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C. La forma di governo dell’Italia Repubblicana Premessa generale Richiamandosi all’esperienza liberale, i costituenti decisero di adottare per l’Italia repubblicana una forma di governo parlamentare (vi era la convinzione che quella in senso parlamentare sarebbe stata l’effettiva e naturale evoluzione della forma di governo prevista dallo Statuto, se non vi fosse stata la ‘parentesi’ autoritaria del Fascismo), che sarebbe stata chiamata a operare in un contesto profondamente modificato rispetto a quello liberale. Nell’Italia repubblicana, la forma di governo parlamentare sarebbe stata destinata a funzionare a base partitica in un contesto di suffragio universale e, dall’altra parte, essa veniva, dalla Costituzione del 1948, razionalizzata mediante l’introduzione di alcuni procedimenti intesi a stabilizzare il rapporto Parlamento/Governo e per effetto della presenza del Capo dello Stato, un organo politicamente irresponsabile e pertanto privo di poteri di indirizzo politico, che avrebbe avuto il ruolo, di ‘garanzia’, di far ripartire il sistema in caso di crisi e in generale di assicurare il regolare svolgimento della vita istituzionale, senza peraltro influirvi con una propria politica. Polemici contro la dittatura fascista (che aveva messo fuori legge i partiti e si era configurata come sistema a partito unico) i Costituenti, che erano uomini e donne di partito (i partiti, sopravvissuti al fascismo, si erano riorganizzati durante la resistenza ed erano stati, durante il periodo dei governi provvisori, gli interlocutori delle Forze Alleate nonché i protagonisti della Assemblea Costituente, che scrisse la nuova Costituzione) consacrarono il ruolo del partito politico di massa come ganglio consustanziale alla democrazia. Una volta sancito che ‘i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale’ (art. 49); la Costituzione privilegiò la democrazia rappresentativa, o mediata, sulla democrazia diretta: il circuito democratico era così concepito: il corpo elettorale (composto da tutti i cittadini italiani maggiorenni) in periodiche elezioni distribuisce il proprio voto tra liste di candidati predisposte dai partiti; il

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C. La forma di governo dell’Italia Repubblicana

Premessa generale

Richiamandosi all’esperienza liberale, i costituenti decisero di adottare per l’Italia repubblicana una forma di governo parlamentare (vi era la convinzione che quella in senso parlamentare sarebbe stata l’effettiva e naturale evoluzione della forma di governo prevista dallo Statuto, se non vi fosse stata la ‘parentesi’ autoritaria del Fascismo), che sarebbe stata chiamata a operare in un contesto profondamente modificato rispetto a quello liberale. Nell’Italia repubblicana, la forma di governo parlamentare sarebbe stata destinata a funzionare a base partitica in un contesto di suffragio universale e, dall’altra parte, essa veniva, dalla Costituzione del 1948, razionalizzata mediante l’introduzione di alcuni procedimenti intesi a stabilizzare il rapporto Parlamento/Governo e per effetto della presenza del Capo dello Stato, un organo politicamente irresponsabile e pertanto privo di poteri di indirizzo politico, che avrebbe avuto il ruolo, di ‘garanzia’, di far ripartire il sistema in caso di crisi e in generale di assicurare il regolare svolgimento della vita istituzionale, senza peraltro influirvi con una propria politica.

Polemici contro la dittatura fascista (che aveva messo fuori legge i partiti e si era configurata come sistema a partito unico) i Costituenti, che erano uomini e donne di partito (i partiti, sopravvissuti al fascismo, si erano riorganizzati durante la resistenza ed erano stati, durante il periodo dei governi provvisori, gli interlocutori delle Forze Alleate nonché i protagonisti della Assemblea Costituente, che scrisse la nuova Costituzione) consacrarono il ruolo del partito politico di massa come ganglio consustanziale alla democrazia.

Una volta sancito che ‘i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale’ (art. 49); la Costituzione privilegiò la democrazia rappresentativa, o mediata, sulla democrazia diretta: il circuito democratico era così concepito: il corpo elettorale (composto da tutti i cittadini italiani maggiorenni) in periodiche elezioni distribuisce il proprio voto tra liste di candidati predisposte dai partiti; il partito è così il ‘tramite’ tra la società e le istituzioni e serve a convogliare sulle istituzioni i desiderata e le scelte del popolo.

Nell’esperienza costituzionale repubblicana, i partiti politici hanno rappresentato quelle ‘forze’ o quei ‘poteri’ che hanno plasmato gli istituti delineati dalla Costituzione facendoli funzionare come hanno funzionato e diventare quelli che sono (spesso, qualcosa di molto diverso da ciò che risulterebbe dal testo costituzionale scritto). Consapevole di questo ruolo dei partiti, negli anni ’50 del Novecento il giurista Costantino Mortati coniò l’espressione costituzione in senso materiale, i partiti sono le forze concrete, gli effettivi rapporti di potere, che animano e plasmano il nostro sistema costituzionale ‘formale’. Secondo Mortati, finché vi fosse stato un certo equilibrio, una certa corrispondenza tra la costituzione in senso materiale e la costituzione formale le cose potevano anche funzionare; ma il problema è stata la crescente e inarrestabile divaricazione tra le due, che pare aver condotto a una sostanziale sovranità dei partiti, non coincidente con la realizzazione della ‘sovranità popolare’.

Per un discreto periodo di tempo, dai lavori dell’Assemblea costituente fino ai quindici anni che vanno dal 1978 al 1993 (date che spiegheremo poco oltre), si poteva pensare che costituzione in senso materiale e costituzione formale tendessero a coincidere. Il corpo elettorale, il popolo, mostrava di riconoscersi nei partiti politici, che avevano un reale carattere di massa e un radicamento sociale consistente (pur mai esente da patologie come il clientelismo e il voto di

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scambio o l’indottrinamento dogmatico degli iscritti cresciuti nella ‘pedagogia’ del partito), e questi a loro volta parevano esprimere bisogni reali del popolo: le classi lavoratrici e un certo strato intellettuale ‘progressista’ si riconoscevano nel PCI, che si faceva portatore delle loro esigenze, le classi medie, ma anche quelle popolari cattoliche, altro strato intellettuale, nella DC, che si faceva portatrice delle loro esigenze; in una ulteriore gamma, articolata, di formazioni politiche ‘minori’ si rispecchiavano parti minoritarie dell’opinione pubblica, laiche, oppure più a sinistra o un po’ meno a sinistra del PCI, più a destra della DC.

Tuttavia, già nella prima metà degli anni ’70 i pensatori più attenti, e più indipendenti, nel nostro paese riconobbero che erano in corso a livello mondiale tali trasformazioni, legate alle dinamiche del capitalismo, alle sue implicazioni sulle mentalità e sui modi di vivere, e alle sue esigenze di governo, da incidere in modo profondissimo sul funzionamento di quelle che rimanevano, e sono rimaste, formalmente democrazie rappresentative a base partitica.

La principale di queste trasformazioni è rappresentata dal fenomeno che viene correntemente descritto come ‘globalizzazione’.

Una democrazia parlamentare a base partitica nel contesto della globalizzazione

“Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà prevale nella società industriale avanzata, segno di progresso tecnico.” (H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, p. 21)

Nei manuali odierni di diritto pubblico, la globalizzazione viene descritta così1:

“un mercato mondiale in cui i fattori produttivi si spostano con estrema facilità da un paese all’altro, e che indebolisce il controllo dello Stato sul suo territorio. Le sue cause sono: progresso tecnologico (che rende sempre più facile ed economico lo spostamento dei beni da un luogo a un altro), la ‘smaterializzazione’ delle ricchezze tradizionali, attraverso la cd finanziarizzazione dell’economia, che sempre più si basa sulla proprietà e lo scambio di risorse finanziarie piuttosto che sul possesso di beni materiali; l’accresciuta importanza strategica ed economica di altri beni immateriali come la conoscenza e l’informazione, lo sviluppo dell’informatica e la creazione di reti telematiche, che rendono possibile il rapidissimo spostamento di informazioni e di capitali da una parte all’altra del paese, lo sviluppo di sistemi produttivi flessibili, che consentono alle imprese di spostarsi rapidamente da un luogo all’altro o di allocare le diverse fasi del ciclo produttivo in aree territoriali diverse (si pensi ad alcune imprese leader nel campo dell’abbigliamento, che insediano i centri di disegno dei capi e le strutture di marketing nel cuore d’Europa, in modo da sfruttare le migliori risorse umane in questi campi, mentre la lavorazione degli indumenti avviene in Paesi extraeuropei dove il costo della manodopera è più basso)”.

Sono numerose le conseguenze che discendono dalla globalizzazione dell’economia sullo Stato:

“Anzitutto, le risorse più importanti, e cioè il capitale finanziario e le informazioni e le conoscenze, che per loro natura non sono legate al territorio (si dice perciò che l’economia si è deterritorializzata), si spostano da un luogo a un altro, e perciò anche da uno Stato a un altro, alla ricerca del luogo più conveniente in cui posizionarsi, sfuggendo pressoché integralmente al controllo dei poteri pubblici. In secondo luogo, gli Stati sono sempre più influenzati da decisioni che vengono prese fuori dai loro confini, ma che hanno effetti considerevoli all’interno del territorio dello Stato (si pensi alla decisione dei grandi investitori di realizzare vendite massicce dei titoli del debito pubblico di un determinato Stato, mettendone in crisi la liquidità, determinando

1 I due brani che seguono sono presi da R. Bin e G. Pitruzzella, Diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 2010, p. 14-15.

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un rialzo dei tassi di interesse e il conseguente aumento del debito dello Stato; oppure si pensi alle conseguenze, sul livello dei prezzi e perciò del tasso di inflazione, delle decisioni prese dai paesi produttori di petrolio o da grandi gruppi multinazionali).” Attraverso questa pressione, i mercati sono in grado di convincere gli stati ad adottare, in materia fiscale, previdenziale, di gestione della spesa pubblica, organizzazione del lavoro, organizzazione degli studi e della ricerca, in modo ad essi conveniente, e perciò “non è più vero che lo Stato abbia la piena sovranità sul suo territorio, tanti essendo i condizionamenti provenienti dai mercati internazionali”.

