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Governance, sviluppo e capitale sociale L’esperienza della progettazione integrata in Basilicata e Calabria di Antonio Russo e Lidia Lo Schiavo XXV Convegno SISP 8 - 10 settembre 2011

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Governance, sviluppo ecapitale sociale

L’esperienza della progettazione integrata inBasilicata e Calabria

di Antonio Russo e Lidia Lo Schiavo

XXV Convegno SISP8 - 10 settembre 2011

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Sommario

Introduzione ......................................................................................................................................................2

1 - Governance, innovazione istituzionale e path dependency .........................................................................3

2 - Il capitale sociale: origini e portata semantica del concetto ......................................................................5

3 - Capitale sociale e politiche di sviluppo locale: una prima configurazione del campo analitico................8

4 - Il capitale sociale e i progetti integrati territoriali ...................................................................................10

5 - I contesti regionali e locali analizzati: analisi SWOT ...............................................................................14

6 - Le linee d’intervento individuate nei quattro PIT analizzati .....................................................................18

7 - Capitale sociale e progettazione integrata................................................................................................23

Conclusioni .....................................................................................................................................................26

Bibliografia .....................................................................................................................................................28

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IntroduzioneIl paper ha per oggetto l’analisi delle dinamiche che le politiche di sviluppo basate sulla governancehanno innescato, a livello territoriale, in due Regioni dell’Italia meridionale1. La governance puòessere considerata un nuovo stile di governo, alternativo alla regolazione gerarchica, basato su retidecisionali miste pubblico/private (Mayntz 1999). Per analizzare l’impatto concretamente prodotto daquesta nuova modalità di regolazione delle politiche pubbliche sono stati utilizzati, come oggetto dianalisi, i Progetti Integrati Territoriali (PIT), implementati nelle Regioni Obiettivo 1 del Sud Italia. IPIT consistono in un insieme di interventi, cofinanziati con fondi erogati dall’Unione Europea per ilciclo di finanziamento 2000-2006, aventi la comune finalità di promuovere l’innesco di processi disviluppo attraverso il diretto coinvolgimento dei soggetti locali e la valorizzazione delle retirelazionali esistenti. I contesti territoriali in cui la ricerca è stata svolta (due regioni meridionali – laBasilicata e la Calabria) appartengono ad una macroarea nella quale, per oltre 60 anni, sono stateconvogliate considerevoli quantità di risorse pubbliche nel tentativo di innescare per via esogena iprocessi di modernizzazione economica e sociale che il tessuto locale non riusciva a generareautonomamente. L’endemica debolezza delle relazioni fiduciarie estese e della propensione allacooperazione, la presenza di path-dependencies che cristallizzano la dipendenza patologica dellasfera sociale ed economica al sistema politico, costituiscono potenti ostacoli all’innesco di processi disviluppo autosostenuti.La selezione dei casi di studio ha risposto a criteri temporali: sono stati scelti i PIT avviati per primi,in territori caratterizzati da precedenti esperienze nel settore della governance, nei due contestiregionali presi in considerazione, per fruire di un orizzonte temporale idoneo a valutare le ricaduteconcrete determinate dagli investimenti in aree in cui sussistevano consolidate esperienze nel settoredella governance. Sulla base di questi criteri sono stati individuati, come oggetto di studio, i PITdell’Alto Basento e del Metapontino, in Basilicata, e i PIT Serre Cosentine e Locride in Calabria. Ilpasso successivo della ricerca è consistito nella ricostruzione, sulla base di dati statistici emacroeconomici, delle caratteristiche socioeconomiche dei contesti analizzati, al fine di evidenziarepunti di forza e debolezza, potenzialità e criticità presenti nei tessuti locali, per individuare le risorsee le potenzialità in esse presenti. Tale analisi SWOT è risultata funzionale alla valutazione del livellodi raccordo esistente tra risorse locali e scelte progettuali operate dai decision-makers. È statoricostruito altresì il quadro normativo entro cui l’attività di progettazione integrata si è svolta. Perquanto attiene la fase di produzione delle politiche pubbliche oggetto di analisi, sono stati raccolti eanalizzati i principali documenti approvati nei PIT studiati. Sono state anche analizzate ledichiarazioni e gli articoli pubblicati sui giornali locali, relativamente all’attività di progettazioneintegrata. Questi vari stadi della ricerca hanno consentito di ricostruire, complessivamente, sia lecaratteristiche del contesto locale, sia le dinamiche emerse nei processi decisionali. Infine, sono stateraccolte 78 interviste che hanno consentito di ricostruire le rappresentazioni dei soggetti coinvoltinell’attività di policy making, nonché i relativi giudizi.Il disegno di ricerca, nel suo complesso, ha cercato di rispondere a una domanda fondamentale: lepolitiche basate sulla governance possono dare buoni risultati in contesti in ritardo di sviluppo che, inquanto tali, presentano un profilo socioeconomico locale poco idoneo a promuovere un’efficienteutilizzazione dello stock di risorse materiali, immateriali e relazionali disponibili? Oppure, in talicontesti, le politiche basate sulla governance necessitano di un adeguato supporto esterno chefornisca non solo i mezzi finanziari, ma anche il know-how e gli incentivi necessari per modificare lestrategie degli attori locali, destrutturando i circoli viziosi presenti? L’ipotesi, dalle quali il disegno diricerca ha preso le mosse, è che in aree in ritardo di sviluppo (come quelle analizzate), governance e

1 Antonio Russo ha redatto l’introduzione, i paragrafi 1, 5, 6, 7 e le conclusioni. Lidia Lo Schiavo ha redatto i paragrafi 2,3 e 4.

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government, top-down e bottom-up, più che modalità di regolazione rivali e dicotomiche,rappresentino modalità di regolazione complementari che vanno necessariamente integrate perconseguire risultati ottimali sotto il profilo dello sviluppo locale e della regolazione dei policynetwork.L’analisi condotta ha pertanto cercato di determinare se, e in quale misura, nei contesti oggetto distudio gli attori politici ed economici locali sono riusciti a dare una compiuta realizzazione ai principidella governance, superando nel contempo le barriere strutturali e le path-dependencies che,tradizionalmente, hanno inficiato l’efficacia dell’azione pubblica nelle regioni del meridione d’Italia,attraverso una continua distorsione dei processi determinata da spinte affaristico-clientelari olocalistiche. Nel framework teorico si è fatto ampio riferimento al concetto di capitale sociale, unarisorsa fondamentale per il successo delle politiche basate sulla governance. Queste ultime, difatti,mirano non solo a rafforzare le reti sociali esistenti, ma risultano esplicitamente orientate allagenerazione di nuovo capitale sociale quale subprodotto dell’attività di policy making e quale baseper il supporto all’attività implementativa. Oltre che precondizione immateriale allo sviluppo, ilcapitale sociale, tuttavia, può determinare esso stesso effetti distorsivi sui processi in atto su scalalocale, generando barriere o creando coalizioni collusive che precludono di fatto l’inclusività deipolicy network, limitando la crescita dello stock di capitale sociale stesso. I potenziali effettiambivalenti di questa rilevante risorsa per l’azione (Coleman 2006) sono stati ampiamente analizzatiper determinare il reale impatto avuto sulle realtà locali studiate nel percorso di ricerca empirica.Accanto alla trattazione dei concetti di governance e capitale sociale nella parte teorica del papersono state discusse anche le problematiche attinenti la dimensione territoriale dei processi disviluppo, delineando il framework utilizzato nell’ambito della ricerca empirica.

1 - Governance, innovazione istituzionale e path dependencyLa governance ha ribaltato radicalmente la concezione stato-centrica del processo di produzione dellepolitiche pubbliche. Alla tradizionale regolazione top-down, che imponeva ai fruitori delle politichepubbliche le scelte operate dai livelli superiori di governo, è subentrato un approccio che mira asviluppare dal basso, attraverso la co-determinazione tra policy-makers e policy-takers, le scelterelative ai contenuti delle politiche (Gaudin 1998, Hirst 2000, Jessop 1998 e 1999, Rhodes 1997,Sanarclens 1998). Si tratta di un approccio regolativo flessibile, basato su un profondoridimensionamento del ruolo dell’attore statuale che, dismessa la funzione di decisore unico, èdivenuto un mediatore dei processi decisionali in atto nell’arena pubblica, un primus inter pares inreti decisionali basate sulla cooperazione tra i soggetti coinvolti nel processo decisionale (Kooiman1993, Rosenau e Czempiel 1992). La riduzione della pervasività della regolazione gerarchica deiprocessi da parte delle strutture statali, conseguente all’affermazione di nuovi modelli di policy-making, ha creato ulteriori spazi all’inclusione di soggetti non statali nei processi decisioni e,soprattutto, moltiplicato le opportunità di cooperazione, tra soggetti pubblici e privati, volte allaproduzione di beni collettivi locali per la competitività (Crouch et.al. 2004). Tuttavia, lacommistione, che si realizza nelle strutture di governance tra soggetti pubblici e privati e, in ultimaanalisi, tra interessi pubblici e privati, ha fatto emergere perplessità circa la reale qualità democraticadi tale modalità regolativa e le potenziali degenerazioni particolaristico-affaristiche (Crouch 2003)La profonda ridefinizione degli schemi dell’azione pubblica, connessa all’implementazione dellagovernance, ha delineato un’architettura complessa del policy-making, frutto dell’interazione tra unamolteplicità di reti relazionali in cui interagiscono attori che controllano risorse differenziate (siacognitive che materiali), con ruoli e competenze non rigidamente predeterminate (Osborne e Gaebler1992). La prospettiva neoistituzionale individua appunto nel rafforzamento delle reti relazionali enella compartecipazione alle scelte gli elementi sui quali puntare per rafforzare le performanceeconomiche, favorendo la formazione di inspessimenti istituzionali (Amin 1998). L’attività di

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progettazione integrata, trasformando i territori in laboratori di sperimentazione di nuove strategie disviluppo, dovrebbe (almeno idealmente) favorire l’emersione di processi di mobilitazione socialepropedeutici allo sviluppo. Dovrebbe altresì risultare funzionale all’eliminazione delle rigidità socialied economiche che ricreano il circolo vizioso del sottosviluppo, spezzando i nodi sociali, economici epsicologici di maggiore rilievo nell’ostacolare lo sviluppo economico, disponendo a nuove forme disocializzazione e comportamento (Myrdal 1957).Il policentrismo relazionale che scaturisce dalle policies basate sulla governance risulta altresìfunzionale allo crescita dello stock di capitale sociale localmente disponibile. I reticoli relazionali,fluidificando le interazioni economiche attraverso la riduzione dei costi di transazione, possono agireda catalizzatori per l’innesco di uno sviluppo auto-sostenuto, sebbene l’impatto concreto risultiambivalente. L’esistenza di forti legami e di stock consistenti di capitale sociale non costituiscononecessariamente elementi che facilitano lo sviluppo: l’effettiva fecondità economica di tali retirelazionali dipende dagli atteggiamenti e dai valori culturali che circolano all’interno di essi,orientando il comportamento dei membri del network (Smith-Doerr e Powell 2005).Anche le istituzioni, ovvero le regole del gioco ed i vincoli che condizionano le interazioni (North2002), espletano un ruolo rilevante nelle modalità di produzione delle politiche pubbliche basate sullagovernance. Il contesto in cui le interazioni si sviluppano risulta infatti rilevante ai fini degli esitidell’interazione stessa. Esso influenza i processi attraverso le risorse materiali ed immaterialidisponibili, gli incentivi operanti e le path-dependencies in esso presenti. La combinazione di questitre elementi (risorse, incentivi e path-dependencies) determina il successo o meno delle azioniimplementate su scala locale. In tal senso, le politiche basate sulla governance possono costituire unimportante shock esogeno capace di inoculare, nel contesto locale, nuove capabilities organizzative enuovi frames cognitivi idonei a destrutturare le path-dependecies e le rigidità sociali che,tradizionalmente, hanno condizionato l’agire individuale rendendolo socialmente ed economicamentesub-ottimale. Tuttavia, le stesse politiche basate sulla governance, dipendendo nei loro esiti, in ultimaanalisi, dalle capacità progettuali e cooperative endogene, potrebbero alimentare esse stesse circoliviziosi di sottosviluppo.In passato l’impatto concreto avuto da forme dall’intervento straordinario nel Mezzogiorno d’Italia èrisultato complessivamente molto ridotto. Il solo stimolo esogeno, in assenza di un realecoinvolgimento delle reti relazionali locali, non ha consentito di destrutturare le rigidità ed i vincoliallo sviluppo (sociali e culturali, ancora prima che economici) presenti in tali aree, finendo conl’alimentare il circolo vizioso della dipendenza dai trasferimenti esterni controllati dalla classepolitica (Trigilia 2001). La capacità di mobilitare le risorse sub-utilizzate e di eliminare le rigiditàsociali che creano inefficienze, nei processi di sviluppo, ha una rilevanza non secondaria rispetto ladisponibilità di risorse finanziarie ed infrastrutturali. Le innovazioni introdotte dalla legislazioneeuropea nelle politiche di sviluppo regionale – in particolare quelle volte ad aprire nuovi canali dipartecipazione per coinvolgere gli attori locali nei processi decisionali – hanno incrementatol’influenza esercitata, sull’attività di policy making, dalla capacità regolativa del contesto territorialed’implementazione. Le trasformazioni connesse alla governance, dunque, accrescono la rilevanzadella capacità di regolazione sociale (Eisenstadt 1974) presente nel tessuto locale, la cui azione èessenziale per attenuare le crescenti frizioni tra i disarticolati input esterni, provenienti dal caoticosistema internazionale, e i delicati equilibri tra risorse e soggetti interni al sistema locale,continuamente scombinati dai processi in atto su scala globale. Nei sistemi locali in cui la capacità diregolazione sociale è maggiore, migliore risulterà l’adattamento ai processi di modernizzazionesocioeconomica. Date tali trasformazioni, l’impatto concreto determinato dai nuovi modelli dipolitiche pubbliche diviene funzione della qualità progettuale che i policy network locali riescono adesprimere attraverso il metodo concertativo, nonché dell’ottimale utilizzo delle risorse materiali,

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umane e relazionali sedimentate nel contesto locale e concretamente mobilitate attraverso l’azione digovernance territoriale.

