Guaraldi...© 1995 by Guaraldi/Gu.Fo Edizioni s.r.l. Via Covignano 302, 47037 Rimini ISBN...

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  • E N N E S I M AGrandi classiciGiovani traduzioni

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  • Prima edizione: luglio 1995

    © 1995 by Guaraldi/Gu.Fo Edizioni s.r.l.Via Covignano 302, 47037 Rimini

    ISBN 88-8049-048-6

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  • Woolf

    Una stanza tutta per sé

    Traduzione e cura diGraziella Mistrulli

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  • INDICE

    7 Introduzione di Graziella Mistrulli

    Una stanza tutta per sé

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    101 V118 VI

    139 Note

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  • INTRODUZIONEdi Graziella Mistrulli

    Virginia Woolf nasce a Londra il 25 gennaio 1882, figlia diLeslie Stephen, un affermato critico letterario e storio-grafo, e di Julia Jackson Duckworth, nella casa, non lon-tana da Hyde Park, frequentata dalle personalità piùnote del mondo culturale e letterario inglese. Negli anni tra il 1895 e il 1897 Virginia è colta da crisidepressive, prima a causa della morte della madre, e poidella sorellastra Stella Duckworth, a cui era stata affidata. Nel 1904, in seguito alla morte del padre, Virginia tenta ilsuicidio buttandosi dalla finestra, e soltanto dopo l’estatedi quell’anno raggiunge una guarigione provvisoria. Il1904, tuttavia, è anche l’anno in cui dà inizio alla sua at-tività letteraria con la pubblicazione di alcuni articoli sulsettimanale Guardian e la regolare collaborazione alTimes Literary Supplement.La famiglia Stephen, Virginia, la sorella Vanessa e i duefratelli Thoby e Adrian, si trasferisce nel quartiere diBloomsbury, al n.46 di Gordon Square, dove il giovedìsera gli intellettuali londinesi, tra cui Leonard Woolf, fu-turo marito di Virginia, si ritrovano per discutere di arte,letteratura e politica. Dal 1905 al 1907 Virginia insegna al Morley College,una scuola serale per lavoratori. Il matrimonio con Leonard, il 10 agosto 1912, si rivela

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  • decisivo sia sul piano psicologico che letterario.Nel 1913 il romanzo La crociera viene accettato per lapubblicazione e, in seguito ad un nuovo attacco depres-sivo, Virginia tenta per la seconda volta il suicidio.Nel 1914, con l’inizio della I guerra mondiale, i Woolfsostengono la causa pacifista.Nel 1916 Virginia inizia la sua collaborazione, durataquattro anni, alla Women’s Cooperative Guild, per cuiorganizza e presiede riunioni mensili. L’anno successivofonderà, insieme a Leonard, la Hogarth Press, la casaeditrice che pubblicherà tutti i suoi romanzi e, tra le altreopere, le poesie di T.S. Eliot.Inizia, quindi, intervallata dalle crisi depressive, la pienamaturità letteraria; pubblica i primi grandi successi:Notte e giorno, La camera di Giacobbe, La signoraDalloway e Gita al faro; e poi Orlando, Una stanzatutta per sé, Le onde, Gli anni e Le tre ghinee.Alle prese con l’ultimo romanzo, Tra un atto e l’altro, lesue condizioni mentali si aggravano ulteriormente e il 28marzo 1941 Virginia si suicida gettandosi nel fiume Ouse.L’interesse della letteratura del primo Novecento, perl’influenza anche delle teorie di Freud e di Jung, sisposta dall’esterno verso l’interno, verso la psicologia e leintime motivazioni dei personaggi, per una visione piùprofonda dell’esperienza. Le impercettibili associazionidel pensiero, l’infinita serie di passaggi mentali che ac-compagnano anche le nostre frasi più brevi o i gesti piùinsignificanti, scandiscono il tempo della vita e organiz-zano il romanzo della Woolf, e soprattutto di JamesJoyce, intorno al “monologo interiore” e al “flusso di co-scienza”, nel tentativo di riprodurre, libero dalla direttainterferenza dell’autore, il non-compiuto, il non-dettodell’esperienza più intima.La produzione letteraria di questi anni si pone come

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  • scarto radicale rispetto al realismo del secolo precedente, ènegazione della possibilità di una realtà totalmente cono-scibile e fedelmente rappresentabile dalla scrittura cheallora diventa, in epoca modernista, strumento di costru-zione della realtà, mezzo privilegiato per imporre unaforma artistica sul caos del mondo fenomenologico. Cos’è il reale e come può essere catturato dalla scrittura èproprio l’interrogativo che attraversa tutta la produzionedella Woolf, la ricerca, nei romanzi, racconti, diari, let-tere, saggi, di una modalità di rapporto con il reale checonsenta di metterne in relazione il dato oggettivo conl’illuminazione soggettiva. La vita, “luminous halo”,“semi-transparent envelope”, (scrive Virginia in ModernFiction, nel 1919) è composta in un insieme sensato soloin quei momenti isolati di magica illuminazione, le epi-fanie della scrittura modernista, spazi del simbolico, incui le cose formano un disegno finalmente compiuto. InGita al faro, generalmente riconosciuto come il capola-voro della Woolf, Lily Briscoe, l’artista la cui opera at-tende da tempo un compimento logico, completa il suoquadro in un’epifania finale che investe non solo la suaricerca espressiva, ma le rivela anche la forma-nel-caosdella realtà e la possibilità di conciliare maschile e fem-minile; Lily, come Virginia, riesce ad andare oltre la se-paratezza dei ruoli, oltre la contrapposizione della razio-nalità, l’energia intellettiva, spietata e insensibile, del si-gnor Ramsay da una parte, all’immaginazione, l’energiacreatrice, rassicurante e stabilizzante il flusso dell’espe-rienza, della signora Ramsay dall’altra. Anche Orlando, uomo-donna, l’androgino che attraverso isecoli partecipa del maschile e del femminile, riproponela conciliazione dei generi, e non la loro gerarchizza-zione, come possibilità di creazione artistica, forma privi-legiata della fusione.

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  • Intorno al maschile e al femminile, ruoli irrigiditi e isti-tuzionalizzati dai pregiudizi della storia, e componentinecessarie della mente dell’artista, che solo in uno statoandrogino, di “matrimonio degli opposti”, può realizzarela creazione, si articola anche il saggio del 1929, Unastanza tutta per sé, basato sulle due conferenze tenutedalla Woolf l’anno precedente alle studentesse dell’uni-versità di Cambridge. Fin dall’inizio questo testo è struttura aperta e destabiliz-zante: cosa c’entra il titolo Una stanza tutta per sé conl’argomento della conferenza Le donne e il romanzo? Larisposta non sarà semplice, tantomeno scontata. Quelloche segue, infatti, è una storia, una finzione, il racconto,movimento a più riprese interrotto e deviato, dei giorniche precedono la conferenza. Non il prodotto finito, lapura gemma di verità, ma il processo, il divenire del pen-siero in tutte le sue tortuosità; una serie di gesti agitati chevieta la compiacenza, la sicurezza e la chiusura mentale.“Io è soltanto una comoda espressione per indicare qual-cuno che non esiste in realtà.” Il personaggio/narratoresi presenta subito come entità fluida, mutevole, che ri-fiuta un’identità precisa e limitante, persino un nome co-stante, e preferisce piuttosto rivelare il farsi, disfarsi e in-terrompersi dei suoi pensieri. “Chiamatemi Mary Beton,Mary Seton, Mary Carmichael o con qualsiasi altro nomevi piaccia, non ha alcuna importanza.” Le tre Mary, fi-gure di una vecchia ballata inglese che narra dell’impic-cagione di una quarta Mary, Mary Hamilton, colpevoledi aver ucciso il frutto delle insidie del re, sovrappon-gono le loro voci e le loro identità e si ritrovano, insiemealle tante donne protagoniste e comparse di questosaggio, nella figura di Judith Shakespeare, emblema dellasofferenza e della repressione femminile. L’io narrante,allora, parla alle studentesse e al tempo stesso prepara la

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  • conferenza, racconta del ricco pranzo in un college ma-schile e della magra cena in uno femminile, narra diLondra e del British Museum, incontra la studiosa MarySeton e alla fine si sovrappone a lei, prendendo il nomedi Mary Beton. La forma fluida e aperta del testo, il continuo porre do-mande che non trovano risposta, o solo una risposta par-ziale, si pone come rifiuto del dogmatico, proposta dipercorso conoscitivo, in un sottile intreccio di finzione erealtà; la storia delle donne e delle loro creazioni lette-rarie, o meglio la storia dell’assenza delle donne dal-l’arte, dalla politica e gli affari, la storia di un’esclusionesecolare per l’ostilità dell’altro sesso, si alterna sapiente-mente al racconto delle dolorose esclusioni del narratore,delle sue frustrazioni nella ricerca della conoscenza, e delcontinuo interrompersi del flusso dei suoi pensieri.Le donne sono viste, dunque, come già aveva fatto allafine del Settecento Mary Wollstonecraft, come le vittimeculturali dell’incontenibile desiderio di superiorità e pre-dominio che contraddistingue l’altro sesso, della sua seteincontrollata di potere che ha fatto di esse delle escluse;quel desiderio di predominio che è ricorso al disprezzo eallo scherno per la donna che avesse avuto l’ardire di se-guire liberamente le proprie inclinazioni. Judith Shake-speare, personaggio fittizio di cui Virginia Woolf si di-verte a tracciare una biografia, è la personificazione delladiversa sorte riservata al genio di sesso femminile, labrillante parabola della privazione femminile. E’ solocon Aphra Behn, nel Settecento, che la donna di talentonon è più la folle costretta a fuggire la società, ma è lascrittrice di professione che può rompere finalmente il si-lenzio quasi assoluto dei secoli precedenti per esprimerese stessa senza paure e vivere del suo lavoro. Da segno difollia, dunque, scrivere diventa di importanza pratica.

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  • Libertà di pensiero e indipendenza economica sono perla Woolf intimamente collegate: quando le donneavranno una stanza tutta per sé, non quella stanza in cuisono state rinchiuse per secoli a sognare il mondo al difuori, ma il luogo, fisico e metaforico, in cui potersi al-lontanare dalle interruzioni della vita domestica, da co-loro che consigliano, ordinano, giudicano, allora po-tranno essere se stesse e vivere a contatto con la realtà,non più in isolamento, ma in una nuova e più intensa re-lazione con il mondo. Una stanza tutta per sé e cinque-cento sterline all’anno: questa è la risposta di VirginiaWoolf al problema delle donne e il romanzo, ed è questal’esortazione che rivolge alle studentesse di Cambridge.Le invita a conoscere il mondo, a scrivere non solo ro-manzi e, soprattutto, a scrivere senza rabbia, senza paura,senza amarezza; la scrittura non deve più essere strumentodi autoespressione, ma creazione artistica. Le donne de-vono scrivere da donne, con un linguaggio adatto a loro, edevono scrivere di cose importanti per loro. Dunque nonl’imitazione dell’altro sesso, nei suoi atteggiamenti, valori,linguaggio, e la rinuncia ai propri, ma l’affermazione dellaspecificità del femminile, contro l’ordine esistente, controun concetto di uguaglianza che è l’accettazione di un unicomodello, l’uomo. La mente dello scrittore deve allora farsiluogo dell’unione tra maschile e femminile, perché l’artenon può nascere se non da una mente androgina, la cui in-terezza non è altro che eterogeneità, coesistenza dei duesessi. La scrittura non deve fornire lo strumento per riven-dicare il proprio sesso, come fa quella del signor A o diCharlotte Brontë, entrambe prodotto di una mente deltutto maschile o femminile, ma deve offrirsi come lin-guaggio sessualmente inconsapevole che è, al tempostesso, unico della donna o dell’uomo. Dimenticare il pro-prio sesso, sostiene la Woolf, non cancella la differenza.

