GM_LaNgègn-PiccolaAntologiaPersonale&ParzialeDiPoesia
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LA NGèGN
PICCOLA ANTOLOGIA PERSONALE (E PARZIALE)
POESIE INSERITE IN ORDINE SPARSO
E PER I MOTIVI PIU’ DISPARATI
(MI PIACCIONO, MI PIACCIONO MOLTO, MI FANNO PENSARE A QUALCUNO, EVOCANO UN
RICORDO SCOLASTICO, ECC.)
ANACREONTE
Canute sono ormai
le tempie, bianco il capo
la giovinezza ridente
non è più con me
e vecchi sono i denti.
Della tenera vita
non più molto mi resta.
E io gemo per questo
per paura dell’Ade.
Dell’Ade infatti è orribile
il baratro, e ad esso è grave
la discesa; ed è vero,
per chi sia disceso
risalire non è possibile
GIACOMO LEOPARDI
L'infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
JOHAN WOLFGANG GOETHE
Ein Gleiches
Über allen Gipfeln
Ist Ruh,
In allen Wipfeln
Spürest du
Kaum einen Hauch;
Die Vögelein schweigen im Walde.
Warte nur, balde
Ruhest du auch.
GIUSEPPE GIUSTI
Il poeta e gli eroi da poltrona
Poeta:
Eroi, eroi,
che fate voi?
Eroi:
Ponziamo il poi.
Poeta:
(Meglio per noi!)
O del presente
che avete in mente?
Eroi:
Un tutto e un niente.
Poeta:
(Precisamente).
Che brava gente!
Dite, o l'Italia?
Eroi:
L'abbiamo a balia.
Poeta:
Balia pretesca,
liberalesca,
nostra o tedesca?
Eroi:
Vattel'a pesca.
Poeta:
Lo so (sta fresca!).
FERNANDO PESSOA
Ho pena delle stelle
Ho pena delle stelle
che brillano da tanto tempo,
da tanto tempo...
Ho pena delle stelle.
Non ci sarà una stanchezza
delle cose,
di tutte le cose,
come delle gambe o di un braccio?
Una stanchezza di esistere,
di essere,
solo di essere,
l'essere triste lume o un sorriso...
Non ci sarà dunque,
per le cose che sono,
non la morte, bensì
un'altra specie di fine,
o una grande ragione:
qualcosa così, come un perdono?
EDUARDO DE FILIPPO
‘O rraù
'O rraù ca me piace a me
m' 'o ffaceva sulo mammà.
A che m'aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.
Io nun sogno difficultuso;
ma luvàmell''a miezo st'uso.
Sì, va buono: cumme vuò tu.
Mò ce avèssem' appiccecà?
Tu che dice? Chest'è rraù?
E io m'a 'o mmagno pè m' 'o mangià...
M' 'a faje dicere na parola?
Chesta è carne c' 'a pummarola.
PAOLO CONTE
Canzone anfibia (unica poesia scritta da P.C.)
Piove sull’Aurelia
acqua del cielo di settembre 1950.
E passa sull’Aurelia
nella pioggia
un’Aurelia grigia
1950.
Da un palazzotto 1950
sto guardando quei due grigi
Aurelia, una bionda, sporgendosi in fuori
così si sciacquano
in un’acqua non di mare e non di terra
queste tre Aurelie
tra dalie e camelie 1950,
quanta bell’acqua.
MONTALE
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI
La bbona famijja
Mi' nonna, a un'or de notte che viè ttata
Se leva da filà, povera vecchia,
Attizza un carboncello, ciapparecchia,
E maggnamo du' fronne d'inzalata.
Quarche vorta se famo una frittata,
Che ssi la metti ar lume ce se specchia
Come fussi a ttraverzo d'un'orecchia:
Quattro noce, e la cena è terminata.
Poi ner mentre ch'io, tata e Crementina
Seguitamo un par d'ora de sgoccetto,
Lei sparecchia e arissetta la cucina.
E appena visto er fonno ar bucaletto,
'Na pisciatina, 'na sarvereggina,
E, in zanta pace, ce n'annamo a letto.
GIORGIO CAPRONI
Il gibbone
No, non è questo il mio
paese. Qua
- fra tanta gente che viene,
tanta gente che va -
io sono lontano e solo
(straniero) come
l'angelo in chiesa dove
non c'è Dio. Come,
allo zoo, il gibbone.
Nell'ossa ho un'altra città
che ni strugge. E' là.
L'ho perduta. Città
grigia di giorno e, a notte,
tutta una scintillazione
di lumi - un lume
per ogni vivo, come,
qui al cimitero, un lume,
per ogni morto. Città
cui nulla, nemmeno la morte
- mai, - mi ricondurrà.
ALDO PALAZZESCHI
La passeggiata
Andiamo?
Andiamo pure.
All'arte del ricamo,
fabbrica passamanerie,
ordinazioni, forniture.
Sorelle Purtarè.
Alla città di Parigi.
Modes, nouveautè
Benedetto Paradiso
successore di Michele Salvato,
gabinetto fondato nell'anno 1843.
avviso importante alle signore !
La beltà del viso,
seno d'avorio,
pelle di velluto.
Grandi tumulti a Montecitorio.
Il presidente pronunciò fiere parole.
tumulto a sinistra, tumulto a destra.
Il gran Sultano di Turchia ti aspetta.
La pasticca di Re Sole.
Si getta dalla finestra per amore.
Insuperabile sapone alla violetta.
Orologeria di precisione.
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Lotteria del milione.
Antica trattoria "La pace",
con giardino,
fiaschetteria,
mescita di vino.
Loffredo e Rondinella
primaria casa di stoffe,
panni, lane e flanella.
Oggetti d'arte,
quadri, antichità,
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26 A.
Corso Napoleone Bonaparte.
Cartoleria del progresso.
Si cercano abili lavoranti sarte.
Anemia !
Fallimento!
Grande liquidazione!
Ribassi del 90%
Libero ingresso.
Hotel Risorgimento
e d'Ungheria.
Lastrucci e Garfagnoni,
impianti moderni di riscaldamento:
caloriferi, termosifoni.
Via Fratelli Bandiera
già via del Crocefisso.
Saldo
fine stagione,
prezzo fisso.
Occasione, occasione!
Diodato Postiglione
scatole per tutti gli usi di cartone.
Inaudita crudeltà!
Cioccolato Talmone.
Il più ricercato biscotto.
Duretto e Tenerini
via della Carità.
2. 17. 40. 25. 88.
Cinematografo Splendor,
il ventre di Berlino,
viaggio nel Giappone,
l'onomastico di Stefanino.
