all’Inps, il certificato medico attestante la data presunta del parto, e, entro trenta giorni dal medesimo, il certificato di nascita del figlio o una dichiarazione sostitutiva di responsabilità), esse sono però soggette ad alcune varianti modificative. Anticipazione e estensione Può esservi, per un verso, un’anticipazione, e per un altro un’estensione, del congedo, nei casi previsti dall’art. 17. Come nell’art. 7, tale anticipazione/estensione si verifica, in un caso, per effetto diretto della previsione normativa, e, in un altro, come conseguenza di un provvedimento amministrativo. Il primo di tali casi è disciplinato dall’art. 7, comma 1. Il divieto è anticipato a tre mesi dalla data presunta del parto quando le lavoratrici siano occupati in lavori gravosi o pregiudizievoli, identificati da decreti del Ministero del lavoro, sentite le organizzazioni sindacali nazionali maggiormente rappresentative. Tuttavia, dal primo caso si rifluisce subito nel secondo, giacché il/i decreto/i non è/sono stato/i emanato/i , e l’ultimo inciso della disposizione prevede che fino all’emanazione del primo decreto ministeriale (che non è ancora intervenuta), l’anticipazione del divieto di lavoro è disposta dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro, competente per territorio. Venendo all’ipotesi del provvedimento amministrativo, l’art. 7, comma 2, stabilisce che il medesimo servizio ispettivo possa disporre l’interdizione anticipata (o, in un’ipotesi, posticipata) dal lavoro delle lavoratrici in stato di gravidanza, fino all’inizio normale del periodo di congedo (l’ottavo mese), o fino ai periodi di astensione di cui agli artt. 7, comma 6, e 12, comma 2, per uno o più periodi, da determinarsi dal servizio stesso, per i seguenti motivi:

a) nel caso di gravi complicanze della gestazione o di preesistenti forme morbose che si presume possano essere aggravate dallo stato di gravidanza. In tale ipotesi il provvedimento7 presuppone un conforme accertamento medico, le cui indicazioni debbono essere seguite dal servizio ispettivo (arg. dall’indicativo “è disposta”), e per il quale esso è sollecitato ad avvalersi (sollecitazione che, peraltro, ha una valenza non limitata a questa ipotesi) dei competenti organi del Servizio sanitario nazionale (art. 17, comma 3); b) quando le condizioni di lavoro o ambientali siano ritenute pregiudizievoli alla salute della donna e del bambino, nonché c) quando la lavoratrice sia adibita a lavori pregiudizievoli (art. 7)8 o rischiosi (art. 12), e non sia trasferibile ad altre mansioni, anche inferiori, per inesistenza obiettiva delle medesime.

Nelle ipotesi sub b) e c) l’astensione «può essere disposta» dal servizio ispettivo nel corso della propria ordinaria attività di vigilanza, e dunque a prescindere da un accertamento medico, d’ufficio o su istanza della lavoratrice (art. 17, comma 4). In quella sub c), in particolare, il provvedimento può riguardare anche una lavoratrice puerpera, sino al settimo mese di età del figlio, per quel che si desume dal coordinamento fra il disposto in esame, l’art. 7, s comma 6, l’art. 12 , s comma 2, ed infine, risalendo la catena dei rinvii, l’art. 6, comma 1. 7 Che deve essere emanato, ovviamente ricorrendone le condizioni, entro sette giorni dalla ricezione dell’istanza della lavoratrice (art. 17, comma 3). 8 Per un caso in cui è stato ritenuto legittimo il diniego dell’anticipazione del congedo obbligatorio, richiesta dalla lavoratrice a motivo del fatto di svolgere un lavoro che la costringeva a stare in piedi per 1/3 della sua durata, in quanto il D.P.R. n. 1026/1976 include fra i lavori non consentiti alla donna in gravidanza quelli che comportano una stazione eretta per più di metà dell’orario di lavoro, v. Tar Trentino Alto Adige, sez. Bolzano, 6 novembre 2001 n. 281.

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A fronte delle ipotesi esaminate, la legge n. 53 del 2000, riversata per questo aspetto nell’art. 20, comma 1, del T.U., rubricato «flessibilità del congedo di maternità», ha introdotto una possibile posticipazione del congedo, che però riguarda soltanto la collocazione temporale del medesimo, e non anche la sua estensione. Il citato articolo stabilisce infatti che: «ferma restando la durata complessiva dell’astensione, le lavoratrici hanno la facoltà di astenersi dal lavoro a partire dal mese precedente la data presunta del parto e nei quattro mesi successivi, a condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non arrechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro». Come si vede, la lavoratrice che intenda rimanere al lavoro sino al nono mese di gravidanza deve munirsi, per comprensibili ragioni di cautela, di un duplice e conforme accertamento medico attestante l’inesistenza di pregiudizi. Qualora tali accertamenti vi siano, la lavoratrice ha il diritto di farli valere posticipando l’inizio del congedo e fruendo di un mese in più successivamente al parto. La norma non precisa il termine ultimo entro il quale la lavoratrice debba comunicare al proprio datore di lavoro la volontà di posticipare il congedo. Al riguardo, una circolare ministeriale9 - con una soluzione che appare, peraltro, praeter legem - ha precisato che la lavoratrice debba presentare, al fine, istanza scritta prima della scadenza del settimo mese di gravidanza, cioè almeno un mese prima del desiderato inizio del periodo di congedo. Una successiva circolare dell’Inps ha parzialmente corretto il tiro, stabilendo che la domanda di posticipazione è accoglibile anche se presentata oltre il settimo mese di gravidanza, purché le relative attestazioni ginecologiche siano state acquisite entro il settimo mese; qualora siano state acquisite dopo il settimo mese, la domanda è accoglibile per i giorni successivi al rilascio delle stesse10. Sono comunque escluse dalla facoltà in discorso (art. 20, secondo comma) le lavoratrici addette ai lavori individuati, sentite le parti sociali, da un decreto del Ministero del lavoro, adottato di concerto con i Ministri della sanità e per la solidarietà sociale. Tale decreto non è stato ancora emanato, ma ciò non osta, ovviamente, all’immediata precettività della norma. CCOONNGGEEDDOO DDII PPAATTEERRNNIITTÀÀ In alcuni casi eccezionali, il congedo in discorso può spettare, in luogo della madre, al padre lavoratore, perdendo però, in tale caso, il connotato dell’obbligatorietà, ed assumendo quello del diritto (potestativo, ma) condizionato alla sussistenza di dati presupposti. Così, il padre ha diritto di astenersi nei primi tre mesi dalla nascita del figlio o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice (più di tre mesi, ad es., nel caso di parto prematuro), in caso di morte o grave infermità della madre ovvero di abbandono da parte della madre, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre (art. 28, comma 1). La previsione, rivolta palesemente alla tutela – più che urgente - dell’interesse del neonato, recepisce in pieno la statuizione della Corte Costituzionale, emessa in riferimento alla legge n. 1204/1971, e conferma l’introduzione di ulteriori presupposti del congedo, rispetto alla morte o alla grave infermità, già operata dalla legge n. 53/2000. Il padre lavoratore che intenda avvalersi del diritto di cui al comma 1 è tenuto a presentare al datore di lavoro la certificazione relativa alle condizioni ivi previste. In caso di abbandono, peraltro, egli può limitarsi a presentare una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà (art. 28, comma 2).