L’inizio di quella trasformazione su scala mondiale dei rapporti economici che ha visto il capitalismo finanziario diventare il primo e più potente soggetto condizionante le scelte politiche nazionali, e che chiamiamo globalizzazione, risale ai primi anni 1970. L’abbandono degli accordi di Bretton Woods, nel 1971, segnò la fine della convertibilità del dollaro in oro, su cui si erano retti i rapporti economici internazionali dopo la seconda guerra mondiale, una regola che ora rischiava di portare gli Stati Uniti, oppressi da un enorme debito pubblico e dipendenti dalle forniture di petrolio dai paesi arabi, al fallimento. Da questa decisione (concausa, nell’immediato, della crisi economica spaventosa degli anni 1971-73, che pose fine al trend di crescita impresso all’Europa dalle politiche keynesiane adottate a livello internazionale e fino a quel momento favorite dal FMI e dalla Banca Mondiale), derivò quella che oggi chiamiamo ‘finanziarizzazione’ dell’economia: non più ancorata a una base nell’economia reale e limitata dalla convertibilità della moneta di riferimento in oro, la ricchezza circolante in moneta può assumere dimensioni enormi, e questo ha spinto verso ‘la sostituzione della produzione dei beni reali con l’acquisto di prodotti finanziari aventi come contenuto non valori economici certi, ma debiti, fatti valere come crediti’ (…). Il possessore di capitali non investe nella produzione di beni o servizi ma compra diritti di credito, cioè debiti, nella speranza che il valore del debito cresca e comunque in vista di rivalersi sul patrimonio del debitore”2. I più grandi debitori sulla scala mondiale sono gli stati, che emettono titoli di debito pubblico per finanziare le proprie spese. Dal finire degli anni ’80 è cessata su scala mondiale la regola per cui le Banche centrali nazionali acquistavano il debito pubblico nazionale, e questo è diventato acquisibile dagli investitori internazionali. Così avviene che la finanza internazionale condiziona la politica nazionale. Se gli investitori internazionali non condividono le politiche di uno stato, questo è sempre minacciato di non poter collocare i suoi titoli di debito pubblico e finire fallito.Già nel luglio del 1973, su iniziativa del capitalista americano David Rockefeller, nacque la Commissione trilaterale, riunione periodica e privata di personalità di spicco della élite politica, finanziaria e intellettuale del mondo occidentale, che assumeva come esplicito obiettivo quello di individuare le linee di sviluppo convenienti per l’occidente, per dettarle ai governi nazionali. Nasceva così un carattere tipico della globalizzazione, rappresentato dal condizionamento sulle politiche nazionali esercitato da parte élite transnazionali economico-politico-finanziarie ossia da soggetti non politicamente legittimati e del tutto privi di responsabilità3.

2 P. Maddalena, Gli inganni della finanza, come svelarli, come difendersene, Donzelli editore, Roma, 2016, p. 71.

3 “Un organo privato di concertazione e orientamento della politica internazionale dei paesi della triade (Stati uniti, Europa, Giappone). L’atto costitutivo spiega: «Basata sull’analisi delle più rilevanti questioni con cui si confrontano l’America e il Giappone, la Commissione si sforza di sviluppare proposte pratiche per un’azione congiunta. I membri della Commissione comprendono più di 200 insigni cittadini impegnati in settori diversi e provenienti dalle tre regioni». La creazione di questa organizzazione opaca in cui a porte chiuse e al riparo da qualsiasi intromissione mediatica si ritrovano fianco a fianco dirigenti di multinazionali, banchieri, uomini politici, esperti di politica internazionale e universitari, coincideva all’epoca con un periodo di incertezza e turbolenza della politica mondiale. La direzione dell’economia internazionale sembrava sfuggire alle élite dei paesi ricchi, le forze di sinistra apparivano potenti, soprattutto in Europa, e la crescente interdipendenza delle questioni economiche chiamava le grandi potenze a una cooperazione più stretta. Rapidamente, la Commissione trilaterale si impone come uno dei principali strumenti di questa concertazione, attenta al tempo stesso a proteggere gli interessi delle multinazionali e a «chiarire» attraverso le proprie analisi le decisioni dei dirigenti politici.” Così “Gli opachi poteri della Trilaterale”, di Olivier Boiral, da «Le Monde Diplomatique» novembre 2003.

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Nel 1975 la Commissione Trilaterale pubblicò il libro "La crisi della democrazia", con la prefazione di Gianni Agnelli, il quale in un'intervista di quell’anno così si espresse:

"Probabilmente dovremo avere dei governi molto forti, che siano in grado di far rispettare i piani cui avranno contribuito altre forze oltre a quelle rappresentate in parlamento; probabilmente il potere si sposterà dalle forze politiche tradizionali a quelle che gestiranno la macchina economica; probabilmente i regimi tecnocratici di domani ridurranno lo spazio delle libertà personali. Ma non sempre tutto ciò sarà un male. La tecnologia metterà a nostra disposizione un maggior numero di beni e più a buon mercato".

Il poeta e scrittore Pierpaolo Pasolini, in quegli stessi anni, avvertiva che si era formato un ‘nuovo potere’, che avrebbe distrutto, o meglio irrimediabilmente trasformato, la funzione dei partiti politici. Pasolini intuiva che la prima vera vittima della globalizzazione è la politica intesa come ‘circuito democratico’, dal momento che il nuovo connubio tra economia globale e governi nazionali, orientato a guidare la vita sociale secondo indirizzi alla prima convenienti, non ha bisogno del canale rappresentativo per organizzare il consenso. Dispone infatti di un altro mezzo: la produzione di massa di beni di consumo. Anzi, il canale rappresentativo diventa un ostacolo e un impiccio perché rischia costantemente di fare emergere istanze ‘dal basso’ contrarie agli interessi della finanza. Ed è ovvio che questa non ami il pluralismo politico, con cui le società guidano le istituzioni in funzione dei propri interessi, valori, preferenze e concezioni del giusto, del bene, della felicità; al modello della globalizzazione è infatti consustanziale una progressiva e inarrestabile omologazione delle persone e degli stili di vita e di pensiero, che porta i più, semplicemente, a preferire l’accesso ai beni di consumo alla libertà politica, e fatalmente la spenge.

Oggi molti avanzano l’ipotesi che i partiti politici, perno delle costituzioni democratiche post-belliche, hanno visto, per effetto della globalizzazione, modificarsi la loro funzione. Essi diventano inutili o controproducenti se visti come modi per trasmettere alle istituzioni gli indirizzi nascenti dalla società; ma possono conservare un ruolo nell’esercitare la funzione opposta, cioè quella di convogliare verso la società le istanze compatibili e anzi desiderate dai mercati globali.

Per avere un’idea di quali questi desiderata possano essere basta scorrere il Rapporto del maggio 2013 della J.P.Morgan4 (una società finanziaria con sede a New York, leader dei mercati finanziari, e, tra parentesi, denunciata per frode della città di New York per la truffa dei mutui ‘spazzatura’ (subprime) che ha provocato 7 milioni di disoccupati che da anni imperversa nel mondo occidentale: una denuncia per la quale J.P.Morgan ha patteggiato 13 miliardi di dollari di risarcimento). Secondo questo rapporto, occorre ‘correggere’ con le opportune riforme gli ordinamenti europei che ancora contemplano:

sistemi politici che prevedono esecutivi troppo deboli; governi regionali troppo autonomi; protezione costituzionale dei diritti del lavoro; diritto di protestare se sono apportati cambiamenti indesiderati allo status quo.”

Il tempo dell’”uomo a una dimensione”

4 Sul rapporto Morgan, v. R. Calvano, La decretazione d’urgenza nella stagione delle grandi intese, in Rivista Aic, 2/2014.

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La globalizzazione si lega a una grande mutazione ‘antropologica’, cioè una mutazione dell’idea della persona umana e della società, che è stata messa a fuoco sin dall’opera del filosofo Herbert Marcuse, intitolata L’uomo a una dimensione. Questo studio, apparso nel 1964 negli Stati Uniti e tradotto per la prima volta in Italia nel 1967, metteva a fuoco la genesi e i meccanismi di funzionamento del ‘nuovo potere’, incentrandosi sul ruolo che il consumismo aveva al loro interno, e sui processi di uniformazione in cui si esprimeva.

Marcuse notava che il modello di capitalismo ‘fordista’ che aveva dominato nel secondo dopoguerra, il capitalismo che produce ‘merci’ utilizzando la forza lavoro operaia in luoghi fisici chiamati ‘fabbriche’, e che aveva portato con sé una visibile differenziazione di interessi e di soggettività (di classe) nella società, era ormai sopravanzato da un nuovo modo di produzione, che implicava importantissimi cambiamenti. Automatizzato e tecnologico, il lavoro diventava una attività in cui è sempre meno importante la forza fisica e dove si richiedono, invece, sempre più skills intellettuali, capacità tecniche e mentali5. Nasceva il ‘proletariato intellettuale’, cioè una quella forza lavoro che, di fatto, occupa nella scala sociale un ruolo subordinato, ma non identifica se stessa come una ‘classe’ opposta a altra classe, quella dei datori di lavoro, dei proprietari dei mezzi di produzione, perché è indotta, dalla possibilità di consumare gli stessi beni, a identificarsi coi suoi padroni. Perciò la possibilità di consumare è, nell’analisi di Marcuse, in realtà una necessità, imposta (anche se presentata come ‘libertà di scelta’) in quanto funzionale agli interessi del capitalismo industriale, e imposta dolcemente attraverso la persuasione esercitata dai mezzi di comunicazione di massa.

“Le persone si riconoscono nelle loro merci; trovano la loro anima nella loro automobile, nei giradischi ad alta fedeltà, nella casa a due livelli, nell’attrezzatura della cucina. Lo stesso meccanismo che lega l’individuo alla società è mutato, e il controllo sociale è radicato nei nuovi bisogni che esso ha prodotto”6.

La globalizzazione si è annunciata, dunque, come omologazione dei gusti, uniformazione degli stili di vita, resa possibile da quella società dei consumi, o ‘stato del benessere’ che il mondo occidentale ha conosciuto tra la fine degli anni 1960 e gli anni 1970. Il consumismo inaugurò, secondo l’analisi di Marcuse, una nuova, più pervasiva, mai esistita prima forma di dominio. Mentre il primo capitalismo industriale si prendeva, dal lavoratore, ‘solo’ la forza lavoro, il nuovo si prende l’anima. Non ci si sottomette al capitale solo quando si lavora, ma quando si acquista qualcosa, si guarda la tv, si desiderano le cose che ci sono presentate, dalla pubblicità, come desiderabili, tutte azioni con le quali confermiamo che il nostro è il migliore dei mondi ed è l’unico mondo possibile e soddisfa tutti i nostri desideri.

“La produzione e la distribuzione di massa reclamano l’individuo intero, e la psicologia industriale ha smesso da tempo di essere confinata alla fabbrica. (…) I prodotti indottrinano e manipolano; promuovono una falsa coscienza che è immune dalla propria falsità. E a mano a mano che questi prodotti benefici sono messi alla portata di un numero crescente di individui in un maggior numero di classi sociali, l’indottrinamento di cui essi sono veicolo cessa di essere pubblicità: diventa un modo di vivere. E’ un buon modo di vivere – assai migliore di un tempo – e come tale milita contro un mutamento qualitativo. Per tal via emergono forme di pensiero e di comportamento a una dimensione in cui idee, aspirazioni e obiettivi che trascendono come contenuto l’universo costituito del discorso e dell’azione vengono o respinti, o ridotti ai termini di detto universo7.”

5 H. Marcuse, One-Dimensional Man. Studies on the Ideology of Advanced Industrial Society, 1964, trad. it. L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino, 1967, trad. Luciano Gallino e Tilde Giani Gallino, p. 45.6 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, p. 29.7 H. Marcuse, op. cit., p. 30 e 33.

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Ispirate formalmente ai principi democratici della competizione politica libera e pluralista, quelle governate dal capitalismo industriale avanzato sono viste invece da Marcuse come le ‘società della mobilitazione totale’, in cui ogni persona, nelle scelte più piccole della sua vita, è chiamata a convalidare l’ordine dato, a sottomettersi allo status quo.