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  • In Una stanza tutta per sé, allora, che è scrittura femmi-nile, quindi non dogmatica, scrittura sempre interrottaperché sempre aperta al sovrapporsi contraddirsi intrec-ciarsi delle idee, ciò che colpisce il lettore è l’esaltazionedella libertà, fisica, materiale, mentale, intellettuale, l’esor-tazione a godere di essa intensamente, l’amore per la vita.Il saggio si chiude con una nota di fiducia nelle possibilitàdelle donne: Judith, l’immaginaria sorella di Shakespeare,la poesia al femminile che ha vagato di corpo in corpoperché costretta ad abbandonare il proprio, rinascerà; lofarà quando le donne saranno libere, economicamente eintellettualmente, non avranno modelli maschili da ri-spettare e affronteranno la vita chiedendo aiuto soltanto ase stesse. Ci vorrà del tempo, forse cento anni, forse dipiù; lo sforzo sarà considerevole, ma ne varrà la pena.Non sono ancora trascorsi i cento anni che VirginiaWoolf credeva necessari perché quel futuro di libertà tro-vasse la sua completa realizzazione, e certamente ce nevorranno tanti ancora perché tutte le donne siano real-mente libere, economicamente e intellettualmente. L’in-terrogarsi sulla povertà delle donne che punteggia, co-stante, Una stanza tutta per sé, quella domanda a cuineanche l’immensa mole di cultura racchiusa nel BritishMuseum ha potuto fornire una risposta, fa discutereanche le donne di quest’ultimo scorcio di secolo, an-ch’esse per la maggior parte povere, dicono le statistiche.Ed ecco perché un saggio del 1929, anche se tanto pocoarrabbiato, sulle donne e la società, la storia, la lettera-tura, gli uomini, val la pena ancora di essere letto, nonsolo come testimonianza storica della sofferenza delledonne, ma soprattutto per un’esigenza di riflessione, suquanto le donne sono riuscite a fare, quanto è stato loroimpedito di fare, sul romanzo al femminile, il rapportocon gli uomini, le difficoltà, in definitiva, della donna

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  • che non voglia più vivere soltanto come sostegno e pre-senza rassicurante per l’uomo e che, al tempo stesso, nonabbia ancora trovato in se stessa quella sicurezza neces-saria per affrontare la vita e abbandonare la nicchia pro-tetta di un ruolo cristallizzato e sempre secondario.Ecco perché, vagando curiosa in una libreria di Bloom-sbury, presa dall’affannosa ricerca di libri, tanti libri, il ti-tolo Una stanza tutta per sé mi ha subito conquistata;l’idea di uno spazio privato, recesso fisico e metaforico,luogo separato del crearsi e decantarsi del mio pensiero,ha suscitato tanto interesse in me da non poter rinunciare aleggerlo. E leggerlo è stato molto piacevole; conversarecon Virginia Woolf sulle cause del silenzio delle donne,osservarla scavare nella storia per riportare alla luce co-loro che hanno lottato per rompere quel silenzio, essereparte, con lei, di una “genealogia, una filiazione di donne,un progetto di cultura di donne”, (da Progetto VirginiaWoolf - Parole. Immagini. Quaderni del Centro Studidonnawomanfemme, 1985) ha destato una consapevo-lezza sopita. Le donne del passato hanno sofferto e lottatoperché le trame viscose di un mondo pensato dagli uo-mini per gli uomini cominciassero ad allentarsi.Oggi la condizione della donna è in gran parte cambiata,ma si tratta solo di “emancipazionismo” o della vera ri-voluzione culturale che il femminismo auspicava e cheavrebbe dovuto cambiare in maniera radicale lo statusfemminile non soltanto nella società, ma anche nel mi-crocosmo della famiglia? Siamo comunque ancora lon-tani, secondo l’ultimo femminismo, da una società paci-fista, olistica, conservatrice dell’ambiente e rispettosadella natura, una società, cioè, al femminile.E allora Virginia Woolf e Una stanza tutta per sé, ladonna intellettuale, impegnata, problematica, creativa, eil racconto di un’esclusione secolare quale spinta ad esserci e

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  • a colmare l’assenza, possono proporsi anche alla donna delduemila come progetto, programma, manifesto?Credo di sì. Perché, nonostante la Woolf sia una figuraportante, il simbolo storico, del primo femminismo, quelprogetto di autonomia dobbiamo ancora perfezionarlo, el’androginia della mente ci appare tuttora un concetto ra-dicale, se è da intendersi come apertura dell’unità fissa inuna molteplicità, come valorizzazione dell’eterogeneità, ri-fiuto dell’uguaglianza. E Virginia Woolf rimane, inoltre,un termine di confronto inevitabile, pur se da qualcheparte criticata per aver eccessivamente smorzato la rabbia,per non aver assunto una posizione forte sulla vera naturadella donna (genetica o cultura?), per aver scelto una scrit-tura che si rifugia nella finzione, nelle “menzogne”, evi-tando i “fatti”, “la verità”, e favorendo la strategia dellohumour, della satira. Ma i fatti sono dominio esclusivodegli uomini e Judith può essere solo ricreata con la fan-tasia: la sua esistenza storica è andata del tutto perduta.Alla luce dell’ultimo femminismo, tuttavia, della teoriache con Luce Irigaray assume la differenza sessuale, enon la neutralizzazione, come unico strumento per la li-berazione delle donne, Una stanza tutta per sé offrespunti interessanti. “Non dovrebbe l’educazione eviden-ziare e rafforzare le differenze [tra i sessi], piuttosto chele somiglianze?” si legge nel saggio, e sono numerosi i ri-ferimenti alle donne come esseri diversi (“le donne, adifferenza degli uomini, non sono dominate da idee dipossesso e dominio”); le donne, dice la Woolf, pensanoattraverso le loro madri, ed è quanto affermano alcunefemministe oggi, quando rivalutano il materno e il le-game con la madre, una capacità biologica che le renda“soggetti sessuati femminili” .Possiamo allora leggere la signora Ramsay di Gita al farocome l’incarnazione della moderna scienza al femminile,

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  • non violenta, organica, conservatrice e protettrice dellavita, il punto di vista sul mondo come di un tutto inter-connesso, a cui si oppone radicalmente il signor Ramsay,la lama di coltello, il sapere maschile, distruttore. Lily,l’artista donna, può completare la propria ricerca artisticasolo quando entrerà in sintonia profonda con la madre,con la signora Ramsay; solo allora potrà conciliare ma-schile e femminile, e realizzerà una mente androgina. L’esigenza di una scrittura al femminile, inoltre, di unalingua, come dice la Woolf, che si adatti al corpo femmi-nile e possa dar voce al soggetto femminile, anticipa certe ri-vendicazioni femministe di oggi che sottolineano l’impor-tanza, per la liberazione della donna, di un mutamentoprofondo nella lingua: l’ordine linguistico deve accogliereil genere femminile e attribuirgli il suo giusto valore.Dunque Virginia Woolf profetessa della differenza, sim-bolo di un femminismo superato o addirittura snob, in-tellettuale asservita al sistema capitalistico, protetta dallasua classe sociale, dal marito, dalla ristretta cerchia diamicizie aristocratiche? Forse tutti questi aspetti convi-vono in lei, come convivevano in lei malattia e scrittura-come-strumento-di-vita, depressione e creatività; o forseè solo l’accumularsi delle diverse letture che ogni epocapropone, sovrapponendo le proprie alle precedenti,quando interroga una scrittura densa e problematica. Con Virginia Woolf e con questo saggio, tuttavia, sembrainevitabile doversi confrontare quando si voglia rifletteresulle donne, non solo al passato, ma anche al presente eal futuro, come testimonia l’inarrestabile proliferare dicitazioni, nuove traduzioni e saggi critici. E se ogninuovo testo è accrescimento dei testi precedenti, nuovastratificazione su sedimenti già esistenti e pertanto im-prescindibili, allora Una stanza tutta per sé risuona dimille echi ed è nota inconfondibile di quanto scritto più

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  • tardi; ne è un esempio, tra i tanti che si propongono, ilsaggio di Karen Horney, Fuga dalla femminilità, del1926, nel quale si sottolinea l’esigenza degli uomini, lorosingolare caratteristica, di denigrare le donne, o il celebreIl secondo sesso di Simone de Beauvoir, del 1949, in cui siafferma che se la donna deve ancora lottare per diventareun essere umano, non può essere una creatrice, e diven-terà una poetessa, citando la profezia di Rimbaudquando “l’infinita schiavitù della donna sarà spezzata,quando vivrà per sé e attraverso sé”. Concludendo, poi, il suo studio sull’oppressione delladonna, Simone de Beauvoir ci riporta al tema principaledel saggio della Woolf: se un cambiamento nelle condi-zioni economiche non è sufficiente perché nasca la donnanuova, afferma Simone de Beauvoir per chiudere il suostudio sull’oppressione della donna, pure è stato e ri-mane il fattore principale della sua evoluzione.Le donne allora, chiuse in una stanza tutta per sé, leg-gono ancora questo saggio al femminile e femminista,(benché Virginia temesse di essere così definita, come te-stimonia il suo diario) e anch’io, chiusa in una stanzatutta per me, l’ho letto, riletto, tradotto, meditato, com-mentato; lontana dai rumori e dalle interruzioni, comeVirginia Woolf auspicava, ho tradotto questo saggio cer-cando di rispettarne l’organizzazione testuale quanto piùpossibile, nelle scelte lessicali e strutturali, nello stile enel tono. Se può essere in qualche modo colmata la di-stanza tra l’originale e le sue innumerevoli traduzioni,questo ennesimo tentativo insegue l’ambizioso obiettivodella rigorosa fedeltà al testo, della rinuncia alle facili“deviazioni”, per tentare di riprodurre quelle configura-zioni che l’intimo intreccio di forma e contenuto assumenello spazio senza confini della scrittura, in un scambioosmotico che annulla le separazioni.

