GOVERNO DELLA CONCORRENZA E RUOLO DELLE … · processi hanno raggiunto gli obiettivi prefissati....

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Università degli Studi Dipartimento di di Brescia Economia Aziendale Dicembre 2007 Paper numero 69 Anna CODINI GOVERNO DELLA CONCORRENZA E RUOLO DELLE AUTHORITIES NELL’UNIONE EUROPEA

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Università degli Studi Dipartimento didi Brescia Economia Aziendale

Dicembre 2007

Paper numero 69

Anna CODINI

GOVERNO DELLA CONCORRENZAE RUOLO DELLE AUTHORITIES

NELL’UNIONE EUROPEA

Università degli Studi di BresciaDipartimento di Economia AziendaleContrada Santa Chiara, 50 - 25122 Bresciatel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814e-mail: [email protected]

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GOVERNO DELLA CONCORRENZA E RUOLO DELLE

AUTHORITIES NELL’UNIONE EUROPEA

di Anna CODINI

Ricercatore di Economia e Gestione delle Imprese

Università degli Studi di Brescia

Lavoro inserito nell’ambito del Progetto di Rilevante Interesse Nazionale “L’impresa pubblica e il governo della concorrenza

nell’Unione Europea: il ruolo delle Authorities”

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Indice

1. Introduzione ............................................................................................. 1

2. Concorrenza e monopolio: le diverse posizioni ..................................... 2

2.1. La privatizzazione ................................................................................... 7

2.2. La liberalizzazione e la regolazione ....................................................... 9

3. Lo sviluppo delle normative antitrust .................................................. 12

4. La regolamentazione della concorrenza nell’Unione Europea .......... 14

4.1. Il Trattato di Roma................................................................................ 15

4.2. Il Regolamento CE n. 139/2004............................................................ 20

4.3. Il Regolamento CE n. 1/2003................................................................ 23

5. La regolazione della concorrenza in Italia........................................... 28

6. Alcune riflessioni sul ruolo svolto dall’Autorità garante della concorrenza............................................................................................ 32

Bibliografia ................................................................................................. 39

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Governo della concorrenza e ruolo delle Authorities nell’Unione Europea

1. Introduzione

Nonostante i recenti processi di privatizzazione abbiano ridotto in maniera significativa l’incidenza del pubblico sull’economia, anche a livello europeo, il settore pubblico sembra influenzare ancora oggi in maniera massiccia l’economia e la competitività di una nazione.

Recenti indagini condotte sulla competitività dell’Unione Europea rispetto al resto del mondo confermano infatti come tale competitività sia ancora fortemente condizionata dalle politiche adottate in tema di tassazione, dalla disponibilità del pubblico ad investire in ricerca e sviluppo e formazione universitaria, dalla numerosità delle leggi e dei regolamenti imposti e dalla complessità degli adempimenti burocratici associati all’imposizione di nuove norme.

Anche sul fronte della presenza diretta del pubblico nell’economia va detto che, nonostante siano numerosi i processi di privatizzazione che hanno accompagnato gli ultimi anni dell’economia europea, non sempre tali processi hanno raggiunto gli obiettivi prefissati. In paesi come il nostro, per esempio, ai processi di liberalizzazione non sembrano essere seguiti miglioramenti nelle condizioni di erogazione dei servizi a favore dei cittadini come ci si poteva attendere. Questo perché, di fatto, la privatizzazione delle imprese non costituisce una garanzia del miglioramento delle condizioni di funzionamento del sistema. Quanto affermato sopra conferma dunque che l’elemento qualificante ai fini del funzionamento dei mercati non deriva dalla natura della proprietà, pubblica o privata dell’impresa, quanto dalla “responsabilità” che tale proprietà è disposta ad assumere, dove con l’espressione “responsabilità” si intende l’attitudine dei soggetti preposti al governo dell’impresa tanto al rispetto delle regole e della legge, quanto alla seria e ricorrente valutazione della sostenibilità delle tecniche di gestione adottate e degli obiettivi perseguiti (Martellini, 2006, p. 19).

Poste tali premesse è facile intuire la rilevanza assunta dalla normativa antitrust, volta ad impedire l’artificiale aumento del potere di mercato da parte delle imprese conseguito attraverso intese restrittive, comportamenti abusivi e concentrazioni volte a creare o a rafforzare una posizione dominante. Solo in presenza di una libera concorrenza, si viene a creare nel sistema un clima di incertezza tale da indurre le imprese a sviluppare strategie concorrenziali aggressive, che anticipino o rispondano alle mosse dei competitor. Solo in un sistema di questo tipo le imprese sono stimolate a creare nuovi beni e servizi, contribuendo così ad un innalzamento del livello di benessere sociale.

Poste tali premesse, il presente lavoro si propone, dopo un breve excursus sulle diverse posizioni assunte in tema di concorrenza e monopolio (§ 2), di

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ripercorrere le principali tappe dello sviluppo delle normative antitrust (§ 3), soffermandosi, in modo particolare sull’attuale sistema di regolamentazione della concorrenza nell’Unione Europea (§ 4) e in Italia (§ 5). Il paper si chiude poi con un bilancio dell’attività finora svolta dall’Autorità garante della concorrenza e con alcune riflessioni sul suo ruolo attuale e su quello che tale organismo potrà ricoprire in futuro (§ 6).

2. Concorrenza e monopolio: le diverse posizioni

La libera concorrenza viene tradizionalmente interpretata dagli economisti come uno dei principali fattori influenti sullo sviluppo economico di un paese. A questo proposito, gli ultimi cinquant’anni di storia hanno dimostrato come proprio le economie basate su un sistema di libero mercato abbiano registrato i migliori risultati in termini di crescita della produzione e dell’occupazione. Michael Porter (1980), in uno studio dedicato ai fattori che, nel secondo dopoguerra, hanno influenzato le condizioni di sviluppo di alcuni grandi paesi, ha evidenziato come i paesi tendenzialmente più aperti al mercato siano riusciti a registrare le performance migliori, mentre quelli caratterizzati da una maggiore chiusura hanno ottenuto sempre risultati deludenti, talvolta perfino disastrosi. Alle medesime conclusioni conduce l’analisi della “crescita impetuosa” che ha caratterizzato molti paesi in via di sviluppo che, proprio negli ultimi decenni, hanno dimostrato di adottare una politica di maggiore apertura al mercato; analogamente, recenti studi dimostrano come, nei singoli paesi, i settori considerati trainanti siano proprio quelli più aperti al mercato e alla concorrenza.

Per gli economisti classici, il “mercato” rappresenta il meccanismo organizzativo attraverso il quale le decisioni di produzione e quelle di consumo sono messe in contatto fra loro e reciprocamente coordinate, in modo che le risorse esistenti siano indirizzate alle utilizzazioni preferite dai consumatori. Il funzionamento di un’economia di mercato dipende dunque dalle decisioni decentrate di consumatori e imprese, che determinano cosa e quanto consumare e cosa, quanto e come produrre sulla base della loro convenienza (Pera, 2001, p. 11). Nel pensiero classico, mercato e concorrenza vengono concepiti quasi come sinonimi, tanto che quando i classici sostengono che il sistema di mercato è la migliore organizzazione dell’economia si riferiscono a un mercato concorrenziale. La gara concorrenziale che si instaura fra le imprese operanti deriva quindi dal tentativo, da parte delle medesime imprese, di avvantaggiarsi il più possibile dello scambio. Per questo motivo, le imprese che si trovano in concorrenza tra loro tendono a contendersi i clienti l’un l’altra, cercando di attrarli

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mediante l’applicazione delle migliori condizioni. Proprio dal meccanismo che si innesca a questo punto, derivano gli effetti positivi di un mercato concorrenziale, ossia efficienza produttiva ed efficienza allocativa1.

Lo stimolo alla massimizzazione del profitto induce alla ricerca di nuove opportunità attraverso la creazione di nuovi beni o mediante l’introduzione di nuovi processi produttivi che permettano di risparmiare sui costi. Ciò porta le imprese a imitare quelle che sono riuscite a introdurre miglioramenti, in un processo che, pur innescato dal tentativo di ottenere il massimo profitto, in realtà conduce a una sua progressiva riduzione. Attraverso tale processo, le risorse disponibili sono però indirizzate a produrre i beni che i consumatori desiderano, nella quantità che essi richiedono e ai prezzi prevalenti sul mercato. I prezzi così praticati sul mercato sono i più favorevoli per i consumatori, vista la propensione delle imprese concorrenti a contenderseli l’un l’altra. Un mercato concorrenziale, quindi, è in grado di conseguire, da un lato, l’efficienza produttiva, consistente nella minimizzazione dei costi e, dall’altro, l’efficienza allocativa, tale per cui non vi sono sprechi e le risorse disponibili vengono utilizzate proprio per produrre i beni che i consumatori richiedono.

Il mercato concorrenziale genera dunque una serie di benefici soprattutto per i consumatori che, nel breve periodo, possono godere dei prezzi bassi indotti appunto dalla concorrenza e, nel lungo periodo, possono usufruire di ulteriori riduzioni di prezzo, grazie all’introduzione di processi produttivi più efficienti e ampliare la propria possibilità di scelta grazie all’introduzione di nuovi prodotti.

Per apprezzare meglio i benefici derivanti dalla libera concorrenza, è sufficiente pensare a cosa succede nel caso opposto, ossia in un mercato in cui opera una sola impresa in condizioni di monopolio. Un’impresa monopolista non soggetta ad alcuna pressione concorrenziale è infatti libera di fissare il prezzo a un livello che massimizzi i suoi profitti: essa praticherà dunque prezzi nettamente superiori ai costi, ma, poiché a questi prezzi la domanda risulterà più bassa, produrrà di meno. Minori volumi di produzione e prezzi elevati danno così luogo a una perdita di efficienza allocativa2.

Inoltre, nonostante inizialmente l’impresa monopolista tenda al controllo dei costi nel tentativo di elevare i profitti, essa tenderà con il passare del tempo a evitare di migliorare i propri prodotti e le tecniche produttive,

1 L’idea che la pressione concorrenziale spinga un’impresa ad organizzare il suo sitema

produttivo in modo efficiente e a ridurre i suoi costi può farsi risalire ad Adam Smith e John Hicks.

2 Per approfondimenti sulle argomentazioni che spiegherebbero le perdite di efficienza allocativa, si vedano Krueger (1974) e Posner (1975).

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lasciando così che i costi si gonfino rispetto a una situazione di mercato concorrenziale. Ecco quindi che alla perdita di efficienza allocativa si associa, in una situazione di monopolio, anche una perdita di efficienza produttiva3.

Anche se tutti concordano sulla perdita di efficienza legata alla condizione di monopolio e sulla conseguente necessità di interventi pubblici volti a contrastare tali inefficienze, le posizioni sulle modalità d’intervento appaiono piuttosto disparate. I due principali filoni di pensiero nati attorno a questo tema sono riconducibili a due differenti scuole, quella di Chicago da un lato e quella di Harvard dall’altro.

La prima4 si contraddistingue per la fiducia riposta nella capacità della concorrenza, intesa come libero operare delle forze di mercato, di produrre sempre e comunque un risultato efficiente. Premessa essenziale di questo filone di pensiero è dunque costituta dalla convinzione che la concorrenza sia l’unica modalità di scambio in grado di garantire l’efficienza allocativa, premessa dalla quale deriva una serie di importanti conseguenze. Innanzitutto, gli economisti appartenenti alla scuola di Chicago contestano l’esistenza di una correlazione fra tasso di concentrazione del mercato e possibilità di esercitare il potere di mercato attraverso azioni individuali o collettive. Il grado di concentrazione che si registra su un mercato è piuttosto il risultato delle condizioni di produzione prevalenti di un determinato bene o servizio. Per questa ragione, un mercato in cui si registri la presenza di poche grandi imprese è un mercato in cui l’efficienza produttiva richiede la grande dimensione; il permanere di una simile situazione strutturale non dipende dalle barriere innalzate dalle imprese già presenti nei confronti dei possibili nuovi entranti, ma dal fatto che tali potenziali nuovi entranti non sono in grado di ottenere gli stessi risultati in termini di efficienza realizzati dalle imprese operanti nel mercato. Il grado di concorrenza prevalente non può quindi essere misurato in base alla struttura che predomina in quel mercato, bensì alla luce dei risultati conseguiti dalle imprese e del loro impatto sui consumatori.

Dalla concezione del mercato sopra esposta deriva una peculiare visione della politica di tutela della concorrenza, che non dovrebbe preservare una

3 Il primo studio che si è posto l’obiettivo di stimare le perdite di benessere sociale da

monopolio negli Stati Uniti è stato compiuto da Harberger (1954). Evidenze empiriche a dimostrazione dell’esistenza di significative perdite di efficienza produttiva in presenza di potere di mercato sono poi contenute negli studi di Scherer e Ross (1990).

4 I più noti esponenti di tale scuola sono Bork e Posner, che hanno dedicato specifici lavori al ruolo e agli obiettivi delle politiche antitrust o di regolazione dei mercati. Alla stessa scuola appartengono economisti come Stigler e Demsetz. Per una esposizione critica del pensiero di Chicago in tema di antitrust, si possono vedere Schmidt e Rittaler (1989) e Hovenkamp (1985).

