h Ciani Che brutta coppia Ulisse e Penelope...poi mio cugino Dino Ciani, anche lui sfollato da Pola,...

2
a a a F a aaa a a a Q a a a a a a a a a a a a a a G a a a a a a a U a a aa a a a a a a a a a a a aG a a a a a a a a a a a aGa a a a aa a aa a a a a U a a a a a a a a a a aa a a a a aa a a a a a a a a a Q a aa a a a a a a a a a a a aa a a a a a a a a a a a a a a a a a a Ga a a a a a aa a a a a a a a a a a a aa a a a a a a a a a a a a a aaaaa a aa a a a a aaaa a a a a a a a a a a a a a aa a a a a a a a a a a a a a a a a a aa a a aa a a a F a a a a a a a a a a a a aa a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a F a a aa aa a a L a aa a a a a a a a a a aa a a a a a aa a a L a a a a a a a a a a a a a a Q a a a a a a a a a a aa a a 5 a a a a a a aa a a a a aa a a a a a a a a a Q a a a a a a a aa a a a aa a a a a a a a a a a a a a aa a a a a a a a a a a a a aaa a a a a a a a a a a a a F a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a H a a a a a aa a a a a a a a a a aaa a aa a a a a a H a a a a a a a a a a a a a a a a L a M a U a a a a a a a a a a Q a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a a aa a a M M aa

Transcript of h Ciani Che brutta coppia Ulisse e Penelope...poi mio cugino Dino Ciani, anche lui sfollato da Pola,...

Page 1: h Ciani Che brutta coppia Ulisse e Penelope...poi mio cugino Dino Ciani, anche lui sfollato da Pola, mostrò grande inclinazione per la musica». Ciani scomparve tragicamente molto

©RIPRODUZIONE RISERVATA

ul punto estremo e leggendario della vita c’è spesso l’eroe. Figura semplice e complicata a un tempo. Il tratto agonistico lo rende popolare. Quello tragico lo spinge immancabilmente tra le braccia del destino. L’eroe è l’anticamera del

mito; ne giustifica l’esistenza fino a rendersi immortale, fin dentro il sacrificio. Gli eroi vanno al di là del tempo, ma sono nel tempo, ciascuno con la propria storia. Chiedendo chi è Achille, o Ettore, o Ulisse vi si risponderebbe che figure più diverse non si danno. Iliade e Odissea deposero in un catalogo di avventure l’operato strabiliante di semidei, figure fondative di una civiltà, naturalmente la nostra, che ha nella Grecia il suo punto di origine. Ripensavo a tutto questo dopo essermi tuffato nei due grandi poemi, tradotti con gradevolezza e acume da Maria Grazia Ciani, una signora appartata che vive a Padova e nella cui Università ha insegnato a lungo. L’anno scorso aveva pubblicato La morte di Penelope, una rilettura romanzata della storia dell’eroina omerica, meno intenta a smontare la tela nel nome della fedeltà e più disposta, la notte, ad accogliere le smanie di Antinoo, uno dei proci. Quest’anno si è dedicata, ne Le porte del mito, al racconto del mondo greco come fosse un romanzo. Dice che questa predilezione per il narrato le viene direttamente dal confine tra il mondo triestino e quello istriano. È una strana donna, proviene direttamente dal fondo di un labirinto.

Dove è nata?«A Pola pochi giorni prima dello scoppio della guerra.

Durante il conflitto traslocai dai nonni materni in campagna, precisamente a Gallesano, dove sono rimasta fino alla fine delle ostilità. Ricordo vagamente il ritorno di mio padre dalla guerra, ufficiale di marina. Non ho memoria di altri eventi particolari. In casa dei nonni mi sono sentita più che altro un’ospite provvisoria».

È buffo in una bambina.«È come un ritorno tardivo di consapevolezza. Non ho sviluppato nessun senso delle radici e nessun sentimento di appartenenza. Crebbi da sola. Sono stata amata, ma senza attenzioni particolari. Nessuno allora badava ai bambini, almeno dal punto di vista psicologico. C’erano altre tensioni, come se l’attenzione alla vita materiale richiedesse sforzi che lasciavano fuori la preoccupazione per l’infanzia».