9 V. la circolare Ministero del lavoro n. 86 del 6 dicembre 2000. 10 V. la circolare Inps n. 8/2003.

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AADDOOZZIIOONNII EE AAFFFFIIDDAAMMEENNTTII Congedo di maternità e paternità Il congedo post partum (tre mesi) può essere richiesto (pure in questo caso, dunque, si tratta di un mero diritto, e non di un obbligo/divieto) anche dalla lavoratrice che abbia adottato, o che abbia ottenuto in affidamento (anche provvisorio e non soltanto preadottivo) un bambino di età non superiore a sei anni all’atto dell’adozione o dell’affidamento (art. 26, comma 1). Il congedo deve essere fruito durante i primi tre mesi successivi all’effettivo ingresso del bambino nella famiglia della lavoratrice (art. 26, comma 2). Nel caso di adozioni e affidamenti (questa volta soltanto preadottivi) internazionali (art. 27, comma 1), il T.U. integra nella disciplina le novità portate dalla legge n. 476 del 1998. Così, il congedo di tre mesi spetta anche se il minore adottato o affidato ha superato i sei anni e (il punto era incerto nella precedente formulazione) sino al compimento del 18° anno di età. L’ente autorizzato a seguire la procedura di adozione ha anche il potere di certificare la durata di questo congedo. In quest’ultimo caso (art. 27, comma 2), la lavoratrice ha altresì diritto a fruire di un congedo di durata corrispondente al periodo di permanenza nello Stato straniero, richiesto ai fini dell’adozione o dell’affidamento. Questo specifica figura di congedo è anch’essa riportabile al diritto potestativo, ma non comporta né indennità né retribuzione. La certificazione della sua durata spetta, come per il congedo di maternità o paternità vero e proprio, all’ente autorizzato a seguire la procedura di adozione. Infine, tutti questi congedi (ivi compreso quello per recarsi all’estero), ove non richiesti dalla lavoratrice (cui spetta, dunque, la priorità), spettano, alle medesime condizioni, al lavoratore padre adottivo o affidatario (art. 31, commi 1 e 2).

TTRRAATTTTAAMMEENNTTOO DDEEII CCOONNGGEEDDII DDII MMAATTEERRNNIITTÀÀ EE PPAATTEERRNNIITTÀÀ Dispone l’art. 22, comma 1, che per tutto il periodo del congedo di maternità, la lavoratrice ha diritto a un’indennità pari all’80% della retribuzione, che è a carico dell’Inps (art. 22, comma 2 ), o, per i lavoratori del settore pubblico, della stessa amministrazione. Si versa quindi in un caso in cui il datore di lavoro (privato) è sollevato dall’obbligo retributivo dall’esistenza di forme equivalenti di previdenza (cfr. art. 2110, comma 1, c.c.). I contratti collettivi, peraltro, possono prevedere integrazioni dell’indennità previdenziale, a carico del datore di lavoro (ad es. nei contratti dei comparti pubblici, l’integrazione giunge a coprire il 100% della retribuzione fissa mensile). Per effetto della formulazione del comma 1 (v. i riferimenti agli artt. 7, comma 6, e 12, comma 2), che tiene conto della sentenza n. 972/1988 della Corte Costituzionale, la copertura economica può giungere sino al settimo mese dopo il parto, ossia estendersi ai casi in cui la lavoratrice, non potendo continuare a svolgere le normali mansioni, pregiudizievoli o rischiose per la sua salute, e non potendo neppure essere spostata ad altre mansioni, sia costretta ad assentarsi dal lavoro per provvedimento della competente sezione ispettiva del Ministero del lavoro. L’indennità di maternità, comprensiva di ogni altra indennità spettante per malattia, è corrisposta con le modalità e con i criteri previsti per l’indennità erogata a carico dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie (art. 22, comma 2). Criteri di calcolo L’art. 23 detta una serie di criteri ai fini del calcolo dell’indennità prevista in caso di congedo, a cominciare da quello (v. comma 1) per cui per retribuzione si intende la retribuzione media globale giornaliera del periodo di paga quadrisettimanale o mensile scaduto ed immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio il periodo di maternità.

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Si deve rammentare, a tal proposito, che la Corte di Giustizia europea ha statuito che il principio della parità di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici comporta che nella determinazione della retribuzione, assunta a riferimento dell’indennità di maternità, debbono essere considerati anche gli eventuali aumenti intervenuti fra l’inizio e la fine del congedo11. Se il rapporto è in quiescenza L’art. 24 prevede, a sua volta, una serie di ipotesi nelle quali è prevista la spettanza dell’indennità di maternità, anche se il rapporto di lavoro versi in una condizione di quiescenza, ovvero sia stato persino risolto. Così, anzitutto, in base al testo originario dell’art. 24, comma 1, l’indennità deve essere corrisposta qualora la lavoratrice sia licenziata durante il periodo protetto dal divieto di licenziamento, per cessazione di attività dell’azienda o per ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta, ovvero il suo rapporto si sia risolto, durante il periodo in discorso, per scadenza del termine. A tali ipotesi la sentenza 3 dicembre 2001 n. 405 della Corte Costituzionale ha aggiunto – con dispositivo di illegittimità dell’art. 24, comma 11, in parte qua - quella della lavoratrice licenziata per giusta causa, che era stata inizialmente esclusa per una malintesa ragione punitiva. Lavoratrici in Cig Inoltre, l’indennità spetta nel caso in cui le lavoratrici gestanti si trovino, all’inizio del periodo di congedo di maternità, sospese (ad es. in Cig), assenti dal lavoro senza retribuzione, ovvero disoccupate, purché tra l’inizio della sospensione, dell’assenza o della disoccupazione e quello di detto periodo non siano decorsi più di sessanta giorni (art. 24, comma 2). Circa il riferimento allo stato di disoccupazione, si suppone evidentemente che la lavoratrice sia stata licenziata o si sia dimessa non più di sessanta giorni prima dell’inizio del periodo di congedo di maternità, anche anticipato; pare quindi che questa ipotesi possa sovrapporsi, almeno in parte, con quella di cui al comma 1. Ai fini del computo dei sessanta giorni, non si deve tenere conto, peraltro, di alcuni periodi contrassegnati da particolari eventi sospensivi della prestazione di lavoro, quali le assenze per malattia o per infortunio sul lavoro (art. 24, comma 3). Ma anche al di là dei sessanta giorni, la lavoratrice ha titolo a percepire l’indennità in discorso qualora ella fruisca dell’indennità di Cig (art. 24, comma 6), dell’indennità ordinaria di disoccupazione (art. 24, comma 4), o dell’indennità di mobilità (art. 24, comma 7). Tali trattamenti sono sostituite dall’indennità di maternità. Regime previdenziale Quanto al regime previdenziale, per i periodi di congedo di maternità in costanza di rapporto di lavoro, non è richiesta alcuna anzianità contributiva e v’è pieno accreditamento di una contribuzione figurativa (art. 25, comma 1); al di fuori del rapporto di lavoro, invece, per conseguire la contribuzione figurativa la lavoratrice deve poter far valere, all’atto della domanda, almeno cinque anni di contribuzione versata in costanza di rapporto di lavoro (art. 25, comma 5). Il descritto trattamento economico e normativo (peraltro limitatamente al regime “ordinario” di cui agli artt.22 e 23: v. art. 29), nonché previdenziale (art. 30), spetta anche al padre lavoratore, qualora egli fruisca del congedo di paternità. Non vi sono invece differenze di trattamento fra madre e padre, relativamente al congedo in caso di adozioni e affidamenti, che vede entrambi nella medesima posizione, al di là della priorità spettante alla madre12.

