Health Online 21
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Il perIodIco dI InformazIone sulla sanItà IntegratIva
HEALTHsettembre/ottobre 2017 - n°21
In evIdenzaIpoacusIa, patologIa da non sottovalutare che rende dIffIcIle comunIcare e può favorIre l’Isolamento e la depressIone. IntervIsta al dott. gIancarlo cavanIglIa
InnovazIone
tecnologIa
curIosItà
La medicina rigenerativa nella cura dell’osteoartrite:
dal bisturi alla siringa
Vitamina D nella cura e nella prevenzione
dei tumori
eHealth. Perché la sanità digitale interessa le spese
di tutti gli italiani
Ganoderma: un fungo asiatico dalle
molteplici proprietà
La salute alla portata di tutti!
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health onlIneperIodIco bImestrale dI
InformazIone sulla sanItà IntegratIva
anno 4° settembre/ottobre 2017 - n°21
dIrettore responsabIlenicoletta mele
dIrettore edItorIaleIng. roberto anzanello
comItato dI redazIonealessandro brigato
mariachiara manopulogiulia riganelli
dIrezIone e proprIetàhealth Italia
via di santa cornelia, 900060 - formello (rm)
tutti i diritti sono riservati.nessuna parte può essere
riprodotta in alcun modo senza permesso scritto del direttore editoriale. articoli, notizie e recensioni firmati o siglati
esprimono soltanto l’opinione dell’autore e comportano di
conseguenza esclusivamente la sua responsabilità diretta.
IscrItto presso Il regIstro stampa del trIbunale dI tIvolIn. 2/2016 - diffusione telematican.3/2016 - diffusione cartacea
9 maggio 2016
ImpagInazIone e grafIcagiulia riganelli
ImmagInI© fotolia
tiratura 102.157 copie
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HEALTH
Il dibattito sulla sanità è continuo e serrato e le opinioni sono le più disparate, mentre dalle colonne del nostro periodico abbiamo sempre sostenuto e continuiamo a sostenere che il modello a tre pilastri, quali pubblico, integrativo e privato richiede, forse, solo qualche correttivo minimale, essendo l’impostazione determinatasi nel nostro Paese sicuramente adeguata e corretta da un punto di vista giuridico, legislativo, sociale, fiscale ed economico e può consentire di realizzare un modello sanitario all’avanguardia.
Preferiamo, quindi, lasciare a coloro che sostengono, molto spesso per interessi di parte, il motto di bartaliana memoria “l’e’ tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”, le sterili polemiche e le richieste di interventi non necessari, per concentrarci sul futuro.
Siamo convinti, infatti, che in campo sanitario sia necessario non una modifica organizzativa, giuridica, sociale, ma piuttosto una rivoluzione copernicana del pensiero corrente tale da consentire di mettere sempre più al centro dell’operato il diritto alla salute di ogni individuo.
Per attuare questa rivoluzione copernicana, i primi valori sui quali è indispensabile effettuare rapidamente un cambiamento di paradigma sono i concetti di prevenzione e cura.
Oggi la sanità si occupa di curare chi si ammala anche con importanti successi, con significativi investimenti tecnologici e con costante professionalità, ma il vero successo sarà sempre più legato ad evitare che le persone si ammalino.
Prevenire con percorsi specifici in campo alimentare, con precisi programmi di attività fisica, con un utilizzo mirato dei prodotti naturali, con esami diagnostici accurati e con la genetica, questa è la vera sfida che la sanità deve affrontare nel terzo millennio.
Il secondo valore sul quale è necessario attivare modelli organizzati è il concetto di accessibilità e di prossimità all’individuo.
Oggi la sanità prevede una serie di passaggi burocratici e formali da seguire per curarsi, ma la vera opportunità offerta dallo sviluppo tecnologico è quella di portare la sanità dove ci sono l’individui e non costringere gli individui ad andare verso la sanità, semplificando processi e metodologie ove tutto questo, in una logica di attuazione dei piani di prevenzione sanitaria, sarà ancora più indispensabile.
Approssimarsi all’individuo per consentirgli di apprendere quali sono i processi di prevenzione più adatti, spiegare e diffondere la cultura stessa della prevenzione, facilitare l’accesso ai sistemi di monitoraggio sarà la seconda importante sfida in campo sanitario.
Il terzo valore sul quale è necessario intervenire è quello della protezione, in quanto è vero che il diritto alla salute è un diritto di tutti, ma non bisogna dimenticare che c’è chi ha più diritto di altri per un semplice principio etico: i bambini, gli anziani, i
malati cronici, coloro che sono affetti da patologie importanti, le fasce deboli della popolazione, devono essere protetti più degli altri.
Oggi la sanità, per un principio di uguaglianza sociale, dedica tempo ed attenzione a tutti quasi in ugual misura, ma detto che chiunque ha diritto alla cura, c’è una bella differenza tra un individuo malato di bronchite ed un bambino con una patologia cardiaca grave.
Proteggere la comunità nel suo insieme significa creare sempre più centri specializzati focalizzati su singole patologie ove risiedano competenze e capacità tali da risolvere con successo il problema grave là dove esiste, questa sarà la terza importante sfida utile a creare un modello sanitario evoluto e socialmente equilibrato.
Sicuramente la rivoluzione copernicana sopra rappresentata costituisce un passaggio epocale e non possiamo minimamente pensare che lo Stato, quale entità giuridica, sociale ed economica, possa procedere solitario su questa strada.
Dobbiamo pretendere che la sanità pubblica si concentri sempre di più sulla protezione delle fasce deboli della popolazione offrendo loro capacità mediche specifiche, competenza, strumenti diagnostici evoluti, per garantire cure adeguate tramite centri specializzati presenti su tutto il territorio nazionale, trasformando ancor di più le strutture sanitarie pubbliche in località di protezione sanitaria reale e concreta.
Ma dobbiamo contestualmente promuovere sempre di più il concetto della mutualità affinché gli enti di sanità integrativa, quali i Fondi Sanitari, le Società Generali di Mutuo Soccorso e le Casse di Assistenza Sanitaria, unici enti abilitati a gestirla, si spingano sempre più sulla strada della prevenzione, creando percorsi adeguati e personalizzati, e sulla via della prossimità, realizzando strutture di facile acceso sempre più vicine alla popolazione, perché proprio il principio mutualistico sul quale si fondano è il valore sul quale costruire.
Infine dobbiamo utilizzare anche le competenze di chi offre prestazioni e coperture privatistiche affinché supporti con le proprie metodologie ed i propri strumenti questo processo evitando, però, le invasioni di campo che avvengono quando enti privati, che hanno come obiettivo l’utile economico, si vestono da enti di sanità integrativa, che basandosi sul concetto di mutualità hanno come obiettivo la salute dei propri associati.
Invece quindi di invocare modifiche delle regole esistenti, di veicolare concetti basati su inconsistenti diritti corporativi, di difendere interessi economici privati, dobbiamo occuparci tutti di supportare la rivoluzione copernicana della sanità del nostro paese, che peraltro è un processo già in atto, perché questo è l’unico modo per prevenire le patologie che hanno necessità di cure, farsi prossimi ad ogni individuo, proteggere i cittadini, salvaguardando nel contempo anche l’equilibrio economico del nostro grande paese e delle famiglie creando il sistema sanitario del futuro.
A cura di Roberto AnzanelloedItorIale
la sanità: prevenzione, prossimità, protezione
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GAnODeRMA: un FunGO asiatico dalle MOltePlICI PROPRIetà
VItAMInA D nella cura e nella PReVenzIOne DeI tuMORI. Intervista al Dott. toni Ibrahim
l’IPeRtenSIOne: cos’è e perché nOn VA tRASCuRAtA?
IPOACuSIe o disturbi dell’udito, unA PAtOlOGIA DA nOn SOttOVAlutAReIntervista al dott. Giancarlo Cavaniglia
In evIdenza
20eHeAltH. Perché lA SAnItà DIGItAle InteReSSA le SPeSe di tutti gli italiani
08la medicina rigenerativa nella CuRA Dell’OSteOARtRIte: dal bisturi alla SIRInGA
SOM
MA
RIO
36la tROMbOSI: quel “tronco sulla carreggiata” POCO COnOSCIutO DAGlI ItAlIAnI
32Il tuMORe AllA VeSCICA si può PReVenIRe
29Attenzione ai FARMACI AntIReFluSSO: l’AbuSO può aumentare il RISCHIO DI ICtuS
38ASMA: la nuova frontiera della terapia per COMbAtteRe lA FORMA GRAVe
HeAltH tIpsSapevi che...la griffonia è una pianta tropicale della tradizione
africana, appartenente alla famiglia delle leguminose. le sue proprietà sono state scoperte solo in anni recenti in occidente. È utile per migliorare l’umore, facilitare il sonno, controllare il senso di fame.
l’eucalipto è il miglior rimedio contro la tosse e il raffreddore perché è un ottimo antibatterico e disinfettante. l’infuso di eucalipto è eccellente per contrastare la tosse, mentre per il raffreddore potete fare dei fumenti per circa 15 minuti. In erboristeria trovate anche l’olio essenziale che, diffuso nell’ambiente, tende a distruggere i germi presenti nell’aria e aiuta a decongestionare le vie respiratorie.
nel nordic walking si usano dei bastoncini in spinta, facendo sì che
addominali, dorsali, tricipiti e glutei lavorino sodo. nello stesso tempo si ha un minor
carico sulla colonna vertebrale e su ginocchio, bacino e caviglie. con il ritmo
giusto, aiuta a perdere peso, bruciando il grasso in eccesso.
non si deve confondere lo stretching, importante da fare a fine allenamento con i muscoli caldi, con il riscaldamento da eseguire prima di iniziare ad allenarsi. lo stretching a freddo rischia infatti di fare male, aumentando il rischio di infortuni, mentre è consigliato un breve riscaldamento di 5 minuti di lavoro cardio oppure di 10 minuti di esercizio più dolce che risvegli il corpo.
Ricche di fibre e sali minerali, le castagne aiutano in caso di anemia, stanchezza psico-fisica, e anche in gravidanza, grazie all’apporto di acido folico. Inoltre, contengono vitamine, riducono il colesterolo e aiutano a riequilibrare la flora batterica.
tra i cibi da portare in tavola per assicurare al nostro organismo la giusta dose di vitamina c ci sono anche le verdure. le più ricche sono i cavoli bianchi e i broccoli, che si prestano a svariati usi in cucina, e i peperoni. I peperoni gialli rispetto ai rossi ne contengono una quantità maggiore.
un paio d’ore prima dell’attività fisica è
sempre consigliato uno spuntino veloce, evitando
alimenti troppo grassi o ricchi di zuccheri. dopo
l’allenamento si deve dare il giusto nutrimento
al corpo, una semplice centrifuga o un succo non
aiutano a reintegrare sali minerali e fibre consumate
durante lo sforzo.
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la medicina rigenerativa nella cura dell’osteoartrite: dal bisturi alla siringa
a cura dialessia elem
tecniche di avanguardia in ortopedia con l’uso delle
cellule staminali che migliorano il dolore alle articolazioni e
ripristinano la funzionalità di oltre il 50%.
la medicina rigenerativa sta prendendo sempre più piede
anche in campo ortopedico, tanto da essere considerata,
per pazienti che presentato problemi di osteoartrite, meglio
conosciuta come artrosi - un’alterazione degenerativa
cronica della cartilagine - una valida soluzione in grado
di controllare l’infiammazione, fermare la degenerazione
e rigenerare il tessuto danneggiato: le cellule staminali
mesenchimali infatti, sono capaci di differenziarsi in
condrociti, cellule di osso e cartilagine e produrre preziosi
fattori di crescita e nutritivi.
Attualmente tra le varie alternative studiate, le cellule più
efficaci sono le ADSC (Adipose Derived Stem Cell), ossia le
staminali prelevate dal tessuto adiposo. Si tratta di cellule
mesenchimali (quelle che formano tessuto connettivo),
destinate a creare impalcature solide ma flessibili e
che hanno mostrato una speciale e specifica attività
rigenerativa proprio nei confronti del tessuto cartilagineo.
L’efficacia, la maneggevolezza del trattamento, la minima
invasività e la sostanziale mancanza di effetti avversi
correlati sono i vantaggi del trattamento con le cellule
staminali. I risultati ottenuti fino ad ora in campo ortopedico
indicano infatti che la medicina rigenerativa sarà, in
un futuro prossimo, così complementare ai trattamenti
farmacologico e chirurgico tradizionali tanto che, in alcuni
casi, potrà sostituirli.
In cosa consiste il trattamento? Come agiscono e qual è
l’effetto delle cellule staminali nella cura delle patologie
ortopediche?
Health Online ha intervistato il dott. pierdanilo sanna,
Specialista in ortopedia e Consulente per la Medicina
Rigenerativa in ambito ortopedico a Dubai Healthcare
City.
“l’innovativo trattamento - ha detto Sanna - si basa
sull’utilizzo delle cellule mesenchimali (MSC), ovvero le
cellule staminali adulte estratte direttamente dal grasso
corporeo (ADSC) che sono in grado di rigenerare il tessuto
cartilagineo”.
l’osteoartrite è la patologia ortopedica in cui è
maggiormente applicabile la medicina rigenerativa?