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    Ma, forse direte, le abbiamo chiesto di parlare delledonne e il romanzo - che cosa c’entra con l’avere unastanza tutta per sé? Cercherò di spiegare. Quando miavete chiesto di parlare delle donne e il romanzo mi sonoseduta sulla sponda di un fiume e ho cominciato a do-mandarmi cosa volessero dire quelle parole. Potevanosemplicemente significare qualche osservazione su FannyBurney; qualcuna in più su Jane Austen; un tributo allesorelle Brontë e una rapida descrizione del presbiterio diHaworth sotto la neve; qualche arguzia, se possibile, sullasignorina Mitford; una rispettosa allusione a GeorgeEliot; un accenno alla signora Gaskell, e avrei finito. Ma,ripensandoci, quelle parole non apparivano più così sem-plici. Il titolo Le donne e il romanzo poteva significare, eprobabilmente era vostra intenzione che significasse, ledonne e la loro realtà; o poteva voler dire le donne e i ro-manzi che esse scrivono; oppure le donne e i romanziscritti su di loro, o poteva voler dire che in qualche modotutte e tre le interpretazioni sono inestricabilmente unitee volete che le consideri in questa luce. Ma quando iniziai aconsiderare l’argomento da quest’ultimo punto di vista,che mi sembrava il più interessante, mi resi subito contoche presentava un inconveniente fatale. Non sarei maistata capace di giungere ad una conclusione. Non sareimai riuscita ad adempiere quello che ritengo il primocompito di un oratore: porgervi, dopo un’ora di discorso,

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  • una gemma di verità pura da avvolgere tra le pagine deivostri appunti e conservare per sempre sulla mensola delcamino. Tutto quello che potevo fare era offrirvi un’opi-nione su una questione di second’ordine: se ha intenzionedi scrivere romanzi, una donna deve possedere denaro euna stanza tutta per sé; e ciò, come vedrete, lascia inso-luto il grande problema della vera natura della donna edella vera natura del romanzo. Mi sono sottratta dunqueal dovere di giungere ad una conclusione per questi dueproblemi: donne e romanzo rimangono, per quanto miconcerne, problemi insoluti. Ma per riparare in qualchemodo, farò del mio meglio per mostrarvi come sonogiunta a questa idea della stanza e del denaro. Vi illu-strerò, nella maniera più dettagliata e franca possibile, ilsusseguirsi dei pensieri che mi ha portato a quell’idea.Forse, messi a nudo i pregiudizi e le idee che sottendonoquella affermazione, converrete che hanno qualche rela-zione con le donne e con il romanzo. Ad ogni modo,quando un argomento è molto controverso - e qualsiasiquestione sul sesso lo è - non si può sperare di dire la ve-rità. Si può soltanto dimostrare come si è giunti ad averela propria opinione, qualunque essa sia. Si può solo of-frire al pubblico la possibilità di trarre le proprie conclu-sioni mentre prende nota delle limitazioni, i pregiudizi ele peculiarità dell’oratore. È probabile che allora il ro-manzo contenga più verità della realtà. Intendo, perciò,servendomi di tutte le libertà e le licenze del romanziere,raccontarvi la storia dei due giorni che hanno precedutoil mio arrivo qui, di come, curva sotto il peso dell’argo-mento che avete posto sulle mie spalle, lo soppesavo, e nefacevo pensiero costante della mia vita quotidiana. È inutiledire che ciò che sto per descrivere non esiste; Oxbridge èun’invenzione; e anche il college di Fernham; “io” è solouna comoda espressione per indicare qualcuno che nonesiste nella realtà. Menzogne fluiranno dalle mie labbra,

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  • ma ad esse potrà essere mescolata qualche verità; spetta avoi scovare questa verità e decidere se val la pena conser-varne una parte. In caso contrario, getterete naturalmentetutto quanto nel cestino, e non ci penserete più.Eccomi allora (chiamatemi Mary Beton, Mary Seton,Mary Carmichael o con qualsiasi altro nome vi piaccia,non ha alcuna importanza) seduta sulla sponda di unfiume una o due settimane fa in una bella giornata di ot-tobre, assorta nei miei pensieri.Quel collare di cui ho parlato, le donne e il romanzo, lanecessità di giungere a qualche conclusione su un argo-mento che suscita ogni sorta di pregiudizi e passioni, pie-gava la mia testa fino a terra. A destra e a sinistra certi ar-busti, oro e cremisi, si accendevano dei colori del fuoco,sembravano persino bruciare. Sulla riva opposta i salicipiangevano in lamento perpetuo, le chiome scomposte. Ilfiume rifletteva a suo piacimento parte del cielo, del ponte edell’albero infuocato, e non appena lo studente aveva so-spinto la sua barca attraverso i riverberi, questi si chiude-vano di nuovo, completamente, come se egli non fossemai esistito. Sarebbe stato possibile rimanere seduti lì perore, assorti nei propri pensieri. I miei pensieri - per chia-marli con un nome più altisonante di quanto meritassero -avevano gettato la lenza nella corrente. Essa ondeggiava,minuto dopo minuto, qua e là, tra i riverberi e le alghe, la-sciando che l’acqua la sollevasse e l’affondasse finché - co-noscete il piccolo strappo, l’improvvisa conglomerazionedi un’idea alla fine della sua lenza, e poi il cauto tirarla su el’attento adagiarla fuori dell’acqua? Ahimè, adagiato sul-l’erba, come appariva piccolo e insignificante questo miopensiero; il tipo di pesce che il bravo pescatore butta dinuovo nell’acqua perché possa ingrassare e valga la penaun giorno di cuocerlo e mangiarlo. Non voglio seccarviadesso con quel pensiero, per quanto, guardando attenta-mente, potrete trovarlo da sole in ciò che sto per dire.

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  • Tuttavia, per quanto fosse piccolo, possedeva, nondi-meno, quella misteriosa caratteristica che è propria dellasua specie: riportato nella mente, divenne subito moltoeccitante e molto importante; e guizzando e poi lascian-dosi cadere, e lampeggiando qua e là, creò un tale turbine etumulto di idee, che fu impossibile rimanere seduta. Fucosì che mi ritrovai ad attraversare con estrema rapiditàun terreno erboso. Immediatamente comparve la figuradi un uomo a fermarmi. Né d’altronde compresi subitoche le gesticolazioni di quell’oggetto strano, in giaccacorta e camicia da cerimonia, erano dirette a me. Il suovolto esprimeva orrore e indignazione. L’istinto, piuttostoche la ragione, venne in mio aiuto; lui era un custode; ioero una donna. Questo era il prato; quello il sentiero. Sol-tanto ai professori e agli universitari è permesso passeg-giare qui; la ghiaia è il posto per me. Tali pensieri furonoquestione di un momento. Non appena riguadagnai ilsentiero, le braccia del custode si abbassarono, il viso ri-tornò alla consueta compostezza, e, benché sia più co-modo camminare sull’erba che sulla ghiaia, non era suc-cesso niente di molto grave. L’unico rimprovero che po-tevo fare ai professori e agli studenti di qualunque fossequell’università, era che, per proteggere il loro prato,spianato per 300 anni di seguito, avessero fatto nascon-dere il mio pesciolino.Quale fosse stata l’idea che aveva causato la mia tanto au-dace intrusione, non riuscivo più a ricordare. Lo spiritodella pace discese come una nuvola dal cielo, perché se lospirito della pace dimora in qualche luogo, è nei cortili enei prati di Oxbridge, in una bella mattina di ottobre.Passeggiando attraverso quei collegi, lungo quelle antichesale, l’asprezza del presente sembrava addolcirsi; il corposembrava racchiuso in una vetrina miracolosa che non la-sciava penetrare nessun suono, e la mente, sciolta da ognilegame con la realtà (purché non si calpestasse il prato

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  • un’altra volta), era libera di dedicarsi a qualsiasi medita-zione fosse in armonia con il momento. Fu per volere delcaso che dei ricordi isolati di un vecchio saggio sul ri-torno a Oxbridge durante le vacanze mi rammentasseroCharles Lamb; “Santo Charles”, diceva Thackeray, pog-giando una lettera di Lamb sulla fronte. Infatti, tra tutti imorti (vi riporto i miei pensieri così come mi venivano),Lamb è uno dei più affini al mio spirito; colui al quale misarebbe piaciuto domandare: “Mi dica, come ha fatto ascrivere i suoi saggi?” Perché i suoi saggi sono superioripersino a quelli di Max Beerbohm, nonostante tutta laloro perfezione, pensai, grazie a quell’indomito lampodell’immaginazione, quella fulminante esplosione delgenio nel mezzo, che li lascia incrinati e imperfetti, mastellati di poesia. Dunque Lamb venne ad Oxbridge,forse cento anni fa. È certo che scrisse un saggio - il cuinome mi sfugge - sul manoscritto di una poesia di Miltonche si trovava qui. Era forse Licida; e Lamb scrisse dicome era stato sconvolgente per lui pensare alla possibi-lità che una qualunque parola di Licida avesse potuto es-sere diversa da come è adesso. Pensare che Milton avevamodificato le parole di quella poesia gli sembrava unasorta di sacrilegio. Ciò mi portò a ricordare tutti i passiche conoscevo di Licida, divertendomi ad indovinarequale poteva essere stata la parola che Milton aveva cam-biato, e perché. Mi venne in mente poi che proprio quelmanoscritto studiato da Lamb era solo a poche centinaiadi metri e avrei potuto seguire i passi di Lamb attraversola corte interna, verso quella famosa biblioteca in cui ècustodito il tesoro. Mi sovvenne, inoltre, mentre mettevoin esecuzione il mio piano, che in quella famosa biblio-teca si trova anche il manoscritto dell’Esmond diThackeray. I critici spesso affermano che Esmond è il ro-manzo più perfetto di Thackeray. Tuttavia, per quel cheriesco a ricordare, è d’impaccio l’affettazione dello stile,

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  • con la sua imitazione settecentesca; a meno che lo stilesettecentesco non riuscisse naturale a Thackeray - fattoche avrei potuto provare guardando il manoscritto e veri-ficando se i cambiamenti fossero a vantaggio dello stile odel significato. Ma allora dovremmo convenire su cos’è lostile e cos’è il significato, una questione che... ma eccomiarrivata alla porta che conduce proprio nella biblioteca.Devo averla aperta perché immediatamente ne vennefuori, come un angelo custode a precludere con disap-provazione il passaggio, tra svolazzi di una tunica nera in-vece che di bianche ali, un signore canuto e gentile, ilquale a bassa voce mi disse con rammarico, mentre mi fa-ceva segno di andare via, che le signore sono ammessealla biblioteca solo se accompagnate da un professore delcollege o munite di lettera di presentazione.Che una famosa biblioteca sia stata maledetta da unadonna, è cosa di nessuna importanza per una famosa bi-blioteca. Venerabile e tranquilla, con tutti i suoi tesori alsicuro nel suo seno, essa dorme compiaciuta e, per quantomi riguarda, così dormirà per sempre. Mai risveglieròquegli echi, mai più chiederò la sua ospitalità, giuravomentre scendevo le scale furibonda. Ancora un’ora man-cava per il pranzo; cosa si poteva fare? Vagabondare per iprati? Sedersi lungo il fiume? Certo era una bella mattinad’autunno; le foglie volteggiavano rosse fino a terra; farel’una o l’altra cosa non avrebbe comportato nessunagrande fatica. Ma un suono di musica arrivò alle mie orec-chie. Ci doveva essere qualche messa o celebrazione reli-giosa. Mentre passavo davanti alla cappella, l’organo si la-mentava sontuosamente. In quell’atmosfera serena, per-sino il dolore del cristianesimo risuonava più come il ri-cordo del dolore che non il dolore stesso; persino i la-menti del vecchio organo sembravano avvolti nella pace.Non avevo alcun desiderio di entrare, anche se ne avessiavuto il diritto; e questa volta avrebbe potuto fermarmi il