Attrazione ! Attrazione!
Cerotto Manganello,
infallibile contro i reumatismi,
l'ultima scoperta della scienza !
L'Addolorata al Fiumicello,
associazione di beneficenza.
Luigi Cacace
deposito di lampadine.
Legna, carbone, brace,
segatura,
grandi e piccole fascine,
fascinotti,
forme, pine.
Professor Nicola Frescura:
state all?erta giovinotti !
Camicie su misura.
Fratelli Buffi,
lubrificanti per macchine e stantuffi.
Il mondo in miniatura.
Lavanderia,
Fumista,
Tipografia,
Parrucchiere,
Fioraio,
Libreria,
Modista.
Elettricità e cancelleria.
L'amor patrio
antico caffè.
Affittasi quartiere,
rivolgersi al portiere
dalle 2 alle 3.
Adamo Sensi
studio d'avvocato,
dottoressa in medicina
primo piano,
Antico forno,
Rosticcere e friggitore.
Utensili per cucina,
Ferrarecce.
Mesticatore.
Teatro Comunale
Manon di Massenet,
gran serata in onore
di Michelina Proches.
Politeama Manzoni,
il teatro dei cani,
ultima matinée.
Si fanno riparazioni in caloches.
Cordonnier.
Deposito di legnami.
Teatro Goldoni
i figli di nessuno,
serata popolare.
Tutti dai fratelli Bocconi !
Non ve la lasciate scappare !
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Bar la stella polare.
Assunta Chiodaroli
levatrice,
Parisina Sudori
rammendatrice.
L'arte di non far figlioli.
Gabriele Pagnotta
strumenti musicali.
Narciso Gonfalone
tessuti di seta e di cotone.
Ulderigo Bizzarro
fabbricante di confetti per nozze.
Giacinto Pupi,
tinozze e semicupi.
Pasquale Bottega fu Pietro,
calzature...
Torniamo indietro?
Torniamo pure.
GIACOMO LEOPARDI
La sera del dì di festa
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t'accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m'affaccio,
E l'antica natura onnipossente,
Che mi fece all'affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da' trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch'io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell'artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov'è il suono
Di que' popoli antichi? or dov'è il grido
De' nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
Che n'andò per la terra e l'oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s'aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s'udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.
AUGUSTO VON PLATEN
La tomba nel busento
Cupi a notte canti suonano
Da Cosenza su ’l Busento,
Cupo il fiume gli rimormora
Dal suo gorgo sonnolento.
Su e giù pe ’l fiume passano
E ripassano ombre lente:
Alarico i Goti piangono,
Il gran morto di lor gente.
Ahi sì presto e da la patria
Così lungi avrà il riposo,
Mentre ancor bionda per gli omeri
Va la chioma al poderoso!
Del Busento ecco si schierano
Su le sponde i Goti a pruova,
E dal corso usato il piegano
Dischiudendo una via nuova.
Dove l’onde pria muggivano,
Cavan, cavano la terra;
E profondo il corpo calano,
A cavallo, armato in guerra.
Lui di terra anche ricoprono
E gli arnesi d’òr lucenti:
De l’eroe crescan su l’umida
Fossa l’erbe de i torrenti!
Poi, ridotto a i noti tramiti,
Il Busento lasciò l’onde
Per l’antico letto valide
Spumeggiar tra le due sponde.
Cantò allora un coro d’uomini:
“Dormi, o re, ne la tua gloria!
Man romana mai non víoli
La tua tomba e la memoria!”
Cantò, e lungo il canto udivasi
Per le schiere gote errare:
Recal tu, Busento rapido,
Recal tu da mare a mare.
CESARE PASCARELLA
Er cortello
Ar mio, sopra la lama ch'e' rintorta
C'e' stampata 'na lettra cor un fiore;
Me lo diede Ninetta che m'e' morta,
Quanno che me ce messi a fa' l'amore.
E quanno la baciai la prima vorta,
Me disse: - Si m'avrai da da' er dolore
De dimme che de me nun te n'importa,
Prima de dillo sfonnemece er core. -
E da quer di' che j'arde el lanternino
Davanti a la crocetta ar camposanto,
Lo porto addosso come un abitino.
E si la festa vado a fa' bisboccia,
Si be' che ci abbi' tanti amichi accanto,
Er mejo amico mio ce l'ho in saccoccia.
FRANCESCO PETRARCA
Chiare, fresche e dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir' mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;
erba e fior' che la gonna
leggiadra ricoverse
co l'angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co' begli occhi il cor m'aperse:
date udïenza insieme
a le dolenti mie parole estreme.
S'egli è pur mio destino
e 'l cielo in ciò s'adopra,
ch'Amor quest'occhi lagrimando chiuda,
qualche gratia il meschino
corpo fra voi ricopra,
e torni l'alma al proprio albergo ignuda.
La morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo:
ché lo spirito lasso
non poria mai in piú riposato porto
né in piú tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata e l'ossa.
Tempo verrà ancor forse
ch'a l'usato soggiorno
torni la fera bella e mansüeta,
e là 'v'ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disïosa e lieta,
cercandomi; e, o pietà!,
già terra in fra le pietre
vedendo, Amor l'inspiri
in guisa che sospiri
sí dolcemente che mercé m'impetre,
e faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo.
Da' be' rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior' sovra 'l suo grembo;
ed ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già de l'amoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch'oro forbito e perle
eran quel dí a vederle;
qual si posava in terra, e qual su l'onde;
qual con un vago errore
girando parea dir: - Qui regna Amore. -
Quante volte diss'io
allor pien di spavento:
Costei per fermo nacque in paradiso.
Cosí carco d'oblio
il divin portamento
e 'l volto e le parole e 'l dolce riso
m'aveano, e sí diviso
da l'imagine vera,
ch'i' dicea sospirando:
Qui come venn'io, o quando?;
credendo d'esser in ciel, non là dov'era.
Da indi in qua mi piace
quest'erba sí, ch'altrove non ò pace.
Se tu avessi ornamenti quant'ài voglia,
poresti arditamente
uscir del bosco, et gir in fra la gente.
DINO CAMPANA
L’INVETRIATA
La sera fumosa d'estate
Dall'alta invetriata mesce chiarori nell'ombra
E mi lascia nel cuore un suggello ardente.
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha
A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? - c'è
Nella stanza un odor di putredine: c'è
Nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c'è
Nel cuore della sera c'è,
Sempre una piaga rossa languente.
