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2016 FASCICOLO 1 (ESTRATTO) PAOLA CHIARELLA A proposito del libro GUSTAVO ZAGREBELSKY, Moscacieca, Laterza, Roma-Bari, 2015, pp. 114

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2016FASCICOLO 1(ESTRATTO)

PAOLA CHIARELLA

A proposito del libro GUSTAVO ZAGREBELSKY, Moscacieca, Laterza,

Roma-Bari, 2015, pp. 114

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PAOLA CHIARELLA

A proposito del libro GUSTAVO ZAGREBELSKY, Moscacieca, Laterza, Roma-Bari, 2015, pp. 114

Il volume di Gustavo Zagrebelsky Moscacieca è una cruda analisi dello stato attuale della politica, mascherato da interventi estetici (più che curativi) dei gravi mali che (anche per sua colpa, mai ammessa) la affliggono. Il titolo del volume è intrigante poiché si basa sul contrasto tra l’innocente e spensierato gioco di bambini e la tragica ironia della condizione bendata della politica, che procede a tentoni seguendo l’inganno dell’udito, che insegue senza afferrare e che rovinosamente per tutti può incespicare e cadere. Sotto il buio della benda non vi sono stelle per orientarsi e a cui riferirsi per ritrovare la rotta. La politica di oggi è come il bambino bendato dei nostri giochi d’infanzia, che non sa dove andare perché non sa dove si trova. Ma il titolo evoca anche l’idea che la politica è un “trastullo che i riccastri si tengono tutto per sé”1, in quanto è diventata una forma di appagamento egoinomane di un’ambizione che essi «riempiono di allegria e di retorica felicità fatta di niente» (p. 113).

Docente di Teoria e tecnica della normazione e dell’interpretazione, Università “Magna Græcia” di Catanzaro.

1 L’espressione è presa in prestito dal romanzo di M. BARBERY, L’eleganza del riccio, Edizione Mondolibri, Milano, 2007, 25, (tit. orig. L’élégance du hérisson, Gallimard, Paris 2006).

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Sensazioni di inquietudine, disagio, indignazione, pericolo, sono suscitate dalla lettura del testo che interseca chiaramente la disintegrazione politica con il concepimento e la crescita di un’economia finanziaria ingorda di privatistico e illimitato guadagno. La descrizione dello stato di salute della politica, tratteggiato dal volume, può essere pittoricamente simboleggiato dal corpo esanime del giovane Marat nel celebre quadro di Jacques-Louis David, che nella mano sinistra tiene debolmente la lettera della sua assassina, mentre abbandona allo sfinimento la mano destra incapace oramai di dar seguito alla scrittura. Quella mano potrebbe continuare a scrivere soltanto sotto la pressione di un’altra mano, forte, decisa, determinata che, nel tempo in cui viviamo, è la pesante mano del mercato finanziario che scrive dictat poi promulgati con le vesti giuridiche delle riforme anche costituzionali. Ma, se dinanzi al giovane Marat si può concludere che “non c’è più niente da fare” se non constatarne la morte, dal volume di Zagrebelsky, nonostante il tono dolente di chi osserva una sciagura, traspare la “fede” nel carattere “miracoloso” della politica, quale unico spazio umano in cui «abbiamo realmente il diritto di aspettarci dei miracoli» 2, e dove ogni nuovo inizio, per l’infinita improbabilità del suo accadere, ha del miracoloso. Il nuovo inizio a cui dà avvio l’agire politico è possibile perché il senso della politica è la libertà di agire. Sotto l’asfissia dell’illibertà, la politica non può aspettarsi alcun miracolo, deve attendere la morte. Per riacquistare la

2 H. ARENDT, Che cos’è la politica, a cura di U. Luds, Einaudi, Torino, 2006, 26-27 (tit. orig. Was ist Politik, R. Piper GmbH & Co KG, Monaco, 1993).