“La società della mobilitazione totale, che va prendendo forma nelle aree più avanzate della società industriale, combina in unione produttiva i tratti dello stato del benessere e dello stato belligerante. A paragone delle società che l’hanno preceduta, si tratta invero di una ‘nuova società’. Le zone tradizionali di disturbo vengono ripulite o isolate, gli elementi di rottura sono posti sotto controllo. Le tendenze principali sono note: sottomissione dell’economia nazionale ai bisogni delle grandi società con il governo che serve come forza che stimola, sorregge, e talvolta esercita anche un controllo; inserimento dell’economia stessa in un sistema mondiale di alleanze militari, di accordi monetari, di assistenza tecnica, e di piani di sviluppo; graduale elisione delle differenze tra la popolazione in tuta e quella col colletto bianco, tra il tipo di direzione proprio del mondo degli affari e quello dei sindacati, tra attività del tempo libero e aspirazioni di differenti classi sociali; promozione di una armonia prestabilita tra la cultura accademica e i fini della nazione; invasione del domicilio privato da parte di una compatta opinione pubblica; apertura della camera da letto ai mezzi di comunicazione di massa8.”

L’avvento di questa forma di dominazione è stato realizzato, nell’analisi di Herbert Marcuse, mediante una trasformazione dei linguaggi, dei modi di pensare e rappresentare la realtà, in cui hanno preso il sopravvento le forme piatte, operazionali di un linguaggio puramente empirico, cioè descrittivo di fatti, di operazioni ‘oggettive’, e che esclude tutte le idee vaghe e indeterminate, come quelle coagulate da parole come Giustizia, Libertà, Verità, Pace, e dove hanno spazio solo le formule brevi, definitorie, elementari, immediatamente comprensibili, ‘esatte’. Un linguaggio che insegna alle persone che tutte le cose che non possono essere ‘esattamente descritte e in breve’ (per esempio, oggi diremmo, ‘con un tweet’) semplicemente non esistono e non servono a niente.

“Il discorso ‘alla mano’9 è essenziale [alla società a una dimensione ] proprio perché esclude sin dall’inizio il vocabolario intellettualistico della ‘metafisica’: esso milita contro il non conformismo intelligente e mette in ridicolo le teste d’uovo. Purtroppo, questo linguaggio è anche il segno di una falsa concretezza, è un linguaggio purgato dei mezzi per esprimere un qualsiasi contenuto diverso da quello già fornito agli individui dalla società in cui vivono10”.

Dal linguaggio pratico e concreto prediletto dalla società alla dimensione sono escluse le idee coagulate da parole come Giustizia, Libertà, Pace, Verità “poiché l’universo stabilito del discorso porta da cima a fondo i segni dei modi specifici di dominio, organizzazione e manipolazione, ai quali sono soggetti i membri di una società”11 e si oppone pertanto a che circolino le idee attraverso le quali prendono forma concezioni diverse della vita, della società, dei valori, del bene e della felicità (Marcuse, p. 205).

La società dei consumi è così individuata, da questo pensatore, come lo scenario di un nuovo totalitarismo:8 H. Marcuse, op. cit., p. 39. 9 Quanti uomini politici si gloriano oggi di esprimersi così? (N.d’A.)10 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 18.

11 “Il pensiero a una dimensione è promosso sistematicamente dai potenti della politica e da coloro che li riforniscono di informazioni per la massa. Il loro universo di discorso è popolato da ipotesi autovalidantisi le quali, ripetute incessantemente da fonti monopolizzate, diventano definizioni o dettati ipnotici. Per esempio, libere sono le istituzioni del mondo libero, ogni altra forma trascendente di libertà equivale per definizione all’anarchia, o al comunismo, o è propaganda (…) Questa logica totalitaria del fatto compiuto ha la sua contropartita a Oriente. Laggiù, la libertà è il modo di vita istituito dal regime comunista, e ogni altra forma trascendente di libertà è detta capitalista, o revisionista, o appartiene al settarismo di sinistra. In ambedue i campi, le idee non operative non sono riconosciute come forme di comportamento, sono sovversive . Il movimento del pensiero viene arrestato dinanzi a barriere che appaiono come i limiti stessi della Ragione” (H. Marcuse, op. cit., p. 34).

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“In questa società l’apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali. (…) Il termine ‘totalitario’, infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione economico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti. Essa preclude per tal via l’emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e di distribuzione, sistema che può essere benissimo compatibile con un ‘pluralismo’ di partiti, di giornali, di poteri controbilanciantisi, ecc.12”

Pier Paolo Pasolini, in alcuni importanti scritti degli anni 1975 e 1976, ha riferito l’analisi di Marcuse all’Italia.

Il nuovo benessere del consumismo, secondo Pasolini, travolgeva realtà quali ‘la classe operaia’, il ‘ceto medio’, la ‘famiglia in senso tradizionale’, la ‘fabbrica’, il ‘sindacato’ e tutte le relative forme di aggregazione, di mediazione dei conflitti, di governo della società grazie alla forza omologante della pubblicità, dall’appiattimento dei linguaggi, dalla uniformazione dei gusti. Pasolini mise ‘sotto accusa’ i partiti che continuavano a fare come se esistesse ancora la tradizionale società italiana, per dar voce alla quale erano nati, una società fortemente cattolica ma anche divisa in classi. Le sue domande erano, tradotte in termini elementari: che cosa ci sta a fare, in realtà, un partito cattolico (il riferimento andava alla Democrazia Cristiana, il maggiore partito del tempo) se la società è talmente laicizzata che, chiamata nel 1974 a pronunciarsi con un referendum abrogativo sul divorzio, lo ha accettato ampiamente? Che ci sta a fare un Partito comunista (l’altro principale partito), se il sistema economico, in nome del consumismo, e dei nuovi modi di produzione ha ormai travolto la ‘classe operaia’ come soggetto portatore di valori ‘alternativi’ rispetto al capitale? Ci stanno, diceva Pasolini, a mentire. Anziché aiutare la società a elaborare i suoi bisogni nelle circostanze presenti, essi perpetuano, della società, una immagine fittizia. Non sono più dunque, i partiti, soggetti che danno voce alla società, ma soggetti che la governano limitandosi a vederla come fonte di quel consenso elettorale che li mantiene al potere. Anziché esprimere gli indirizzi del corpo elettorale i partiti cercano solo la conservazione del proprio potere anche facendosi agenti di interessi non trasparenti e non dichiarati13.

Non si trattava di un invito all’ “anti-politica” ma del richiamo, rivolto ai partiti e al corpo elettorale, a un impegno volto a ritrovare una autentica relazione di rappresentanza, a non arrendersi a fenomeni che tendono a spegnere la politica come arte del vivere insieme, la quale non ha più senso né funzione nella società dell’uomo a una dimensione, e pertanto è in essa osteggiata:

“Nella misura in cui la libertà dal bisogno, sostanza concreta di ogni possibilità, sta diventando una possibilità reale, le libertà correlate a uno stato di minore produttività vanno perdendo il contenuto di un tempo. L’indipendenza di pensiero, l’autonomia e il diritto alla opposizione politica sono private della loro fondamentale funzione critica in una società che pare sempre meglio capace di soddisfare i bisogni degli individui grazie al modo in cui è organizzata . Una simile società può richiedere a buon diritto che i suoi principi e le sue istituzioni siano accettate come sono, e ridurre l’opposizione al compito di discutere e promuovere condotte alternative entro lo status quo.”14

12 H. Marcuse, op. cit., p. 23.

13 P.P. Pasolini, nelle Lettere luterane, e negli Scritti Corsari.

14 H. Marcuse, op. cit., p. 22.

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Gli scenari rappresentati da Pasolini e da Marcuse possono a tutta prima apparire lontani dall’oggi, perché tengono presente la ‘società del benessere’, mentre siamo costantemente attanagliati, oggi, dallo spettro della crisi economica. Ma, al riguardo, potrebbe interessare questa conclusione di Pier Pasolini:

“L’ottica del mondo è completamente cambiata; la realtà ha, come dire, ruotato. La povertà non è più la povertà di prima del consumismo. Anche se dovesse tornare una certa povertà – tipica dei regimi dittatoriali – tale povertà non sarebbe altro che benessere rientrato, frustrato. Questo almeno in Europa, in Italia. La povertà cilena è forse ancora quella classica. Ma un eventuale Pinochet italiano non si sognerebbe nemmeno, attraverso un regime neo-repressivo, di ristabilizzare la povertà di un tempo: egli altro non si prefiggerebbe che proteggere ‘lo sviluppo’ così come i padroni lo vogliono (ed è ancora possibile). Edonismo e falsa tolleranza sarebbero sicuramente in gran parte preservati. Lo spirito laico che è legato al consumo anche”15.

Gli effetti della globalizzazione sulle forme di stato e di governo. A) Trasformazioni dell’indirizzo politico e della rappresentanza politica

Considerando le conseguenze della globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia sugli ordinamenti politici e giuridici, quasi tutti gli autori registrano che tutto ciò che le categorie del diritto pubblico continuano a descrivere come ‘indirizzo politico’ o ‘rappresentanza politica’ probabilmente oggi corrisponde a una unica estesa funzione amministrativa di gestione della società in funzione di un interesse, un ‘bene’, un insieme di fini, che, contrariamente alle premesse basilari ed elementari della democrazia rappresentativa, non viene individuato attraverso la ‘libera’ competizione di partiti espressivi della società e dei suoi orientamenti, ma tramite l’operare di un più complesso, esteso, qualche volta opaco insieme di soggetti e di metodi, che vanno dalle istituzioni sovranazionali ai poteri finanziari alle grandi imprese mediatiche sino alle strategie di marketing e di comunicazione.

Della ‘crisi’ della politica, e delle istituzioni rappresentative, oltre che dei soggetti che della politica avrebbero dovuto essere gli attori, ossia i partiti, sono pieni d’altronde i libri e i manuali e ogni trattazione che affronti i temi del diritto pubblico contemporaneo. Si tende, peraltro, ad attribuire quella crisi a fenomeni come il ‘venir meno delle ideologie’, o il ‘superamento della divisione della società in classi’ o a disfunzioni di ordine morale (insufficiente etica pubblica) o a una generica disaffezione delle persone dalla politica. Le riflessioni di Pasolini, e quelle di Marcuse, secondo le quali l’egemonia del potere capitalistico si è realizzata attraverso l’omologazione della società intorno al consumismo, e mediante la repressione del pensiero critico e trascendente, la crisi della politica appare, anziché un deprecabile ma contingente epifenomeno, un esito inevitabile e una componente strutturale della globalizzazione, che con le sue tendenze e necessità di omologazione dei gusti, delle identità e dei bisogni, ha individuato il suo primo naturale obiettivo nei partiti politici e nella loro funzione di dare voce al pluralismo sociale, e cioè a desideri, bisogni, aspirazioni, immaginazione delle persone umane a partire dalla loro condizione, dalle loro idee di giustizia, libertà, pace, felicità. La politica è stata probabilmente il primo obiettivo contro cui la globalizzazione ha operato. Essa, da arte del disegnare in modo libero i contenuti della convivenza, si trasforma in una sorta di generalizzata funzione amministrativa, che consiste nell’organizzare e gestire la società in vista dello sviluppo dell’economia di mercato.