FRANCESCO BERNI
SONETTO CONTRA LI PRETI
Godete, preti, poi che ’l vostro Cristo
v’ama cotanto, ch’ei, se più s’offende,
più da turchi e concilii vi difende
e più felice fa quel ch’è più tristo.
Ben verrà tempo ch’ogni vostro acquisto,
che così bruttamente oggi si spende,
vi leverà; ché Dio ferirvi intende
col fùlgor che non sia sentito o visto.
Credete voi, però, Sardanapali,
potervi far or femine or mariti,
e la chiesa or spelonca et or taverna?
E far mille altri, ch’io non vo’ dir, mali,
e saziar tanti e sí strani appetiti,
e non far ira alla bontà superna?
GABRIELE D’ANNUNZIO
La sera fiesolana
Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s'attarda a l'opra lenta
su l'alta scala che s'annera
contro il fusto che s'inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sè distenda un velo
ove il nostro sogno giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.
Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pe'; tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l'acqua del cielo!
Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pinidai novelli rosei diti
che giocano con l'aura che si perde,
e su 'l grano che non è biondo ancora
e non è verde,
e su 'l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.
Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!
Io ti dirò verso quali reami
d'amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l'ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s'incurvino come labbra che un divieto
chiuda, e perchè la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l'anima le possa amare
d'amor più forte.
Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!
SALVATORE QUASIMODO
Ed è subito sera
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
GINO PATRONI
Mensa popolare
Una
zuppa
di
verdura
ed
è
subito
pera.
DANTE ALIGHIERI
Tanto gentil e tanto onesta pare
la donna mia quand'ella altrui saluta,
ch'ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l'ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d'umilta' vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi si' piacente a chi la mira,
che da' per li occhi una dolcezza al core,
che 'ntender non la puo' chi no la prova;
e par che de la sua labbia si mova
uno spirito soave pien d'amore,
che va dicendo a l'anima: Sospira.
GESUALDO BUFALINO
Canzonetta
di Charles Trenet
Stasera
percuote il vento le porte
e mi ripete le morte
felicità che non son più.
Io siedo
davanti al fuoco languente
rimescolando le spente
grigie braci di gioventù.
Di voi che resta, antichi amori,
giorni di festa, teneri ardori?
Solo una mesta foto ingiallita
Fra le mie dita…
Di voi che resta, sguardi innocenti,
lacrime, risa e giuramenti?
Solo, sepolto in un cassetto,
qualche biglietto…
Sere d’aprile, sogni incantati,
capelli al vento, baci rubati,
che resta dunque di tutto ciò?
Ditemi un po’…
Rivedo un viso, mormoro un nome,
ma non ricordo quando né come…
penso a un villaggio dove non so
se tornerò.
Bisbigli,
stupore d’essere in due
mano con mano nel buio,
felici senza perché…
Violette
fra due pagine di libro,
il cui profumo c’inebria,
un’ombra sola siete, ahimè!
Di voi che resta, antichi amori,
…
GIORGIO CAPRONI
Il bicchiere
… l’uomo che nel buio è solo
a bere: che non ha
nessuno, nell’oscurità,
cui accostare il bicchiere…
GHIORGOS SEFERIS
La nostra terra
La nostra terra è chiusa, tutta monti
che hanno per tetto il basso cielo giorno e notte.
Non abbiamo fiumi, non abbiamo pozzi non abbiamo sorgenti,
solo poche cisterne, e queste vuote, che risuonano e che veneriamo.
Suono stagnante e sordo, uguale alla nostra solitudine
uguale al nostro amore, uguale ai nostri corpi.
Ci stupiamo di aver potuto una volta costruire
case capanne e ovili.
E le nozze nostre, le fresche ghirlande e le dita
diventano enigmi inspiegabili alla nostra anima.
Come sono nati come si son fatti forti i nostri figli?
La nostra terra è chiusa. La chiudono
due cupe Simplegadi. Nei porti
la domenica quando scendiamo a respirare
vediamo rischiarati al tramonto
rottami di viaggi mai portati a termine
corpi che non sanno più come amare.
VINCENZO CARDARELLI
Ajace
Sempre obliasti, Ajace Telamonio,
ogni prudenza in guerra, ogni preghiera.
Mai non pensasti ad invocar l'aiuto
d'una benigna Dea
che ingigantir potesse le tue forse
o sottrati sollecita al nemico.
Non avevi una madre
da impietosir l'Olimpo al tuo destino,
discretissimo eroe.
E a te non fu dato
compiere imprese stupende e gratuite,
atterrar Marte od Ettore,
o d'Afrodite il mignolo ferire,
bensì il combattimento orrido, immane,
fra soverchianti avversari,
in giorni che non s'ama ricordare.
Ogni volte che Giove era crucciato
contro gli Achei,
a te scendere in campo,
degna prole di Sisifo,
rampollo di Titani.
Quando Marte furioso conduceva
le falangi troiane
ad incendiar le navi,
tu le salvasti e Teucro.
Eri la gran riserva
nel pericolo estremo,
la resistenza, il muro, la fortezza.
Ti accoglieva ogni sera
la disadorna tenda
senza profumi
nè amorose schiave.
Là, presso il mare,
dormivi un sonno animalmente duro.
Primo fra i tuoi,
fra quanti eroi convennero sotto Ilio
non secondo a nessuno.
Ma veramente solo
ed unico tu fosti
nella sventura.
Nessun Dio ti protesse,
niuna gloria t'arrise incontrastata,
ti fu solo di scorta il tuo valore,
o fante antico.
E i Greci ti negarono quel premio
a cui tu ambivi:
l'armi d'Achille. Un maestro d'inganni
te le strappò. Ma in mare
costui le perse. E il flutto pietoso,
il mutevole flutto, più sagace
dell'umano giudizio, più costante
della fortuna,
sul tuo tumulo alfine le depose.
Pace all'anima tua
infera, Ajace.
JORGE LUIS BORGES
A Carlo XII
Vichingo delle steppe, Carlo dodici
di Svezia, tu che seguisti il cammino
dal Settentrione al Sud del tuo divino
predecessore Odino, fu una festa
per te quello che muove la memoria
degli uomini al canto, la battaglia
mortale, il crepitio della mitraglia,
la salda spada e la sanguinosa gloria.
Tu sapesti che vincere o essere vinto
sono facce di un Caso indifferente,
che non c'è altra virtù che essere arditi
e che alla fine c’è il marmo e l'oblio.
Ardi glaciale, più solo del deserto;
anima senza amici e già sei morto.
CESARE PASCARELLA
La serenata
I.
Fu l'antra notte. Stavo p'annà' a letto
Quanno, ched'è?, te sento 'na bussata.