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  • sagrestano, chiedendomi forse il certificato di battesimo ouna lettera di presentazione del decano. Ma spesso l’e-sterno di questi magnifici edifici è bello quanto l’interno.Inoltre era piuttosto divertente guardare i fedeli adunarsi,entrare e uscire fuori di nuovo, affaccendati all’ingressodella cappella come api alla bocca di un alveare. Moltierano in tocco e toga; alcuni avevano bordi di pellicciasulle spalle; altri venivano spinti su sedie a rotelle; altri an-cora, benché non oltre la mezza età, sembravano raggrin-ziti e rattrappiti in forme talmente singolari da ricordarequei granchi giganteschi e quegli immensi gamberi che sisollevano con difficoltà sulla sabbia di un acquario.Stando appoggiata al muro, l’università mi appariva infatticome una riserva in cui si conservano quelle specie rareche si sarebbero subito estinte se lasciate a lottare per lavita sui marciapiedi dello Strand. Mi tornarono alla mentevecchie storielle di vecchi rettori e vecchi professori, maprima che avessi trovato il coraggio di fischiare - si dicevache il vecchio professor ***, appena sentiva un fischio, simetteva immediatamente a galoppare - la venerabile con-gregazione era entrata. Rimaneva l’esterno della cappella.Come sapete, le sue alte cupole e i suoi pinnacoli nonscompaiono mai dalla vista, come un veliero sempre inviaggio che non giunge mai a destinazione, illuminati dinotte e visibili per miglia, lontano oltre le colline. Untempo, probabilmente, anche la corte quadrata di questocollege, con i suoi prati curati, i suoi edifici imponenti e lacappella stessa, sarà stata una palude, dove le canne on-deggiavano e i maiali grufolavano. File di cavalli e buoi,pensai, devono aver trasportato carri di pietre da paesilontani; e poi con immensa fatica i massi grigi, alla cuiombra io ora indugiavo, furono ordinatamente posatil’uno sull’altro; e poi i pittori portarono il vetro per le ve-trate, e i muratori lavorarono per secoli su quel tetto constucco e cemento, vanga e cazzuola. Ogni sabato qual-

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  • cuno deve aver versato da un sacchetto di pelle oro e ar-gento nei loro palmi antichi, perché la sera probabilmentese la spassavano. Fiumi interminabili d’oro e d’argento,pensai, devono aver solcato questa corte senza sostaperché le pietre continuassero ad arrivare e i muratori alavorare, a livellare, fare fossati, scavare e prosciugare. Maera quella l’età della fede, e il denaro fu elargito in abbon-danza per porre queste pietre su fondamenta solide; e unavolta innalzati gli edifici, ancora più denaro fu versato daiforzieri di re e regine e grandi nobili perché qui si cantas-sero gli inni e gli studiosi vi fossero istruiti. Si donaronoterre; si pagarono decime. E quando si concluse l’età dellafede e sopraggiunse l’età della ragione, continuò lo stessofluire d’oro e d’argento; furono istituite cattedre; furonoconferiti incarichi; solo che l’oro e l’argento provenivaadesso, non dai forzieri dei re, ma dalle casse di mercantie fabbricanti, dalle borse di uomini che si erano costruitiuna fortuna con la loro operosità, e nei loro testamenti nerestituivano una parte cospicua per conferire più cattedre,più incarichi, più borse di studio, all’università in cui ave-vano imparato il mestiere. Di qui le biblioteche e i labora-tori; gli osservatori; lo splendido apparato di strumenti co-stosi e delicati che ora si trovano su mensole di vetro, làdove secoli fa le canne ondeggiavano e i maiali grufola-vano. Certo, meditavo gironzolando nel cortile, le fonda-menta d’oro e d’argento sembravano abbastanzaprofonde; il selciato poggiava solidamente sulle erbe sel-vatiche. Uomini con vassoi sulla testa si affaccendavano discala in scala. Fiori sgargianti sbocciavano sui davanzali.Dalle stanze interne le arie del grammofono arrivavano atutto volume. Era impossibile non riflettere - ma la mia ri-flessione, qualunque essa poteva essere, fu interrotta. L’o-rologio suonò. Era ora di andare a pranzo.È un fatto singolare che i romanzieri riescano a farci cre-dere che i pranzi siano immancabilmente memorabili per

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  • qualcosa di molto spiritoso che venne detto, o per qual-cosa di molto saggio che venne fatto. Raramente peròspendono qualche parola per quello che si è mangiato. Èparte delle convenzioni del romanziere non menzionarené minestra, né salmone e né anatra, come se minestra,salmone e anatra non fossero di alcuna importanza, comese mai nessuno fumasse un sigaro o bevesse un bicchieredi vino. Qui, tuttavia, mi prenderò la libertà di sfidarequella convenzione e di dirvi che il pranzo in quell’occa-sione cominciò con delle sogliole, distese in un piattoprofondo, che il cuoco del college aveva coperto con unostrato di crema bianchissima, se non per il fatto che erasegnata qua e là da macchie scure, come le macchie suifianchi di una daina. Seguirono le pernici, ma se ciò visuggerisce un paio di uccelli spennati e bruni su unpiatto, vi sbagliate. Le pernici, abbondanti e varie, arriva-rono con tutto il loro seguito di salse e insalate, quellepiccanti e quelle dolci, ognuna nel giusto ordine; con leloro patate, sottili come monete ma non altrettanto dure;i loro cavolini, gonfi di petali come boccioli di rosa, mapiù succulenti. E non appena si terminò con l’arrosto e ilsuo seguito, il silenzioso cameriere, forse il custode stessoin una manifestazione più gentile, posava davanti a noi,avvolto di tovaglioli, un dolce che era un gonfiarsi di zuc-chero in tutte le sue ondulazioni. Chiamarlo budino, equindi associarlo a riso e tapioca, sarebbe un insulto. Nelfrattempo i calici si erano accesi di giallo e di rosso; eranostati vuotati; erano stati riempiti. E così gradualmente siaccendeva, a metà strada lungo la spina dorsale, sede del-l’anima, non quella piccola e vivida luce elettrica chechiamiamo intelligenza vivace, perché esplode e si spegnesulle nostre labbra, ma l’incandescenza più profonda, sot-tile e sotterranea che è la fiamma giallo brillante della co-municazione razionale. Senza fretta. Senza scintille. Senzadover essere altro che se stessi. Stiamo tutti andando in

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  • paradiso e Vandyck fa parte della compagnia; in altre pa-role, come appariva bella la vita, dolci le sue ricompense,insignificante questo rancore o quel risentimento, ammi-revole l’amicizia e la compagnia dei nostri simili, quando,accendendo una buona sigaretta, affondavamo tra i cu-scini, nel divano accanto alla finestra.Se avessi avuto la fortuna di avere un portacenere a por-tata di mano; se, non trovandolo, non avessi fatto cadere lacenere fuori della finestra; se le cose fossero state un po’diverse da come erano, non avrei visto, probabilmente, ungatto senza coda. Vedere quell’animale inatteso e mozzatoattraversare lento e silenzioso il cortile mutò in me, col-pendo inaspettatamente l’intelligenza inconscia, la lucedell’emozione. Fu come se qualcuno avesse gettatoun’ombra. Forse l’ottimo vino del Reno stava abbando-nando la presa. Certo, mentre guardavo quel gatto senzacoda soffermarsi nel mezzo del prato come se anch’essointerrogasse l’universo, qualcosa sembrava mancare, c’eraqualcosa di diverso. Ma che cosa mancava, cosa c’era didiverso?, mi chiedevo, ascoltando la conversazione. E perrispondere a quella domanda dovetti immaginarmi fuoridella stanza, indietro nel passato, prima della guerra in ve-rità, e porre davanti ai miei occhi l’immagine di un altropranzo, tenuto in stanze non molto distanti da queste; madiverse. Tutto era diverso. Intanto la conversazione conti-nuava tra gli invitati, che erano tanti e giovani, di un sesso odell’altro; procedeva a meraviglia, procedeva piacevol-mente, libera, divertente. E mentre procedeva, la sovrap-posi a quell’altra conversazione, e mentre le confrontavo,non avevo alcun dubbio che una era la discendente, l’e-rede legittima dell’altra. Niente era cambiato; niente eradiverso, tranne solo... E qui mi misi ad ascoltare intensa-mente, non esattamente quello che stavano dicendo, ma ilmormorio o la corrente dietro le loro parole. Sì, ecco co-s’era; questo era il cambiamento. Prima della guerra, a un

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  • pranzo come questo, si sarebbero dette esattamente lestesse cose, ma avrebbero avuto un suono diverso, perchéin quei giorni erano accompagnate da una sorta di ronzioinarticolato ma musicale, eccitante, che trasformava il va-lore delle parole stesse. Si poteva tradurre quel ronzio inparole? Forse con l’aiuto dei poeti. C’era un libro accantoa me e, nell’aprirlo, mi rivolsi quasi per caso a Tennyson.Ed ecco Tennyson che cantava:

    “È caduta una splendida lacrimadalla passiflora al cancello.Ella arriva, la mia colomba, il mio tesoro;ella arriva, la mia vita, il mio destino;La rosa rossa grida, ‘Si avvicina, si avvicina’.E la rosa bianca piange, ‘È in ritardo’;la speronella ascolta, ‘La sento, la sento’;e il giglio sussurra, ‘L’aspetto’.”

    Era questo ciò che gli uomini mormoravano ai pranziprima della guerra? E le donne?

    “Il mio cuore è come un uccello canoroche ha fatto il nido su un ramo bagnato;il mio cuore è come un albero di meledai rami curvi per i frutti abbondanti;il mio cuore è come una conchiglia arcobalenoche voga in un mare calmo;il mio cuore di tutti questi è il più feliceperché il mio amore è giunto da me.”