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fede nel miracolo e contrastare “l’ideologia della rassegnazione” (p. 105) occorre allora riguadagnare la purezza della libertà politica per resistere nel deserto alla seduzione degli altri signori del mercato o all’inganno di succulenti e fraterni piatti di lenticchie. Molto probabilmente, ancora una volta, sarà la parola “resistenza” che ci salverà, ma essa ha bisogno di chiari ideali, di forza d’animo e di uno spirito incorrotto.

Nei primi tre capitoli del volume è sotto osservazione un concetto filosofico fondamentale: il tempo. Fondamentale non soltanto in senso trascendentale, quale condizione (insieme allo spazio) dell’esperienza, ma fondamentale anche nel senso hegeliano del costante dialogo del pensiero col proprio tempo che contraddistingue la filosofia dagli altri saperi. Da un siffatto dialogo il tempo in cui viviamo è per l’Autore connotato di impoliticità, esecutività e nichilismo.

Il tempo è divenuto impolitico poiché schiacciato dalla necessità. Non è il più campo della discussione e della deliberazione, ma sugli scranni della politica si obbedisce alla mano esecutiva per cui ci si concentra solo sui mezzi, mentre i fini diventano indiscutibili in quanto già decisi altrove, senza che importi esattamente dove. Il tempo in cui viviamo ha superato non soltanto la concezione teleologica della politica secondo gli antichi, il cui fine era l’ordine giusto tratteggiato dai filosofi e realizzato dai governanti, ma anche quella a noi più familiare che è la concezione progettante della politica presso i moderni, caratterizzata dalla scelta prioritaria dei fini e dalla conseguente

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predisposizione dei mezzi adeguati. Oggi “scelta” è una parola impiegata eufemisticamente per l’assenza di idee progettuali e per la finzione della deliberazione che di fatto è neutralizzata e spoliticizzata. Chi delibera deve possedere la fiducia dell’oligarchia finanziaria globalizzata e agisce come amministratore delegato di una sorta di Repubblica della tecno-finanza, che impone egualitariamente a tutti (tranne che ai potenti) gli effetti, per lo più negativi, dello sviluppo della potenza finanziaria, ricacciando sotto un sudario d’oblio le gloriose conquiste della democrazia costituzionale e del garantismo sociale del secondo dopo-guerra.

Il nostro tempo è poi, secondo l’Autore, anche esecutivo in ragione dell’invasione politica della classe dei tecnici. Posto che i politici sono spesso tacciati d’essere grossolani e ignoranti, posto che la situazione d’eccezione richiede competenze specifiche, posto che i tecnici sono scelti in quanto promossi nei loro rispettivi campi di provenienza, gli si faccia spazio temporaneamente finché chirurgicamente siano in grado di operare il male di cui è afflitto il paese. Poi si affiderà il convalescente ai politici. Ma dal 2011 l’eccezione è divenuta norma ed i colpi di sutura delle politiche di rigore continuano a stringere sulla pelle della gente comune col rischio che si muoia per complicazioni durante il lungo o volutamente prolungato intervento. Ma il tempo esecutivo è impolitico anche in quanto è volto, secondo l’Autore, a mantenere lo status quo e, dunque, ad impedire l’attivazione della catena causale di un nuovo inizio.

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Il tempo esecutivo si serve anche di un proprio linguaggio nel cui vocabolario il termine aziendalistico di governance sostituisce l’oramai demodé termine di “governo”, in quanto (e soprattutto, perché) si riferisce ad un organo costituzionale che deve essere trascurato. Da qui il passo è breve perché si abbandoni alla stanchezza di un inevitabile tramonto anche la funzione di governo. Il tempo esecutivo è privo dell’indirizzo politico che si forma «coralmente dal basso, attraverso procedure che coinvolgono le forze politiche e sociali e le rappresentano nelle istituzioni» (p. 15). Senza indirizzo politico, il governo in quanto governance, diventa gestione privata della cosa pubblica. Eppure nel tempo esecutivo si ha l’impressione che si avviino processi di cambiamento con largo impiego del termine “riforma” che l’Europa, per lunga tradizione, associa ad epoche di radicali trasformazioni. Oggi riforma è la parola ingannevole del consolidamento di un’ideologia non basata sul guadagno della lockiana (e, purtroppo, “volgarmente” intesa) fiducia del popolo, ma di quella aristocratica degli investitori, che si conquista sull’indirizzo non politico, ma economico, dei tagli nei diversi settori dello Stato sociale.