È stata una bambina felice o no?«La felicità è un sentimento che l’infanzia deprime o esalta in un batter di ciglia. Ero figlia unica. Mio padre spesso fuori sulle navi, mentre mia madre si occupava di me. Era laureata in francese a Ca’ Foscari ma non ha mai insegnato. Penso sia duro aspirare a qualcosa e poi rinunciarvi. Comunque i miei si separarono che avevo 12 anni. Mia madre era di origini dalmate. Il mare l’aveva resa una donna solare. Mio padre era di origini croate, forse ungheresi, so poco di lui. Era chiuso e incline alla malinconia. Fu prima la guerra a separarli e poi la vita».

Di Pola è anche Rossana Rossanda. La ricorda allora?«Non l’ho mai frequentata. Era di una generazione più vecchia della mia. In famiglia si parlava del negozio delle sorelle Rossanda. Tutto quello che so di lei l’ho

appreso dalla sua autobiografia».Nel 1945, finita la guerra, Pola fu occupata dalle

truppe di Tito. E per gli italiani cominciò un esodo non semplice. Lei aveva cinque anni. Che cosa le stava riservando il futuro?«Non avevo idea del futuro. Dopo la strage di Vergarolla, dove morirono quasi settanta persone di Pola, si disse che erano stati i servizi segreti di Tito a far saltare il deposito di munizioni. Quel giorno del 18 agosto più di duemila persone assistevano alle gare di nuoto sulla spiaggia. Dopo quell’eccidio cominciò il grande esodo, da Pola andarono via 350 mila persone. Mio padre come militare fu mandato di stanza a Venezia e noi ci trasferimmo a vivere al Lido. Fu lì la mia adolescenza. A Venezia mi diplomai al conservatorio Benedetto Marcello: in pianoforte con Sergio Lorenzi e in solfeggio e composizione con Bruno Maderna».

Sono stati due grandi della musica. Questa passione da dove le arriva?«Dall’ambiente familiare, la cui derivazione asburgica permetteva che in ogni casa fosse d’obbligo avere un pianoforte. Mio padre suonava il violino a orecchio. E poi mio cugino Dino Ciani, anche lui sfollato da Pola, mostrò grande inclinazione per la musica».

Ciani scomparve tragicamente molto giovane, a 32 anni per un incidente automobilistico, nel tempo è cresciuta la sua leggenda.«Era molto amico di Maurizio Pollini. Più o meno coetanei, di loro si parlava come di due enfant prodige. Dino aveva studiato con Alfred Cortot e possedeva una grande libertà di esecuzione senza tuttavia mai uscire dallo spazio della composizione. E poi amava moltissimo l’opera. Rossini su tutti. Sì, il suo fu vero talento. È stato davvero grande».

E lei?«Ero precisa e avevo agilità. Mi presero al conservatorio dopo una selezione durissima. Che posso dire? Forse non aspiravo a diventare una pianista. A Padova ho fatto la carriera universitaria, ho avuto un figlio. Mio marito, che fu un grande latinista, non aveva una educazione musicale. Ho suonato sempre meno e mi sono accorta di non possedere più forza nelle dita. Ma alla fine sa qual è la verità? Sono una persona che non ha passioni. Non posso dire che sia stata appassionata di qualcosa: né della musica né del greco. Se qualcuno mi dice fai questo io lo faccio. Ho tradotto a calci Iliade e Odissea. E questo grazie a Cesare De Michelis, straordinario editore della Marsilio. Per me fu un’impresa colossale ma non volevo farla, potevo vivere benissimo senza Omero».

Lei è una donna molto strana.«Trova?».

Ma sì, questo lavorare un po’ controvento è un segnale. Oltretutto, nei suoi libri recenti, penso all’antologia su Ulisse e poi al libro dedicato a Penelope, i personaggi che descrive sono molto contraddittori.«Non amo Ulisse e non credo in Penelope. Ma si rende conto? Lui gira per anni nel Mediterraneo, con la sola idea in testa di tornarsene a casetta. Quest’uomo che prenota il futuro è pieno di problemi e di occasioni mancate. Di Penelope invece volevo offrire l’immagine meno convenzionale. Basta leggersi Apollodoro per avere una versione di questa donna tutt’altro che “sposa fedele”».