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struttura frammentata della stessa, ma consentire che dalla dinamica concorrenziale emergano le soluzioni più efficienti. Secondo la scuola di Chicago, dunque, l’unica fonte di sicura inefficienza è data dall’intervento pubblico. Monopoli o posizioni dominanti esistono quindi come risultato della prevalenza di economie di scala o di condivisione che la rendono la soluzione organizzativa migliore. L’intervento a tutela della concorrenza deve pertanto, in tale contesto, limitarsi a penalizzare quei comportamenti che, attraverso la riduzione delle quantità prodotte, riducono il surplus del consumatore e creano inefficienza allocativa, ma tollerare e incoraggiare i comportamenti efficienti. Punto di riferimento dell’intervento dovrebbe sempre essere rappresentato dall’interesse del consumatore: comportamenti che non svantaggino direttamente il consumatore non devono pertanto essere perseguiti5.

Venendo alla seconda scuola di pensiero, quella di Harvard, gli economisti che in essa si riconoscono partono dalla ricerca di nessi causali che colleghino le prevalenti condizioni strutturali con i risultati conseguiti dal sistema delle imprese, al fine di individuare politiche che, influenzando le condizioni strutturali, correggano i risultati. La scuola di Harvard si ispira pertanto al noto paradigma “struttura-condotte-performance” elaborato da Mason e Bain, successivamente rivisto dalla nuova economia industriale.

L’ipotesi alla base del paradigma in questione sta nella relazione causale che legherebbe la struttura del mercato (data dal suo grado di concentrazione e di protezione, oltre che dalle caratteristiche dei prodotti e dei processi produttivi) alla condotta delle imprese (politiche dei prezzi, di prodotto, di crescita), quest’ultima – a sua volta – legata ai risultati. Partendo da tale presupposto, gli economisti di Harvard sostengono quindi l’esistenza di una correlazione positiva fra tasso di concentrazione e comportamenti collusivi tendenti alla monopolizzazione. La possibilità per il monopolista di godere di elevati profitti è, a sua volta, strettamente connessa alla presenza di barriere all’entrata di carattere strutturale, strategico o istituzionale. Le politiche di tutela della concorrenza dovrebbero quindi essere orientate, compatibilmente con la presenza di economie di scala e quindi con l’efficienza tecnico-dimensionale, a

5 Bork (1978) propone a questo riguardo che la valutazione dei responsabili della

politica economica in merito alla pericolosità o meno per il benessere complessivo di una posizione monopolistica si fondi su un modello elaborato da Williamson che individua come criterio di giudizio discriminante il guadagno netto che deriva ai consumatori dal trade-off tra riduzione dei costi e riduzione delle quantità associate ad un’operazione di concentrazione. L’ipotesi è che se un’operazione di concentrazione conduce a una riduzione dei costi, le risorse risparmiate saranno utilizzate in un altro settore economico e quindi controbilanceranno la perdita di benessere economico sopportata dal sistema per il comportamento del monopolista nel settore in cui si è operata la concentrazione.

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mantenere strutture di mercato concorrenziali, nelle quali il potere di mercato delle imprese non sia tale da ostacolare l’ingresso di nuovi attori.

E’ piuttosto evidente che la posizione della scuola di Harvard si contrappone nettamente a quella assunta dalla scuola di Chicago. Le condizioni che prevalgono sui mercati, osservano gli economisti di Harvard, si discostano considerevolmente da quelle individuate nel modello di concorrenza perfetta, mettendo continuamente a rischio il processo concorrenziale, che è invece l’unico in grado di assicurare efficienza allocativa e tecnologica. Per funzionare correttamente, il processo concorrenziale necessita però di un intervento pubblico che agisca sulle imperfezioni e che lo sostenga; le imperfezioni connaturate al funzionamento del mercato, infatti, non tendono, come affermano gli economisti della scuola di Chicago, ad aggiustarsi naturalmente nel lungo periodo. Al fine di evitare l’emergere di tali imperfezioni, occorre dunque favorire la permanenza di strutture di mercato caratterizzate da elevato numero di attori, ostacolando le pratiche di monopolizzazione nonché la costituzione, per crescita interna o esterna, di posizioni dominanti (Williamson, 1972)6.

Partendo dal presupposto che laddove esiste una situazione di monopolio le perdite di benessere per la collettività possono essere significative, verranno di seguito analizzate le condizioni di efficacia delle principali modalità di intervento che solitamente vengono adottate con l’intento di perseguire l’utilità sociale. In particolare, nei paragrafi che seguono, verranno analizzati aspetti positivi e negativi associabili agli interventi di: a) privatizzazione; b) liberalizzazione e regolazione.

6 Va, infine, segnalata la posizione degli economisti che si occupano di teoria delle

scelte pubbliche (McChesney e Shughart II, 1995) che, oltre a contestare i presupposti del pensiero delle scuole di Harvard e di Chicago, assumono verso le politiche di tutela delle concorrenza una posizione alquanto critica. Gli esponenti della teoria delle scelte pubbliche sostengono che, nel mercato delle regole, non si confrontano interessi pubblici e interessi privati e che la stessa logica di massimizzazione delle utilità che caratterizza il mercato dei beni privati è presente anche sul mercato dei beni pubblici. Ne consegue che le politiche vanno interpretate non alla luce delle dichiarazioni di intenti enunciate negli statuti di presentazione, bensì a seconda dei risultati che conseguono. Per quanto riguarda poi le politiche di tutela della concorrenza in modo particolare, la presunzione di agire nell’interesse pubblico non troverebbe conferma nei risultati ottenuti. Le conclusioni a cui perviene questo gruppo di studiosi sono dunque fortemente critiche, non solo sulla preminenza di un obiettivo di efficienza come motivazione per un intervento di tutela della concorrenza, ma addirittura sulla stessa opportunità di mantenere una forma di intervento regolativi che, a fronte di risultati incerti, impiega una grande quantità di risorse pubbliche a vantaggio di pochi gruppi di interesse.

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2.1. La privatizzazione

A partire dalla metà degli anni ottanta, la cessione ai privati della proprietà delle aziende da parte dello Stato viene vista come espressione di crescente fiducia nell’operare delle forze di mercato, nonostante i processi di privatizzazione siano spesso indotti dalla necessità di favorire il riequilibrio della finanza pubblica.

La decisione di sottoporre a processi di privatizzazione settori che forniscono servizi di interesse economico generale è sempre preceduta da accesi dibattiti relativi all’opportunità nonché all’efficacia di tali interventi7.

Una prima valutazione da compiere in sede di privatizzazione di aziende pubbliche riguarda l’impatto che la natura delle proprietà esercita sull’efficienza economica. A questo proposito, va precisato che i contributi teorici che affrontano il tema tendono a sottolineare come assetti proprietari diversi non siano rilevanti nell’influenzare la capacità di creare gli incentivi a investire e di perseguire l’efficienza economica nei settori interessati.

Se, infatti, si confrontano tra loro due imprese monopoliste, una pubblica e una privata, e si analizzano le modalità con cui queste affrontano i problemi che caratterizzano la fornitura dei servizi di interesse generale, si nota come fra le due non sussistano particolari differenze, né per quanto concerne l’esercizio del potere di mercato né per l’obbligo di servizio universale né per il perseguimento dell’equilibrio finanziario né per i sistemi di incentivi proposti ai dirigenti8. Si può pertanto dedurre che, se le imprese vengono gestite correttamente, il diverso assetto proprietario non è da considerarsi rilevante.

Il diverso assetto proprietario comporta invece alcune differenze significative se si analizza il tema della corporate governance; se si

7 Sul ruolo dell’intervento pubblico nella gestione dell’economia e sulle relazioni tra

Stato, mercato e collettività si vedano Boitani (1996), Redaelli e Silva (1998) e Joskow (2000).

8 Inevitabilmente associato a una situazione di monopolio e tradizionalmente posto sotto il controllo dello Stato, con la creazione di un’impresa pubblica, l’esercizio del potere di mercato può venire altrettanto efficacemente controllato con l’introduzione di un adeguato sistema di regolazione che introduca vincoli sui prezzi. Per quanto riguarda l’obbligo di servizio universale, questo può essere soddisfatto anche da un’impresa privata a cui viene imposto, da un lato, di garantire l’uniformità tariffaria ma contemporaneamente viene consentito di creare un fondo di perequazione, ad esempio, tra categorie diverse di utenza. La possibilità poi di mantenere l’equilibrio finanziario dell’impresa, nel caso dell’impresa pubblica, può essere sempre garantita da interventi dello Stato che si fa carico delle eventuali perdite. Nel caso di impresa privata, invece, si richiede che venga esplicitamente previsto nell’ambito dei modelli di regolazione adottati. Infine, anche ai dirigenti di impresa pubblica possono essere proposti sistemi di incentivi simili a quelli offerti ai dirigenti dell’impresa privata allo scopo di indurli a comportamenti che mirino a migliorare l’efficienza produttiva dell’impresa (Marzi, 2006, p. 24).

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esaminano, infatti, le caratteristiche organizzative interne delle imprese, il diverso assetto proprietario pare possa pregiudicare il raggiungimento dell’efficienza (Marzi, 2006, p. 25).

Una prima differenza si riferisce alla funzione obiettivo del principale (proprietario) che, nel caso dell’impresa pubblica, non sempre trova espressione nella massimizzazione del profitto. Ciò rende complesso il confronto fra i due assetti proprietari, anche perché la massimizzazione del profitto non viene mai del tutto abbandonata, ma si accompagna ad altri obiettivi che il proprietario intende perseguire e che possono avere finalità redistributive.

Una seconda differenza è legata alle modalità di controllo dei comportamenti dell’agente (dirigente). Quando l’impresa è privata, la possibilità di cedere quote della stessa – ad esempio in forma di azioni – e di osservare il valore che il mercato attribuisce a queste quote consente di disporre di informazioni sulla gestione aziendale, che di solito non sono accessibili nel caso di imprese pubbliche. La proprietà pubblica, quando si manifesta in forma di società per azioni, rappresenta di solito un momento transitorio che anticipa una successiva privatizzazione. Quindi, mentre il monitoraggio nell’azienda pubblica è di tipo gerarchico e quindi diretto, nel caso dell’impresa privata ciò avviene con modalità più indirette. E’, infatti, il mercato che può intervenire in modo molto più ultimativo a sanzionare i comportamenti della dirigenza non coerenti con gli obiettivi dei proprietari. Per le ragioni sopra indicate, si può quindi ritenere che l’assetto privato possa ritenersi, da tale punto di vista, superiore a quello pubblico.

Un ulteriore problema che emerge dall’analisi degli effetti legati alla cessione della proprietà pubblica ai privati si deve alla diversa articolazione dei rapporti fra la proprietà e le associazioni sindacali.

I processi di ristrutturazione dei settori comportano solitamente la ricerca di maggiore produttività e ciò si ottiene soprattutto con una riduzione dell’occupazione del settore. Nonostante si affermi che la privatizzazione non costituisca di per sé un metodo efficace per controllare i sindacati molto forti e che lo strumento più efficace sia invece rappresentato dalla concorrenza (Amstrong, 2003), ogni volta che si deve intervenire con politiche economiche impopolari – proprio perché investono i settori dei servizi di interesse generale e possono generare qualche forma di conflittualità sociale – la proprietà privata viene considerata l’assetto più adeguato. In questo caso, lo Stato non si configura più come controparte nel conflitto sociale, ma come mediatore tra le parti di un conflitto. Sembra così possibile ottenere risultati più equilibrati e provocare minore scontento dei lavoratori-elettori nei confronti del governo in carica.

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2.2. La liberalizzazione e la regolazione

I cambiamenti delle condizioni della tecnologia e della domanda e i più recenti contributi di teoria dell’organizzazione industriale hanno favorito la diffusione dei processi di liberalizzazione. In particolare, i contributi teorici in materia hanno portato alla ridefinizione del concetto di “monopolio naturale” e alla valutazione di un nuovo ruolo che la concorrenza può assumere come strumento per controllare l’esercizio del potere di mercato in alternativa o in aggiunta agli altri strumenti della regolazione che vanno invece a incidere direttamente sul comportamento delle imprese.

La visione tradizionale del monopolio naturale si è andata modificando, non solo perché le esperienze concrete di regolazione e i nuovi modelli regolatori hanno posto in evidenza il carattere multiprodotto delle imprese, ma anche perché i nuovi contributi teorici hanno portato a una ridefinizione del monopolio naturale con riferimento ai concetti di subadditività dei costi e non più a quello delle economie di scala (Marzi, 2006, p. 28).

La definizione di monopolio naturale ora prevalente è quella formulata da Baumol, Panzar e Willing (1982) secondo i quali “un’industria è detta monopolio naturale se, in corrispondenza dell’intervallo di produzione rilevante, la funzione di costo è subadditiva”. In altre parole, ciò significa che un’impresa può produrre, da sola, tutto quanto il mercato richiede al costo più basso, e quindi in modo più economico, rispetto a qualsiasi altro insieme di imprese. Nel caso di un’impresa monoprodotto, ciò non significa necessariamente che l’impresa produca a un costo medio unitario continuamente decrescente, ovvero in presenza di economie di scala (cfr. fig. 1).

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Figura 1 – Monopolio naturale

M

A

Si parla invece di monopolio naturale quando l’impresa realizza un

livello di produzione compreso nel tratto di produzione rilevante per il mercato, definito in corrispondenza dell’intersezione della funzione di costo con la funzione della domanda (cfr fig. 2).