Chi è?... Me fa: — Viè' giù, ché so' Ninetto,
Sbrighete, ch'ho da fatte un'imbasciata. —
Scegno,... j'apro... me fa, dice: — Righetto!
Avemo d'annà' a fà 'na serenata.
Nasce da qui fin qui — Si' benedetto;
Ma, dico, a st'ora qui? Co' sta nottata?
Dice: — Er restante de la compagnia
Ce sta a aspettacce avanti a l'orzarolo,
Ar vicolo der Pino... tira via! —
Zompo su a casa, stacco er mandolino,
Pîo er cortello, la pippa, er farajolo,
E annamo, assieme, ar vicolo der Pino.
II.
Ar vicolo der Pino, sur cantone,
Trovamo Peppe Cianca cor fischietto,
Sciabighella che armava er calascione,
E Schizzo che portava l'orghenetto.
Dar cichettaro, lì, sott'ar lampione,
Prima se sciroppassimo er cichetto,
E dopo, annamo dritti p'er Biscione,
Piazza San Carlo, traversamo Ghetto...
Sotto er Moro sentimo le campane
De San Francesco batte' er matutino.
Pioviccicava. Nun passava un cane.
Paremio 'na patuja de sordati.
Arfine, ar vicoletto der Rampino,
Nino se ferma — È qui? — Semo 'rivati.
III.
Lì proprio dove c'è la Madonnella,
Che la notte j'accenneno er lumino,
Io, Peppe Cianca, Schizzo e Sciabighella
Se mettessimo drento a un portoncino.
Lui tirò un bacio su a 'na finestrella,
E incominciò a cantà': — «Fiore de spino
Più furgida tu sei più d'una stella,
Più candida tu sei d'un ginsurmino».
Nun aveva finito er ritornello,
Quanno sentimo un fischio in fonno ar vicolo.
Sangue de Dio! Qui nasce 'no sfragello!
Sortimo fora e je se famo accosto;
Ma Ninetto ce fa: — Nun c'è pericolo,
Fermi, ragazzi!... Be' che famo? Ar posto!
IV.
Intanto fra la nebbia, solo solo,
Veniva avanti un omo incappottato,
Nino se pianta sotto ar lumicciolo,
E, ridenno, je fa: — Ben'arrivato!
L'antro zitto. Se leva er farajolo,
L'intorcina e lo butta sur serciato;
Dopo, striscianno sotto ar muricciolo,
Je va addosso, e l'agguanta, qui, ar costato.
Quanto se vedde luccicà' un cortello,
Strillò: — Madonna mia,... mamma,... Ninetta... —
Zittete, ché me pare de vedello!
Fece du' passi, s'acchiappò a 'na stanga
De 'na ferrata sotto a 'na scaletta,
E cascò morto giù drent'a la fanga.
V.
Hai visto Schizzo!... Frulla l'orghenetto,
Zompa sur morto cór cortello in mano,
Se mette a fugge' giù p'er vicoletto,
E vedemo sparillo da lontano.
Noi j'annamo vicino, poveretto!
L'arzamo su, de peso, dar pantano
De sangue che j'usciva qui dar petto;
Ancora rifiatava! Piano piano
Riaperse l'occhi e, co' la bocca storta,
Ce fa: — Bussate un tòcco a quer portone,
Ché vojo rivedella un'antra vorta...
E mentre stava a dà' l'urtimo tratto,
Sentimo Schizzo urlà' giù dar cantone:
— Squajateve, regazzi, ché l'ho fatto!
RUDYARD KIPLING
Se…
Se riuscirai a non perdere la testa quando tutti
la perdono intorno a te, dandone a te la colpa;
se riuscirai ad aver fede in te quando tutti dubitano,
e mettendo in conto anche il loro dubitare;
se riuscirai ad attendere senza stancarti nell'attesa,
se, calunniato, non perderai tempo con le calunnie,
o se, odiato, non ti farai prendere dall'odio,
senza apparir però troppo buono o troppo saggio;
se riuscirai a sognare senza che il sogno sia il padrone;
se riuscirai a pensare senza che pensare sia il tuo scopo,
se riuscirai ad affrontare il successo e l'insuccesso
trattando quei due impostori allo stesso modo
se riuscirai ad ascoltare la verità da espressa
distorta da furfanti per intrappolarvi gli ingenui,
o a veder crollare le cose per cui dai la tua vita
e a chinarti per rimetterle insieme con mezzi di ripiego;
se riuscirai ad ammucchiare tutte le tue vincite
e a giocartele in un sol colpo a testa-e-croce,
a perdere e a ricominciar tutto daccapo,
senza mai fiatare e dir nulla delle perdite;
se riuscirai a costringere cuore, nervi e muscoli,
benché sfiniti da un pezzo, a servire ai tuoi scopi,
e a tener duro quando niente più resta in te
tranne la volontà che ingiunge: "tieni duro!";
se riuscirai a parlare alle folle serbando le tue virtù,
o a passeggiar coi Re e non perdere il tuo fare ordinario;
se né i nemici o i cari amici riusciranno a colpirti,
se tutti contano per te, ma nessuno mai troppo;
se riuscirai a riempire l'attimo inesorabile
e a dar valore ad ognuno dei suoi sessanta secondi,
il mondo sarà tuo allora, con quanto contiene,
e - quel che è più, tu sarai un Uomo, ragazzo mio!
EZRA POUND
(Haiku)
Petali cadono nella vasca,
petali di rosa color arancio.
L’ocra che si stringe alla pietra.
KOSTANTINOS KAVAFIS
I Barbari
«Sull'agora, qui in folla chi attendiamo?»
«I barbari che devono arrivare»
«E perché i senatori non si muovono?
Cha aspettano essi per legiferare?»
«E' perché devono giungere, oggi, i Barbari.
perché dettare leggi? Appena giunti,
i Barbari, sarà compito loro »
«Perché l'Imperatore s'è levato
di buon ora ed è fermo sull'ingresso
con la corona in testa?»
«E' che i Barbari devono arrivare
e anche l'Imperatore sta ad attenderli
per riceverne il Duce; e tiene in mano
tanto di pergamena con la quale
offre titoli e onori»
«E perché mai
sono usciti i due consoli e i pretori
in toghe rosse e ricamate? e portano
anelli tempestati di smeraldi,
braccialetti e ametiste? »
«E' che vengono i Barbari e che queste
cose li sbalordiscono»
«E perché
gli oratori non sono qui, come d'uso,
a parlare, ad esprimere pareri?»