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“l’osteoartrite è una condizione degenerativa
che interessa circa il 15% della popolazione
mondiale, senza distinzione di sesso e
comprendendo individui sempre più giovani
che svolgono attività sportiva.
tra i fattori di rischio anche il sovrappeso e
l’obesità, in cui la massa corporea ‘preme’
su cartilagini e articolazioni, danneggiandole
e usurandole precocemente. I sintomi più
comuni sono il dolore, la rigidità, la tensione,
ma anche la sindrome delle gambe senza riposo ed i
disturbi del sonno, un quadro che spesso evolve verso la
depressione e la tendenza a muoversi sempre meno nel
tentativo di evitare il dolore. la progressione della malattia
è dovuta alla graduale distruzione dei condrociti (le
cellule di sostegno della cartilagine) e alla loro incapacità
di riparare efficacemente i danni del tessuto a cui
appartengono. la cartilagine infatti è un tessuto che dopo
un danno non si rigenera facilmente. Inoltre, nel tessuto
danneggiato vengono prodotte sostanze (proteinasi) che
distruggono le cellule articolari inducendole al ‘suicidio’, il
processo noto con il termine ‘apoptosi’”.
Perché l’uso delle cellule staminali derivate dal tessuto
adiposo?
“Perché rappresentano l’approccio migliore per trattare
la degenerazione del tessuto osseo e della cartilagine. Il
tessuto adiposo ha mostrato innegabili vantaggi: dalla
semplicità di prelievo alla maggiore quantità di staminali
presenti (rispetto, ad esempio, a quelle del midollo osseo) e
alla spiccata superiorità del risultato dopo la coltura.
Oltre a differenziarsi in condrociti, le staminali del grasso
espanse possiedono una azione paracrina, ossia producono
fattori di crescita, antinfiammatori e immunomodulatori a
livello locale con la secrezione di molecole che proteggono
le cellule dalla distruzione.
Si tratta di un autotrapianto di cellule staminali, che
vengono estratte direttamente dal tessuto lipidico
prelevato al paziente e che vanno a stimolare l’organismo
stesso a riprodurre ciò che è insufficiente o danneggiato.
In che modo? le cellule staminali vengono veicolate nel
ginocchio attraverso iniezioni intra-articolari, dove riparano
le lesioni e producono localmente una serie di fattori
bioattivi che svolgono un’azione rigenerativa in loco con
un alto profilo di sicurezza biologica.
Diversi studi clinici hanno confermato un miglioramento
nei sintomi percepiti e misurati con tecniche di imaging
diagnostico, con valori incoraggianti: miglioramento
del 44% dei sintomi a 6 mesi, e 59% a 12 mesi (secondo
la scala IKDC che prende in esame le attività svolte
senza dolore, il numero di giorni con dolore nelle ultime 4
settimane, la severità dello stesso e la rigidità e il gonfiore).
Il trattamento con le cellule staminali in campo ortopedico
ha quindi permesso il superamento delle
tecniche tradizionali come acetaminofene,
antinfiammatori non steroidei (FANS) e
oppioidi che controllano i sintomi, ma non
sono in grado di rallentare la progressione
della malattia e la degenerazione del tessuto
cartilagine. Inoltre, l’assunzione cronica di
farmaci porta ad un aumento degli effetti
collaterali. Mentre le procedure chirurgiche
sono state considerate troppo invasive e
limitate a casi specifici”.
Procedure chirurgiche troppo invasive: ci può spiegare
qual è la differenza tra queste e l’auto trapianto di cellule
staminali derivate da tessuto adiposo?
“la protesi è una sostituzione articolare che va a rivestire
l’articolazione così da impedire lo sfregamento tra capi
articolari danneggiati e quindi elimina il dolore e la
sofferenza articolare. Si tratta di un intervento di chirurgia
cosiddetta “maggiore”, essendo invasiva e non scevra da
rischi e complicazioni. Con il trapianto di cellule staminali
derivate da tessuto adiposo, invece si va ad incidere
stimolando biologicamente la riformazione della cartilagine
stessa, in quanto le cellule staminali prelevate dal paziente
una volta innestate nell’articolazione riconoscono le
cellule cartilaginee, si moltiplicano e tappezzano la zona
danneggiata con un nuovo tessuto sano. Questo permette
quindi non di sostituire, ma di rigenerare il tessuto stesso
dell’organismo, si avrà così un impatto chirurgico meno
invasivo, un tempo di ripresa rapidissimo e soprattutto è
un intervento biologico che prevede l’innesto delle nostre
stesse cellule staminali senza nessun taglio o azione di tipo
meccanico. Con questa tecnica si ottiene un risultato
sorprendente senza controindicazioni e con dei tempi di
ripresa rapidi per il paziente, in quanto non ci sono incisioni
importanti, ma solo un piccolo foro di circa mezzo cm,
all’interno coscia o all’addome, necessario per il prelievo
del tessuto adiposo. è un intervento biocompatibile che
asseconda la natura, la perdita di sangue è praticamente
inesistente, non necessita di alcuna riabilitazione perché
non c’è perdita di tono muscolare e immobilizzazione
dell’arto”.
Come avviene tecnicamente il trapianto autologo di
tessuto adiposo?
“è una procedura mininvasiva. Al paziente viene prelevato
il grasso presente nella superficie addominale o dall’interno
coscia. l’uso che tradizionalmente viene fatto del grasso
in ortopedia prevede che dopo il prelievo - una mini
liposuzione come quella che si esegue in chirurgia plastica
in anestesia locale - il tessuto adiposo venga centrifugato
dagli esperti presenti in sala, per poi essere reinnestato,
10
circa 20 ml, questo viene posizionato in una
apposita valigetta da trasporto che viene
quindi consegnata al personale del bioscience
Institute”.
Cosa succede al campione di grasso una
volta giunto nella camera sterile? l’abbiamo
chiesto al dott. giuseppe marchesani, Director
di bioscience Clinic Middle east.
“una volta che il campione è giunto nelle Cells Factory
di bioscience viene velocemente accettato e trasferito
nell’area sterile - ha spiegato Marchesani - l’operatore
all’interno di una cappa a flusso laminare, con un processo
enzimatico, disgrega il tessuto nelle sue componenti
cellulari. dal campione quindi vengono eliminate le
componenti cellulari non utili o addirittura potenzialmente
dannose come i macrofagi, permettendo di isolare ed
espandere le sole cellule di nostro interesse. Il processo di
espansione è ottenuto con una tecnica di coltura cellulare
estremamente selettiva per le
cellule staminali mesenchimali
(ADSC). Al termine della
lavorazione, dopo circa 12
giorni dalla raccolta del grasso,
si avrà una popolazione di
cellule staminali assolutamente
omogenea e ben maggiore in
numero alle cellule staminali
inizialmente presenti. Orthoskill
sarà quindi pronto per
essere cryo-conservato nella
nostra cryo-banca o essere
reinnestato al paziente”.
Qual è il risultato?
“Partendo dal presupposto che il principio attivo in
questa tecnica di terapia rigenerativa sono le cellule
staminali mesenchimali, il risultato finale mira ad avere
un numero adeguato di cellule altamente omogenee
e prive di contaminazioni da impiegare in uno o più
trattamenti. Questa tecnica permette di superare i limiti
delle metodiche che impiegano le cellule staminali del
grasso senza una fase di coltura. Innanzitutto, il paziente
può riceve una precisa dose di cellule staminali idonea per
la sua patologia, vengono inoltre eliminate le componenti
cellulari che potrebbero essere addirittura lesive come i
macrofagi sopra citati o in genere le cellule leucocitarie.
Ortoskill quindi rappresenta una grandiosa e rivoluzionaria
novità?
“Assolutamente, può essere considerata una delle prime
per via articolare, con una semplice siringa
all’interno dell’articolazione danneggiata.
Il paziente stesso è quindi il donatore e allo
stesso tempo il ricevente: ecco perché si parla
di “autotrapianto” o “trapianto autologo” di
tessuto adiposo”.
negli ultimi anni ci sono stati ulteriori sviluppi
a conferma che la medicina rigenerativa
rappresenterà il futuro nella chirurgia ortopedica.
A San Marino e a Dubai è presente il bioscience Institute
(http://www.bioinst.com), un polo biotecnologico tra i più
qualificati e avanzati d’Europa, specializzato nella coltura
cellulare e nella crioconservazione di cellule staminali
autologhe che ha conseguito significativi risultati nella
ricerca mirata alle nuove applicazioni terapeutiche delle
cellule staminali e ottenuto importanti riconoscimenti
dalla comunità scientifica nazionale e internazionale.
bioscience ha messo in campo un trattamento innovativo
per la degenerazione ossea e cartilaginea che si chiama
Orthoskill.
Con questa tecnica, anziché
usare il grasso che contiene
poche cellule staminali e
molte cellule dannose come i
macrofagi, è possibile curare
le condizioni degenerative
dell’osso e della cartilagine,
con l’uso di un’adeguata ed
omogenea quantità di cellule
staminali mesenchimali. una
volta prelevato il tessuto
adiposo, le cellule staminali
vengono isolate dalle cellule
dannose e coltivate su un
supporto biodegradabile ricco
di fattori di crescita. Al termine della coltura, che dura circa
due settimane, le cellule vengono iniettate nella zona in
cui la cartilagine è danneggiata dove formano nuovo
tessuto sano.
“la procedura è simile a quella spiegata per il tessuto
adiposo - ha spiegato Sanna, che collabora con bioscience
Institute - ma il trattamento di Orthoskill prevede due step.
Il primo è la raccolta di una piccola quantità di grasso
attraverso una procedura ambulatoriale di mini liposuzione
in anestesia locale da cui è possibile estrarre un numero
di staminali sufficienti a generare, dopo la moltiplicazione
nella “fabbrica di cellule” come bioscience di San Marino
e Dubai, circa 50milioni di ADSC, divise in 5 provette da
10 milioni di cellule ciascuna, per altrettanti trattamenti.
Il secondo step è il reinnesto al paziente dopo circa 12-
15 gg tramite l’infiltrazione. La caratteristica innovativa
di Orthoskill sta proprio nella coltura ed espansione delle
cellule staminali. una volta fatto il prelievo di grasso di
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traslazioni della medicina rigenerativa che impiega
cellule staminali di grado farmaceutico in ambito clinico.
Dopotutto, prestigiosi istituti europei tra cui il Rizzoli si stanno
muovendo nella medesima direzione. un grandioso
progetto europeo, ADIPOA e II del VII Programma Quadro
dell’ue, che ha coinvolto 12 centri europei riuniti in un
consorzio coordinato dal Centro universitario Ospedaliero
di Montpellier, iniziato nel 2010 e totalmente finanziato
dalla comunità europea, che mira a sviluppare una
piattaforma per il trattamento dell’osteoartrite con cellule
mesenchimali ottenute dal tessuto adiposo, sta iniziando
in questi mesi a dare i primi entusiasmanti risultati.
L’ampio studio multicentrico ha confermato l’efficacia
del trattamento con le cellule staminali, sin dalla prima
applicazione: sono state usate due dosi di ASCs in 50
pazienti ciascuna, comparate con un gruppo di controllo
che ha ricevuto una iniezione di acido ialuronico. Per tutti
poi sono stati misurati i benefici e gli effetti sulla disabilità
e la qualità di vita con la scala di valutazione WOMAC
(la Western Ontario and McMaster universities Arthritis
Index) che ha registrato un miglioramento significativo
del dolore, sino al 40% in meno. Miglioramento del 30%
nella scala KOOS (Knee injury and Osteoarthritis Outcome
Score) e del 50% nell’indice VAS per la valutazione del
dolore”.
Il quantitativo di grasso adiposo viene quindi prelevato dal
chirurgo, inviato all’istituto che procede con l’isolamento
e la coltura delle cellule staminali mesenchimali e dopo
12 giorni è tutto pronto per essere iniettato al paziente.
12
Dott. Sanna, in questo caso come avviene l’innesto?
“esistono diverse opzioni. nella maggior parte dei
casi si procede con l’infiltrazione a mezzo siringa con
ago sottile e tutto viene fatto in regime ambulatoriale.
Questa procedura a seconda dell’articolazione da
infiltrare può prevedere l’utilizzo di un ecografia per
guidare precisamente l’ago durante il trattamento.
Questo è il caso dell’anca che, essendo contornata da
molti muscoli, è sicuramente meno “aggredibile” di un
ginocchio che è invece “palpabile” in quasi tutti i suoi
contorni.
In altri casi invece, specialmente dopo un trauma in
un giovane atleta o sportivo, che magari ha oltre al
danno cartilagineo altre lesioni associate ( lesione
del menisco, del legamento crociato) le cellule
staminali vengono iniettate direttamente nel tessuto
cartilagineo danneggiato questa volta però, con
approccio chirurgico mininvasivo secondo la metodica
artroscopica. Grazie ad una micro telecamera il
chirurgo può vedere direttamente il sito della lesione,
posizionando perfettamente l’ago in modo da eseguire
l’iniezione delle cellule con grande accuratezza e
precisione.
Esistono infine altre situazioni, quali ad esempio la necrosi
ossea, frequente soprattutto alla testa femorale, dove per
cause ancora non ben conosciute ma probabilmente
per un difetto di irrorazione sanguigna, il tessuto osseo
progressivamente va in sofferenza andando incontro a
una morte cellulare (necrosi). In questi casi si possono
iniettare le cellule staminali direttamente nell’arteria che
sappiamo essere quella afferente la zona del tessuto
sofferente o, in alternativa, tramite un piccolo foro
percutaneo; guidati da una tAC le cellule staminali
vengono iniettate nel punto di lesione”.
Ci sono effetti collaterali?
“Poiché usiamo solo le cellule del paziente, non ci sono rischi
di alcun tipo (contaminazione, rigetto o reazione allergica)”.
Quante volte occorre ripetere il trattamento?
“non esiste una frequenza ideale per eseguire queste
procedure, perché dipende dalla gravità della
condizione e dalla capacità intrinseca di guarigione
propria di ogni paziente.