Figura 2 – Monopolio naturale

A

M

A

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I costi medi possono, in questo caso, essere crescenti anche nell’intervallo di produzione rilevante e la funzione dei costi medi assume il caratteristico andamento a U. Ciò può comportare due conseguenze rilevanti. La prima si deve al fatto che un miglioramento della tecnologia, riducendo la dimensione ottima minima dell’impresa, fa slittare a sinistra il minimo della funzione di costo medio. La seconda conseguenza è legata al fatto che un aumento della quantità domandata dal mercato, in corrispondenza di ogni livello di prezzo, determina una traslazione della funzione di domanda verso destra, da d a d’, e l’intersezione con la funzione dei costi medi può avvenire oltre il punto di minimo di questa funzione.

I due effetti di cui sopra possono operare separatamente o congiuntamente, rafforzandosi. Quando ciò avviene, non si è più in presenza di un monopolio naturale, bensì di una forma di mercato che, almeno inizialmente, è oligopolistica o di concorrenza imperfetta e nell’ambio della quale è più efficiente realizzare la produzione che soddisfa il mercato con più imprese. L’analisi dinamica dei settori sottolinea, infatti, la possibilità che un monopolio naturale possa evolversi nel tempo verso strutture concorrenziali. Tuttavia, quando la concorrenza effettiva non è realizzabile e il monopolio naturale permane, anche la concorrenza potenziale e la concorrenza per il mercato possono assumere un ruolo rilevante per controllare il potere di mercato e per raggiungere risultati ottimali. La teoria economica ha infatti individuato due nuove modalità per far emergere la concorrenza nel mercato in presenza di monopolio. Nel caso della concorrenza potenziale, legata alla libertà di ingresso e di uscita dal mercato senza costi, la minaccia di entrata di altre imprese spinge l’impresa monopolistica ad adottare comportamenti efficienti, che si traducono nel fissare prezzi uguali ai costi medi. In questo modo, si impedisce l’effettivo ingresso di altre imprese. Queste potrebbero infatti operare sul mercato solo fissando prezzi inferiori a quelli dell’incumbent, tali da non consentire loro di coprire i costi, e sarebbero pertanto costrette a operare in perdita.

Nel caso della concorrenza per il mercato, invece, le imprese competono tra loro per ottenere il diritto a servire il mercato. Attraverso l’operare dei meccanismi d’asta, per l’attribuzione del diritto, si induce l’impresa vincitrice dell’asta ad adottare un comportamento efficiente che si traduce, anche in questo caso, nel fissare un prezzo pari al costo medio.

Quando la concorrenza effettiva o potenziale non riesce o non può operare e non si può ricorrere neppure alla concorrenza per il mercato, il comportamento dell’impresa incumbent è sottoposto a regolazione diretta per evitare che l’impresa abusi del suo potere di mercato.

In conclusione, sembra potersi affermare che, negli ultimi due decenni, si sia sviluppata una maggiore fiducia nell’operare delle forze di mercato. Finché l’elemento cruciale per decidere se regolare o meno era, nella visione

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tradizionale, la presenza di un monopolio naturale determinato dall’esistenza di economie di scala, la concorrenza per il mercato, come possibile alternativa alla regolazione, assumeva scarso rilievo. La definizione di monopolio naturale cui oggi si fa riferimento induce invece a suggerire percorsi regolatori differenti. Anche in presenza di un monopolio naturale non è dunque necessario ricorrere alla regolazione per raggiungere risultati efficienti.

3. Lo sviluppo delle normative antitrust

Le norme antitrust costituiscono la risposta dei moderni ordinamenti giuridici all’eccesso di potere di mercato. Nonostante i contenuti delle singole normative adottate nei diversi paesi possano differire fra loro per alcuni aspetti specifici, si può affermare che esse assumono invece, dal punto di vista sostanziale, un significato analogo. Tutte, infatti, vietano l’uso collettivo del potere di mercato, imponendo alle imprese il divieto di associarsi tramite accordi che possano restringere la concorrenza reciproca, ovvero cooperare per danneggiare i concorrenti o i consumatori. Analogamente, le normative antitrust sono solite fissare un limite alle imprese che abbiano acquisito sul mercato una posizione “dominante”: esse infatti non possono usare il loro potere di mercato per tentare di monopolizzarlo. Infine, alle imprese operanti sul mercato è vietato il rafforzamento del proprio potere attraverso l’acquisizione di aziende concorrenti (Pera, 2001, p. 41).

Le moderne leggi antitrust alle quale si è fatto finora riferimento sono state introdotte per la prima volta negli Stati Uniti d’America9, circa un

9 Il fatto che la normativa antitrust sia nata negli Stati Uniti non è certamente casuale, se

si pensa che la tutela dell’iniziativa economica rappresenta un valore su cui è basata la stessa Costituzione federale. La volontà di garantire tutela all’iniziativa economica privata si scontrò verso la metà del secolo scorso con lo sviluppo di grandi imprese, che caratterizzò l’espansione dell’economia americana, accompagnato dal crescente ricorso al capitale esterno che favoriva la crescita delle dimensioni aziendali. Il fenomeno dello sviluppo delle grandi imprese americane si accompagnò, verso la fine del secolo, alla nascita dei trust: azionisti di imprese che operavano nello stesso mercato, conferivano il proprio capitale a società fiduciarie, i trust appunto, che provvedevano poi alla gestione delle partecipazioni. Nacquero così, proprio in quel periodo, i trust dello zucchero, del petrolio e molti altri, tutti con un’unica prerogativa, ossia quella di condizionare il comportamento delle imprese di cui gestivano il capitale. Tali aggregazioni industriali suscitarono notevole preoccupazione nell’opinione pubblica, accusate di monopolizzare il funzionamento dei mercati, di confliggere con l’interesse dei consumatori e di minacciare l’esistenza di imprese minori. Verso la fine degli anni ottanta, il Parlamento americano esaminò dunque alcune proposte per l’introduzione di norme che tutelassero la concorrenza e il funzionamento del mercato; così, nel 1888, il senatore Sherman presentò la sua

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secolo fa e si sono poi diffuse, in un primo momento all’Europa e, negli ultimi decenni ai paesi che progressivamente hanno dimostrato una certa apertura verso il mercato.

Nonostante la normativa antitrust statunitense e quella europea partano da presupposti comuni, nella pratica l’articolazione vera e propria di tali normative differisce essenzialmente per via dell’importanza assegnata alla tutela della concorrenza come valore da tutelare. Da una parte, negli Stati Uniti, essa è infatti assunta come principio costitutivo di un’economia di mercato indipendentemente dal contributo che ne deriva in termini di allocazione delle risorse, mentre dall’altra, in Europa, essa è stata interpretata come strumento utile al conseguimento di un obiettivo di interesse generale più ampio (una allocazione efficiente, ma anche la competitività delle imprese sul mercato internazionale). Nel primo caso, dunque, al processo concorrenziale in sé vengono attribuite qualità allocative e politiche, nel secondo, solo capacità allocative (Gobbo, 1997, p. 142 e segg.).

Nella tradizione statunitense, prima dell’emergere della scuola di Chicago, la tutela della concorrenza è innanzitutto lotta contro la monopolizzazione, vista essenzialmente come ostacolo alla libertà di intraprendere e alla opportunità di scelta per i consumatori. La garanzia di una uguaglianza di opportunità nella sfera economica, a cui si richiama la normativa antitrust, è percepita come garanzia della permanenza di una pluralità di protagonisti e di interessi nella sfera politica, e quindi come garanzia di democrazia. In questa visione, restrizioni della libertà nella sfera economica sono strettamente associate a restrizioni della libertà nella sfera politica; pertanto l’efficienza, come risultato dell’allocazione delle risorse attraverso il mercato, è un obiettivo desiderabile, ma non necessario. L’attenzione non viene così posta sui risultati del processo concorrenziale in termini di benessere, ma sul valore del processo in sé.

Fatta eccezione per l’esperienza tedesca, che presenta alcune peculiarità importanti, la tutela della concorrenza in Europa – sia a livello di Comunità che di singoli paesi – assume, sin dalle sue origini, carattere strumentale. Le cause di questo approccio vanno ricercate principalmente nel diverso ruolo assegnato allo Stato come garante della convivenza civile e politica (Gobbo, 1997, 2004). Se, infatti, nella tradizione statunitense lo Stato è visto come il garante delle regole, il cui compito è quello di consentire e tutelare l’espressione della libertà individuale e di lasciare spazio all’espressione dei

proposta che, dopo due anni di discussione, venne approvata nel 1890 e che, tutt’oggi, rappresenta la pietra angolare non solo della legislazione americana antitrust, ma di tutte le legislazioni antitrust adottate negli anni successivi.

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bisogni e degli interessi che emergono a livello individuale, nella tradizione europea lo Stato non è solo il garante, ma anche il portatore di un interesse specifico (quello generale) che viene affermato come prevalente sull’interesse individuale.

Le politiche di tutela delle concorrenza che ne conseguono sono pertanto, nella tradizione statunitense, politiche di garanzia della libertà individuale, di scambio, di intrapresa. Nella tradizione europea, invece, compito dello Stato è quello di affermare l’interesse della nazione, poiché il conseguimento di un certo grado di potenza economica coincide con il benessere dei cittadini. In questo contesto, la concorrenza ha valore solo nella misura in cui essa è finalizzata agli obiettivi che si intendono perseguire e la sua tutela viene subordinata al rispetto di un più ampio progetto di politica industriale che rispecchia l’interesse generale. In questo caso, il risultato atteso di un intervento antitrust non è l’uguaglianza delle opportunità o l’efficienza, ma il soddisfacimento dell’interesse generale.

4. La regolamentazione della concorrenza nell’Unione Europea

A differenza degli Stati Uniti, l’Europa della fine del secolo scorso era caratterizzata da una tendenza degli Stati ad adottare politiche protezionistiche e interventiste, che favorivano le imprese nazionali; una tendenza che si è protratta fino al secondo dopoguerra. Così, mentre negli Stati Uniti, la normativa antitrust veniva applicata già dal 1890, in Europa si è dovuto attendere ancora un secolo per vedere i primi segni di tale legislazione.

Fino a quel momento, infatti, gli accordi fra imprese, lo sviluppo delle loro dimensioni e del loro potere di mercato venivano visti addirittura con favore e il fenomeno si accentuò dopo la prima guerra mondiale, con l’emergere di sistemi di mercato caratterizzati da accordi riconosciuti dalle autorità e da forti protezioni doganali. L’interesse verso le leggi antitrust iniziò a manifestarsi solo dopo la seconda guerra mondiale, quando si cominciò a guardare con sospetto agli assetti economici che erano venuti delineandosi, considerati una delle cause dell’avvento dei regimi totalitari.

Il desiderio di avviare una radicale trasformazione del sistema economico con l’intento di modificare il contesto storico e politico in cui si erano consumate le tragedie delle due guerre mondiali fu alla base del Trattato di Roma (1957), la cui sottoscrizione può essere ritenuta il fondamento della costruzione del mercato unico europeo. Va però ricordato come la realizzazione effettiva di un mercato unico, nonché l’adozione di politiche comunitarie finalizzate a ciò sia stata per molti anni ostacolata da numerose difficoltà. Nonostante dunque, in occasione della firma dell’accordo, gli

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Stati membri si fossero dichiarati intenzionati a creare un’unione sempre più forte fra i paesi europei, il Trattato di Roma non rappresenta nient’altro che un semplice documento costituente un mercato comune. E’ però piuttosto evidente come, a differenza di quanto si è verificato in altri ambiti10, proprio in tema di tutela della concorrenza, la politica comunitaria sia riuscita a raggiungere negli anni risultati piuttosto ragguardevoli (Martellini, 1990, p. 137).

Pur riconoscendo che gli interventi comunitari rientranti nella politica della concorrenza siano ben più ampi, si è qui reputato opportuno sintetizzarne i contenuti facendo riferimento a quelle che vengono considerate le norme principali. In particolare, si è deciso di articolare il prosieguo della presente trattazione facendo riferimento alle seguenti normative:

- artt. 81, 82 del Trattato di Roma11, dedicati a intese restrittive e abuso di posizione dominante;

- regolamento CEE n. 4064/89, sostituito dal 1° maggio 2004 dal regolamento CE n. 139/2004, contenente la disciplina sul controllo preventivo delle operazioni di concentrazione;

- regolamento CE n. 1/2003, sulla cooperazione nell’ambito della rete delle autorità garanti della concorrenza.

4.1. Il Trattato di Roma

L’articolo 81 del Trattato di Roma vieta, a pena nullità, tutti gli accordi fra imprese, tutte le decisioni di associazioni d’imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio fra Stati membri e che abbiano come effetto quello di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune, definendo tali accordi incompatibili con lo stesso mercato comune.

10 Negli anni sessanta, la politica comunitaria era incentrata prevalentemente sulla

realizzazione del mercato unico europeo; contemporaneamente, si operava per consentire la creazione di imprese europee, mediante l’armonizzazione delle normative giuridiche e fiscali rilevanti rispetto a tale obiettivo. Fu solo nel decennio successivo che ci si rese conto che, fino a quel momento, non era stato compiuto nessun passo reale verso una politica industriale comunitaria. Tale circostanza veniva poi aggravata dalla crisi che in quegli anni interessava alcuni settori portanti dell’economia europea. Il primo tentativo della Comunità Europea di farsi carico dei problemi strutturali dell’industria europea risale al 1970, quando, nel “Memorandum sulla politica industriale della Comunità”, la Commissione Europea individuò le principali aree di intervento della politica industriale (Bayliss, 1985).

11 Dal 1° maggio 1999, con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, è cambiata la numerazione degli articoli del Trattato CE. Gli articoli 85 e 86 sono pertanto diventati, rispettivamente, 81 e 82.