«E' che giungono i Barbari, e non vogliono
sentire tante chiacchiere»
«E perché sono tutti nervosi? ( I volti intorno
si fanno gravi ). Perché piazze e strade
si vuotano ed ognuno torna a casa?»
«E' che fa buio e i Barbari non vengono,
e chi arriva di là dalla frontiera
dice che non ce n'è neppure l'ombra»
«E ora che faremo senza Barbari?
( Era una soluzione come un'altra,
dopo tutto... )».
Traduzione di Eugenio Montale
HUGO VON HOFMANNSHTAL
I due
Lei reggeva la coppa in mano
- il suo mento e la bocca erano all’altezza dell’orlo -,
leggero e sicuro era il suo passo,
nessuna goccia sgorgava fuori dalla coppa.
Leggera e ferma era anche la mano di lui:
montava un giovane cavallo,
e con gesto noncurante
lo costringeva a star fermo benché vibrasse tutto.
Eppure, quando dalla mano di lei
la leggera coppa dovette prendere,
ciò fu troppo difficile per entrambi;
poiché entrambi tremavano così tanto
che le mani non si incontrarono
e scuro vino corse per terra.
GUILLAUME APOLLINAIRE
I colchici
Il prato è velenoso ma bello in autunno
Le mucche pascolandovi
Lente vi s'avvelenano
Vi fiorisce colore d'occhiaia e di lillà
Il colchico I tuoi occhi sono come quel fiore
Violastri come il livido che li cerchia e l'autunno
E lenta la mia vita per loro s'avvelena
Arrivano fracassoni da scuola i ragazzini
Incasaccati di panno e suonando l'armonica
Colgono le freddoline che sono come madri
Figlie delle loro figlie e color delle palpebre
Che batti come i fiori batte il vento demente
Il mandriano canta dolcissimamente
Mentre per sempre il prato mal fiorito da autunno
Abbandonan muggendo le mucche lentamente
ALDO PALAZZESCHI
Sole
Vorrei girar la Spagna
sotto un ombrello rosso.
vorrei girar l'Italia
sotto un ombrello verde.
Con una barchettina,
sotto un ombrello azzurro,
vorrei passare il mare;
giungere al Partenone
sotto un ombrello rosa
cadente di viole.
TILUSSA
Er reggistratore de cassa (parla un commesso)
Anticamente, quarche sordarello
su quello che spenneva l'avventore
se poteva rubbà, senza er timore
ch'er padrone scoprisse er macchiavello.
Ma adesso, addio! Co' 'sto reggistratore,
appena l'apri, sono er campanello
che te segna debbotto tutto quello
che levi e metti drento ar tiratore.
Così che rubbi? Cavoli! Der resto
c'è er gusto che la sera torni a casa
convinto d'esse stato un omo onesto:
e nun t'accorghi ch'er galantomismo
dipenne da la macchina e se basa
tutto su le virtù der meccanismo.
GUIDO GOZZANO
Ketty
I.
Supini al rezzo ritmico del panka.
Sull'altana di cedro, il giorno muore,
giunge dal Tempio un canto or mesto or gaio,
giungono aromi dalla jungla in fiore.
Bel fiore del carbone e dell'acciaio
Miss Ketty fuma e zufola giuliva
altoriversa nella sedia a sdraio.
Sputa. Nell'arco della sua saliva
m'irroro di freschezza: ha puri i denti,
pura la bocca, pura la genciva.
Cerulo-bionda, le mammelle assenti,
ma forte come un giovinetto forte,
vergine folle da gli error prudenti,
ma signora di sé della sua sorte
sola giunse a Ceylon da Baltimora
dove un cugino le sarà consorte.
Ma prima delle nozze, in tempo ancora
esplora il mondo ignoto che le avanza
e qualche amico esplora che l'esplora.
Error prudenti e senza rimembranza:
Ketty zufola e fuma. La virile
franchezza, l'inurbana tracotanza
attira il mio latin sangue gentile.
II.
Non tocca il sole le pagode snelle
che la notte precipita. Le chiome
delle palme s'ingemmano di stelle.
Ora di sogno! E Ketty sogna: "...or come
vivete, se non ricco, al tempo nostro?
È quotato in Italia il vostro nome?
Da noi procaccia dollari l'inchiostro..."
"Oro ed alloro!..." - "Dite e traducete
il più bel verso d'un poeta vostro..."
Dico e la bocca stridula ripete
in italo-britanno il grido immenso:
"Due cose belle ha il mon... Perché ridete?".
"Non rido. Oimè! Non rido. A tutto penso
che ci dissero ieri i mendicanti
sul grande amore e sul nessun compenso.
(Voi non udiste, Voi tra i marmi santi
irridevate i budda millenari,
molestavate i chela e gli elefanti.)
Vive in Italia, ignota ai vostri pari,
una casta felice d'infelici
come quei monni astratti e solitari.
Sui venti giri non degli edifici
vostri s'accampa quella fede viva,
non su gazzette, come i dentifrici;
sete di lucro, gara fuggitiva,
elogio insulso, ghigno degli stolti
più non attinge la beata riva;
l'arte è paga di sé, preclusa ai molti,
a quegli data che di lei si muore..."
Ma intender non mi può, benché m'ascolti,
la figlia della cifra e del clamore.
III.
Intender non mi può. Tacitamente
il braccio ignudo premo come zona
ristoratrice, sulla fronte ardente.
Gelido è il braccio ch'ella m'abbandona
come cosa non sua. Come una cosa
non sua concede l'agile persona...
- "O yes! Ricerco, aduno senza posa
capelli illustri in ordinate carte:
l'Illustrious lòchs collection più famosa.
Ciocche illustri in scienza in guerra in arte
corredate di firma o documento,
dalla Patti, a Marconi, a Buonaparte...
(mordicchio il braccio, con martirio lento
dal polso percorrendolo all'ascella
a tratti brevi, come uno stromento)
e voi potrete assai giovarmi nella
Italia vostra, per commendatizie..."
- "Dischiomerò per Voi l'Italia bella!"
"Manca D'Annunzio tra le mie primizie;
vane l'offerte furono e gl'inviti
per tre capelli della sua calvizie..."
- "Vi prometto sin d'ora i peli ambiti;
completeremo il codice ammirando:
a maggior gloria degli Stati Uniti..."
L'attiro a me (l'audacia superando
per cui va celebrato un cantarino
napolitano, dagli Stati in bando...)
Imperterrita indulge al resupino,
al temerario - o Numi! - che l'esplora
tesse gli elogi di quel suo cugino,
ma sui confini ben contesi ancora
ben si difende con le mani tozze,
al pugilato esperte... In Baltimora
il cugino l'attende a giuste nozze.