2 - Il capitale sociale: origini e portata semantica del concettoCome dimostrano i numerosi studi di carattere teorico ed empirico, il panorama delle scienze socialicontemporanee si è arricchito di un nuovo concetto: quello di capitale sociale. Un concetto«complesso ed articolato […] che deve molto del suo successo alla sua forza evocativa […]. Iltermine capitale infatti rinvia all’idea di ricchezza, di abbondanza, mentre l’aggettivo socialeintuitivamente lo qualifica come qualcosa di positivo, accessibile a tutti, alla portata di tutti e quindidi utilità collettiva» (Di Nicola 2006, 7). Una prima definizione di capitale sociale è utile a precisareche «le relazioni sociali in cui gli individui sono inseriti (embededdness) sono, al tempo stesso,componenti della struttura sociale e risorse per l’individuo […]. Il capitale sociale è costituitodall’insieme delle risorse relazionali che l’individuo in parte eredita e largamente costruisce da solo,all’interno della famiglia e in altre cerchie sociali. Come componente della struttura sociale invece, ilcapitale sociale si concretizza in caratteristiche strutturali e normative di un determinato sistemasociale: organizzazioni, norme, istituzioni […]» (Piselli 2001, 49).Per ciò che riguarda la “collocazione teorico-empirica” del concetto di capitale sociale, si può direche essa muti a seconda che lo si legga come metafora dell’appartenenza o come metafora delvantaggio. Nel primo caso emerge la salienza della morfologia2 delle reti di relazione, nel secondocaso il capitale sociale viene considerato principalmente come risorsa fondante della struttura diopportunità che permette all’attore sociale di agire massimizzando il criterio della razionalitàstrumentale. Il concetto di capitale sociale sarebbe cioè in grado di dar conto tanto delle ragioni dellaappartenenza quanto di quelle dell’autonomia individuale, delle obbligazioni etiche di reciprocità esolidarietà, come delle condizioni per l’esercizio della libertà di scelta. In particolare, l’uso delconcetto di capitale sociale fa emergere il fatto che le risorse relazionali degli attori sociali “contino”,tanto nella definizione della loro identità, dei loro ruoli e comportamenti, quanto nella costruzionedegli spazi istituzionali in cui prende forma l’agire collettivo. E ciò, sia che si tratti di relazioniformali (il polo gesellschaft) sia che si tratti di relazioni informali (il polo gemeinschaft); tali risorserelazionali si combinano nei diversi contesti di azione, in quantità e modalità diverse, assecondando ocontribuendo a definire la cornice di vincoli e opportunità in cui si articola l’agire sociale, individualee collettivo. Il primo passo da compiere per esplicitare la portata teorica ed empirica del concetto cosìdefinito, ci richiama alla necessità di distinguerne la dimensione macro, il livello meso e micro.Nell’accezione macro-sociale (quella a cui principalmente fa riferimento Putnam), il capitale sociale,costituito dalle norme, dalla fiducia reciproca, dal senso di appartenenza, dall’impegno civico, propridi una data collettività, facilita “il funzionamento delle istituzioni democratiche”, si configura comeun “bene collettivo, del quale tutti si avvantaggiano” ma di cui “nessuno si può appropriare” (DiNicola 2006, 7). Al livello meso, il capitale sociale viene riferito alle reti, alla struttura sociale e siconfigura come una “funzione3”che consente agli individui, che di quelle reti relazionali sono parte,di raggiungere obiettivi e vantaggi che, al di fuori di un orizzonte cooperativo e di socialità4, non

2 Sotto questo profilo, si sono moltiplicate negli anni le ricerche che operazionalizzano il concetto sulla base delle “misurereticolari del capitale sociale”, ossia applicando gli strumenti analitici e operazionali della network analysis; si vedano adesempio (Borgatti, Jones, Everett 2005).3 In questo caso emerge la nozione di capitale sociale definita da Coleman, che precisa come il capitale sociale siacostituito da alcuni aspetti strutturali mentre, al tempo stesso, si configura come una risorsa strumentale per glidinviduinella realizzazione dei loro obiettivi, entro un dato contesto di organizzazione sociale; sul punto si vedano Gangemi(2003) e Pizzorno (2001).4 A questo riguardo, vale la precisazione di Pizzorno il quale chiarisce che, così inteso, il concetto di capitale socialerimanda alla presenza di relazioni sociali durature che possono essere mobilitate a fini individuali ma che esistono

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potrebbe ottenere; in questo senso il capitale sociale può essere altresì considerato come unaproprietà emergente di “specifiche reti di relazioni” (Di Nicola 2006, 8). A livello micro, vieneulteriormente precisata la valenza del capitale sociale come risorsa individuale. È questa l’accezione“economico-marxiana5” del concetto, formulata da Bourdieu6: il capitale sociale può essere intesocome “la somma di risorse, effettive o virtuali, che si aggiungono ad un individuo o ad un gruppo peril fatto di disporre di una duratura rete di più o meno istituzionalizzate relazioni” (Gangemi 2003,138).Nella costruzione del concetto di capitale sociale importante è il contributo dell’analisi strutturaleamericana. In particolare, Granovetter, Harrison White e Ronald Burt, hanno tracciato unadistinzione fondamentale tra legami relazionali forti e legami deboli. La tesi della “forza dei legamideboli” infatti, si basa sulla idea che “coloro che sono debolmente legati a un individuo si muovonocon maggiore probabilità in ambienti sociali diversi dai suoi, e, quindi, tendono ad essere portatori etrasmettitori di informazioni che non circolano nelle cerchie sociali di appartenenza di quest’ultimo”(Mutti 1996, 24). A questo quadro Burt aggiunge l’importante tassello costituito dal concetto di“buco strutturale”. I legami forti (legami esclusivi) producono effetti bonding di esclusione dellecerchie sociali esterne (e capitale sociale di tipo bonding) mentre i legami deboli hanno potenzialitàbridging, possono cioè gettare ponti tra cerchie sociali prima non collegate fra loro (e produrrecapitale sociale di tipo bridging). La distinzione tra queste diverse strutturazioni delle reti sociali,permette di capire quale sia la natura del capitale sociale che si produce sulla base di questi diversitipi di legami. Così, il capitale sociale di tipo bonding “unisce”, rinsaldando l’identità di un gruppospecifico e generando fiducia a corto raggio; il capitale sociale di tipo bridging “collega”, in modo daorientare i gruppi verso l’esterno, creando fiducia e reciprocità allargata. In particolare il capitalesociale bridging fa riferimento ad una struttura di relazioni potenzialmente più dinamica, aperta aglieffetti “emergenti” prodotti dall’intreccio di nuove relazioni da parte di imprenditori sociali, diindividui cioè che esercitano la loro autonomia nell’ambito dei processi di costruzione sociale dellarealtà (Field 2004; Gangemi 2003).A indagare la dimensione del capitale sociale quale “componente della struttura sociale”, è stato illavoro seminale di Robert Putnam (1993). Nel contesto della sua analisi sulla relazione tra culturacivica e rendimento istituzionale nelle regioni italiane, Putnam delinea una ipotesi di fondo, secondola quale a spiegare il diverso “rendimento istituzionale”7delle regioni italiane del Nord e del Sud, nonsiano tanto, o non solamente, le variabili socio-economiche (sussumibili nella etichetta definitoria di“modernizzazione”) ma soprattutto le variabili socio-culturali, riconducibili alle diverse tradizioniciviche esistenti. La cultura civica8(individuata in specifici indicatori di comportamento9) alimenta unethos democratico, orientando le condotte individuali (e collettive) nel senso della fiducia e delrispetto generalizzati verso gli altri, incoraggiando la partecipazione attiva in ambito sociale epolitico. A tal riguardo, secondo Putnam, proprio le caratteristiche dell’organizzazione sociale

indipendentemente da questi. Anzi, si può pensare ad una priorità del tessuto relazionale rispetto al “riconoscimento”degli stessi attori individuali e dei loro fini (Pizzorno 2001, 36).5 Come sottolinea in particolare Gangemi (2003, 138) nella sua analisi del concetto di capitale sociale così come definitoda Bourdieu, “il capitale sociale è insito nei processi di stratificazione attraverso i quali le classi sociali costruiscono iconfini reciproci e riproducono e consolidano la possibilità di mettere in atto determinati tipi di azione”.6 P. Bourdieu, “Le capital social. Notes provisoires”, in Actes de la recherché en sciences socials, n. 31, pp. 1-2.7 In ordine al rendimento istituzionale Putnam (1993) individua una serie di indicatori. Si tratta rispettivamente diindicatori di funzionamento della gestione politica e della macchina amministrativa, di indicatori di contenuto delledecisioni politiche e di sette indicatori di realizzazioni specifiche nelle politiche pubbliche.8 Questa categoria analitica può essere considerata come una specificazione del concetto di cultura politica; in particolaresecondo l’approccio comportamentista di Almond e Verba, la cultura politica può essere considerata come aggregato ditendenze psicologiche individuali (Sola 1996).9 Si tratta specificamente della partecipazione associativa in gruppi, nella lettura dei giornali, nella partecipazioneelettorale ai referendum, e nel (non) utilizzo della voto di preferenza all’interno delle liste (Della Porta 2002).

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riferibili ai reticoli di relazione, alle norme, alla fiducia sociale «facilitano il coordinamento e lacooperazione per il mutuo beneficio […]. Questi reticoli facilitano il coordinamento e lacomunicazione, amplificano la reputazione, e così permettono di risolvere i dilemmi dell’azionecollettiva» (Putnam 1995, 66). Il circolo virtuoso ipotizzato è quello che passa dalle “reti di impegnocivico” alle norme di reciprocità generalizzata e fiducia sociale, quindi al coordinamento dell’azionecollettiva, per poi approdare al risultato della efficienza istituzionale.La correlazione positiva tra civicness10 e fiducia istituzionale sussiste quindi in presenza di un terzavariabile: quella rappresentata dallo sviluppo del livello associativo (il livello meso); in questo sensoil rendimento istituzionale è funzione del grado di cultura civica, così come mediato dallo sviluppodel tessuto associativo e delle “reti di relazione”. A questo riguardo, si può dire che se la dotazioneiniziale di capitale sociale spiega (in quanto condizione necessaria) il buon rendimento istituzionaleed il livello di sviluppo economico raggiunti in una data collettività in un dato momento storico, altrielementi, come la capacità degli attori di costruire nuove relazioni, la presenza di una leadershipsociale e politica, le stesse interazioni tra gli attori, possono spiegare (in termini di condizionesufficiente) la produzione del “bene pubblico” capitale sociale, in una fase successiva (Piselli 2005).Più in generale è possibile dire che vi sono due linee interpretative del concetto di capitale sociale,relazionale l’una, culturalista l’altra. La prima guarda al capitale sociale come ad un concettosituazionale (il capitale sociale è un elemento dell’organizzazione sociale ed un patrimoniorelazionale degli individui) e dinamico (si produce in contesti di interazione diversi ed è spesso unby-product, l’esito non previsto di processi di interazione); la seconda, guarda al capitale socialecome ad una proprietà dell’intero sistema sociale, come all’insieme dei valori e dei modelli dicomportamento sviluppatisi nella storia, in grado di condizionare l’agire collettivo. La visionerelazionale11, situazionale e dinamica del capitale sociale, sottolinea il fatto che, sebbene percorsivirtuosi di azione collettiva e di produzione di beni pubblici possano essere meglio intrapresi in forzadi una buona dotazione iniziale di capitale sociale, questo non implica tuttavia che percorsi diriconfigurazione delle reti di relazione non possano a loro volta produrre capitale sociale “buono”, eazione collettiva di successo (si pensi alla produzione delle politiche pubbliche). Si può dire che ilcarattere ricorsivo dei processi di interazione sociale interviene tanto nella produzione di “beni

10 Le critiche mosse all’uso del concetto di capitale sociale operato da Putnam riguardano principalmente l’opportunità didistinguere il concetto di cultura civica da quello di capitale sociale. Se il capitale sociale viene identificatoesclusivamente con la dimensione culturale, si rischia di lasciare meno spazio ad attori e a processi di apprendimento e adare maggior rilevanza al peso delle tradizioni culturali consolidate. Come sottolinea in particolare Trigilia (2001), ilduplice rischio insito nella sovrapposizione dei concetti di capitale sociale e di cultura civica, consiste da una parte nellariaffermazione di una visione ipersocializzata dell’attore sociale (trascurando cioè il ruolo dei processi dinamici eintersoggettivi di interazione e di costruzione sociale della realtà), dall’altra nella sottovalutazione delle potenzialità dimutamento espresse dalla sfera politica (relativamente autonome rispetto ai condizionamenti della storia e dei percorsipath-dependent).11 Questo serve anche dar conto del perché, secondo Donati, il concetto di capitale sociale debba essere collocato, sotto ilprofilo analitico, al livello “meso”, ossia a livello delle relazioni sociali, e non a livello micro (in riferimento agli attoriindividuali), o macro (a livello delle strutture). In particolare, Donati indica come la relazione sociale possa essereconsiderata ora come mezzo ora come risorsa. Mentre nella sfera economica la relazione sociale appare come strumentaleal perseguimento degli obiettivi economici, essa viene invece “mobilitata” per uno scopo condiviso da soggetti inrelazione tra loro, nell’ambito della sfera politica. Nella sfera associativa viene “regolata” sulla base di aspettativefiduciarie e delle norme di cooperazione e di reciprocità; infine, nella sfera valoriale, le relazioni sociali vengono valutatepositivamente in sé, come modello di senso dell’agire individuale e collettivo. L’accezione di capitale sociale cui fariferimento invece Roberto Cartocci (2007), si basa sulla dimensione dei “valori”, intesi come “obbligazione moraleliberamente vissuta dei singoli”, ad agire in modo oblativo, solidale, a vantaggio della collettività. In particolare Cartocc ioperazionalizza il concetto di capitale sociale in modo da individuarne lo stock disponibile nelle diverse aree oggetto diindagine (l’obiettivo del politologo è quello di costruire una mappa del capitale sociale sul territorio italiano). A questofine utilizza una serie di indicatori, ossia la diffusione della stampa quotidiana, il livello di partecipazione elettorale, ladiffusione delle associazioni dello sport di base, la diffusione delle donazioni di sangue.