11 V. Corte Giust. Ce, 30 marzo 2004, C-147/02. 12 In verità, nei confronti del padre affidatario, al quale Corte Cost. n. 341/1991 aveva ritenuto doveroso estendere il congedo ex art. 7, legge n. 903/1977, l’Inps ha opposto una certa resistenza a concedere la copertura economica, per il rilievo meramente formale, e pur del tutto inconsistente, dell’abrogazione dell’art. 7 da parte della legge n. 53 del 2000.

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Anzianità di servizio, progressione di carriera e conservazione del posto I periodi di congedo in discorso debbono essere computati nell’anzianità di servizio a tutti gli effetti13, compresi quelli relativi alla tredicesima mensilità o gratifica natalizia e alle ferie (art. 22, comma 3)14. Essi debbono essere altresì considerati come periodi di attività lavorativa ai fini della progressione di carriera, salvo che i contratti collettivi richiedano, allo scopo, particolari requisiti (art. 23, comma 5). Infine, i medesimi periodi non si computano ai fini del raggiungimento dei limiti di permanenza nella lista di mobilità, di cui all’art. 7 della legge n. 223/1991, fermi restando i limiti temporali di fruizione dell’indennità di mobilità; essi si computano, invece, ai fini del raggiungimento del limite minimo di sei mesi di lavoro effettivamente prestato per poter beneficiare dell’indennità di mobilità (art. 22, comma 4). Per quanto riguarda, infine, il rientro dai periodi di congedo di maternità e paternità, anche anticipati (art. 56, commi 1 e 2), la lavoratrice e il lavoratore hanno diritto di conservare il posto di lavoro (ovvio) e, salvo che espressamente vi rinuncino (margine concesso all’autonomia individuale) di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupate all’inizio del periodo di gravidanza, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino. Essi hanno altresì diritto (ma la previsione è superflua, essendovi già la garanzia ex art. 2103 c.c.) ad essere adibite alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti. Tali garanzie valgono anche nel caso di adozione e di affidamento, fino ad un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare (art. 56, comma 4). L’inosservanza delle disposizioni in tema di rientro è punita con la stessa sanzione amministrativa prevista per la violazione di quelle relative al divieto di licenziamento, di importo variabile fra due e cinque milioni (art. 56, comma 4-bis). CCOONNGGEEDDII PPAARREENNTTAALLII L’istituto dei congedi parentali è uno dei più innovativi ed emblematici della normativa introdotta dalla legge n. 53 del 2000, e successivamente condensata nel T.U. in esame. Modificando profondamente il vecchio istituto dell’«astensione facoltativa», e portando a termine il processo di equiparazione, ai fini de quibus, fra madre e padre, già avviato dall’art. 7 della legge n. 903 del 1977, gli artt. 32 e ss. hanno lanciato un messaggio culturale di grande momento: quello della piena parificazione del ruolo, all’interno della coppia genitoriale, per quanto riguarda la cura dei figli, in un’età in cui, lasciata alle spalle la fase immediatamente successiva al parto, anche il padre è in grado di assumersi la responsabilità di interrompere temporaneamente la prestazione lavorativa per stare vicino al figlio. Dopodiché, è ovvio che fra il messaggio e la sua traduzione capillare nella realtà delle situazioni familiari e lavorativa, la distanza è ancora grande. Non è un caso che i primi dati sull’utilizzazione dell’istituto da parte dei padri siano ancora deludenti, specialmente nel settore privato, mentre qualche segnale diverso giunge dalle Pubbliche amministrazioni15. Giocano in tal senso una molteplicità di fattori: resistenze culturali, ostacoli frapposti dalle imprese, differenze di partenza nei livelli di reddito (sì che, per salvaguardare il reddito familiare, sarà logico che fruisca del congedo il genitore che guadagna di meno, che spesso è la madre).

13 Nel senso della nullità della clausola collettiva che escluda la rilevanza dei periodi di astensione obbligatoria, ora congedo di maternità, ai fini della produzione di un effetto associato alla mera anzianità di servizio, v. Cass. 3 aprile 1993 n. 4022. Ove però l’assenza abbia impedito lo svolgimento di quelle specifiche attività cui la contrattazione collettiva ricollega l’acquisizione delle qualità professionali necessarie per l’attribuzione di una determinata qualifica, non è esclusa la rilevanza negativa dei periodi di astensione obbligatoria: v. Cass. 27 gennaio 1989 n. 514. 14 Peraltro, le ferie, così come altre legittime assenze della lavoratrice, non possono sovrapporsi con i periodi di congedo di maternità (art. 22, comma 6). Ciò significa che, come affermato da Corte Giust. CE 18 marzo 2004, C-342/01, la lavoratrice in congedo deve poter fruire in un periodo diverso delle ferie, anche in caso di coincidenza fra il congedo di maternità e la chiusura dell’azienda per ferie collettive; aggiungendo altresì la Corte che il diritto non è limitato alle quattro settimane di cui alla norma comunitaria, ma al maggior periodo eventualmente stabilito dalle norme interne. 15 Sull’applicazione dell’istituto nel lavoro pubblico, v. la circolare Pres. Cons. Min. , Dip. Funz. Pubbl., 16 novembre 2000 n. 14.