DANTE ALIGHIERI
Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel ch'ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio.
sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse 'l disio.
E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch'è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:
e quivi ragionar sempre d'amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i' credo che saremmo noi.
VINCENZO CARDARELLI
Passato
I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì, posso dire che
che m'appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì, così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l'amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
JORGE LUIS BORGES
Le cose
Le monete, il bastone, il portachiavi,
la pronta serratura, i tardi appunti
che non potranno leggere i miei scarsi
giorni, le carte da giunco e gli scacchi,
un libro e tra le pagine appassita
la viola, monumento d'una sera
di certo inobliabile e obliata,
il rosso specchio a occidente in cui arde
illusoria un'aurora. Quante cose,
atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi,
ci servono come taciti schiavi,
senza sguardo, stranamente segrete!
Dureranno piú in là del nostro oblio;
non sapran mai che ce ne siamo andati.
THOMAS HARDY
Vecchia panchina
Il suo verde d'un tempo si logora, volge al blu.
Le sue solide gambe cedono sempre più.
Presto s'incurverà senz'avvedersene,
presto s'affonderà senz'avevdersene.
A notte, quando i più accesi fiori si fanno neri,
ritornano coloro che vi stettero a sedere;
e qui vengono in molti e vi si posano.
E la panchina non sarà stroncata,
né questi sentiranno gelo o acquate,
perché sono leggeri come l'aria
di lassù, perché sono fatti d'aria!
Traduzione di Eugenio Montale
PAUL VERLAINE
da Romanze senza parole
Piange nel mio cuore
Compe piove sulla città.
Cos'è questo languore
Che penetra il mio cuore?
O dolce brusio della pioggia
A terra e sopra i tetti!
Per un cuore che si annoia
Oh il canto della pioggia!
Piange senza ragione
In questo cuore che si accora.
Cosa! Nessun tradimento?
Questo dolore è senza ragione.
E' certo la peggiore pena
Di non sapere perchè
Senza amore e senza odio
Il mio cuore ha tanta pena.
STéPHANE MALLARMé
Brezza Marina
La carne è triste, ahimè ! E ho letto tutti i libri.
Fuggire! laggiù fuggire! Sento che gli uccelli sono ebbri
Di essere tra loscura schiuma ed i cieli!
Niente, né gli antichi giardini riflessi dagli occhi
Tratterà questo cuore che nel mare si immerge
O notti! né la luce deserta della mia lampada
Sul foglio vuoto che il candore difende,
E né la giovane donna che allatta il suo bambino.
Partirò! Vascello che fai dondolare lalberatura
Leva lancora verso un luogo esotico!
Una Noia, delusa da speranze crudeli,
Crede ancora alladdio supremo dei fazzoletti!
E, forse, gli alberi, che attirano i temporali
Sono quelli che un vento inclina sui naufraghi
Persi, senza alberi, senza alberi, né piccole isole verdi&
Ma ascolta, o cuore mio, il canto dei marinai!
CAMILLO SBARBARO
Padre, se anche tu non fossi il mio
Padre se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t'amerei.
Ché mi ricordo d'un mattin d'inverno
Che la prima viola sull'opposto
Muro scopristi dalla tua finestra
E ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
Di casa uscisti e l'appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.
E di quell'altra volta mi ricordo
Che la sorella mia piccola ancora
Per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia aveva fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
Dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l'attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l'avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo che eri il tu di prima.
Padre, se anche tu non fossi il mio
Padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t'amerei.
JORGE LUIS BORGES
I giusti
Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva [Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere una etimologia.
Due impiegati che in un caffè del sud giocano in [silenzio agli scacchi.
Il ceramista che premedita un colore e una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina che [forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono le terzine finali [di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli [hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il [mondo.
OSCAR WILDE
da Ballata del carcere di Reading
Non portava più la giubba rossa
Perchè rossi sono il sangue e il vino,
E sangue e vino aveva sulle mani
Quando lo trovarono col corpo
Della donna che amava
Uccisa nel suo letto
Camminava tra gli altri carcerati
Con la misera divisa grigia
E in testa il berretto a visiera;
Sembrava leggero il passo, allegro,
Ma non avevo mai visto nessuno
Scrutare così ansioso il nuovo giorno.
Non avevo mai visto nessuno
Con tanta ansia negli occhi
Fissare un pezzetto di azzurro
- In prigione si chiama cielo -
E nubi leggere vaganti
Sospinte da vele d'argento
Camminavo con altre anime in pena
All'interno di un cerchio diverso,
Mi chiedevo cosa avesse fatto
Quell'uomo, cosa da niente o grave,
Quando qualcuno disse alle mie spalle
<<Quello>>
Cristo santo! Le mura stesse del carcere
Parvero d'improvviso vacillare
E il cielo sopra divenne
Un casco rovente di acciaio.
Per quanto anch'io fossi anima in pena
La mia pena smisi di sentire
Pensavo soltanto all'ossessione
Che gli affrettava il passo,
Alla ragione di quel suo sguardo
Fisso con ansia nella luce:
Quell'uomo chi amava aveva ucciso,
Per questo doveva morire.
***
Eppure ognuno uccide la cosa che ama,
Tutti lo devono sapere,
C'è chi lo fa con uno sguardo
E chi con lusinghe,
Il codardo può farlo con un bacio,
Chi ha coraggio usa la spada!
Molti uccidono l'amore da giovani,
Altri nella vecchiaia.
C'è chi strangola con mani di lussuria
E chi con quelle dell'oro:
I più pietosi usano il coltello
Perchè i morti subito si freddano.
C'è chi ama troppo poco e chi troppo a lungo,
Certi vendono, altri comprano.
C'è chi compie l'atto tra le lacrime
E chi senza un sospiro.
Perchè ciascuno uccide l'oggetto del suo amore,
Ma non tutti ne muoiono.
Non tutti muoiono una morte vergognosa
In un giorno oscuro di infamia,
Non tutti trovano un capestro intorno al collo
E un cappuccio sul viso
Né sprofondano sotto il pavimento
Dentro uno spazio vuoto.
Non tutti siedono tra uomini muti
Che giorno e notte lo sorvegliano,
Lo sorvegliano se cerca di piangere
E quando tenta di pregare,
Lo sorvegliano perché non sottragga
Al carcere la sua preda.
Non tutti all'alba si destano
Per ritrovarsi tra gente orribile,
Il cappellano tremante in veste bianca,
Il magistrato cupo di durezza
E il direttore in nero.
Con le facce gialle del Giudizio.