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pubblici” quanto nella determinazione di esiti negativi. In questo senso, lo stesso rapporto diinterdipendenza che connette buon capitale sociale, fiducia e buon governo (o rendimento delleistituzioni), caratterizza anche la relazione (perversa perché conduce ad esiti negativi) tra mancanzadi buon capitale sociale, corruzione politica, sfiducia nel governo. Il nodo centrale in questo circuitodi interazioni al negativo, è da ricercarsi nel “bisogno di protezione”, nella domanda sociale di benicollettivi (ad esempio i diritti) alla cui produzione sono deputate le istituzioni sociali. Questadomanda, in presenza di una condizione di debolezza delle istituzioni “formali”, può esseresoddisfatta da strutture parallele (e occulte), caratterizzate a loro volta da norme, circuiti di fiducia,routines, meccanismi di inclusione selettiva. Gli attori della corruzione politica, grazie a costi moralie materiali percepiti come non onerosi, sostengono la produzione di cattivo capitale sociale attraversoreti “nascoste” che sostengono gli scambi politici e la produzione di risorse per il mantenimento ditale “sistema normativo” parallelo e alternativo. La prospettiva intesa a spezzare tali circuiti perversi(innescando “innovazioni difficili” che coinvolgano in primo luogo la sfera politica e con essa ilruolo delle élites politiche nei processi di mutamento-conservazione sociale) può essere sostenutaproprio a partire da un punto di vista epistemico che guarda al capitale sociale come ad un concettosituazionale e dinamico, considerato dunque come dipendente dal contesto (e dagli attori), ed espostodi conseguenza tanto alla conservazione quanto al mutamento della sua natura, “buona” o “cattiva”(Bagnasco et al. 2001; Della Porta 2003; Pizzorno 1992; Trigilia 2005 a; Vannucci 2006).

3 - Capitale sociale e politiche di sviluppo locale: una prima configurazione delcampo analiticoPer quel che riguarda in particolare il panorama degli studi italiani, il termine-concetto capitalesociale è stato introdotto nel dibattito teorico, e via via precisato e utilizzato in termini operazionali,soprattutto dagli studiosi che prima di altri e più approfonditamente si sono occupati dei temiconnessi allo sviluppo locale, del quale hanno disegnato il quadro teorico analitico di sfondo, edefinito i termini per la sua applicazione nell’indagine empirica; si tratta cioè di Bagnasco (1977,2003), Donolo (2003, 2007), Piselli (2001) e Trigilia (1992, 2005 a) da una parte, e degli studiosidella dimensione territoriale dello sviluppo dall’altra, come Dematteis (1993) e Magnaghi (2000) eRullani (2004), solo per citarne alcuni12. Possiamo affermare che l’introduzione del concetto dicapitale sociale nel campo semantico delle politiche di sviluppo coincide con il mutamento diapproccio allo studio di tale complesso fenomeno. Come chiarisce in particolare Donolo, ilmutamento di paradigma al quale occorre fare riferimento è quello che definisce il passaggio dalconcetto di crescita a quello di sviluppo. Quando si parla di crescita, ci si riferisce principalmente alla«modificazione dimensionale nel tempo di alcuni parametri essenziali (PIL, occupazione, reddito,accumulazione)» (Donolo 2003, 11). Si tratta di un processo che si accompagna alla valorizzazionedei beni comuni, intesa come loro appropriazione e trasformazione in merci per i mercati competitivi,ed alla possibile produzione di “squilibri” tra le diverse componenti della società. La crescita «per

12 Nel panorama degli studi italiani, l’analisi dei sistemi socio-politici locali, così come condotta da politologi e sociologi,ha affrontato soprattutto due aspetti. Da una parte si è occupata del radicamento partitico nei contesti locali e delcorrelativo sviluppo delle subculture politiche territoriali (rispetto al quale rilevano le dimensioni di politics costituite dalruolo dei partiti nella mediazione del rapporto tra centro e periferia, la partecipazione politica ed il comportamentoelettorale), dall’altra ha affrontato, sulla base di una prospettiva neo-istituzionalista, i temi dello sviluppo locale,attraverso l’indagine teorica ed empirica della relazione tra cultura politica e policy making locale, tra modalità digoverno dei beni pubblici locali e politics partitica locale, stile amministrativo e modelli di sviluppo (cfr. Diamanti 2003;Messina 2005).

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definizione divora e distrugge istituzioni, mentre lo sviluppo si basa, si fonda e riproduce istituzioni»(Donolo 2003, 13). Pertanto «nel quadro dello sviluppo ridiventano centrali e prioritari gli aspetti che– nella crescita – sono contingenti e strumentali. In particolare: la relazione tra attività economica eforme di democrazia partecipata e deliberativa; gli scambi tra economia del profitto ed economiasociale; l’autogoverno locale nella forma dell’amministrazione condivisa; il governo dei beni comuni(dall’ambiente, alle risorse scarse, al capitale sociale) la cui cura – alternativa al mero sfruttamento –è parte integrante delle politiche di sviluppo» (Donolo 2003, 13). L’assunzione della centralità delleistituzioni nella costruzione sociale dello sviluppo economico, rimanda ad una diversa visione che fadella sostenibilità la sua cifra qualitativa (March, Olsen 1992). Riferita in primo luogo al rapporto traattività umana ed ecosistema, la nozione di sostenibilità si rivela controversa e multidimensionale.Essa tocca infatti il tema delle modalità di utilizzo delle risorse e richiede capacità e disponibilitàdelle società a darsi limiti, ovvero a “dimensionare in modo prudente il carico impostoall’ecosistema” (Donolo 2003, 91). Tuttavia, il suo carattere normativamente esigente non si limita alcampo delle risorse ecosistemiche, ma si esprime anche nel campo della regolazione sociale.Elementi caratterizzanti la sostenibilità, quali i comportamenti virtuosi invece che autointeressati, lageneralizzabilità dei benefici e l’equa ripartizione dei costi, la prospettiva di lungo periodo invece chela logica di breve periodo e a corto raggio, emergono come altrettanti aspetti comuni alle dimensioniimplicate dai processi di produzione dei beni collettivi, ovvero a quella classe di giochi cooperativiche, nell’ottica della scelta pubblica, esemplificano le dinamiche dell’azione collettiva (Regonini2001). La multidimensionalità della sostenibilità si esprime quindi in termini ambientali, economici,sociali, culturali e istituzionali. È proprio in relazione alle dimensioni sociali, istituzionali e culturaliche il capitale sociale entra in gioco come fondamentale requisito per lo sviluppo sostenibile. Leesigenze di regolazione collettiva, di rigenerazione delle risorse, di riproduzione della socialità, lacrescita dei saperi e delle competenze diffuse, mettono in connessione beni comuni e istituzioni, ledotazioni di capitale sociale e la dinamiche della governance13 (intesa come capacità crescente neltempo di progettare, programmare, gestire e valutare, valorizzare potenziali e capacità diinnovazione, rafforzare il networking relazionale e la leadership politica) (Donolo 2003, 86).La riconcettualizzazione dello sviluppo nei termini della sostenibilità implica la riconfigurazionedella dimensione territoriale14 delle politiche. In questa nuova prospettiva, il territorio smette diessere un mero supporto per la crescita e diviene, al tempo stesso, premessa e risultato dei processi dicostruzione sociale dello sviluppo. Il territorio assume cioè la duplice fisionomia di “artefatto

13 Una nozione “normativamente esigente” di governance implica un mutamento dello stile e dei contenuti delle politichepubbliche, intese sia come dispositivi (ovvero come interventi proattivi in relazione ai processi sociali), sia comeesperimenti socio-istituzionali. Le politiche come dispositivi e come esperimenti dunque, riflettono e rispondono al tempostesso alle trasformazioni della società. Nel contesto delle società globalizzate e postfordiste (caratterizzate cioè da unadiversa organizzazione dei processi economici e politici nello spazio e nel tempo, nelle quali alla logica centralizzatricedello stato, si sostituisce quella policentrica della governance, ad un’economia fordista, che separa l’economia dallasocietà, si sostituisce un assetto economico postfordista, al contempo, radicato nei contesti locali e orientato alla mobilitàed alla delocalizzazione dei processi produttivi), le politiche pubbliche sono chiamate a diventare cognitivamente“spesse”, operativamente integrate e in prospettiva strategica, a coniugare più dimensioni e risorse (economiche, culturali,sociali, di potere) e diversi settori di intervento (cfr. Castells 2002; Donolo 2006, 2007; Le Galès 2002; Regonini 2001).14 La prospettiva della territorializzazione delle politiche di sviluppo, chiama in causa un processo di più ampia portata,che riguarda la riorganizzazione del potere politico e della funzione pubblica sul territorio. In forza dei processi diglobalizzazione, l’agire degli attori istituzionali e sociali, pubblici e privati, si struttura ora in una dimensione multi-scalare e multilivello, che ricomprende il livello locale, nazionale, sovranazionale. In questo senso la riterritorializzazionedello spazio politico avviene sia in relazione ai processi di riorganizzazione economica e sociale (si pensi allaorganizzazione dei processi produttivi), sia in relazione ai processi di mobilitazione politica. Sotto quest’ultimo profiloemerge che “la natura delle arene politiche territoriali viene in larga misura definita dall’esistenza di coalizioni e di attoricollettivi intorno a questioni di politica economica e sociale di interessi, contestualmente definite” (Gualini 2006, 29).

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culturale” e “sedimento naturale”. In questo senso, la “configurazione territoriale delle politiche”,«chiama in causa il concetto di società locale, con il quale si fa riferimento all’esistenza di formazionisociali specifiche che si differenziano l’una dall’altra non solo sul piano geografico, ma soprattuttoper le proprie peculiari costellazioni economiche, demografiche, culturali e politiche» (Martelli 2006,41). Si tratta in altri termini di quel milieu costituito da una costellazione di attori, istituzioni, risorse(economiche, sociali, politiche) che strutturano le società locali e che fanno dello sviluppo locale “unfatto sociale formato nello spazio”; è nell’ambito di tale configurazione che il capitale socialeesprime una particolare salienza. Non solo perché, grazie al suo radicamento reticolare, mostra la suapeculiare caratterizzazione territoriale, ma anche perché lo stesso sviluppo sostenibile si definisce apartire dalle risorse di socialità, dalla dimensione istituzionale, quindi a partire dal capitale sociale.Come precisa Donolo infatti, “il capitale sociale è un genere della specie commons”; si tratta cioè diquei beni caratterizzati dalla non escludibilità nella fruizione, per i quali occorrono garanzie di tutelae di accessibilità. In altri termini, «i beni comuni sono alla lettera “di tutti” […] in quanto ci sonoprofili giuridicamente, economicamente e socialmente rilevanti per i quali tali beni sono anchecomuni. In presenza di una funzione pubblica di tutela […] essi sono beni pubblici» (Donolo 2007,107). Tale qualità del capitale sociale, fa sì che esso si sovrapponga, almeno in parte, alla dimensionedella gestione dei beni comuni, ovvero con i processi regolazione pubblica. I regimi regolativi, intesicome «insiemi di regole e processi sociali che producono effetti regolativi» (Donolo 2003, 23), siconfigurano come le strutture istituzionali ed i processi di interazione sociale in grado di produrreintegrazione delle diverse forme di regolazione sociale, politica, economica, etica, cognitiva(Gangemi 2003, 2006 a, b).Su queste basi, «per regime locale si intende […] un modo di essere di tutte le forme di regolazionioperanti nel territorio considerato» (Donolo 2003, 28). In questo senso, lo sviluppo non chiama più incausa in modo esclusivo i dati della “crescita” economica, assume cioè una configurazionemultidimensionale, poiché mette in gioco «la società e le istituzioni, il tempo e lo spazio, la natura ela storia» (Pasqui 2005, 29), radicati in un determinato contesto territoriale, e si orienta non solo allacompetizione ma anche alla cura e alla coesione. In questo caso il territorio non può essereconsiderato esclusivamente come «il supporto di un insieme di pratiche sociali che possono accaderesolamente nello spazio; esso è invece il prodotto di tali pratiche, esito di una stratificazionesincronica di diversi livelli o layer relativi ad una molteplicità di dimensioni”, fisica, ecologica,infrastrutturale, ovvero di una “stratificazione diacronica in relazione a ‘depositi’ (immagini, regole,abiti di comportamento, culture, pratiche sociali) che avvengono nel tempo» (Pasqui 2005, 31-32).In altri termini, la lettura in chiave “costruttivista” del territorio, permette di comprendere come esso«rappresenti una risorsa per lo sviluppo non in ragione di qualche astratta caratteristica naturale oidentitaria, ma come esito (prodotto) di pratiche sociali che lo utilizzano (lo reinterpretano) a partireda azioni e strategie di natura individuale e collettiva» (Pasqui 2005, 36). Tra queste risorse epratiche sociali, individuali e collettive, si colloca il capitale sociale che, proprio in virtù del suoradicamento locale può essere considerato come «l’insieme delle dotazioni, dei potenziali, dellecapacità distribuite socialmente, che in vario modo intervengono a facilitare la coesione sociale,l’azione cooperativa, la produzione di beni pubblici, l’attività economica» (Donolo 2003, 55).

4 - Il capitale sociale e i progetti integrati territorialiTra gli strumenti di politica dello sviluppo che ne hanno enfatizzato la dimensione sociale eistituzionale, si collocano i dispositivi dei progetti integrati territoriali. Tali politiche si inseriscononella cornice definita da una serie di mutamenti che hanno ridisegnato fisionomia e funzionamentodel policy making nazionale e locale. I mutamenti “di sistema” riguardano la ridefinizione deirapporti tra centro e periferia, veicolata principalmente dalle trasformazioni della politics partitica (ciriferiamo al tramonto del sistema partitico della prima Repubblica, e al delinearsi, nel corso della

