Gramsci Nel Ventunesimo Secolo

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201 STUDI CULTURALI - ANNO V, N. 2, AGOSTO 2008 Gramsci nel ventunesimo secolo di Partha Chatterjee SAGGI 1. La società contadina oggi Il primo volume di Subaltern Studies fu pubblicato nel 1982, venticinque anni or sono 1 . Ho fatto parte del gruppo editoriale che, sotto la guida di Ranajit Guha, si è impegnato in un confronto critico con la modernità postcoloniale a partire dalla prospettiva delle classi subalterne, specialmente quelle contadine. Nel quarto di secolo oramai trascorso, è avvenuto, io credo, un mutamento fondamentale nella situazione storica della postcolonialità. Le nuove condizioni che regolano i flussi globali dei capitali, delle merci, dell’informazione e della gente – un sistema complesso di fenomeni generalmente raggruppati nella categoria di globalizzazione – hanno creato sia nuove opportunità sia nuovi ostacoli per i paesi postcoloniali. La vecchia idea di Terzo Mondo, retta sulla condivisione di una storia comune fatta d’oppressione coloniale e arretratezza, non è più persuasiva come poteva esserlo negli anni sessanta. La traiettoria di crescita economica dei paesi dell’Asia differisce radicalmente da quella della maggior parte dei paesi africani. Negli ultimi anni la fenomenale crescita eco- nomica della Cina e dell’India, coinvolgendo due degli stati più popolosi del pianeta, ha messo in movimento un processo di cambiamento sociale di scala e di velocità senza precedenti nella storia dell’umanità. È noto che i Subaltern Studies sono stati ispirati dai quaderni del carcere di Antonio Gramsci nei quali egli delineava un quadro metodologico per una «storia delle classi subalterne». Nei Quaderni Gramsci utilizzava la parola subalterno in almeno due accezioni diverse. Nel primo senso, intendeva usarla come etichetta per il proletariato industriale. Egli, però, si contrapponeva all’assunto essenzia- le del pensiero marxista ortodosso, enfatizzando come la borghesia, nella sua ascesa al potere, non imponeva semplicemente una dominazione attraverso gli 1 Il presente saggio è basato sulla relazione che l’autore ha presentato e discusso con Nadia Urbinati e Paolo Capuzzo in occasione del convegno di studi organizzato dalla Fondazione Istituto Gramsci Emilia-Romagna, Gramsci nel ventunesimo secolo, il 15 novembre 2007 alla John Hopkins University di Bologna.

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STUDI CULTURALI - ANNO V, N. 2, AGOSTO 2008

Gramsci nel ventunesimo secolodi Partha Chatterjee

saGGi

1. La società contadina oggi

Il primo volume di Subaltern Studies fu pubblicato nel 1982, venticinque anni or sono1. Ho fatto parte del gruppo editoriale che, sotto la guida di Ranajit Guha, si è impegnato in un confronto critico con la modernità postcoloniale a partire dalla prospettiva delle classi subalterne, specialmente quelle contadine. Nel quarto di secolo oramai trascorso, è avvenuto, io credo, un mutamento fondamentale nella situazione storica della postcolonialità. Le nuove condizioni che regolano i flussi globali dei capitali, delle merci, dell’informazione e della gente – un sistema complesso di fenomeni generalmente raggruppati nella categoria di globalizzazione – hanno creato sia nuove opportunità sia nuovi ostacoli per i paesi postcoloniali. La vecchia idea di Terzo Mondo, retta sulla condivisione di una storia comune fatta d’oppressione coloniale e arretratezza, non è più persuasiva come poteva esserlo negli anni sessanta. La traiettoria di crescita economica dei paesi dell’Asia differisce radicalmente da quella della maggior parte dei paesi africani. Negli ultimi anni la fenomenale crescita eco-nomica della Cina e dell’India, coinvolgendo due degli stati più popolosi del pianeta, ha messo in movimento un processo di cambiamento sociale di scala e di velocità senza precedenti nella storia dell’umanità.

È noto che i Subaltern Studies sono stati ispirati dai quaderni del carcere di Antonio Gramsci nei quali egli delineava un quadro metodologico per una «storia delle classi subalterne». Nei Quaderni Gramsci utilizzava la parola subalterno in almeno due accezioni diverse. Nel primo senso, intendeva usarla come etichetta per il proletariato industriale. Egli, però, si contrapponeva all’assunto essenzia-le del pensiero marxista ortodosso, enfatizzando come la borghesia, nella sua ascesa al potere, non imponeva semplicemente una dominazione attraverso gli

1 Il presente saggio è basato sulla relazione che l’autore ha presentato e discusso con Nadia Urbinati e Paolo Capuzzo in occasione del convegno di studi organizzato dalla Fondazione Istituto Gramsci Emilia-Romagna, Gramsci nel ventunesimo secolo, il 15 novembre 2007 alla John Hopkins University di Bologna.

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apparati coercitivi dello stato, ma piuttosto trasformava le istituzioni culturali e ideologiche della società civile al fine di costruire un’egemonia sulla società nel suo insieme, guadagnando spesso il consenso delle classi subalterne. Nell’analisi gramsciana della società capitalista, il luogo centrale è occupato da questioni quali la relazione tra lo stato e la società civile, le connessioni tra la nazione, il popolo, la borghesia e le altre classi dominanti, il ruolo degli intellettuali nel costituire l’egemonia sociale della borghesia, le strategie per costruire un’alle-anza contro-egemonica, etc. Nel secondo senso, Gramsci parlava delle classi subalterne nelle formazioni sociali pre-capitaliste. Qui si riferiva alla relazione più generale dei rapporti di dominazione e di subordinazione presenti nelle società divise per classi. Egli, in particolare, scrisse sulla subordinazione dei contadini nel contesto specifico dell’Italia meridionale. Gramsci era molto critico verso l’attitudine negativa ed evasiva che i marxisti europei dimostravano nei confronti della cultura, delle credenze, delle pratiche e del potenziale politico dei contadini. Schierandosi contro tale atteggiamento, egli dedicò molte pagine alle caratteristiche che rendevano distintive le pratiche e le credenze religiose, il linguaggio e i prodotti culturali, le vite quotidiane e i conflitti dei contadini, indicando agli intellettuali rivoluzionari lo studio e la comprensione di questi fenomeni come dei compiti necessari. D’altra parte, egli evidenziò anche i limiti della coscienza contadina, che appariva frammentaria, passiva e dipendente al confronto dell’originalità, della capacità analitica e dell’attivo dinamismo storico delle classi dominanti. La coscienza contadina, anche nei momenti di resistenza, rimaneva obnubilata dalle ideologie delle classi dominanti. Queste riflessioni di Gramsci hanno trovato un utilizzo produttivo negli anni ottanta ispirando gli scritti di alcuni storici dell’Asia meridionale.

A distanza di venticinque anni credo che sia importante per gli intellettuali asiatici rivisitare la questione dei contadini nelle società postcoloniali. Non perché io pensi che il progresso della crescita industriale capitalista, come è stato pre-detto innumerevoli volte negli ultimi centocinquanta anni, abbia inevitabilmente lacerato le comunità contadine e trasformato i contadini in operai industriali. Al contrario, io sostengo che le forme di crescita del capitale industriale nel ventu-nesimo secolo possano, in paesi fortemente agricoli come la Cina, l’India e gli stati dell’Asia sud-orientale, fare spazio per la conservazione della produzione e delle culture contadine, anche se in condizioni del tutto alterate. L’analisi di queste forme emergenti del capitalismo postcoloniale richiede un nuovo lavoro concettuale, in cui, questa è la mia opinione, gli scritti di Gramsci continuano a rivestire un importante valore analitico.