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Oltre a vietare ogni tipo di intesa restrittiva della concorrenza, l’articolo 81 definisce con precisione a cosa si intenda fare riferimento quando si parla di accordi fra imprese. Sono infatti considerati lesivi della concorrenza tutti quegli accordi consistenti nel:

- fissare direttamente o indirettamente i prezzi di acquisto o di vendita ovvero altre condizioni di transazione;

- limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli investimenti;

- ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento; - applicare, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni

dissimili per prestazioni equivalenti, così da determinare per questi ultimi uno svantaggio nella concorrenza;

- subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi.

L’articolo in questione prosegue poi elencando alcune fattispecie che costituiscono un’eccezione all’applicazione delle disposizioni contenute nella prima parte della normativa. Il paragrafo terzo dell’articolo prevede, infatti, che le disposizioni sopra riportate possono essere dichiarate inapplicabili ad accordi fra imprese, decisioni di associazioni di imprese o pratiche concordate che contribuiscano a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico12.

Sull’articolo in discorso è possibile svolgere alcune osservazioni, prima fra tutte quella relativa alla tipologia di accordi in esso disciplinati (Motta e Polo, 2004, p. 24 e segg.). L’articolo si occupa infatti sia di accordi orizzontali sia di accordi verticali. La mancanza di distinzione fra le due tipologie di accordi è fonte di potenziali problemi, dal momento che la teoria economica suggerisce l’esistenza di effetti concorrenziali differenti per le due fattispecie. Le intese orizzontali, ossia gli accordi tra imprese concorrenti, solitamente restringono la concorrenza e così riducono il benessere sociale (cfr. § 2.1). Esse, dunque, dovrebbero essere sempre proibite, eccezion fatta per alcuni casi specifici, quali, ad esempio, gli accordi di cooperazione nelle attività di ricerca e sviluppo. Le intese verticali, d’altro canto, ovvero gli accordi fra imprese che operano a stadi

12 Tali accordi sono considerati leciti anche qualora prevedano di riservare agli utilizzatori una congrua parte dell’utile che ne deriva, purché evitino di imporre alle imprese interessate restrizioni che non siano indispensabili per raggiungere tali obiettivi e purchè non diano a tali imprese la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti di cui trattasi.

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diversi del processo produttivo (ad esempio, tra un produttore e un rivenditore), hanno in genere effetti procompetitivi e pongono problemi alla concorrenza solo quando sono realizzate da imprese che possiedono un considerevole potere di mercato. Quindi, può non essere efficiente trattare in modo indifferenziato accordi che, in realtà, hanno diversa natura e che producono differenti effetti competitivi.

Di recente, la Commissione europea ha avvertito questo problema ed ha adottato un approccio nuovo nei confronti delle intese verticali, più in linea con quanto previsto dal pensiero economico prevalente. Il Regolamento 2790/99 introduce per le restrizioni verticali: a) una esenzione in blocco dall’articolo 81, soggetta a un criterio di quote di mercato; b) una “lista nera” di clausole che non sono esentate. L’esenzione in blocco riguarda tutte le intese verticali, nelle quali la quota di mercato dei produttori non supera il 30%13. Queste pratiche comprendono principalmente l’imposizione del prezzo di rivendita (ossia clausole che fissano, direttamente o indirettamente, il prezzo di rivendita) e alcune tipologie di limitazioni territoriali, che possono portare alla ripartizione del territorio o dei clienti14.

Altra considerazione riguarda il termine “pratiche concordate” contenuto nell’articolo 81. Secondo quanto disposto, gli accordi rientranti in questa tipologia non dovrebbero essere necessariamente scritti o formalizzati. Tuttavia, l’espressione utilizzata nell’articolo 81 lascia ampio spazio a diverse interpretazioni. Oggi, infatti, il Tribunale di Primo Grado e la Corte Europea di Giustizia probabilmente non giudicherebbero come pratica concordata il “parallelismo nel comportamento” sul mercato, senza che vi siano tentativi tra le imprese coinvolte di comunicare una con l’altra o di stabilire pratiche che le aiutino a sostenere la collusione.

L’ultimo aspetto relativo all’articolo 81 che merita di essere sottolineato riguarda le esenzioni in blocco. Il terzo comma dell’articolo stabilisce infatti che nessun tipo di accordo fra imprese concorrenti sia proibito di per sé, dal momento che esistono circostanze nelle quali il divieto può non essere applicato. Per rendere più semplice l’applicazione dell’articolo in discorso, nel corso degli anni la Commissione europea ha emesso numerosi regolamenti di esenzione in blocco, che indicano – per categorie di accordi quali quelli di specializzazione, di ricerca e sviluppo o di trasferimento tecnologico – come i relativi contratti debbano essere redatti per garantire una automatica esenzione dal divieto previsto dall’articolo 81. In tal caso, le

13 In caso di accordi di offerta esclusiva, affinché l’esenzione continui a valere, è la

quota di mercato dell’acquirente che non deve superare il 30%. 14 Il divieto in sé di queste pratiche è giustificato più dal desiderio di promuovere prezzi

e condizioni di vendita identici in tutta l’Unione Europea, che da motivazioni di natura economica.

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imprese devono notificare il loro accordo alla Commissione europea che (implicitamente o esplicitamente) lo autorizza, se risultano soddisfatte le condizioni indicate dal medesimo articolo.

Un’ultima precisazione è d’obbligo per quanto concerne l’applicazione dello stesso articolo 81. Fino ad oggi, infatti, l’applicazione dell’articolo in parola è avvenuta in base a quanto stabilito nel Regolamento 17 del 1962 secondo un regime di notifica preventiva e approvazione in deroga: l’applicazione dell’articolo 81, terzo comma, e quindi la possibilità di ottenere l’esenzione dal divieto generalizzato di intese, veniva riservata alla Commissione. La riforma del Regolamento entrata in vigore il primo maggio 2004 ha modificato l’applicazione dell’articolo 81 e ha introdotto un sistema di eccezione legale direttamente applicabile. A seguito di tale riforma, il sistema di notifica e di autorizzazione preventiva è stato abolito e si è passati a un sistema di controllo ex post. Inoltre, la Commissione europea ha perso l’esclusiva nell’autorizzare in deroga gli accordi ai sensi dell’articolo 81, comma 3, dato che, secondo il nuovo regolamento, anche le autorità nazionali e i giudici potranno concedere l’esenzione.

Un altro punto affrontato dalla normativa europea sulla tutela delle

concorrenza è quello dell’abuso di posizione dominante disciplinato dall’articolo 82. Tale articolo dichiara incompatibile con il mercato comune e, pertanto vietato, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato comune o su una parte sostanziale di questo.

Sono considerate “pratiche abusive” quelle che consistono:

- nell’imporre direttamente o indirettamente prezzi di acquisto, di vendita od altre condizioni di transazione non eque;

- nel limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno dei consumatori;

- nell’applicare nei rapporti commerciali con gli altri contraenti condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, determinando così per questi ultimi uno svantaggio per la concorrenza;

- nel subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura, o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi.

In merito all’articolo 82, va avvertito che l’elenco dei possibili abusi in esso contenuti va inteso non come esaustivo bensì come una prima esemplificazione di alcuni dei casi che potrebbero verificarsi nella realtà (Motta e Polo, 2004, p. 24 e segg.). In generale, l’articolo 82 si riferisce a un

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comportamento di sfruttamento (prezzi eccessivi) e a pratiche escludenti, quali prezzi predatori, contratti di esclusiva, rifiuto a trattare e tyring.

Mette conto poi evidenziare come, al fine di verificare l’esistenza di un abuso di posizione dominante, sia necessario accertare in primis l’esistenza di una posizione dominante e, solo in seguito, la messa in atto o meno da parte dell’impresa di un comportamento abusivo.

In uno dei primi casi esaminati alla luce dell’articolo 82, il caso Hoffmann-La Roche, la Corte di giustizia europea ha fornito la definizione di dominanza di mercato, tuttora in uso. “La posizione dominante (…) si riferisce alla posizione di potere economico di un’impresa che le consente di limitare la concorrenza sul mercato rilevante, poiché le dà il potere di comportarsi in larga misura indipendentemente dai suoi concorrenti, dai suoi clienti e dai consumatori. Una tale posizione non implica una totale assenza di concorrenza, così come avviene quando esiste un monopolio o un quasi-monopolio, ma permette all’impresa che la possiede, se non di determinare, almeno di avere una considerevole influenza sulle condizioni sotto le quali si svolgerà la concorrenza, ed in ogni caso di comportarsi in larga misura indipendentemente da essa, finché una simile condotta non vada a suo svantaggio”.

Ora, dalla definizione testé riportata appare difficile tradurre in termini economici il preciso significato dell’espressione ivi impiegata “il potere di comportarsi in larga misura indipendentemente dai suoi concorrenti, dai suoi clienti e dai consumatori”. Infatti, se una definizione di questo genere può, almeno qualitativamente, corrispondere a un mercato nel quale una sola grande impresa fronteggia un insieme di piccolissime imprese, appare assai più difficile conciliare questa definizione con situazioni nelle quali poche grandi imprese, con significativo potere di mercato e consapevoli della reciproca interazione, si fronteggiano.

Pertanto, dal momento che la definizione di dominanza appare poco chiara da un punto di vista economico sostanziale, si è fatto ricorso ad alcuni criteri quantitativi che consentissero un riferimento chiaro alle imprese e alle autorità. La giurisprudenza ha così chiarito che un’impresa con il 40% del mercato rilevante, anche se non è in una posizione di monopolio, può tuttavia essere dominante15. L’analisi della dominanza svolta dalla Commissione e dalle Corti coincide con quella del potere di mercato. Si ritiene così che un’impresa sia dominante quando detiene un alto potere di mercato. Ne deriva che la determinazione della posizione

15 La soglia del 40% deriva dall’analisi di uno dei casi di posizione dominante più

famosi, quello della United Brands. Tale soglia è ancora considerata il limite rilevante per la determinazione della dominanza, sebbene la quota di mercato posseduta da un’impresa non sia condizione necessaria né sufficiente a provarne l’esistenza.

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dominante richiede lo studio di più fattori che la letteratura ha individuato come rilevanti per la valutazione del potere di mercato.

Nel caso Hoffmann-La Roche citato sopra viene definito il concetto di abuso di posizione dominante come di “(un comportamento) che, attraverso il ricorso a pratiche diverse da quelle che determinano il normale operare della concorrenza, ha l’effetto di impedire il mantenimento del grado di concordanza esistente nel mercato o la sua crescita”.

Dalla definizione riportata risulta evidente come un comportamento abusivo consista soprattutto in pratiche escludenti. Una possibile eccezione è rappresentata dalla discriminazione di prezzo tra stati membri, ritenuta molto importante ai fini del perseguimento dell’obiettivo dell’integrazione economica dell’Unione Europea. Un’altra possibile eccezione è rappresentata dallo “sfruttamento abusivo”, consistente nel praticare prezzi eccessivamente gravosi agli acquirenti o nel riuscire a strappare prezzi troppo bassi ai fornitori. A differenza di quanto accade negli Stati Uniti, la normativa antitrust europea, infatti, non conferisce alle agenzie garanti della concorrenza il potere di intervenire in caso di prezzi eccessivamente elevati.

Va in ogni caso ribadito come la normativa antitrust europea non sanzioni la creazione di una posizione dominante, ma solo il suo abuso. E’ quindi lecito che un’impresa arrivi a detenere un certo grado di potere di mercato – anche elevato – attraverso innovazione, investimenti e attività di marketing; solo il comportamento abusivo di una posizione dominante costituisce oggetto di divieto e non la posizione dominante in sé.

Si tratta, evidentemente, di un’impostazione che appare condivisibile oltre che coerente con la volontà di garantire alle imprese la possibilità di godere dei risultati dei propri sforzi innovativi e di promozione dell’efficienza16.

4.2. Il Regolamento CE n. 139/2004

Oltre alle intese orizzontali e verticali e all’abuso di posizione dominante, la normativa antitrust europea si occupa di operazioni di concentrazione. Sia le fusioni orizzontali che quelle verticali sono state disciplinate fino al 2004 dal Regolamento 4064/89, e dalle successive modifiche, mentre a partire dal 1° maggio 2004 viene applicato il nuovo Regolamento 139/2004, che ha in parte ripreso l’impostazione procedurale seguita in precedenza introducendo

16 Va comunque ricordato che, nonostante la normativa lo vieti, spesso diventa difficile

riuscire a dimostrare che un’impresa si sia resa protagonista di pratiche escludenti. Ogni caso sarà infatti diverso dall’altro e risulterà difficile applicare una regola di carattere generale. Non sorprende quindi scoprire che i casi esaminati ai sensi dell’articolo 82 sono molto più rari e spesso più controversi di quelli che ricadono sotto l’articolo 81.

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tuttavia innovazioni significative relative ai criteri sostanziali utilizzati per la valutazione delle fusioni.

Il regolamento in questione prevede che in tutte le operazioni di concentrazione nelle quali il fatturato delle imprese interessate superi determinate soglie, prima di realizzare l’operazione, le imprese ne diano comunicazione alla Commissione, che può vietare l’operazione qualora la concentrazione ostacoli in modo significativo una concorrenza effettiva nel mercato comune o in una parte sostanziale di esso, in particolare, mediante la creazione o il rafforzamento di una posizione dominante.