In qualche modo manipola un mito.«Capisco che non sarebbe giusto e neanche lecito. In fondo scolastici, commentatori antichi, mitografi hanno raccolto quelli che erano i gossip di allora, le leggende, le invenzioni, le variazioni e si sono dati alla riscrittura. Ma a volte nel manipolare un mito se ne

estrae un significato occulto che quasi lo smaschera e allora diviene una specie di scoperta».

Ha scritto “Le porte del mito”, come a suggerire un’entrata.«La sensazione è che gli antichi greci amassero rimanere sulla soglia. Ma non dimentichiamo che hanno posto le basi del nostro mondo. L’Europa senza i classici greci non esisterebbe, almeno come la conosciamo. Anche se c’è molto Oriente nella Grecia antica, ed è poco noto».

Si diceva che anche la peste arrivasse da Oriente.«La peste di Atene è raccontata e descritta da Tucidide e da Plutarco. Come causa si accenna al sovraffollamento di Atene, invasa dagli abitanti del contado spinti dagli spartani. In verità non ci furono mezzi per combatterla, perciò venne accolta e subita come i Danai, cioè i greci, subiscono le frecce pestifere di Apollo, all’inizio dell’Iliade. A quel tempo si dice che Ippocrate fosse proprio ad Atene e già la medicina si stava affermando come arte laica, slegata dal mondo dei ciarlatani e degli stregoni. Ma nulla poté la “nuova medicina” contro la peste, anzi i medici furono cacciati e trionfarono di nuovo gli stregoni. La medicina laica fu impotente e Pericle morì di peste».

Cura, saggezza, passioni, follia si distribuirono nel

mondo greco spesso in modo arbitrario. Cosa ci insegnano quei momenti?«La casualità della vita, forse. Che altro? Credo l’assenza di una legge superiore».

Che idea i greci hanno della morte?«Odiavano la morte e la vecchiaia più della morte. Accettarono, forse, soltanto quel “morire in bellezza” dell’eroe, ma è un quadretto romantico che lo scempio dei corpi nell’Iliade smentisce di continuo. Quanto all’amore per la vita, basta leggere le confessioni di Achille nell’Ade: preferirei essere il servo di un padrone povero piuttosto che regnare come adesso sui morti».

Nel tradurre Iliade e Odissea che lingua ha affrontato?«La lingua greca antica è morta. Non reagisce, non risponde. Bisogna indovinare e non sempre riesce. Scivola come un serpente. Credere di averla in pugno è spesso un’illusione pericolosa».

Ossia?«Quello che la parola significa in Omero, può voler dire tutt’altro in Platone. Era il mio maestro Carlo Diano a ricordare agli allievi che su certi termini non si poteva mai essere sicuri e che fondamentale era la contestualizzazione».

Com’era Diano?«È stato un grandissimo grecista che non ha avuto i riconoscimenti che meritava. Scriveva poco. Ma ai suoi scritti occorrerebbe tornare. Era talvolta estroverso, talvolta ombroso e irascibile. A volte sembrava distratto, perduto in un mondo “altro”. Eppure non gli sfuggiva nulla».

Si dice che la differenza tra Iliade e Odissea sta nel fatto che il primo è il poema della forza, mentre l’altro è il poema del viaggio e del ritorno.«È la lettura che ne dà Simone Weil. A mio parere l’Iliade rappresenta l’antica aristocrazia feudale, che educa i figli alle armi, all’agonismo, ma anche alla musica. È l’età delle guerre ma soprattutto dei guerrieri, chiusi nel loro mondo, bramosi di fama, onore e gloria, talvolta feroci ma non immuni dalla pietà. Nell’Iliade la figura di Ulisse sembra introdotta a forza. L’Odissea propone invece l’archetipo dell’uomo legato ai beni materiali, arido, cinico, spesso crudele, anche se capace lui pure di nobili azioni. È il compendio dell’uomo moderno».

Perché ha scelto di tradurli in prosa?«Mi ha guidato una frase di Ernest Ansermet, il grande direttore d’orchestra. Diceva che una prosa che abbia un ritmo è già poesia. Tuttavia oggi sono più che mai convinta che ho tradotto “in perdita d’anima”. Ho tolto all’Iliade il suo passo guerriero, la sospensione dei numerosi enjambement, la forte valenza della pausa a metà del verso. Per l’Odissea ho meno rimorsi: è già romanzo».