Concedetemi di prendere le mosse da una serie di episodi avvenuti in diverse regioni dell’India, violente agitazioni di protesta contro l’acquisizione di terra agricola per l’industria. Il più discusso tra questi avvenimenti è capitato in un luogo chiamato Nandigram, che si trova in un’area del Bengala occidentale

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su cui era stata lanciata un’offerta d’acquisto di quattordicimila acri2 di terra agricola per stabilire un’area industriale speciale destinata all’industria chimica. Nel gennaio del 2007, quando le notizie di un possibile acquisto si stavano diffondendo, gli abitanti del villaggio si sono armati e hanno cacciato tutti i funzionari governativi, i poliziotti e i sostenitori del Partito comunista, che è al potere in quella regione, hanno divelto le strade e distrutto i ponti in modo da «sigillare» l’intera area dalla presenza degli stranieri. Si è venuta a creare una situazione di stallo durata due mesi. Quando la polizia e i sostenitori del governo hanno tentato di entrare con la forza, quattordici persone sono state uccise dal fuoco della polizia. Tuttora l’area continua a essere disturbata e a niente è valso l’annuncio del governo secondo cui la zona industriale chimica sarebbe stata situata altrove.

Se questi incidenti avessero avuto luogo venticinque anni fa, li avremmo sicuramente interpretati come classici segni dell’insurrezione contadina. Avremmo utilizzato le categorie a lungo invalse secondo cui le culture contadine sarebbe-ro legate alla terra e all’agricoltura di piccola scala, sarebbero unite dai vincoli culturali e morali della comunità locale rurale, e sarebbero pronte a opporre resistenza agli agenti di uno stato esterno e alle istituzioni commerciali urbane utilizzando mezzi sia pacifici che violenti. La nostra analisi si sarebbe allora ri-allacciata a una lunga tradizione di studi antropologici delle società contadine, concentrandosi sulle forme peculiari di dipendenza delle economie contadine sia da istituzioni esterne come lo stato che da classi dominanti come i proprietari terrieri, i creditori e i commercianti, e non avrebbe trascurato l’individuazione di alcune forme di autonomia culturale basate sulla solidarietà della comuni-tà morale locale. Avremmo anche ricondotto la nostra discussione nel solco della lunga tradizione dei dibattiti politici sul ruolo storico dei contadini nello sviluppo capitalistico, iniziando con l’analisi marxista dell’Europa occidentale dell’inevitabile dissoluzione della classe contadina quale risultato del processo d’accumulazione primitiva3 del capitale, e proseguendo con i dibattiti di Lenin con i Nardoniks, l’analisi di Mao Zedong del ruolo dei contadini nella rivolu-zione cinese, e gli ancora attuali dibattiti sulla visione di Gandhi di un’India liberata, secondo cui i contadini dei villaggi, mobilitandosi, avrebbero resistito con successo al diffondersi del capitalismo industriale e alla violenza dello stato moderno. Infine, utilizzando le intuizioni degli scritti di Antonio Gram-sci, avremmo potuto parlare della coscienza dei contadini attraversata da una contraddizione che la rendeva dominata dalle forme della cultura elitaria delle

2 L’equivalente nel sistema metrico decimale è pari a circa cinquemilaseicento ettari, NdT.3 Si fa qui riferimento alla categoria marxiana di Ursprüngliche Akkumulation, la cui traduzione

comunemente adottata in lingua inglese, primitive accumulation, non restituisce appieno il riferimento all’origine (Ursprung), che è invece mantenuto nell’espressione «accumulazione originaria» ampiamente utilizzata in lingua italiana, NdT.

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classi dominanti e, al contempo, a esse resistente. Venticinque anni fa, avremmo letto queste agitazioni rurali nei termini dell’analisi presentata da Ranajit Guha nel suo classico lavoro Elementary Aspects of Peasant Insurgency in Colonial India (Guha 1983).

Credo che questa analisi, oggi, risulti inappropriata per più di una ragione. Primo, la diffusione delle tecnologie governamentali nel mondo postcoloniale negli ultimi tre decenni, esito di un approfondimento dell’azione dello «stato sviluppista» asiatico4, ha determinato una situazione in cui lo stato non è più un’entità esterna alla comunità contadina. Le agenzie governamentali, gestendo l’istruzione, i servizi alla salute, le strade e distribuendo cibo, acqua, elettricità, le tecnologie agricole, le cure di emergenza e dozzine di altri servizi, sono penetrate a fondo nella vita quotidiana contadina. Non solo i contadini sono dipendenti dalle agenzie statali per questi sevizi, essi hanno anche acquisito una capacità considerevole, anche se in varia misura rispetto alle differenti aree, nel manipolare e nel fare pressione sulle agenzie affinché provvedano a questi servizi. Le istituzioni dello stato, o almeno le agenzie governamentali (sia statali sia non-statali), sono oramai diventati degli elementi interni delle comunità contadine. Secondo, il flusso massiccio di riforme nella struttura della proprietà agraria, rivoluzionaria come in Cina oppure graduale come in gran parte dell’India e negli altri paesi dell’Asia sud-orientale, ha implicato che, a parte qualche area particolare, per la prima volta dopo secoli i contadini non si confrontassero più direttamente con una classe sfruttatrice interna al villaggio, come accadeva nelle condizioni feudali o semi-feudali. Le conseguenze sono completamente innovative per la gamma di strategie della politica contadina. Terzo, da quando la tassa sulla terra o sui prodotti agricoli non rappresenta più una entrata significativa dei governi moderni, la relazione tra lo stato e i contadini non è più direttamente estrattiva, come era invece nel passato. Quar-to, con la rapida crescita delle città e delle regioni industriali la possibilità del passaggio a occupazioni urbane e non agricole non è più una funzione della loro pauperizzazione e della loro separazione forzata dalla terra, bensì è spes-so una scelta volontaria dettata dalla percezione di nuove opportunità e nuovi desideri. Quinto, la diffusione dell’istruzione scolastica e l’ampia esposizione ai mezzi di comunicazione moderni, come il cinema, la televisione e la pubblicità, hanno propagato tra i membri più giovani, sia maschi che femmine, delle fami-glie contadine un forte desiderio di cambiamento, per cui, piuttosto che fare la vita da contadino del villaggio, sembra preferibile trasferirsi, pur esponendosi a privazioni e incertezze, in paesi o in città che offrono il miraggio dell’anoni-mità e dell’ascesa sociale. Questo è particolarmente significativo in paesi come

4 Si traduce in questo modo l’espressione developmental state, una categoria che in economia politica indica il fenomeno della pianificazione statale ampiamente diffuso alla fine del secolo in Asia sud-orientale e in particolare in India, NdT.

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l’India, dove la vita dei contadini poveri nella società rurale è segnata non so-lamente dagli svantaggi di classe, ma anche dalle discriminazioni di casta, nei cui confronti la mera anonimità della vita urbana è spesso percepita come un fattore d’emancipazione.

2. Un nuovo quadro concettuale

Potrei avere eccessivamente enfatizzato la novità della presente situazione; in realtà i cambiamenti sono indubbiamente intervenuti nel tempo con una maggiore gradualità. Io credo, però, che in questo momento la novità richieda di essere accentuata allo scopo di chiedersi come tali caratteri della vita con-tadina influenzino le (nostre) teorie invalse del posto dei contadini nei paesi postcoloniali. Kalyan Sanyal, un economista che insegna a Calcutta, ha tentato una revisione fondamentale di queste teorie in una recente pubblicazione, Rethinking Capitalist Development (Sanyal 2007). Penso che questo lavoro rap-presenti bene una nuova fase dell’utilizzo di Gramsci che ci aiuta a comprendere i cambiamenti politici ed economici intervenuti nelle società postcoloniali del ventunesimo secolo.