    Era questo ciò che le donne mormoravano ai pranziprima della guerra?C’era qualcosa di così comico nell’idea che la gente aipranzi prima della guerra potesse mormorare simili cose,anche se sottovoce, che scoppiai a ridere; e dovetti spie-

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  • gare la mia risata indicando il gatto, che sembrava un po’assurdo, povera bestia, senza coda, nel mezzo del prato.Era davvero nato così, o aveva perso la coda in un inci-dente? Il gatto senza coda, benché si dica che ne esistanoalcuni sull’isola di Man, è più raro di quanto si possapensare. È un animale strano, più bizzarro che bello.Strano che una coda faccia tanta differenza... sapete iltipo di cose che si dicono alla fine di un pranzo quandola gente va in cerca del proprio cappotto e cappello.Questo pranzo, grazie all’ospitalità dell’anfitrione, si eraprotratto fino a pomeriggio inoltrato. La bella giornata diottobre si dileguava, e mentre percorrevo il viale, le fogliecadevano dagli alberi. Cancello dopo cancello sembravachiudersi dietro di me con fermezza cortese. Innumere-voli custodi inserivano innumerevoli chiavi in serratureben oliate; i tesori venivano messi al sicuro per un’altranotte. Dopo il viale si arriva a una strada - di cui misfugge il nome - che vi conduce, se prendete la svoltagiusta, fino a Fernham. Ma c’era tanto tempo. La cenanon era prima delle sette e mezzo. Si poteva quasi fare ameno della cena dopo un pranzo simile. È strano comeun frammento di poesia rimanga nella mente e facciamuovere le gambe al suo ritmo. Quelle parole:

    “È caduta una splendida lacrimadalla passiflora al cancello.Ella arriva, la mia colomba, il mio tesoro... ”

    cantavano nel mio sangue, mentre camminavo veloce-mente verso Headingley. E poi, passando all’altro ritmo,cantavo, dove le acque sono agitate dalla diga:

    “Il mio cuore è come un uccello canoroche ha fatto il nido su un ramo bagnato;il mio cuore è come un albero di mele... ”

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  • Che poeti! - esclamai forte, come si fa nella penombra,che poeti erano quelli!Per una sorta di rivalità con la nostra epoca, suppongo,per quanto questi paragoni siano stupidi e insensati, michiesi poi se davvero si potessero indicare due poeti vi-venti grandi oggi come Tennyson e Christina Rossetti loerano allora. Ovviamente è impossibile, pensai, guar-dando in quelle acque spumeggianti, metterli a con-fronto. La sola ragione per cui quella poesia infiamma untale trasporto, un tale rapimento, è che essa esalta un sen-timento già provato (ai pranzi prima della guerra forse),sicché vi rispondiamo facilmente, familiarmente, senzapreoccuparci di esaminare il sentimento, o di paragonarlo aquelli che proviamo adesso. Ma i poeti viventi esprimonoun sentimento che in realtà viene creato in noi e a noistrappato allo stesso momento. Innanzitutto non lo rico-nosciamo; spesso, per qualche ragione, ne abbiamopaura; lo osserviamo intensamente, confrontandolo coninvidia e sospetto con il vecchio sentimento che già cono-scevamo. Di qui la difficoltà della poesia moderna; ed è acausa di questa difficoltà che non riusciamo a ricordarepiù di due versi consecutivi di qualunque buon poetamoderno. Per questa ragione - che la memoria mi venne amancare - la discussione illanguidì per mancanza di mate-riale. Ma perché, continuai, proseguendo verso Headin-gley, abbiamo smesso di mormorare a bassa voce aipranzi? Perché Alfred ha smesso di cantare:

    “Ella arriva, la mia colomba, il mio tesoro.”

    Perché Christina ha smesso di rispondere:

    “Il mio cuore di tutti questi è il più feliceperché il mio amore è giunto da me?”

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  • Dobbiamo dare la colpa alla guerra? Quando i cannonisparavano, nell’agosto del 1914, era così chiaro, sui voltidegli uomini e delle donne, gli uni negli occhi degli altri,che la poesia era morta? Certo è stato un duro colpo (perle donne in particolare, con le loro illusioni sull’istruzione ecosì via) vedere le facce dei nostri governanti alla luce deibombardamenti. Così brutti apparivano - tedeschi, in-glesi, francesi - così stupidi. Ma da qualunque partestesse, e di chiunque fosse la colpa, l’illusione che ha ispi-rato Tennyson e Christina Rossetti a cantare così appas-sionatamente dell’arrivo dei loro innamorati è molto piùrara adesso di allora. Basta leggere, guardare, ascoltare,ricordare. Ma perché parlare di “colpa”? Perché, se eraun’illusione, non lodare la catastrofe, qualunque essafosse, che ha distrutto l’illusione e l’ha sostituita con laverità? Perché la verità... i puntini segnano il momento incui, in cerca della verità, non mi sono accorta della svoltaper Fernham. Allora, qual era la verità e quale l’illu-sione?, mi chiesi. Qual era la verità su queste case, peresempio, indistinte e in festa adesso con le loro finestrerosse nella luce del crepuscolo, ma rozze, rosse e sordide,con i loro dolci e i lacci per le scarpe, alle nove di mat-tina? E i salici e il fiume e i giardini che corrono fino alfiume, impalpabili adesso per la nebbia che scende fur-tiva, ma dorati e rossi nella luce del sole... qual era la loroverità, quale l’illusione? Vi risparmio tutti i serpeggia-menti delle mie meditazioni perché non fu raggiunta nes-suna conclusione sulla strada per Headingley, e vi chiedo diimmaginare che presto scoprii il mio errore a propositodel bivio e ritornai indietro verso Fernham.Poiché ho già detto che era un giorno di ottobre, non osoperdere il vostro rispetto e danneggiare il buon nome delromanzo cambiando la stagione e descrivendo lillà chependevano dai muri dei giardini, crochi, tulipani e altrifiori di primavera. Il romanzo deve essere fedele ai fatti, e

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  • quanto più veri sono i fatti, tanto migliore è il romanzo,così ci dicono. Era ancora autunno, dunque, e le foglieerano ancora gialle e cadevano, se mai, un po’ più veloce-mente di prima, perché era ormai sera (le sette e ventitréper la precisione) e si era levata una brezza (da sud-ovestper l’esattezza). Eppure stava succedendo qualcosa distrano:

    “Il mio cuore è come un uccello canoroche ha fatto il nido su un ramo bagnato;il mio cuore è come un albero di meledai rami curvi per i frutti abbondanti... ”

    forse le parole di Christina Rossetti erano in parte re-sponsabili della follia della mia fantasia - naturalmentenon era nient’altro che una fantasia: il lillà dondolava isuoi fiori dai muri del giardino, e le farfalle giallo sulfureofuggivano di qua e di là, e il pulviscolo del polline era nel-l’aria. Un vento soffiava, da quale parte non so, ma solle-vava le foglie ancora giovani, sicché c’era un lampo digrigio argenteo nell’aria. Era l’ora del crepuscolo quando icolori vengono intensificati e il porpora e l’oro fiammeg-giano alle finestre come il battito di un cuore eccitabile;quando inspiegabilmente la bellezza del mondo rivelato,e tuttavia destinato a perire subito (qui entrai nel giar-dino perché imprudentemente avevano lasciato il can-cello aperto e nessun custode sembrava essere in giro), labellezza del mondo che dovrà così presto morire, ha duelame, una del riso, l’altra del tormento, che tagliano ilcuore in due. I giardini di Fernham si stendevano davanti ame nel crepuscolo primaverile, selvatici e aperti, e nel-l’erba alta, sparsi a caso, c’erano narcisi e campanule, nonordinati forse neanche in momenti migliori, ma ora pie-gati e ondeggianti per il vento che sembrava volerli sradi-care. Le finestre della casa, curve come le finestre delle

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  • navi tra onde generose di mattoni rossi, mutavano dalgiallo limone all’argento al passaggio delle veloci nuvoleprimaverili. C’era qualcuno su un’amaca; qualcuno, main questa luce le persone erano solo fantasmi, metà indovi-nati, metà visti, attraversava di corsa il prato - non la fer-mava nessuno? - e poi sul terrazzo, quasi a fare un saltofuori per prendere aria, per dare un’occhiata al giardino,apparve una figura curva, solenne eppure umile, con lafronte spaziosa e il vestito logoro; poteva essere la famosastudiosa, poteva essere J... H... in persona? Era tutto con-fuso, ma intenso anche, come se la sciarpa che il crepu-scolo aveva gettato sul giardino fosse stata lacerata da unastella o una spada... lo scintillio di qualche terribile realtàche balzava, come è suo solito, dal cuore della primavera.Perché la giovinezza...Ecco la mia minestra. La cena era servita nella grande salada pranzo. Lungi dall’essere primavera, era in realtà unasera di ottobre. Erano tutti riuniti nella grande sala dapranzo. La cena era pronta. Ecco la minestra. Era un sem-plice brodo di carne. Niente che stimolasse la fantasia. At-traverso il liquido trasparente si sarebbe potuto vederequalsiasi disegno ci fosse stato sul piatto. Ma non c’eraalcun disegno. Il piatto era bianco. Seguì poi il manzo concontorno di verdure e patate, familiare trinità che evocaposteriori di bestiame in un mercato fangoso, e cavolinidagli orli increspati e ingialliti, e il contrattare e il calare diprezzo e le donne con le sporte il lunedì mattina. Nonavevamo alcuna ragione di lamentarci del nostro ciboquotidiano, visto che ce ne davano a sufficienza e senzadubbio i minatori pranzavano con meno. Seguironoprugne secche con la crema. E se qualcuno protesta che leprugne secche, anche quando addolcite dalla crema, sonoortaggi poco caritatevoli (frutta non sono), filamentosecome il cuore di un avaro ed essudanti un fluido qualepotrebbe scorrere nelle vene di un avaro che si è privato

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  • per ottant’anni del vino e del caldo e non ha ancora datoniente ai poveri, dovrebbe pensare che ci sono persone lacui carità comprende anche le prugne secche. Seguironopoi biscotti e formaggio, e qui la brocca dell’acqua fufatta generosamente circolare, perché è nella natura deibiscotti essere secchi, e questi erano veri biscotti. Fututto. Il pasto era terminato. Ognuno spinse indietro lapropria sedia; i battenti delle porte oscillarono violente-mente avanti e indietro; subito la sala fu sgombra di ognitraccia di cibo: doveva essere preparata per la colazionedel mattino seguente. Lungo i corridoi e su per le scale lagioventù d’Inghilterra andava rumoreggiando e cantando.E poteva un’ospite, un’estranea (perché non avevo più di-ritto a stare qui, a Fernham, che non al college di Trinity oSomerville o Girton o Newnham o Christchurch), dire:“La cena non era buona”, o domandare: (eravamo adesso,Mary Seton ed io, nella sua stanza) “Non avremmo po-tuto cenare quassù da sole?”; perché se avessi detto qual-cosa del genere avrei curiosato e frugato nell’economia se-greta di una casa che all’estraneo mostra una così bellafacciata di gaiezza e coraggio. No, non si poteva direniente di simile. Certo, la conversazione per un attimosembrò languire. Poiché l’essere umano è costruito inmodo che cuore, corpo e cervello siano tutti insieme, enon racchiusi in compartimenti separati (come certa-mente lo saranno tra un milione di anni), una buona cena èdi grande importanza per una buona conversazione. Nonsi può pensare bene, amare bene, dormire bene, se non si ècenato bene. La lampadina della spina dorsale non si ac-cende con manzo e prugne secche. Probabilmente an-dremo tutti in paradiso, e Vandyck sarà ad aspettarci, spe-riamo, al primo angolo: questo è lo stato d’animo incertoe dubbioso che, messi insieme, manzo e prugne secchepossono creare dopo una giornata di lavoro. Per fortunala mia amica, che insegnava scienze, aveva in una cre-