Può essere sufficiente un trattamento o anche effettuarne
altri senza però eseguire un nuovo prelievo, visto che
le cellule possono essere tranquillamente conservate
per moltissimi anni in apposito criocongelatori. Quando
necessarie vengono scongelate e rese in pochi giorni
disponibili per il nuovo trattamento.”
Quali sono i tempi di guarigione? e quali sono i risultati?
“Dipende dal paziente. L’efficacia terapeutica del
prodotto biologico è strettamente correlata all’età
biologica del paziente e non solo a quella anagrafica.
l’età biologica è legata allo stile di vita e alla condizione
fisica generale (l’obesità, il fumo, l’alcool e le droghe
hanno un effetto negativo).
di solito il processo di riparazione con orthoskill richiede
2-3 mesi, ma il miglioramento si può notare anche prima,
circa 4-6 settimane dal trattamento. Ad ogni modo,
i risultati molto spesso sono davvero sorprendenti. Il
paziente che prima non camminava, non era in grado
di flettere o estendere il ginocchio, depresso per la
percezione negativa delle sue limitazioni e spaventato
dal dover affrontare un importante intervento chirurgico
non scevro da rischi quali quello protesico classico, lo si
rivede in poche settimane tornare alla quasi completa
ripresa funzionale, senza dolore e anche di buon umore”.
La ricerca scientifica in campo medico ha un ruolo
fondamentale. le tecniche innovative in campo
chirurgico sono possibili grazie anche all’impegno dei
ricercatori che lavorano in modo costante ogni giorno
per raggiungere dei grandi risultati, come in questo caso.
Dott. Marchesani, secondo lei cosa ci riserva il futuro?
“Sono certo che assisteremo ad un prepotente sviluppo
di un nuovo tipo di medicina, molto meno invasiva e
molto più custumizzata alle esigenze del paziente. Con il
procedere della nostra conoscenza in campo biomedico
la combinazione di tecniche di biologia cellulare,
molecolare e biotecnologia dei materiali sposteranno
l’attività dei medici dalla sala operatoria a ambienti più
simili a laboratori. basti pensare alle nuove terapie anti
tumorali con cellule CAR-T, roba fantascientifica solo 6
anni fa. La figura del medico sarà ancora più cruciale,
sarà suo il compito di amalgamare insieme le varie
tecnologie per l’ottenimento del miglior risultato clinico.
la collaborazione tra gli specialisti nei diversi settori,
come tra i biologi e gli ortopedici, è fondamentale
perché la professionalità è cruciale nella selezione del
paziente, nel suo monitoraggio e per corretto uso del
prodotto”.
lo sviluppo di un nuovo tipo di medicina sempre meno
invasiva, innovativa e più vicina e attenta alle esigenze
del paziente è possibile grazie alla collaborazione tra le
diverse branche mediche e scientifiche, ma soprattutto
alla ricerca. e come disse lo scienziato statunitense
Charles Sanders Peirce “Non si può bloccare la strada
della ricerca”.
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Il Fondo Garanzia Salute nasce nell’ottica di offrire un servizio in linea con i principi cardine cui si ispira una Società di Mutuo Soccorso, la solidarietà e la cooperazione, che riconoscono
nella sanità integrativa l’unica forma di assistenza concreta e sostenibile che opera senza scopo di lucro.
La volontà di diffondere il più possibile il principio di prevenzione ha spinto Mutua MBA ad affidarsi a Radio Radio, emittente radiofonica romana che sin dalla sua nascita si è caratterizzata come talk radio, ed elaborare per gli ascoltatori un’offerta di 9 sussidi:
Pop, Rock, Techno e Dance dedicati agli under 65, Jazz, Classica, Blues, Country e Folk per gli over 65.
La sanità d’eccellenza per le
famiglie di Radio Radio!
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l’ipertensione: cos’è e perché non va trascurata?
a cura dimariachiara manopulo
la pressione arteriosa è la forza esercitata dal sangue
contro la parete delle arterie. Ad ogni battito del cuore,
il sangue esce dal ventricolo sinistro attraverso la valvola
aortica, passa nell’aorta, per diffondersi poi a tutte le arterie.
Quando il cuore si contrae e il sangue passa nelle arterie, si
registra la pressione arteriosa più alta, ‘sistolica’ o ‘massima’;
tra un battito e l’altro, il cuore si riempie di sangue e all’interno
delle arterie si registra la pressione arteriosa più bassa, detta
‘diastolica’ o ‘minima’.
la misurazione della pressione si registra a livello periferico,
usualmente dal braccio e viene indicata da due numeri
che indicano la pressione arteriosa sistolica e la diastolica,
misurate in millimetri di mercurio (es. 120/80 mmHg).
Secondo la classificazione del JNC
7 (Joint National Committee on
Prevention, Detection, evaluation
and treatment of High blood
Pressure) si considera ‘normale’
una pressione sistolica inferiore
a 120 mmHg e una pressione
diastolica inferiore a 80 mmHg.
si parla di ipertensione quando i
valori di sistolica e/o di diastolica
superano i 140 (per la massima) o
i 90 (per la minima).
le stime dicono che 15 milioni di
italiani soffrono di ipertensione,
ma solamente la metà ne è
consapevole. tenere sotto
controllo la pressione, e mantenerla
nei livelli raccomandati, è invece
fondamentale, perché l’ipertensione rappresenta il fattore
di rischio più importante per l’ictus, per le malattie legate
all’invecchiamento (disturbi della memoria, disabilità),
ma anche per l’infarto del miocardio, gli aneurismi, le
arteriopatie periferiche, l’insufficienza renale cronica, la
retinopatia.
Per saperne di più, abbiamo fatto qualche domanda al dott.
roberto manopulo, Responsabile Servizio di Cardiologia,
Ospedale Privato Accreditato Villa Maria di Rimini.
Quali sono le cause di ipertensione?
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, definisce
l’ipertensione arteriosa il più frequente disordine
cardiovascolare, presente in circa il 20% della popolazione
adulta di molti paesi. In Italia, il Progetto RIFle (Risk Factors
and life expectancy), in oltre 70.000 individui esaminati,
con età compresa tra 20 e 69 anni, distribuiti in 13 regioni,
ha evidenziato una percentuale di ipertesi variabile dal
21,3 al 25,7%. Il fenomeno assume addirittura caratteristiche
eclatanti con l’avanzare dell’età.
Secondo dati epidemiologici statunitensi del Fourth
national Health and nutrition examination Survey, più
della metà degli ultrasessantacinquenni ed il 75% degli
ultrasettantacinquenni americani sono ipertesi. I dati relativi
alla popolazione anziana italiana, pur percentualmente
leggermente inferiori, sono sostanzialmente sovrapponibili
per caratteristiche intrinseche e per l’occorrenza di eventi
avversi cardiovascolari che è molto elevata.
nell’ipertensione arteriosa cosiddetta essenziale o primaria,
che rappresenta circa il 95% dei casi, non esiste una causa
precisa, identificabile, essendo
coinvolti più meccanismi regolatori,
coinvolgenti il sistema nervoso
autonomo e la funzione renale.
nel restante 5% dei soggetti invece,
l’ipertensione è la conseguenza di
anomalie congenite od acquisite,
che interessano i reni (stenosi
di una arteria renale), i surreni
(iperfunzione ghiandolare), i vasi
(coartazione aortica). In questi
casi, l’individuazione e la rimozione
delle cause, può accompagnarsi
alla normalizzazione dei valori
pressori.
l’aumento della pressione arteriosa
può anche dipendere dall’uso
ed abuso di alcune sostanze tra
cui, per esempio, la liquirizia, gli spray nasali, il cortisone,
la pillola anticoncezionale, la cocaina e le amfetamine.
Sospendendone l’assunzione, i valori pressori tornano alla
normalità.
esiste una predisposizione?
Si, la presenza in famiglia di soggetti ipertesi rappresenta
certamente una predisposizione importante. Vi sono poi
condizioni che possono favorire l’ipertensione, come
l’avanzare dell’età (invecchiamento vascolare, cioè
l’arteriosclerosi), il sovrappeso e l’obesità, il fumo, l’abuso
alcoolico, lo stress, una dieta ricca di sodio e povera di
potassio, la sedentarietà.
è possibile prevenirla?
Una dieta povera di sale, l’attività fisica moderata e
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trascurata?
In primo luogo l’ictus cerebrale, poi l’infarto miocardico,
l’insufficienza renale progressiva e la retinopatia che
può anche provocare una perdita del visus. In generale
l’ipertensione costituisce un fattore fondamentale nella
determinazione del processo arterio ed aterosclerotico.
Quali esami sono importanti per tenere sotto controllo
l’ipertensione?
È necessario monitorare l’assetto glicolipidico e la
funzione renale, oltre che sottoporsi periodicamente
a controlli strumentali come ecg a riposo e da sforzo,
ecocardiogramma, ecodoppler dei vasi del collo, per
individuare precocemente possibili evoluzioni del danno
vascolare. la strategia potrà essere diversa a seconda
della presenza o meno di altri fattori di rischio associati.
Oltre a modificare lo stile di vita, per abbassare la pressione
bisogna ricorrere comunque ai farmaci?
Nelle forme lievi, la modifica di stili di vita errati ed il rispetto
di una dieta iposodica, può essere sufficiente, ma in molti
casi è indispensabile un trattamento farmacologico. Per
fortuna al riguardo l’armamentario terapeutico è molto
ricco e variegato e la scelta del farmaco verrà fatta dal
medico sulla scorta della storia clinica del paziente e della
presenza di altre patologie associate. Stabilire l’efficacia
di un farmaco può richiedere un po’ di tempo ed alle
volte è necessario associarne più di uno, anche 4 o 5, tutti
con meccanismi di azione diversi, in grado di realizzare
un potenziamento reciproco. Può anche succedere che
dopo anni di terapia, un paziente richieda l’aggiunta od
il cambio di un farmaco; non è colpa dell’antiipertensivo
che perde efficacia, ma è l’effetto della pressione arteriosa,
che con gli anni cambia.
costante (30 minuti al giorno di camminata veloce o di
cyclette), il controllo del peso corporeo (la perdita di
peso, in caso di sovrappeso/obesità), l’astensione dal
fumo di sigaretta, un consumo controllato di alcoolici,
sono tutti atteggiamenti raccomandabili per mantenere
un buon controllo pressorio. tali misure, nelle forme
lievi di ipertensione, possono rappresentare da sole un
trattamento non farmacologico efficace, a meno che non
vi siano altri fattori di rischio importanti associati, come il
diabete mellito e l’ipercolesterolemia.
Come si può riconoscere? Quali sono i sintomi
dell’ipertensione?
I valori pressori normali per la popolazione adulta sono
compresi entro i 140/85 mmHg, pertanto, si parla di
ipertensione quando uno od entrambi siano costantemente
superiori.
Non esistono sintomi specifici, essendo questi attribuibili
anche a molte altre condizioni, ma i più frequenti sono
cefalea, sensazione di stordimento, vertigini, ronzii nelle
orecchie, alterazioni della vista (annebbiamento o
presenza di puntini luminosi davanti agli occhi), perdite di
sangue dal naso (epistassi).
La scarsità dei sintomi e la loro aspecificità sono il motivo
principale per cui spesso il paziente non si accorge di
avere la pressione alta. Per questo il solo modo per fare
diagnosi di ipertensione arteriosa è quello di sottoporsi
periodicamente a misurazioni pressorie. una individuazione
precoce consente di prevenire malattie cardiovascolari
invalidanti e spesso mortali. nei soggetti anziani l’aumento
dei valori pressori riguarda specificatamente quelli sistolici,
in quanto secondario ad un incremento della rigidità
vasale conseguente al processo di invecchiamento delle
arterie.
Quali possono essere le conseguenze di una ipertensione
16
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17
la vitamina D è un’alleata della salute, svolge diverse
funzioni per il benessere dell’organismo, ma dei suoi
numerosi benefici se ne parla poco.
Oltre a prevenire l’osteoporosi ed essere anche un valido
aiuto per le donne durante la post-menopausa, quando la
fragilità ossea aumenta, è stato scientificamente provato
che è in grado di ridurre di circa il 12% le infezioni acute delle
vie respiratore. non solo, è anche utile nella prevenzione
di alcune patologie intestinali. uno studio condotto da un
gruppo di ricerca dell’università di Sheffield, pubblicato
sulla rivista British Medical Journal Open Gastroenterology
ha indagato il legame tra deficit di vitamina D e colon
irritabile studiando un piccolo campione di 51 pazienti. Da
un semplice esame del sangue è emerso che la vitamina
D era insufficiente nell’82% dei casi: più sono i fastidi della
pancia, tanto più sono bassi i valori di vitamina D. nella
seconda fase dello studio, i ricercatori hanno poi verificato
che questi pazienti rispondevano bene agli integratori,
riuscendo a ripristinare valori normali di vitamina D e hanno
dichiarato di aver migliorato la loro qualità di vita rispetto
al disagio prodotto dalla colite; questo, secondo gli esperti,
potrebbe essere dovuto anche all’azione antidepressiva -
altra funzione - della vitamina D.
la vitamina D è quindi ormai considerata più un ormone
che una vitamina in quanto regola vari organi e sistemi,
tanto che la sua carenza è stata associata a diversi tipi di
malattie come il diabete, l’infarto, l’Alzheimer, la Sclerosi
multipla e potrebbe essere associata anche ad un maggior
rischio di sviluppare una neoplasia. Secondo alcuni studi ci
sarebbe una correlazione tra la carenza di vitamina D e
l’insorgenza dei tumori: è emerso, infatti, che persone con
alti livelli di questa vitamina nel sangue corrono meno rischi
di sviluppare tumori rispetto ai soggetti che hanno livelli
più bassi. Dai risultati di una ricerca condotta dai Cancer
treatment Centers of America, inoltre, è stato rilevato che
carenze di vitamina D sono spesso riscontrate in pazienti
oncologici indipendentemente dal loro stato nutrizionale.