Il concetto chiave dell’analisi di Sanyal è l’accumulazione primitiva del capitale – talvolta chiamata anche accumulazione originaria o primaria del capitale. Come Sanyal, anch’io preferisco riprendere questo termine in senso marxiano per riferirmi alla dissociazione dei lavoratori dai mezzi del lavoro5. Non c’è alcun dubbio che questo processo storico ha un ruolo chiave nel de-terminare la crisi delle società contadine nel momento dell’affermazione del modo di produzione capitalista. L’analisi di Marx negli ultimi capitoli del Libro primo del Capitale mostra che l’emergenza della produzione industriale capita-lista moderna è invariabilmente associata al processo parallelo della perdita dei mezzi di produzione da parte dei produttori primari, i contadini e gli artigiani. L’unità del lavoro e dei mezzi di produzione, alla base della maggior parte dei modi pre-capitalisti di produzione, si scinde, facendo emergere una massa di lavoratori che non sono più titolari degli strumenti di lavoro. Inutile dire che l’unità del lavoro e dei mezzi di produzione in economia politica è l’equiva-lente concettuale dell’unità organica della maggior parte delle società rurali pre-capitaliste, in virtù della quale i contadini e gli artigiani di una comunità locale rurale si considerano legati da stretti legami di solidarietà. Questa è la descrizione antropologica familiare delle società contadine, nonché una feconda fonte d’ispirazione per molti scrittori e artisti romantici che dipingono la vita

5 Il referente polemico a cui si riferisce l’autore è costituito dalle teorie marxiste dello sviluppo che interpretano l’accumulazione come un trasferimento del surplus economico dai settori pre-capitalisti, per lo più agricoli, verso quelli capitalisti industriali (Sanyal 2007, pp. 50-52), NdT.

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rurale. Questa è anche l’unità che viene scissa nel processo di accumulazione primitiva del capitale, gettando le società contadine nella crisi.

L’analisi di questa crisi ha prodotto, come ho già indicato in precedenza, una varietà di narrazioni storiche che vanno dall’inevitabile dissoluzione delle società contadine agli slogan dell’unità di operai e contadini nella costruzione di una futura società socialista. Nonostante le loro differenze, vi è qualcosa che accomuna tutte queste narrazioni, l’idea di transizione. I contadini e le società contadine nelle condizioni dello sviluppo capitalista sono perennemente in uno stato di transizione – o dal feudalesimo verso il capitalismo o dall’arretratezza pre-capitalista verso la modernità socialista.

Un’argomentazione centrale proposta da Sanyal è che nelle condizioni attuali dello sviluppo postcoloniale all’interno di un’economia globalizzata, la narrazione della transizione non è più valida. In altre parole, sebbene la crescita capitalista in una società postcoloniale come l’India sia inevitabilmente accompagnata dall’accumulazione primitiva del capitale, i mutamenti sociali che vengono a determinarsi non possono essere compresi dalla categoria di transizione. Com’è possibile tutto questo?

La spiegazione risiede nelle trasformazioni che negli ultimi due decenni hanno investito il modo di comprendere le funzioni minime del governo e le sue tecnologie disponibili a partire dalla loro disseminazione globale. Oggi è presente un senso comune diffuso che interpreta alcune condizioni di vita basilari come dei requisiti minimi che dovrebbero essere forniti alle persone ovunque esse si trovino e che, nel caso in cui i governi nazionali o locali non siano in grado di farlo, considera legittimo l’intervento sostitutivo di qualsiasi altro attore – altri stati, agenzie internazionali oppure organizzazioni non go-vernative. Quindi, mentre è dominante il discorso centrato sull’importanza della crescita, che in tempi recenti è andata identificandosi quasi esclusivamente con lo sviluppo capitalistico, è, al contempo, considerata inaccettabile la presenza di coloro che, privati dei loro strumenti di lavoro a causa dell’accumulazione primitiva del capitale, non abbiano alcun mezzo di sussistenza. La situazio-ne produce, dice Sanyal, un curioso processo in cui, da un lato, i produttori primari, i contadini, gli artigiani e i piccoli produttori, perdono la loro terra e i loro mezzi di produzione, ma, dall’altro, sono anche beneficiari da parte di agenzie governamentali che provvedono le condizioni minime per sopperire alle esigenze basilari di sostentamento. L’accumulazione primitiva, prosegue Sanyal, avviene parallelamente al processo di rovesciamento degli effetti dell’ac-cumulazione primitiva.

Sarà utile illustrare questo processo con qualche esempio. Storicamente il processo d’industrializzazione in tutti i paesi agricoli ha implicato l’espulsione dei contadini dalla terra, talvolta perché la terra era occupata dallo sviluppo urbano o industriale, talaltra perché i contadini non disponevano più degli

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strumenti per lavorarla. Le forze del mercato possedevano di solito una forza sufficiente da obbligare i contadini a rinunciare alla terra, ma spesso era utiliz-zata la coercizione diretta per mezzo dei poteri legali e fiscali dello stato. Dai tempi dell’Impero le autorità coloniali in India avevano utilizzato il diritto del considerevole potere di espropriare le terre che erano utilizzate per «fini pub-blici», offrendo al massimo una mera compensazione simbolica. L’idea, secondo la quale i contadini che avevano perduto le terre dovevano essere insediati in un’altra area e reintegrati attraverso dei mezzi di sostentamento, era a malapena riconosciuta. È stato affermato che, storicamente, l’opportunità di migrare offerta alla sovrappopolazione europea con le colonie d’insediamento nelle Americhe, e non solo, ha reso possibile la gestione politica delle conseguenze dell’accu-mulazione primitiva in Europa nel diciottesimo e nel diciannovesimo secolo. Tali opportunità non si danno oggi per l’India o la Cina. In modo ancora più significativo le condizioni tecnologiche, che agli inizi dell’industrializzazione hanno creato la domanda per una massa sostanziale di lavoro industriale, sono state lungamente superate. Attualmente, la crescita capitalista è caratterizzata da una maggiore intensità di capitali e da una più stringente dipendenza tecnologica rispetto a qualche decina di anni fa. Larghi strati di contadini, che sono oggi le vittime dell’accumulazione primitiva del capitale, sono difficilmente destinati a essere assorbiti nei settori in espansione dell’economia capitalista. Perciò, senza una politica governativa specifica di re-insediamento, i contadini privati della loro terra si troverebbero di fronte, senza alternative, all’eventualità di una completa perdita dei loro mezzi di sostentamento. Secondo l’ordine delle idee normative prevalenti a livello globale, tale situazione è considerata inaccettabile. In sostanza, il metodo di stroncare la resistenza contadina attraverso la repres-sione armata avrebbe scarse possibilità di guadagnare legittimità. Il risultato è una diffusa domanda di reintegrazione dei displaced, coloro che hanno perduto i loro mezzi di sussistenza a causa dello sviluppo industriale e urbano. Non è come se, dice Sanyal, l’accumulazione primitiva si fosse arrestata o avesse anche solamente rallentato, poiché l’accumulazione primitiva è l’inevitabile controparte della crescita economica. Piuttosto, le agenzie governamentali devono trovare le risorse capaci, o darne almeno l’impressione, di rovesciare le conseguenze dell’accumulazione primitiva, erogando dei mezzi alternativi di sostentamento a coloro che li hanno perduti.

È noto che per gli «stati sviluppisti» non è inusuale proteggere determinati settori della produzione, come si sta facendo in questo periodo per la sfera dei contadini, degli artigiani e dei piccoli produttori, dalla competizione delle grandi imprese. Ma questo può essere interpretato come un tentativo di bloccare la stessa accumulazione primitiva precludendo il capitale d’impresa dall’entrare in aree di produzione di ortaggi, di coltivazioni alimentari o di manifatture artigianali. Comunque, ci sono molti esempi in diversi stati, inclusa l’India, di agenzie gover-

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native e non-governative che offrono prestiti agevolati per permettere a coloro che sono stati privati dei mezzi di sussistenza di trovare un qualche impiego redditizio. Tali prestiti sono spesso concessi senza alcuna seria indagine circa la produttività o l’aspettativa che essi siano saldati, poiché il denaro anticipato in questo caso non è guidato dall’intenzione di generare un’ulteriore accumulazione del capitale, ma piuttosto da quella di sopperire alle esigenze di sostentamento dei debitori – vale a dire, dalla volontà di capovolgere gli effetti dell’accumu-lazione primitiva. Negli ultimi anni, tali sforzi hanno acquisito lo status di una tecnologia che circola a livello globale: la gestione della povertà. Un esempio notevole è costituito dal movimento del micro-credito avviato in Bangladesh dalla Grameen Bank e dal suo fondatore, il premio Nobel Mohammed Yunus. Oramai suonano familiari le storie delle donne contadine che nel Bangladesh rurale formano gruppi per contrarre dei prestiti con la Grameen Bank allo sco-po d’intraprendere piccole attività al fine di sopperire al loro sostentamento. È altrettanto noto che esse esercitano un controllo reciproco allo scopo di ripagare il prestito ed essere così qualificate per un nuovo credito. Attività simili sono state introdotte in modo piuttosto diffuso in India negli ultimi anni.