Offre di sé un’impressione ondivaga.

«Gliel’ho detto: non ho radici, le uniche che ho messo sono nei libri e in due persone: mia madre e mio marito, Emilio Pianezzola, scomparso quattro anni fa».

Com’è il matrimonio tra due lingue morte?«Abbiamo sempre lavorato separatamente, come se facessimo due mestieri diversi. Inoltre io non amo il latino e lo conosco poco e male. Ma lui oltre a essere uno splendido latinista è stato un uomo unico. Posso dire banalmente che la sua assenza mi ha privato del piacere di dare senso alle cose che faccio, semmai le cose che faccio abbiano avuto un senso per me».

Come ha vissuto questo periodo?«In solitudine. Leggendo. Annoiandomi. Pensando, che è la cosa peggiore che possa fare».

Davvero è la peggiore?«Ciò che provo è leggermente patologico. Anche quando vado fuori io guardo per terra e penso. La mia mente non sta mai ferma. È come una musica, un ritornello, che si insinua nella mia testa e non mi abbandona per giorni. Da brava istriana provo a distrarmi con le faccende domestiche. Stiro, lavo i piatti, spazzo, rammendo e sento che la mia testa si fa leggera. È buffo. Ma è come se improvvisamente azzerassi tutta la tensione e l’ombra si fa chiara fino a sparire».

S g

Maria Grazia Ciani

Che brutta coppiaUlisse e Penelope

I primi anni a Pola, poi travolta dalla guerra e dall’esodo istriano. Gli studi al conservatorio di Venezia. Una vita dedicata ai classici e ai poemi omerici che ha tradotto in prosa

Colloquio con una studiosa che ha conosciuto gli eroi. Ma che li analizza senza farsi illusioni

Le tappe

Non amo il protagonistadell’Odissea e non credo

nemmeno in sua moglie, anche se ho provato a raccontarla

in maniera diversa. E la linguagreca? È come un serpente

di Antonio Gnoli

h La giovinezzaNata a Pola, in Istria, nel 1940, la lascia nel 1945 e si trasferisce con la madre a Venezia, dove si diploma al conservatorio in pianoforte e composizione A Padova si laurea in letteratura greca con Carlo Diano

h L’universitàNel 1980 diviene docente di Lingua e civiltà greca e in seguito di Storia della tradizione classica nell’ateneo di Padova: si occupa di epica, di tragedia e di sopravvivenza dei miti nelle letterature e nell’arte dell’Occidente

h I libriTra le traduzioni la versione in prosa di Iliade e Odissea (per Marsilio) e i Miti greci di Apollodoro (Mondadori)Di recente ha pubblicato il romanzo La morte di Penelope e il saggio Le porte del mito (Marsilio)

f

i Il ritrattoMaria Grazia Ciani in un disegno di Riccardo Mannelli

ROBINSON Straparlando

pagina 36 Sabato, 20 giugno 2020.

Page 2: h Ciani Che brutta coppia Ulisse e Penelope...poi mio cugino Dino Ciani, anche lui sfollato da Pola, mostrò grande inclinazione per la musica». Ciani scomparve tragicamente molto

©RIPRODUZIONE RISERVATA

ul punto estremo e leggendario della vita c’è spesso l’eroe. Figura semplice e complicata a un tempo. Il tratto agonistico lo rende popolare. Quello tragico lo spinge immancabilmente tra le braccia del destino. L’eroe è l’anticamera del

mito; ne giustifica l’esistenza fino a rendersi immortale, fin dentro il sacrificio. Gli eroi vanno al di là del tempo, ma sono nel tempo, ciascuno con la propria storia. Chiedendo chi è Achille, o Ettore, o Ulisse vi si risponderebbe che figure più diverse non si danno. Iliade e Odissea deposero in un catalogo di avventure l’operato strabiliante di semidei, figure fondative di una civiltà, naturalmente la nostra, che ha nella Grecia il suo punto di origine. Ripensavo a tutto questo dopo essermi tuffato nei due grandi poemi, tradotti con gradevolezza e acume da Maria Grazia Ciani, una signora appartata che vive a Padova e nella cui Università ha insegnato a lungo. L’anno scorso aveva pubblicato La morte di Penelope, una rilettura romanzata della storia dell’eroina omerica, meno intenta a smontare la tela nel nome della fedeltà e più disposta, la notte, ad accogliere le smanie di Antinoo, uno dei proci. Quest’anno si è dedicata, ne Le porte del mito, al racconto del mondo greco come fosse un romanzo. Dice che questa predilezione per il narrato le viene direttamente dal confine tra il mondo triestino e quello istriano. È una strana donna, proviene direttamente dal fondo di un labirinto.