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  • denza una bottiglia quadrata e dei bicchierini (ma tantoper cominciare ci sarebbero voluti sogliola e pernice), cosìche potemmo avvicinarci al fuoco per rimediare in parteai danni della giornata. Dopo qualche minuto scivola-vamo liberamente dall’uno all’altro di quegli oggetti dicuriosità e interesse che prendono forma nella mente du-rante l’assenza di una data persona, e che vengono natu-ralmente discussi quando ci si rivede - un tale si è sposato,un altro no; uno pensa questo, un altro quello; uno è mi-gliorato incredibilmente, l’altro è peggiorato nel modopiù sorprendente, con tutte quelle speculazioni sulla na-tura umana e sul tipo di mondo sconcertante in cui vi-viamo, che scaturiscono naturalmente da simili inizi.Mentre si parlava di queste cose, tuttavia, mi accorsi, conimbarazzo, di una corrente che stava insorgendo di suainiziativa e sospingeva ogni cosa nella propria direzione.Si sarebbe potuto parlare della Spagna o del Portogallo,di libri o di corse di cavalli, ma il vero interesse di quantoveniva detto non era per nessuna di quelle cose, bensì peruna scena di muratori su un alto tetto, all’incirca cinquesecoli fa. Re e nobili portavano le loro ricchezze in sacchiimmensi e le versavano sottoterra. Questa scena rivivevacontinuamente nella mia mente accanto ad un’altra,quella delle vacche magre e un mercato fangoso e verdureavvizzite e i cuori filamentosi dei vecchi; queste due im-magini, incoerenti, sconnesse e prive di senso, ritornavanosempre insieme, e combattevano l’una contro l’altra, e ioero completamente alla loro mercé. Perché l’intera con-versazione non ne risultasse distorta, era preferibileesporre chiaramente ciò che era nella mia mente, così che,con un po’ di fortuna, avrebbe perso consistenza e si sa-rebbe sgretolato come la testa del re morto quando fuaperta la sua bara a Windsor. In poche parole, quindi,raccontai alla signorina Seton dei muratori che erano statitutti quegli anni sul tetto della cappella, e dei re e delle re-

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  • gine e dei nobili che portarono sulle spalle sacchi d’oro ed’argento, che poi versarono nella terra; e poi di come iricchi magnati dei nostri tempi vennero a deporre assegni etitoli, suppongo, dove gli altri avevano deposto lingotti eruvidi grumi d’oro. Tutto ciò giace sotto i collegi laggiù,dissi; ma questo college, dove siamo ora sedute, che cosac’è sotto i suoi bei mattoni rossi e l’erba alta e incolta delgiardino? Che forza c’è dietro quella porcellana senza de-cori in cui abbiamo cenato, e (questo mi scappò di boccaprima che potessi fermarlo) dietro il manzo, la crema e leprugne?Dunque, disse Mary Seton, intorno al 1860... Oh, ma tuconosci la storia, soggiunse, annoiata, suppongo, dal rac-conto. E cominciò: si affittarono delle stanze. Si riuni-rono in comitati. Si spedirono lettere. Si prepararono vo-lantini. Si organizzarono riunioni; si lessero le lettere rice-vute; il tale ha promesso tanto; il signor..., invece, nondarà un centesimo. La Saturday Review è stata moltoscortese. Come possiamo raccogliere i soldi per pagare gliuffici? Dobbiamo dare una vendita di beneficenza? Nonpossiamo trovare una ragazza carina che si sieda in primafila? Controlliamo cosa ha detto John Stuart Mill sull’ar-gomento. Nessuno riesce a convincere il direttore del... apubblicare una lettera? Possiamo persuadere Lady... a fir-marla? Lady... è fuori città. È probabile che così anda-rono le cose, sessant’anni fa, ed è stato uno sforzo prodi-gioso, che ha richiesto moltissimo tempo. E solo dopouna lunga battaglia, e con estreme difficoltà, misero in-sieme trentamila sterline.1 È ovvio, quindi, che non pos-siamo avere vino e pernici e camerieri con vassoi sullatesta, disse. Non possiamo avere divani e appartamenti.— Le amenità — disse, citando da qualche libro — do-vranno aspettare.2

    Al pensiero di tutte quelle donne che lavorarono per anni eanni e trovarono difficile racimolare duemila sterline, e

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  • quello che riuscirono a fare fu solo metterne insiemetrentamila, fummo prese dal disprezzo per la riprovevolepovertà del nostro sesso. Come allora avevano passato iltempo le nostre madri, per non avere nessuna ricchezzada lasciarci? Incipriandosi il naso? Guardando le vetrinedei negozi? Pavoneggiandosi nel sole di Montecarlo? C’e-rano delle fotografie sulla mensola del camino. La madredi Mary - se quella era la sua fotografia - potrà forse aversprecato il suo tempo libero (ebbe tredici figli da un mi-nistro della chiesa), ma, se così è stato, la sua vita allegra edissipata aveva lasciato troppo pochi segni del piacere sulsuo volto. Era una persona senza pretese; una vecchia si-gnora in uno scialle a quadri fermato da un grandecammeo, seduta in una sedia di vimini, che incoraggiavaun cane a guardare la macchina fotografica, con l’espres-sione divertita ma tesa di chi è certo che il cane si muo-verà non appena verrà scattata la fotografia. Ebbene, se sifosse dedicata agli affari; se fosse diventata un industrialedella seta artificiale o una magnate della Borsa; se avesselasciato due o trecentomila sterline a Fernham, ci sa-remmo potute sedere comodamente stasera a conversaredi archeologia, botanica, antropologia, fisica, la naturadell’atomo, matematica, astronomia, relatività, geografia.Se solo la signora Seton e sua madre e sua madre primadi lei avessero imparato la grande arte del fare soldi eavessero lasciato in eredità il loro denaro, come fecero iloro padri e i loro nonni, per istituire cattedre e premi eborse di studio destinate al loro sesso, avremmo potutocenare molto accettabilmente quassù con un volatile euna bottiglia di vino; avremmo potuto presagire senza in-debita sicurezza una vita piacevole e onorevole trascorsaal riparo di una delle professioni generosamente sovven-zionate. Avremmo potuto esplorare o scrivere; bighello-nare per i luoghi venerabili della terra; sedere in contem-plazione sui gradini del Partenone, o andare in ufficio

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  • alle dieci e tornare a casa comodamente alle quattro emezza per scrivere della poesia. Solo che, se la signoraSeton e altre come lei si fossero dedicate agli affari all’età diquindici anni, non ci sarebbe stata - era questo l’intoppodell’argomentazione - nessuna Mary. Cosa ne pensavaMary?, chiesi. Tra le tende si intravvedeva la notte di ot-tobre, calma e leggiadra, con una o due stelle prigionieretra gli alberi quasi ingialliti. Era disposta a rinunciare allasua parte di quella notte e ai ricordi (perché la sua erastata una famiglia felice, anche se numerosa) dei giochi edei litigi in Scozia, terra che lei non è mai stanca di de-cantare per la purezza dell’aria e la bontà delle torte,purché Fernham avesse potuto ricevere una donazione dicinquantamila sterline con un sol tratto di penna? Perchéfinanziare un college richiederebbe necessariamente lacompleta soppressione della famiglia. Accumulare unafortuna e dare alla luce tredici figli: nessun essere umanopotrebbe reggere. Consideriamo i fatti, dicemmo. Primadi tutto passano nove mesi prima che il bambino nasca.Poi il bambino nasce. Poi ci vogliono tre o quattro mesiper allattarlo. Dopo che è stato svezzato, passano certa-mente cinque anni a giocare con il bambino. Non si può, aquanto pare, lasciar scorrazzare i bambini per la strada.Chi li ha visti crescere senza freni in Russia dice che nonè un bello spettacolo. Si dice, anche, che la natura umana siforma nei primi cinque anni. Se la signora Seton, dissi,fosse stata occupata a fare soldi, che ricordi avresti avuto digiochi e litigi? Cosa avresti conosciuto della Scozia, edella sua aria pura e delle torte e di tutto il resto? Ma èinutile fare queste domande, perché non saresti affattovenuta al mondo. Per di più, è ugualmente inutile chie-dersi cosa sarebbe potuto accadere se la signora Seton esua madre e sua madre prima di lei avessero accumulatograndi ricchezze e le avessero depositate sotto le fonda-menta del college e della biblioteca, perché, in primo

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  • luogo, era impossibile per loro guadagnare del denaro, e, insecondo luogo, se ciò fosse stato possibile, la legge ne-gava loro il diritto di possedere il denaro che avesseroguadagnato. È solo negli ultimi quarantotto anni che lasignora Seton ha avuto un centesimo di sua proprietà.Per tutti i secoli precedenti quei soldi sarebbero apparte-nuti al marito, un pensiero questo, che forse può averavuto il suo peso nel tenere lontane la signora Seton e lesue antenate dalla Borsa. Ogni centesimo che guadagno,si saranno forse dette, mi sarà tolto e investito secondo ilgiudizio di mio marito; forse per istituire una borsa distudio o sovvenzionare una cattedra al Balliol o a Kings;guadagnare del denaro, di conseguenza, anche se potessifarlo, non è una cosa che mi interessa molto. Meglio la-sciarla a mio marito. Ad ogni modo, fosse o meno colpa della vecchia signorache guardava il cane, non c’era alcun dubbio che perqualche ragione le nostre madri avevano molto mal curato iloro affari. Neanche un centesimo poteva esser messo daparte per le “amenità”; per pernici e vino, custodi e prato,libri e sigari, biblioteche e svaghi. Alzare nude pareti dallanuda terra era il massimo che potessero fare.Così conversavamo accanto alla finestra guardando, cometante migliaia di persone guardano ogni sera, le cupole ele torri della famosa città sotto di noi. Era molto bella,molto misteriosa alla luce della luna autunnale. La vecchiapietra appariva bianchissima e venerabile. Veniva da pen-sare a tutti i libri riuniti laggiù; ai ritratti di vecchi prelati enotabili appesi nelle stanze rivestite di legno; alle finestredecorate che forse proiettavano strani globi e mezze lunesul selciato; alle lapidi, ai monumenti e alle iscrizioni; allefontane e ai prati; alle stanze silenziose che davano su cortilisilenziosi. E (perdonatemi il pensiero) pensai anche alleottime sigarette e ai liquori, alle poltrone profonde e ai beitappeti; alla cortesia, la cordialità, la dignità che nascono

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  • dal lusso, dall’intimità e dallo spazio. Certo le nostremadri non ci avevano procurato niente di paragonabile atutto ciò, le nostre madri che ebbero difficoltà a racimo-lare trentamila sterline, le nostre madri che diedero allaluce tredici figli ad un pastore protestante di St Andrews.Così ritornai alla mia locanda, e mentre camminavo per lestrade buie riflettevo su questo e quello, come si fa allafine di una giornata di lavoro. Riflettevo sul perché la si-gnora Seton non ci aveva lasciato un centesimo; e qualera l’effetto della povertà sulla mente; e quale l’effettodella ricchezza sulla mente; e pensai agli strani vecchi si-gnori che avevo visto quella mattina, con i bordi di pel-liccia sulle spalle; e ricordai che se qualcuno fischiavauno di loro si sarebbe messo a correre; e pensai all’or-gano tuonante nella cappella e alle porte chiuse della bi-blioteca; e pensai a come sia spiacevole essere chiusifuori; e pensai a come sia peggio forse essere chiusidentro; e, pensando alla sicurezza e alla prosperità di unsesso e alla povertà e all’insicurezza dell’altro, e all’effettodella tradizione e dell’assenza di tradizione sulla mente diuno scrittore, pensai infine che era tempo di arrotolare latela sgualcita della giornata, con le sue discussioni, le sueimpressioni, la sua rabbia e la sua gioia, e di buttarla nellasiepe. Migliaia di stelle brillavano nei deserti blu delcielo. Mi sembrava di essere sola con una compagnia in-scrutabile. Tutti gli esseri umani erano addormentati: di-stesi, orizzontali, silenziosi. Nessuno sembrava muoversiper le strade di Oxbridge. Persino la porta dell’albergo sispalancò di scatto, come al tocco di una mano invisibile;neanche un facchino era sveglio per accompagnarmi finoin camera; era così tardi.