Il nostro tempo è infine nichilista per il particolare rapporto che si è instaurato tra denaro e potere. Il primo è divenuto lo stratificatore sociale non soltanto della categorizzazione dei ricchi e dei poveri, ma ancor più pericolosamente di quella dei potenti e dei deboli. Il denaro si lega al potere e diventa non più il mezzo per diversi fini, ma il mezzo e allo stesso tempo il fine di sé stesso. Il denaro

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dà potere ed il potere è esercitato per il denaro. Il denaro per il denaro punta alla crescita, all’accumulazione senza prospettiva di sviluppo sociale e genera corpi ipertrofici destinati a morire. La guerra, il bellum dei latini che nell’etimologia esplicata da Grozio deriva da duellum, a sua volta da duobus, si gioca al giorno d’oggi a colpi di denaro tra due schiere: quella corazzata dei finanzieri, promotori finanziari, banche e quella disarmata dei risparmiatori, lavoratori, disoccupati, migranti, militi ignoti del nostro tempo. E viene così in mente l’inversione della lotta di classe mobilitata dai capitalisti di tutto il mondo contro le attuali personificazioni del proletariato, di cui ha parlato diffusamente Luciano Gallino in un’intervista a cura di Paola Borgna (La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012).

Il volume procede approfondendo i legami tra finanza e politica e le loro ripercussioni sulla struttura costituzionale e sulla trama dei rapporti sociali. La filosofia politica è avvezza all’uso delle metafore ed una delle più note per i caratteri mostruosi è il Leviatano che, si ricorderà, nasce dalla penna di Hobbes come esigenza di ordine e di pace in un’Inghilterra insanguinata, come il resto d’Europa, dalla guerra civile. Ma a quell’ordine statale e internazionale che gli Stati europei si diedero col trattato di Westfalia, si può dire che sia subentrato un «nuovo disordine mondiale» (secondo l’espressione di Kenneth Jowitt) che simbolicamente può associarsi all’immagine mitologica dell’uroboro che già l’Autore ha presentato nel libro Contro la dittatura del presente. Perché

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è necessario un discorso sui fini (Laterza, Roma-Bari 2014). L’uroboro è l’insaziabile serpente che per nutrirsi divora la propria coda ed arriverà al punto di consumare sé stesso. Questo animale piuttosto che ricercare la pacificazione sociale è esso stesso la causa delle rivolte dei cittadini indignati dal suo insaziabile e spietato appetitus oeconomicus che dividendo la società nei comparti dei ricchi e dei poveri ne disintegra le ragioni dell’unità. Il serpente di cui parla l’Autore non solo è aggressivo e divoratore, ma più pericolosamente è cieco, in preda a bestiali istinti, che devono essere soddisfatti anche trangugiando i corpi da cui il Leviatano, per lo meno, si asteneva per assicurare la pace sociale.

La stratificazione sociale operata dal denaro è molto efficacemente rappresentata dall’Autore con l’immagine di tre cerchi concentrici e, forse, evocativamente infernali. Il cerchio più interno, ed in quanto tale più piccolo, è composto dai potenti privilegiati dal denaro e dal potere, il secondo dal più ampio ceto medio ed il terzo dall’ancor più esteso e vulnerabile, perché esterno, degli inutili, dei reietti, dei disoccupati, che nell’ideologia dell’uroboro sono semplici pesi inutili o più terribilmente nuove soggettività di “inutili bocche da sfamare”, che consumano senza produrre. L’acuta osservazione della posizione intermedia del ceto medio, impoverito sì, ma che ancora gode di blandizie da parte dei potenti, lo rappresenta quale vittima collusa di un sistema di potere, collocato nella zona grigia della supina accettazione per timore del terzo peggiore destino. L’uroboro ha iniziato a divorare la parte più

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esterna del cerchio, ma è soltanto una questione di tempo perché raggiunga anche il primo.