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Questo bilancio ancora incerto non rende meno importante, tuttavia, il fatto che l’istituto sia stato introdotto. A norma dell’art. 32, comma 1, la titolarità del diritto spetta a «ciascun genitore», il quale ha titolo ad astenersi dal lavoro, in un arco di tempo che si estende ai primi otto anni di vita del bambino, per un periodo massimo che, di base, è di sei mesi per ciascuno dei due genitori. Tuttavia, nel caso che entrambi i genitori siano lavoratori dipendenti da diversi datori di lavoro (o anche dal medesimo datore), e dunque siano potenziali beneficiari del congedo, i rispettivi massimali individuali debbono combinarsi in modo tale da non superare un massimale «di coppia» pari a dieci mesi complessivi. Ciò comporta, per il padre, un netto salto di qualità rispetto al meccanismo dell’art. 7 della legge n. 903/1977, che prevedeva anch’esso una spettanza al padre dell’astensione facoltativa iure proprio, ma condizionata alla rinuncia da parte della madre, supposta lavoratrice subordinata; rinuncia che doveva essere formalizzata in un certo modo. Adesso questo meccanismo è scomparso, e l’esercizio del diritto da parte di ciascun genitore è scollegato da una rinuncia dell’altro16. Un nesso di incidenza reciproco fra i due genitori riemerge invece, come si è visto, sul diverso piano della quantificazione del diritto. Ciò implica che i due genitori possono fruire del congedo, in certi periodi, anche insieme (e il padre anche durante il congedo di maternità della madre), in modo da assicurare al figlio la presenza completa della coppia genitoriale. Su questa norma si innesta un dispositivo promozionale, finalizzato a incentivare la fruizione del congedo da parte del padre: l’art. 32, comma 2, stabilisce che: «qualora il padre lavoratore eserciti il diritto di astenersi dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a tre mesi, (il suo massimale individuale è elevato a sette mesi, e) il limite complessivo dei congedi parentali dei genitori è elevato a undici mesi». Su un simile, inedito, dispositivo, si era sollevato inizialmente qualche dubbio, sulla base da un punto di vista schiettamente liberale, di non ingerenza della legge in scelte private della coppia genitoriale; ma si deve riconoscere la sussistenza di una giustificazione sociale per una norma che rimane, comunque, meramente promozionale e non invasiva dell’autonomia familiare. Per quel che si desume dal combinato disposto del comma 2 e 3 dell’art. 36, il congedo de quo spetta anche in caso di adozione e di affidamento (anche internazionale: art. 3717), con piena fungibilità fra i due genitori, fermo restando il rispetto del massimale individuale e di coppia. Ciò nei riguardi di un minore che abbia, all’atto dell’adozione o dell’affidamento, un’età che può arrivare sino a dodici anni. In realtà, poi, posto che il congedo, qualunque sia l’età del minore, può essere fruito nei primi tre anni dall’ingresso del minore nel nucleo familiare (e non oltre), supponendo un’adozione o un affidamento iniziati poco prima del compimento del 12° anno di età, il congedo potrà iniziare quasi alle soglie del 15° anno di età. Il descritto meccanismo di imputazione del diritto al congedo apre il problema operativo di come ottenere, da parte del datore di lavoro, l’informazione, e soprattutto la prova, della fruizione del congedo, per un dato tempo, da parte dell’altro genitore. La normativa non risolve il punto, per cui la prassi si è indirizzata nel senso di richiedere una dichiarazione non autenticata dell'altro genitore, relativa ai periodi di congedo parentale fruiti o alla sua qualità di non avente titolo18. Un’alternativa potrebbe essere di domandare l’informazione al datore di lavoro da cui è dipendente l’altro genitore, che però non può ritenersi tenuto a fornirla.

16 Un meccanismo ancora incentrato sulla fruizione del congedo da parte del padre, ma in alternativa alla madre, e dunque sulla base di una rinuncia (formalizzata o de facto) da parte di questa, continua a valere, invece, per il diritto al «prolungamento» del congedo parentale fino a tre anni complessivi (prolungamento decorrente dal termine del periodo corrispondente alla durata massima del congedo parentale spettante al richiedente ex art. 32), per il caso (disciplinato dall’art. 33) in cui il minore versi in una condizione di handicap grave ai sensi dell’art. 4, comma 1 della legge 5 febbraio 1992 n. 104; ciò, a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati. Peraltro anche tale congedo prolungato, come quello dell’art. 32, spetta al genitore richiedente anche qualora l’altro genitore non ne abbia diritto. 17 In tale caso (art. 37, comma 2), l’Ente autorizzato che ha ricevuto l’incarico di curare la procedura di adozione certifica la durata del congedo parentale. 18 Cfr. la circolare Inps n. 109 del 6 giugno 2000.

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Genitore unico A tale regola si fa eccezione nel caso che, come recita la lett. c) della disposizione menzionata, «vi sia un solo genitore»: tale genitore unico è abilitato a fruire, infatti, dell’intera dotazione di dieci mesi. Tale norma deve essere letta nel senso che c’è spettanza dei dieci mesi nel caso che vi sia una sola persona che eserciti effettivamente la funzione di genitore. L’ipotesi deve quindi rapportarsi ad eventi come il decesso dell’altro genitore, l’abbandono del figlio da parte sua, il riconoscimento del figlio da parte di un solo genitore, o il suo affidamento esclusivo a uno dei genitori: mutatis mutandis, si tratta delle stesse situazioni già considerate dall’art. 28, comma 1. Non possono farsi rientrare nella fattispecie, invece, le ipotesi di separazione personale o divorzio fra i due genitori, per l’ovvia considerazione che tali eventi non fanno venir meno la potestà genitoriale. A maggior ragione, la norma di cui alla lett. c) non può leggersi come se vi fosse scritto «qualora vi sia un solo genitore che ne ha diritto», per essere l’altro/a lavoratore autonomo o professionista o imprenditore, o per non svolgere egli/ella alcuna attività lavorativa. Per tale ipotesi, invero, l’art. 32, comma 4, ha consentito alla tutela di compiere un importante passo in avanti rispetto alla situazione precedente alla legge n. 53/2000: superando l’orientamento giurisprudenziale che escludeva la spettanza al padre dell’astensione facoltativa qualora la madre non fosse una lavoratrice subordinata (e non avesse rinunciato al diritto), il disposto ha stabilito che «il congedo parentale spetta al lavoratore richiedente anche qualora l’altro genitore non ne abbia diritto». In effetti, una volta abbandonato il postulato della titolarità del diritto, in via principale, alla madre, diveniva incoerente mantenere la soluzione precedente. In tale ipotesi, peraltro, il congedo spetta nella misura massima di sei mesi (o di sette, nel caso del padre). Modalità di esercizio del diritto E’ altresì da puntualizzare che, come chiaramente affermato, in più luoghi, dall’art. 3219, i periodi temporali dei quali si è trattato sin qui possono essere tanto continuativi quanto frazionati. Per quanto riguarda, invece, la modalità di esercizio del diritto, esse presuppongono un’opzione circa la sua natura, che non può che ricondursi al diritto potestativo, tale da porre il datore di lavoro in uno stato di soggezione, e da non postulare alcuna forma di autorizzazione o concessione da parte del creditore della prestazione lavorativa. Tanto si desume chiaramente dall’art. 32, comma 3, secondo cui , ai fini dell’esercizio del diritto, il genitore è tenuto, salvo casi di oggettiva impossibilità, a preavvisare il datore di lavoro secondo le modalità e i criteri definiti dai contratti collettivi, e comunque con un preavviso non inferiore a quindici giorni. Da parte del lavoratore deve esservi, dunque, una mera comunicazione (e non una richiesta), purché rispettosa del termine di preavviso; ove tale rispetto non vi sia stato, il datore di lavoro sarà abilitato a negare il congedo, o meglio a posticiparne l’effetto al completamento del periodo di preavviso. Ne segue che il titolare del diritto al congedo è libero di scegliere quando fruirne, e che il datore non ha diritto di differirne la «concessione» (che tale, tecnicamente, non è) per esigenze di servizio, purché il lavoratore abbia rispettato il preavviso. Nel caso che il soggetto che fruisce del congedo cada in malattia, si può ritenere che egli possa mutare il titolo dell’assenza, imputandola a malattia. Regime economico e previdenziale Le modifiche sin qui descritte hanno comportato conseguenti correttivi al regime economico e previdenziale. Così, in base all’art. 34, comma 1, per i periodi di congedo parentale di cui