Dal punto di vista procedurale, il vecchio regolamento fissava temi e scadenze molto rigide entro cui le decisioni della Commissione dovevano essere prese; queste potevano avvenire dopo un primo esame senza aprire un procedimento formale, qualora il progetto di concentrazione fosse giudicato compatibile con la concorrenza, o al termine di una valutazione più approfondita dopo aver aperto un procedimento, qualora ad un primo esame preoccupazioni concorrenziali erano giustificate. Tale impostazione è stata mantenuta nel nuovo regolamento introducendo tuttavia maggiore flessibilità, associata a un allungamento dei tempi di esame, qualora le parti propongano impegni e modifiche rispetto al progetto originario.

Il fatto che la Commissione decida in merito ai casi di fusione entro rigide scadenze temporali è un’importante caratteristica del controllo delle concentrazioni, che dovrebbe essere maggiormente apprezzata (Motta e Polo, 2004, p. 26). Le imprese, infatti, hanno la necessità di conoscere il prima possibile se la loro fusione sarà autorizzata o meno. L’incertezza relativa ai lunghi processi regolatori è sempre molto costosa, ma lo è ancora di più per le fusioni, dove le imprese hanno bisogno di ristrutturare e riorganizzare profondamente le loro attività produttive, distributive, di ricerca e di marketing. E’ quindi fondamentale che tale incertezza sia di breve durata. E’ proprio per queste ragioni che il legislatore europeo ha deciso di introdurre il regolamento 4064/89. Nei casi Continental Can e Philip Morris, la Corte Europea di Giustizia ha sentenziato che gli articoli 81 e 82 possono essere usati ex post per occuparsi delle operazioni di fusione. La Merger Regulation è stata introdotta proprio per evitare che questa via fosse l’unica praticabile, consentendo una valutazione ex ante.

Il Regolamento 139/2004 dispone poi, all’articolo 2, che le concentrazioni che non ostacolino in modo significativo una concorrenza effettiva nel mercato comune o in una parte sostanziale di esso, in particolare a causa della creazione o del rafforzamento di una posizione dominante, sono dichiarate compatibili con il mercato comune. Viceversa,

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la concentrazioni che ostacolino la concorrenza effettiva sono dichiarate incompatibili con il mercato comune17.

A questo proposito va sottolineato un cambiamento nei criteri di valutazione adottati dall’Unione Europea in relazione alle operazioni di concentrazione. Il criterio di valutazione adottato in Europa fino alla recente riforma richiedeva infatti di stabilire la creazione o il rafforzamento di una posizione dominante come precondizione per poter individuare effetti restrittivi sulla concorrenza. Il precedente regolamento (art. 2 (3) Reg. 4064/89) dichiarava infatti che “le operazioni di concentrazione che creano o rafforzano una posizione dominante, da cui risulti che una concorrenza effettiva sia ostacolata in modo significativo nel Mercato Comune o in una parte sostanziale di esso, devono essere dichiarate incompatibili con il Mercato Comune”. Tuttavia, esistono situazioni nelle quali, pur senza riscontrare una posizione dominante in capo alle imprese promotrici della fusione, possono comunque manifestarsi effetti restrittivi sulla concorrenza. Ecco quindi il motivo per cui il nuovo regolamento ha previsto l’adozione di un criterio che guardi direttamente agli effetti sulla concorrenza, lasciando che il richiamo alla posizione dominante sia solamente a livello esemplificativo e come elemento di raccordo con la giurisprudenza precedente.

Un’ultima precisazione va posta in merito all’applicazione del regolamento. Le disposizioni in esso contenute si applicano infatti alle sole concentrazioni di dimensioni comunitarie. Il regolamento dispone che siano considerate concentrazioni di dimensioni comunitarie quelle in cui siano riscontrabili i seguenti requisiti:

a) il fatturato totale realizzato a livello mondiale dall’insieme delle imprese interessate è superiore a 5 miliardi di euro;

b) il fatturato totale realizzato individualmente nella Comunità da almeno due delle imprese interessate è superiore a 250 milioni di euro, salvo che ciascuna delle imprese interessate realizzi oltre i due terzi del suo fatturato totale nella Comunità all’interno di un solo e medesimo Stato membro18.

17 La definizione precisa di concentrazione è contenuta dell’articolo 3 dello stesso

regolamento, in cui si dichiara che si è in presenza di concentrazione quando si produce “una modifica duratura del controllo a seguito della fusione di due o più imprese precedentemente indipendenti o parti di imprese, oppure a seguito dell’acquisizione da parte di una o più persone che già detengono il controllo di almeno un’altra impresa, o da parte di una o più imprese, sia tramite acquisto di partecipazioni nel capitale o di elementi del patrimonio, sia tramite contratto o qualsiasi altro mezzo, del controllo diretto o indiretto dell’insieme o di parti di una o più altre imprese”.

18 Si precisa poi che una concentrazione che non supera le soglie definite sopra è comunque ritenuta di dimensione comunitaria quando: a) il fatturato totale realizzato a

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Il Regolamento 139/2004, così come quello precedente 4064/89, non copre quindi tutte le fusioni realizzate nel territorio dell’Unione. Esso, infatti, prevede un principio di sussidiarietà, in base al quale le decisioni devono essere assunte a un livello il più decentralizzato possibile da parte della autorità nazionali garanti della concorrenza, a meno che non vi siano buone ragioni per prenderle a livello centralizzato dall’istituzione amministrativa sopranazionale, ossia dalla Commissione europea. Questa è dunque competente sulle fusioni quando sono soddisfatte alcune soglie. Queste ultime garantiscono che le fusioni vagliate interessino grandi imprese, presenti su più stati membri dell’UE19. Le fusioni tra le piccole imprese e le fusioni che riguardano principalmente un solo paese sono valutate dalle autorità antitrust nazionali e non dalla Commissione europea20.

4.3. Il Regolamento CE n. 1/2003

Come accennato nei paragrafi precedenti, l’applicazione di tutte le norme di cui ci si è occupati finora, sia di quelle in tema di intese orizzontali e verticali, sia di quelle relative all’abuso di posizione dominante, sia di quelle riguardanti le operazioni di concentrazione ha subìto profonde modifiche a seguito dell’introduzione dei un nuovo regolamento comunitario. A partire dal 1° maggio 2004 è infatti divenuto applicabile il Regolamento CE n. 1/2003 del Consiglio che, sostituendo il precedente Regolamento n. 17/1962, ha riformato in misura significativa le regole di applicazione del diritto antitrust comunitario con l’obiettivo di semplificare e rafforzare, all’interno della Comunità, l’azione di deterrenza e di contrasto nei

livello mondiale dall’insieme delle imprese interessate è superiore a 2,5 miliardi di euro; b) in ciascuno di almeno tre Stati membri, il fatturato totale realizzato dall’insieme delle imprese interessate è superiore a 100 milioni di euro; c) in ciascuno di almeno tre degli Stati membri di cui alla lettera b), il fatturato totale realizzato individualmente da almeno due delle imprese interessate è superiore a 25 milioni di euro e d) il fatturato totale realizzato individualmente nella Comunità da almeno due delle imprese interessate è superiore a 100 milioni di euro, salvo che ciascuna delle imprese interessate realizzi oltre i due terzi del suo fatturato totale nella Comunità all’interno di un solo e medesimo Stato membro.

19 Si noti che anche le fusioni fra imprese non europee rientrano nell’ambito di applicazione della Merger Regulation, qualora esse soddisfino le soglie previste, ovvero se esse manifestino degli effetti nell’Unione Europea. Fra le fusioni tra imprese non europee, che sono state vietate negli ultimi anni dalla Commissione Europea figurano Gencor/Lohnro e General Electric/Honeywell.

20 Si noti come questa regola avvantaggi le imprese, poiché le dispensa dal richiedere una autorizzazione in ognuno dei paesi in cui esse operano, un procedimento questo che costerebbe loro tempo e spese legali (Motta e Polo, 2004, p. 27).

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confronti delle intese e dei comportamenti aziendali restrittivi della concorrenza.

Il nuovo regolamento disciplina, per la prima volta, il rapporto tra norme nazionali e comunitarie di tutela della concorrenza, introducendo, per i giudici e la autorità nazionali e comunitarie di tutela della concorrenza, un esplicito obbligo di applicazione del diritto antitrust comunitario alle intese e agli abusi di posizione dominante che possono pregiudicare il commercio tra Stati membri.

Nel nuovo sistema, la Commissione, le autorità nazionali di concorrenza e i giudici nazionali sono tutti ugualmente competenti ad applicare le norme comunitarie sulla concorrenza. Parallelamente il regolamento prevede maggiori strumenti e possibilità di cooperazione sia verticale, fra Commissione e autorità nazionali di concorrenza, sia orizzontale, fra singole autorità nazionali, a fine di assicurare un’applicazione efficace e coerente degli articoli 81 e 82 del Trattato di Roma, da parte di tutte le autorità di concorrenza europee.

Il Regolamento CE n. 1/2003 contiene dunque le disposizioni relative all’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli articoli 81 e 82 del Trattato di Roma. In particolare, il regolamento in oggetto contiene indicazioni in merito ai seguenti temi, che verranno di seguito illustrati:

- onere della prova; - rapporto fra gli articoli 81 e 82 e le legislazioni nazionali in materia di

concorrenza; - ripartizione delle competenze fra Commissione Europea e autorità

garanti della concorrenza degli Stati membri.

In ordine all’onere della prova, la disciplina comunitaria stabilisce che, in tutti i procedimenti nazionali o comunitari relativi all’applicazione degli articoli 81 e 82 del Trattato, l’onere della prova di una delle infrazioni indicate spetti alla parte o all’autorità che denuncia l’infrazione. Per quanto riguarda, invece, l’applicazione delle disposizioni contenute nel paragrafo 3 dell’articolo 81 relativo alle eccezioni, l’onere di provare che le condizioni enunciate sono soddisfatte (e che quindi la normativa antitrust non è applicabile) spetta invece all’impresa o all’associazione di imprese.

Sul rapporto fra legislazione comunitaria e legislazioni nazionali, l’articolo 3 del Regolamento CE n. 1/2003 statuisce che, nel momento in cui le autorità garanti della concorrenza appartenenti agli Stati membri o le giurisdizioni nazionali applicano la legislazione nazionale in materia di concorrenza ad accordi, decisioni di associazioni di imprese o pratiche concordate ai sensi dell’articolo 81 del Trattato di Roma che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri, esse applicano automaticamente anche l’articolo 81. Analogamente, quando le autorità garanti della

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concorrenza appartenenti agli Stati membri o le giurisdizioni nazionali applicano la legislazione nazionale in materia di concorrenza agli sfruttamenti abusivi indicati nell’articolo 82 del Trattato, esse applicano automaticamente anche l’articolo 8221.

Il regolamento comunitario sottolinea poi come agli Stati membri sia comunque garantita la possibilità di adottare e applicare nel loro territorio norme nazionali più rigorose di quelle previste a livello comunitario che vietino o sanzionino le condotte unilaterali delle imprese.

Infine, in merito alle competenze della Commissione, il regolamento comunitario prevede che l’applicazione degli articoli 81 e 82 del Trattato di Roma spetti alla Commissione stessa. Anche le autorità garanti della concorrenza degli Stati membri e le giurisdizioni nazionali possono comunque applicare gli articoli 81 e 82, o agendo d’ufficio o in seguito a denuncia. In entrambi i casi esse possono intervenire o ordinando la cessazione dell’infrazione o disponendo misure cautelari o accettando impegni o comminando ammende, penalità di mora o qualunque sanzione prevista dal diritto nazionale.

Il regolamento del Consiglio europeo di cui sopra costituisce la formalizzazione giuridica del decentramento applicativo del diritto europeo antitrust. L’intervento in questione segna, infatti, la più importante innovazione della disciplina sulla concorrenza comunitaria, poiché supera il sistema del cosiddetto “doppio binario”22, previsto dal regolamento n. 17/62 (Ielo, 2004, p. 361). Al contempo, l’introduzione di questa disciplina decreta la definitiva attrazione della delicata opera delle Autorità antitrust e dei giudici nazionali nell’orbita comunitaria, ponendo le basi normative per un effettivo network funzionale tra soggetti preposti alla tutela della concorrenza. Solo la scelta di ricorrere a uno strumento normativo immediatamente precettivo, come il regolamento è già, di per sé, il segnale evidente dell’intenzione di conseguire massima uniformità applicativa nell’attuazione delle regole ivi previste all’interno dell’ordinamento degli Stati membri tramite la fissazione di regole che producono effetti immediati nei confronti di tutti i soggetti di diritto interno, con l’attribuzione diretta di obblighi e diritti che i giudici nazionali hanno il dovere di tutelare.

21 “Dall’applicazione della legislazione nazionale in materia di concorrenza non può

scaturire il divieto di accordi, decisioni di associazioni di imprese o pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri che non impongano restrizioni alla concorrenza ai sensi dell’articolo 81, paragrafo 1, del trattato, che soddisfino le condizioni dell’articolo 81, paragrafo 3, del trattato” (Regolamento CE n. 1/2003, art. 3, paragrafo 2).

22 Con l’espressione “doppio binario” si fa riferimento a quel sistema che prevedeva l’applicabilità diretta del divieto sancito dall’articolo 81, par. 1, e la notificazione preventiva degli accordi e delle pratiche restrittive ai fini della concessione dell’esenzione di cui all’articolo 81, par. 3.

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Altro aspetto importante della nuova normativa è dato dall’ampiezza delle regole. Il legislatore europeo, infatti, enuncia princìpi generali di politica antitrust, detta regole di azione e di organizzazione attribuendo direttamente agli organismi nazionali antitrust poteri di cui, in alcuni casi, tali organismi non disponevano.