Dove è nata?«A Pola pochi giorni prima dello scoppio della guerra.

Durante il conflitto traslocai dai nonni materni in campagna, precisamente a Gallesano, dove sono rimasta fino alla fine delle ostilità. Ricordo vagamente il ritorno di mio padre dalla guerra, ufficiale di marina. Non ho memoria di altri eventi particolari. In casa dei nonni mi sono sentita più che altro un’ospite provvisoria».

È buffo in una bambina.«È come un ritorno tardivo di consapevolezza. Non ho sviluppato nessun senso delle radici e nessun sentimento di appartenenza. Crebbi da sola. Sono stata amata, ma senza attenzioni particolari. Nessuno allora badava ai bambini, almeno dal punto di vista psicologico. C’erano altre tensioni, come se l’attenzione alla vita materiale richiedesse sforzi che lasciavano fuori la preoccupazione per l’infanzia».

È stata una bambina felice o no?«La felicità è un sentimento che l’infanzia deprime o esalta in un batter di ciglia. Ero figlia unica. Mio padre spesso fuori sulle navi, mentre mia madre si occupava di me. Era laureata in francese a Ca’ Foscari ma non ha mai insegnato. Penso sia duro aspirare a qualcosa e poi rinunciarvi. Comunque i miei si separarono che avevo 12 anni. Mia madre era di origini dalmate. Il mare l’aveva resa una donna solare. Mio padre era di origini croate, forse ungheresi, so poco di lui. Era chiuso e incline alla malinconia. Fu prima la guerra a separarli e poi la vita».

Di Pola è anche Rossana Rossanda. La ricorda allora?«Non l’ho mai frequentata. Era di una generazione più vecchia della mia. In famiglia si parlava del negozio delle sorelle Rossanda. Tutto quello che so di lei l’ho

appreso dalla sua autobiografia».Nel 1945, finita la guerra, Pola fu occupata dalle

truppe di Tito. E per gli italiani cominciò un esodo non semplice. Lei aveva cinque anni. Che cosa le stava riservando il futuro?«Non avevo idea del futuro. Dopo la strage di Vergarolla, dove morirono quasi settanta persone di Pola, si disse che erano stati i servizi segreti di Tito a far saltare il deposito di munizioni. Quel giorno del 18 agosto più di duemila persone assistevano alle gare di nuoto sulla spiaggia. Dopo quell’eccidio cominciò il grande esodo, da Pola andarono via 350 mila persone. Mio padre come militare fu mandato di stanza a Venezia e noi ci trasferimmo a vivere al Lido. Fu lì la mia adolescenza. A Venezia mi diplomai al conservatorio Benedetto Marcello: in pianoforte con Sergio Lorenzi e in solfeggio e composizione con Bruno Maderna».

Sono stati due grandi della musica. Questa passione da dove le arriva?«Dall’ambiente familiare, la cui derivazione asburgica permetteva che in ogni casa fosse d’obbligo avere un pianoforte. Mio padre suonava il violino a orecchio. E poi mio cugino Dino Ciani, anche lui sfollato da Pola, mostrò grande inclinazione per la musica».

Ciani scomparve tragicamente molto giovane, a 32 anni per un incidente automobilistico, nel tempo è cresciuta la sua leggenda.«Era molto amico di Maurizio Pollini. Più o meno coetanei, di loro si parlava come di due enfant prodige. Dino aveva studiato con Alfred Cortot e possedeva una grande libertà di esecuzione senza tuttavia mai uscire dallo spazio della composizione. E poi amava moltissimo l’opera. Rossini su tutti. Sì, il suo fu vero talento. È stato davvero grande».