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lunga transizione italiana, di un sistema bipolare-competitivo), quindi la trasformazione istituzionalee amministrativa di tali rapporti legata alla riforma costituzionale in senso federale. A segnare,politicamente e simbolicamente, il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica è anche ilchiudersi della stagione delle politiche di intervento nel Mezzogiorno (ci riferiamo in particolareall’atto formale conclusivo della esperienza quarantennale dell’intervento straordinario, ed alla suasoppressione in forza della legge n. 488 del 1992). Questa data spartiacque celebra anche l’iniziodella nuova stagione della programmazione negoziata per lo sviluppo, inaugurata con i pattiterritoriali, proseguita con i progetti integrati (D’Alimonte, Chiaramonte 2007; Magnatti et al. 2005;Pasqui 2005).La nuova strategia di azione sul territorio, è indirizzata a promuovere l’empowerment e le capabilitiesdegli attori locali, a stimolare e sostenere una inedita sinergia tra centro e periferia, attraverso lostrumento della concertazione e del partenariato. Ciascun strumento di azione, attraverso la suaspecifica “forma”, è rivolto a definire un campo di possibilità e di vincoli per gli attori locali. Lacostruzione del contesto “sperimentale” della politica di sviluppo si configura infatti come un“costrutto strategico”, l’esito di un processo di interazione tra attori istituzionali, sociali, politici,finalizzato ad interpretare criticità e condizioni di possibilità per l’azione. La costruzione del contestodi progetto, è un’operazione strategica che interviene in un campo già strutturato di relazioni, didotazioni di risorse economiche, sociali, politiche, cognitive, con il proposito di agire su tale campo eattivarlo in vista dell’obiettivo dello sviluppo e della coesione sociale. A tal fine, vanno condotte unaserie di operazioni cognitive15, tese a ricostruire e mettere a fuoco il modello di sviluppo territorialeesistente (le imprese, i regimi regolativi, il “modello capitalistico”, le risorse di capitale relazionale esociale), il campo degli attori rilevanti ovvero le reti di governance attive o attivabili, ilriconoscimento dell’esistenza di un patrimonio di “azioni e progetti già operativi o in fase di avvio”(Pasqui 2005, 119).Proprio il tema della governance delle reti permette di focalizzare l’attenzione sulle relazioni e sulle“forme di integrazione pluriattoriali” e plurilivello implicate nella costruzione del progetto disviluppo. Nell’ambito di tali progetti infatti sono chiamati ad operare – e cooperare – diversi attori,istituzionali e della società civile, e diverse “scale” di governo del territorio, dal microlocale alsovranazionale. Una parte consistente dell’agire strategico della progettualità dovrebbe quindi esseredeputata alla «cura delle relazioni verticali e orizzontali di governo e dei policy networks che esseesprimono, oltre che attraverso la capacità di consolidare, rafforzare e aumentare la dotazione dicapitale sociale presente in un certo contesto locale» (Pasqui 2005, 153). Da questo punto di vista, ladimensione relazionale della governance di progetto, dovrebbe potersi muovere su due assi,basandosi cioè sul riconoscimento e l’attivazione delle relazioni esistenti ovvero sulla lorotrasformazione, attraverso forme di “pilotaggio e regia”. È questa probabilmente la parte piùcomplessa nella definizione e implementazione del dispositivo di progetto, posto che in questadimensione entrano in gioco il trade off tra government e governance, tra politica e politiche, trasapere esperto e sapere diffuso, tra logica strumentale e logica dell’appropriatezza. Il partenariato,orizzontale e verticale, dovrebbe potersi configurare come campo di apprendimento collettivo per ladefinizione e l’implementazione del progetto di sviluppo. In questa cornice di riferimento, si tratta dicapire se ed in quali termini il “contesto sperimentale” definito dal patto, sia in grado di accrescere lafiducia tra gli attori sociali (il capitale sociale), la loro propensione a cooperare per la produzione dibeni pubblici. Questo interrogativo pone, in primo luogo, il problema del rapporto tra diverse formedi regolazione, economica, sociale, politica. Si pensi ad esempio al rapporto tra la temporalità delprocesso di policy-making ed i tempi della politica partitica, ossia alla differenza tra breve-medioperiodo dei cicli elettorali e il lungo periodo dei processi sociali di mutamento e di apprendimento.

15 Ci riferiamo cioè agli strumenti dell’analisi SWOT ed alla ricerca qualitativa svolta attraverso le interviste, i focusgroup, la ricostruzione delle policy legacies e della path dependence.

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Nelle arene di progettazione e di implementazione delle policies di sviluppo territoriale infatti,accanto alla logica di azione tecnico-amministrativa, opera la razionalità politica, le cui “immagini”del territorio, sono spesso intese «come strumenti per garantire la costruzione del consenso» (Pasqui2005, 141) e quindi potenzialmente suscettibili di riprodurre dinamiche clientelari16, collusive eparticolaristiche, (quindi obiettivi disomogenei rispetto alla logica performativa della produzione dibeni collettivi propria della visione dello sviluppo sostenibile).È in questa complessa cornice che il capitale sociale rivela la sua natura di concetto intrinsecamentecontroverso, dal momento che, tanto i suoi detrattori quanto i suoi sostenitori, ne fanno un parametrodi valutazione del successo o dell’insuccesso dei progetti di sviluppo. I primi sostenendo che lacarenza di capitale sociale in alcuni territori, ovvero, principalmente, nel Mezzogiorno, pregiudichi ledinamiche di sviluppo locale e che gli interventi di policy non sono in grado di raggiungerel’obiettivo di produrre capitale sociale “fresco”, in modo da invertire la policy legacy negativa, isecondi riaffermando invece che i dispositivi di policy e gli attori che li mettono in opera, sonopotenzialmente in grado di mobilitare, e trasformare, le risorse relazionali esistenti ai fini dell’azionecollettiva. Da questo punto di vista, una concettualizzazione del capitale sociale che ne enfatizzi lanatura situazionale e dinamica (Piselli 2001), permette di uscire dall’empasse. Tale definizione nedescrive infatti i due aspetti costitutivi, ovvero il suo essere al contempo radicato in determinatocontesto socio-istituzionale (nel quale prende forma sulla base di percorsi di riproduzionecaratterizzati dalla path-dependence), e la sua propensione al “mutamento intenzionale”, attraversol’innesco di processi di apprendimento collettivo che possono essere individuati in riferimento allastessa morfologia delle reti; ad esempio, le reti lunghe e i legami deboli definiscono una fisionomiadel capitale sociale in grado di dar vita alla cooperazione per la produzione di beni pubblici nonsottoposta alle logiche appropriative collusive e particolaristiche (Trigilia 2005 a).In questa cornice interpretativa, è possibile fare riferimento all’analisi di Trigilia (2005 a) e Donolo(2003), ai fini della valutazione del ruolo e dell’impatto del capitale sociale interveniente nei processidi policy dello sviluppo. In particolare, Trigilia fa riferimento a due diverse dinamiche di produzionedel capitale sociale, per appartenenza e per sperimentazione. La generazione del capitale sociale perappartenenza, scaturisce da reti di relazione caratterizzate da legami forti, ovvero particolarmentedensi e frequenti che, mentre assicurano una maggiore cooperazione, possono limitare leinformazioni circolanti. Emergono in questo caso rischi di “chiusura” delle reti, quando questestrutturano identità collettive condivise, di tipo etnico, religioso o politico, ma anche quando dannoforma a relazioni di più corto raggio «legate alla famiglia, alla parentela, o alla singola comunitàlocale in senso stretto» (Trigilia 2005 a, 34). In questo caso si registrano maggiori difficoltà asostenere forme di cooperazione sul piano economico17. Il meccanismo di generazione persperimentazione18 invece, si fonda principalmente sull’esistenza di legami deboli, su relazioni menointense e occasionali, suscettibili però di ripetersi, strutturando così «legami sociali che vanno al di làdella singola transazione, rendendo anche possibili cooperazioni più complesse e rischiose» (Trigilia2005 a, 35).

16 Quando si parla di clientelismo politico ci si riferisce ad un fenomeno complesso e dinamico. Semplificando alquanto itermini del problema si può dire che, considerato come strategia di raccolta del consenso politico e, in una accezione piùampia, come modalità di accesso alle risorse pubbliche ed ai beni collettivi da parte di individui e gruppi, il clientelismosi configura come una modalità di mediazione dei rapporti tra centro e periferia, tra classi sociali, tra attori istituzionali,politici e sociali, tra potere politico e cittadinanza. Su tali temi si veda Piattoni (2005).17 Lo stesso Trigilia tuttavia sostiene che esiste un potenziale di queste situazioni ai fini dello sviluppo locale: anche icontesti caratterizzati da queste strutture di rete, “possono rivelarsi idonei ad avviare percorsi di sviluppo che valorizzinole reti primarie” (Trigilia 2005 a, 35).18 Ricordiamo qui che per Trigilia il capitale sociale è una variabile cruciale nella definizione della struttura diopportunità dei diversi contesti socio-economici territoriali in ordine alla capacità di strutturazione di economie esterne,quindi della possibilità di connettersi alle reti dell’economia globale (Trigilia 2005 a).

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In questo contesto di riferimento, nella sua analisi Donolo precisa dapprima gli “indizi”, quindi gli“indicatori” della presenza del capitale sociale in un determinato contesto socio-territoriale. Così èpossibile guardare rispettivamente alla presenza/assenza di:

“antagonismi (spaccature religiose, rivalità manifeste tra famiglie/clan, affiliazioni politico-sociali in aperto antagonismo, presenza di forti squilibri nelle condizioni di vita”), o,viceversa, di “coesione sociale” intesa come “assenza di evidenti fenomeni di esclusionesociale, dropping out scolastico, emarginazione sociale, lavoro nero e lavoro minorile”;

“regolazione complessiva del contesto”, ovvero di “rispetto delle norme, rapporti fiduciaricon le istituzioni […], rispetto delle regole di convivenza, cultura dei diritti e non dei favori”o, alternativamente, di “corruzione, criminalità organizzata”;

“conoscenza sociale” intesa come “diffusione dei saperi, informazione, saper fare, capacità diapprendimento individuale e collettiva (amministrazioni che apprendono), dibattito econfronto sociale, contraddittorio secondo regole condivise”;

reputazione, ossia la “presenza di persone e giudizi autorevoli, super partes” di “modelli diriferimento condivisi”;

“progettualità ed equilibrata dialettica egoismo/altruismo”, intesa come capacità di perseguire‘egoisticamente’ i propri fini (avere fini, progetti) rispettando regole di condotta adeguate,dando fiducia e richiedendo fiducia, all’essere responsabili dei propri atti (risponderne inpubblico fornendo motivazioni e giustificazioni ragionevoli), alla capacità di impresa fondatasu skill e competenze effettive e non solo sull’accesso agli incentivi pubblici”;

“partecipazione” quale “interesse/disinteresse per le questioni collettive, informazione suifatti che riguardano la comunità, diffusione di giornali locali, qualunquismo politico,partecipazione a forme di associazionismo, self-help […];

interventi di “promozione del capitale sociale di origine istituzionale (ci sono state iniziative,programmi, attività istituzionali, che in modo diretto o indiretto mirano alla produzione dicapitale sociale)”;

“qualità sociale”, intesa come “servizi, scuole, prevenzione e cura, infrastrutture, spaziricreativi, eventi culturali, sicurezza personale, ambiente (Donolo 2003, 69-70).

Accanto alla parte diagnostica dell’analisi capitale sociale nei contesti di promozione dello sviluppo,Donolo individua una dimensione prognostica, in cui trova spazio la valenza performativa enormativa delle politiche di sviluppo socio-economico, per le quali la cura dei beni comuni e delcapitale sociale costituisce “una missione interna ed implicita” (a differenza della prospettiva dellamera crescita, nella quale non rientra il fine prioritario di riproduzione allargata del capitale socialequanto piuttosto il suo sfruttamento).Sulla base di queste premesse, alla domanda se il capitale sociale sia producibile artificialmente,ovvero se esistono politiche del capitale sociale, Donolo risponde proponendo una strategia di azionea più dimensioni. Si tratta cioè di agire sul terreno delle risorse economiche e infrastrutturali (adesempio riformando imprese già esistenti o creando imprese sociali innovative, promuovendo ilnetworking tra imprese e tra imprese e contesto locale, la cura dell’ambiente), sul terreno delleorganizzazioni e delle associazioni (ad esempio, sollecitando il passaggio da un “rapportoopportunistico tra organizzazioni del terzo settore ed autorità locali ad una relazione cooperativa-conflittuale”), sul terreno dei processi di apprendimento e della sfera pubblica (attività di conoscenzadel territorio, sul modello della ricerca-azione, promozione di tavoli negoziali e deliberativi19,networking e comunicazione sociale) (Donolo 2003, 81)

19 Altri autori mettono in luce il ruolo delle pratiche partecipative-deliberative per la costruzione della progettazione dellosviluppo. Queste infatti sono potenzialmente in grado di favorire la realizzazione della “virtù civica”, di governo,

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Consapevole della natura spesso “virtuale” del capitale sociale, del suo carattere “anfibio tra risorsaprivata e risorsa collettiva”, della sua “fragilità e delicatezza”, Donolo ribadisce la “forte componentenormativa” del capitale sociale. In questo senso esso non va considerato come un destino ma comeun’«opera», ovvero come «il prodotto del lavoro e dell’interazione, della sussistenza e dellaconversazione». La componente normativa viene dunque riferita alle relazioni fiduciarie, alle normesociali, dove è riconoscibile la dinamica delle aspettative reciproche e degli standard sociali attesi (lalogica dell’appropriatezza), ma anche ai beni comuni, ambientali e istituzionali. Nei processi disviluppo sostenibile nei quali il capitale sociale sembra essere la risorsa chiave, “nuove” e vecchieopere si intrecciano: nuove opere sono «i sentieri locali di sviluppo sostenibile» che riattivano la“valenza normativa” delle vecchie “opere ereditate”, «il sedimento che il tempo ha incorporato nellerelazioni uomo-natura e in quelle sociali» (Donolo 2003, 83).

5 - I contesti regionali e locali analizzati: analisi SWOTLa Calabria è una tra le regioni più povere d’Europa, ultima per reddito pro-capite in Italia. Solo unresidente su quattro ha un regolare posto di lavoro, a fronte del 42% della media delle regioni delcentro-nord. Il tessuto produttivo si presenta debole, atomizzato, dipendente dai trasferimentipubblici. La pervasiva presenza della ‘ndrangheta, infiltrata nei processi politici ed economici dellaregione, aggrava ulteriormente il quadro della situazione. Nonostante le consistenti risorse drenatedallo stato centrale a sostegno del sistema economico locale, quest’ultimo è rimasto relativamenteimpermeabile alle politiche di sviluppo esogeno implementate per decenni. I consistentifinanziamenti statali hanno finito con l’alimentare la spirale della dipendenza e sono risultatifunzionali allo sviluppo di una fitta rete clientelare che ha avviluppato ogni ambito d’interazione trasfera economica, politica e sociale locale. Queste problematiche, nel loro complesso, hanno avutouna rilevante incidenza sui PIT implementati a livello regionale. Nella ricerca sono stati presi inconsiderazione due diversi PIT regionali: Locride e Serre Cosentine.Locride - Il Pit 21 della Locride si estende lungo la dorsale jonica della provincia di Reggio Calabria.Coinvolge 39 diversi comuni, 20 dei quali litoranei, con una popolazione complessiva di 128.200residenti (22,7% della popolazione provinciale). Oltre il 40% dei residenti nell’area PIT è concentratanei sei comuni più densamente popolati. Nel complesso, l’area PIT negli ultimi anni ha registrato uncostante declino demografico, in parte dovuto al basso tasso di natalità, in parte al saldo migratorionegativo. Il fenomeno dell’emigrazione interessa soprattutto giovani diplomati e laureati che nontrovano una collocazione adeguata nel mercato del lavoro locale. Il declino demografico, unitamenteal fenomeno del brain-drain, costituiscono due potenti vincoli allo sviluppo dell’area.La caratteristica principale della confermazione dell’area PIT è costituita dall’ambivalenza mare-montagna. Molti comuni si estendono dalla costa, in cui sono allocati i nuovi insediamenti abitativi,all’entroterra, con i loro centri storici plurisecolari. Tale struttura duale, assunta da molti centri dellalocride, riflette una diffusa tendenza alla riallocazione della popolazione lungo la fascia litoranea. Iflussi migratori interni hanno incrementato la densità demografica e il dinamismo economico deicentri costieri accentuando, nel contempo, il contestuale declino dei comuni interni. La principale

cognitiva; in altre parole, la deliberazione promette di migliorare le risorse di fiducia e di cooperazione sociale, la qualitàe l’efficacia delle decisioni collettive, il grado di conoscenze utilizzabili “in entrata” e “in uscita” nei processi di politicapubblica. Anche sotto questo profilo, emerge la rilevanza del capitale sociale nelle arene di concertazione. In quantoconcetto situazionale e dinamico, ovvero come fattore interveniente nei processi deliberativi, il capitale sociale può essereosservato sia in relazione agli attori coinvolti ed alle reti di relazione che ne definiscono ruoli e risorse, politiche ecognitive (si pensi alle risorse di fiducia, alla disponibilità alla cooperazione, ossia al capitale sociale in entrata nellearene decisionali-deliberative), sia in relazione alle organizzazioni ed agli attori istituzionali. La dimensione simbolico-cognitiva del capitale sociale, strutturata nelle mappe cognitive19 degli attori partecipanti alle arene decisionali, siconfigura come una opportunità o un vincolo in grado cioè di favorire o di ostacolare i processi di apprendimentogenerativo (il capitale sociale in uscita) (Blasuttig 2005).