La nuova disciplina contiene numerose novità che cercheremo di sintetizzare come segue per poi successivamente commentarle (Ielo, 2004, p. 362 e segg.):

- un regime di eccezione legale che supera il previgente sistema autorizzatorio;

- meccanismi formali di cooperazione; - rafforzamento dei poteri di indagine e di accertamento da parte della

Commissione.

Nel sistema precedente al regolamento n.1/2003 nell’applicazione delle regole concorrenziali, di cui agli articoli 81, par. 1, e 82 del Trattato di Roma, i giudici e le Autorità nazionali disponevano di competenze concorrenti, mentre la Commissione aveva competenza esclusiva nella determinazione dei casi di inapplicabilità delle regole concorrenziali rispetto a taluni tipi di accordi, decisioni o pratiche concordate. Tale competenza esclusiva era esercitata dalla Commissione o attraverso esenzioni individuali rispetto a specifiche intese ovvero adottando, previa abilitazione da parte del Consiglio, regolamenti di esenzione riguardanti determinate categorie di accordi, decisioni e pratiche concordate.

Con l’introduzione del regolamento n. 1/2003, è stato introdotto il nuovo sistema del cosiddetto “regime di eccezione prevista dalle norme di applicazione” in virtù del quale, nei casi di rilevanza comunitaria, le Autorità e i giudici nazionali hanno, oggi, il potere di applicare anche l’articolo 81, par. 3, per la non applicabilità del divieto. Con questo nuovo sistema, vengono quindi meno le precedenti notificazioni degli accordi alla Commissione, volte a ottenere l’esenzione.

Il capitolo IV del regolamento è invece dedicato alla cooperazione tra organismi antitrust. Obiettivo è quello di rendere più efficace l’azione antitrust, nonché di evitare la duplicazione di procedure e decisioni formali su medesime fattispecie.

Al fine di garantire l’effettivo esercizio di tale cooperazione, l’articolo 11 del regolamento in discorso impone tre distinti obblighi informativi, tali per cui:

- la Commissione è tenuta a trasmettere alle Autorità nazionali una copia della documentazione raccolta ai fini dell’applicazione delle misure

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inibitorie o cautelari, nonché degli atti di accettazione degli impegni, constatazione di inapplicabilità e revoche in casi specifici adottati23;

- le Autorità nazionali, a loro volta, sono assoggettate all’obbligo di fornire comunicazione dell’avvio formale di una procedura d’indagine per presunta violazione degli articoli 81 o 82 del Trattato e comunicazione del progetto di adozione di una misura decisoria, accompagnata da una presentazione del caso in questione, in materia di applicazione del diritto europeo antitrust24.

Un altro ambito sul quale è intervenuta le recente disciplina europea della concorrenza è quello degli accertamenti istruttori dei comportamenti presuntivamente anticompetitivi.

Anche sotto questo profilo, il rapporto fra il livello nazionale e quello comunitario è caratterizzato, non da un rapporto gerarchico, ma da un’assoluta circolarità. Tanto la Commissione quanto le Autorità nazionali vantano, l’una nei confronti dell’altra, posizioni attive e passive, che si traducono in obblighi di informazione o in veri e propri pareri, nell’ambito di procedimenti piuttosto complessi.

In particolare, quando l’istituzione comunitaria acquisisce informazioni dalle imprese, è tenuta a darne preventiva comunicazione all’Autorità garante dello Stato in cui ha sede l’impresa dalla quale è necessario acquisire informazioni. Analogo obbligo vige nei casi in cui si renda necessaria la raccolta di informazioni tramite audizioni nei locali dell’impresa, al fine di consentire ai funzionari dell’Autorità nazionale di riferimento di assistere gli agenti della Commissione nello svolgimento dell’ispezione, nonché nei casi in cui la commissione si appresti a effettuare accertamenti presso le imprese25.

Si ricorda, infine, che obblighi ulteriori sono posti a carico delle Autorità nazionali che, a norma dell’articolo 20, par. 5, sono obbligate, in occasione degli accertamenti di cui sopra, a prestare assistenza agli agenti della Commissione

23 La Commissione è inoltre tenuta, su richiesta, a fornire copia degli altri documenti

utilizzati per la valutazione della questione. 24 In questo secondo caso, su richiesta della Commissione, l’Autorità nazionale è tenuta

a rendere disponibile all’istituzione comunitaria tutti gli altri documenti in suo possesso necessari alla valutazione delle pratiche. Inoltre, tutte queste informazioni possono essere rese disponibili anche alle altre autorità della concorrenza degli Stati membri.

25 L’articolo 20 del regolamento n. 1/2003 prevede che accertamenti presso le imprese (accesso ai locali, controllo dei libri aziendali, estrazione di copia dei documenti e apposizione dei sigilli) possano essere disposti dalla commissione solo dopo aver sentito l’Autorità garante della concorrenza dello Stato membro del territorio nel quale vengono effettuati tali accertamenti.

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5. La regolazione della concorrenza in Italia

L’introduzione di una normativa antitrust nel nostro Paese risale al 1990, con notevole ritardo rispetto sia alle previsioni del Trattato di Roma (1957) sia all’emanazione di legislazioni analoghe nei principali paesi europei, come Germania, Gran Bretagna, Francia e Spagna, dove le leggi antitrust risalgono tutte a periodi precedenti alla metà degli anni sessanta.

Tale ritardo si spiega essenzialmente con il prevalere di fattori istituzionali, politici e culturali che, per lungo tempo, hanno fatto sì che, in Italia, si sviluppasse un atteggiamento poco favorevole all’iniziativa economica individuale e alla concorrenza. Dal punto di vista istituzionale, l’Italia è stata infatti caratterizzata, per molti anni, da una massiccia presenza pubblica diretta nell’economia attraverso imprese pubbliche e a partecipazione statale.

L’idea che l’iniziativa economica privata potesse passare in secondo piano, a favore di un intervento pubblico nel mercato che avrebbe dovuto dar luogo a sostanziali miglioramenti di benessere si ripercosse così anche sulla stessa Carta costituzionale. L’articolo 41 della nostra Costituzione tutela sì la libertà di iniziativa economica privata, ma condizionandola al perseguimento dell’utilità sociale e prevedendo che questa possa essere sottoposta a “programmi e controlli”.

In questo contesto culturale e politico, non deve pertanto stupire se la legge appariva superflua o addirittura dannosa: superflua per il settore pubblico, che riteneva di intervenire più efficacemente per garantire un corretto assetto dei mercati tramite le imprese controllate che non attraverso regole liberali; dannosa per il settore privato, perché forte era il sospetto che le norme sarebbero state eluse dalle imprese pubbliche e applicate unicamente a quelle private, con conseguente ampliamento dell’intervento pubblico nell’economia (Pera, 2001, p. 51). Lo scarso interesse dimostrato per l’introduzione di una normativa a tutela della concorrenza nel nostro Paese conferma quanto sopra, tanto che fino agli anni ottanta le proposte di legge sul tema possono considerarsi del tutto sporadiche.

Solo nella seconda metà degli anni ottanta si assiste a una vera e propria “rivoluzione copernicana” nell’interpretazione giuridica dei rapporti economici (Pera, 2001, p. 52). All’origine di tale fenomeno si ravvisano alcuni elementi di carattere economico e culturale, da un lato, la crescente integrazione della nostra economia nella Comunità europea e la conseguente esigenza di adeguamento del nostro sistema istituzionale a quello comunitario e, dall’altro, la crisi che colpì l’industria pubblica a metà degli anni ottanta, imputabile proprio alla politica interventista perseguita negli anni precedenti.

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Alla luce di tali cambiamenti, nel 1990 viene introdotta la prima legge italiana di tutela della concorrenza, contenente le disposizioni relative a intese, abuso di posizione dominante e concentrazioni. La disciplina in parola dimostra in modo evidente la volontà del legislatore di allineare la regolamentazione della concorrenza italiana alla giurisprudenza comunitaria, in modo da consentire alle imprese di muoversi in un ambiente caratterizzato da regole uniformi.

La legge n. 287 del 1990 segna il passaggio definitivo da una politica interventista a una politica orientata alla libera concorrenza. Al momento dell’introduzione della legge, il Parlamento ha infatti tenuto a precisare che l’iniziativa economica tutelata dalla nostra Costituzione si svolge nel quadro di un mercato concorrenziale; la volontà di abbandonare la politica interventista, che per anni ha contrassegnato la nostra economia, limitando l’area dei monopoli pubblici risulta però ancora più evidente da alcuni passaggi della normativa, nei quali si precisa che la legge sulla concorrenza si applica a tutte le imprese, pubbliche, private e a partecipazione statale.

La legge n. 287 del 10 ottobre 1990 (“Norme per la tutela della concorrenza e del mercato”) istituisce l’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Tale autorità indipendente26 ha il compito di applicare le disposizioni contenute nella legge sopra indicata, vigilando, in particolar modo:

a) sulle intese restrittive della concorrenza; b) sugli abusi di posizione dominante; c) sulle operazioni di concentrazione che comportano la costituzione o

il rafforzamento di una posizione dominante in modo tale da eliminare o ridurre in misura sostanziale e duratura la concorrenza27.

26 Con il termine “autorità indipendente” si fa riferimento a un’amministrazione

pubblica che prende le proprie decisioni sulla base della legge, senza possibilità di ingerenze da parte del Governo né si altri organi di rappresentanza politica. All’indipendenza dell’autorità contribuiscono, tra l’altro, le modalità di nomina e i requisiti del Presidente e dei Componenti, i quali sono nominati congiuntamente dai Presidenti di Camera e Senato e non possono essere confermati nella carica alla scadenza dei sette anni. In particolare, il Presidente viene scelto tra persone di notoria indipendenza che abbiano ricoperto alte cariche istituzionali; i quattro componenti sono scelti anch’essi fra persone di notoria indipendenza da individuarsi tra magistrati del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti e della Corte di Cassazione, professori universitari ordinari e di personalità di alta e riconosciuta professionalità provenienti da settori economici.

27 La stessa autorità ha anche il compito di applicare le norme contenute nel Dlgs n. 74 del 1992, con le modifiche apportatevi dal Dlgs n. 67 del 2000 e dalla legge 6 aprile 2005 n. 49, in materia di pubblicità ingannevole e di pubblicità comparativa. Inoltre, è attribuito all’autorità il compito di vigilare sui conflitti di interesse affinché i titolari i cariche di governo, nell’esercizio delle loro funzioni, si dedichino esclusivamente alla cura degli

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In merito al primo dei punti sopra elencati, l’articolo 2 della legge sulla concorrenza stabilisce che quando un’intesa fra imprese28 comporta, anche solo potenzialmente, una consistente restrizione della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, essa è vietata. Tenendo conto del fatto che il coordinamento anticoncorrenziale dei comportamenti delle imprese può realizzarsi in vari modi, la legge non considera intese soltanto gli accordi formali fra gli operatori economici, ma tutte le attività in cui è possibile individuare il concorso volontario di più operatori diretto a regolare i propri comportamenti sul mercato. Sono pertanto ritenute intese sia le pratiche concordate sia le deliberazioni di associazioni e consorzi.

In presenza di particolari condizioni, l’Autorità ha il potere di autorizzare, per un periodo limitato, intese che risultano restrittive della concorrenza. Per ottenere un’autorizzazione, è necessario che le imprese dimostrino che tali intese comportano miglioramenti nelle condizioni di offerta sul mercato, che le restrizioni della concorrenza sono strettamente necessarie per conseguire tali effetti positivi e che i miglioramenti delle condizioni di offerta arrecano un sostanziale beneficio per i consumatori.

In merito al secondo ambito di intervento, si dice che un’impresa detenga una posizione dominante quando può comportarsi in modo significativamente indipendente dai concorrenti e dai consumatori. Ciò avviene, in genere, quando essa possiede quote elevate sulle vendite in un determinato mercato e quando, a causa delle caratteristiche economiche di quel mercato, nonché, eventualmente, di vincoli istituzionali, le possibilità di reazione degli altri concorrenti, effettivi o potenziali, sono limitate.

In relazione a questo punto, va detto che la legge di per sé non vieta la posizione dominante in quanto tale, ma pone dei vincoli ai possibili comportamenti di un’impresa che si trovi in questa situazione. Ciò che viene vietato ai sensi dell’articolo 3 della legge n. 287/90 è infatti l’abuso di una posizione dominante da parte di una o più imprese all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante. In particolare, la legge definisce abusi di posizione dominante tutti i comportamenti volti a:

a) imporre direttamente o indirettamente prezzi di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose;

interessi pubblici e si astengano dal porre in essere atti e dal partecipare a deliberazioni collegiali in situazioni di conflitto di interessi (Legge n. 215 del 20 luglio 2004, articolo 1).

28 Per intesa fra imprese si intende qualsiasi tipo di accordo che possa avere l’obiettivo di restringere la concorrenza. Tipi accordi in questo senso sono quelli finalizzati a fissare congiuntamente i prezzi di vendita o a spartirsi il mercato di sbocco.

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b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, lo sviluppo tecnologico o il progresso tecnologico, a danno dei consumatori;

c) applicare nei rapporti commerciali con altri contraenti condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza;

d) subordinare la conclusione dei contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non abbiano alcuna connessione con l’oggetto dei contratti stessi.