Infine, come in altri paesi, le agenzie del governo in India erogano dei servizi alla gente che, a causa della povertà o di altre ragioni, non sono in grado di soddisfare i loro bisogni di consumo primari. Tali servizi assumono la forma di programmi speciali contro la povertà, o di sistemi d’impiego garantito all’in-terno dei lavori pubblici, o ancora della distribuzione diretta di alimenti gratuiti o sovvenzionati. Quindi, ci sono programmi che erogano alimenti di cereali sovvenzionati a coloro che vivono «al di sotto la linea della povertà», garanti-scono l’impiego fino a cento giorni all’anno a coloro che ne hanno bisogno, e forniscono pasti gratuiti ai bambini nelle scuole elementari. Queste misure, nei termini della nostra analisi, possono essere trattate come interventi diretti a revocare gli effetti dell’accumulazione primitiva.

È importante indicare che, a parte questi ultimi esempi di diretta sommini-strazione dei beni di consumo primari, la maggior parte degli altri meccanismi di rovesciamento degli effetti dell’accumulazione primitiva coinvolgono l’inter-vento del mercato. È questa l’altra significativa differenza delle condizioni attuali della vita contadina rispetto ai modelli tradizionali che abbiamo conosciuto. A parte piccole aree peculiari e marginali, la produzione contadina e artigiana in India oggi è un settore completamente integrato nell’economia di mercato. A differenza di qualche decennio fa, non esiste o quasi un settore della produ-zione familiare che possa essere descritto come auto-consumo o scambio non monetario proiettato integralmente all’interno della comunità locale. In pratica, l’intera produzione contadina e artigiana è rivolta alla vendita e tutti i bisogni di consumo sono ottenuti dal mercato. Come vedremo la situazione influenza pesantemente le condizioni delle politiche contadine.

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3. Le trasformazioni strutturali del potere politico

Per collocare tali mutamenti all’interno di una cornice strutturale capace di descrivere il modo in cui il potere politico sia mantenuto ed esercitato nell’India postcoloniale, devo fornire anche uno schema della trasformazione che io credo abbia avuto luogo negli ultimi anni nella struttura del potere politico. Anche in questo caso, ancora una volta, gli intellettuali indiani sono ricorsi all’aiuto di Antonio Gramsci. Venticinque anni fa, la struttura del potere statuale in India era frequentemente descritta da loro nei termini di una coalizione tra le classi dominanti, più precisamente, i capitalisti, i ricchi coltivatori e la burocrazia, che competevano e si sostenevano a vicenda all’interno di uno spazio politico sotto il controllo di uno stato relativamente autonomo (Bardhan 1984). Il modello della coalizione delle classi dominanti aveva ricevuto una solida forma teorica in un classico saggio di Sudipta Kaviraj (1988), in cui l’autore, utilizzando l’idea di Antonio Gramsci di «rivoluzione passiva» come una dialettica bloccata, è stato in grado di attribuire la sua specifica dinamica al processo di dominazione di classe in India. Il potere doveva essere condiviso dalle classi dominanti per-ché nessuna di esse possedeva la capacità di esercitare l’egemonia per conto proprio. Ma la «condivisione» non è stata altro che un incessante processo di tira e molla, da cui emergeva una classe con una relativa prominenza, presto destinata a essere perduta. Kaviraj ci ha lasciato una storia politica sinottica del dominio e del declino relativi dei capitalisti industriali, delle aristocrazie rurali e dell’élite burocratico-manageriale all’interno del quadro della rivoluzione passiva del capitale.

Le caratteristiche peculiari della rivoluzione passiva in India, secondo questa descrizione vecchia di vent’anni, poggiavano su una relativa autonomia dello stato preso nel suo complesso dalla borghesia e dalle élite terriere; la direzione dello stato da parte di un capo politico eletto, una burocrazia stabile e un potere giudiziario indipendente; la negoziazione degli interessi di classe attraverso un sistema elettorale multipartitico; un regime protezionistico volto a scoraggiare la penetrazione del capitale straniero e a promuovere la sostituzione delle importazioni; il ruolo guida del settore statale nell’industria pesante, nelle infrastrutture, nei trasporti, nelle telecomunicazioni, nel sistema bancario, etc.; il controllo dello stato sul settore manifatturiero privato attraverso un regime di concessioni; e la relativamente maggiore influenza degli imprenditori industriali sul governo centrale e quella delle elite terriere sui governi dei singoli stati. La rivoluzione passiva è stata una forma segnata da una profonda differenza rispetto alle democrazie borghesi classiche. Ma nella misura in cui le democrazie capi-taliste che si sono stabilite in Europa occidentale e nell’America settentrionale sono servite come modelli normativi della rivoluzione borghese, le discussioni della rivoluzione passiva in India hanno implicitamente trasmesso il senso di

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un sistema in transizione – da regimi precoloniali o coloniali a una sorta di autentica modernità ancora in via di definizione.

Io credo che i mutamenti introdotti negli anni novanta abbiano trasformato l’assetto strutturale di dominio delle classi. Alcune cruciali differenze, ora, sono lo smantellamento del regime delle concessioni, un accesso più facilitato dei capitali e dei beni di consumo stranieri, nonché l’apertura ai capitali privati dei settori delle telecomunicazioni, dei trasporti, delle infrastrutture, delle miniere, delle banche, delle assicurazioni, etc. La situazione ha condotto a un cambiamento nella stessa composizione della classe capitalista. Al posto dell’iniziale posizione di dominio di poche aziende monopolistiche alimentate dal retroterra mercantile tradizionale e protette dal regime delle concessioni e della sostituzione delle importazioni, vi è ora un numero assai maggiore di concorrenti che entrano a far parte della classe capitalista a tutti i livelli ed è molto maggiore la mobilità nei meccanismi interni della sua formazione. A differenza del precedente timore per la concorrenza straniera, sembra esserci attualmente una fiducia più solida negli imprenditori indiani che cercano di approfittare delle opportunità forni-te dai flussi globali del capitale, dei beni e dei servizi, incluse, recentemente, delle significative esportazioni di capitale. Il fenomeno più straordinario è stata l’esplosione dell’industria indiana delle tecnologie informatiche. Le manifatture e i servizi interni hanno ricevuto un impeto ancora maggiore, conducendo negli ultimi anni a una crescita economica complessiva su base annua dell’otto o del nove percento.

Il risultato ha riguardato un certo numero di mutamenti politici. Ecco una lista di quelli più rilevanti per la nostra discussione. Primo, è in corso l’ascesa del potere relativo della classe capitalista, il quale è distinto da quello delle aristocrazie terriere. I mezzi politici attraverso cui questa posizione di dominio è stata raggiunta recentemente richiedono un’attenta analisi che sappia valutarli non semplicemente come una mera mobilitazione elettorale (che è stata per lungo tempo la risorsa politica per eccellenza delle elite terriere). Secondo, lo smantellamento del sistema delle concessioni ha aperto un nuovo campo alla competizione tra i governi dei singoli stati per corteggiare gli investimenti di capitali sia interni sia stranieri. La situazione è sfociata nel coinvolgimento dei partiti politici e dei leader a livello statale negli interessi delle imprese nazionali e internazionali in modi del tutto inauditi. Terzo, sebbene lo stato continui a essere il più importante apparato di mediazione tra gli interessi divergenti e conflittuali delle classi, la sua autonomia in relazione alle classi dominanti sembra essere ridefinita. In modo cruciale si è significativamente indebolito il ruolo iniziale della classe burocratico-manageriale o, più generalmente, delle classi medie urbane, nel guidare e nel far funzionare sia socialmente sia ideologicamente le attività di intervento svolte in piena autonomia dallo stato sviluppista. Esiste attualmente tra le classi medie urbane una tendenza ideologica che interpreta

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gli apparati dello stato come paralizzati dalla corruzione, dall’inefficienza e dalla venalità politica, mentre riscuote una maggiore approvazione la professionalità e l’impegno verso la crescita e l’efficienza del settore imprenditoriale capitali-stico. Le classi medie urbane, che una volta giocavano un ruolo così cruciale nel produrre e gestire in modo autonomo lo stato sviluppista della rivoluzione passiva, sembrano ora essere in larga parte assoggettate al dominio politico-morale della borghesia.