Le grandi trasformazioni operate dalla sostituzione della tecnica esecutiva alla politica si colgono non tanto nell’indebolimento dello Stato a cui lo stesso si era reso avvezzo a metà del secolo scorso, quanto nel mutamento della sua natura. Nel lessico politico mai prima d’ora si era parlato di Stato debitore che può preludere ad un vero e proprio fallimento. Questa trasformazione possiede un significato che non passa inosservato, né può essere considerato innocuo perché conduce alla creazione di un nuovo regime. La privazione degli strumenti di politica economica pongono gli Stati debitori in un vicolo cieco di “necessità” in cui occorre piegarsi alle «richieste strettamente politiche di riforme costituzionali e sociali» (p. 36). Per conseguirle si ricorre alla minaccia del fallimento dello Stato che è ritenuta tanto credibile quanto crescente è la sovranità economica piuttosto che politica. Ciò spiega anche il perché l’attitudine ad essere governati, la cosiddetta governabilità, oggi è riferita alla macchina di governo, alle istituzioni pubbliche col presupposto che vi sia qualcun altro in grado di sfruttare tale docilità di carattere. Dal “plebiscito delle urne” al “permanente plebiscito dei mercati mondiali” si è smarrita la forza legittimante dell’azione di governo, surrogata dalla legittimazione estranea della reattività dei mercati (p. 55). Da qui verrebbe da chiedersi se la classica definizione bodiniana della sovranità, quale potere “proprio” dello Stato (sebbene

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non più assoluto e perpetuo), possa avere ancora oggi funzione esplicativa di una qualche realtà.

La sovranità che, in quanto termine “sintetico” (M. S. Giannini), esprime il vertice del potere, il luogo cioè dove si prendono decisioni importanti, non si colloca, dunque, più tra il Governo, il Parlamento e gli elettori, ma nelle sedi di Wall Street o Piazza Affari. Da qui è nell’ordine delle cose considerare gli Stati partners commerciali, il cui patrimonio, anche artistico, può essere immesso sul mercato, per cui paradossalmente la proposta di vendita della fontana di Trevi da parte di Totò potrebbe col tempo non suscitare alcuna ilarità.

La declinazione della sovranità in termini economici ha ripercussioni normative negli “spostamenti costituzionali” osservati dall’Autore e che sono volti a indebolire il Parlamento ed “umiliarlo” nella perdita della funzione rappresentativa (p.68). Il mondo della finanza vuole plasmare le costituzioni post-belliche a propria immagine e per farlo occorre renderle una variante normativa degli ogm, per cui risultano ordinamenti geneticamente modificati, il cui nucleo costituzionale si trasforma in un «governo centralizzato e forte, lavoratori senza tutele costituzionali, limitazioni al diritto al dissenso (la protesta come “licenza”)» (p. 58). La novità costituzionale, di cui si va alla ricerca assecondando la mentalità aziendalistica ed esecutiva, ribalta la “vetusta” architettura della Costituzione, intesa quale archeologia di un antico e superato sapere, il cui ampio basamento assicura, invero, una fuga prospettica dal basso verso l’alto,

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in uno slancio di vita costituzionale che procede dalla società allo Stato. Nella scomposizione dell’originario assetto degli equilibri tra le istituzioni dello Stato, l’indirizzo di governo non procede dal Parlamento all’esecutivo, ma in una sorta di appropriazione indebita è il governo autore ed esecutore dell’indirizzo suddetto tanto che si assume il compito di educare il Parlamento, come pure si è avuto l’ardire di affermare (p. 59), quale chiaro segnale che l’esecutivo considera il parlamento un fantoccio, un finto paravento di immutata legalità. Col Parlamento sotto controllo governativo, le riforme elettorali consentono di proseguire il gioco della “moscacieca”, concedendo ad alcuni la gioia di vincere le elezioni come anticipazione di qualche “carota” per un parlamento sotto il “bastone” esecutivo. Aderente a tale scopo è la degradazione del Senato «in Camera secondaria» facendo apparire ragionevole, nella società dello spreco (!), l’ottica del risparmio e della prospettiva amministrativistica in un’istituzione che andrebbe preservata proprio per «ragioni conservative di risorse e opportunità per il futuro, a garanzia delle generazioni a venire» (p. 70).