Per quanto concerne le operazioni di concentrazione29, va detto che la legge impone una comunicazione preventiva all’Autorità per tutte le operazioni in cui il fatturato delle imprese interessate superi determinate soglie. La legge stabilisce che un’operazione di concentrazione debba essere notificata se il fatturato realizzato nel territorio italiano dall’impresa acquisita o se il fatturato realizzato nel territorio italiano dall’insieme delle imprese interessate superano determinate soglie30.

A seguito della segnalazione ricevuta, l’Autorità esamina gli effetti sulla concorrenza di tutte le operazioni comunicate e qualora ritenga che una concentrazione comporti la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante, così da ridurre in modo sostanziale e durevole la concorrenza, essa ne vieta la realizzazione. In tema di operazioni di concentrazione, la legge italiana ha poi previsto un’ulteriore possibilità, quella cioè di autorizzare concentrazioni considerate restrittive della concorrenza a condizione che, rispetto al progetto originario, vengano apportate modifiche idonee a rimuovere gli aspetti distorsivi.

Indipendentemente dall’ambito di intervento l’Autorità può avviare la

propria iniziativa o quando il funzionamento di un mercato o di un settore presenta caratteristiche che lasciano presumere l’esistenza di ostacoli all’operare della concorrenza o a seguito di segnalazioni da parte di organi pubblici o quando un soggetto denuncia un comportamento che ritiene vietato dalla normativa a tutela della concorrenza. In quest’ultimo caso, il

29 L’articolo 5 della legge n. 287/90 stabilisce che l’operazione di concentrazione si realizzi quando: i) due o più imprese procedono a fusione; ii) uno o più soggetti in posizione di controllo di almeno un’impresa ovvero una o più imprese acquisiscono direttamente o indirettamente, sia mediante acquisto di azioni o di elementi del patrimonio, sia mediante contratto o qualsiasi altro mezzo, il controllo dell’insieme o di parti di una o più imprese; iii) due o più imprese procedono, attraverso la costituzione di una nuova società, alla costituzione di un’impresa comune.

30 L’aggiornamento di maggio 2004 ha portato queste soglie rispettivamente a 41 milioni di euro e 411 milioni di euro.

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denunciante può essere un’impresa che ritenga di essere danneggiata dal comportamento contestato, oppure una pubblica amministrazione31. Nel caso di concentrazioni, la stessa impresa che vuole realizzare l’operazione a presentare una comunicazione preventiva all’Autorità; spetta poi all’Autorità stabilire se sia opportuno o meno avviare un’indagine più approfondita.

In caso di accertamento di abusi e intese restrittive della concorrenza, l’Autorità ha il potere di infliggere una sanzione pecuniaria fino al 10% del fatturato delle imprese coinvolte, a seconda della gravita della violazione. Se poi, in seguito all’accertamento di un comportamento in violazione della legge, questo non venisse interrotto nonostante l’intervento dell’Autorità, possono essere comminate ulteriori sanzioni pecuniarie e in casi di ripetuta inottemperanza può essere disposta la sospensione dell’attività dell’impresa fino a trenta giorni.

6. Alcune riflessioni sul ruolo svolto dall’Autorità garante della concorrenza

Nonostante la regolamentazione della concorrenza sia stata negli ultimi anni al centro dell’attenzione della Commissione europea, i risultati, specie a livello nazionale, appaiono piuttosto deludenti. Da un primo bilancio dell’attività svolta in materia di liberalizzazione della concorrenza a livello nazionale emergono come principali cause di tale insuccesso, da un lato, un ritardo nell’adeguamento della normativa italiana alle novità recentemente introdotte a livello comunitario in tema di regolamentazione della concorrenza e, dall’altro, una certa reticenza da parte di Governo, Parlamento ed enti locali a supportare l’attività di segnalazione da parte dell’Autorità garante con interventi normativi adeguati.

Per prima cosa, a differenza di quanto è stato fatto nella maggior parte dei paesi membri dell’Unione europea, la disciplina italiana della concorrenza, seppur recente, non è stata ancora rivista alla luce del regolamento n. 1/2003.

Carente pare essere stata finora anche l’attività di segnalazione che avrebbe dovuto supportare gli interventi dell’Autorità. Nonostante infatti l’attività da parte dell’Autorità sia stata molto intensa, come segnalano i dati riportati nella tabella 1, raramente alle segnalazioni hanno fatto seguito suggerimenti da parte di Parlamento, Governo e enti locali. Non si dimentichi poi la mancanza di efficacia degli interventi: pur a seguito dell’accertamento da parte dell’Autorità di comportamenti illeciti molte

31 Anche un singolo cittadino può ricorrere direttamente all’Autorità, presentando denuncia per iscritto.

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delle imprese coinvolte hanno infatti manifestato una persistenza di tali comportamenti.

Tabella 1 – Attività svolta in materia di concorrenza (1991-2005)

1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 Concentrazioni 232 422 501 597 282 357 292 344 423 525 616 651 577 612 596 Istruttorie 1 5 9 3 1 3 7 2 6 5 6 11 3 1 Di cui vietate - 2 2 - - - 1 - - - 2 3 - - - Di cui autorizzate con condizioni

- 1 3 - - 3 5 2 2 4 2 3 2 -

Intese 13 34 26 25 32 64 64 54 30 52 43 46 54 60 14 Istruttorie 3 14 14 14 5 23 12 14 12 12 9 7 6 12 4 Di cui violazioni 1 12 7 7 3 15 8 11 12 9 2 3 3 6 3 Abuso di posizione dominante

4 20 20 14 31 52 46 21 15 22 28 19 14 24 4

Istruttorie - 5 7 8 11 10 5 3 4 7 3 4 4 1 Di cui violazioni - 5 6 5 8 7 4 2 3 6 2 4 4 1 -Inottemperanza all’obbligo di notifica delle concentrazioni

2 7 2 7 5 13 - 2 6 5 9 13 12 2

Inottemperanza alla diffida

- - - 1 2 - 3 1 - 2 2 3 - 3 1

Indagini conoscitive - - 2 2 3 3 6 - 1 - 1 - 1 3 2 Attività di segnalazione e consultiva

3 3 11 15 25 18 38 42 30 18 17 24 21 12 40

Pareri alla Banca d’Italia

17 19 28 52 46 48 50 46 43 60 29 28 37 21 20

4

3

-

9

Fonte: nostre elaborazioni su relazioni annuali dell’Agcm

I dati nelle tabelle 2 e 3 riportano la distribuzione settoriale dei casi

istruttori relativi al periodo che va dal 2000 al 2005. Fatta eccezione per le intese, l’attività dell’Autorità garante della concorrenza sembra essersi concentrata, per quanto concerne abusi e pareri e segnalazioni proprio sui servizi di pubblica utilità: fra il 2000 e il 2005 circa il 36% delle istruttorie relative ad abusi di posizione dominante ha riguardato il settore dei trasporti, il 21% le telecomunicazioni e il 10,53% l’energia elettrica, l’acqua e il gas (tab. 2). Per quanto riguarda i pareri e le segnalazioni, il settore più colpito è stato quello delle telecomunicazioni (con circa il 20% delle segnalazioni), quello delle attività professionali e imprenditoriali (con il 12,12%), quello dei trasporti (con il 9,85%) e, dopo servizi vari e attività ricreative culturali e sportive, l’energia elettrica, l’acqua e il gas con il 6,52% delle segnalazioni.

Tuttavia, l’attività svolta dall’Autorità nazionale della concorrenza nel settore dei servizi sembra aver generato benefici modesti. Nonostante i numerosi interventi, nei servizi privati, infatti, i rendiconti dell’Autorità garante segnalano livelli di produttività stagnanti, prezzi in aumento e domanda stabile, così come nei servizi di pubblica utilità i meccanismi

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concorrenziali innescatisi a seguito dei recenti processi di liberalizzazione risultano ancora insufficienti.

Tab. 2 - Distribuzione settoriale dei casi istruttori relativi agli abusi (2000-2005) Settore prevalentemente interessato N umero istruttorie

concluse Incidenza %

Trasporti e noleggio di m ezzi di trasporto

7 36,84%

Telecom unicazioni 4 21,05%Energia elettrica, acqua e gas 2 10,53% Industria farmaceutica 1 5,26% Diritti televisivi 1 5,26% Ristorazione 1 5,26% Prodotti chim ici, materie plastiche, gom ma

1 5,26%

Servizi postali 1 5,26% M eccanica 1 5,26%

Fonte: nostre elaborazioni su relazioni annuali dell’Agcm

Tabella 3 - Distribuzione settoriale dei pareri e delle segnalazioni (2000-2005) S ettore preva len te m en te in teressato N u m ero istru ttorie

co n clu se In cid en z a %

T eleco m u n icazio n i 2 7 2 0 ,4 5 % A ttiv ità p ro fessio n ali e im pren d ito ria li 1 6 1 2 ,1 2 % T rasp o rti e n o legg i m ezzi d i traspo rto 1 3 9 ,85 % S erv iz i vari 8 6 ,06 % A ttiv ità ricreative , cu ltu ra li e spo rtive 8 6 ,06 % E n erg ia ele ttrica , acq u a e gas 7 5 ,30 % A ssicu razio n i e fo n d i p en sio n e 7 5 ,30 % S erv iz i fin an ziari 4 3 ,03 % In du stria farm aceu tica 4 3 ,03 % E d ito ria e stam p a 3 2 ,27 % V arie 3 2 ,27 % S m altim en to rifiu ti 3 2 ,27 % In du stria p e tro lifera 3 2 ,27 % In du stria a lim en tare e d elle b evan d e 3 2 ,27 % A grico ltu ra e a llevam en to 3 2 ,27 % Istru zio ne 3 2 ,27 % C in em a 2 1 ,52 %C o stru zion i 2 1 ,52 %R isto razio n e 2 1 ,52 %S erv iz i po sta li 1 0 ,76 % C o m m ercio a l d e ttag lio 1 0 ,76 % S erv iz i pu bb lic itari 1 0 ,76 % R ad io e te lev isio n e 1 0 ,76 % A ltre a ttiv ità m an ifa ttu riere 1 0 ,76 % G ran d e d istrib u zio n e 1 0 ,76 % S etto re d isco grafico 1 0 ,76 % M in era li no n m eta lliferi 1 0 ,76 % C h im ica 1 0 ,76 %in fo rm atica 1 0 ,76 %T u rism o 1 0 ,76 %

Fonte: nostre elaborazioni su relazioni annuali dell’Agcm

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Governo della concorrenza e ruolo delle Authorities nell’Unione Europea

Ma quali sarebbero le cause di un simile insuccesso? Alcuni studiosi segnalano come le ragioni della mancanza di efficacia delle azioni intraprese dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato siano riconducibili proprio ad alcune sue caratteristiche di base, fra cui l’indipendenza (Gobbo, 2004).

Nel decidere se affidare o meno al governo un certo potere di orientamento delle politiche delle autorità indipendenti, la preoccupazione maggiore risiede nel rischio che da tale potere di orientamento derivino abusi di potere pubblico. La soluzione finora adottata in materia è stata quindi quella che prevedeva di “saltare” il potere esecutivo nella realizzazione degli interventi di regolazione dell’economia. Pertanto, le leggi istitutive delle Autorità stabilivano gli obiettivi da raggiungere e le stesse Autorità li realizzavano agendo in maniera del tutto svincolata dal governo. In un quadro così definito si è quindi ritenuto che nello svolgimento della propria attività le Autorità dovessero garantire indipendenza e autorevolezza prima di ogni altra cosa.

Come osserva Popper (1969), l’aver enfatizzato l’aspetto del “chi” deve governare piuttosto che quello del “come” è stata probabilmente la causa di molti errori compiuti nella storia recente. Secondo il noto filosofo, sarebbe proprio l’aspetto procedurale a rappresentare l’elemento di base su cui il modello di stato democratico andrebbe costruito, prevedendo meccanismi di correzione che consentano di raggiungere risultati sempre più soddisfacenti. In estrema sintesi, se chi esercita il potere è sottoposto al rispetto di procedure efficaci nell’indirizzarne l’operato, esistono allora buone probabilità che la sua azione venga incanalata verso il risultato desiderato a prescindere da quali siano i suoi interessi soggettivi.

Alla luce di quanto riportato sopra, è evidente che il problema della relazione fra governo ed Autorità va affrontato su base diversa, attribuendo al primo un potere maggiore nel dettare gli indirizzi d’azione e interpretando l’indipendenza come delega concessa alle Autorità indipendenti a governare nel modo migliore le problematiche complesse di particolare rilievo per la collettività.

Una testimonianza della praticabilità e dell’efficacia di una tale svolta proviene senza dubbio dall’esperienza statunitense, dove, in tutte le soluzioni organizzative sperimentate l’enfasi è sempre stata posta sulle procedure da far rispettare alle Autorità al fine di migliorare il loro operato. In particolare, l’evoluzione dei modelli organizzativi sembra essersi ampiamente ispirata alle tecniche di pianificazione formale e di controllo di gestione che provenivano dall’esperienza sviluppata nel mondo delle imprese. Tali tecniche prevedevano la realizzazione di articolati sistemi interattivi che coinvolgessero i diversi livelli dell’organigramma aziendale nella predisposizione di budget annuali, in cui solitamente venivano definiti

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Anna Codini

gli obiettivi da raggiungere e le risorse necessarie e di report consuntivi in cui venivano confrontati i risultati effettivamente ottenuti con quelli programmati.