E lei?«Ero precisa e avevo agilità. Mi presero al conservatorio dopo una selezione durissima. Che posso dire? Forse non aspiravo a diventare una pianista. A Padova ho fatto la carriera universitaria, ho avuto un figlio. Mio marito, che fu un grande latinista, non aveva una educazione musicale. Ho suonato sempre meno e mi sono accorta di non possedere più forza nelle dita. Ma alla fine sa qual è la verità? Sono una persona che non ha passioni. Non posso dire che sia stata appassionata di qualcosa: né della musica né del greco. Se qualcuno mi dice fai questo io lo faccio. Ho tradotto a calci Iliade e Odissea. E questo grazie a Cesare De Michelis, straordinario editore della Marsilio. Per me fu un’impresa colossale ma non volevo farla, potevo vivere benissimo senza Omero».

Lei è una donna molto strana.«Trova?».

Ma sì, questo lavorare un po’ controvento è un segnale. Oltretutto, nei suoi libri recenti, penso all’antologia su Ulisse e poi al libro dedicato a Penelope, i personaggi che descrive sono molto contraddittori.«Non amo Ulisse e non credo in Penelope. Ma si rende conto? Lui gira per anni nel Mediterraneo, con la sola idea in testa di tornarsene a casetta. Quest’uomo che prenota il futuro è pieno di problemi e di occasioni mancate. Di Penelope invece volevo offrire l’immagine meno convenzionale. Basta leggersi Apollodoro per avere una versione di questa donna tutt’altro che “sposa fedele”».

In qualche modo manipola un mito.«Capisco che non sarebbe giusto e neanche lecito. In fondo scolastici, commentatori antichi, mitografi hanno raccolto quelli che erano i gossip di allora, le leggende, le invenzioni, le variazioni e si sono dati alla riscrittura. Ma a volte nel manipolare un mito se ne

estrae un significato occulto che quasi lo smaschera e allora diviene una specie di scoperta».

Ha scritto “Le porte del mito”, come a suggerire un’entrata.«La sensazione è che gli antichi greci amassero rimanere sulla soglia. Ma non dimentichiamo che hanno posto le basi del nostro mondo. L’Europa senza i classici greci non esisterebbe, almeno come la conosciamo. Anche se c’è molto Oriente nella Grecia antica, ed è poco noto».

Si diceva che anche la peste arrivasse da Oriente.«La peste di Atene è raccontata e descritta da Tucidide e da Plutarco. Come causa si accenna al sovraffollamento di Atene, invasa dagli abitanti del contado spinti dagli spartani. In verità non ci furono mezzi per combatterla, perciò venne accolta e subita come i Danai, cioè i greci, subiscono le frecce pestifere di Apollo, all’inizio dell’Iliade. A quel tempo si dice che Ippocrate fosse proprio ad Atene e già la medicina si stava affermando come arte laica, slegata dal mondo dei ciarlatani e degli stregoni. Ma nulla poté la “nuova medicina” contro la peste, anzi i medici furono cacciati e trionfarono di nuovo gli stregoni. La medicina laica fu impotente e Pericle morì di peste».

Cura, saggezza, passioni, follia si distribuirono nel

mondo greco spesso in modo arbitrario. Cosa ci insegnano quei momenti?«La casualità della vita, forse. Che altro? Credo l’assenza di una legge superiore».

Che idea i greci hanno della morte?«Odiavano la morte e la vecchiaia più della morte. Accettarono, forse, soltanto quel “morire in bellezza” dell’eroe, ma è un quadretto romantico che lo scempio dei corpi nell’Iliade smentisce di continuo. Quanto all’amore per la vita, basta leggere le confessioni di Achille nell’Ade: preferirei essere il servo di un padrone povero piuttosto che regnare come adesso sui morti».

Nel tradurre Iliade e Odissea che lingua ha affrontato?«La lingua greca antica è morta. Non reagisce, non risponde. Bisogna indovinare e non sempre riesce. Scivola come un serpente. Credere di averla in pugno è spesso un’illusione pericolosa».

Ossia?«Quello che la parola significa in Omero, può voler dire tutt’altro in Platone. Era il mio maestro Carlo Diano a ricordare agli allievi che su certi termini non si poteva mai essere sicuri e che fondamentale era la contestualizzazione».

Com’era Diano?«È stato un grandissimo grecista che non ha avuto i riconoscimenti che meritava. Scriveva poco. Ma ai suoi scritti occorrerebbe tornare. Era talvolta estroverso, talvolta ombroso e irascibile. A volte sembrava distratto, perduto in un mondo “altro”. Eppure non gli sfuggiva nulla».