Nello specifico, per quanto riguarda il rischio del cancro
al colon è stata condotta una ricerca – nell’ambito del
a cura dinicoletta mele vitamina d nella cura e nella
prevenzione dei tumori.Intervista al Dott. toni Ibrahim
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grande studio europeo ePIC alla cui realizzazione hanno
partecipato diversi ricercatori sostenuti da AIRC – dalla
quale è emerso che le persone con i più alti livelli di
vitamina d nel sangue hanno un rischio di cancro al colon
inferiore di circa il 40% rispetto a chi invece ne è carente.
un legame simile sembrerebbe esistere anche per altri tipi
di tumori.
Quali sono le neoplasie nelle quali la carenza è
maggiormente coinvolta? Qual è il ruolo della vitamina D
in oncologia?
Health Italia l’ha chiesto al dott. toni Ibrahim, Responsabile
della SSD Centro di Osteoncologia, tumori Rari e testa Collo
dell’Istituto Scientifico Romagnolo per lo Studio e la Cura dei
tumori (IRSt) IRCCS di Meldola (Forlì-Cesena).
Quando si è iniziato a pensare ad un possibile
ruolo della vitamina D in oncologia?
“I primi dati di letteratura risalgono agli anni
ottanta e si riferiscono a dati sull’osteosarcoma,
un tumore osseo nel quale la vitamina D e il
metabolismo del calcio ricoprono un ruolo
importante. Inoltre, negli stessi anni, si è
scoperto che le cellule tumorali del carcinoma
della mammella posseggono il recettore della
vitamina D, ovvero l’”interruttore” necessario
alle cellule per rispondere agli stimoli della
vitamina stessa. Inoltre, dati epidemiologici
sulla distribuzione geografica del cancro del
colon-retto negli Stati uniti, hanno mostrato
che la mortalità dovuta a questo tumore era più alta nei
luoghi dove la popolazione subiva un’esposizione alla luce
solare minore rispetto ad altri posti. Dato che la vitamina
D viene sintetizzata a livello cutaneo proprio in seguito
all’esposizione solare, si è ipotizzato che questa molecola
abbia un ruolo protettivo per questa patologia”.
Quali sono i tumori nei quali la carenza è maggiormente
coinvolta?
“Dagli studi fatti fino ad oggi risulta che i tumori nei quali la
carenza di vitamina D ha un ruolo significativo sono quelli
del colon retto, del seno, della prostata e dell’ovaio”.
Quali sono gli effetti della vitamina D sul tumore?
“la vitamina D ha diverse funzioni biologiche sia a livello
sistemico, come la regolazione della deposizione di calcio
nelle ossa, sia a livello cellulare. Quando la vitamina D si
lega al proprio recettore all’interno della cellula, questo
può entrare nel nucleo e legarsi a sequenze specifiche di
DNA modificando l’espressione genica delle cellule, ovvero
la qualità e la quantità di proteine che verranno prodotte
dalla cellula tumorale. In particolare, la vitamina D sembra
avere un effetto protettivo perché inibisce la proliferazione
di queste cellule, ne induce la morte e stimola i meccanismi
di riparo del DnA che sono spesso alterati nelle cellule
malate.
è quindi possibile introdurre la vitamina D in una cura
oncologica? e quali sono gli effetti quando si introduce
nella terapia di un paziente oncologico? la vitamina D è
anche in grado di rallentare lo sviluppo del cancro?
“l’oncologo deve tenere particolarmente sotto controllo
lo stato di vitamina D nei propri pazienti, soprattutto per il
mantenimento dello stato di salute dell’osso. Quando il livello
di questa vitamina è deficitario deve essere assolutamente
incrementata. I dati sull’effetto della vitamina D rispetto
all’andamento della malattia tumorale non
sono ancora definitivi e richiedono conferma
in studi clinici prospettici e soprattutto
randomizzati, ovvero confrontando più gruppi
di persone con carenza o presenza di vitamina
D”.
Che cosa si intende per salute dell’osso nel
paziente oncologico ?
“Il ruolo della vitamina d nel mantenimento
dell’integrità dell’osso è fondamentale e
soprattutto ne previene la disintegrazione.
Quest’ultima condizione avviene solitamente
dopo la menopausa nella donna e
l’andropausa nell’uomo, ma può verificarsi anche durante
i trattamenti oncologici. la perdita della salute dell’osso
è responsabile delle fratture, con conseguente impatto
negativo sulla sopravvivenza dei pazienti. Inoltre, nei
pazienti oncologici sembra che il mantenimento della
salute dell’osso abbia un ruolo sull’andamento della
malattia, in particolare nel tumore della mammella e
della prostata. la vitamina D è molto importante anche
per i pazienti con metastasi ossee e per questo occorre
integrarla affiancandola alle altre terapie”.
Vitamina D e prevenzione. Alcuni studi di laboratorio hanno
dimostrato che la vitamina D è in grado di svolgere attività
potenzialmente in grado di prevenire una neoplasia. è
così? Cosa ne pensa?
“effettivamente le funzioni biologiche della vitamina D
riportano a questa ipotesi. Oltre alle già citate attività
della vitamina D sulle cellule tumorali, è importante
menzionare la sua capacità di indurre la differenziazione
cellulare, ovvero la capacità delle cellule di caratterizzarsi
in specifici compiti. Questa differenziazione è correlata a
una diminuzione della proliferazione e dell’aggressività
19
tumorale. I dati epidemiologici riguardanti la vitamina D e
la prevenzione dei tumori sono contraddittori e richiedono
conferme in studi omogenei e randomizzati a più gruppi. A
livello più sistemico, come precedentemente detto, ricordo
che la vitamina D ha un ruolo importante nella regolazione
del metabolismo del calcio e nel mantenimento della salute
dell’osso mentre, indirettamente, la sua mancanza può
influenzare il processo di metastatizzazione delle cellule”.
In conclusione, c’è un ruolo della vitamina D in oncologia
o per adesso ci sono solo stimoli per migliorare la ricerca
e ottenere dati sicuri con lo scopo specifico di prevenire
il cancro e combattere la progressione della neoplasia?
Quali sono le aspettative?
“Ad oggi in oncologia sono in corso centinaia di studi
sulla vitamina D che coinvolgono sia gli ambiti legati alla
prevenzione sia quelli riguardanti l’andamento della malattia
tumorale. tuttavia, in attesa dei risultati di questi studi,
riteniamo molto importante il mantenimento della vitamina
D nel sangue a un buon livello, sia in pazienti che abbiano
già effettuato trattamenti chemioterapici e per i quali gli
esami diagnostici non rilevano più presenza di malattia, sia
in pazienti in cui il tumore risulti presente a livello locale o
sistemico, in particolare nelle ossa. Il consiglio generale è
quello di mantenere uno stile di vita sano attraverso una
buona alimentazione che segua le regole della dieta
mediterranea, praticando attività fisica, evitando di fumare
e limitando l’eccessiva esposizione al sole”.
la vitamina D ha un ruolo fondamentale per il benessere
del nostro organismo. Come sapere qual è il proprio valore?
e come garantire al nostro organismo una giusta quantità di
vitamina D?
“Con un semplice esame del sangue è possibile
determinare il livello di vitamina D presente in ciascuna
persona, analizzando il valore 25(OH)D. Per ottimizzare il
livello di vitamina D occorrerebbe trascorrere molto tempo
all’aria aperta esponendosi al sole (evitando la fascia
oraria compresa tra le 11 e le 16) e mangiando cibi che la
contengono.
buone fonti alimentari di vitamina D sono: il pesce e gli olii
che esso contiene, in particolare trota, sogliola, sgombro,
salmone, pesce spada, storione, tonno e sardine; le uova,
soprattutto il tuorlo; il latte, il burro, il fegato e i grassi animali,
come quelli contenuti nelle carni di pollo, di anatra e di
tacchino; i fiocchi di mais, i cereali e le verdure verdi. Purtroppo
spesso i pazienti oncologici subiscono fasi di ipovitaminosi
durante le quali è necessaria un’implementazione per via
orale. Il consiglio, comunque, sempre valido, è quello di
rivolgersi al proprio medico”.
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ITALIA
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ehealth. Perché la sanità digitale interessa le spese di tutti gli italiani
a cura dialessandro notarnicola
la trasformazione digitale della sanità pubblica è una
prospettiva realistica e necessaria che produce un
guadagno complessivo di 4 miliardi di euro in Italia.
Intrapresa da pochi anni, questa nuova via dello
“star bene” si figura con dei tratti diversi dalla sua
antecedente: è più vicina al paziente, equilibra il
rapporto qualità-costo, riduce sprechi e inefficienze.
“Ogni euro - ha fatto sapere la ministra della Salute,
beatrice lorenzin - verrà reinvestito per migliorare
l’assistenza ai cittadini”.
Con l’avanzare delle tecnologie e con il dilatarsi della
rete mediatica, anche il sistema sanitario avverte
l’esigenza di puntare su nuovi sistemi di gestione della
sanità. Come infatti avviene in molti ambiti, grazie al
digitale, le prospettive di sviluppo della medicina, e
dunque della ricerca, sono enormi, e rendono possibile
quel salto decisivo in grado di sostituire il paradigma
dell’assistenza tradizionale. l’obiettivo? Ottimizzare
l’allocazione delle risorse e innalzare la redditività
sociale.
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Sulla dimensione 3.0
della sanità se ne è
discusso in occasione
del convegno “Sanità
elettronica e processi
digitali nel settore della
salute”, avvenuto
a Roma presso la
Camera dei deputati.
l’incontro, moderato
dalla giornalista
della Rai Maria
Antonietta Spadorcia
e organizzato
d a l l ’ a s s o c i a z i o n e
Italian Digital
Revolution con il patrocinio dell’Agenzia per l’Italia
digitale, dell’Agenzia nazionale per i giovani, di Formez
PA, della Regione lazio e della fondazione “I Sud del
mondo”, ha illuminato uno scenario del tutto inedito,
a partire dalla cartella clinica digitale, strumento
indispensabile per modernizzare l’intero sistema e
puntare sulle nuove frontiere offerte dal maggiore
utilizzo delle tecnologie.
“la sanità italiana è a un bivio – ha spiegato Mauro nicastri
dell’Agenzia per l’Italia digitale e presidente dell’Aidr
– appare ormai chiaro
come l’innovazione digitale
sia essenziale per andare
verso una sanità sostenibile,
ma occorre accelerare
e rimuovere barriere e
inerzie all’innovazione
cominciando dal valorizzare
al meglio le iniziative di
successo già presenti
sul territorio italiano ed
europeo.
nei prossimi mesi sarà
importante utilizzare con
migliori risultati le risorse
economiche a disposizione,
come per esempio quelle del POn governance ‘ICt per
la salute’, la cui reale disponibilità dipenderà anche dalla
capacità di programmazione e progettualità. è inoltre
fondamentale investire nella cultura digitale di cittadini
e operatori, coinvolgendoli anche nella progettazione
dei nuovi servizi. In sintesi, è urgente agire affinché il SSN
e i sistemi sanitari regionali, che vanno resi sempre più
digitali, possano mettersi in marcia speditamente per
rispondere alle esigenze di utenti, medici e operatori”.
la Commissione europea ha definito l’eHealth,
traducibile con sanità
elettronica o digitale,
come “l’uso delle ICt
nei prodotti, servizi
e processi sanitari
a c c o m p a g n a t o
da cambiamenti di
ordine organizzativo
e sviluppo di nuove
competenze, il tutto
realizzato allo scopo
di migliorare la
salute dei pazienti,
dell’efficienza e della
produttività in ambito
sanitario, nonché a un
più alto valore economico e sociale della salute.
l’eHealth riguarda l’interazione tra i pazienti e chi offre i
servizi sanitari, la trasmissione di dati tra le varie istituzioni
o la comunicazione tra pazienti e/o professionisti in
ambito sanitario”. Quello che tuttavia interessa al
governo italiano è il risparmio della spesa pubblica
sanitaria: considerando che intorno al 2050 in europa gli
over 60 copriranno circa il 35% della popolazione la cura
digitale è l’unica soluzione dal momento che limando il
muro della burocrazia ed eliminando buona parte della
carta a vantaggio di cartelle e ricette elettroniche,
si raggiungerebbe un
risparmio notevole pari,
secondo cifre ufficiali, a
una diminuzione del 10-15 %
della spesa sanitaria, pari a
20 miliardi, ovvero un punto
del nostro Pil.
Ad oggi, tuttavia, c’è
da dire che malgrado il
considerevole impegno,
l’Italia non è ancora
preparata per affrontare
la storica svolta. lo dicono
i numeri: nel corso del 2016
solo l’1,1% della spesa
sanitaria è stato destinato alla digitalizzazione: 1,27
miliardi, con un calo del 5% rispetto all’anno precedente
(1,34 miliardi). Restando nel 2016 si è assistito a un
investimento organico di 65 milioni sulla cartella
elettronica.
Gli sforzi da parte del Paese però ci sono anche se si
tratta di un cammino praticato gradualmente ma che
vedrà grandi risultati sia in termini di risparmio pubblico
che di crescita delle aziende e dunque di business dei
profitti privati.