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direttrice di sviluppo si snoda parallelamente alla statale 106, un’arteria viaria che attraversa illitorale ionico e lungo la quale si è creato un denso tessuto urbano che condensa oltre 70.000residenti. Quest’area è divenuta un potente polo di attrazione per le attività commerciali, presentandoanche vantaggi da economici da agglomerazione. La morfologia del territorio ha contribuito astrutturare un’economia prevalentemente agricola e artigianale, con un limitato sviluppo del settoreturistico. Del resto, anche la limitata dotazione infrastrutturale influenza negativamente lepotenzialità di sviluppo dell’area, incidendo negativamente sulla struttura di costo delle aziende elimitandone i vantaggi localizzativi. Il sistema produttivo locale si presenta atomizzato e con fortidiseconomie di scala. Negli ultimi 20 anni le unità locali operanti nell’area hanno fatto registrare unlimitato incremento, soprattutto nel comparto edile, agroalimentare e turistico. Si tratta, tuttavia, dimicro unità produttive con un indotto occupazionale limitato. Nell’area PIT non operano aziende conpiù di 100 dipendenti. Nell’area del PIT locride il settore dei servizi presenta un notevole indottooccupazionale: oltre il 60% della popolazione attiva risulta operante in tale ambito. Si trattasoprattutto di addetti al settore pubblico, operanti nel settore dei servizi non destinati alla vendita.La struttura del mercato del lavoro locale presenta, di riflesso, notevoli ed evidenti criticità: con untasso di attività inferiore al già basso tasso medio regionale e una disoccupazione del 26%, con punteestreme che sfiorano il 45% in alcuni comuni. In parte, questi dati celano fenomeni diffusi di lavoronero o di attività illegali, in parte gli effetti sociali della disoccupazione sono compensati dallafunzione redistributiva espletata dalla struttura familiare. Tale funzione è essenziale per attenuare,almeno parzialmente, gli effetti della disoccupazione giovanile: nell’area PIT assume un valoremedio del 62%, con punte estreme superiori all’85%. Situazioni di disagio sociale evidenti chealimentano non solo l’emigrazione ma, anche, l’espansione della criminalità organizzata.Il PIT della locride interviene dunque in un’area caratterizzata da molteplici vincoli allo sviluppo, incui si possono individuare due diversi macroblocchi, con caratteristiche distinte e necessitàovviamente divergenti: il primo ingloba i comuni della fascia centrale e costiera della locride, un gruppo relativamente

omogeneo che presenta i caratteri tipici dell’agglomerazione, con discrete potenzialità disviluppo. In quest’area sono localizzate le principali strutture commerciali, imprenditoriali epubbliche operanti nell’area.

nel secondo rientrano i comuni interni, i quali sperimentano un inarrestabile declino economico edemografico.

In entrambi i contesti pesa la pervasiva incidenza della ‘ndrangheta, che innalza i costi di transazionee accresce ulteriormente l’incertezza associata alla rimuneratività degli investimenti, già piuttostoelevata dati i vincoli di contesto. Nel PIT si è cercato di capitalizzare le esperienze, nel settore dellagovernance, compiute attraverso l’implementazione del Patto Territoriale, del Programma Leader II,del PRUST e del PRU. Un analogo tentativo di istituzionalizzazione dei network relazionali e delleprassi è stato portato avanti anche nell’altro PIT regionale analizzato, quello delle Serre Cosentine.Serre Cosentine- Il PIT n. 8 delle Serre Cosentine è formato da sedici comuni e presenta unapopolazione complessiva di 156.586 abitanti. I nove comuni montuosi dell’area occupano il 60%della superficie complessiva del PIT, ma rappresentano appena il 20% dei residenti nell’area PIT. Ilnucleo centrale, sia da un punto di vista demografico che economico, è costituitodall’agglomerazione urbana sviluppatasi tra i centri di Cosenza (città capoluogo di provincia), Rendee Castrolibero. Questa conurbazione, oltre che detenere un notevole peso demografico (ingloba oltre100mila residenti) e un’elevata densità abitativa, costituisce un potente polo d’attrazione per lalocalizzazione di attività operanti nel settore commerciale e dei servizi, anche avanzati. Se neidecenni scorsi Cosenza costituiva l’unica polarità attrattiva dell’area, oggi questo ruolo è conteso daicomuni circostanti, i quali hanno creato una dimensione urbana policentrica e decentrata, emersa aseguito dei processi di ridislocazione territoriale della popolazione. L’asse Cosenza-Rende, tuttavia,

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resta il nucleo propulsivo per lo sviluppo di tutta l’area. Oltre che presentare notevoli economie daagglomerazione, il tessuto urbano detiene anche un ragguardevole stock di capitale umano, con unaconcentrazione di diplomati e laureati quasi cinque volte superiore alla media regionale. Anche icomuni minori presentano un trend in rapida crescita per quanto attiene il livello di istruzione dellapopolazione residente. Di riflesso, il mercato del lavoro locale presenta tendenze generalmentemigliori rispetto quelle riscontrabili a livello regionale e provinciale, per quanto attiene tasso dioccupazione, di attività e indice di dipendenza, sebbene la disoccupazione giovanile si attesti sulivello piuttosto elevati.Il terziario assorbe la quota maggiore di forza lavoro dell’area: oltre il 75% degli occupati risultaoperare nel settore dei servizi. Il comparto industriale assume invece una rilevanza piuttosto ridottada un punto di vista occupazionale. Mentre il manifatturiero presenta un carattere residuale,consistenti limiti strutturali e scarsa propensione all’innovazione, il comparto edile assume un ruolorilevante nell’area, ruolo riconducibile non solo alla rapida crescita urbanistica registrata nella zonanell’ultimo cinquantennio, ma anche alla diffusione di atteggiamenti clientelari che hanno alimentato,attraverso il meccanismo degli appalti pubblici, lo sviluppo di un’imprenditoria fortementedipendente dai rapporti con la politica. Il settore commerciale, i servizi e l’edilizia costituiscono, nelcomplesso, il cardine del sistema produttivo dell’area PIT. Si tratta di attività prevalentementelocalizzate nei centri popolosi dell’area e orientate ai mercati locali, caratterizzati da una domandastabile, tendenzialmente crescente. Un altro elemento che potrebbe agire da catalizzante per ilprocesso di crescita locale è costituito dalla presenza dell’Università della Calabria, attraverso lastrutturazione di un’adeguata interfaccia tra mondo imprenditoriale locale e ricerca.I dati socioeconomici evidenziano, nel complesso, la presenza di due blocchi di comuni: il primo costituito dai centri dell’area urbana, che presentano un certo dinamismo economico e

demografico, con numerose e non comuni potenzialità di crescita; il secondo è formato dai comuni della corona urbana, che mostrano forti analogie sul piano

socioeconomico.Le caratteristiche urbane rendono il primo insieme di comuni idoneo a divenire il motore primariodella mobilitazione sociale e dell’innovazione economica locale. L’attività di progettazione integratain quest’area ha potuto altresì avvalersi di consolidate esperienze nel settore dei partenariatiinteristituzionali: la maggior parte dei comuni ha preso già parte a precedenti esperienze digovernance territoriale (Patto territoriale, Patto tematico per l’agricoltura, progetto URBAN). Il PIT,dunque, avrebbe dovuto rafforzare il processo di sviluppo locale che, in nuce, appare innescato.Il contesto regionale appena analizzato si inserisce nella macroarea del Mezzogiorno d’Italia, uncontesto in cui le regioni condividono problematiche analoghe, sebbene il quadro risulti piùeterogeneo di quello che, da una prima analisi, potrebbe emergere. Ciò appare evidente svolgendouna parallela analisi sulla Basilicata, una regione che, pur contigua alla Calabria, ha intrapreso negliultimi anni un percorso di sviluppo economico ed istituzionale parzialmente differenziato.La Basilicata presenta una storia socioeconomica per lunghi tratti parallela a quella delle altre regionimeridionali, segnata da alta disoccupazione, debolezza produttiva, dipendenza dai trasferimentiesterni, scarsa cooperazione. Tuttavia, nel corso degli anni ’90, sono emersi interessanti cambiamentiche hanno introdotto elementi di discontinuità nel precedente quadro di sostanziale stagnazioneproduttiva. L’approdo nella regione di diverse aziende multinazionali (Fiat, Barilla), l’utilizzazione digiacimenti petroliferi e l’emersione di una dinamica imprenditoria autoctona capace di inserirsi neimercati internazionali avevano fatto sperare in un definitivo decollo economico della Basilicata.Tuttavia, negli ultimi anni, queste strutture produttive sono entrate in crisi. L’incremento dellacompetizione internazionale, la mancata creazione di un sistema imprenditoriale territorialmenteintegrato e la scarsa propensione all’innovazione hanno ridimensionato le aspirazioni industriali dellaBasilicata. Nonostante tali problematiche, e la crisi di legittimazione che ha investito la classe

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politica locale a seguito delle inchieste per corruzione, la situazione generale della regione si presentacomplessivamente migliore rispetto quella riscontrabile in Calabria. L’assenza di una criminalitàorganizzata strutturata, una relativa efficienza burocratica e un tessuto imprenditoriale discretamentedenso rappresentano elementi che offrono una buona base per il consolidamento dei fermenti emersi.In tale assetto socioeconomico ed istituzionale sono stati sviluppati ed implementati i due PITregionali oggetto di studio: quello dell’Alto Basento e del Metapontino.Alto Basento - Il PIT Alto Basento include sedici comuni in un’area di notevole pregio naturalistico,ricca di zone boschive ed agricole che si susseguono su un territorio per il 96% collinare e montuoso.Nell’area PIT sono presenti due riserve naturali, un parco regionale, diversi siti archeologici e unparco tematico. Data la conformazione morfologica del territorio, la densità abitativa è molto ridotta(44 ab/kmq). I residenti raggiungono appena le 44mila unità. Dodici dei sedici comuni del PIT hannomeno di 3.000 residenti. Al basso livello di urbanizzazione della popolazione sono ovviamenteassociate diseconomie connesse al sub-dimensionamento del mercato locale. L’area ha comunquebeneficiato delle esternalità positive connesse allo sviluppo socioeconomico della vicina cittàcapoluogo, Potenza. Oltre a una popolazione ridotta e territorialmente dispersa la zona presenta unindice di dipendenza decisamente elevato. L’area risente sia dell’invecchiamento della popolazione,sia di consistenti flussi migratori, composti prevalentemente da giovani in cerca di miglioriopportunità occupazionali nei centro urbani e nelle aree ad alta densità industriale. Nel complesso,invecchiamento della popolazione ed emigrazione creano un vincolo demografico allo sviluppo. Tra iresidenti vi è una percentuale di diplomati e laureati inferiore alla media provinciale e regionale. Sulfronte del mercato del lavoro, invece, nel contesto locale non sono presenti criticità di rilievo.Sussiste una discreta concentrazione degli occupati nel comparto agricolo, specie nei centri minori, incui l’agricoltura è praticata con sistemi tradizionali e segnata da carenze organizzative per quantoattiene la trasformazione, la promozione e la commercializzazione delle produzioni. Nell’area PITnon operano realtà industriali di rilievo. Tale settore si presenta debole nei comuni più piccoli, contrascurabili indotti occupazionali. Le unità locali più ampie trovano collocazione nei comuni del PITsituati lungo l’asse produttivo Potenza-Melfi, un contesto che presenta una trama imprenditorialediscretamente densa. Nel complesso, le aziende operanti nel settore industriale appaionosubdimensionate (3 addetti per impresa, contro le 5,4 della media regionale), polverizzate efocalizzate su segmenti tradizionali di attività (alimentare, abbigliamento, lavorazione del legno). Lediseconomie connesse alle ridotte dimensioni di scala delle unità locali non sono compensate daprocessi d’integrazione territoriale delle attività produttive, integrazione frenata dalla scarsa aperturaalle relazioni cooperative tra gli operatori locali. L’espansione aziendale è altresì inibita dalledifficoltà d’accesso al credito, problematica che rallenta l’aumento dello stock degli investimenti suscala locale. Rilevanti investimenti sarebbero necessari per favorire una complessiva ristrutturazionee modernizzazione dell’apparato produttivo locale, innovazioni essenziali per superare le criticitàcorrenti. Nel complesso, sia sul piano demografico che produttivo i differenziali tra i comuninell’area sono piuttosto limitati. Sussistono ovviamente situazioni di scarso dinamismo demograficoe debolezza produttiva, compensate da altre realtà in controtendenza o segnate in misura minore daprocessi di declino. L’area è inoltre priva di problemi sociali rilevanti o di una criminalità checontrolla il territorio in modo capillare.Il punto di forza dell’area è costituito dalle risorse ambientali facilmente fruibili grazie allafavorevole collocazione geografica dell’ambito in questione, situato al crocevia delle principalidirettrici regionali. Allo stato attuale, tuttavia, le risorse turistico-culturali risultavano caratterizzateda un’integrazione molto ridotta. Nel settore turistico non esisteva alcuna filiera e mancavano azionidi marketing territoriale finalizzate ad intercettare flussi esogeni. Il PIT è intervenuto dunque in uncontesto ricco di luce ed ombre, impiegando il medesimo partenariato del programma Leader II,Leader + e del Piano di sviluppo socioeconomico. Nel suo complesso il PIT Alto Basento presenta