19 V. già l’art. 8 del D.P.R. 25 novembre 1976, n. 1026.

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all’art. 3220, alle lavoratrici ed ai lavoratori è dovuta, sino al terzo anno di vita del bambino (o al sesto , in caso di adozione o di affidamento: art. 36, comma 1) un’indennità pari al 30% della retribuzione, e ciò per un periodo massimo complessivo tra i genitori di sei mesi21. Il relativo periodo è coperto, a norma dell’art. 35, comma 1, dall’accredito di una contribuzione figurativa piena, in conformità a quanto previsto per il congedo di maternità dall’art. 25, comma 1. Per i periodi di congedo parentale ulteriori, rispetto a quanto previsto dall’art. 34, comma 1 – ergo, per i congedi eccedenti i sei mesi complessivi per coppia genitoriale, nonché per quelli fruiti oltre il terzo e sino all’ottavo anno di età del bambino -, l’indennità del 30% compete nella sola ipotesi in cui il reddito individuale dell’interessato (e non già quello familiare) sia inferiore a 2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione a carico dell’Ago. In questo caso la contribuzione figurativa, a norma dell’art. 35, comma 2, è calcolata secondo un (meno favorevole rispetto al precedente) criterio convenzionale. Il congedo in discorso continua a comportare, pertanto, un certo sacrificio retributivo, anche se talora i contratti collettivi, specialmente pubblici, prevedono, quantomeno per un certo periodo, integrazioni retributive a carico del datore di lavoro. Anzianità di servizio e conservazione del posto I periodi di congedo parentale sono computati nell'anzianità di servizio, esclusi (si noti la differenza speculare rispetto al trattamento del congedo di maternità e paternità, ove quegli effetti sono inclusi) gli effetti relativi alle ferie ed alla tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia (art. 34, comma 5)22. Infine, si deve tener presente che il rifiuto, l’opposizione o l’ostacolo all’esercizio dei diritti di assenza dal lavoro a titolo di congedo parentale, è punito con una sanzione amministrativa, da importo variabile tra uno e cinque milioni di lire (art. 38). Per quanto riguarda il rientro dal congedo parentale, si applica l’art. 56, comma 3, secondo il quale la lavoratrice e il lavoratore hanno diritto alla conservazione del posto e, salvo che espressamente vi rinuncino (ancora uno spazio lasciato aperto per l’autonomia individuale), al rientro nella stessa unità produttiva ove erano occupati al momento della richiesta di astensione o di congedo o in altra ubicata nel medesimo comune; hanno altresì diritto di essere adibiti alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti. La differenza con il regime del congedo di maternità o di paternità si riduce alla mancata previsione di un diritto di permanenza nell’unità di provenienza sino al compimento del primo anno di età del bambino. La garanzia del rientro cessa, insomma, nello stesso momento in cui il rientro avviene, potendosi tornare ad esercitare, immediatamente dopo – e fatta salva l’eventuale applicazione della normativa antidiscriminatoria - il potere di trasferimento. Anche l’inosservanza di tale disposizione è punita con la sanzione amministrativa di cui all’art. 56, comma 4-bis. RRIIPPOOSSII GGIIOORRNNAALLIIEERRII EE PPEERRMMEESSSSII E’ il terzo, e tradizionale, istituto del «pacchetto» delle tutele. La prima titolare del diritto (anche come eredità dell’originario istituto dei riposi «per allattamento») è, in questo caso, la madre (art. 39). Il datore deve consentire alle lavoratrici madri, durante il primo anno di vita del bambino, due periodi di riposo, di un’ora ciascuno (che però si riduce a mezz’ora qualora la lavoratrice fruisca dell’asilo nido o di altra unità idonea, costituiti dal datore nell’unità produttiva o nelle vicinanze di essa), anche cumulabili durante la giornata. Il riposo è invece uno solo se l’orario giornaliero di lavoro (si dovrebbe qui intendere l’orario praticato in quell’azienda) è inferiore a sei ore.

20 Ad essi sono totalmente equiparati i periodi di “prolungamento” del congedo, di cui all’art. 33. 21 Quanto ai criteri di computo dell’indennità, valgono quelli previsti dall’art. 23 per il congedo di maternità, fatto salvo il secondo comma (relativo al computo dei ratei delle mensilità aggiuntive, che non maturano durante il congedo in discorso). 22 Si applica altresì, riguardo al congedo parentale, quanto previsto dagli artt. 22, commi 4, 6 e 7, già considerato retro. Nel senso dell’utilità dei periodi dell’ex-astensione facoltativa ai fini del Tfr, v. Cass. 22 febbraio 1993 n. 2114.