ScegliereSalute
ITALIA
23
Il ganoderma (Ganoderma lucidum), noto anche come
reishi rosso o nero, è un fungo medicinale, conosciuto
in cinese come lin zhisato. usato da più di duemila anni
nell’estremo oriente, è considerato quasi “miracoloso” ed
enormemente benefico e per questo è chiamato anche
“fungo dell’immortalità”.
Il ganoderma lucidum è usato in Oriente come supporto
per sostenere il cuore, rivitalizzare il corpo e tranquillizzare
lo spirito.
Si presenta come un grosso fungo dal colore rosso bruno
scuro e lucido e ha una consistenza legnosa. In natura
cresce sui tronchi di alberi caduti nel profondo delle foreste
della Cina e del Giappone, ma ora viene coltivato con
successo.
tutte le parti del fungo vengono utilizzate: frutto, spore e
micelio.
Come molti altri funghi medicinali cinesi, il reishi contiene
un complesso di carboidrati chiamati polisaccaridi,
accompagnati da proteine e amminoacidi.
I polisaccaridi, il beta-glucano e i triterpeni sono le sostanze
attive più benefiche presenti nel ganoderma, quelle che
racchiudono le potenti proprietà terapeutiche di questo
alimento, anche se, come dice la medicina tradizionale
cinese, nessuno dei singoli elementi preso singolarmente
può portare gli stessi benefici del consumo per intero del
fungo stesso.
Proprietà e benefici del Ganoderma
numerosi studi condotti nel corso degli ultimi trent’anni in
Giappone, Cina, America e Regno unito hanno evidenziato
che il consumo di ganoderma è utile nel trattamento di
molti disturbi e patologie, come
asma, ulcere, infiammazioni renali,
e perfino come supporto nei casi di
aIds.
la maggior parte delle ricerche ha
evidenziato l’uso del ganoderma
come integratore in grado di
apportare benefici normalizzando
e regolarizzando gli organi e le loro
funzioni.
È in grado di stimolare il sistema
immunitario, promuovendo la
capacità del nostro corpo di attivare
i naturali processi di guarigione.
Secondo la medicina tradizionale
cinese, il ganoderma ha tante altre proprietà:
• aiuta a diminuire i livelli di trigliceridi e colesterolo nel
sangue, regolando anche la pressione sanguigna.
Questo riduce il rischio di malattie cardiovascolari;
• è un antistaminico naturale, in grado di ridurre le
reazioni allergiche perché contiene una sostanza
simile all’idrocortisone;
• combatte infiammazioni e infezioni virali come
l’influenza;
• inibisce l’attività del virus dell’Herpes Simplex;
• svolge un’azione sedativa, calmante e rilassante, e
proprio per questo viene utilizzato nei casi di insonnia;
• migliora la concentrazione e la memoria;
• aiuta nel trattamento dei casi da sindrome da fatica
cronica;
• aiuta a mantenersi in forma: attiva il metabolismo,
trasformando il cibo in energia; viene utilizzato infatti
come ingrediente nei prodotti dimagranti;
• riequilibra la flora batterica intestinale;
• regola i livelli di zucchero nel sangue;
• fluidifica il sangue e quindi può prevenire le trombosi
• combatte i radicali liberi e aiuta a prevenire i tumori,
grazie al suo contenuto di Vitamine b, C, D.
Per tutte queste proprietà viene chiamato il “Fungo
Miracoloso”.
Come si può consumare?
Il ganoderma lucidum si può consumare in zuppe o nel tè,
ma il sapore estremamente amaro e la consistenza molto
legnosa non lo rendono apprezzabile.
lo si consuma più facilmente in forma di capsule, pastiglie
o in polvere; è in vendita nei negozi
specializzati.
si consiglia di consumarlo in sinergia
con la vitamina c, per potenziarne
gli effetti medicinali.
le proprietà del Ganoderma non
sono ancora riconosciute come
presidi medici ma solo come rimedio
naturale, pertanto si consiglia
di consultare il proprio medico
di fiducia qualora si assumano
medicinali contro l’ipertensione o
anticoagulanti, in caso di allergia
ai funghi e in stato di gravidanza o
allattamento.
a cura disilvia terracciano ganoderma:
un fungo asiatico dalle molteplici proprietà
24
Ipoacusie o disturbi dell’udito, una patologia da non sottovalutare Intervista al dott. Giancarlo Cavaniglia
a cura dinicoletta mele
Si chiamano disturbi dell’udito o ipoacusie i deficit della
funzione uditiva. Possono variare non solo nella tipologia,
ma anche in origine e intensità: la compromissione
dell’udito comporta una perdita parziale della funzione
uditiva, con livelli che vanno da leggera a moderata,
severa, profonda, mentre si definisce anacusia la perdita
totale delle capacità uditive. Se il disturbo interessa un solo
orecchio si definisce unilaterale.
I disturbi dell’udito dipendono da cause diverse e possono
essere fortemente invalidanti. l’impatto economico e
sociale sui singoli individui e sulla comunità può risultare
molto pesante.
la funzione uditiva svolge un ruolo importante per tutto
l’arco della vita e quando questa viene meno occorre
agire immediatamente, perché oltre alle conseguenze
sulla salute si possono presentare dei risvolti a livello sociale.
I problemi dell’udito infatti, rendono difficile comunicare e
possono così favorire l’isolamento e la depressione della
persona colpita dalla patologia. A tal proposito, l’invito
dell’Organizzazione Mondiale delle Sanità (OMS) è quello
di non ignorare e trascurare i disturbi dell’udito.
Health Online ha approfondito l’argomento grazie
all’autorevole collaborazione del dott. giancarlo
cavaniglia, medico chirurgo specializzato in
otorinolaringoiatria che si occupa di diagnosi e terapia dei
disturbi dell’udito.
Dott. Cavaniglia, quali sono le principali cause che portano
ai disturbi dell’udito? Chi sono i soggetti maggiormente a
rischio? La sordità può essere ereditaria?
“Per prima cosa bisogna distinguere le ipoacusie in
trasmissive e neurosensoriali. le prime sono legate ad
un danno dell’orecchio medio e ad un problema di
conduzione della catena ossiculare (martello, incudine,
staffa). le seconde ad un danno a livello della coclea
(dove il suono viene trasformato in un impulso nervoso) o
24
25
a livello del nervo acustico.
un capitolo a parte è rappresentato
dalle cosiddette sordità centrali.
le cause possono essere ereditarie,
infettive (virali e batteriche),
degenerative, traumatiche, vascolari,
etc.
I soggetti maggiormente a rischio
sono i bambini, i soggetti esposti in
maniera continuativa a rumore, i
soggetti affetti da patologie croniche
neurologiche e dismetaboliche.
Alcune forme di sordità possono
essere ereditarie, per altre ci può
essere una predisposizione familiare”.
L’ipoacusia viene classificata in quattro livelli ed ogni
grado implica un diverso tipo di approccio medico e
sociale. Può spiegare i livelli e quali sono quelli considerati
invalidanti?
“la ipoacusia leggera è di solito una forma trasmissiva
legata ad una flogosi delle prime vie aeree transitoria che
regredisce completamente con una terapia medica o
termale.
la ipoacusia moderata è legata o ad una cronicizzazione
di un processo infiammatorio delle prime vie aeree o ad un
iniziale danno neurosensoriale. La terapia non può essere
solo medica, ma a seconda dell’età del paziente e della
gravità della patologia correlata può essere necessario
ricorrere ad un trattamento chirurgico o protesico.
la ipoacusia severa comporta un serio problema
di integrazione sociale, si rende quindi necessario il
trattamento della patologia principale, una protesizzazione
acustica e a seconda dell’età anche ad una rieducazione
logopedica.
la ipoacusia profonda comporta gravi ripercussioni nella
vita di relazione, con la necessità relativamente all’età del
paziente di ricorrere, dove una protesizzazione tradizionale
non fosse sufficiente, ad un intervento chirurgico di
impianto cocleare, con tutto il successivo iter riabilitativo”.
Sulla base dell’origine e dell’intensità, in che modo i deficit
della funzione uditiva si possono curare? Quali sono le
tecniche, gli ausili e gli apparecchi oggi maggiormente
utilizzati per risolvere i problemi legati ai disturbi dell’udito?
“Di solito le patologie dell’orecchio medio, quindi quelle
di tipo trasmissivo nelle quali non c’è un danno del nervo
acustico, siano esse batteriche cronicizzate, o degenerative
(colesteatoma congenito o secondario) possono essere
curate con un intervento chirurgico
di timpanoplastica. nel trattamento
chirurgico, il medico ha però
come primo obiettivo la risoluzione
dell’evento morboso che ha causato
la ipoacusia e questo può talvolta
essere in contrasto con il recupero
completo della funzione uditiva. le
forme neurosensoriali non possono
trarre nessun giovamento da un
trattamento chirurgico che non può
ripristinare la funzione nervosa. unica
eccezione sono le forme profonde,
che in casi selezionati possono essere
sottoposte ad un impianto cocleare
(intervento che deve essere effettuato solamente presso
Centri di Riferimento). le tecniche chirurgiche tendono a
ricostituire la continuità della catena ossiculare, quando
non è possibile riutilizzare tutti gli ossicini si utilizzano protesi
di materiale sintetico biocompatibile che sostituiscono
l’ossicino mancante.
Per quanto riguarda le protesi acustiche, oggi sono stati
raggiunti risultati di altissimo livello con la tecnologia digitale
e la possibilità di applicare delle protesi direttamente
all’interno dell’orecchio medio a contatto con la finestra
ovale.
l’importante è utilizzare gli ausili protesici tanto più
precocemente quanto più è giovane il paziente e
ricorrere quando necessario ad un supporto logopedico
nell’infanzia e psicologico nell’età più avanzata”.
Riassumendo, quando l’intervento chirurgico ed è risolutivo
in maniera definitiva?
“Il trattamento chirurgico è indicato nella maggior parte
delle ipoacusie legate ad una patologia dell’orecchio
medio. In medicina è difficile garantire un risultato
definitivo: al di fuori di patologie malformative che possono
essere spesso risolte, le affezioni flogistiche attecchiscono
su una persona piuttosto che su un’altra, per una sorta di
predisposizione soggettiva che rimane e che può favorire
ricadute o nuove patologie dello stesso organo”.
è possibile e in che modo prevenire i disturbi dell’udito?
“bisogna per prima cosa chiarire due punti. Prima di
tutto, le patologie dell’orecchio non sono mai primitive,
ma insorgono come complicazione diffusa dalle
prime vie aeree (flogosi rinosinusali, faringotonsilliti,
episodi infiammatori delle vegetazioni adenoidee) poi
nell’infiammazione e infezione dell’orecchio medio la
In evIdenza
26
ed è in gran parte dovuto ad obesità o alla mancanza
di attività fisica. I soggetti affetti da diabete tipo 2 non
producono una quantità sufficiente di insulina o non sono
in grado di usarla in modo efficace.
Il diabete gestazionale insorge nelle donne in gravidanza
che precedentemente non hanno mai sofferto di diabete.
Viene diagnosticato attraverso una analisi del sangue
eseguita durante la gravidanza. non ne sono state
individuate le cause specifiche, ma si ritiene che gli ormoni
prodotti durante la gravidanza aumentino la resistenza
della donna all’insulina, con conseguente riduzione della
tolleranza al glucosio.
non si sa molto dell’interazione tra diabete ed ipoacusia.
In effetti l’ipoacusia potrebbe essere una complicanza
sottovalutata del diabete, sia di tipo 1 che di tipo 2. A causa
di tutto ciò e della consapevolezza generalmente limitata
delle conseguenze negative dell’ipoacusia sul benessere
di una persona, a molti pazienti diabetici non viene
diagnosticata la propria ipoacusia oppure preferiscono
ignorare la propria condizione
senza fare nulla al riguardo. la
ipoacusia è prevalentemente
di tipo neurosensoriale. nel
diabete tipo 1 esiste una forte
correlazione con l’ipoacusia
in età relativamente giovanile,
prima che gli effetti cumulativi
di invecchiamento, esposizione
al rumore ed altri fattori
contribuiscano al deficit uditivo.
nel diabete tipo 2 la malattia
e l’ipoacusia sono normalmente associate all’età. la
maggiore differenza uditiva si manifesta nelle frequenze
medie ed acute. l’incidenza e la gravità dell’ipoacusia
sembrano essere correlate alla quantità di tempo trascorso
dall’insorgere del diabete ed all’efficienza del controllo
dei loro livelli di glucosio.
Complicazioni ben note del diabete coinvolgono
cambiamenti patogenetici e micro-vascolari dei nervi
sensoriali. Osservazioni post-mortem di pazienti diabetici
mostrano un ispessimento dei capillari nella stria vascularis,
un ispessimento delle pareti dei vasi della membrana
basilare ed una maggiore perdita delle cellule ciliate
esterne nel giro basale inferiore oltre alla demielinizzazione
dell’ottavo nervo cranico Inoltre il restringimento dell’arteria
uditiva interna è un altro cambiamento vascolare causato
dal diabete”.
Oltre ad una correlazione tra i disturbi dell’udito e il diabete,
esiste una relazione bidirezionale tra disturbi acustici e
deterioramento cognitivo in età avanzata. A sostenerlo
sono numerosi studi che hanno dimostrato la correlazione
tra ipoacusia e morbo di Alzheimer.
Stando ai dati, oltre 7 milioni di italiani e 590 milioni di
persone nel mondo convivono con un deficit dell’udito
mucosa va incontro ad una modificazione (metaplasia)
che favorisce nuovi episodi flogistici (effetto memoria).
la prevenzione va quindi fatta sulle prime vie aeree
riducendo le infiammazioni e trattando i primi sintomi in
maniera adeguata per evitare le complicazioni specie nei
soggetti predisposti.