Sarebbe un errore, tuttavia, pensare che il risultato sia una mera conver-genza del sistema politico indiano con i classici modelli della democrazia capi-talista. La differenza critica, come ho indicato altrove, è stata prodotta da una lacerazione nel campo del politico tra una sfera costituita essenzialmente dalla società civile e una sfera attivata in modo contingente e non meglio definito dalla società politica (Chatterjee 2004). La società civile indiana attuale, abitata in larga parte dalle classi medie urbane, è una dimensione che cerca di essere in linea con i modelli normativi della società civile borghese, rappresentando la sfera d’influenza dell’egemonia capitalista. Se questa fosse l’unica sfera politica rilevante, allora l’India sarebbe probabilmente indistinguibile dalle altre demo-crazie capitaliste occidentali. Ma c’è anche un’altra sfera, quella che ho chiamato società politica, che include ampi settori della popolazione rurale e dei poveri urbani. Queste persone, naturalmente, possiedono uno status formale di cittadini e sono perciò in grado di esercitare il loro diritto di voto come uno strumento di contrattazione politica. Essi, però, non si rapportano agli organi dello stato nella stessa maniera delle classi medie, né le agenzie governamentali li trattano come veri e propri cittadini appartenenti alla società civile. Coloro che fanno parte della società politica avanzano le loro richieste ai governi e, a loro volta, sono da essi governati, ma non all’interno di una struttura stabile di diritti e di leggi definiti costituzionalmente, bensì attraverso provvedimenti temporanei, contestuali e instabili, a cui si giunge attraverso negoziazioni politiche dirette. Questa sfera, che rappresenta la grande mole della politica democratica in India, non si trova sotto il comando della classe capitalista.

Quindi, la mia tesi è che la configurazione della rivoluzione passiva sia tuttora valida per l’India. La sua struttura e la sua dinamica, però, hanno su-bito una modifica. La classe capitalista è venuta ad acquisire una posizione di egemonia politico-morale nella società civile, che è formata principalmente dalle classi medie urbane. Esercita una considerevole influenza sia verso il go-verno centrale sia verso quello degli stati, ma non attraverso la mobilitazione elettorale politica dei partiti e dei movimenti politici, bensì attraverso la classe burocratico-manageriale, i mass media e la stampa, sempre più influenti, il po-tere giudiziario e altri corpi di regolazione indipendenti. L’autorità della classe capitalista all’interno delle strutture statali nel loro complesso può essere evinta dal consenso effettivo tra i maggiori partiti politici circa le priorità della crescita

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economica guidata dagli investimenti privati sia interni sia stranieri. Sorprendente che anche i partiti comunisti condividano, almeno in pratica se non addirittura in teoria, questo livello di consenso. Ciò significa che, per quanto riguarda il sistema dei partiti, non importa quale particolare combinazione vada al potere o al governo centrale o nella maggior parte degli stati: il sostegno a un rapido sviluppo capitalistico è comunque garantito. Questa è la riprova dell’attuale successo della rivoluzione passiva.

Comunque, le pratiche dello stato includono anche l’ampia gamma di attività svolte nella società politica. In questo ambito esistono ancora degli in-teressi localmente dominanti, come quelli delle aristocrazie terriere, dei piccoli produttori e dei commercianti locali, che sono in grado di esercitare un’influenza politica attraverso il loro potere di mobilitazione elettorale. Nel quadro della vecchia interpretazione della rivoluzione passiva, questi interessi sarebbero stati interpretati come potenzialmente opposti a quelli della borghesia industriale; i conflitti sarebbero stati temporaneamente risolti attraverso un compromesso raggiunto all’interno del sistema dei partiti e dell’apparato autonomo dello stato. Ora, io credo che sia presente una nuova logica dinamica, che lega le operazioni della società politica con il ruolo egemonico della borghesia nella società civile e con la sua dominazione complessiva delle strutture statali. Que-sta logica è determinata dalla richiesta, esposta in precedenza, di rovesciare gli effetti dell’accumulazione primitiva del capitale. Per descrivere come questa logica funziona integrando la società civile e la società politica nel quadro di una ristrutturazione della rivoluzione passiva, permettetemi di ritornare al tema dei contadini.

4. La società politica e la gestione del «capitale non orientato all’accumulazione»6

L’integrazione del mercato ha significato che ampi settori di ciò che si era so-liti chiamare economia di sussistenza, corrispondente alla classica descrizione dell’agricoltura dei piccoli proprietari, siano ora venuti a trovarsi sotto il domi-nio del capitale. È questo uno sviluppo chiave che deve influenzare in modo cruciale la nostra comprensione della società contadina indiana attuale. È ora presente un elevato grado di connessione tra le coltivazioni contadine, le reti di credito e di commercio delle merci agricole, le reti di trasporti e di servizi e le piccole lavorazioni nei mercati rurali e nei piccoli paesi, etc. Si pone la

6 Viene così tradotto la categoria di «non-corporate capital». Per rispettare la contrapposizione a cui si fa qui riferimento e ripresa da Rethinking Capitalist Development di Sanyal (2007), il polo oppo-sto dell’antitesi, «corporate capital», è tradotto in modo simmetrico con l’espressione «capitale orientato all’accumulazione».

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necessità di concettualizzare tutto questo come parte di un unico complesso. Comunemente questo settore è descritto come un’economia non organizzata o informale. Di solito, si definisce l’unità appartenente al settore informale nei termini della piccola dimensione dell’impresa, del basso numero dei lavoratori impiegati, o della natura relativamente non regolata degli affari. Rispetto all’in-quadramento analitico che ho presentato qui, propongo una distinzione tra i settori formali e informali dell’economia attuale nei termini di una differenza tra le forme di capitale «orientate all’accumulazione» e quelle «non orientate all’accumulazione».

La ragione risiede nel fatto che le caratteristiche da me descritte delle società contadine attuali sono comprese meglio se intese come segni del «capitale non orientato all’accumulazione». Nella misura in cui la produzione contadina è profondamente radicata all’interno delle strutture di mercato, i suoi investimenti e i suoi profitti sono condizionati da forze che provengono dalle operazioni del capitale. In questo senso, la produzione contadina offre molti collegamenti con le unità informali della manifattura, del commercio e dei servizi che operano nei mercati rurali, nelle piccole città e anche nelle grandi città. Ma possiamo delineare numerose distinzioni raffinate tra il capitale orientato all’accumulazione e quello non orientato all’accumulazione. La distinzione chiave che spero di riuscire a sottolineare è la seguente. La logica fondamentale che costituisce il fondamento del capitale orientato all’accumulazione è, per l’appunto, l’accumulazione sen-za fine del capitale, la quale di solito si riassume con la massimizzazione del profitto. Per le organizzazioni capitalistiche non orientate all’accumulazione, invece, se il profitto non è irrilevante, è un’altra logica a dominare – quella di provvedere ai bisogni di sussistenza di coloro che lavorano nelle unità. La differenza è cruciale per la comprensione della cosiddetta economia informale e, per esteso, come argomenterò, della società contadina.