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L’esercizio del diritto de quo dà titolo alla donna ad uscire dall’azienda: si tratta, puramente e semplicemente, di un permesso, anch’esso strutturato secondo la logica del diritto potestativo. Estensione al padre lavoratore L’estensione dei riposi in discorso al padre lavoratore ha conosciuto varie vicissitudini. Già la Corte costituzionale aveva a suo tempo dichiarato illegittimo il previgente art. 7 della legge n. 903/1977, nella parte in cui non estendeva, in via generale, e in ogni ipotesi, al padre lavoratore, in alternativa alla madre lavoratrice consenziente, il diritto ai riposi giornalieri previsti nel primo anno di vita del bambino. Sulla scia di tale principio, l’art. 40 dispone che i riposi sono riconosciuti al padre lavoratore: se i figli sono affidati al solo padre; in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga; nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente (si noti la formulazione più restrittiva: non nel caso in cui la madre non ne abbia diritto, bensì soltanto in quello in cui sia una lavoratrice, ma autonoma23); in caso di morte o di grave infermità della madre. Non c’è totale chiarezza sulla possibilità di fruire dei riposi in pendenza di fruizione del congedo da parte dell’altro genitore: non ponendo la legge limitazioni specifiche, l’ultima voce dell’INPS (particolarmente interessato in quanto ente erogatore dell’assistenza economica) è quella per cui la madre potrebbe fruire dei riposi anche durante il congedo parentale del padre, ma il padre non potrebbe fruirne durante il congedo di maternità, o parentale, della madre24.

Parto plurimo La normativa ha risolto (art. 41) anche la vexata quaestio del parto plurimo. In tale caso i periodi di riposo sono raddoppiati (anche se il parto è plurigemellare), e le ore aggiuntive rispetto alle due normali (anch’esse due) sono fruibili anche dal padre.

Adozione e affidamento I riposi in discorso spettano anche in caso di adozione e di affidamento, ma non soltanto entro il primo anno di vita del bambino, come originariamente previsto dall’art. 45, comma 1, bensì – per effetto della sentenza additiva 26 marzo 2003 n. 104 della Corte Costituzionale - entro un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare. Al riguardo, la Corte ha osservato che: «l’applicazione agli adottanti ed agli affidatari della stessa formale disciplina prevista per i genitori naturali finisce per imporre ai primi ed ai minori adottati o affidati un trattamento deteriore, attesa la peculiarità della loro situazione». D’altra parte, nella quasi totalità dei casi, i bambini dati in affidamento preadottivo o in adozione entrano nella famiglia quando hanno già compiuto il primo anno di età; ed oltretutto le soglie di età sono diverse per l’adozione nazionale (otto anni) e quella internazionale (diciotto anni). Assistenza a figli con handicap grave Una normativa particolare (art. 42) è prevista, infine, per i riposi e i permessi spettanti ai genitori di figli con handicap grave25. Sino al terzo anno di vita del bambino con handicap grave e in alternativa al prolungamento del congedo parentale sino a tre anni ex art. 33, comma 1, spettano alla lavoratrice madre o, in alternativa, al lavoratore padre (anche se la madre non ne ha diritto: v. il comma 6), anche adottivi, le due ore di riposo giornaliero retribuito (peraltro con “fiscalizzazione” a carico dell’Inps: v. infra) previste dall’art. 33, comma 2, della legge 5 febbraio 1992 n. 204 (art. 42, comma 1). Dopo il terzo anno, i soggetti di cui sopra, nonché colui che assiste una persona con handicap grave, con la quale sia legata da relazioni di parentela o affinità sino al terzo grado, hanno diritto a tre giorni di permesso mensile coperti da contribuzione figurativa, fruibili anche in

23 Se la madre è lavoratrice autonoma, il padre può fruire dei riposi dal giorno successivo a quello finale del periodo di trattamento economico spettante alla madre dopo il parto: circolare Inps n. 8/2003. 24 V. la circolare Inps n. 8/2003. 25 V., in generale, la circolare Inps n. 133 del 17 luglio 2000.

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maniera continuativa, e a condizione che la persona portatrice di handicap non sia ricoverata a tempo pieno (art. 42, comma 2, il quale rinvia all'art. 33, comma 3, legge n. 104/1992)26. Successivamente al raggiungimento della maggiore età da parte del figlio, il diritto ai permessi permane, ma purché vi sia convivenza o, in assenza di convivenza, l’assistenza al figlio sia continuativa ed esclusiva (art. 42, comma 3). In altre parole, i requisiti della convivenza o dell’assistenza continuativa ed esclusiva non sono specificamente richiesti sin quando il figlio è minore, essendo evidentemente ritenuti impliciti nella titolarità della potestà genitoriale e della connessa responsabilità. I riposi e i permessi in discorso, che spettano anche in caso di adozione e di affidamento di soggetti con handicap in condizione di gravità (art. 45, comma 2), possono essere cumulati con il congedo parentale e con il congedo per malattia del figlio (art. 42, comma 4)27. Retribuzione, anzianità e contribuzione La retribuzione spettante per le ore di riposo e di permesso di cui al presente paragrafo è integralmente coperta da un’equivalente indennità posta a carico dell’ente assicuratore (art. 43, comma 1). Essa è anticipata dal datore di lavoro, e posta a conguaglio con gli apporti contributivi dovuti all’ente assicuratore. Per le ore in questione si ha decorso dell’anzianità, esclusi gli effetti relativi alle ferie ed alla tredicesima mensilità o gratifica natalizia, come accade nel congedo parentale (art. 43, secondo comma; cfr. anche art. 39, comma 2). E’ prevista, altresì, una copertura contributiva parziale, calcolata secondo i criteri convenzionali che valgono per il congedo parentale fruito da genitori a basso reddito (art. 44, comma 1, ove si rinvia all’art. 35, ì comma 2, su cui retro). L’inosservanza delle norme in materia di riposi giornalieri (e non anche di permessi, non essendo richiamato l’art. 42) è punita con una sanzione amministrativa di importo variabile tra uno e cinque milioni di lire (art. 46). CCOONNGGEEDDII PPEERR LLAA MMAALLAATTTTIIAA DDEELL FFIIGGLLIIOO Per questi permessi, o congedi che dir si voglia, esisteva già, precedentemente alla legge n. 53 del 2000, un regime di alternatività fra i due genitori, ma nella versione limitata dell’art. 7 legge n. 903 del 1977, oggi abrogato. In virtù del nuovo art. 47, entrambi i genitori, alternativamente, hanno diritto di astenersi durante le malattie di ciascun figlio di età non superiore a otto anni. Qualora il figlio abbia sino a tre anni di età, il congedo è accordato senza limitazioni temporali (comma 1); fra i tre e gli otto anni, nel limite di cinque giorni lavorativi all’anno per ciascun genitore (comma 2). Il congedo spetta anche se l'altro genitore non ne ha diritto (comma 6). Ai fini dell’ottenimento del congedo, l’interessato ha l’onere di presentare una conforme certificazione medica, rilasciata da un medico specialista del Ssn o con esso convenzionato (comma 3). Il fatto che la norma richiedesse, già nella versione di cui alla legge n. 53/2000, la certificazione di uno specialista ascrivibile al Ssn faceva pensare che essa avesse voluto risolvere negativamente la questione, già molto dibattuta, relativa alla possibilità di un controllo fiscale sulla malattia denunciata: in effetti il quinto comma dell’art. 47 ha esplicitamente