Il volume prosegue analizzando le conseguenze degli spostamenti costituzionali in termini di «radicali rovesciamenti» (p. 77) che fanno assumere all’edificio costituzionale la morfologia di una piramide rovesciata che simboleggia la trionfale rivincita dello “Stato monoclasse” sullo “Stato pluriclasse” (M. S. Giannini). Laddove non sia più ravvisabile una varietà di gruppi sociali, portatori di differenziati interessi, ideologie e progetti, nel nuovo Stato

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monoclasse l’indirizzo impresso è quello indiscutibilmente univoco del governo tecnico-esecutivo, reso possibile dalla spoliticizzazione della società a causa della distruzione dei «rapporti di solidarietà di classe, di religione, di storia e cultura» (p. 78).

Una siffatta società amorfa «deve essere dunque messa in forma» tramite un programma di recupero di indirizzo tecnico, operazione che tuttavia apparirà paradossale soltanto a coloro che, come l’Autore, ricordano la lezione di Bobbio, che tra i nemici della democrazia individuò proprio la tecnica oggi invocata per salvarci dal disastro della democrazia. Piuttosto che rivitalizzare lo spirito democratico dei cittadini, essi devono permanere in uno stato di torpore per informarli, a riforme avvenute, anche di quelle degenerative del costituzionalismo. Per cui, la costituzione non è più “l’atto di un popolo che costituisce un governo” (Paine), ma addirittura l’atto di un governo che riscrive la Costituzione. Il rovesciamento in senso antidemocratico fa il pari con la situazione politica dell’Unione Europa rispetto alla quale si è persa di vista la finalità indicata dall’art. 11 della nostra Costituzione per le limitazioni necessarie di sovranità, che sono ammesse in condizione di parità con gli altri Stati in vista di un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni. Ed infatti, le limitazioni di sovranità “necessarie” sono, oggi intese “alla cieca” (p. 81), necessarie in sé, per “forza di cose”, e non in vista del fine indicato dai Costituenti.

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Nel volume trova spazio un’interessante riflessione sul concetto di felicità, termine al quale non siamo usi pensare in termini pubblici, ma come obiettivo individuale da ricercare al riparo da possibili impedimenti esterni. Eppure, se leggiamo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della Francia rivoluzionaria, la “felicità di tutti” è d’ora innanzi possibile, grazie all’indicazione di due sentieri preclusi dall’Ancien Regime: autonomia e liberazione dalle ingiustizie sociali. Dall’altra sponda dell’Atlantico, la Dichiarazione d’Indipendenza americana, di qualche anno anteriore, annovera la ricerca della felicità tra i diritti inalienabili dell’uomo e, a differenza di quella francese, ha assunto una nota individualistica nella ricerca di percorsi solitari negli “illimitati spazi” messi a disposizione dal nuovo mondo. La felicità è stata un arco orizzontalmente puntato come libertà di proiettarsi oltre le frontiere. In Europa ed in particolare in Francia, che non ha dovuto lottare per l’indipendenza, l’arco della felicità è stato puntato verticalmente e si è configurato come prodotto dei princìpi, e dunque come “benessere” pubblico e compito essenziale della “economia politica” (p. 86). Ma la concezione pubblica o privata della felicità dipende anche dallo “spazio” come variabile determinante, a seconda che esso sia pieno o vuoto, saturo o insaturo. Nello spazio francese, pieno e saturo, la felicità di ciascuno deve trovare il proprio “spazietto” accanto a quello altrui nella consapevolezza dell’interdipendenza delle reciproche posizioni. Negli sconfinati territori americani lo spazio

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vuoto e insaturo è riempito indipendentemente e indifferentemente da ciascuno a prescindere dal prossimo.