Gli effetti della globalizzazione sulle forme di stato e di governo. (continua)

15 P.P. Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 126.

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B) La rinascita, a parti invertite, delle classi sociali

Appare molto contestabile il ricorrente ritornello secondo cui il deperimento della politica partitica è dovuto al venir meno delle classi sociali e del conflitto tra esse. Piuttosto, può essere formulata l’ipotesi che le classi lavoratrici, l’insieme cioè dei soggetti subordinati e svantaggiati, punto di riferimento e scaturigine materiale e ideale della esperienza dei partiti politici di massa, siano state, per dir così, ‘disabituate’ a riconoscersi come tali.E, questo, per effetto di numerosi fattori. Uno, è quello che abbiamo imparato da Marcuse, ed è rappresentato da modi di produzione che rendono meno visibili (spesso perché li spostano, possiamo aggiungere oggi, su uomini e donne assenti, cancellati e rimossi dalla percezione collettiva, ossia gli immigrati) gli aspetti fisici del lavoro, e su cui un tempo correvano differenze identitarie molto forti, a favore di modi di produzione che apparentemente. Oggi il lavoratore del call center e il brooker di borsa lavorano entrambi con un terminale, hanno una laurea e il desiderio di diventare ricchi. Ciò li assimila sul piano dei valori in cui essi si riconoscono, quasi cancellando il fatto che, dei due, uno ricco non è e non sarà mai anche per colpa del tipo di ambiente in cui lavora l’altro. Un secondo motivo per cui la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia tendono a far venir meno la percezione del fatto che i gruppi sociali esistono, e hanno interessi diversi, è legato alle modalità di funzionamento della globalizzazione economica. Queste ultime fatte in modo tale da legare gli interessi e le aspettative degli svantaggiati a quelli dei potenti, ponendo l’andamento dei mercati finanziari come interesse generale per tutti: infatti i capitali che vengono investiti, dalle banche, sui mercati finanziari

“sono formati dai risparmi di lavoratori che per la maggior parte sono dipendenti – impiegati, tecnici, insegnanti, operai, funzionari, che costituiscono capitali immensi, di un ordine di grandezza che supera il Pil mondiale. Questa somma smisurata è concentrata in alcune migliaia di fondi pensione e di fondi di investimento: fra questi, quelli che veramente contano sono poche centinaia, ma gestiscono capitali dell’ordine di centinaia di miliardi di dollari o di euro ciascuno. In tal modo gli interessi di questi lavoratori risparmiatori sono coinvolti negli interessi dei capitalisti, della classe dominante, perché i gestori dei fondi investono soprattutto per massimizzare il rendimento del capitale investito – che è ciò che si attendono i sottoscrittori – prescindendo però dal fatto che l’impresa in cui investono produca alimenti, costruisca scuole oppure mine antiuomo. L’obiettivo primario è quello del rendimento del capitale. E qui si intravede il cointeressamento tra il mondo del lavoro e il sistema finanziario. Perché chi versa una cospicua quota del proprio salario o stipendio per ricevere una pensione decente a distanza di venti o trent’anni, ha ovviamente interesse a che il capitale investito renda bene.”16.

Anziché parlare di fine, “superamento”, delle classi sociali e della lotta di classe, si dovrebbe riconoscere l’esistenza, propone il sociologo Luciano Gallino anche sulla scorta di analisi sociologiche ormai risalenti all’inizio degli anni 2000, di una unica classe dominante globale, o classe capitalistica transnazionale, composta da “proprietari di grandi patrimoni, top manager, ossia gli alti dirigenti dell’industria e del sistema finanziario, politici di primo piano che spesso hanno rapporti stretti con la classe economicamente dominante, grandi proprietari terrieri che in molti paesi emergenti, dall’India al Brasile, hanno un potere e una consistenza numerica ancor oggi rilevanti, come anche in Italia, dove se non esistono più i latifondi, la proprietà immobiliare è una componente di peso della classe dominante” (Gallino, 12).

Nell’identificare questa nuova classe, e il tipo di lotta che essa conduce, Luciano Gallino e altri studiosi, hanno ragionato in modo dialettico e transitivo, e non operazionale e descrittivo, come avrebbe detto Marcuse: hanno preso un concetto ‘del passato’ (quello di ‘classe’ e di ‘lotta di classe’) e rifiutandosi di credere alla vulgata che lo ha condannato come vecchio e inservibile,

16 L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Intervista a cura di Laura Borgna, Laterza, Bari, 2012, p. 51.

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morto siccome del passato, sono andati a vedere che cosa quel concetto significa nel presente, e hanno scoperto che le classi sociali esistono sempre, esiste sempre la lotta di classe, solo che la classe consapevole e che conduce la lotta è quella dei ricchi. E’ una lotta che viene condotta influenzando le politiche nazionali in senso favorevole agli interessi di chi dispone di ricchezze. Secondo Gallino:

“[La lotta di classe nel mondo] viene condotta anzitutto per mezzo di leggi, confezionate da governi e parlamenti, che sono intese, al di là delle apparenze, a rafforzare la posizione e difendere gli interessi della classe dominante, e a contrastare la possibilità che la classe operaia e la classe media affermino i propri. Un modo tipico per condurre la lotta di classe mediante la legge è la normativa fiscale. Negli ultimi decenni essa ha seguito due strade: elevati sgravi fiscali a favore dei ricchi e forti riduzioni delle imposte sulle società. L’effetto è stato quello di essiccare i bilanci pubblici dal lato delle entrate, il che ha reso necessario – questo il singolare ragionamento dei governi Ue – tagliare le spese di maggior utilità per i lavoratori.”17

Domandandosi come mai quello che oggi è venuto in uso chiamare “il 99%” cioè coloro che non compongono la classe dominante transnazionale abbiano reso possibile la estromissione dei propri interessi e punti di vista dalle sedi decisionali e assistito passivamente al dilagare di scelte politiche e di indirizzo loro sfavorevoli, non si può che tornare al punto che Pasolini e Marcuse mettevano in risalto: a partire da un certo momento, per effetto dell’accesso ai beni di consumo, gli svantaggiati si sono identificati con la classe dominante.

Alla classe dominante si oppone dunque, ragiona Gallino, una classe che non sapendo di essere tale, non è in grado di mettersi in relazione con la prima in nome di propri distinti interessi. Ma il fatto che le classi sociali siano diventate meno visibili perché non ci sono più partiti che fanno loro riferimento; il fatto che esse siano diventate meno o per nulla coscienti di sé per effetto della omogeneizzazione dei consumi e dello stile di vita; il fatto che le classi sociali iano state intenzionalmente negate grazie a ideologie secondo le quali cui tutti, operai, impiegati dirigenti e proprietari hanno un solo interesse, che l’economia ‘giri’, tutti questi fatti non tolgono, secondo Gallino, che le classi sociali esistano. Perché

“Far parte di una classe sociale significa appartenere, volenti o nolenti, a una comunità di destino, e subire tutte le conseguenze di tale appartenenza. Significa avere maggiori o minori possibilità di passare, nella piramide sociale, da una classe più bassa a una più alta; avere maggiori o minori possibilità di fruire di una quantità di risorse, di beni materiali e immateriali; disporre, oppure no, del potere di decidere il proprio destino, di sceglierlo”.

Gallino nota subito dopo che “rientra nelle definizione di classe sociale anche la possibilità, di chi vi appartiene, di influire sul proprio destino, di poterlo in qualche misura cambiare”. Vien da dire che il venir meno della possibilità di concepire idee di questo genere, di immaginare le vie per realizzarle, è l’effetto più deprivante che deriva dalle tesi che negano la esistenza delle classi sociali, e pretendono che ciò sia la causa della crisi dei partiti e della politica.

Gli effetti della globalizzazione sulle forme di stato e di governo. C) La ridefinizione del circuito rappresentativo: intorno a un ‘sistema virtuale a partito unico’

17 L. Gallino, La lotta di classe, cit., p. 22.

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L’immagine della lotta di classe condotta dalla classe dominante transnazionale con l’acquiescenza, se non il supporto, delle classi deboli (contro le quali quella lotta è condotta) e per il mezzo della legge e dei governi, suggerisce che il ‘circuito democratico’, col quale si spiegano tradizionalmente le democrazie costituzionali (il popolo elegge i suoi rappresentanti, che deliberano le leggi: in tal modo le leggi, le regole e gli obiettivi a cui la vita di ciascuno è conformata, vengono in realtà dalle stesse persone, il popolo, a cui si applicano), sia ormai ridefinito e sostituito da altro.

Nel contesto della globalizzazione, l’itinerario della decisione sembra seguire un diverso circolo: il capitale, la classe economica transnazionale, prima cointeressa la classe lavoratrice a se stessa, poi influenza le decisioni normative e di governo.

Oppure prende direttamente decisioni di altissimo rilievo, quasi disponesse di una ‘delega’ analoga a quella conferita ai rappresentanti eletti, quando gestisce i fondi di investimento.

“Se il rendimento economico [dei fondi di investimento] proviene anche da fabbriche di bombe a grappolo, o da società che hanno tagliato con le delocalizzazioni migliaia di posti di lavoro, l’interessato quasi mai viene a saperlo. Il paradosso del capitale del lavoro, rivolto soprattutto a investimenti in merito ai quali non c’è alcuna verifica, nasce e si mantiene precisamente in questo modo. Anche nei casi, come accade con i fondi pensione negoziali (detti così in quanto derivano da contratti o accordi collettivi, anche aziendali) istituiti da noi nel 2005, in cui gli organi di amministrazione e controllo sono costituiti per metà dai rappresentanti dei lavoratori iscritti, in realtà non c’è nessun controllo sulle modalità con cui i capitali vengono investiti. Chi investe, sia come risparmiatore sia come futuro pensionato, tiene anzitutto a che il rendimento sia elevato, perché questo comporterà un vitalizio, un piccolo capitale o una pensione più elevata; e non gli interessa, anzi si può dire che in generale non vuole nemmeno sapere, come il suo denaro venga effettivamente investito. E i depositari, che per la maggior parte sono le grandi banche, non hanno alcun interesse a farglielo sapere”.

E’ una strana ‘delega al rovescio’ che finisce per autorizzare la classe dominante a fare scelte che vanno a danno dell’altra classe:

“Si suole obiettare che anche se i ricchi diventano più ricchi, i mediamente ricchi o i mediamente poveri non ricevono alcun danno dal fatto che i primi si super-arricchiscono. Ma non è affatto vero. Anzitutto le minori entrate fiscali [dovute a scelte impositive che favoriscono i ricchi] comportano una contrazione dei servizi pubblici e dei sistemi di protezione sociale, che colpisce soprattutto le classi meno abbienti. Accade poi che dalle politiche fiscali pro ricchi le classi economicamente inferiori traggano anche danni diretti, da diversi punti di vista. Per intanto i patrimoni che si accrescono unicamente con altro denaro, non direttamente guadagnato, in grandissima parte non vengono trasformati affatto in investimenti produttivi che creano posti di lavoro, ricchezza, infrastrutture; vengono impiegati piuttosto in ulteriori investimenti finanziari. Il denaro accresciuto dagli sgravi fiscali preferisce andare in cerca di altro denaro investendo in se stesso, anziché investire in ricerca o sviluppo o che so, nella scuola. E così, alle casse dello stato dopo un po’ di anni vengono a mancare centinaia di miliardi, con la conseguenza che i governi aumentano le tasse universitarie, riducono il numero degli insegnanti nella scuola, trascurano gli investimenti infrastrutturali.Ma gli effetti negativi a danno delle classi meno abbienti non finiscono qui. Succede che, data l’enorme possibilità di spesa del 5 o 10% della popolazione di un paese, possibilità via via cresciuta negli anni grazie ad attività speculative e alla benevolenza del fisco, molti beni e servizi aumentano a tal punto di prezzo che le classi lavoratrici e anche buona parte delle classi medie non possono più accedervi, o possono accedervi con molta maggiore fatica. Si pensi a quella sorta di tassa sulla vita quotidiana che è la pendolarità abitazione-lavoro. In molte città dell’Unione europea e degli Stati Uniti, le colossali rendite finanziarie tassate con aliquote di favore hanno fatto sì che il prezzo degli immobili o gli affitti nel centro delle grandi città siano diventati così elevati da espellere quasi tutta la popolazione che tradizionalmente vi risiedeva. Si tratta di figure professionali preziose per

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la vita di una città, che però in città non hanno più la possibilità di abitare. Per cui sulle loro esistenze vanno a gravare parecchie ore di pendolarità quotidiana. Non si tratta, quindi, solo di accettare serenamente che i ricchi diventino sempre più ricchi. Il punto della questione cui badare è un altro: il vantaggio fiscale produce direttamente un peggioramento generale della qualità della vita delle classi lavoratrici e delle classi medie.