Questi schemi generali sono stati applicati in maniera diversa in relazione al modificarsi nel tempo delle esigenze amministrative. Nella riforma più recente, per esempio, il Government Performance and Result Act del 1993, si è cercato di fornire anche una risposta all’esigenza di rendere le Autorità maggiormente attente alle istanze provenienti dal mondo politico. A tal fine, le stesse Autorità vengono obbligate a redigere un piano strategico, in cui vi sia una chiara definizione della mission, da cui devono derivare gli obiettivi strategici; nella predispostone del piano si chiede poi una consultazione preventiva del congresso oltre che di tutti i principali stakeholder.

Altro aspetto che pregiudicherebbe, a parere di molti, l’efficacia delle azioni intraprese dalle Autorità garanti della concorrenza sarebbe la concezione di concorrenza che sta alla base della definizione delle politiche di intervento.

La funzione che il sistema politico attribuisce all’interazione concorrenziale fra i vari soggetti economici può essere intesa come strumentale, ovverosia socio-economica (in tal caso il mercato costituisce uno strumento per il conseguimento di un obiettivo sociale e le condizioni concorrenziali debbono fornire una risposta alle istanze di efficienza) o come costitutiva, ovverosia socio-politica (il tal caso, il mercato è in sé un fine e le condizioni concorrenziali devono soddisfare un’istanza di libertà) (Gobbo, 1997).

Queste due concezioni della concorrenza risultano fondamentali per comprendere le differenze nel funzionamento dei sistemi che ne derivano. Quelli fondati su una concorrenza costitutiva sembrano implicitamente riferirsi alla visione tipicamente classica di rivalità fra i soggetti privati. Se il contenuto di un sistema democratico consiste nel fornire a chiunque pari opportunità, la possibilità di competere sul piano economico senza dover affrontare ostacoli artificiali rappresenta un connotato intrinseco della libertà individuale. La concorrenza diviene così un valore in sé e la sua tutela mira a definire un corpo di regole che governino il pieno esercizio della libertà di iniziativa economica da parte dei cittadini. Sembrano proprio queste le radici del sistema di tutela della concorrenza americano.

Il sistema italiano privilegia invece un’interpretazione della concorrenza di tipo funzionale. Come è possibile evincere dalla legge istitutiva della AGCM, il legislatore ha concepito la tutela della concorrenza e la sua promozione come uno strumento per realizzare il maggior grado possibile di utilità sociale.

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Governo della concorrenza e ruolo delle Authorities nell’Unione Europea

Una situazione del genere solleva complessi problemi di architettura istituzionale dei quali non si può non tener conto in sede di progettazione e valutazione del funzionamento.

La prima conseguenza di rilievo consiste, infatti, nella particolare veste che assumono le relazioni fra i soggetti politici ai quali compete la definizione dell’interesse generale e le Autorità di tutela della concorrenza e regolamentazione. Mentre nel caso di concorrenza costitutiva, le attività di tutela e di promozione si muovono in un contesto in cui gli obiettivi sono chiaramente individuati a priori, in un contesto funzionalista, è necessario distinguere nettamente assetti e criteri di funzionamento della tutela della concorrenza da quelli propri della regolamentazione economica.

Nel primo ambito, le competenze e i margini di intervento dell’Autorità di garanzia, in quanto incaricata di presidiare ex post la compatibilità fra gli orientamenti strategici posti in essere dalle imprese e l’interesse generale, sono infatti sufficientemente delineati dalla descrizione in sede normativa delle fattispecie da sanzionare e dei criteri generali da seguire nella loro valutazione come pure delle eventuali eccezioni.

Gli obiettivi, i margini di intervento e le stesse competenze delle Autorità di regolamentazione sono, in un simile contesto, mobili. In un sistema funzionalista, promuovere la concorrenza significa stabilire le regole necessarie a estrarre da un mercato in formazione risultati socialmente apprezzabili. Ecco dunque che la stessa funzione di utilità sociale va ridefinita in relazione ai cambiamenti subiti dalle condizioni ambientali e di contesto con i conseguenti aggiustamenti sulle variabili a valle che questo comporta. La possibilità di rimodellare nel tempo gli obiettivi del sistema è alla base della necessità di instaurare, fra soggetti responsabili dell’indirizzo politico e Autorità, un dialogo costruttivo e continuo che consenta di indirizzare correttamente l’attività di entrambi fornendo gli elementi per eventuali interventi correttivi in corso d’opera.

In relazione all’architettura istituzionale dei sistemi di tutela della concorrenza, il caso italiano presenterebbe delle particolarità evidenti rispetto al panorama internazionale, in grado di giustificare, almeno in parte, l’inefficacia delle azioni di intervento finora messe in atto.

In poche parole, se, da un lato, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato gode di poteri più pervasivi ed ha pertanto una maggiore capacità di incidere sul sistema economico per il perseguimento degli obiettivi che le sono stati assegnati, dall’altro, essa viene investita in via pressoché esclusiva della gestione di un’attività estremamente complessa senza alcuna possibilità di intervento per il soggetto politico32. L’azione dell’Autorità

32 Infatti, in armonia con il principio della concorrenza strumentale, la legge istitutiva

della AGCM (L. 287/90) prevede, attraverso il meccanismo delle esenzioni, la possibilità di

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Anna Codini

italiana appare quindi essere legata a sistemi di analisi e a procedure generali di intervento definite a priori con scarse possibilità di modifica e forte resistenza al cambiamento. Così, “nella gestione di complesse questioni (…) il modello istituzionale italiano di tutela della concorrenza sembra pertanto portare in sé il germe di una sostanziale incapacità a svolgere un’adeguata azione per il raggiungimento degli obiettivi del sistema (…) ciò dipende dal fatto che al crescere della complessità del contesto decisionale, si riduce la probabilità che un singolo soggetto (…) possa fornire risposte adeguate alle circostanze” (Pozzi e Sarra, 2000, p. 631).

sottrarre alcune fattispecie di concentrazione (art. 6) o di intese (art. 4) agli effetti della normativa nel caso in cui esse trovino la propria giustificazione ultima in esigenze di sviluppo industriale e progresso tecnologico. Essa attribuisce inoltre al governo stesso, nel caso di concentrazioni (art. 25), la possibilità di indicare settori ed esigenze da salvaguardare in tal senso. Ciononostante, il potere esecutivo non ha mai esercitato queste sue prerogative di indirizzo e la stessa AGCM, pur avendone di principio i poteri, in materia di intese non ha provveduto ad emanare regolamenti di esenzione per categoria, al contrario di quanto si verifica in molti paesi esteri.

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Governo della concorrenza e ruolo delle Authorities nell’Unione Europea

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DIPARTIMENTO DI ECONOMIA AZIENDALE PAPERS PUBBLICATI dal 2002 al 2007∗:

18- Pierpaolo FERRARI, La gestione del capitale nelle principali banche internazionali, febbraio 2002.

19- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Il valore della marca. Modello evolutivo e metodi di misurazione, marzo 2002.

20- Paolo Francesco BERTUZZI, La gestione del rischio di credito nei rapporti commerciali, aprile 2002.

21- Vincenzo CIOFFO, La riforma dei servizi a rete e l'impresa multiutility, maggio 2002. 22- Giuseppe MARZO, La relazione tra rischio e rendimento: proposte teoriche e ricerche

empiriche, giugno 2002. 23- Sergio ALBERTINI, Francesca VISINTIN, Corporate Governance e performance

innovativa nel settore delle macchine utensili italiano, luglio 2002. 24- Francesco AVALLONE, Monica VENEZIANI, Models of financial disclosure on the

Internet: a survey of italian companies, gennaio 2003. 25- Anna CODINI, Strutture organizzative e assetti di governance del non profit, ottobre

2003. 26- Annalisa BALDISSERA, L’origine del capitale nella dottrina marxiana, ottobre 2003. 27- Annalisa BALDISSERA, Valore e plusvalore nella speculazione marxiana, ottobre

2003. 28- Sergio ALBERTINI, Enrico MARELLI, Esportazione di posti di lavoro ed

importazione di lavoratori:implicazioni per il mercato locale del lavoro e ricadute sul cambiamento organizzativo e sulla gestione delle risorse umane, dicembre 2003.

29- Federico MANFRIN, Sulla natura del controllo legale dei conti e la responsabilità dei revisori esterni, dicembre 2003.

30- Rino FERRATA, Le variabili critiche nella misurazione del valore di una tecnologia, aprile 2004.

31- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Co-branding e valore della marca, aprile 2004. 32- Arnaldo CANZIANI, La natura economica dell’impresa, giugno 2004. 33- Angelo MINAFRA, Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del

XXI secolo?, luglio 2004. 34- Yuri BIONDI, Equilibrio e dinamica economica nell’impresa di Maffeo Pantaleoni,

agosto 2004. 35- Yuri BIONDI, Gino Zappa lettore degli Erotemi di Maffeo Pantaleoni, agosto 2004. 36- Mario MAZZOLENI, Co-operatives in the Digital Era, settembre 2004. 37- Claudio TEODORI, La comunicazione via WEB delle imprese italiane quotate: un

quadro d’insieme, dicembre 2004. 38- Elisabetta CORVI, Michelle BONERA, Il ruolo di internet nelle relazioni con gli

stakeholder: il settore dell’energia elettrica, dicembre 2004. 39- Yuri BIONDI, Zappa, Veblen, Commons: azienda e istituzioni nel formarsi

dell’Economia Aziendale, dicembre 2004. 40- Federico MANFRIN, La revisione del bilancio di esercizio e l’uso erroneo degli

strumenti statistici, dicembre 2004. 41- Monica VENEZIANI, Effects of the IFRS on Financial Communication in Italy:

Impact on the Consolidated Financial Statement, febbraio 2005. 42- Anna Maria TARANTOLA RONCHI, Domenico CERVADORO, L’industria

vitivinicola di Franciacorta: un caso di successo, marzo 2005.

∗ Serie depositata a norma di legge. L’elenco completo dei paper è disponibile al

seguente indirizzo internet http://www.deaz.unibs.it

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43- Paolo BOGARELLI, Strumenti economico aziendali per il governo delle aziende familiari, marzo 2005.

44- Anna CODINI, I codici etici nelle cooperative sociali, luglio 2005. 45- Francesca GENNARI, Corporate Governance e controllo della Brand Equity

nell’attuale scenario competitivo, luglio 2005. 46- Yuri BIONDI, The Firm as an Entity: Management, Organisation, Accounting, agosto

2005. 47- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Luca MOLTENI, Consumatore, marca ed

“effetto made in”: evidenze dall’Italia e dagli Stati Uniti, novembre 2005. 48- Pier-Luca BUBBI, I metodi basati sui flussi: condizioni e limiti di applicazione ai fini

della valutazione delle imprese aeroportuali, novembre 2005. 49- Simona FRANZONI, Le relazioni con gli stakeholder e la responsabilità d’impresa,

dicembre 2005. 50- Francesco BOLDIZZONI, Arnaldo CANZIANI, Mathematics and Economics: Use,

Misuse, or Abuse?, dicembre 2005. 51- Elisabetta CORVI, Michelle BONERA, Web Orientation and Value Chain Evolution

in the Tourism Industry, dicembre 2005. 52- Cinzia DABRASSI PRANDI, Relationship e Transactional Banking models, marzo

2006. 53- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Federica LEVATO, Brand Extension &

Brand Loyalty, aprile 2006. 54- Mario MAZZOLENI, Marco BERTOCCHI, La rendicontazione sociale negli enti

locali quale strumento a supporto delle relazioni con gli Stakeholder: una riflessione critica, aprile 2006

55- Marco PAIOLA, Eventi culturali e marketing territoriale: un modello relazionale applicato al caso di Brescia, luglio 2006

56- Maria MARTELLINI, Intervento pubblico ed economia delle imprese, agosto 2006 57- Arnaldo CANZIANI, Between Politics and Double Entry, dicembre 2006 58- Marco BERGAMASCHI, Note sul principio di indeterminazione nelle scienze sociali,

dicembre 2006 59- Arnaldo CANZIANI, Renato CAMODECA, Il debito pubblico italiano 1971-2005 nel-

l'apprezzamento economico-aziendale, dicembre 2006 60- Giuseppina GANDINI, L’evoluzione della Governance nel processo di trasformazione

delle IPAB, dicembre 2006 61- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Ottavia PELLONI, Brand Extension:

l’impatto della qualità relazionale della marca e delle scelte di denominazione, gennaio 2007

62- Francesca GENNARI, Responsabilità globale d’impresa e bilancio integrato, marzo 2007

63- Arnaldo CANZIANI, La ragioneria italiana 1841-1922 da tecnica a scienza, luglio 2007

64- Giuseppina GANDINI, Simona FRANZONI, La responsabilità e la rendicontazione sociale e di genere nelle aziende ospedaliere, luglio 2007

65- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Ottavia PELLONI, La valutazione di un’estensione di marca: consonanza percettiva e fattori Brand-Related, luglio 2007

66- Marco BERGAMASCHI, Crisi d’impresa e tecnica legislativa: l’istituto giuridico della moratoria, dicembre 2007.

67- Giuseppe PROVENZANO, Risparmio…. Consumo….questi sconosciuti !!! , dicembre 2007.

68- Elisabetta CORVI, Alessandro BIGI, Gabrielle NG, The European Millennials versus the US Millennials: similarities and differences, dicembre 2007.

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Università degli Studi Dipartimento didi Brescia Economia Aziendale

Dicembre 2007

Paper numero 69

Anna CODINI

GOVERNO DELLA CONCORRENZAE RUOLO DELLE AUTHORITIES

NELL’UNIONE EUROPEA

Università degli Studi di BresciaDipartimento di Economia AziendaleContrada Santa Chiara, 50 - 25122 Bresciatel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814e-mail: [email protected]

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