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caratteristiche per certi versi speculari a quelle dell’altro PIT regionale analizzato: il PITMetapontino.Metapotino - L’area del PIT Metapontino si sviluppa lungo la fascia costiera della Basilicata, un’areasoggetta un a lento e progressivo sviluppo economico basato su due settori trainanti: il turismo el’agricoltura. I dodici comuni che lo costituiscono aggregano una popolazione di quasi 90milaresidenti (il 44% della popolazione provinciale) con una densità media di 85 ab/kmq. Il 60% dellapopolazione dell’area PIT è concentrata nei tre comuni più grandi, mentre i restanti nove comuniinglobano appena il 40% dei residenti. A differenza di quelli situati sul litorale, i comuni internipresentano problemi di spopolamento, invecchiamento della popolazione e elevati indici didipendenza. La polarizzazione tra i comuni costieri ed interni ha creato due macroaree ben distinte.Tale cesura economica e demografica si è tradotta in una frattura anche istituzionale. Le divergentiproblematiche che interessano i due blocchi si sono tradotte in obiettivi diversificati, che hannoimpedito l’instaurazione di un dialogo diretto tra i rappresentanti istituzionali.L’area PIT presenta una concentrazione di laureati e diplomati inferiore alla media regionale enazionale. Anche il mercato del lavoro presenta una situazione leggermente peggiore di quellamediamente riscontrabile in Basilicata, con una percentuale di disoccupati superiore alla mediaregionale. La vocazione agricola dell’area si rispecchia sulla struttura occupazionale delMetapontino, nella quale spicca una notevole percentuale di addetti al settore primario, un livellodoppio rispetto lo standard regionale, con punte del 40% in alcuni comuni. Anche le aziende operantinel comparto agricolo hanno fatto registrare, negli ultimi anni, una relativa crescita. Si tratta diun’agricoltura di qualità, che tuttavia risente della competizione dei prodotti a basso costoprovenienti da altri paesi. A fare da contrappeso all’espansione del comparto agricolo, che si presentarelativamente modernizzato ed inserito nei circuiti internazionali, ha contribuito una notevoleriduzione degli addetti al settore industriale, pari ad oltre 1/3 del totale degli addetti, registrata apartire dagli anni ‘90. Le attività industriali si addensano prevalentemente nel distretto di Pisticci, con2.250 addetti alle attività manifatturiere nel settore chimico, alimentare e tessile. In tale contesto sicondensa il 50% degli addetti al settore industriale dell’area PIT. L’esito netto dei due paralleliprocessi di espansione e contrazione settoriale ha inciso comunque negativamente sul quadrooccupazionale locale, nonostante la crescita contestualmente registrata anche nel comparto deiservizi. Quest’ultimo settore ha beneficiato della dilatazione dell’offerta turistica. La creazione dinuove strutture recettive o commerciali e la riqualificazione di quelle esistenti ha contribuito adiversificare l’offerta, con l’obiettivo di captare flussi turistici più ampi, superando anche il vincolodella stagionalizzazione. L’area, trovandosi al centro delle direttrici turistiche regionali, si configuracome un potenziale polo di attrazione per i flussi internazionali in transito (specie diretti a Matera,città dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco), un elemento che potrebbe ulteriormenteamplificare la rilevanza del settore turistico nell’economia locale.

6 - Le linee d’intervento individuate nei quattro PIT analizzatiLocride. Il PIT della Locride individua, nelle sue linee programmatiche prioritarie, il sostegno e lavalorizzazione delle risorse turistiche, culturali ed umane presenti nel contesto locale mobilitateattraverso investimenti per un ammontare complessivo di 39.600.000 €. Il percorso di formazione delPIT ha preso avvio nell’aprile 2002, con il conferimento dell’incarico di assistenza tecnica a LocrideSviluppo, un’agenzia di sviluppo locale nata col Patto Territoriale. L’accordo di programma con laregione è stato sottoscritto solo tre anni dopo, nell’aprile 2005. Il percorso di definizione degliinterventi è risultato piuttosto lungo, in parte per la difficoltà di coordinare l’azione della numerosastruttura decisionale (composta da 39 comuni più altrettanti rappresentanti d’aziende, organizzazioni,sindacati e associazioni partecipanti al PIT), in parte per le difficoltà connesse all’applicazione dellacomplessa normativa comunitaria. In tal senso, molti intervistati hanno sottolineato il ruolo

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deficitario espletato dalle autorità regionali nell’azione di supporto alle strutture locali del PIT.L’azione frenante delle Regione è emersa anche in sede di implementazione degli interventi, per lalentezza nell’erogazione delle risorse. Anche a seguito di questi rallentamenti, la realizzazione deiprogetti si è protratta fino al 2009.L’assenza di una governance verticale, di un sostanziale raccordo tra autorità operanti su diversilivelli più alti di governo, ha contribuito in misura determinante a rallentare il percorso attuativo deiPIT. La funzione di regolazione dei livelli superiore di governo è essenziale anche per migliorare laqualità progettuale, evitando la polverizzazione delle risorse in micro-interventi sparsi sui territori epoco idonei a promuovere lo sviluppo. Afferma in tal senso un intervistato: «sul territoriol’integrazione progettuale è difficile da ottenere, perché ogni amministratore cerca di dare risposteimmediate, anche se minime, alle esigenze del suo corpo elettorale. Con i 39 milioni di € del PITsono state date 39 risposte diverse al problema dello sviluppo, una per ogni comune. Se la Regioneavesse svolto una preliminare azione di programmazione strategica, individuando le priorità e lepotenzialità di ogni contesto, queste politiche di sviluppo sarebbero state più efficaci, perché lerisorse non sarebbero state disperse»20. I contesti territoriali che non riescono a generare per viaendogena di processi di crescita auto-sostenuta (necessitando pertanto di politiche di sviluppo come iPIT) per loro stessa natura deficitano nella capacità di regolazione dei processi e difficilmentedetengono lo stock di risorse cognitive e relazionali essenziali per implementare autonomamenteefficaci azioni di governance. Per questo risulta essenziale il sostegno alle interazioni che siinnescano tra gli attori locali da parte delle strutture di governo superiori, per guidare i decision-makers alla realizzazione di una buona governance: «ci vuole un intervento esterno, nonnecessariamente coercitivo, ma che abbia la forza di coordinare i processi locali»21. Tale ruolo èessenziale specie in contesti privi di precedenti esperienze nel campo della governance, per espletareuna necessaria azione propedeutica.Nel PIT Locride il ruolo centrale, nel processo di definizione degli interventi, è stato espletato daisindaci, mentre il ruolo del partenariato socioeconomico (composto da associazioni, aziende,organizzazioni locali) è stato sostanzialmente marginale. La politica ha semplicemente limitatol’attivo coinvolgimento della società civile nel processo decisionale, inibendo lo sviluppo di una realeazione di governance territoriale. Ciò ha inibito la crescita dello stock di capitale sociale, facendoemergere dei legami forti tra gli attori politici, legami che hanno agito da barriera alla partecipazioneesterna e favorito l’emergere di dinamiche collusive tra gli stessi, frenando il dispiegarsi deipotenziali processi di cambiamento connessi all’attuazione della governance. L’inclusione dellasocietà civile nei processi decisionali, in un contesto come il Sud d’Italia, risulta piuttostoproblematica, a causa della contestuale debolezza degli attori socioeconomici locali edell’atteggiamento autoreferenziale della politica. Anche tale deficit potrebbe essere arginatoattraverso un adeguato accompagnamento esterno all’attività di governance, indispensabile pertrasmettere nuove mappe cognitive e favorire l’affermazione di nuove prassi gestionali su scalalocale. L’innovazione quasi mai è una scelta consapevole, il più delle volte è frutto di shock esogeniche i soggetti, operanti su scala locale, sono costretti ad assimilare, non senza resistenza. La rilevanzadella sostegno top-down per l’affermazione di processi e scelte innovative, nelle politiche basatesulla governance, traspare chiaramente anche nell’esperienza del PIT Serre Cosentine.Serre Cosentine - Nella definizione dell’impianto progettuale la determinazione del presidente delPIT è stata fondamentale per l’approvazione di finanziamenti volti a favorire la promozione di spin-off e incentivare il trasferimento tecnologico tra università ed imprese. Dei 36.477.295 €complessivamente stanziati nel PIT, all’incirca 15 milioni di € sono stati destinati a sostegnodell’innovazione e dei processi diffusivi della ricerca universitaria. La restante quota, invece, è stata

20 Intervista al segretario provinciale della CISL di Reggio Calabria.21 Intervista a un ex senatore, ex sindaco di Roccella Ionica.

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impiegata per finanziare interventi di tipo tradizionale, volti essenzialmente alla realizzazione diopere infrastrutturali nei singoli comuni secondo le richieste dei singoli sindaci. L’approccioverticistico usato per la definizione della prima categoria d’interventi ha, di fatto, limitato lacompartecipazione e la democraticità delle scelte, sebbene abbia consentito di ottenere una soluzioneprogettuale fortemente orientata all’innovazione. Viceversa, gli interventi adottati attraverso unapproccio partecipato (riscontrato in altri PIT analizzati) hanno prodotto coalizioni collusive orientatead una sostanziale equidistribuzione delle risorse, poco indirizzate all’innovazione, maggiormenteinclini a produrre lavori pubblici che i tagli ai bilanci delle amministrazioni locali non consentono difinanziare diversamente. Tendono, in altri termini, a dare risposte ordinarie al problema dellosviluppo, cercando di fronteggiare le pressanti situazioni di emergenza quotidiana che gliamministratori di queste aree si trovano a dovere affrontare. Eppure le politiche di sviluppo basatesulla governance avrebbero dovuto rappresentare un momento di rottura nelle prassi consolidate efavorire l’innesco di processi d’innovazione sia progettuale che istituzionale. L’origine della scarsapropensione all’innovazione e della dispersione delle risorse in microprogetti (privi di una realecapacità di promuovere lo sviluppo) va rintracciata nella frammentazione delle esigenze e dellepreferenze di cui gli amministratori locali sono portatori. Una condizione superabile attraverso un“atto di forza” minoritario ed intenzionale (Wolleb 2005), difficilmente compatibile con lo spiritodel processo concertativo che anima lo sviluppo locale. Nel contesto analizzato “l’atto di forza” c’èstato, sebbene l’introduzione quasi forzata delle politiche di sostegno ai processi di spillover dellaricerca universitaria non sia mai stata pienamente condivisa dai partecipanti al processo decisionale (isindaci dell’area PIT) e abbia contribuito a diffondere, tra gli stessi, la percezione di una limitatacapacità di incidere sui processi decisionali. Di fatto, la lentezza nell’implementazione di tale insiemed’interventi ha lasciato piuttosto indifferenti i politici locali, a differenza di quanto avvenuto per iritardi nelle realizzazioni a carattere infrastrutturale. Affinché l’innovazione realmente s’inneschi, iltop-down deve coniugarsi con il bottom-up: se i processi inclusivi raramente generano l’emersione diprogetti innovativi, le decisioni imposte per via esogena, per quanto innovative, difficilmente sarannocorrettamente implementate, in assenza di una condivisione di tali visioni progettuali tra ipartecipanti al processo decisionale. La partecipazione è condizione necessaria ma non sufficiente perl’implementazione di politiche efficaci: gli organi che guidano i processi dovrebbero costantementeorientare i partecipanti all’assunzione di decisioni di qualità e, soprattutto, fare condividere le finalitàdell’azione di governance anche nel momento in cui sono costretti a riallineare o trasformare lepreferenze di cui i partecipanti sono portatori per innalzare la qualità decisionale.In aggiunta a ciò, nel contesto analizzato la lentezza nella realizzazione degli interventi previsti hacontribuito a diffondere sfiducia e diffidenza, tra gli operatori locali che avevano preso parteall’attività di progettazione integrata, verso i processi inclusivi, riducendone la propensione allapartecipazione a future azioni di governance territoriale. Lentezze ricondotte, anche tra i partecipantial PIT Serre Cosentine, alle inefficienze della macchina burocratica regionale, che ha depotenziatol’impatto che tali politiche avrebbero potuto avere: «un intervento come il PIT, se la realizzazione èdilatata troppo nel tempo, inevitabilmente non determina gli effetti che potenzialmente avrebbepotuto stimolare»22. La sfiducia derivante da queste esperienze negative ridimensiona il capitalesociale generato dall’esperienza di progettazione integrata, inibendo lo sviluppo di ulterioriesperienze sinergiche su scala locale.I partecipanti alle due esperienze di progettazione integrata analizzate in Calabria hanno messoessenzialmente in evidenza, nelle loro rappresentazioni, non solo la necessità che le decisioni relativealle politiche di sviluppo siano delegate ai territori, assunte dai soggetti che meglio conoscono lerealtà in questione, ma anche l’importanza che la partecipazione sia adeguatamente sostenuta e