La classe dominante transnazionale sa anche sostituirsi direttamente al corpo elettorale nella scelta del personale di governo, col fenomeno delle c.d. porte girevoli:

“Vi sono poi i passaggi di personale da un campo all’altro. A parte la deferenza che molti politici hanno sempre dimostrato, specialmente negli ultimi decenni, verso la ricchezza e il potere economico – un caso eminente è Nicolas Sarkozy18 – non bisogna dimenticare che esistono delle porte girevoli le quali vedono continuamente alcuni politici entrare a far parte della classe politica globale e viceversa. Molti ministri e consiglieri economici dei presidenti americani e dei capi di governo, nel Regno Unito come in Francia, in Italia, in Germania, sono stati manager di grandi società finanziarie e hanno portato in politica l’abilità di trasferire direttamente in leggi e decreti gli interessi del mondo industriale e finanziario, con un forte accrescimento del secondo negli ultimi trent’anni.”19

Gli effetti della globalizzazione sulle forme di stato e di governo. (continua) D) La rinnovata centralità degli esecutivi

Oggi è divenuto estremamente ricorrente nella manualistica del diritto pubblico osservare che gli stati sono condizionati nelle loro scelte politiche dai mercati, e perdono perciò parte della loro sovranità sui loro territori. Affermazioni così costruite, e delle quali abbiamo preso un esempio, qualche pagina avanti, dal diffuso manuale di diritto pubblico dei professori Bin e Pitruzzella, trasmettono inevitabilmente due idee: una, che lo stato è diventato debole, ha perso forza, l’altra, che la sovranità dei mercati è ineluttabile. Questo avviene perché proposizioni di questo genere, e Marcuse ci ha insegnato a capirlo, sono tutte interne alla realtà che descrivono, non si chiedono da chi sono fatti i mercati e i loro interessi, di chi è il denaro che si muove, come avviene l’influenza dei mercati sulle politiche nazionali. L’analisi di Luciano Gallino, che mette invece in gioco un modo transitivo e dialettico di ragionare, e cioè che storicizza, permette di leggere in quei fenomeni qualche cosa di molto diverso. Secondo Gallino:

“La politica sopraffatta dall’economia e dalla finanza è una favola costruita in tacito accordo dalla prima e dalle seconde. In realtà è stata soprattutto la politica, attraverso le leggi che ha emanato nei parlamenti europei e nel Congresso degli Stati Uniti, grazie a normative concepite a ben guardare dalla organizzazioni internazionali – le cui azioni sono di fatto ispirate dai maggiori gruppi di pressione economica – a spalancare le porte al dominio delle corporations industriali e finanziarie. E’ avvenuto in mille modi: liberalizzando i movimenti di capitale; imponendo la libertà di commercio anche dove danneggiava gravemente i produttori locali20; esigendo dai paesi emergenti la

18 Ex Presidente della Repubblica francese.

19 L. Gallino, La lotta di classe, cit., p. 17. Il sociologo Paolo Barrucci, in un paper del 2009, stila questo esemplificativa lista: “Romano Prodi, da consulente Goldman Sachs a Presidente del Consiglio in Italia, Mario Draghi, da Vicepresidente Goldman Sachs a Governatore della Banca d'Italia, Mario Monti, dalla Commissione Europea sulla concorrenza alla Goldman Sachs, ora alla Presidenza del Consiglio, voluto da Napolitano, Massimo Tononi, dalla Goldman Sachs di Londra a sottosegretario all'Economia nel governo Prodi del 2006, Gianni Letta, membro dell'Advisory Board di GS è poi nominato sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Berlusconi (2008)”.

20 Un esempio: grazie ai rilevanti sussidi Ue all’agricoltura il burro bavarese o il formaggio francese si possono vendere in Mongolia o nel Sudan a prezzi inferiori rispetto alla produzione locale. Ne deriva un conflitto sui mercati interni che finisce per estromettere i coltivatori e gli allevatori locali dalla produzione (L. Gallino, op. cit., p. 35).

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totale apertura dei confini (compreso l’import di beni alimentari simili a quelli prodotti in loco), oltre che di beni industriali e di servizi. Pena ritorsioni economiche assai dure, come quelle previste dalle cosiddette politiche di aggiustamento strutturale, imposte dal Fondo monetario internazionale ai paesi fortemente indebitati per concedere loro l’accesso ai propri finanziamenti.21”

In sostanza, rispetto alla globalizzazione e alla finanziarizzazione dell’economia gli Stati hanno compiuto il primo movimento, approvando le leggi e i provvedimenti che le hanno rese possibili.

Non a caso si parla di liberalizzazioni per descrivere il fenomeno che in Italia è iniziato a partire dagli anni ’90 dello scorso secolo e che ha visto lo smantellamento delle società in mano pubblica che gestivano settori come i trasporti e le telecomunicazioni e la loro cessione a operatori privati, dunque al mercato.

Che quello della globalizzazione sia un tempo di governi forti viene comprovato dalle vicende della nostra forma di governo, che esamineremo prossimamente, le quali hanno visto, a partire dai primi anni 1980, una crescita enorme dei poteri dell’esecutivo, una inarrestabile riduzione di quelli del parlamento, e dove, l’attività del Governo tende a svolgersi tutta per decreti sulla cui conversione in legge il governo pone regolarmente la questione di fiducia, e rispetto ai quali, cioè, le Camere – sede naturale della discussione e del confronto politico – possono solo ‘prendere o lasciare’. E’ una tendenza che viene ‘consacrata’ nella revisione costituzionale del 2016.

La ricorrente osservazione circa il fatto che, nella globalizzazione, gli stati hanno perduto sovranità, non deve dunque far pensare che i governi siano divenuti più deboli; semmai, dello Stato, a indebolirsi è stata la dimensione rappresentativo-parlamentare, in cui si esprime la sovranità popolare, mentre la dimensione esecutiva, si è rafforzata.

E che la globalizzazione sia nemica della forza dello stato appare assai poco credibile, quando si pensi quanto sono importanti, nel suo contesto e per le sue finalità, le politiche fiscali, essenza stessa dell’attività statale. Anche sotto il profilo dei rapporti con gli ordinamenti sovranazionali, e in specie con l’Unione europea, dai quali il parlamento, almeno quello italiano, è sostanzialmente escluso, viene purtroppo da pensare che il senso che l’espressione ‘L’Italia accetta le limitazioni di sovranità necessarie a dare vita a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli” ha col tempo acquisito, sia stato più che altro quello di accettare le limitazioni della sovranità popolare, più che di quella dello Stato come tale e del potere esecutivo che ne è il nerbo operativo.

Gli effetti della globalizzazione sulle forme di stato e di governo. (continua) E) Le trasformazioni della produzione normativa: la rottura del principio di tipicità degli atti normativi

La globalizzazione si ripercuote sulla produzione del diritto in almeno due modi:

a) la perdita di importanza della legge (quale atto deliberato dall’organo parlamentare, rappresentativo del popolo sovrano) a favore invece degli atti normativi del Governo

b) La ‘deformalizzazione’ o ‘detipizzazione’ delle fonti del diritto.

21 L. Gallino, op. cit., p. 43.

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Al primo fenomeno abbiamo già fatto qualche riferimento, e vi tornermo più analiticamente nel corso dell’analisi delle istituzioni italiane; ora prendiamo in considerazione il secondo. Lo stato di diritto costituzionale, approfondendo il principio di legalità che proveniva dallo stato liberale, si è basato sull’idea la produzione di norme, cioè di comandi, prescrizioni, regole d’azione rivolte ai singoli o agli apparati pubblici fosse riservata a atti specifici (leggi, decreti, regolamenti) il cui procedimento di formazione è definito nella costituzione o nelle leggi e per la cui eventuale illegittimità l’ordinamento predispone forme di controllo (il sindacato di costituzionalità, il sindacato del giudice amministrativo). C’era, insomma, un principio di tipicità degli atti dei pubblici poteri: una legge è una legge e vale come tale perché è stata approvata secondo quelle certe forme che contraddistinguono la legge e la differenziano da ogni altro atto. E’ chiaro perché la tipicità degli atti normativi è importante: essa si oppone a che possano valere come ‘leggi’ le pure e semplici manifestazioni di volontà del più forte.Nell’era della globalizzazione, viceversa, si deve registrare che la produzione normativa passa frequentemente, e tipicamente, attraverso strumenti che la dogmatica tradizionale non annovera tra gli atti normativi, e che tanto meno seguono i procedimenti richiesti dalla Costituzione per l’approvazione degli atti normativi. Per quanto riguarda questi ultimi, si può pensare a come, nell’estate del 2011 una ‘lettera’ inviata dalla Banca centrale europea e dalla Commissione Europea al governo italiano enunciava punto per punto una serie di provvedimenti fiscali, di diritto del lavoro e previdenziali, che poi sono stati recepiti in atti del governo, e in leggi, quasi che quella ‘lettera’ fosse stata un atto di iniziativa legislativa, quale è possibile adottarne, secondo la nostra Costituzione, solo da parte dei parlamentari, del governo, di cinque consigli regionali o di cinquecentomila elettori. Per quanto riguarda lo spostamento della produzione delle norme che toccano la vita delle persone fuori dai canali formali della rappresentanza politica si può ricordare come una disposizione introdotta dalla manovra finanziaria nel 2011 permette ai contratti di lavoro stipulati a livello di singola azienda di derogare a norme di legge inerenti il trattamento dei lavoratori. Il fatto che ‘qualsiasi disposizione legislativa possa venire derogata se il sindacato più rappresentativo su base territoriale si accorda con l’azienda” rimette l’effettività della legge ‘eguale per tutti’ ad accordi che possono essere stipulati anche da ”un qualsiasi sindacato di comodo, o maggioritario anche in un ristretto ambito territoriale”, vale a dire, per essere espliciti, dall’azienda con se stessa (attraverso i cd sindacati gialli)22. Fenomeno molto rilevante è quello che vede norme di portata altamente condizionante scaturire da produzioni autocefale, cioè non disciplinate dalla legge, della stessa amministrazione, che dispiega nel periodo corrente una discrezionalità dall’intensità senza precedenti, generalmente in nome della razionalità organizzativa e finanziaria.