26 V. Cass. 16 maggio 200,3 n. 7701. 27 Infine, per la lavoratrice madre o per il lavoratore padre o, dopo la morte di questi, per uno dei fratelli o sorelle conviventi di soggetto con handicap grave da almeno cinque anni, che abbiano titolo a fruire dei riposi e permessi di cui sopra, è previsto dall’art. 42, comma 5 (ma l’istituto è stato introdotto dalla Legge finanziaria 2001), il diritto a fruire di un congedo non superiore a due anni (intesi come tetto complessivo per entrambi i genitori), per gravi e documentati motivi familiari, entro sessanta giorni dalla richiesta (trattasi quindi, anche in questo caso, di un diritto potestativo). Per tale periodo l’Inps è tenuto a corrispondere un’indennità pari all’ultima retribuzione ed il periodo è coperto da contribuzione figurativa, entro un massimo di 70 milioni di lire annui, rivalutato annualmente. Il congedo non è cumulabile con i tre giorni di permesso mensile, di cui all’art. 33, comma 3, legge n. 104/1992.

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chiarito che ai congedi in questione non si applicano le disposizioni sul controllo della malattia del lavoratore. La malattia del bambino, che dia luogo a ricovero ospedaliero (la nozione è dunque più ristretta di quella corrente per quanto concerne l’effetto sospensivo della malattia del lavoratore) interrompe il decorso del periodo di ferie in godimento da parte del genitore, a richiesta di questi (quarto comma). Evidentemente, del fatto del ricovero dovrà essere trasmessa documentazione al datore di lavoro. Ai fini della fruizione del congedo, la lavoratrice ed il lavoratore sono tenuti a presentare una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà attestante che l’altro genitore (ove possibile titolare del congedo) non è assente dal lavoro negli stessi giorni per il medesimo motivo (art. 51). Una novità è rappresentata dalla spettanza dei congedi in questione anche in caso di adozione e di affidamento. Ricostruendo la disciplina dettata, al riguardo, dall’art. 50, si può affermare che:

• il congedo illimitato spetta nel caso di minori sino a sei anni, e non tre, di età; • fra i sei e i dodici anni, il congedo spetta nei limiti di cinque giorni lavorativi all’anno.

Tuttavia, essendo contemporaneamente previsto che qualora, all’atto dell’adozione o dell’affidamento, il minore abbia un’età compresa fra i sei e i dodici anni, il congedo è fruito, nei limiti già detti, nei primi tre anni dall'ingresso del minore nel nucleo familiare, in pratica il congedo potrà essere fruito sino alle soglie del 15° anno di età del minore. I congedi in oggetto non danno titolo ad alcuna retribuzione, ma debbono essere solamente computati (art. 48, comma 1) nell’anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità o gratifica natalizia (come accade nel caso del congedo parentale e dei riposi giornalieri)28. E’ previsto, peraltro, l’accredito di una contribuzione figurativa piena fino al 3° anno di età del bambino (art. 49, comma 1). Fra il terzo e l’ottavo anno, è contemplata una copertura contributiva parziale, calcolata secondo i già noti criteri convenzionali (art. 49, comma 2, ove si rinvia all’ art. 35, comma 2). Il rifiuto, l’opposizione o l’ostacolo all’esercizio dei diritti di assenza dal lavoro di cui al presente paragrafo sono puniti con una sanzione amministrativa di importo variabile tra uno e cinque milioni di lire (art. 52). DDIIVVIIEETTOO DDII LLIICCEENNZZIIAAMMEENNTTOO La tutela della lavoratrice madre nei confronti del licenziamento si fonda su tecniche diverse. Va da sé, anzitutto, che durante i congedi, ed in specie in quello «obbligatorio», la lavoratrice (o il lavoratore) è titolata ad assentarsi legittimamente dal lavoro; anzi, in un caso, è persino obbligata a farlo. Al di là di questo primo ed autoevidente dato, è previsto a favore della lavoratrice (nonché del lavoratore, ma nel solo caso di fruizione del congedo di paternità: art. 54, comma 7) un divieto speciale di licenziamento, a valere per un lungo periodo che va dall’inizio del periodo di gravidanza sino al compimento di un anno di età del bambino (art. 54, comma 1). Trattasi, con evidenza, del periodo durante il quale la gestante o la madre, da un lato, e il nascituro/bambino, dall’altro, abbisognano di una particolare protezione, e la lavoratrice, nel contempo, è più esposta al rischio di un licenziamento ritorsivo o semplicemente dettato da considerazioni di pura efficienza organizzativa. A differenza di quanto accade nella malattia, quindi, si ha un divieto di recesso non limitato ai periodi di assenza della lavoratrice, ma esteso ad un arco temporale più ampio. Il divieto di licenziamento opera, come sin dalla legge n. 1204 del 1971, in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza (conosciuto o meno dalla lavoratrice), e la lavoratrice, licenziata nel corso del divieto, è tenuta a presentare al datore di lavoro idonea certificazione

28 Si applica, altresì, quanto previsto dai commi 3, 4 e 5 dell’art. 35 (art. 49, comma 3).

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dalla quale risulti l’esistenza, all’epoca del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano (art. 54, comma 2). Il divieto in discorso si applica anche nel caso di adozione e di affidamento, in caso di fruizione del congedo di maternità o di paternità, e fino ad un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare (art. 54, comma 9). Eccezioni Sono tradizionalmente previste alcune eccezioni, da ritenersi tassative, al divieto:

a) colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro. Secondo la giurisprudenza, ai fini occorre una colpa grave particolarmente qualificata, che tenga conto delle condizioni psico-fisiche della lavoratrice; b) cessazione dell’attività dell’azienda cui la lavoratrice è addetta. La cessazione deve essere effettiva29 e totale, tendendosi ormai a respingere, in giurisprudenza, la tesi secondo cui sarebbe sufficiente, ai fini, la mera cessazione dell’attività di un reparto autonomo dell’azienda30. Già dalla versione originaria della disposizione era infatti possibile comprendere che il divieto di licenziamento collettivo e di collocazione in mobilità della lavoratrice, sancito dall’art. 54, comma 4 - in coerenza con la limitazione dell’eccezione al divieto alla sola cessazione di attività -, mentre conferma, da un lato, la tesi restrittiva della giurisprudenza, non vale, dall’altro, nel caso che il licenziamento collettivo vada a riguardare tutto il personale dell’azienda: a scanso di residui equivoci, quest’ultimo punto è stato esplicitamente precisato dall’art. 4, secondo comma, del D.Lgs. n. 115 del 2003; c) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine. Là dove, nella seconda delle ipotesi menzionate, non siamo propriamente di fronte ad un licenziamento, ma ad una mera estinzione del rapporto, con la prima sembrerebbe lasciarsi uno spiraglio per un possibile licenziamento per giustificato motivo oggettivo, motivato dalla ragione ivi indicata; d) licenziamento per esito negativo della prova, pur restando fermo (come la norma ha, superfluamente, ribadito), il divieto di discriminazione.