Lasciate che v’illustri un paio di esempi familiari tratti dal settore informa-le non agricolo, prima di ritornare al tema dei contadini. La maggior parte di noi conosce il fenomeno dei venditori di strada nelle città indiane. Essi occu-pano dello spazio sulle strade, violando, di solito, le leggi municipali; spesso erigono dei banchetti permanenti, utilizzano i servizi municipali come l’acqua e l’elettricità e non pagano le tasse. Per portare avanti un tale commercio a queste condizioni, essi di solito si organizzano in associazioni che trattano con le autorità municipali, con la polizia, con le agenzie di credito come le banche e le aziende che producono e distribuiscono i prodotti venduti sulle strade. Tali associazioni assumono spesso dimensioni considerevoli e dispensano di un numero di membri e di un volume di affari importanti. Ovviamente, ope-rando all’interno di una situazione di mercato pubblico e anonimo, i venditori sono soggetti alle condizioni standard della redditività dei propri affari. Ma per assicurare che ognuno sia in grado di soddisfare le proprie esigenze primarie,

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l’associazione cerca spesso di limitare il numero di venditori che possono la-vorare in una data area e, quindi, di evitare l’insediamento dei nuovi arrivati. D’altro canto, ci sono molti altri esempi in cui, quando gli affari vanno a gonfie vele, i venditori, a differenza degli imprenditori orientati all’accumulazione, non pensano solo ad accumulare su una scala più estesa, preferendo invece di accordarsi per estendere la loro organizzazione a nuovi membri e permettere l’ingresso di nuovi partecipanti. Per citare un altro esempio, in gran parte delle piccole città dell’India, il sistema di trasporto dipende pesantemente da operatori privati alla guida di un autobus o di un autorisciò7. È presente una violazione frequente dei regolamenti circa le concessioni, le misure di sicurezza e le norme sull’inquinamento. Sebbene la maggior parte degli operatori possegga solamente uno o due veicoli a testa, essi formano delle associazioni per negoziare le tariffe e i percorsi con le autorità dei trasporti e la polizia, e controllano la frequenza dei servizi e l’ingresso di nuovi operatori per garantire un reddito minimo. Ed a tutti è assicurato un guadagno di poco superiore a quello minimo.

Nel mio libro Oltre la cittadinanza: la politica dei governati (Chatterjee 2004), ho descritto la forma della regolazione governamentale di questi gruppi di popolazione, i venditori di strada, gli occupanti abusivi di case e altri la cui dimora o sussistenza si avvicinano ai margini della legalità, considerandoli parte della società politica. Nella società politica, ho sostenuto, le persone non sono trattate dallo stato come veri e propri cittadini titolari di diritti e appartenenti alla società civile propriamente costituita. Piuttosto, essi sono visti come parte di gruppi particolari di popolazione con determinate caratteristiche analizzate statisticamente ed empiricamente stabilite. Essi sono oggetto di particolari po-litiche governamentali. Poiché negoziare con molti di questi gruppi implica il riconoscimento tacito di diverse pratiche illegali, le agenzie governamentali trat-tano spesso questi casi come eccezioni, che giustificano sulla base di circostanze speciali contemplate al fine di non compromettere la struttura delle regole e dei principi generali. Quindi, agli occupanti abusivi di case potranno anche essere concessi l’acqua corrente o il collegamento alla rete elettrica, ma sempre su delle basi eccezionali, cosicché essi non possano essere considerati assieme agli utenti regolari aventi un titolo legale sulla loro proprietà. Oppure ai venditori di strada sarà permesso di commerciare in condizioni peculiari, distinguendoli dai negozi che fanno affari regolari rispettando le leggi e pagando le tasse. Tutto questo rende le pretese della gente della società politica una questione che richiede una costante negoziazione politica, i cui risultati non sono mai né sicuri né permanenti. Le loro prerogative, anche una volta riconosciute, quasi mai diventano diritti sanzionati legalmente.

7 Gli autorisciò sono i risciò a motore che hanno sostituito pressoché in tutte le città indiane i vecchi mezzi trainati a mano o da una bicicletta, NdT.

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Per collegare la questione della società politica con la mia precedente discussione sull’accumulazione, desidero ora procedere con la seguente proposi-zione. La società civile è presente laddove il capitale orientato all’accumulazione è egemonico, mentre la società politica è lo spazio di gestione del capitale non orientato all’accumulazione. Come ho sostenuto sopra, dagli anni novanta del secolo scorso il capitale orientato all’accumulazione, e con esso la classe dei capitalisti d’impresa, hanno raggiunto una posizione egemonica sulla società civile indiana. Questo implica che la logica dell’accumulazione, espressa a sua volta nella domanda che la crescita economica nazionale sia mantenuta a un livello molto alto e che le richieste del capitale orientato all’accumulazione rappresentino le priorità dell’agenda politica, impone il segno del suo dominio sulla società civile, ovvero sulle classi medie urbane. Ciò significa anche che le aspirazioni educative, professionali e sociali delle classi medie stanno venendo a intrecciarsi con le sorti del capitale orientato all’accumulazione. Esiste oggi una tendenza predominante nell’insistere sui diritti legali dei cittadini, nell’imporre l’ordine civico nei luoghi e nelle istituzioni pubbliche, e nel trattare il caotico mondo del settore informale e della società politica con un certo grado d’intol-leranza. Un sentimento vago, sebbene vigoroso, sembra prevalere tra le classi medie urbane, secondo cui una rapida crescita economica può risolvere tutti i problemi della povertà e dell’ineguaglianza delle opportunità.

Il settore informale, pur non disponendo di una struttura aziendale e non funzionando principalmente secondo la logica dell’accumulazione, non è co-munque sprovvisto di organizzazione. Come ho indicato negli esempi, chi opera nel settore informale fa leva su ampie organizzazioni, che in molti casi sono piuttosto influenti ed efficienti. Essi hanno necessità di organizzarsi proprio per lavorare nel mercato moderno e negli spazi governamentali. Le organizzazioni tradizionali delle società contadine e artigiane non sono adeguate per questo compito. Io credo che questo organizzarsi sia un’attività tanto politica quanto economica. Data la logica del capitale non orientato all’accumulazione che ho descritto sopra, la funzione di queste organizzazioni è precisamente di operare con successo all’interno delle regole del mercato e dei regolamenti governamen-tali allo scopo di assicurare ai suoi membri le esigenze primarie di sussistenza. Molti di coloro, sia proprietari sia lavoratori, che offrono la loro leadership nell’organizzare la gente nella sfera del settore informale sono effettivamente o potenzialmente dei leader politici. Quindi non è sbagliato affermare che la gestione del capitale non orientato all’accumulazione in tali condizioni è una funzione politica espletata da capi politici. L’esistenza e la sopravvivenza del vasto assembramento delle cosiddette unità informali di produzione esistenti attualmente in India, includendo in esso anche la produzione contadina, è di-rettamente dipendente dall’azione di successo di certe funzioni politiche. Questa è la situazione che è stata agevolata dal processo democratico.

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Le organizzazioni che sostengono tali funzioni politiche devono essere innovative – una necessità storica, dal momento che né la storia del movimento cooperativo né quella dell’organizzazione collettiva socialista hanno alcun mo-dello da offrire alle organizzazioni del capitale non orientato all’accumulazione in India. Cosa è notevole considerare a questo punto è un forte senso di attac-camento alla proprietà privata su piccola scala e, al contempo, una volontà di organizzare e cooperare allo scopo di proteggere le fragili basi della sussistenza, che è costantemente minacciata dall’incedere delle forze del capitale orientato all’accumulazione. Comunque, sembra che queste organizzazioni del capitale non orientato all’accumulazione siano, almeno in questo frangente storico, più forti nei settori informali non agricoli delle città e dei paesi e meno tra i contadini. Ciò significa che, mentre le organizzazioni del capitale non orientato all’accumulazione nelle aree urbane si sono sviluppate in forme relativamente stabili ed efficienti e sono in grado, attraverso la mobilitazione del supporto go-vernamentale ottenuto con le attività della società politica, di sostenere i bisogni di sussistenza delle fasce povere urbane impiegate nei settori informali, i poveri rurali, perlopiù piccoli contadini e lavoratori rurali, sono ancora dipendenti dal supporto diretto governamentale per i loro bisogni basilari e sono meno capaci di mettere in atto un uso organizzato efficiente del mercato per i prodotti agri-coli. Questa sfida giunge al cuore sia delle recenti controversie sui «suicidi degli agricoltori» sia dei dibattiti sull’acquisizione della terra agricola per l’industria. È chiaro che il settore della produzione agricola è destinato ad affrontare rapidi cambiamenti nel prossimo futuro e la democrazia indiana si troverà obbligata a inventare nuove forme di organizzazione per garantire la sopravvivenza della vasta popolazione rurale.