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  • II

    Ora la scena, se posso chiedervi di seguirmi, è cambiata.Le foglie stavano ancora cadendo, ma a Londra adesso,non ad Oxbridge; e devo chiedervi di immaginare unastanza, come migliaia di altre, con una finestra che oltre icappelli della gente e i furgoni e le macchine, guarda altrefinestre, e sul tavolo nella stanza un foglio bianco sulquale era scritto in grande: LE DONNE E IL RO-MANZO, niente di più. Sfortunatamente l’inevitabile ef-fetto del pranzo e della cena ad Oxbridge sembrava es-sere una visita al British Museum. Bisognava filtrarequanto c’era di personale e accidentale in tutte quelle im-pressioni per ottenere il puro fluido, l’olio essenzialedella verità. Perché quella visita ad Oxbridge, il pranzo e lacena, avevano fatto nascere una folla di domande. Perchégli uomini bevevano vino e le donne acqua? Perché unsesso era così prospero e l’altro così povero? Che effettiha la povertà sul romanzo? Quali condizioni sono neces-sarie per la creazione di opere d’arte? Mille domande sipresentavano tutte insieme. Ma c’era bisogno di risposte,non di domande; e una risposta si poteva ottenere solointerpellando i colti e gli imparziali, coloro i quali si sonoposti al di sopra dei conflitti della parola e della confu-sione del corpo e hanno consegnato il risultato dei lororagionamenti e delle loro ricerche a libri che devono ne-cessariamente trovarsi al British Museum. Se non si riesce atrovare la verità sugli scaffali del British Museum, dov’è,

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  • mi chiesi, prendendo un taccuino e una matita, la verità?Così equipaggiata, così fiduciosa e avida di sapere, partiiin cerca della verità. La giornata, benché non propriopiovosa, era tetra, e le strade nei dintorni del museoerano piene di botole aperte nelle quali venivano vuotatisacchi di carbone; delle carrozze si accostavano e deposi-tavano sul marciapiede casse legate con delle corde condentro, presumibilmente, l’intero guardaroba di qualchefamiglia svizzera o italiana in cerca di fortuna o di rifugio odi qualche altra desiderabile comodità che si possa tro-vare in inverno nelle pensioni di Bloomsbury. I soliti uo-mini dalla voce roca sfilavano per le strade con le loropiante sui carretti. Alcuni gridavano; altri cantavano.Londra era come un’officina. Londra era come una mac-china. Noi eravamo tutti lanciati avanti e indietro suquelle semplici fondamenta come per creare un disegno.Il British Museum era un altro reparto della fabbrica. Leporte a vento si spalancarono; e ci si trovava sotto lagrande cupola, come un pensiero nell’immensa frontenuda splendidamente circondata da una fascia di nomifamosi. Ci si dirigeva verso il banco; si prendeva un pez-zetto di carta; si apriva un volume del catalogo, e.....questi cinque puntini indicano cinque interi minuti distupore, meraviglia e sbigottimento. Avete idea di quantilibri vengono scritti ogni anno sulle donne? Avete idea diquanti sono scritti da uomini? Siete consapevoli di essere,forse, l’animale più discusso dell’universo? Ero dunquearrivata con un quaderno e una matita, intenzionata a tra-scorrere una mattinata a leggere, supponendo che allafine di essa avrei trasferito la verità sul mio quaderno. Maavrei dovuto essere un branco di elefanti, pensai, e un’infi-nità di ragni, alludendo disperata agli animali consideratii più longevi e con il maggior numero di occhi, per farfronte a tutto quel lavoro. Avrei avuto bisogno di cheled’acciaio e di un becco d’ottone solo per farmi strada

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  • oltre il ciarpame. Come riuscirò mai a trovare i granidella verità confusi in tutta questa massa di carta?, michiesi e presa dalla disperazione, cominciai a scorrere piùvolte il lungo elenco di titoli. Persino i titoli dei libri midavano da pensare. Il sesso e la sua natura potranno sicu-ramente incuriosire dottori e biologi; ma la cosa sorpren-dente, e difficile da spiegare, era il fatto che il sesso - ladonna, cioè - incuriosisce anche amabili saggisti, roman-zieri dal tocco leggero, giovani con la specializzazione;uomini senza laurea; uomini che non hanno nessun titoloevidente oltre a quello di non essere donne. Alcuni diquesti libri erano, a prima vista, frivoli e divertenti; mamolti altri invece erano seri e profetici, morali ed esorta-tivi. La sola lettura dei titoli suggeriva innumerevoli pro-fessori, innumerevoli prelati, che salivano sulle cattedre esui pulpiti e declamavano con una loquacità che superavadi gran lunga l’ora di solito assegnata a tali orazioni suquesto argomento. Era un fenomeno estremamentestrano; e in apparenza - qui consultai la lettera U - limi-tato al sesso maschile. Le donne non scrivono libri sugliuomini; un fatto che non potei fare a meno di accoglierecon sollievo, perché se avessi prima dovuto leggere tuttoquello che gli uomini hanno scritto sulle donne, e poitutto quello che le donne hanno scritto sugli uomini,l’aloe che fiorisce una volta ogni cento anni fiorirebbedue volte prima che potessi mettere nero su bianco. Per-tanto, scegliendo in maniera del tutto arbitraria una doz-zina di volumi all’incirca, lasciai i miei pezzetti di cartanel cestino, e aspettai nel mio scomparto, tra gli altri ri-cercatori dell’olio essenziale della verità.Quale poteva essere la ragione, dunque, di questa stranadifferenza, mi chiedevo mentre disegnavo ruote sui tal-loncini di carta forniti dai contribuenti britannici per altriscopi. Perché, a giudicare da questo catalogo, le donnesono tanto più interessanti per gli uomini di quanto non

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  • siano gli uomini per le donne? Sembrava un fatto moltostrano, e la mia mente cominciò a vagabondare immagi-nando la vita di quegli uomini che trascorrono il lorotempo scrivendo libri sulle donne; mi chiedevo se eranovecchi o giovani, sposati o scapoli, con il naso rosso ogobbi; ad ogni modo, era vagamente lusinghiero sentirsil’oggetto di tale attenzione, purché non provenisse sol-tanto dagli invalidi e dagli infermi. Così riflettevo,quando una valanga di libri, scaricata sul tavolo davanti ame, pose fine a tutti questi frivoli pensieri. Ora comincia-vano i guai. Lo studente che a Oxbridge è stato preparatoalla ricerca possiede certamente un metodo per poter gui-dare il suo quesito attraverso ogni distrazione, finchéquesto non trova la sua soluzione come una pecora troval’ovile. Lo studente accanto a me, per esempio, che stavatrascrivendo senza interruzione da un manuale scienti-fico, estraeva, ne ero sicura, pure pepite di minerale es-senziale ogni dieci minuti circa. Tanto lasciavano inten-dere i suoi piccoli grugniti di soddisfazione. Ma se, sfor-tunatamente, non si possiede alcuna istruzione universi-taria, il problema, lungi dall’essere condotto al suo ovile,fugge di qua e di là, alla rinfusa, come un gregge spaven-tato inseguito da un intero branco di cani. Professori,maestri, sociologi, ministri della chiesa, romanzieri, sag-gisti, giornalisti, uomini senza titoli eccetto quello di nonessere donne, inseguivano la mia unica e semplice do-manda - Perché le donne sono povere? - fino a farla di-ventare cinquanta domande; finché le cinquanta do-mande non si lanciavano frenetiche in mezzo al fiume evenivano trascinate via. Tutte le pagine del mio quadernoerano scarabocchiate di appunti. Per mostrarvi lo statod’animo in cui mi trovavo, ve ne leggerò alcuni, premet-tendo che la pagina aveva come titolo semplicemente,DONNE E POVERTÀ, a lettere maiuscole; ma quantoseguiva era pressappoco questo: Condizioni nel Me-

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  • dioevo delle, Abitudini nelle isole Figi delle, Adoratecome divinità da, Più deboli in senso morale degli, Idea-lismo delle, Maggiore coscienziosità delle, Abitanti delleisole dei Mari del Sud, età della pubertà tra gli, Fascinodelle, Offerte in sacrificio a, Minori dimensioni del cer-vello delle, Subconscio più profondo delle, Minore pelo-sità sul corpo delle, Inferiorità mentale, morale e fisicadelle, Amore per i bambini nelle, Maggiore lunghezzadella vita delle, Muscoli più deboli delle, Forza degli af-fetti delle, Vanità delle, Istruzione superiore delle, Opi-nione di Shakespeare sulle, Opinione di Lord Birkenheadsulle, Opinione del decano Inge sulle, Opinione di LaBruyère sulle, Opinione del Dr. Johnson sulle, Opinionedi Oscar Browning sulle...Qui ripresi fiato e aggiunsi, a margine, in verità: perchéSamuel Butler dice: “Gli uomini saggi non dicono maicosa pensano delle donne”? Gli uomini saggi non dicononient’altro, a quanto pare. Tuttavia, continuai, appog-giandomi allo schienale della mia sedia e guardando lagrande cupola in cui io ero un singolo pensiero, sebbeneal momento piuttosto tormentato, la sventura è che gliuomini saggi non pensano mai la stessa cosa delle donne.Ecco Pope:

    “La maggior parte delle donne non ha affatto carattere.”

    Ed ecco La Bruyère:

    “Les femmes sont extremes, elles sont meilleures ou piresque les hommes... ”

    Un’esplicita contraddizione da parte di due acuti osserva-tori tra loro contemporanei. Sono o non sono in grado diessere istruite? Napoleone pensava di no. Il Dr. Johnsonriteneva il contrario.3 Hanno o non hanno un’anima? Al-

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  • cuni popoli selvaggi dicono che non ne hanno. Altri, alcontrario, ritengono che le donne siano per metà divine,e per questo le adorano.4 Alcuni saggi sostengono che illoro cervello è più superficiale; altri che la loro coscienzaè più profonda. Goethe le onorava; Mussolini le di-sprezza. Dovunque si volgesse lo sguardo, gli uomini ri-flettevano sulle donne e avevano opinioni diverse. Eraimpossibile venirne a capo, decisi, lanciando occhiated’invidia al lettore accanto che stava compilando i piùprecisi riassunti, spesso intitolati con una A o una B op-pure una C, mentre il mio quaderno abbondava degli sca-rabocchi più disordinati e di annotazioni contraddittorie.Era angosciante, era sconcertante, era umiliante. La ve-rità mi era sfuggita tra le dita. Non ne era rimasta unasola goccia. Non potevo proprio andare a casa, riflettevo, e aggiun-gere, come serio contributo allo studio sulle donne e il ro-manzo, che le donne sul corpo hanno meno peli degli uo-mini, o che l’età della pubertà tra gli abitanti delle isoledei Mari del Sud è nove anni - o novanta? - persino lascrittura, nel suo turbamento, era diventata indecifrabile.Era vergognoso, dopo un’intera mattinata di lavoro, nonavere niente di più importante o di più rispettabile da mo-strare. E se non riuscivo a cogliere la verità sulla D. (comeper amore della brevità ero giunta a chiamarla) nel pas-sato, perché preoccuparmi della D. nel futuro? Sembravauna pura perdita di tempo consultare tutti quei signoriesperti della donna e del suo effetto su qualsiasi cosa - poli-tica, bambini, salari, moralità - per quanto numerosi ecolti essi siano. Tanto valeva lasciare chiusi i loro libri.Ma mentre riflettevo, senza rendermene conto, nella miaindolenza, nella mia disperazione, mi ero messa a dise-gnare, mentre invece, come il mio vicino, avrei dovutoscrivere una conclusione. Avevo disegnato un volto, unafigura. Era il volto e la figura del Professor von X, occu-