Non tutti debbono levarsi
Per indossare l'ultima divisa
Mentre un medico osserva con disgusto
Ogni sussulto e annota
Reggendo l'orologio: il ticchettio
Come tremendi colpi di martello.
Non tutti provano la sete maledetta
Che la gola insabbia
Prima che dalla porta imbottita
Compaia il boia in guanti da lavoro
E leghi il corpo in tre giri di corda,
Che quella gola non abbia più sete.
Non tutti chinano la testa
Mentre si legge l'ufficio dei defunti
Né, mentre l'angoscia suggerisce
Che ancora si è tra i vivi,
Incrociano la propria bara
Nel tragitto verso il padiglione.
Non tutti fissano l'aria
Da un piccolo tetto di vetro,
Né pregano con labbra di sabbia
Che quell'angoscia finisca,
Né sentono sopra la guancia
Tremare il bacio di Caifa.
ARTHUR RIMBAUD
Alla musica Piazza della Stazione, a Charleville.
Sulla piazza divisa in striminzite aiuole,
«square» dove tutto è corretto, alberi e fiori,
gli asmatici borghesi soffocati dall'afa
portano il giovedì sera le loro sciocche gelosie.
- L'orchestra militare, nel mezzo del giardino,
dondola i suoi cheppì nel Valzer dei Pifferi:
- intorno, in prima fila, si pavoneggia il ganimede;
il notaio pende dai suoi sbrelocchi cifrati:
i possidenti con gli occhialini sottolineano le stecche:
i tronfi burocrati trascinano le loro grasse signore;
accanto a loro vanno, guide compiacenti
dame tutte in ghingheri che sembrano réclames;
sulle panchine verdi, droghieri in pensione
smuovono la ghiaia col bastoncino in mano,
seriosamente discutendo i trattati
tabaccano dall'argento, e riprendono: «Insomma...»
Schiacciando sulla panca il suo grosso culone,
un borghese con i bottoni chiari, la trippa fiamminga
fuma una pipa donde traboccano fili
di tabacco - non lo sa? è di contrabbando!...-
Lungo le aiuole verdi i ragazzacci ridacchiano;
e resi sentimentali dal canto dei tromboni
molto ingenuamente le reclute, con una rosa in bocca,
carezzano i neonati per adescare le servette...
- Io, io seguo, scamiciato come uno studente,
sotto i verdi castagni le guardinghe ragazzine:
sono dritte e sagge; e voltano ridendo
verso di me i loro occhiacci maliziosi.
Io sto zitto, muto: guardo solamente la bianca
carne dei loro colli ricamati di folli ciocche:
seguo, sotto il corsetto e i delicati ornamenti
il dorso divino dopo la curva delle spalle.
Ben presto ho scovato lo stivaletto, la calza...
- Arso da una dolce febbre, ricostruisco i corpi.
Mi trovano assai strano e parlottano...
- E io sento i baci salirmi alle labbra...
CHARLES BAUDELAIRE
L’albatro
Spesso, per divertirsi, gli uomini dell’equipaggio
catturano degli albatri, vasti uccelli di mare
che seguono, indolenti compagni di viaggio
la nave che scivola sopra i baratri amari.
L’hanno appena posati sulle assi della tolda
e quei re dell’azzurro, resi maldestri e turpi
lasciano penosamente le grandi ali bianche
trascinarsi come dei remi ai loro fianchi.
Il viaggiatore alato, come è sinistro e fiacco!
Lui, poco fa così bello, come è comico, laido!
Uno gli tormenta il becco con la pipa,
l’altro zoppica e imita l’invalido che volava.
Il Poeta assomiglia al principe delle nuvole
che ha casa nella tempesta e ride dell’arciere;
esiliato sulla terra in mezzo agli urli, allo scherno,
le ali di gigante gli impediscono di andare.
EDGAR ALLAN POE
Il corvo
Era una cupa mezzanotte e mentre stanco meditavo
Su bizzarri volumi di un sapere remoto,
Mentre, il capo reclino mi ero quasi assopito,
D’improvviso udii bussare leggermente alla porta.
“C’è qualcuno” mi dissi “che bussa alla mia porta.
Solo questo e niente più”.
Ah, ricordo chiaramente quel dicembre desolato,
Delle braci morenti scorgevo i fantasmi al suolo.
Bramavo il giorno e invano scorgevo i fantasmi al suolo.
Un sollievo al dolore per la perduta Lenore,
La cara radiosa fanciulla che gli angeli chiamano Lenore
E che nessuno, qui, chiamerà mai più.
E al serico, triste, incerto fruscio delle purpuree tende
Rabbrividivo, colmo di assurdi tremori inauditi,
Sebbene ripetessi, per acquietare i battiti del cuore:
“È qualcuno alla porta, che chiede di entrare.
Qualcuno attardato, che mi chiede di entrare.
Ecco è questo e nulla più”.
Poi mi feci coraggio e senza più esitare
“Signore, ” dissi “o Signora, vi prego, perdonatemi,
Ma ero un po’ assopito e il vostro lieve tocco,
Il vostro così debole bussare mi ha fatto dubitare
Di avervi veramente udito”. Qui spalancai la porta:
C’erano solo tenebre e nulla più.
Nelle tenebre a lungo, gli occhi fissi in profondo,
Stupefatto, impaurito sognai sogni che mai
Si era osato sognare: ma nessuno violò
Quel silenzio e soltanto una voce, la mia,
Bisbigliò la parola “Lenore” e un eco rispose: “Lenore”.
Solo questo e nulla più.
Rientrai nella mia stanza, l’anima che bruciava.
Ma ben presto, di nuovo, si udì battere fuori,
E più forte di prima. “Certo, ” dissi “è qualcosa
Proprio alla mia finestra: esplorerò il mistero,
Renderò pace al cuore, esplorerò il mistero.
Ma è solo il vento, nulla più”.
Allora spalancai le imposte e sbattendo le ali
Entrò un Corvo maestoso dei santi tempi antichi
Che non fece un inchino, né si fermò un istante.
Ecco aria di dama o di gran gentiluomo
Si appollaiò su un busto di Pallade sulla porta.
Si posò, si sedette, e nulla più.
Poi quell’uccello d’ebano, col suo austero decoro,
Indusse ad un sorriso le mie fantasie meste,
“Benché” dissi “rasata sia la tua cresta, un vile
Non sei, orrido, antico Corvo venuto da notturne rive
Qual è il tuo nome nobile sulle plutonie rive?”.
Disse il Corvo: “Mai più”.
Provai grande stupore a parole tanto chiare
Dette da un goffo uccello, benché di poco senso.