5. La politica e la cultura contadine

Prima ho menzionato che le agenzie dello stato o, più generalmente, le agenzie governamentali, di cui fanno parte anche le ONG o altre organizzazioni che espletano le funzioni governamentali, non sono più un’entità esterna rispetto alle società contadine. Tale affermazione ha diverse implicazioni. Primo, a causa del fatto che diverse funzioni di welfare e di sviluppo sono ora ampiamente rico-nosciute come uno dei compiti necessari del governo dei poveri, tra cui ampie fasce di contadini, tali funzioni nei campi della salute, dell’istruzione, degli aiuti basilari per la produzione agricola e dell’erogazione dei beni di prima necessità sono ora rivendicati come una pretesa legittima dei contadini. Ciò significa che i funzionari governativi e i rappresentanti politici nelle aree rurali sono costante-mente assediati dalle richieste di sevizi di welfare e di sviluppo. Significa anche che i contadini apprendono a manovrare le leve dei sistemi governamentali, a

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fare pressione nei posti giusti o a negoziare delle condizioni migliori. È questa la sfera in cui le attività quotidiane della politica, dell’organizzazione e della leadership democratica vengono a giocare un ruolo fondamentale. Secondo, la risposta delle agenzie governamentali a tali domande è di solito flessibile e derivata dal calcolo dei costi e dei benefici. Nella maggior parte dei casi, la stra-tegia è dividere coloro che pretendono dei benefici o dei servizi in gruppi più piccoli definiti da determinate caratteristiche demografiche o sociali. L’obiettivo è attuare una politica flessibile che non si rapporti all’intera popolazione rurale come a una unica massa omogenea, ma piuttosto come a gruppi più minuti. Dietro a esso c’è una precisa intenzione politica, frammentare coloro che fanno richiesta di servizi e, quindi, dividere l’opposizione potenziale allo stato. Uno dei caratteri più rilevanti delle recenti agitazioni in India sull’acquisizione della terra per l’industria è che, nonostante l’uso continuato della vecchia retorica della solidarietà contadina, ci sono chiaramente dei settori significativi della popolazione di questi villaggi che non si uniscono a queste agitazioni, perché percepiscono di stare guadagnando qualcosa dalle politiche del governo. Terzo, il campo di negoziazione aperto dalle politiche flessibili di richiesta e di eroga-zione di servizi crea un nuovo spirito competitivo tra coloro che reclamano tali servizi. Poiché i contadini ora affrontano non più gli sfruttatori di un tempo, i proprietari terrieri o i commercianti, ma piuttosto le agenzie governamentali, da cui si attendono dei servizi, lo stato è incolpato per la sperequazione nella distribuzione di tali benefici. I contadini, quindi, accusano i funzionari e i rap-presentanti politici di favorire le città alle spese della campagna, oppure alcune determinate fasce di contadini protestano per essere state penalizzate nello stesso momento in cui altre fasce appartenenti ad altre regioni o ad altri gruppi etnici o affiliazioni politiche sono state presumibilmente favorite. Quarto, a differen-za delle vecchie forme d’insurrezione contadina, le quali hanno caratterizzato per secoli gran parte della storia delle società contadine, esiste nella politica contadina contemporanea, io credo, una qualità piuttosto differente del ruolo della violenza. Le rivolte dei contadini subalterni del vecchio tipo avevano delle peculiari nozioni di strategia e di tattica. Esse erano caratterizzate, come Ranajit Guha ha mostrato nel suo classico lavoro, da una forte solidarietà delle comunità da un lato, e dall’altro da un’opposizione negativa verso chi era percepito come sfruttatore. Oggi, invece, l’uso della violenza nelle agitazioni contadine sembra avere una logica molto più calcolatrice, quasi utilitaristica, essendo progettata per attrarre l’attenzione su specifiche rivendicazioni e proiettata all’ottenimen-to dei servizi appropriati e dei benefici governamentali. Una vasta gamma di tattiche ha lo scopo deliberato di suscitare le reazioni previste nei funzionari, nei capi politici e in particolar modo nei mass media. Probabilmente questo è il mutamento più indicativo intervenuto nella natura della politica contadina negli ultimi due o tre decenni.

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Per quanto concerne l’agricoltura contadina, comunque, queste dinamiche si sono sviluppate in una maniera molto meno netta. L’agricoltura dei piccoli contadini, anche se è completamente immersa nei collegamenti con il mercato, appare contemporaneamente minacciata dal mercato. In particolare, serpeggia una scarsa familiarità al limite del sospetto nei confronti del capitale orientato all’accumulazione. I contadini sembrano molto meno abili nell’affrontare le in-certezze del mercato di quanto lo siano nell’assicurarsi i servizi governamentali. In questi ultimi anni, sono stati segnalati centinaia di suicidi di contadini che erano improvvisamente sprofondati nei debiti, perché non erano in grado di realizzare il prezzo atteso dai loro prodotti agricoli come il tabacco o il cotone. La percezione dei contadini è che questi prodotti alimentari siano manipolati da profonde e misteriose forze completamente al di fuori del loro controllo. A differenza delle organizzazioni del settore informale non agricolo delle aree urbane, che hanno saputo effettivamente dialogare con le aziende industriali per offrire l’immissione o la vendita dei loro prodotti, i contadini sono stati incapaci di costruire organizzazioni simili. Si tratta di una vasta area di gestione dell’agricoltura contadina, una sfera che, appartenendo al capitale non orientato all’accumulazione e non alla produzione di sussistenza per l’auto-consumo, è una sfida aperta al futuro.

È importante enfatizzare che, contrariamente a quanto è stato suggerito da un’idea depoliticizzata di governamentalità, la qualità della politica nel dominio della società politica è senza mezzi termini una transazione meccanica di servizi e benefici. Anche se le agenzie di stato cercano, aggiustando continuamente le loro politiche flessibili, di dividere le grandi coalizioni di coloro che reclamano tali benefici, l’organizzazione delle richiese nella società politica può fare ricorso alle risorse altamente emotive della solidarietà e dell’azione militante. La poli-tica democratica in India è segnata quotidianamente da impetuose e violente agitazioni rivendicative e di protesta contro la discriminazione. Il fatto che gli obiettivi di tali agitazioni siano inquadrati dalle condizioni della governamen-talità non è una buona ragione per pensare che esse non possano suscitare un entusiasmo e un’energia emotiva travolgenti. Non è possibile depoliticizzare le azioni collettive della società politica inquadrandole all’interno della griglia della governamentalità, perché le attività stesse della governamentalità influenzano le stesse condizioni di sussistenza e di esistenza sociale dei gruppi a cui sono rivolte.

In modo interessante, anche se le rivendicazioni avanzate da diversi grup-pi nella società politica sono finalizzate ad aiuti governamentali, queste non possono essere realizzate da un’applicazione ordinaria delle leggi e frequente-mente richiedono la dichiarazione dello stato d’eccezione. Quindi, quando un gruppo di persone, che abita e coltiva una terra occupata illegalmente o vende beni sulla strada, reclama il diritto di continuare le proprie attività o richiede

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una compensazione per trasferirsi altrove, esso in realtà propone allo stato di dichiarare loro stessi un’eccezione alle regole universalmente applicabili. Essi non chiedono che il diritto alla proprietà privata della terra sia abolito oppure che i regolamenti sulle concessioni commerciali e sulle tasse delle vendite siano accantonati. Piuttosto essi pongono una domanda precisa: che i loro casi siano trattati come eccezioni. Quando lo stato riconosce tali richieste, si trova costretto a farlo non per via di una semplice applicazione delle regole amministrative, bensì prendendo una decisione politica e dichiarando lo stato d’eccezione. La risposta governamentale alle rivendicazioni della società politica, quindi, è irriducibilmente politica piuttosto che meramente amministrativa.