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  • pato a scrivere la sua opera monumentale dal titolo L’in-feriorità mentale, morale e fisica del sesso femminile. Nelmio ritratto, non era un uomo attraente. Era di corpora-tura pesante; aveva grandi mascelle; per contrasto avevaocchi molto piccoli; era molto rosso in viso. La suaespressione lasciava immaginare che era oppresso daqualche emozione la quale lo induceva a pugnalare il fo-glio con la penna, come se, mentre scriveva, stesse ucci-dendo qualche insetto dannoso; tuttavia, anche dopoaverlo ucciso, non era soddisfatto; doveva continuare aducciderlo; e nonostante ciò, rimaneva ancora qualche ra-gione per la sua rabbia e la sua irritazione. Poteva esseresua moglie?, mi chiesi, guardando il mio disegno. Era in-namorata di un ufficiale di cavalleria? Forse l’ufficiale erasnello ed elegante e indossava una pelliccia di astrakan?Quando era nella culla, per adottare la teoria freudiana,era stato deriso da una bella ragazza? Perché nemmenonella culla il professore poteva essere stato un bel bam-bino, pensai. Qualunque fosse la ragione, feci in modoche il professore apparisse molto arrabbiato e moltobrutto nel mio schizzo, mentre scriveva il suo grandelibro sull’inferiorità mentale, morale e fisica delle donne.Fare disegni era un modo ozioso per terminare una matti-nata inutile. È tuttavia quando oziamo, quando so-gniamo, che la verità sommersa a volte viene a galla. Unesercizio molto elementare di psicologia, che non potreionorare con il nome di psicanalisi, mi dimostrò, guar-dando il mio quaderno, che lo schizzo del professore ar-rabbiato era stato fatto con rabbia. Mentre sognavo, larabbia aveva afferrato la mia matita. Ma che c’entrava quila rabbia? L’interesse, la confusione, il divertimento, lanoia; potevo individuare e nominare tutte queste emo-zioni, mentre l’una si susseguiva all’altra nell’arco dellamattinata. La rabbia, quella serpe nera, si era nascosta inmezzo a loro? Sì, diceva lo schizzo, proprio così. Mi ri-

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  • mandava inconfondibilmente proprio a quel libro, aquella frase, che aveva destato il demonio; era quell’affer-mazione del professore sull’inferiorità mentale, morale efisica delle donne. Il mio cuore aveva fatto un balzo. Lemie guance si erano accese. Ero diventata rossa dallastizza. Niente di straordinario nella mia reazione, perquanto stupida. Non fa piacere sentirsi dire che si è pernatura inferiori ad un ometto - guardai lo studente ac-canto a me - che respira con fatica, indossa una cravattaconfezionata, e non si è fatto la barba negli ultimi quin-dici giorni. Abbiamo certe assurde vanità. Purtroppo è lanatura umana, riflettei, e cominciai a disegnare ruote ecerchi sulla faccia del professore arrabbiato finché nonsembrò un cespuglio in fiamme o una cometa ardente, inogni caso, un’apparizione senza né somiglianza né signifi-cato umani. Il professore non era nient’altro adesso cheuna fascina in fiamme sulla cima del colle di Hampstead.La mia collera era stata subito spiegata e messa da parte;ma rimaneva la curiosità. Come spiegare la rabbia deiprofessori? Perché erano arrabbiati? Giacché quando sitrattava di analizzare l’impressione lasciata da quei libri,si rinveniva sempre una certa animosità. Questa animo-sità assumeva molte forme; si rivelava nella satira, nel sen-timento, nella curiosità, nel biasimo. Ma un altro ele-mento era spesso presente che non si riusciva ad identifi-care immediatamente. Rabbia, lo chiamai. Ma era unarabbia che si era nascosta e si era mescolata a tutte le altreemozioni. A giudicare dai suoi strani effetti, era unarabbia mascherata e complessa, non una rabbia semplicee chiara.Qualunque sia la ragione, tutti questi libri, pensai, scru-tando la pila sul mio tavolo, sono privi di valore per i mieiscopi. Erano scientificamente privi di valore, sebbene dalpunto di vista umano fossero pieni di informazioni, inte-resse, noia e fatti molto bizzarri sui costumi degli abitanti

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  • delle isole Figi. Erano stati scritti alla luce rossa dell’emo-zione e non alla luce bianca della verità. Pertanto dove-vano essere riconsegnati al banco centrale, e rimandatiognuno alla propria cella di quell’enorme favo. Tuttoquello che avevo ricavato dal lavoro della mattinata erastato un unico elemento: la rabbia. I professori - ne fecicosì un gruppo unico - erano arrabbiati. Ma perché, michiesi, dopo aver riportato i libri, perché, ripetevo, attar-dandomi sotto il colonnato tra i piccioni e le canoe prei-storiche, perché sono arrabbiati? E mentre mi ponevoquesta domanda, andai via senza fretta in cerca di unposto per il pranzo. Qual è la vera natura di quello che iochiamo per il momento la loro rabbia?, mi chiedevo.Ecco qui un rompicapo che avrebbe occupato tutto iltempo necessario prima di essere serviti in un piccolo ri-storante dalle parti del British Museum. Qualche clienteche mi aveva preceduta aveva lasciato su una sedia l’edi-zione di mezzogiorno del giornale della sera, e aspettandoche mi servissero, cominciai a leggere oziosamente i titoli.Una striscia di grosse lettere attraversava la pagina. Qual-cuno aveva vinto una partita in Sudafrica. Strisce più pic-cole annunciavano che Sir Austen Chamberlain era a Gi-nevra. Una scure da macellaio con sopra dei capelliumani era stata trovata in uno scantinato. Nelle udienzedi divorzio, il giudice*** aveva fatto delle osservazionisulla “Sfrontatezza delle Donne”. Sparse nel giornale c’e-rano altre notizie. In California un’attrice cinematograficaera stata calata da una vetta e tenuta sospesa in aria. Cisarebbe stata nebbia. Il più fugace visitatore su questopianeta, pensai, che trovasse questo giornale, non po-trebbe errare nel dedurre, persino da quest’unica testi-monianza, che in Inghilterra domina la patriarchia. Nes-suno che non sia fuori di sé potrebbe mancare di accor-gersi del predominio del professore. Suoi erano il poteree il denaro e l’influenza. Egli era il proprietario del gior-

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  • nale e il suo direttore e vicedirettore. Egli era il Ministrodegli Esteri e il giudice. Egli era il giocatore di cricket;egli possedeva i cavalli da corsa e i panfili. Egli era il di-rettore della società che paga il duecento per cento aisuoi azionisti. Egli donava milioni alle istituzioni di carità eai college da lui stesso diretti. Egli sospendeva l’attrice inaria. Egli deciderà se i capelli sulla scure sono umani; saràlui ad assolvere o condannare l’assassino, ad impiccarlo, o alasciarlo in libertà. Ad eccezione della nebbia, sembravacontrollare tutto. Eppure era arrabbiato. Deducevo cheera arrabbiato da questo segno. Mentre leggevo quelloche ha scritto sulle donne, non pensavo a ciò che stava di-cendo, ma a lui stesso. Quando una persona sostieneun’argomentazione con imparzialità, pensa esclusivamenteall’argomentazione; e anche il lettore non può fare a me-no di pensare all’argomentazione. Se egli avesse scrittocon imparzialità sulle donne, se avesse usato prove incon-testabili per fondare il suo ragionamento, e non avessemostrato il minimo desiderio perché si ottenesse un risul-tato piuttosto che un altro, non ci saremmo neanche ar-rabbiate. Avremmo accettato la realtà, come si accetta ilfatto che un pisello è verde e un canarino è giallo. Che siapure così, avrei detto. Ma mi ero arrabbiata perché luiera arrabbiato. Eppure mi sembrava assurdo, pensai, sfo-gliando il giornale della sera, che un uomo con tanto po-tere dovesse essere in collera. O è forse la collera, michiesi, in qualche modo, il famiglio, il folletto al serviziodel potere? I ricchi, per esempio, sono spesso in colleraperché sospettano che i poveri vogliano impossessarsidella loro ricchezza. I professori, o patriarchi, come sa-rebbe più esatto chiamarli, potrebbero essere in colleraper la stessa ragione in parte, ma anche per un’altra che èun po’ meno visibile in superficie. Forse non erano “ar-rabbiati” affatto; spesso, a dire il vero, nei rapporti pri-vati erano pieni di ammirazione, di devozione per la

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  • donna, persone esemplari. Forse quando il professore in-sisteva un po’ troppo enfaticamente sull’inferiorità delledonne, non si preoccupava tanto della loro inferiorità,bensì della propria superiorità. Era questo ciò che stavadifendendo, con fare alquanto impetuoso e con troppaenfasi, perché per lui era un gioiello del più alto valore.La vita per entrambi i sessi - e li guardavo farsi largo a fa-tica lungo la strada - è ardua, difficile, una lotta inces-sante. Richiede forza e coraggio giganteschi. Più di ognialtra cosa, forse, creature dell’illusione quali siamo, ri-chiede fiducia in se stessi. Senza fiducia in noi stessisiamo come neonati nella culla. E come possiamo gene-rare questa qualità imponderabile, e tuttavia così pre-ziosa, nel modo più veloce? Pensando che altre personesiano a noi inferiori. Credendo di avere qualche superio-rità innata - può essere la ricchezza, il rango, un nasodritto, o il ritratto del nonno fatto da Romney (perchénon c’è limite ai patetici espedienti dell’immaginazioneumana) - rispetto ad altre persone. Di qui l’enorme im-portanza per un patriarca che deve conquistare, che devegovernare, di poter credere che un gran numero di per-sone, metà razza umana in verità, sia per natura inferiorea lui. Deve essere proprio una delle fonti principali delsuo potere. Ma lasciatemi guardare la vita reale alla lucedi questa osservazione, pensai. Aiuta a spiegare alcuni diquegli enigmi psicologici che osserviamo ai margini dellavita quotidiana? Spiega il mio sbigottimento dell’altrogiorno quando Z, uomo dei più miti e dei più moderati,prendendo un libro di Rebecca West e leggendone unbrano, esclamò: — Femminista spudorata! Dice che gliuomini sono degli snob! L’esclamazione, per me così sor-prendente, non era solo il grido della vanità ferita; laWest era una femminista spudorata per aver fatto un’af-fermazione probabilmente vera, anche se poco lusin-ghiera, sull’altro sesso? Era una protesta contro il tenta-

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  • tivo di incrinare la sua capacità di credere in se stesso.Per secoli le donne hanno avuto la funzione di specchidal potere magico e delizioso di riflettere raddoppiata lafigura dell’uomo. Senza questo pot