22 Intervista a un sindaco.

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orientata dalle strutture di guida al processo e da livelli superiori di governo. L’azione di stimolo diquesti livelli è essenziale per attivare e consolidare, a livello locale, il capitale sociale esistente etrasmettere i frames cognitivi essenziali per la realizzazione di una buona governance. Anche nei casidi studio analizzati in Basilicata sono emerse analoghe indicazioni, sia per quanto attiene il rapportotra partecipazione ed innovazione, sia per quanto riguarda la necessità di un adeguato sostegno top-down all’attività di concertazione.Alto Basento - Il contesto dell’Alto Basento detiene un’esperienza pluriennale nel settore dellagovernance, maturata con l’implementazione di politiche in cui gli amministratori locali hanno avutoun ruolo preminente sui soggetti socioeconomici e le cui dinamiche dominanti sono risultate orientateal localismo. Nonostante l’esperienza consolidata nel campo delle policy basate sulla governance, laRegione Basilicata ha mantenuto un ruolo di alto profilo, un ruolo forte che ha compresso la gestioneautonoma dei processi ha livello locale. Questo atteggiamento verticistico ha suscitato critiche tra gliamministratori dell’Alto Basento che, nelle interviste, hanno posto in rilievo la necessità di ampliaregli spazi di autonomia gestionale per responsabilizzare i territori e renderli compartecipi dei risultaticonseguiti attraverso le azioni localmente dispiegate. Sussistono tuttavia evidenti limiti nella capacitàdi regolazione locale, limiti che si sono estrinsecati nelle difficoltà di gestione emerse nel PIT,soprattutto nelle fasi iniziali. Il ruolo di guida della Regione, nella fase di start-up del processo, èstato determinante per accelerare i tempi e superare le incertezze connesse all’attuazione dellacomplessa normativa comunitaria. Quest’azione di fluidificazione dei processi da parte delle autoritàregionali è ampiamente riconosciuta dai soggetti locali intervistati.A comprimere ulteriormente gli spazi preposti alla partecipazione dei soggetti locali ha contribuitoanche l’azione del Project Manager, al quale si deve la definizione dell’impianto progettuale basatosulla valorizzazione del patrimonio naturalistico e storico-culturale dell’area attraverso larealizzazione di una serie di attrazioni sparse sul territorio. Queste vanno ad ampliare l’offerta giàesistente nell’ambito del parco storico-rurale operante da oltre otto anni e finanziato col precedenteprogramma LEADER, curato dal medesimo Project Manager. Quest’ultimo «è stato l’ideatore e ilrealizzatore del Parco della Grancia, ha redatto il piano di sviluppo socioeconomico. Ha avuto unruolo forte, secondo solo a quello della Regione»23. Nel complesso, dunque, «Il PIT ha avuto unaconcezione tutto sommato verticistica»24: se da un lato ciò ha consentito di concentrare le risorse (20milioni di €) sullo sviluppo di un sistema integrato di offerta turistica, raccordando tali investimenticon le precedenti iniziative, dall’altro l’approccio seguito ha limitato il ruolo degli attori locali. Alivello locale traspare chiaramente una elevata domanda di partecipazione ai processi, domanda cherimane spesso insoddisfatta. Questa spinta all’interazione istituzionale è in parte riconducibile alriconoscimento che «la micro-dimensione non funziona, occorre sviluppare macro-aggregazioni perpromuovere la crescita dei territori»25. D’altro canto, dietro queste aperture spesso si celano necessitàoperative: i sindaci sono spinti fuori dalle rispettive sedi istituzionali e all’interazione con i lorocolleghi, operanti nella medesima area, soprattutto dalle ristrettezze finanziarie in cui versano irispettivi enti. Questo aspetto è talvolta riconosciuto chiaramente dagli stessi sindaci: «I tavoli diconcertazione sono visti come dei veicoli per captare risorse per realizzare opere pubbliche neisingoli comuni. Una volta individuato un intervento infrastrutturale che interessa una singolacomunità nessuno si pone il problema di capire se questo può essere funzionale o meno allo sviluppoe di inserirlo in un sistema complementare di interventi capaci di dare attuazione a un’idea disviluppo»26. Le strutture preposte alla regolazione dei processi potrebbero tuttavia correggere talispinte localistiche, contribuendo all’affermazione di nuove logiche cooperative. Quella localistica,

23 Intervista a un sindaco.24 Intervista a un sindaco.25 Intervista a un sindaco.26 Intervista a un sindaco.

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secondo alcuni, «è una logica che si sta cercando progressivamente di superare. Oggi vi è una classedirigente sensibile alla concertazione, all’aggregazione di sinergie per conseguire risultati importanti.Soltanto condividendo gli obiettivi e agendo in modo sinergico si possono conseguire risultatipositivi»27. Il superamento degli atteggiamenti localistici, per quanto lentamente, sembra avvertitocome un’esigenza prioritaria tra gli attori locali, sebbene non si traduca ancora in una auto-correzionedegli stessi. La prevalenza di tali dinamiche è particolarmente visibile nell’impianto progettuale delPIT Metapontino, nel quale l’ampia incisività che le preferenze espresse dagli amministratori localiha avuto sulla definizione degli interventi ha finito col promuovere un progetto frammentato, inmancanza di un’adeguata regolazione da parte delle strutture tecniche del PIT.PIT Metapontino - «Le risorse sono state polverizzate per accontentare un po’ tutti. C’è una difficoltàoggettiva nella concertazione: ogni sindaco pretende qualcosa per il proprio comune. Questatendenza produce frammentazione negli interventi, per cui è difficile sviluppare un progettorealmente integrato»28. Spetterebbe al leader istituzionale (Barbera 2001) che guida il processoattenuare l’antinomia che sussiste tra le frammentate e divergenti preferenze individuali, di cui ipartecipanti sono portatori, e la necessità di adottare scelte economicamente efficaci. Nell’ambito delPIT Metapontino sono stati compiuti solo sforzi blandi in tal senso. È così emersa una strutturaprogettuale che ruota genericamente intorno alla valorizzazione della risorsa turistica, distribuendofinanziamenti per oltre 25 milioni di € in modo sostanzialmente paritetico per la realizzazione diinterventi ordinari e circoscritti orientati al recupero dei centri storici o la valorizzazione della fasciacostiera. «Cambiare la mentalità è sempre difficile, c’è sempre un po’ di campanilismo. Ogni sindacosi è quasi sentito in dovere di portare interventi nel proprio comune. La tendenza di fare interventislegati tra loro permane, pur nel rispetto formale delle linee guida dei PIT»29. Gli interventi sono statisostanzialmente selezionati senza alcuna attenzione alla valorizzazione delle reali potenzialitàendogene e senza concentrare le risorse nei contesti territoriali o settoriali più dinamici, in cui eranoin atto i fermenti di sviluppo più promettenti. Il PIT Metapontino risulta carente anche per quantoattiene il partenariato (bassa integrazione tra attori pubblici e privati), oltre che sul frontedell’integrazione progettuale e della concertazione. Come negli altri casi di studio analizzati, non si èrealizzato un coinvolgimento diretto degli attori afferenti alla compagine socioeconomica nell’attivitàdi progettazione integrata. Questi, pur formalmente inclusi nei partenariati locali, hanno avuto unruolo del tutto formale, privo di un impatto concreto sulle dinamiche decisionale. Anche nelMetapontino, pertanto, le potenziali ricadute associate alla crescita della dotazione di capitale socialesono state ridimensionate dall’autoreferenzialità della classe politica. Nel contesto locale il bassolivello di istituzionalizzazione delle organizzazioni, unitamente alla scarsa apertura delle dense retipolitiche, rendono complessivamente marginale l’apporto della sfera socioeconomica all’attività digovernance territoriale. «La scarsa partecipazione degli attori sociali locali và imputata anche allenostre resistenze. I politici vedono questa partecipazione come un’invasione di campo. Dall’altraparte ci sono associazioni fragili»30. La concomitante incidenza di queste due dinamiche costituisceun vincolo all’attivazione di percorsi di innovazione amministrativa ed istituzionale su scala locale.Le strutture di governance, precluse alla partecipazione della società civile, risultano inidonee amobilitare volumi di risorse, materiali e cognitive, idonei a generare una massa criticasufficientemente ampia per innescare lo sviluppo locale. Il circolo virtuoso, basato sul feedback,sulle reti e su una partecipazione a tutti i livelli, secondo tanto indicato nel Libro bianco sullagovernance europea, che avrebbe dovuto sostituire il modello top-down di regolazione delle politichepubbliche, non ha sostanzialmente trovato applicazione in nessuna delle esperienze analizzate. La

27 Intervista a un sindaco.28 Intervista a un sindaco.29 Intervista a un sindaco.30 Intervista a un sindaco.

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struttura decisionale, scaturita dall’attività di progettazione integrata, non ha dato attuazione allagovernance, ma ha semplicemente prodotto una “cabina di regia” sovra-comunale composta dasindaci e supportata dalle strutture locali dei PIT. I poteri di coordinamento, gestione e monitoraggioconferiti a questi organi dalla legislazione nazionale sono rimasti piuttosto latenti nell’ambito del PITMetapontino. «C’è stata una chiara frammentazione negli investimenti che non sono integrati tra loro.Si era pensato di fare itinerari turistici che collegassero i vari comuni dell’area, ma poi questa ideaprogettuale è stata abbandonata. L’ideale sarebbe sviluppare progetti che interessassero tutti icomuni. Ma questo potrebbe farlo soltanto qualcuno che sta al di sopra delle parti»31.

7 - Capitale sociale e progettazione integrataLo shock esogeno indotto dall’attività di governance su scala comprensoriale ha spinto gliamministratori e gli attori locali fuori dalle rispettive sedi istituzionali, riunendoli nella medesimastruttura decisionale, con poteri essenzialmente paritetici e accumunati da obiettivi condivisi. Taleinnovazione nella cultura amministrativa ha gettato le basi per la creazione di nuove dinamicherelazionali su scala locale. Un processo inclusivo è infatti rilevante anche per i beni relazionali cheriesce a produrre, risorse che continuano a generare esternalità positive anche quando il processodecisionale sarà concluso. In contesti locali caratterizzati da un tessuto fiduciario endemicamentedebole, porre un soggetto all’interno di una rete in cui si intrecciano fitte relazioni determina unariformulazione delle valutazioni individuali di costi e benefici associati alla cooperazione. Questicambiamenti nei frames dei singoli operatori locali possono potenzialmente innescare processi più omeno estesi d’innovazione istituzionale, se raggiungono un’adeguata massa critica, con importantieffetti in termini di mutamento sistemico.Innescare percorsi di innovazione “dal basso” presenta, ovviamente, notevoli difficoltà pratiche,specie in ambiti tradizionalmente dipendenti dagli interventi esogeni e poco propensi all’azioneautonoma. In tal senso, i componenti delle strutture tecniche dei PIT intervistati hanno sottolineato leenormi difficoltà riscontrate nel processo di coinvolgimento degli attori socioeconomici locali, spessoreticenti alla partecipazione. «La prima difficoltà era quella della credibilità, era il problema direndere credibile un’opportunità»32. I tanti insuccessi riportati negli interventi pubblici implementatisu scala locale, hanno concorso a determinare una sfiducia generalizzata verso ogni politica disviluppo, strutturando una sindrome da fallimento path-dependent che, allo stato attuale, rende lasocietà civile locale poco propensa alla partecipazione. «La difficoltà che noi abbiamo avuto, con glistessi imprenditori, è che i soldi c’erano e, nonostante noi li rassicurassimo su questo, finchè non sisono visti i risultati c’era diffidenza. Una diffidenza non immotivata, ma legata alle esperienze delpassato, ai fallimenti della Legge 64 e di tutte le precedenti modalità di finanziamento pubblico.Tutto ciò aveva creato sfiducia sul territorio»33.In aggiunta alla fracasomania (Hirschman 1988), che avviluppa ampi strati della società civilemeridionale, l’azione collettiva stimolata dall’attività di progettazione integrata è stata inficiata dauna serie di difficoltà che, complessivamente, hanno ridimensionato considerevolmente le potenzialiricadute sul territorio di questi strumenti di sviluppo. Anzitutto, le strutture decisionali sono statemonopolizzate dai sindaci dei comuni partecipanti ai PIT. I legami forti presenti tra gliamministratori locali hanno operato da barriera all’inclusività e all’estensione della partecipazione adaltre sfere della società civile. Ciò ha limitato i processi di apprendimento sociale che l’azione digovernance territoriale avrebbe potuto e dovuto stimolare per modificare la matrice delleconvenienze e i frames consolidati tra i soggetti locali. Elementi che, nella loro interazione,circoscrivono radicalmente il potenziale di sviluppo di vaste aree del Mezzogiorno. La prevalenza di

31 Intervista a un tecnico comunale.32 Intervista ad consigliere regionale della Calabria ed ex sindacalista.33 Intervista ad un dirigente di Locride Sviluppo.

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capitale sociale bonding ha arginato la partecipazione, risultando funzionale e strumentale alla difesadelle consolidate rendite di posizione da parte dei soggetti politici locali. Questi hannomonopolizzato le strutture decisionali facendo prevalere un modello decisionale basato sullanegoziazione piuttosto che sulla deliberazione. Le dinamiche proprie del log-rolling (Tullock 1984),il reciproco accomodamento tra la preferenze di cui ciascun soggetto è portatore, ha trasformatol’attività decisionale in un processo di automatica conversione delle preferenze individuali in sceltesociali. Le diversificate e frammentate preferenze progettuali individuali, di cui i singoli sindacierano portatori, sono semplicemente recepite e aggregate dalle strutture di goverance, senza esserepreventivamente trasformate attraverso un processo dialogico-deliberativo. Ciò ha determinatoun’elevata disconnessione sul piano degli interventi finanziati. I singoli PIT sono divenuti lasommatoria di microinterventi dispersi sui territori di portata circoscritta, privi di un reale impattoeconomico e, soprattutto, non raccordati ad una visione unitaria e coerente dello sviluppo dell’area.In altri termini, gli atteggiamenti collusivi emersi tra i partecipanti ai processi decisionali hannodeterminato un’equidistribuzione delle risorse disponibili, una dispersione spaziale degli interventi e(talvolta) una concentrazione temporale degli stessi, in linea con le esigenze del ciclo elettorale.Ciascun sindaco ha cercato di attrarre sul proprio territorio interventi a carattere infrastrutturale,immediatamente realizzabili e spendibili sul piano elettorale, funzionali talvolta al superamento divere e proprie emergenze presenti sui territori che il taglio ai trasferimenti a favore degli enti localinon consente di fronteggiare diversamente. Ma ben distanti dalla necessità, ampiamente enfatizzatanel Piano Comunitario di Sostegno, di concentrare le risorse stanziate dai PIT nelle aree in cui eranoin atto i fermenti più promettenti di sviluppo, per sostenere e potenziare i processi in atto. Il divariotra le linee programmatiche dell’Unione Europea e l’attuazione concreta data a livello territorialesono evidenti. Tale problema di agenzia potrebbe essere superato introducendo meccanismi divalutazione dei progetti, capaci di premiare gli ambiti territoriali in cui sono stati implementati iprogetti più impattanti in termini di sviluppo economico. In assenza di meccanismi di controllo o dipremialità, capaci di modificare le matrici delle convenienze e dei rendimenti attesi dei decisionmakers locali, delegare ai territori il potere decisionale può determinare un rafforzamento deimeccanismi localistici, una parcellizzazione delle risorse e una evidente sconnessione tra idea-forza einterventi concretamente finanziati.Nei contesti in cui l’integrazione progettuale è risultata maggiore, il risultato è stato raggiunto grazieall’azione di stimolo di un leader istituzionale che ha quasi imposto una visione progettuale organica,come nel caso del PIT Alto Basento e Serre cosentine. Tuttavia, il livello di soddisfazione che siriscontra tra i partecipanti all’esperienza progettuale, in questi casi, è inferiore rispetto ai contesti incui l’impianto progettuale è più disorganico, ma la definizione dello stesso è risultata più partecipata.Anche laddove le strutture di governance sono state stabilizzate, come nel PIT Locride, ciò non hacontribuito a migliorare l’integrazione progettuale o ad ampliare l’orizzonte temporale delle scelte.Attraverso la stabilizzazione delle strutture di cooperazione gli attori inclusi nel network sicostruiscono progressivamente una reputazione (che produce rilevanti esternalità positive, riducendoi costi di transazione e l’asimmetria informativa), accrescono il capitale relazionale localmentedisponibile e, soprattutto, proiettano le rispettive valutazioni costi/benefici associati alle interazionistrategiche su un orizzonte temporale ampio. Le negoziazioni multilaterali indotte dalla governance,nel loro complesso, inoculano nel tessuto locale forme embrionali di comportamenti cooperativi che,se adeguatamente supportate, possono radicalmente ridefinire la struttura degli incentivi operanti sulterritorio e le dinamiche relazionali in esso presenti.Laddove le reti relazionali risultano carenti, le interazioni necessitano di validi incentivi volti alimitare l’incidenza di atteggiamenti opportunistici. Diversamente, gli attori forti dei PIT sarannoindotti ad incassare guadagni immediati, con logiche predatorie di breve periodo, senza tener contodei benefici generali di una cooperazione stabile nel lungo periodo.