Va enfatizzata, infine, un’altra caratteristica significativa delle modalità delle pratiche democratiche della società politica. Si tratta della rilevanza dei numeri. Da quando Tocqueville la formulò nel diciannovesimo secolo, è oramai un luo-go comune affermare che le democrazie elettorali alimentano la tirannia della maggioranza. Le mobilitazioni della società politica, comunque, poggiano sulla manipolazione strategica dei relativi bacini elettorali piuttosto che sull’aspetta-tiva di comandare una maggioranza. A dire il vero, la qualità frequentemente spettacolare delle azioni della società politica, incluso il ricorso alla violenza, è un segno dell’abilità che gruppi relativamente piccoli di persone hanno nel far sentire la propria voce e indicare alle agenzie governamentali le proprie rivendicazioni. Come dato di fatto, si potrebbe affermare che le attività della società politica rappresentano una critica incessante della realtà paradossale che in tutte le democrazie capitaliste combina l’eguale cittadinanza e la regola della maggioranza da un lato, e la dominazione della proprietà e dei privilegi dall’altro.

Al di sotto della società politica, però, c’è una marginalizzazione totale dei gruppi che non possono neppure fare leva sulla mobilitazione elettorale. In ogni regione dell’India sono presenti dei gruppi marginali di persone che sono incapaci di guadagnare l’accesso ai meccanismi della società politica. Essi sono spesso caratterizzati dall’esclusione dalla società contadina. Sono gruppi delle caste inferiori che non partecipano all’agricoltura oppure si tratta di quelle popolazioni tribali che dipendono più dai prodotti delle foreste e dalla pasto-rizia che non dalla coltivazione della terra. La società politica e la democrazia elettorale non hanno fornito a questi gruppi i mezzi per rendere efficaci delle rivendicazioni. In questo senso, questi gruppi marginalizzati rappresentano uno spazio esterno posto oltre i confini della società politica.

L’importante differenza rappresentata dalle attività della società politica rispetto alla comparazione che si può fare con i movimenti di mobilitazione democratica a noi familiari è la loro assenza di una prospettiva di transizione. Mentre suscitano molta passione le lotte per la fine delle discriminazioni di casta o di etnia o per la rivendicazione dei diritti dei gruppi marginali, vi è un piccolo

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sforzo consapevolmente mirato a interpretare la direzione di queste agitazioni come se avvenissero nei giorni delle mobilitazioni nazionaliste o socialiste, e fossero tese a una trasformazione radicale dell’assetto del potere politico. Al contrario, al massimo è la borghesia che, essendo egemone nella società civile e dominante nelle strutture complessive dello stato, propone ancora una narra-zione della transizione – dalla stagnazione alla rapida crescita, dall’arretratezza e dalla povertà alla modernità e alla prosperità, dall’insignificanza del terzo mondo al ruolo più importante di potenza mondiale. La situazione, forse, non è sorprendente se si rammenta la formazione di classe della rivoluzione passi-va: con le aristocrazie terriere spinte in una posizione subordinata e la classe burocratico-manageriale vinta dalla borghesia, è la classe capitalista che ha ora acquisito una posizione di vantaggio per stabilire i termini che le altre formazioni politiche sono costrette a rincorrere.

L’unità del sistema statale nella sua interezza è attualmente preservata grazie a una relazione tra la società civile e la società politica articolata attraverso la logica del rovesciamento degli effetti dell’accumulazione primitiva. Una volta che questa logica è riconosciuta dalla borghesia come una condizione politi-ca necessaria per il mantenimento della rapida crescita del capitale orientato all’accumulazione, lo stato, con il suo meccanismo di democrazia elettorale, diviene il campo di negoziazione politica delle richieste per il trasferimento di risorse, attraverso la leva fiscale o altri mezzi, dall’accumulazione economica ai programmi governamentali, che hanno lo scopo di sopperire ai bisogni di sussistenza dei poveri e dei marginalizzati.

L’autonomia dello stato e quella della burocrazia risiedono ora nel loro potere di allocare la quantità e definire la forma dei trasferimenti di risorse al cosiddetto «settore sociale della spesa». Le differenze ideologiche, come per esempio quelle tra la destra e la sinistra, sono abbondantemente trascritte nell’am-montare e nelle modalità della spesa rivolta al settore sociale per sostenere, ad esempio, i programmi di rimozione della povertà. Queste differenze non mettono in questione la logica dinamica che lega la società civile alla società politica sotto la dominazione del capitale.

Mi sia concesso, per concludere, di puntualizzare ancora una volta che la presente indagine dello sviluppo capitalistico postcoloniale nel ventunesimo secolo è stata possibile in gran parte grazie alle intuizioni analitiche che Anto-nio Gramsci ci ha consegnato nei suoi scritti sul retroterra storico dell’arretrato capitalismo italiano degli inizi del ventesimo secolo. È una misura della poten-za del suo pensiero, che si dimostra essere ancora una fonte di risorse che gli intellettuali postcoloniali di oggi impiegano per comprendere il loro mondo in rapida trasformazione. Forse è altresì significativo che questi intellettuali abbiano assunto seriamente il consiglio di Gramsci secondo cui non vi è alcun merito nel rivendicare ciecamente l’«ottimismo della volontà» senza prima fare i conti

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con le lezioni offerte dal «pessimismo della ragione». Le dinamiche attuali della rivoluzione passiva rendono estremamente difficile proporre delle strategie contro-egemoniche. Una prospettiva della transizione non è ancora disponibile. Tuttavia, utilizzando i concetti di Gramsci, la nostra analisi ci rende consapevoli dei molteplici spazi che, all’interno delle democrazie capitaliste postcoloniali, rimangono al di fuori della sfera egemonica del «capitale orientato all’accumu-lazione» e che, data l’attuale configurazione della rivoluzione passiva, hanno scarse probabilità di esservi inclusi nel futuro.

Ho anche suggerito che la distinzione tra capitale orientato all’accumu-lazione e non orientato all’accumulazione sembra essere coincidente con la separazione tra la società civile e la società politica. Seguendo, ancora una volta, Gramsci, che in prima persona ha vissuto e ha combattuto l’ascesa del fascismo, possiamo attenderci qualche infausta conseguenza. Abbiamo visto in diversi stati dell’Asia ciò che può essere definita una rivolta degli «autentici cittadini» contro la mancanza di regole e la corruzione dei sistemi di rappre-sentanza politica popolare. In Tailandia, nel 2006 si è consumato un colpo di stato guidato dall’esercito che ha deposto un governo democraticamente eletto. L’impressione è che questa azione abbia guadagnato il supporto delle classi medie urbane, che hanno espresso in questo modo il loro disagio verso il go-verno che consideravano un dispendio inefficiente, corrotto e populista diretto a guadagnare il supporto della popolazione rurale. Agli inizi di quest’anno c’è stato un simile colpo di stato spalleggiato dall’esercito in Bangladesh, in cui, mentre le date per le elezioni parlamentari vengono indefinitamente posticipate, un governo ad interim prende le misure necessarie di emergenza per ripulire il sistema dai presunti politici «corrotti». I resoconti suggeriscono che questa situazione è stata inizialmente sostenuta dalle classi medie urbane. In India, una caratteristica rilevante degli ultimi anni è stata l’estromissione delle classi medie urbane dall’attività politica nel suo complesso. Si è diffuso un risenti-mento strisciante nelle città contro il populismo e la corruzione di tutti i partiti politici che, così si dice, sono guidati principalmente dall’accaparramento di voti a spese della garanzia delle condizioni per una rapida crescita economica. Non vi è alcun dubbio che questa situazione riflette l’egemonia della logica del capitale orientato all’accumulazione tra le classi medie urbane. Comunque, rimane il fatto che il grosso della popolazione in India vive al di fuori della zone regolari della società civile. È questo il dilemma della gestione politica da cui dipende il futuro della rivoluzione passiva nelle condizioni della democrazia. Oggi, speriamo di disporre delle risorse intellettuali e politiche migliori per combattere le forze della reazione rispetto a quelle esistenti nel periodo in cui è vissuto Antonio Gramsci.

(Traduzione di Mauro Turrini)

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