Per quanto riguarda le ipoacusie da esposizione ai rumori
(di tipo lavorativo), bisogna usare tutti i presidi messi a
disposizione per ridurre gli eventuali danni (cuffie, etc.) in
quanto l’orecchio è fatto per sentire i suoni, anche a volume
elevato, ma è indifeso verso i rumori (privi di armoniche)
che possono distruggere in maniera irreversibile le cellule
ciliate deputate a trasformare il suono e la voce in uno
stimolo nervoso da inviare al lobo temporale del cervello”.
Diversi studi hanno dimostrato che c’è un legame tra
diabete e ipoacusia: secondo gli esperti, le persone
affette da diabete hanno una probabilità più che doppia,
precisamente di 2,15 volte più elevata, di incorrere in una
perdita dell’udito rispetto ai
non diabetici. nel 65% dei casi
l’ipoacusia che si riscontra nei
diabetici riguarda le frequenze
acute, mentre nel 26% dei
casi si ha un interessamento
delle frequenze medio-gravi. In
sostanza, 1 diabetico su 4 ha una
perdita uditiva significativa, per
la quale può essere necessario
l’utilizzo di apparecchi acustici.
Nel mondo scientifico sono due
le ipotesi che portano a questa correlazione. la prima fa
riferimento all’angiopatia diabetica, che si verifica quando
il diabete provoca danni a livello dei vasi sanguigni,
associandosi così ad alterazioni vascolari dell’orecchio
interno e causando disturbi circolatori. la seconda ipotesi
mette in evidenza, invece, come il diabete possa agire
sui nervi, alterando la trasmissione dell’impulso a livello del
nervo acustico e delle vie uditive centrali.
Dott. Cavaniglia, è importante non sottovalutare questa
associazione? Quali sono i rischi maggiori per le persone
che soffrono sia di ipoacusia che di diabete?
“esistono 3 tipi principali di diabete: Diabete tipo 1; Diabete
tipo 2 e Diabete gestazionale. Il diabete tipo 1, denominato
anche diabete giovanile, o insulino-dipendente, è un
disordine del sistema immunitario che impedisce la
produzione di insulina. le cellule beta del pancreas, che
sono responsabili della produzione di insulina, vengono
attaccate ed uccise dal sistema immunitario. Il diabete
tipo 1 viene normalmente diagnosticato durante l’infanzia
o la prima adolescenza, sebbene i suoi sintomi possano
insorgere a qualunque età. Il diabete tipo 2 è la forma più
comune di diabete. Rappresenta il 90% dei casi di diabete
27
e vanno incontro a un rischio maggiore di sviluppare
forme di demenza. Il pericolo di decadimento cognitivo
è direttamente proporzionale al livello di ipoacusia: può
aumentare fino a 5 volte nei casi più gravi di sordità e per
ogni peggioramento dell’udito di 10 decibel si registra una
crescita del rischio di demenza di circa 3 volte.
Dott. Cavaniglia che ne pensa? è così?
“Con il passare del tempo diminuisce la qualità di ricezione
dei suoni, e in presenza di ipoacusia aumenta di 5 volte
la probabilità di andare incontro alla demenza senile,
indipendentemente da altri possibili fattori”.
è vero che chi ha una perdita uditiva a 60/65 anni ha un
maggior rischio di sviluppare demenza nel corso degli
anni?
“Attraverso l’udito ci rapportiamo al mondo, apriamo un
canale di comunicazione con altre persone e recepiamo
gli stimoli esterni. Quando si comincia a sentire male, poco
o niente, il cervello si atrofizza fino a facilitare la comparsa
della demenza senile. Quello tra ipoacusia e demenza
senile è un legame reale e, riprendendo le parole del Prof.
Martini, Cattedratico di Padova, possiamo affermare che
‘rallentare anche di un solo anno l’evoluzione del quadro
clinico, porterebbe a una riduzione del 10% del tasso di
prevalenza della demenza nella popolazione generale,
con un notevole risparmio in termini di risorse umane ed
economiche’”.
Quali sono le misure di prevenzione?
“Fare controlli audiometrici. A differenza di quanto
accade in molti Paesi europei, in Italia si sottovalutano i
disturbi dell’udito, a tal punto che l’ipoacusia degenera
spesso in sordità e gli acufeni sono considerati un fastidio
a cui ci si abitua.
Ai primi segnali di abbassamento dell’udito invece bisogna
rivolgersi all’Otorinolaringoiatra per eseguire tutti i test
medici richiesti dal caso diagnosticato e, eventualmente,
utilizzare l’apparecchio acustico”.
I disturbi dell’udito oltre ad avere delle serie conseguenze
sulla salute potrebbero anche dare origine a dei problemi
sotto il profilo sociale e assistenziale. Ad esempio,
potrebbero complicare il dialogo tra medico e paziente
con la conseguenza che il fatto di “non sentire bene”
potrebbe creare errori nel seguire in modo giusto una
determinata terapia. A testimoniarlo uno studio realizzato
dai ricercatori della Cork University, pubblicato su “Jama
Otolaryngology”, condotto su 100 pazienti over 60, dal
quale è emerso che il 43% degli anziani non riesce a capire
le indicazioni del medico proprio a causa di problemi di
udito. nella ricerca, il 57% aveva qualche problema
di udito (con picchi fra gli 80enni), ma solo il 26% usava
apparecchi acustici. Risultato? ben 43 pazienti hanno
riferito di aver sentito male le istruzioni del medico o
dell’infermiera.
Dott. Cavaniglia, cosa ne pensa? Quanto è importante
l’utilizzo di apparecchi acustici? Secondo lei, perché molti
anziani sono restii nell’utilizzo di questi apparecchi?
“L’ipoacusia può avere conseguenze negative:
• Ridotta qualità della vita
• Solitudine, isolamento sociale
• Scarsa autostima, insicurezza, frustrazione
• Ridotta qualità delle relazioni familiari e personali
• Ridotte capacità cognitive
La soluzione più semplice ed efficace è la protesizzazione
precoce, ma nonostante la ricerca e la tecnologia
abbiano fatto molti passi in avanti, gli apparecchi acustici
sono costosi per molte persone e alcuni li ritengono troppo
invasivi. Questo è dovuto ad un problema culturale per
cui gli occhiali vengono messi in mostra ma della protesi
acustica ancora si prova vergogna”.
Alla luce di quanto detto, quali sono i suoi consigli?
“l’orecchio è un organo di senso molto importante e
delicato, ci serve oltre che per sentire, anche per capire
da dove provengono i suoni sia per permetterci una vita
di relazione, sia per farci pervenire eventuali segnali di
pericolo. l’uomo è un essere sociale e vive in mezzo agli
altri con i quali deve interloquire e relazionarsi, è quindi
fondamentale mantenere l’efficienza uditiva nel migliore
dei modi. è necessario controllare la funzionalità uditiva
sin dalla primissima infanzia in modo da prevenire, curare,
riabilitare i danni al sistema uditivo il più precocemente
possibile; eseguire per tempo terapie mediche ed
eventuali interventi chirurgici che possano ripristinare la
funzione uditiva. In caso si rendesse necessario, ricorrere
ad una protesi acustica, superare falsi preconcetti e,
seguendo le indicazioni dello specialista, rivolgersi a un
Centro di apparecchi acustici per scegliere il più adatto
alle proprie esigenze”.
28
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Gli inibitori di pompa protonica (IPP) sono una categoria
di farmaci molto diffusa ed utilizzata per il trattamento di
acidità di stomaco e reflusso gastroesofageo.
Gli inibitori della pompa protonica sono farmaci che
curano solamente la sintomatologia, perché agiscono
direttamente sulle cellule che secernono acido nello
stomaco, esattamente a livello della loro pompa
protonica, inibendola e riducendola. erano nati per brevi
periodi di cura, ma oggi vengono prescritti da molti medici
e specialisti per cure di mesi, di anni o per un trattamento
a vita.
In quali casi si possono prescrivere gli inibitori di pompa
protonica?
Sono davvero pochi. In presenza di ulcera gastrica o
duodenale; in alcune malattie ipersecretorie ben definite;
in associazione con antinfiammatori non steroidei, però
in soggetti a rischio; in alcuni tipi di malattie da reflusso
gastroesofageo; come coadiuvante nella terapia contro
l’Helicobacter pylori, il batterio che trova un ambiente
ideale di sopravvivenza e riproduzione all’interno dello
stomaco umano.
Secondo dati elaborati con la Società italiana di
farmacologia e la Federazione italiana medici di medicina
generale sulla base di statistiche dell’Agenzia italiana
del farmaco (AIFA), oltre 1.289.000 persone, pari al 46,5%
dei pazienti, utilizzano gli antisecretori in maniera non
appropriata, cioè senza che per loro rappresentino la
terapia più efficace.
nel corso dell’ultimo meeting annuale dell’American Heart
Association, uno studio danese ha osservato gli effetti
collaterali di questi farmaci, analizzando le informazioni di
quasi 250mila pazienti nel corso di quasi sei anni.
Secondo i ricercatori che hanno condotto lo studio1, gli
inibitori di pompa protonica sono già noti per i loro effetti
potenzialmente negativi sulle funzioni vascolari. Quando si
attivano sopprimono l’enzima DDAH, dimetilamino-idrolasi.
Questo causa un aumento dei livelli ematici di ADMA
a cura dialessandro viganò Attenzione ai farmaci
antireflusso: l’abuso può aumentare il rischio di ictus
2929
30
massimo, il rischio varia dal 30% in più per il lansoprazolo fino
al 94% del pantoprazolo. Gli utilizzatori di IPP sono in media
più anziani e maggiormente colpiti da altre patologie,
fra cui la fibrillazione atriale. Lo studio ha tenuto conto di
età, genere e alcuni fattori medici come la presenza di
ipertensione, fibrillazione atriale, cardiopatia e l’eventuale
uso di alcune categorie di
antidolorifici associate a ictus
e attacchi cardiaci. gli h2
bloccanti (o acido-riduttori, per
es ranitidina), un’altra famiglia di
farmaci usati contro l’acidità di
stomaco, non sembrano invece
mostrare rischi di questo tipo, ma
gli autori della ricerca spingono
alla prudenza: si tratta di uno
studio osservazionale, non in
grado di stabilire relazioni causali,
di conseguenza non è possibile
affermare che gli H2 bloccanti
siano meglio degli inibitori di
pompa protonica in assoluto.
Per chiarire questi punti, occorrerà uno “studio controllato
con placebo e randomizzato”, come raccomandano gli
autori.
I ricercatori invitano più che altro alla prudenza nell’utilizzo
indiscriminato di questi farmaci: “un tempo si credeva che
gli inibitori di pompa protonica fossero sicuri e privi di grossi
effetti collaterali”.
FOnte:1. Y. T. Ghebremariam, P. LePendu, J. C. Lee, D. A. Erlanson, A. Slaviero, N. H. Shah, J. Leiper, J. P. Cooke. An Unexpected Effect of Proton Pump Inhibitors: elevation of the Cardiovascular Risk Factor ADMA. Circulation, 2013; DOI: 10.1161/CIRCulAtIOnAHA.113.003602
(dimetilarginina asimmetrica), un importante messaggero
chimico. Hanno scoperto che ADMA a sua volta ha
soppresso la produzione di un altro messaggero chimico,
ossido di azoto, che influenza la funzione cardiovascolare,
come dimostrato dai vincitori del nobel 1998 Furchgott,
Ignarro e Murad. Studi quantitativi sui modelli di topi
mostravano che gli animali
alimentati da IPP avevano più
probabilità di avere tessuto
vascolare teso.
Gli scienziati hanno voluto
verificare se esistesse
un’associazione con l’ictus
ischemico, causato dalla
formazione di coaguli che
bloccano il flusso di sangue
verso il cervello.
I ricercatori hanno potuto
osservare le cartelle cliniche
di pazienti (età media 57 anni)
sottoposti a endoscopia. Fra i 250mila partecipanti allo
studio, quasi 9500 di loro sono stati colpiti da un ictus
ischemico per la prima volta nella loro vita nel corso
dei sei anni di osservazione: gli scienziati hanno quindi
determinato se, al momento dell’attacco, i pazienti stessero
assumendo almeno un farmaco fra quelli appartenenti alla
categoria degli inibitori di pompa protonica (omeprazolo,
pantoprazolo, lansoprazolo o esomeprazolo). Il rischio
di ictus è, in generale, del 21% più alto fra i pazienti che
assumevano inibitori di pompa protonica, percentuale
che varia in base al dosaggio: a quello minimo, non sono
state registrate variazioni significative mentre al dosaggio
l’allestimento museale è stato progettato per offrire al visitatore un quadro completo ed esaustivo sulla storia delle società di mutuo soccorso. Il percorso si apre con dei pannelli informativi che raccontano, in una sequenza cronologica, il fenomeno del mutualismo e continua con delle grandi teche espositive in cui è racchiusa una notevole varietà di materiale documentario, nonché un ragguardevole insieme di medaglie, spille, distintivi ed alcuni cimeli di notevole rarità, riconducibilli ad oltre duecentro tra enti e società di mutuo soccorso, con sedi in Italia e all’estero.
All’interno del museo è presente uno spazio multifunzionale nel
quale coesistono un archivio storico, una biblioteca e un centro
studi. Inoltre, è stato riservato uno spazio per ospitare ogni forma
d’arte: mostre, concerti di musica e rappresentazioni teatrali.
Previa prenotazione, ogni artista potrà esporre o esibirsi
gratuitamente all’interno dello spazio dedicato.