Per esempio, attraverso elementi quantitativi apparentemente neutri come l’imposizione di un certo rapporto, fisso e uguale in tutto il paese e in tutte le classi di laurea, del rapporto tra il numero di studenti e quello di professori per corso di laurea, si impongono ai dipartimenti universitari il taglio di classi di laurea e di insegnamenti, cioè si conduce una politica universitaria, e cioè una politica dell’educazione e della formazione, con esiti e intenzioni precise, che consistono nell’impoverimento dell’offerta formativa specialmente nelle università medio-piccole e decentrate, ciò che va a tutto danno di coloro che non sono in grado di pagarsi gli studi in altra sede, ma a vantaggio delle sedi più grandi, oltre che di quelle private, non destinatarie delle regole ministeriali ancorché in grado di offrire i medesimi titoli di quelle ‘pubbliche’, e che chi potrà permetterselo preferirà.

Negli ultimi anni, come torneremo a osservare, anche il procedimento di approvazione delle leggi ha subito, nel nostro Paese, tali alterazioni, da permettere di sollevare il dubbio che gli atti normativi in tal modo approvati rispondano alla forma tipica della legge.

22 L. Gallino, op. cit., p. 36. Nello stesso senso va il ‘Patto sulla produttività’, approvato dal Governo e i sindacati, esclusa la CGIL, nel novembre 2012.

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D. La forma di governo della Repubblica italiana: gli attori e le vicendeLe vicende della nostra forma di governo hanno profondamente risentito dei grandi cambiamenti che sono intercorsi tra l’assetto politico ed economico del dopoguerra e il presente.

1.La forma di governo parlamentare

Quella adottata dalla nostra Costituzione è una forma di governo parlamentare, in cui

o il corpo elettorale elegge direttamente il Parlamento (non il Governo)

o il Governo esprime la forza politica o le forze politiche che hanno in Parlamento la maggioranza dei seggi;

o il Governo assume la pienezza delle sue funzioni grazie alla fiducia delle Camere, e la perde, dovendo dimettersi, quando questa fiducia viene meno.

Il concetto di forma di governo in senso stretto riguarda i riguardi i rapporti tra gli organi di indirizzo politico; ma nella nostra forma di governo hanno un ruolo importante, accanto al parlamento e al governo, anche due organi “di garanzia”, cioè due organi che non hanno poteri di indirizzo politico, non sono eletti né designati dal popolo né responsabili di fronte a esso, e non perseguono un proprio progetto politico.

Questi due organi sono il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale . Essi sono definiti organi di garanzia perché la finalità delle loro funzioni è quella di assicurare, quindi “garantire”, il regolare svolgimento della vita pubblica secondo le norme della Costituzione.

La Corte costituzionale rimane più lontana dal circuito dell’indirizzo politico, ma le sue decisioni (la dichiarazione di incostituzionalità di una legge o di un atto avente forza di legge; la decisione di un conflitto tra i poteri dello stato) possono riverberarsi su di esso; l’influenza della giustizia costituzionale sul circuito della forma di governo ha avuto una dimostrazione eclatante quando, nel dicembre 2013, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della allora vigente legge elettorale. Molto più interno al circuito dell’indirizzo politico è il cioè dei rapporti tra i due organi di indirizzo politico ( il Parlamento e il Governo), è il Presidente della Repubblica, che, come vedremo, è dotato di attribuzioni che lo mettono in contatto con tutte le componenti della forma di governo e in particolare lo collocano in stretto rapporto con l’Esecutivo.

2. Il ruolo dei partiti politici e il nodo del sistema elettorale

Le norme della nostra Costituzione in tema di forma di governo presuppongono tutte l’esistenza dei partiti; come già detto, il modo in cui i partiti sono strutturati, i loro rapporti, le loro vicende, tutti questi elementi hanno avuto un condizionamento fortissimo nel qualificare il significato, cioè la portata effettiva, delle norme costituzionali sulla forma di governo, e in particolare i poteri del parlamento, il rapporto tra governo e parlamento, il comportamento del Presidente della Repubblica nella soluzione delle crisi.

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Un elemento estremamente influente nel funzionamento di una forma di governo è, pertanto, il sistema elettorale, che condiziona la composizione e l’atteggiamento dei partiti politici e il loro rapporto reciproco e così si ripercuote sull’intera forma di governo.Il sistema elettorale è stato definito come un modo per tradurre i voti in seggi. Infatti, il sistema elettorale serve a stabilire quanti “posti” (seggi) in parlamento avranno i diversi partiti politici che si candidano alle elezioni. Supponendo che gli elettori votanti siano 10 milioni, e i seggi in palio 100, le liste candidate 5 (A, B, C, D, E,) , che ricevono una 4 milioni di voti, una 3 milioni di voti, una un milione e mezzo di voti, una un milione e una mezzo milione di voti, quanti seggi andranno a ciascuna di esse? Questa domanda riceve risposte diverse a seconda del sistema elettorale adottato.

I sistemi elettorali si dividono in due grandi famiglie, i sistemi proporzionali e i sistemi maggioritari.

Il sistema elettorale proporzionale

In linea generale, nel sistema proporzionale le liste concorrenti ricevono un numero di seggi proporzionale ai voti ottenuti. Nell’esempio fatto sopra, la lista A avrà 40 deputati, B 30, C 15, D 10 e E 5. Il sistema proporzionale si associa al voto per lista e al calcolo proporzionale dei voti. Il territorio nazionale viene diviso in circoscrizioni, e le varie liste (A B C D E) presentano i loro candidati, raggruppati in elenchi (liste), in ciascuna circoscrizione. Per ciascuna circoscrizione si calcola il totale dei voti, si calcola come questo totale si ripartisce tra le singole liste, e si elegge per ciascuna lista il numero di rappresentanti proporzionale ai voti ottenuti (si tiene conto di tutte le liste di candidati che abbiano ottenuto almeno una percentuale minima di voti, detta quoziente elettorale). Può darsi che uno o più dei partiti in lizza in una singola circoscrizione abbia superato il quoziente elettorale, ma non raggiunga il numero di voti sufficiente ad eleggere almeno uno dei suoi. Nel caso del sistema elettorale vigente da noi tra il 1946 e il 1993, questi voti residui (resti) venivano calcolati a livello nazionale (cioè sommando tutti i resti nelle singole circoscrizioni) e dalla loro somma poteva uscire un deputato o due anche per una lista molto minoritaria.

Vantaggi del sistema elettorale proporzionaleI vantaggi del sistema elettorale proporzionale sono che l’organo che risulterà eletto, il Parlamento, rispecchierà in modo fedele gli orientamenti del corpo elettorale. A meno che non vengano fissate ‘soglie di sbarramento’ (es. ottenere almeno il 4% dei voti per poter partecipare alla ripartizione dei seggi), anche un partito con un piccolo seguito elettorale può sperare di eleggere almeno un deputato o senatore.

Di conseguenza, il sistema proporzionale - incoraggia i partiti a presentarsi alle elezioni- favorisce, in presenza di varietà di opinioni e interessi nel corpo elettorale, l’esistenza di un

numero alto di formazioni partitiche, che trovano seguito;- incoraggia gli elettori a votare, data l’alta possibilità di trovare una forza politica che

rispecchi i punti di vista degli elettori- promuove dunque la partecipazione.

Svantaggi del sistema proporzionaleD’altro canto, col sistema proporzionale (e in questo tradizionalmente molti vedono un suo svantaggio), può accadere che, alle elezioni, nessun partito ottiene un numero di seggi tale da permettere la formazione di un governo composto da quel solo partito. Nell’esempio che facevamo poco sopra, nessun partito potrebbe rappresentare da solo una maggioranza di governo, e occorrerebbe a questo scopo almeno che A e B si associassero. Supponendo che A e B, che

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raccolgono il più vasto seguito nel corpo elettorale, siano però sue partiti molto distanti tra loro, che non possono allearsi e dar vita insieme al governo, la maggioranza potrebbe venire dalla somma di A+C, ma se anche C non va d’accordo con A, la maggioranza richiederebbe almeno tre partiti, A+D+E. Il sistema elettorale proporzionale si associa dunque, spesso, a governi di coalizione, cioè formati da due o più partiti. I governi di coalizione tendono, o così sostiene, ad avere un programma più incerto e “compromissorio” (perché risulta dall’accordo tra i punti di vista diversi dei diversi partiti membri) e una vita più breve (c’è sempre il rischio che un partito che fa parte della maggioranza, al momento del voto in parlamento su una proposta del governo si “dissoci” e voti con la minoranza, o comunque provochi la crisi di governo), che non i governi composti da un solo partito (almeno se questo partito è coeso al suo interno). Inoltre, in presenza di un governo di coalizione partiti piccoli o anche molto piccoli possono acquistare un peso sproporzionato rispetto alla rappresentanza che effettivamente esprimono. Nel nostro esempio è grazie ad E, coi suoi 5 seggi, che il governo ha la maggioranza. Con la minaccia di dissociarsi dal governo E può avere una enorme influenza, non giustificata dal suo ridotto seguito elettorale (cd. ‘legge dell’ago della bilancia’). Se il partito piccolo usa il suo potere di influenza in modo ricattatorio (come accade quando il partito E minacciasse di abbandonare la coalizione, provocando la crisi di governo, per costringere i suoi alleati ad adottare una politica che non vogliono adottare e che conviene solo ad E), il governo finisce per non seguire più una logica effettivamente corrispondente alla rappresentanza elettorale, che riflette cioè i rapporti di forza per come sono usciti dalle elezioni, ma una che tende a riflettere solo i rapporti tra i partiti.