Si dice che la differenza tra Iliade e Odissea sta nel fatto che il primo è il poema della forza, mentre l’altro è il poema del viaggio e del ritorno.«È la lettura che ne dà Simone Weil. A mio parere l’Iliade rappresenta l’antica aristocrazia feudale, che educa i figli alle armi, all’agonismo, ma anche alla musica. È l’età delle guerre ma soprattutto dei guerrieri, chiusi nel loro mondo, bramosi di fama, onore e gloria, talvolta feroci ma non immuni dalla pietà. Nell’Iliade la figura di Ulisse sembra introdotta a forza. L’Odissea propone invece l’archetipo dell’uomo legato ai beni materiali, arido, cinico, spesso crudele, anche se capace lui pure di nobili azioni. È il compendio dell’uomo moderno».

Perché ha scelto di tradurli in prosa?«Mi ha guidato una frase di Ernest Ansermet, il grande direttore d’orchestra. Diceva che una prosa che abbia un ritmo è già poesia. Tuttavia oggi sono più che mai convinta che ho tradotto “in perdita d’anima”. Ho tolto all’Iliade il suo passo guerriero, la sospensione dei numerosi enjambement, la forte valenza della pausa a metà del verso. Per l’Odissea ho meno rimorsi: è già romanzo».

Offre di sé un’impressione ondivaga.

«Gliel’ho detto: non ho radici, le uniche che ho messo sono nei libri e in due persone: mia madre e mio marito, Emilio Pianezzola, scomparso quattro anni fa».

Com’è il matrimonio tra due lingue morte?«Abbiamo sempre lavorato separatamente, come se facessimo due mestieri diversi. Inoltre io non amo il latino e lo conosco poco e male. Ma lui oltre a essere uno splendido latinista è stato un uomo unico. Posso dire banalmente che la sua assenza mi ha privato del piacere di dare senso alle cose che faccio, semmai le cose che faccio abbiano avuto un senso per me».

Come ha vissuto questo periodo?«In solitudine. Leggendo. Annoiandomi. Pensando, che è la cosa peggiore che possa fare».

Davvero è la peggiore?«Ciò che provo è leggermente patologico. Anche quando vado fuori io guardo per terra e penso. La mia mente non sta mai ferma. È come una musica, un ritornello, che si insinua nella mia testa e non mi abbandona per giorni. Da brava istriana provo a distrarmi con le faccende domestiche. Stiro, lavo i piatti, spazzo, rammendo e sento che la mia testa si fa leggera. È buffo. Ma è come se improvvisamente azzerassi tutta la tensione e l’ombra si fa chiara fino a sparire».

S g

Maria Grazia Ciani

Che brutta coppiaUlisse e Penelope

I primi anni a Pola, poi travolta dalla guerra e dall’esodo istriano. Gli studi al conservatorio di Venezia. Una vita dedicata ai classici e ai poemi omerici che ha tradotto in prosa

Colloquio con una studiosa che ha conosciuto gli eroi. Ma che li analizza senza farsi illusioni

Le tappe

Non amo il protagonistadell’Odissea e non credo

nemmeno in sua moglie, anche se ho provato a raccontarla

in maniera diversa. E la linguagreca? È come un serpente

di Antonio Gnoli

h La giovinezzaNata a Pola, in Istria, nel 1940, la lascia nel 1945 e si trasferisce con la madre a Venezia, dove si diploma al conservatorio in pianoforte e composizione A Padova si laurea in letteratura greca con Carlo Diano

h L’universitàNel 1980 diviene docente di Lingua e civiltà greca e in seguito di Storia della tradizione classica nell’ateneo di Padova: si occupa di epica, di tragedia e di sopravvivenza dei miti nelle letterature e nell’arte dell’Occidente

h I libriTra le traduzioni la versione in prosa di Iliade e Odissea (per Marsilio) e i Miti greci di Apollodoro (Mondadori)Di recente ha pubblicato il romanzo La morte di Penelope e il saggio Le porte del mito (Marsilio)

f

i Il ritrattoMaria Grazia Ciani in un disegno di Riccardo Mannelli

ROBINSON Straparlando

Sabato, 20 giugno 2020 pagina37.