Queste riflessioni hanno delle ricadute attualissime, poiché i legami saturi creati dalla globalizzazione in cui è irretito l’intero pianeta fanno sì che «[n]essuna ricerca di felicità particolare [sia] innocente, nei confronti di tutti gli altri» (p. 88). E se la felicità oggi è intesa nei termini dell’appagamento della ricchezza, essa diventa un «fattore sociale d’ingiustizia e sfruttamento» (p. 88). E ciò spiega anche perché col tempo la felicità non sia stata più invocata come rivendicazione dagli oppressi, ma sia diventata lo stendardo dorato che sventola sugli stili di vita dei potenti. Agli oppressi non resta che lottare per un po’ di sicurezza e sopravvivere alle diverse forme di sfruttamento del lavoro. Sicché il valore della dignità del lavoro, e con esso della propria felicità, è barattato col plusvalore della sfruttata sicurezza.

Ed allora si spiega anche il perché la felicità sia scomparsa dal linguaggio giuridico-costituzionale per essere sostituita dal valore della dignità che, come appena considerato, è messo seriamente in pericolo dai risvolti economici della felicità dei potenti. Ma il pericolo non ne diluisce la salienza che è quella dell’eguale, reciproco riconoscimento di valore di ogni singola persona umana. La dignità è una qualità generale che appartiene a ciascuno, che dunque non si acquisisce, né si perde, da cui la sottile critica dell’Autore alle concezioni che sottopongono la vita umana al test di dignità, distinguendo tra vite degne e indegne di essere vissute. Con ciò, «la dignità celebra il suo

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trionfo assoluto, potendo annullare la sostanza cui si applica, orientare tutti i nostri giudizi e assorbire tutti gli altri valori, con esiti radicali che possono annullare la pietà, la solidarietà, l’amore. Ci può essere un totalitarismo della dignità» (p. 98), figlio del darwinismo sociale che ravvisa nella sopravvivenza (ovvero il diritto dei più forti) la legge profonda della vita (p. 100).

Ai nostri giorni la dignità entra in tensione col nichilismo della crescita materiale che è una forma di darwinismo economico-finanziario che promuove «selezioni a seconda della posizione che si occupa nella produzione o nel consumo», per cui ancora una volta il denaro è lo stratificatore sociale per eccellenza (p. 101-102). Coloro che per condizioni personali (quali ad esempio l’età, o la salute) sociali, economiche e politiche possono definirsi gli ultimi della terra, sono “sommersi” a milioni, senza che ne neppure ci si accorga di loro. Eppure non è forse proprio questo “accorgersi” di ciascun sommerso «il diritto “più fondamentale” di tutti gli altri diritti?» (p. 104).

Nell’epilogo, l’Autore trae le fila del discorso, criticando l’“ideologia della rassegnazione”, che giova a consolidare ingiuste posizioni di potere, non più contestate, né rimosse perché ritenute inevitabili. In un tempo come questo, che coniuga illibertà, irresponsabilità ed impoliticità, la democrazia è “assediata”, secondo l’espressione icastica di Marina Lalatta Costerbosa. L’assedio è opera dei teppisti della tecno-finanza, distruttori impuniti di risorse ed opportunità di vita. Alla distruzione segue la fuga, e a chi resta spetta il compito di leccarsi le

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ferite e di salvare il salvabile, come può (Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari 1999). Ma tutto ciò è reso possibile dalla presenza di Stati deboli, afflitti da una debolezza che non assomiglia per nulla alla mitezza costituzionale, ma alla problematica incapacità di compiere scelte collettive vincolanti e di metterle in atto (Offe, Modernity and the State: East, West, Polity Press, Cambridge-Mass. 1996).

Il “povero gigante scoronato”, di cui parlava Giuseppe Capograssi all’inizio del secolo scorso, dopo aver ceduto a suo tempo la corona alla rilevanza “costituzionalmente apprezzata” della società, ha perso oggi finanche la statura, per cui lo Stato (come il profeticamente “greco” Colosso di Rodi) rischia di diventare un cumulo di rovine, quando gli “spostamenti costituzionali” ne compromettono complessivamente il “giusto” equilibrio. Ma forse è il caso di ricordare che queste rovine sono e saranno, in primo luogo, miserie umane.

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