Il Museo del Mutuo Soccorso, nato dalla volontà di valorizzare la storia delle società di mutuo soccorso, si prefigge di salvaguardare e rendere fruibile al pubblico i beni attualmente in dotazione e di promuovere la conoscenza e la ricerca sul tema della mutualità. Visitando il museo si ha la possibilità di conoscere da vicino le società di mutuo soccorso, le loro tradizioni e l’importanza sociale che hanno ricoperto nelle varie vicende storiche del nostro Paese.
la struttura accoglie i visitatori anche con visite guidate e per le scuole sono pensati percorsi e laboratori didattici tematici. Sono, inoltre, previste aperture straordinarie nelle quali sarà possibile visitare le mostre in corso, assistere agli spettacoli e partecipare ad eventi e attività didattiche
Apertura:Dal lunedì al venerdì previa prenotazione
11.00 - 13.00 | 15.00 - 18.00 ultimo ingresso 17.30 (ingresso libero)
Info e prenotazioni:+39 337 1590905
Indirizzo:Palasalute
via di Santa Cornelia, 900060 - Formello (RM)
32
Il tumore alla vescica si può prevenire
a cura dialessia elem
la vescica è l’organo che ha il compito di raccogliere
l’urina che viene filtrata dai reni prima di essere eliminata
dal corpo.
Il tumore della vescica consiste nella trasformazione in
senso maligno delle cellule che ne rivestono la superficie
interna. la neoplasia rappresenta circa il 3% di tutti i tumori
e, in urologia, è secondo solo al tumore della prostata.
è più comune tra i 60 e i 70 anni, ed è tre volte più frequente
negli uomini che nelle donne. Alla diagnosi, il tumore della
vescica è superficiale nell’85% dei casi, infiltrante nel 15%.
Quella alla vescica è una forma di tumore sempre più
diffusa in tutti i paesi occidentali. In europa ogni anno
colpisce circa 175.000 persone e provoca 52.000 decessi
(5.600 solo in Italia).
la sopravvivenza a cinque anni supera, in Italia, il 70% dei
casi.
Fino ai primi anni novanta, i tassi di mortalità legati a
questo tumore si sono mantenuti costanti in europa, ma
negli anni successivi hanno iniziato una discesa che ha
permesso di raggiungere importanti traguardi sul fronte
della riduzione del numero di decessi (meno 16% per gli
uomini e meno 12% nelle donne). Secondo i dati riferiti dai
ricercatori coinvolti in uno studio internazionale realizzato
nel 2008 e finanziato anche da fondi AIRC, sul tumore
della vescica in 27 Paesi europei questi progressi sono
stati confermati. le percentuali di riduzione variano nei
diversi Paesi presi in considerazione, ma la tendenza alla
diminuzione è praticamente presente ovunque, con le
sole eccezioni di Croazia, Polonia, ungheria e Danimarca.
Seguire uno stile di vita sano ed eliminare altri possibili
fattori di rischio, come l’esposizione a particolari sostanze
nocive sul luogo di lavoro, le infezioni urinarie e un regime
alimentare povero di frutta e verdura, potrebbero aver
contribuito a rendere ancora migliori i risultati.
Grazie quindi agli studi internazionali e ai progressi della
scienza che negli ultimi anni ha investito molto sulla lotta
a questo tumore, e all’introduzione di terapie sempre più
efficaci e meno dannose per l’organismo, dal tumore alla
vescica si può guarire.
Questa neoplasia si può anche prevenire, ma pochi lo
sanno.
è quello che è emerso in un recente sondaggio
dell’Associazione italiana di Oncologia Medica (AIOM),
svolto su 1.562 cittadini (il 61% uomini) di età compresa
32
33
tra i 20 e gli 80 anni, dal quale
è emerso che il 37% degli
italiani non ha mai sentito
parlare della neoplasia e
il 78% non sa che si può
prevenire.
un dato interessante è che
per il 68% degli italiani il tumore
alla vescica è inguaribile.
Quali sono i fattori di rischio di
questa neoplasia? Secondo
l’83% è l’inquinamento il
principale responsabile, mentre per il 76% è una questione
genetica e per l’84% dipende dall’età.
Per saperne di più, Health Online ha intervistato il
prof. giampaolo tortora, oncologo del Dipartimento
di Medicina dell’università degli Studi di Verona e
ricercatore AIRC e il dr. roberto Iacovelli, specialista in
tumori urologici presso la stessa Oncologia.
È possibile prevenire il cancro alla vescica? È sufficiente
seguire uno stile di vita sano e fare attenzione ad altri
fattori di rischio, come l’esposizione a particolari sostanze
nocive sul luogo di lavoro, le infezioni urinarie e un regime
alimentare povero di frutta e verdura?
“lo stile di vita sano che preveda una costante attività
fisica e una corretta alimentazione ricca in frutta e
verdura è sempre raccomandabile, in quanto impatta
significativamente oltre che sulla riduzione del rischio
della maggior parte delle neoplasie, anche sulla riduzione
delle malattie cardiovascolari, che rappresentano le
principali cause di morte nella popolazione occidentale”.
è vero che il fumo, nemico numero uno per una probabile
insorgenza del tumore ai polmoni, è considerato anche il
primo fattore di rischio per la vescica?
“Si, il fumo è il principale responsabile del tumore della
vescica, oltre che del tumore al polmone e dei tumori del
distretto cervico-facciale. Quindi l’astensione dal fumo
rappresenta il primo passo nella ricerca di una vita sana.
Oggi sappiamo che per un fumatore il rischio di avere un
tumore della vescica ritorna al livello della popolazione
generale dopo almeno 15 anni di astensione dal fumo”.
Chi sono le persone considerate più a rischio?
“Per il tumore della vescica, i dati nel mondo
industrializzato ci dicono che il fumo di sigaretta e
l’esposizione ad alcune sostanze chimiche come le
amine aromatiche, l’anilina o l’arsenico, utilizzate
soprattutto nelle vernici, nella lavorazione della gomma
o dei metalli sono tra le possibili cause di questo tumore.
Ovviamente, il fumo rappresenta la più diffusa è anche
la più facilmente eliminabile”.
Ci sono dei segnali o sintomi
specifici per i tumori vescicali
che permettano una
diagnosi precoce? urinare
frequentemente o la difficoltà nel
farlo sono campanelli d’allarme
da non sottovalutare?
“la peculiarità del tumore
della vescica è quello di dare
manifestazione della sua
presenza fin nelle fasi precoci e
questo attraverso la presenza di sangue nelle urine, che si
colorano di rosso. l’ematuria appunto è il principale segno
e non va mai sottovalutata in quanto può essere associata
alla presenza di un tumore nella vescica o nelle vie urinarie
superiori, come gli ureteri o la pelvi renale. Il medico di
famiglia in primis e lo specialista urologo suggeriranno
poi gli esami da eseguire per capire se l’ematuria è data
dalla presenza di una neoplasia o da altre cause, come le
infezioni delle vie urinarie. Altri sintomi che possono suggerire
la necessità di ulteriori accertamenti sono l’aumento della
frequenza ad urinare in assenza di un quadro di cistite
infettiva”.
È vero che il tumore alla vescica è difficile da curare perché
colpisce soprattutto persone anziane spesso affette da
altre malattie?
“Come molti tumori, il rischio di avere un tumore della vescica
aumenta con l’età. l’ultimo rapporto dell’Associazione
Italiana di Oncologia Medica sui numeri del cancro in Italia
ci dice che questo è del 6% prima dei 50 anni e raddoppia
al 12% dopo i 70. Ovviamente, le persone più anziane sono
anche quelle affette da altre patologie come diabete,
insufficienza renale o problematiche cardiovascolari,
che possono limitare le possibilità di cura. In particolare, il
deterioramento della funzionalità renale è uno dei fattori
per decidere se somministrare o meno il cisplatino, che è
ad oggi il chemioterapico più attivo nel contrastare questa
malattia”.
Quali sono le terapie adottate? Quando è necessaria la
chirurgia e quali sono gli obiettivi?
“Il trattamento del tumore della vescica si avvale di
quanto di meglio è oggi disponibile in oncologia, ovvero
della chirurgia, della radioterapia e di molteplici terapie
mediche. tuttavia, data la sua rarità e la complessità di
gestione, c’è bisogno di un team esperto dove urologo,
oncologo e radioterapista si parlino tra loro, in quanto i
diversi trattamenti possono tra loro embricarsi al fine di
raggiungere un più alto tasso di guarigione. In generale,
la chirurgia è indicata in tutti i casi di malattia localizzata
alla vescica e diventa un’opzione valida nei casi di
coinvolgimento linfonodale, tuttavia la sua efficacia
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aumenta se nella strategia terapeutica viene introdotta
la terapia medica. Sappiamo infatti che la chemioterapia
seguita dalla chirurgia produce risultati migliori della
chirurgia da sola nella malattia operabile. Così come i
pazienti non operabili per presenza di comorbidità possono
giovarsi della radioterapia associata alla chemioterapia,
con risultati sovrapponibili alla chirurgia”.
le novità principali di nuovi studi realizzati negli ultimi anni
hanno evidenziato, anche in questa patologia neoplastica,
il ruolo dell’immunoterapia con l’introduzione di anticorpi
anti-PD1 e anti-PD-l1, in grado di ripristinare la capacità
del nostro sistema immunitario
di riconoscere e aggredire il
cancro. Questi farmaci hanno
dimostrato di essere efficaci
e meglio tollerati rispetto alla
tradizionale chemioterapia.
Cosa ne pensate ?
“l’immunoterapia rappresenta
un notevole passo in avanti
in oncologia, in quanto ha
aumentato il potenziale
terapeutico a nostra disposizione.
Gli studi più recenti hanno
dimostrato come questi farmaci
siano in grado di aumentare
la sopravvivenza rispetto alla
chemioterapia, a prezzo di una minore incidenza di
effetti collaterali. Allo stato attuale, le indicazioni con le
quali questi farmaci saranno resi disponibili saranno due,
dopo il fallimento di una chemioterapia o nei pazienti che
non possono giovarsi di un trattamento chemioterapico.
Proprio per questo ultimo gruppo di pazienti, che
solitamente ha minori possibilità terapeutiche, a Verona
abbiamo disegnato uno studio per valutare l’attività di
un nuovo immunoterapico che vedrà la partecipazione
di altri centri in Italia e che partirà nei prossimi mesi. Oltre
questi aspetti dell’immunoterapia stiamo anche studiando
nuovi farmaci a bersaglio molecolare che possano essere
somministrati solo a quei pazienti che hanno specifiche
alterazioni molecolari tali da garantire una maggiore
possibilità di successo. l’obbiettivo è sempre quello di
fornire le migliori cure disponibili a tutti i pazienti e di
contribuire alla ricerca medica in questa patologia”.
Dal sondaggio è emerso che otto persone su dieci
vorrebbero ricevere maggiori informazioni e notizie.
Secondo voi quanto è importante informare la popolazione
sul tumore alla vescica?
“la corretta informazione è sempre un vantaggio, sia per
il medico che per il paziente.
essere informati consente di
evitare ritardi diagnostici e
di ricevere le migliori cure
disponibili. Ovviamente, il tumore
della vescica rappresenta una
malattia ad incidenza più bassa
se paragonata a quella del
polmone, della mammella o
dell’intestino e con una relativa
facilità di diagnosi che però non
deve portare a trascurare i primi
segni di malattia. la migliore
arma contro il tumore oltre alla
prevenzione è sicuramente la
diagnosi precoce”.
Alla luce di quanto detto, i consigli degli esperti intervistati
da Health Online sono:
• Mantenere un regime di vita sano, con adeguata
attività fisica e una corretta alimentazione;
• Astenersi dal fumo di sigaretta;
• Parlare sempre con il proprio medico di famiglia o con
l’urologo in caso si noti la presenza di sangue nelle
urine;
• nel caso in cui ci sia già stata la diagnosi di un tumore,
affidarsi a quei centri dove vi sia sufficiente esperienza
e un team multidisciplinare in grado di assicurare i più
alti standard di cura.
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la trombosi: quel “tronco sulla carreggiata” poco conosciuto dagli italiani
a cura dialessandro notarnicola
è necessario conoscerla per evitarla. è uno slogan che
calzerebbe a pennello se riferito a ogni malattia che toglie
la vita lentamente causando gravi problematiche psico-
fisiche, in questo caso però il riferimento è alla trombosi,
un processo patologico poco conosciuto ma che riguarda
tristemente molti.
Ogni anno, infatti, essa è la causa di incidenti stradali che
potrebbero essere evitati se “presa” in tempo. Oggi solo
in europa si contano più di 85 milioni persone che hanno
conosciuto da vicino una delle malattie causate dalla
trombosi, riportando gravi invalidità come quelle lasciate
da un ictus o da un infarto del
miocardio e contribuendo a un
incremento drammatico dei
costi sanitari, stimati in europa
in 210 miliardi di euro l’anno,
ovvero il 33% del budget
dell’unione europea per il 2017.
la trombosi rappresenta un
tronco lasciato al centro della carreggiata: essa infatti è
un coagulo di sangue che prende forma dentro un’arteria
o in una vena, e che può viaggiare nel circolo sanguigno
intaccando organi lontani e causando un’ischemia (infarto
del miocardio e ictus cerebrale tra i più comuni).
Secondo i dati diffusi da un’indagine di Alt Onlus solo il
33% degli italiani conosce davvero le malattie da trombosi
e le loro cause. Alla domanda se il tumore al seno nella
donna colpisce di più o meno della trombosi, buona parte
del campione preso in esame non è stato in grado di
fornire una risposta e solo 10% ha dato la risposta corretta,
riconoscendo la maggiore incidenza della trombosi tra la
popolazione femminile rispetto al cancro.