Il sistema elettorale maggioritarioIl sistema elettorale maggioritario assegna ai partiti concorrenti un numero di seggi più che proporzionale ai voti ottenuti e in genere tale da assicurare al partito che ha ottenuto più voti degli altri almeno la maggioranza assoluta in Parlamento.Se 5 partecipanti alle elezioni (A, B, C, D, E,) ricevono uno 4 milioni di voti, uno 3 milioni di voti, un altro un milione e mezzo di voti, un altro ancora un milione e un altro ancora mezzo milione di voti, che corrispondono al 40%, 30%, 10% e 5% dei voti, col proporzionale, A avrà 40 deputati, B 30, C 15, D 10 e E 5. Con un sistema maggioritario, A avrà almeno 51 deputati, e B C D ed E si ripartiranno i restanti 49 (mentre in un sistema elettorale proporzionale se ne ripartirebbero 60) con un quadro che potrebbe essere B: 27, C: 13, D: 8, E: 1. Nel maggioritario, chi ha più voti degli altri viene sovra-rappresentato, e chi ha meno voti viene sotto-rappresentato o rischia anche di non venire rappresentato affatto, pur avendo ottenuto voti. I sistemi maggioritari si associano di solito a un meccanismo di attribuzione dei voti per cui ogni circoscrizione elegge solo il o i candidati (questo varia a seconda del tipo di sistema maggioritario adottato) che hanno ottenuto la maggioranza dei voti, o almeno più voti degli altri. Per esempio, nella circoscrizione Lazio si candidano le nostre cinque liste A B C D E, e A ottiene più voti di tutte: solo il candidato o i candidati di A vengono eletti. In molti casi, e tradizionalmente, il sistema maggioritario è associato a circoscrizioni uninominali (le circoscrizioni elettorali sono molto piccole e in ciascuna di esse ogni forza politica presenta un candidato, viene eletto quello che raggiunge la maggioranza dei voti o che, al ‘ballottaggio’, cioè in una seconda fase del procedimento elettorale destinata a selezionare i due candidati che hanno raggiunto un certo numero di voti ma nessuno dei quali ha avuto la maggioranza, supera l’avversario). L’effetto maggioritario si ottiene anche quando al sistema proporzionale di calcolo dei voti viene aggiunto il cd. premio di maggioranza. In queste ipotesi, i voti vengono calcolati in modo proporzionale, ma poi si dà un premio alla lista che ha avuto più voti delle altre, di solito in modo da darle almeno la maggioranza assoluta dei seggi (e corrispondentemente, sottraendo seggi alle altre, rispetto a quelli cui col calcolo proporzionale avrebbero avuto titolo). Normalmente, viene

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stabilita, in questi casi, una ‘soglia’ cioè una percentuale dei voti totali che un partito deve raggiungere affinché scatti in suo favore il premio di maggioranza.A differenza dei sistemi elettorali proporzionali, che sono inclusivi, i sistemi maggioritari sono selettivi, nel senso che, anziché portare in parlamento i rappresentanti di tendenzialmente tutte le liste che si sono presentate, tendono a portarvi solo i rappresentanti delle due o tre liste che più voti.

Vantaggi e svantaggi del sistema elettorale maggioritarioI sistemi maggioritari

- tendono a scoraggiare le forze politiche piccole a presentarsi alle elezioni, se non in alleanza con altre forze politiche. Tendono dunque a semplificare il sistema dei partiti intorno a due tre grandi forze, oppure a spingere i partiti a formare coalizioni, anche ampie, pre-elettorali, cioè a presentarsi alleati alle elezioni in modo da usufruire insieme del premio di maggioranza.

- sono anche causa di disaffezione al voto: le persone che non si riconoscono in alcuna delle poche forze politiche che si candidano, preferiscono infatti non votare. Anche nel nostro paese, la partecipazione elettorale, col maggioritario, è costantemente diminuita, pur rimanendo molto alta: nel 1976 i votanti erano il 93,19%, nell’ultima elezione col proporzionale (1992) erano l’86, 31%, nel 2013 sono stati il 72,25%.

Il sistema elettorale maggioritario impone un sacrificio alla rappresentanza, in nome governabilità. Siccome dal sistema maggioritario esce una forza che in Parlamento ha almeno il 51 per cento dei seggi, esso renderebbe più facile la formazione del governo, più solida la maggioranza, più forte il programma di governo e più stabile, meno litigioso, l’esecutivo. O anche più rapida la formazione del Governo, dato che non è necessario formare coalizioni se un partito ha da solo più voti degli altri.

Nel novembre 2016, alle elezioni presidenziali americane, che si svolgono secondo un sistema schiettamente maggioritario, ha vinto Donald Trump, che però ha preso meno voti di Hilary Clinton, ma almeno chi sarebbe stato il nuovo Presidente degli Stati Uniti lo si è saputo il giorno stesso del voto. Il maggioritario sacrifica, per definizione, la rappresentanza a favore della ‘governabilità’.

I sistemi elettorali in ItaliaSino al 1993 in Italia le Camere sono state elette con un sistema elettorale proporzionale. Anche l’Assemblea Costituente era stata eletta con questo tipo di sistema elettorale. I motivi erano scritti nella nostra storia e nel nostro presente di allora. Il paese era uscito dalla guerra e dalla dittatura con profonde divisioni ideologiche: il corpo elettorale si orientava tra due forze tra loro polarizzate, un grande partito di ispirazione cattolica e filoatlantico, come la Democrazia Cristiana (DC) e un grande partito di ispirazione comunista (PCI). Dopo anni di dittatura, la democrazia doveva essere consolidata. Si pensò che un sistema elettorale proporzionale, perché questo sistema elettorale garantisce a tutti gli elettori di vedere la forza politica in cui si riconoscono rappresentata in parlamento. Ciò avrebbe facilitato il radicamento della democrazia: se le persone si fossero rispecchiate nelle istituzioni, le avrebbero sentite più vicine e vi si sarebbero riconosciute. Nel 1993, per effetto di un referendum abrogativo, e in concomitanza con un momento di profonda sfiducia nei partiti, dovuto all’emergere della conoscenza di gravi fatti corruttivi diffusi nel sistema dei partiti (cd “Tangentopoli”), la legge elettorale proporzionale fu abrogata. Essa venne sostituita da un sistema di tipo maggioritario misto a elementi di proporzionale (il 75% dei seggi veniva assegnato con metodo maggioritario e il restante 25% con metodo maggioritario). Nel 2005, fu approvata una nuova legge elettorale che adottava un sistema proporzionale di calcolo dei voti con premio di maggioranza, volta a garantire che comunque la coalizione o la singola lista più votata avesse la maggioranza in Parlamento (legge n. 270 del 2005, cd. Porcellum).

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Questa legge venne da subito molto criticata: 1) perché non consentiva agli elettori di esprimere il voto di preferenza, riservando così interamente ai partiti la scelta sulle possibilità di successo dei candidati, e perché, 2) il premio di maggioranza scattava a favore della coalizione che avesse avuto anche un solo voto più delle altre senza bisogno che avesse raggiunto una soglia minima di voti (se il partito o la coalizione A otteneva il 26% dei voti e B il 25% dei voti, A otteneva il 51% dei seggi). Tuttavia la caratteristica più significativa del Porcellum era 3) il modo di calcolo e distribuzione del premio di maggioranza. Alla Camera, la lista o la coalizione di liste che avevano ottenuto più voti delle altre (anche se non avevano raggiunto la maggioranza dei voti), conquistava un premio consistente nel conseguire 340 deputati (su 630), dunque la maggioranza assoluta. Al Senato il premio veniva calcolato su base regionale (se una forza politica aveva vinto in Liguria e perso in Veneto prendeva la percentuale di premio corrispondente alla Liguria, mentre la percentuale di premio corrispondente al Veneto la prendeva l’altra lista, e così via). Ne derivava che nessun partito poteva avere la stessa maggioranza nelle due Camere. Si trattava in altri termini di una legge maggioritaria che minava il principio maggioritario. Una abnormità che si spiega solo e che si spiega solo con l’interesse, dei partiti, di evitare che uno tra essi assumesse effettivamente una maggiore forza e capacità di governare senza dover ‘fare i conti’ o ‘venire a patti’ con gli altri. D’altra parte, è vero anche che siccome secondo la nostra Costituzione il Senato ‘è eletto a base regionale’, l’applicazione di un sistema maggioritario tende comunque a dare, nel Senato, esiti diversi rispetto a quelli della Camera, determinando maggioranze non omogenee. Questo tratto conferma l’affermazione di molti studiosi, secondo i quali la nostra Costituzione vigente, sia pure implicitamente, era costruita sul presupposto di un sistema elettorale proporzionale, perché i suoi istituti sono congegnati in un modo per cui non possono funzionare efficacemente in presenza di un sistema maggioritario (che, per esempio, rende troppo facile il procedimento di approvazione delle leggi di revisione costituzionale, che richiede la sola maggioranza assoluta, salvo il referendum popolare, comunque eventuale). E’ un fatto che la ‘disfunzionalità’ del sistema bicamerale ha iniziato a venire rilevata sempre più insistentemente proprio da quando si è avuta la svolta in senso maggioritario del sistema elettorale.

Dopo avere dichiarato inammissibile una richiesta di referendum abrogativo presentata nel 2010 contro la legge elettorale Porcellum, la Corte Costituzionale ha invece accolto una questione di legittimità costituzionale sollevata contro di essa, con il procedimento cd in via incidentale, in un processo che un comune cittadino aveva aperto per far accertare che la legge elettorale aveva menomato i suoi diritti di elettore). Il Porcellum venne dichiarato incostituzionale in particolare per il carattere spropositato del premio di maggioranza che alterava e distorceva gli orientamenti effettivi del corpo elettorale, per la mancanza della possibilità per gli elettori di esprimere preferenze, per l’irragionevole differenza nel modo di calcolare e distribuire il premio di maggioranza tra Camera e Senato.

Per effetto di questa decisione, tutte le parti della legge elettorale dichiarate incostituzionali sono state annullate e pertanto la legge elettorale del 2005 è rimasta in vigore ma senza il premio di maggioranza e con il metodo delle preferenze, ovverosia come una legge elettorale proporzionale.

E’ principio fondamentale di ogni democrazia, richiamato molte volte dalla stessa Corte costituzionale (specialmente per rendere difficile la strada dei referendum abrogativi sulle leggi elettorali, costretti a basarsi su quesiti ‘manipolativi’ tali per cui l’eventuale abrogazione della legge vigente si traduca comunque in un testo legislativo capace di funzionare) quello secondo cui per nessun motivo per nemmeno un’ora un paese democratico può vivere senza una legge elettorale (perché significherebbe che le elezioni non sono possibili, dunque che il principio di sovranità popolare è infranto).

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In teoria, dunque, già dal giorno successivo la dichiarazione di incostituzionalità elezioni avrebbero potuto essere convocate e si sarebbero potute svolgere usando la legge Porcellum nelle parti che avevano sopravvissuto alla dichiarazione di incostituzionalità (il cd. Consultellum), e che come dicevamo disegnavano un sistema di tipo proporzionale.

Vi stato in effetti, sia nell’opinione politica che in quella scientifica, chi ha considerato questa scelta non solo opportuna, ma anche doverosa, perché i rapporti di forza presenti in Parlamento, particolarmente il numero di seggi, dunque di voti, di cui dispone oggi il partito che ha goduto nel 2013 del premio di maggioranza erano, e sono, il frutto di una alterazione della rappresentanza politica talmente grave da aver giustificato la dichiarazione di incostituzionalità. Tuttavia, questa scelta fu stata immediatamente esclusa dall’allora Capo dello Stato Giorgio Napolitano, dal Governo (Letta) allora in carica e dalle forze politiche, per un motivo non dichiarato (l’esigenza posta in primo piano fu quella della ‘stabilità’) ma tutto sommato intuibile: ogni legge elettorale è il frutto di previsioni su quelli che saranno i risultati elettorali, la si fa, diciamo, in vista dell’ottenimento di certi schemi di governo. Votare con una legge che non è il risultato di quelle previsioni, ma della pura e semplice abrogazione di una parte di una legge preesistente sarebbe stato, per i partiti, esporsi al rischio di risultati ‘a caso’, ‘fuori schema’ che avrebbero reso difficile ‘la governabilità’.

Dunque, dopo la sent. della Corte costituzionale n. 1 del 2014 si è creata una situazione così descrivibile: vi era una legge elettorale formalmente vigente, ma era una legge elettorale con cui ‘non si poteva’ andare a votare; non perché qualcosa lo impedisse a livello giuridico e costituzionale, al contrario, ma perché lo impediva il calcolo politico. Le elezioni, temevano i partiti, avrebbero dato risultati imprevedibili, data, quanto meno, l’ impossibilità per i partiti di controllare la selezione degli eletti, impossibilità che sarebbe derivata dalla reintroduzione piena delle preferenze nel Consultellum.