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In assenza di una preliminare azione di stimolo alla deliberazione, volta a stimolare unatrasformazione delle preferenze degli stakeholders, in genere il processo decisionale procede peraggregazione delle preferenze, con evidenti problemi di disorganicità delle scelte. Le reti relazionaliche si creano o consolidano nelle strutture di governance finiscono col preservare le rendite diposizione esistenti piuttosto che generare meccanismi di apprendimento capaci di inoculare, nelcontesto locale, nuove prassi operative e gestionali. Pertanto queste reti necessitano di un efficacegoverno e di un controllo esterno (learning by monitoring) volte a stimolare l’introduzione didiscontinuità nella gestione del problema dello sviluppo.I PIT hanno lasciato sui territori di implementazione molte opere pubbliche di portata limitata e nonraccordate da alcuna visione organica d’intervento. Le risorse finanziarie non sono state canalizzateverso la produzione di beni pubblici o di beni collettivi locali per la competitività propedeutici allosviluppo. Le strutture di coordinamento dei PIT si sono limitate a recepire le richieste dei singolipartecipanti, anziché riallinearle intorno a un progetto condiviso, strutturando in tal modo unimpianto progettuale ben poco integrato, riflesso della sommatoria disorganica delle richiestelocalistiche dei singoli sindaci. Come afferma un intervistato: «pochi decisori, illuminati, possonoforse conseguire scelte di sviluppo, ma non la democrazia. Molti soggetti, non illuminati, “normali”(quelli che la democrazia generalmente produce), non sono quasi mai capaci di accordarsi e didisegnare politiche di sviluppo, ma solo di ripartirsi, più o meno equamente, le risorse. Nellaprogrammazione dal basso è molto difficile trovare elementi di grande innovatività, di sfida»34.La spinta principale alla cooperazione è stata generata più dalla necessità di intercettare risorsepubbliche, dando luogo a dinamiche collusive e distributive, che dalla volontà di porre in essere unastrategia razionalmente orientata a promuovere lo sviluppo dell’area. Del resto, difficilmente laprogettazione di questi interventi avviene in contesti locali ricchi di capacità progettuale e diesperienze pregresse di cooperazione capaci d’influenzare positivamente le aspettative degli attoricirca l’altrui propensione alla cooperazione. I territori in ritardo di sviluppo, per loro stessa natura,sono caratterizzati da una struttura di incentivi che spinge alla mutua defezione, all’opportunismo,con effetti perversi sulla corrente propensione a cooperare, dato che «il passato conta, gli attoristrutturano i loro piani più in base ai vincoli contratti in passato che ai loro obiettivi futuri, ilcambiamento avviene all’interno di un tempo storico irreversibile e il presente è path-dependent, cioèsi spiega solo alla luce degli eventi trascorsi» (Lanzalaco p. II, 1995).Il ruolo propedeutico e l’apprendimento che queste politiche generano è ampiamente percepito daipartecipanti, che spesso mettono in luce il carattere cumulativo della propensione alla partecipazione:i buoni risultati conseguiti in passato alimentano la propensione presente e futura alla partecipazioneed alla cooperazione, sebbene l’apprendimento possa richiedere tempi lunghi per sedimentarsi. Lamobilitazione sociale si ridimensiona rapidamente in assenza di risultati tangibili, e difficilmentetende a riprodursi quando si creano aspettative sociali negative. L’elevata mobilitazione iniziale degliattori socioeconomici talvolta riscontrata nei PIT analizzati, a fronte di un basso livello di aperturaalla partecipazione effettiva degli stessi, ha indotto un notevole grado di frustrazione tra gli operatorilocali afferenti alle sfere extrapolitiche con un prevedibile impatto negativo sulla futura propensionealla partecipazione. La chiusura autoreferenziale della classe politica locale ha concretamente inibitole possibilità effettive di partecipazione e creato legami forti che hanno alimentato atteggiamenticollusivi nell’utilizzazione della dotazione di risorse disponibili. Il capitale sociale e le informazioniche circolano nelle reti relazionali, infatti, possono fornire un valido supporto per la riformulazionedelle aspettative individuali, trasmettere e diffondere nuovi frames capaci di destrutturare path-dependencies e orientamenti consolidati. Ma possono anche agire da freno al cambiamento, innalzarebarriere verso l’esterno o accrescere i costi di transazione a livelli economicamente inefficienti.

34 Intervista al direttore generale del dipartimento attività produttive, politiche dell’impresa e innovazione tecnologicadella Regione Basilicata.

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In tal senso, il problema fondamentale riscontrabile nel Mezzogiorno è riconducibile non tanto allacarenza di capitale sociale, quanto alla presenza di legami forti che agiscono più da fattori frenantiche da catalizzanti dello sviluppo e, più in generale, dei processi di cambiamento. In contesti in cuiprevalgono atteggiamenti opportunistici, difatti, il capitale sociale può essere oggetto dimanipolazione, distorcendo in senso particolaristico i processi di regolazione espletati dalleistituzioni politiche (Mirabelli 2001). La potenziale crescita della dotazione locale di un capitalesociale “positivo” (idoneo cioè a sostenere processi virtuosi di sviluppo) attraverso le politiche basatesulla governance, dunque, risulta essere un’evenienza dipendente e subordinata non solo allapartecipazione e alle interazioni che si instaurano nei policy-networks, ma all’effettivo orientamentoche viene impresso al processo dai partecipanti, nonché alle finalità latenti, di natura particolaristica ogenerale, che gli stessi concretamente perseguono attraverso la partecipazione, rendendo quest’ultimapiù o meno strumentale.Tenendo conto del complesso di problematiche appena enunciate, le trasformazioni connesse allagovernance, per essere compiutamente assimilate in una realtà complessa come quella meridionale,necessitano di un orizzonte temporale ragionevolmente ampio e di collaterali mutamenti volti adestrutturare i pervasivi reticoli affaristici che distorcono i normali processi democratici edeconomici. Le reti clientelari hanno dimostrato elevate capacità di adattamento al mutamento didistorsione in senso particolaristico della modernizzazione. Scomponendosi e rimodulandosi, sonosopravvissute ai cambiamenti nel frattempo realizzatisi. Tali reticoli particolaristici, riproponendosinelle politiche basate sulla governance, potrebbero distorcerne le finalità reali da queste perseguite,creando arene decisionali popolate di soggetti, pubblici e privati, alla costante ricerca di renditeparassitarie (Buchanon et al. 1994).

ConclusioniIn sintesi, gli aspetti che hanno minato l’efficacia delle decisioni assunte nell’ambito dei PIT,secondo le indicazioni fornite dagli intervistati, possono essere ricondotte alle seguenti questioni: l’assenza di un soggetto capace di coordinare l’azione collettiva efficacemente e di assicurare la

concatenazione delle azioni, di mobilitare adeguatamente le risorse e le potenzialità localmentedisponibili;

l’incapacità di creare connessioni adeguate tra le varie proposte progettuali, determinando quindiframmentazione nell’utilizzazione delle risorse e, prevedibilmente, la mancata conversione degliinvestimenti in profitti, a causa dell’inefficacia dei primi;

il mancato superamento di situazioni in cui la frammentazione iniziale delle preferenze nonrisulta compatibile con l’assunzione di decisioni razionali attraverso procedure negoziali edemocratiche. Il frequente profilarsi di tali situazioni determina un’ingovernabilità delle strutturedi governance;

la mancata eliminazione delle barriere che generano asimmetrie informative le quali, distorcendoil processo di formazione delle scelte, limitano l’assunzione di decisioni innovative;

le scarse relazioni fiduciarie presenti in aree fortemente individualiste, con tradizioni pococompatibili con lo sviluppo di atteggiamenti concertativi e cooperativi. L’efficienza dellagovernance dipende anche dall’esistenza di situazioni ambientali favorevoli che, nellafattispecie, sembrano mancare;

le limitate garanzie relative al rispetto degli accordi assunti.La necessità che la partecipazione produca ricadute concrete sul piano dello sviluppo è avvertita dagliintervistati, ma frequentemente non si traduce in un’autocorrezione degli atteggiamentiindividualistici. La cooperazione tra istituzioni locali, anche quando realizzata, si limita alla gestionecongiunta di personale o mezzi per l’esercizio congiunto di specifici servizi, raramente si spinge allarealizzazione di singole iniziative per la valorizzazione del tessuto locale, quasi mai giunge a forme

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di cooperazione per lo sviluppo attraverso la produzione di beni pubblici competitivi. La complessitàe l’ampiezza delle azioni congiuntamente implementate risulta dunque ridotta. In regioni didimensioni tutto sommato ridotte come la Basilicata e la Calabria, le relazioni corte possonopotenzialmente migliorare le performance economiche riducendo i costi di transazione, le asimmetrieinformative, favorendo una rapida diffusione delle informazioni e delle innovazioni.L’analisi svolta ha evidenziato come la cooperazione tra i partecipanti ai processi decisionali si èrivelata essere più un espediente tattico per attrarre risorse che una soluzione strategica volta afavorire uno sviluppo di lungo periodo. Tale modalità d’interazione, dominante nei casi di studioesaminati, ha implicato una frammentazione sul piano progettuale piuttosto elevata. Tuttavia, lastabilizzazione degli organismi di governance, strutturando un gioco ripetuto nel tempo, puòcostituire una via d’uscita ai problemi della disarticolazione progettuale. Stabilizzando le strutture digovernance e premiando quelle che nei cicli di programmazione precedenti hanno dispiegato leazioni più efficaci, si potrebbero creare incentivi istituzionali capaci d’incidere sulle interazioniinformali tra partecipanti, superando le barriere che tuttora sussistono alla realizzazione di progettirealmente performanti sotto il profilo della ricaduta economica.Il capitale sociale è rimasta una risorsa latente, strumentalizzata per finalità collusive. I legami fortitra gli appartenenti alla sfera politica hanno prodotto barriere alla partecipazione dei soggetti afferentialla sfera socioeconomica locale, limitando gli effetti di bridging e le potenziali ricadute connesse.Lo sviluppo connettivo (Rullani 2002), che le politiche basate sulla governance dovrebbero stimolareattraverso la strutturazione di reti relazionali non circoscritte all’ambito microlocale, è risultato unesito circoscritto a best practice limitate. Anche la promozione di beni collettivi locali per lacompetitività e di beni pubblici propedeutici allo sviluppo ha avuto una portata residualenell’impianto progettuale dei PIT analizzati. In aggiunta a ciò, gran parte dei limiti evidenziatirelativamente nell’esperienza dei Patti Territoriali (La Spina 2003) sono riscontrabili anchenell’attività di progettazione integrata.Da quanto emerso nella ricerca, i risultati concretamente ottenuti attraverso la governance nonsembrano avere innalzato il livello qualitativo delle scelte pubbliche o le ricadute economiche dellestesse. La contrapposizione dualistica tra intervento statale e regolazione endogena delle politiche,enfatizzata dalla letteratura sulla governance, risulta spesso artificiosa e troppo rigida per fornireun’adeguata rappresentazione di forme regolative che, per raggiungere l’optimun, devononecessariamente presentare un adeguato mix tra governance e government. La combinazioneottimale, ovviamente, varia da contesto a contesto. In territori in cui le logiche della governance sonostate meglio assimilate e presentano un alto profilo cooperativo, la maggiore maturità può lasciarespazio a una più ampia compartecipazione alla gestione delle policies dispiegate a livello locale.Laddove le capacità auto-regolative sono inferiori, e le dinamiche relazionali meno efficienti,necessariamente la governance dovrà essere sostenuta dal government, attraverso un’azione vigorosadi mobilitazione locale volta ad indurre shock esogeni idonei a modificare le strutture degli incentivilocalmente operanti e le path-depencies che frenano i processi di cambiamento e modernizzazione. Insostanza, la qualità della progettazione integrata la fanno i partecipanti. Per promuoverel’innovazione istituzionale occorrono interventi esogeni, ma anche spinte endogene, da parte degliattori locali, volte a recepire le opportunità di cambiamento e attuarle anche in presenza di ostacolistrutturali o opposizioni sistemiche. Il mutamento si produce quando il top-down, lo stimolo esternodi cui il Mezzogiorno tuttora necessita, si raccorda col bottom-up, con la propensione degli attorilocali a co-agire per implementare best practices e superare le pervicaci resistenze sistemiche almutamento, orientate alla difesa di rendite di posizione socialmente costose che frenano lamodernizzazione del Mezzogiorno. Se nel contesto fordista il cambiamento e lo sviluppo potevanoessere indotti per via esogena, nell’attuale economia post-fordista l’attivazione delle complessedinamiche alla base dei processi di sviluppo è un’evenienza dipendente dalla capacità delle diverse

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sfere istituzionali, pubbliche e private, di gestire la sfasatura cognitiva e operativa che spesso lecaratterizza, inibendo la coagulazione di azioni sinergiche.Sarebbe tuttavia fuorviante guardare alle trasformazioni avvenute negli ultimi anni (la progressivatransizione dal top-down al bottom-up, dal government alla governance) come a processi unilineari ditransizione da una polarità all’altra della dicotomia. I modelli non si alternano, ma si compenetrano, espesso necessitano di elementi tra loro eterogenei per realizzarsi compiutamente. Il complesso diqueste trasformazioni rende il territorio soggetto dei processi di mutamento, e non più oggetto deglistessi. In ultima analisi, un’adeguata regolazione consente di ricreare costantemente il difficilebilanciamento tra gli imperativi posti dal mutamento e le esigenze di ordine sistemico.Gli esiti delle politiche di sviluppo basate sulla governance analizzate, come di ogni altro strumentopubblico, appaiono dunque correlati in via diretta alle caratteristiche del contesto d’impatto (inparticolare alle capacità regolative) e solo indirettamente allo strumento normativo che, per quantoben congegnato, inevitabilmente è destinato a produrre effetti differenziati nei vari ambiti diapplicazione, data l’eterogeneità nella dotazione di risorse e nello stock di vincoli endogeni,determinando esiti differenti in ogni contesto locale.

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