“la trombosi è un problema rilevante, è incredibile che così
poche siano le persone che la conoscono”, fa sapere Gary
Raskob, presidente del comitato della
Giornata mondiale per la trombosi
che si celebra ogni anni il 13 ottobre.
Comprendere quali sono i fattori di
rischio che aumentano la probabilità
di andare incontro a un evento da
trombosi e correggerli corrisponde
innanzitutto a salvare la propria vita
e quella dei propri cari. tuttavia, in
molti si domandano come si potrebbe
riconoscere subito la “patologia”.
Dolore o gonfiore di una gamba, della
caviglia o della coscia, associata a rossore e calore della
parte colpita, è il sintomo più lampante e visibile. Se il trombo
libera emboli che dalla vena arrivano al polmone compaiono
sintomi come respiro corto, dolore al dorso o al torace, ritmo
del cuore più rapido del normale, sensazione di stordimento
e a volte perdita di coscienza. Chi è ricoverato in ospedale
e ha subito un intervento chirurgico, ha un tumore, è rimasto
immobilizzato a lungo, è in gravidanza o nel periodo dopo il
parto, o prende farmaci a base di ormoni, o chemioterapia
è più a rischio (su 100 casi di trombosi venosa, 60 si verificano
in pazienti ricoverati o appena dimessi dall’ospedale). Ma
il rischio di trombosi coinvolge
anche coloro che soffrono di
una malattia infiammatoria
acuta o cronica.
A partire dagli anni ‘80 Alt
– Associazione per la lotta
alla trombosi e alle malattie
cardiovascolari – Onlus è
impegnata nella sensibilizzazione della popolazione
italiana sull’importanza delle malattie da trombosi,
cercando di insegnare che cosa vuol dire trombosi, come
si manifesta, quali sono i sintomi da non sottovalutare, che
fare se si manifestano, come curarla, come evitarla, come
modificare abitudini non sane che, in alcuni di noi più fragili
di altri, possono scatenare confusione nel sistema della
coagulazione del sangue, che incomincia a coagulare in
modo inappropriato, dovunque nel corpo, causando Ictus
cerebrale, Infarto, embolia.
Quando Alt è stata fondata da pochi mesi era stata
pubblicata un’immagine che mostrava chiaramente
una coronaria malata di aterosclerosi, che si chiudeva e
provocava infarto del miocardio proprio a causa di un
trombo. Sono stati necessari ben trent’anni perché questa
constatazione venisse studiata e capita, anche se ancora
molto c’è da approfondire. si deve
al professore eugene braunwald la
nascita della trombocardiologia. si
tratta di una ‘nuova’ disciplina che
potrebbe essere l’inizio della riduzione
di almeno un terzo dei costi richiesti
da questa patologia, ciò vorrebbe
dire che si potrebbero risparmiare in
europa70 miliardi di euro l’anno, un
dato importante per i costi sanitari
sempre più in affanno nell’ultimo
decennio.
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asma: la nuova frontiera della terapia per combattere la forma grave
a cura dialessia elem
Continua ad aumentare il numero di persone colpite
dall’asma, una patologia infiammatoria cronica
caratterizzata da sintomi come ostruzione delle vie aeree,
iper-reattività bronchiale e infiammazione.
Si stima che nel mondo siano circa 315 milioni le persone
che soffrono di questa patologia, e ogni anno si contano
circa 250mila morti dovute alle forme più gravi. è pari a
circa il 10% la percentuale dei pazienti nei quali le terapie
non riescono a controllare i sintomi, con rischio elevato di
ricadute con frequenti ricoveri in ospedale, e nei casi più
gravi di morte.
Per questa percentuale di pazienti con asma grave sono
in arrivo nuove terapie sperimentate anche in Italia, ad
esempio dal team di specialisti guidati da Walter Canonica,
Responsabile del Centro di medicina Personalizzata, Asma
e Allergologia dell’Istituto Humanitas di Rozzano (MI).
Per sapere di cosa si tratta abbiamo intervistato il dott.
Enrico Heffler, segretario della SIAAIC, Società Italiana
allergologia asma Immunologia clinica, nonché membro
del team.
Dott. Heffler, quali sono i sintomi dell’asma e chi sono le
persone più a rischio?
“I sintomi classici dell’asma sono la dispnea (la cosiddetta
‘fame d’aria’, ovvero una sensazione spiacevole di
difficoltà a respirare), solitamente associata a sensazione di
oppressione al torace, respiro sibilante (ovvero ‘fischiante’)
e tosse secca. Questi sintomi tendono a presentarsi con
una certa variabilità sia nel tempo che in termini di intensità
nei tanti pazienti affetti da asma. Il rischio di sviluppare
l’asma è aumentato in chi ha una predisposizione
genetica specifica (ad esempio a diventare allergico),
che interagisce con l’esposizione ambientale nel corso
38
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della vita (ad esempio ad allergeni quali
gli acari della polvere o i pollini, oppure
a infezioni virali…). l’asma è infatti molto
frequentemente una patologia allergica,
anche se una certa proporzione di pazienti
non ha alcuna allergia nonostante sia
presente un’importante infiammazione
di tipo eosinofilo (che in passato era
considerata erroneamente un indice di allergia); proprio
questi pazienti asmatici non allergici ma con molti eosinofili
(una categoria di globuli bianchi) tendono ad avere forme
di malattia più gravi e di difficile controllo con i classici
farmaci antiasmatici”.
In che modo l’asma varia da persona a persona?
“L’asma può variare da paziente a paziente innanzitutto
in termini causali (può
essere di natura allergica
oppure no, può essere
favorita da infezioni virali o
batteriche, può dipendere
dall’esposizione all’ambiente
lavorativo, oppure può non
avere cause note), di livello
di gravità, di altre malattie
associate che possono
influenzarne il decorso
(ad esempio la rinite, la
rinosinusite cronica con
o senza poliposi nasale, il
reflusso gastroesofageo,
l’obesità…) e di risposta
alle terapie antiasmatiche
classiche (una proporzione
per fortuna minoritaria di pazienti asmatici tende ad avere
una certa resistenza biologica alla terapia cortisonica
inalatoria che è alla base della terapia dell’asma; questi
pazienti solitamente sono affetti da forme gravi di asma)”.
Il trattamento dell’asma mira a controllare i sintomi? Quali
sono i fattori che possono influenzare il controllo?
“Alla base del trattamento dell’asma vi è l’utilizzo di
farmaci (in particolare i cortisonici inalatori) che spengono
l’infiammazione bronchiale alla base della patologia
stessa; a questa terapia di fondo si possono associare, in
base alla gravità della patologia, altri farmaci quali dei
broncodilatatori oppure altri farmaci che agiscono sui
meccanismi infiammatori. lo scopo della terapia è quello
di ottenere il cosiddetto ‘controllo di malattia’, ovvero
l’assenza di sintomi tipici dell’asma, la normalizzazione della
funzionalità respiratoria e la riduzione delu
rischio futuro di sviluppare complicanze
o peggioramenti acuti dell’asma. Molti
sono i fattori che possono influenzare il
controllo dell’asma: dagli stessi differenti
meccanismi alla base dell’infiammazione
asmatica, alla presenza di comorbidità,
alle esposizioni ambientali, fino alla
purtroppo frequente scarsa aderenza dei pazienti alla
terapia (ovvero l’utilizzo non adeguato e non continuativo
dei farmaci) e alle oggettive difficoltà che alcuni pazienti
hanno nell’utilizzare gli inalatori attraverso i quali i farmaci
vengono somministrati”.
Quali sono le terapie generalmente seguite dalla maggior
parte dei pazienti?
“Per la maggior parte dei
pazienti asmatici la terapia
inalatoria con cortisonici,
eventualmente associati
a broncodilatatori o ai
cosiddetti antileucotrienici
(farmaci che agiscono
riducendo parte
d e l l ’ i n f i a m m a z i o n e
bronchiale tipica della
malattia), è sufficiente ad
ottenere un buon controllo
della malattia”.
Per circa il 10% di tutte le
persone con asma, seguire il
trattamento “normale” non
basta e i sintomi rimangono
incontrollati. Il paziente soffre quindi di asma grave.
Che cos’è esattamente l’asma grave e perché distinguere
l’asma grave da quello normale? Come si presenta e
perché alcune persone ne soffrono?
“’Asma grave’ è appunto la definizione che viene data
alla patologia di quei pazienti i quali, nonostante seguano
una terapia massimale anti-asmatica o addirittura
frequentemente utilizzino cortisonici per via sistemica,
continuano ad essere non controllati e con frequenti crisi
di asma (alcune delle quali possono portare il paziente
ad accedere al pronto soccorso, ad essere ricoverato in
ospedale o nei casi più sfortunati anche alla morte). pur
essendo circa il 10% di tutti gli asmatici, quelli più gravi
utilizzano oltre il 50% dell’intera spesa sanitaria relativa alla
malattia; è proprio l’insieme delle caratteristiche cliniche e
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delle sue conseguenze economiche che rendono l’asma
grave un’entità a sé stante e che necessita tutti gli sforzi
possibili per ridurne la frequenza”.
Sono state presentate di recente al congresso internazionale
dell’european Respiratory Society a Milano
alcune nuove frontiere della terapia
per i malati di asma grave. Può
spiegare di cosa si tratta? e da
cosa nascono questi studi?
“le nuove frontiere della
terapia per l’asma grave sono
i cosiddetti ‘farmaci biologici’,
ovvero rivolti a spegnere singoli
e specifici meccanismi infiammatori
coinvolti nei diversi ‘fenotipi’ (sottogruppi
di pazienti che condividono alcune
caratteristiche cliniche peculiari) della malattia. Il
primo farmaco biologico per l’asma è utilizzato ormai
da più di 10 anni (si chiama ‘omalizumab’) ed è rivolto ai
pazienti con fenotipo allergico di asma grave.
negli ultimissimi anni sono stati studiati invece diversi
altri farmaci biologici, in particolare rivolti a ridurre
l’infiammazione eosinofila tipica di altri fenotipi di asma
grave; uno di questi farmaci è stato recentemente
introdotto nel prontuario farmaceutico italiano (si chiama
‘mepolizumab’ ed agisce bloccando l’attività di una
proteina, l’interleuchina-5, responsabile della maturazione
e dell’attivazione degli eosinofili) ed altri sono in fasi molto
avanzate di studio con risultati per ora davvero eccellenti
(tra questi il ‘reslizumab’ e il ‘benralizumab’, ambedue in
grado di ridurre gli effetti della interleuchina-5; un altro
farmaco biologico in fase avanzata di studio per l’asma
grave è il ‘dupilumab’ che spegne sia l’infiammazione
eosinofila che quella allergica). La possibilità di avere più
farmaci biologici rivolti verso meccanismi biologici differenti
sarà un’intrigante sfida per i medici (che dovranno scegliere
il farmaco più adatto al singolo fenotipo di asma grave)
e un’enorme opportunità per i pazienti (che potranno
finalmente sperare in una guarigione o per lo meno nel
controllo ottimale dell’asma)”.
Si è parlato anche di un semplice prelievo di sangue in
grado di individuare pazienti con asma grave…
“In effetti per poter ‘fenotipizzare’ i pazienti (attribuire
il corretto fenotipo) e quindi poter scegliere la terapia
biologica più adeguata per ciascun singolo paziente, è
necessario effettuare alcuni semplici esami del sangue
quali l’emocromo (che fornisce, tra le altre informazioni, il
numero di eosinofili) e il dosaggio delle IgE totali e specifiche
(volti a identificare un possibile fenotipo allergico di asma
grave). Questi esami sono ormai alla portata di tutti i
laboratori analisi e sono di largo utilizzo. la vera novità è che
stanno iniziando a diffondersi anche dei dispositivi portatili
per effettuare queste analisi attraverso una singola goccia
di sangue e ottenendo il risultato in pochissimi minuti:
questi dispositivi (detti ‘point-of-care’) permetteranno
verosimilmente ai medici di fenotipizzare il paziente
asmatico grave nell’arco di tempo di una
singola visita ambulatoriale”.
Con queste nuove frontiere
si arriverà dunque ad una
medicina personalizzata?
Indirizzerà il medico verso una
terapia di precisione per ogni
paziente?
“Siamo già pienamente dentro
una nuova era nel trattamento
dell’asma: l’era della medicina
personalizzata, appunto. essa prevede che
ciascun paziente venga studiato in modo approfondito
per identificare i meccanismi biologici sottostanti all’asma
bronchiale, per poter fornirgli la terapia migliore disponibile
per il suo fenotipo. I farmaci biologici sono appunto
l’esempio più lampante dell’approccio personalizzato
all’asma grave”.
Quali sono i progetti futuri?
“uno dei campi di ricerca più interessanti nell’ambito
dell’asma grave è quello relativo allo studio e
all’identificazione dei cosiddetti ‘biomarcatori’, ovvero
molecole o caratteristiche clinico-laboratoristiche in grado
di identificare con precisione il fenotipo del paziente
e di predire la risposta ai singoli farmaci biologici. una
volta identificati dei biomarcatori affidabili si potrà
davvero fornire la versione più avanzata della medicina
personalizzata (una medicina personalizzata 2.0 !)”.
l’asma può variare da paziente a paziente innanzitutto in termini causali, di livello di gravità, di altre malattie associate che possono influenzarne il decorso
e di risposta alle terapie antiasmatiche classiche
Nessuna distinzione per numero di componenti della famiglia
Nessuna distinzione di etàSussidi per Single o Nucleo famigliare
Detraibilità fiscale (Art. 15 TUIR)Nessuna disdetta all’associato
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