In simili condizioni, avere una legge elettorale o non averla fa poca differenza, di fatto le elezioni non sono ‘politicamente’ possibili. Mai come in questo periodo il principio di sovranità popolare in Italia è apparso condizionato o subordinato alle ‘compatibilità’ dei partiti. Si è delineata una sorta di tacita regola secondo la quale, se i partiti non sono ‘pronti’, per un motivo o per un altro, ad andare ad elezioni, la legislatura non si può sciogliere prima della sua scadenza naturale per svolgere le elezioni). In sé e per sé, peraltro, quel dato, cioè il condizionamento delle nostre istituzioni da parte delle esigenze dei partiti politici, non costituisce una novità, e lo si può per certi versi addirittura considerare fisiologico in una democrazia fondata sulla rappresentanza partitica. Gli scioglimenti anticipati, la decisione di andare ad elezioni prima della scadenza della legislatura, hanno sempre corrisposto, da noi, a momenti di ri-allocazione dei rapporti tra i partiti e di ri-definizione delle alleanze di governo. In altre democrazie parlamentari si fa anche di più: si concede al Governo di sciogliere le Camere quando al partito che è al Governo ciò sembra opportuno per avere una conferma o anche un rafforzamento della propria maggioranza. Tuttavia non era mai successo, e non succede nelle democrazie, come quella britannica, che spesso vengono portate a esempio di modelli meglio funzionanti del nostro, che il controllo dei partiti sul momento elettorale si traducesse in una incertezza sulla legge elettorale. Nel periodo cui ci stiamo riferendo, che inizia con la dichiarazione di incostituzionalità del Porcellum, non si sapeva quale sarebbe stata la legge elettorale con cui si sarebbe andati a votare con la scadenza della legislatura. La vecchia, cioè il Consultellum? Una nuova?In democrazia, si è sempre detto, le regole devono pre-esistere al gioco, mentre l’incertezza sulla legge elettorale che per un certo periodo si è istituita in Italia (e che permane ancora adesso) dà icasticamente l’immagine di giocatori (i partiti) che ri-modellano le regole del gioco in funzione

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della partita che stanno giocando, o meglio, che sono disposti ad andare a giocare solo dopo essersi assicurati un notevole controllo circa quale esito avrà la partita. Una partita, in altri termini, del cui risultato sembra che gli elettori siano quasi apertamente chiamati solo a dare una ratifica a posteriori (o almeno il dubbio sorge che le cose stiano così).

La situazione sin qui descritta è cambiata di poco dopo l’approvazione, nel 2015, della nuova legge elettorale ‘Italicum’. Questa legge, entrata in vigore il 1 luglio 2016, è applicabile solo alla Camera dei Deputati perché il suo presupposto è che sarà applicata per la prima volta solo dopo l’entrata in vigore della revisione costituzionale che prevede, tra l’altro, che il Senato non sarà più eletto a suffragio universale e diretto. Il fatto che l’Italicum sia applicabile a una sola Camera ha contribuito a rendere ancora più impercorribile, dopo la sua approvazione, la strada delle elezioni, perché le Camere sono due e l’Italicum si applica a una sola.

Di fatto, dopo l’approvazione dell’Italicum, in Italia nessuno ha potuto dire né sapere con quale legge elettorale si sarebbe votato se si fossero sciolte le Camere, e oggi come oggi (novembre 2016) nessuno lo sa: con la legge risultante dall’annullamento del Porcellum, per entrambe le Camere? Con l’Italicum per la Camera e la legge risultante dall’annullamento del Porcellum, per il Senato?

Sembra che si dia per scontato che per nessun motivo le Camere potranno essere sciolte prima della scadenza naturale, nel 2018, e che, siccome il referendum costituzionale previsto per il 4 dicembre 2016 approverà la riforma, il problema sarà risolto perché alle prossime elezioni non si voterà più per il Senato. Qualora ciò non accadesse, il problema si riproporrebbe in effetti tal quale: voteremmo con l’Italicum alla Camera e il Consultellum al Senato? Dovrà essere fatta una nuova legge elettorale?

In realtà, non si capisce come abbia potuto essere considerato corretto, e conforme alla Costituzione, approvare una legge elettorale per una sola Camera, quando ce ne sono ancora due. Questo ha fatto della nostra una democrazia sospesa dove, qualunque cosa accada, gli elettori non potrebbero essere chiamati alle urne anticipatamente rispetto allo scioglimento naturale della legislatura; una democrazia senza legge elettorale, senza possibilità pratica di svolgimento delle elezioni.

Quanto alle caratteristiche dell’Italicum, queste sono:

• premio di maggioranza di 340 seggi (54%) alla lista che raggiunge il 40% dei voti al primo turno;• ballottaggio tra le due liste più votate se nessuna dovesse raggiungere la soglia del 40%, senza

possibilità di apparentamento tra liste. Il vincitore ottiene 340 seggi;• soglia di sbarramento unica al 3% su base nazionale per tutti i partiti;• suddivisione del territorio nazionale in 100 collegi plurinominali;• designazione di un capolista "bloccato" in ogni collegio da parte di ciascun partito, con possibilità

per i capilista di candidarsi in massimo 10 collegi;• possibilità per gli elettori di esprimere sulla scheda elettorale due preferenze "di genere"

(obbligatoriamente l'una di sesso diverso dall'altra, pena la nullità della seconda preferenza) da scegliere tra le liste di candidati presentate, con obbligo di designare capilista dello stesso sesso per non più del 60% dei collegi nella stessa circoscrizione (regione) e di compilare le liste seguendo l'alternanza uomo-donna.

Il sistema appena descritto solleva numerosi interrogativi soprattutto per il meccanismo del ballottaggio, il quale consente a una forza politica che ha un seguito elettorale qualsivoglia, anche

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molto basso, basta che sia superiore di un punto a quello della seconda23, di conquistare, al secondo turno, la maggioranza assoluta in Parlamento, vale a dire la maggioranza che non solo consente di governare ma che, qualora dovesse entrare in vigore la legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi, permette di controllare tutti i gangli più significativi della vita dell’ordinamento, a cominciare dalla elezione del Capo dello Stato e dalla sua messa in stato d’accusa, per le quali sono previste maggioranze inferiori o uguali a quella assoluta, e dalla organizzazione e funzionamento delle Camere, posto che sono approvati con la maggioranza assoluta i regolamenti parlamentari, norme-chiave sia per l’esercizio della funzione legislativa sia per i rapporti tra le due Camere e tra queste e il Governo, sia per i rapporti tra maggioranza e opposizione, sia per la determinazione dei diritti di partecipazione dei cittadini (il regolamento parlamentari disciplina le modalità e tempi di esame e di voto delle leggi di iniziativa popolare).

Un meccanismo maggioritario come quello congegnato nell’Italicum, e dato che questa legge è destinata ad essere applicata in un contesto nel quale una sola è la Camera elettiva e che regge il rapporto fiduciario col Governo, tende a far sì che il Governo nasca direttamente dalle elezioni, dovendo di necessità essere formato dal partito che ha vinto le elezioni e guidato dal suo leader.

La nostra forma di governo viene, così, di fatto trasformata in una molto simile a una forma presidenziale dualista, in cui il Governo o il Capo del Governo sono eletti direttamente, pur rimanendo formalmente una forma di governo parlamentare.

Si tratta di una trasformazione tacita, ma molto sostanziale, e nei fatti equivalente a quella che sarebbe stata determinata dalla riforma costituzionale promossa dal Governo Berlusconi, e respinta col referendum del 2006, che costituzionalizzava il sistema elettorale maggioritario..

II carattere parlamentare della forma di governo impone che sia il corpo elettorale a eleggere il Parlamento, e che il Governo si formi solo successivamente alle elezioni, sulla base della fiducia delle Camere. Nella forma di governo parlamentare il Parlamento, che rappresenta la Nazione e ne è eletto, è l’organo più importante (perché l’unico direttamente legittimato dall’elezione popolare). E per questo il Governo è politicamente responsabile solo davanti alle Camere, che hanno il potere/dovere di controllarlo, indirizzarlo ed eventualmente obbligarlo alle dimissioni. Il potere dovere delle Camere sul Governo è il potere del popolo di continuare a dirigere e controllare l’Esecutivo.

Se però il Governo è sostanzialmente eletto dal popolo, i meccanismi cui la forma di governo parlamentare affida l’equilibrio tra parlamento e governo, tra rappresentanti e rappresentati, non regge. Con l’Italicum, il Governo sarà, in sostanza, legittimato ‘direttamente’ dal voto popolare, e la fiducia parlamentare si ridurrà alla ratifica del risultato delle elezioni. (Il Presidente della Repubblica non potrà che dare l’incarico a formare il Governo al capo del partito che ha vinto le elezioni, questi formerà il Governo e non potrà che ottenere la fiducia della Camera, in cui ha la maggioranza assoluta).

E’ difficile non pensare che, in queste condizioni, il Governo si sentirà pari, se non superiore alla Camera, e il potere della Camera sia di controllare il Governo, sia di indirizzarlo, sarà molto diminuito (perderà ogni effettività di quella poca o pochissima che ha avuto sinora). Vi è dunque il rischio che una serie di procedimenti, come in particolare il voto di fiducia, o l’incarico da parte del Capo dello Stato a formare il Governo, si ridurranno a vuoti rituali, perché non avranno più alcuna importanza sostanziale.

23 In ipotesi al ballottaggio potrebbero confrontarsi due forze una col 15% dei voti l’altra col 14%, una vince il ballottaggio col 12% dei voti sull’altra che ne ottiene l’11%, una forza politica che esprime il 12% dell’elettorato ottiene il premio di maggioranza.

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L’indebolimento che il Parlamento subisce è sotto questo profilo molto significativo, ha ricadute importanti sul ‘circuito democratico’. Col nuovo meccanismo elettorale, il popolo potrà sì scegliere direttamente il Governo (meglio, il suo leader), ma solo per autorizzarlo a fare, poi, sostanzialmente quello che vuole, dal momento che i poteri di controllo e di indirizzo della Camera elettiva nei confronti del Governo (poteri in cui si condensano le garanzie dei governati nei confronti del governo) saranno, per i motivi espressi sin qui, estremamente fragilizzati. Non è irrealistico pensare che il Governo non avrà motivo di rispettare Camere che non hanno alcuna forza davanti a lui; e alle critiche o censure che le Camere gli rivolgessero potrebbe sempre replicare: voi non potete farmi cadere, né impormi indirizzi, né far valere controlli a me non graditi, in quanto io sono stato eletto direttamente.

Le vicende della forma di governo in Italia hanno teso dunque a riproporre, nonostante la presenza di una costituzione rigida, itinerari non dissimili da quelli d’età statutaria: modifiche tacite (la crescente centralità dell’Esecutivo, l’indebolimento del parlamento, il mutare del ruolo dei partiti, fenomeni legati alle modifiche del sistema elettorale e all’influsso sulla politica nazionale di processi globali di trasformazione) che oggi tentano di trovare un consolidamento in una revisione della Costituzione scritta, revisione che, peraltro, contiene in sé, come abbiamo ora detto, le premesse per ulteriori modifiche non scritte.