Tutele Il licenziamento intimato durante il periodo di divieto, e senza che ricorrano le eccezioni di cui sopra, deve ritenersi nullo, secondo un principio già affermato da una famosa sentenza della Corte Costituzionale, ed ora positivamente ribadito (art. 54, quinto comma). Trattasi di una nullità le cui conseguenze sembrano quelle derivabili dai principi del diritto comune, a meno di abbracciare la tesi della “forza espansiva” dell’art. 18 Stat. lav. Durante il periodo nel quale opera il divieto di licenziamento, la lavoratrice non può neppure essere sospesa dal lavoro, salvo che sia sospesa l’attività dell’azienda o del reparto cui essa è addetta, sempreché il reparto stesso abbia autonomia funzionale (art. 54, quarto comma). Alla tecnica basata sul divieto, l’art. 54, comma 6, ne affianca un'altra, che non è altro che l’applicazione, nel contesto, della tutela antidiscriminatoria. Si predica, infatti, che è nullo il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice e del lavoratore. A tale riguardo, ovviamente, l’onere della prova rimane a carico della presunta vittima della discriminazione. Fra l’altro, la legge fa riferimento specifico al caso di un licenziamento intimato per ritorsione nei confronti della pretesa di esercitare i diritti al congedo parentale e a quello per malattia del bambino: ma, da un lato, tali diritti possono essere esercitati anche durante 29 Nel senso che non è sufficiente, al fine, la mera messa in liquidazione della società, v. Cass. 5 giugno 1996, n. 5221. 30 V. Cass. 7 febbraio 1992, n. 1334; Trib. Sassari 5 agosto 1998; Pret. Monza-Desio 8 novembre 1994; Pret. Napoli 12 maggio 1992. Per la precedente lettura estensiva dell’espressione «cessazione di attività», v. Cass. 24 aprile 1990 n. 3431, peraltro non ravvisando gli estremi dell’eccezione al divieto di licenziamento in un caso in cui v’era stata una mera trasformazione in ospizio per anziani dell’istituto scolastico ove prestava servizio la lavoratrice; Pret. Roma 22 novembre 1991.

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l’anno coperto dal divieto, e, dall’altro, nullità del licenziamento (o di altri atti gestionali, come una sospensione, un mutamento di mansioni, un trasferimento, una sanzione disciplinare conservativa) può aversi, tutte le volte che, a prescindere dalla domanda o dalla fruizione dei congedi in questione, essi siano stati determinati dalla maternità o dalla paternità, ed abbiano avuto, come tali, un carattere discriminatorio. Infine, l’inosservanza delle disposizioni in tema di divieto di licenziamento è punita con una sanzione amministrativa di importo variabile fra due e cinque milioni di lire (art. 54, ottavo comma). Non è ammesso, in questo caso, il pagamento in misura ridotta ex art. 16 legge 24 novembre 1981 n. 689. DDIIMMIISSSSIIOONNII DDEELLLLAA LLAAVVOORRAATTRRIICCEE MMAADDRREE Il regime giuridico delle dimissioni della lavoratrice madre presenta due significative particolarità. Anzitutto, durante il periodo coperto dal divieto di licenziamento, la lavoratrice dimissionaria, oltre a non essere tenuta al preavviso (art 55, comma 5), ha diritto all’indennità sostitutiva del preavviso, come se fosse stata licenziata, o se si fosse dimessa per giusta causa (art. 55, comma 1). La spettanza di questa provvidenza economica (perché di questo si tratta) non appare giustificata, peraltro, nel caso in cui la lavoratrice si dimetta, semplicemente per passare ad un altro, e magari più lucroso, posto di lavoro. La giurisprudenza ha lanciato un segnale in questa direzione 31. Tale regime vale anche per il padre che abbia fruito del congedo di paternità (art. 55, comma 2), nonché (per la madre o il padre) nel caso di adozione o di affidamento, entro un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare (art. 55, comma 3). La seconda particolarità in ordine al regime del recesso della lavoratrice, a definitiva soluzione di una questione che tanto aveva dato da discutere nella vigenza della precedente normativa, è quella per cui la richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice, durante la gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante il primo anno di vita del bambino o nel primo anno di accoglienza del minore adottato o in affidamento, deve essere convalidata dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro, competente per territorio (art. 54, comma 4). A detta convalida, che serve per accertare la genuinità della volontà di recedere della lavoratrice, è condizionata la risoluzione del rapporto di lavoro. Detto altrimenti, in mancanza di convalida le dimissioni non potranno ritenersi efficaci, il che farà maturare, essendovi stata offerta della prestazione secondo le forme d’uso, il diritto alle retribuzioni medio tempore spettanti.

31 V. , infatti, Cass. 19 agosto 2000 , n. 10994, secondo cui resta esclusa la spettanza dell’indennità sostitutiva del preavviso nel caso in cui il datore provi che la lavoratrice ha, senza intervallo di tempo, iniziato un nuovo lavoro, e il lavoratore non provi che esso è meno vantaggioso di quello precedente dal punto di vista della retribuzione, ma anche delle mansioni, della distanza dalla sede di lavoro, etc.

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Indennità di maternità Deve essere corrisposta anche nel caso in cui la lavoratrice fosse già in stato interessante al momento dell’assunzione e non abbia mai iniziato l’attività lavorativa, essendo passata direttamente al periodo di congedo di maternità; e ciò anche se assunta a tempo determinato. L’indennità non può però essere erogata dopo la cessazione del rapporto di lavoro per i periodi di interdizione (anticipata o prorogata) del lavoro riconosciuti dalle Direzioni provinciali del lavoro. Nullità del licenziamento Il licenziamento nullo non ha un’efficacia risolutoria del rapporto, del quale continuano a decorrere, quindi, gli effetti giuridici. Laddove ci sia una cessazione sopravvenuta dell’attività aziendale, il risarcimento del danno conseguente al licenziamento nullo deve essere limitato temporalmente al momento della cessazione, che determina il venir meno del rapporto per impossibilità sopravvenuta.

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Fonte: Diritto e Pratica del lavoro Settimanale di amministrazione e gestione del personale, Ipsoa Editore

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