Certo, si converrà, giammai uomo poté vedere
Uccello o altro animale posarsi sulla sua porta:
Uccello o altro animale su un busto in una stanza.
Con un nome così: “Mai più”.
Ma quel Corvo posato solitario sul placido busto,
Come se tutta l’anima versasse in quelle parole,
Altro non disse, immobile, senza agitare piuma,
Finché non mormorai: “Altri amici di già sono volati via:
Lui se ne andrà domani, volando con le mie speranze”.
Allora disse il Corvo: “Mai più”.
Trasalii al silenzio interrotto da un dire tanto esatto,
“Parole” mi dissi “che sono la sola sua scorta sottratta
A un padrone braccato dal Disastro, perseguitato
Finché un solo ritornello non ebbero i suoi canti,
“Mai, mai più”.
Rasserenando ancora il Corvo le mie fantasie,
Sospinsi verso di lui, verso quel busto e la porta,
Una poltrona dove affondai tra fantasie diverse,
Pensando cosa mai l’infausto uccello del tempo antico,
Cosa mai quel sinistro, infausto e torvo animale antico
Potesse voler dire gracchiando “Mai più”.
Sedevo in congetture senza dire parola
All’uccello i cui occhi di fuoco mi ardevano in cuore;
Cercavo di capire, chino il capo sul velluto
Dei cuscini dove assidua la lampada occhieggiava,
Sul viola del velluto dove la lampada luceva
E che purtroppo Lei non premerà mai più.
Parve più densa l’aria, profumata da un occulto
Turibolo, oscillato da leggeri serafini
Tintinnanti sul tappeto. “Infelice”, esclamai “Dio ti manda
Un nepente dagli angeli a lenire il ricordo di Lei,
Dunque bevilo e dimentica la perduta tua Lenore!”
Disse il Corvo: “Mai più”.
Profeta, figlio del male e tuttavia profeta, se uccello
Tu sei o demonio, se il Maligno” io dissi “ti manda
O la tempesta, desolato ma indomito su una deserta landa
Incantata, in questa casa inseguita dall’Orrore,
Io ti imploro, c’è balsamo, dimmi, un balsamo in Galaad?”
Disse il Corvo: “Mai più”.
Profeta, figlio del male e tuttavia profeta, se uccello
Tu sei o demonio, per il Cielo che si china su noi,
Per il Dio che entrambi adoriamo, di’ a quest’anima afflitta
Se nell’Eden lontano riavrà quella santa fanciulla,
La rara raggiante fanciulla che gli angeli chiamano Lenore”.
Disse il Corvo: “Mai più”.
“Siano queste parole d’addio”, alzandomi gridai
“Uccello o creatura del male, ritorna alla tempesta,
Alle plutonie rive e non lasciare una sola piuma in segno
Della tua menzogna. Intatta lascia la mia solitudine,
Togli il becco dal mio cuore e la tua figura dalla porta”.
Disse il Corvo: “Mai più”.
E quel Corvo senza un volo siede ancora, siede ancora
Sul pallido busto di Pallade sulla mia porta.
E sembrano i suoi occhi quelli di un diavolo sognante
E la luce della lampada getta a terra la sua ombra.
E l’anima mia dall’ombra che galleggia sul pavimento
Non si solleverà mai più.
ROBERT BURNS
John Anderson, mio caro, John
John Anderson, mio caro, John,
quando ci siamo conosciuti
i tuoi capelli erano corvini
morbida la tua fronte
e ora la tua fronte è rugosa, John,
i tuoi capelli di neve
ma sia benedetto il tuo bianco
capo, John Anderson, mio caro.
John Anderson, mio caro, John,
l’abbiamo risalita insieme la collina
e molti bei giorni, John, molti
insieme li abbiamo passati
ora a passi incerti dobbiamo
ridiscenderla, John, ma andremo
giù tenendoci per mano
e al fondo dormiremo insieme
John Anderson, mio caro.
WILLIAM SHAKESPEARE
Spesso, a lusingar vette, vidi splendere
sovranamente l’occhio del mattino,
e baciar d’oro verdi prati, accendere
pallidi rivi d’alchimie divine.
Poi vili fumi alzarsi, intorbidata
d’un tratto quella celestiale fronte,
e fuggendo a occidente il desolato
mondo, l’astro celare il viso e l’onta.
Anch’io sul far del giorno ebbi il mio sole
e il suo trionfo mi brillò sul ciglio:
ma, ahimè, poté restarvi un’ora sola,
rapito dalle nubi in cui s’impiglia.
Pur non ne ho sdegno: bene può un terrestre
sole abbuiarsi, se è così il celeste.
LORENZO DE’ MEDICI
dai Canti carnascialeschi
Quant’è bella giovinezza
che si fugge tuttavia!
Chi vuol esser lieto, sia:
del doman non c’è certezza.
Quest’è Bacco e Arianna
belli, e l’un dell’altro ardenti:
perché ‘l tempo fugge e inganna,
sempre insieme stan contenti.
Queste ninfe ed altre genti
sono allegre tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
del doman non c’è certezza.
Questi lieti satiretti,
delle ninfe innamorati,
per caverne e per boschetti
han lor posto cento agguati;
or da Bacco riscaldati,
ballon, salton tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
del doman non c’è certezza.
Queste ninfe anche hanno caro
da lor esser ingannate:
non può fare a Amor riparo,
se non gente rozze e ingrate:
ora insieme mescolate
suonon, canton tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
del doman non c’è certezza.
TRILUSSA
A Lina
Lina, te credi, perché m'hai piantato,
che me suicìdi e te ciariccomanni?
Nun te ce sta' a pijà 'st'affanni,
ché nu' lo fo' 'sto passo disperato.
Io nun m'ammazzo manco se me scanni:
doppo anneressi a di' p'er vicinato
che p'er grugnetto tuo ce s'è ammazzto
un giovenotto de ventiquattr'anni!
Così diventeressi interessante
a la barba d'un povero regazzo,
e te ritroveressi un antro amante...
Ma co' me nun se fanno cert'affari!
Piuttosto dò a d'intenne che m'ammazzo
per causa de dissesti finanziari.
FRANCESCO BERNI
Sonetto contra la moglie
Cancheri e beccafichi magri arrosto,
e magnar carne salsa senza bere;
essere stracco e non poter sedere;
aver il fuoco appresso e ’l vin discosto;
riscuoter a bell’agio e pagar tosto,
e dar ad altri per dover avere;
esser ad una festa e non vedere,
e de gennar sudar come di agosto;
aver un sassolin nella scarpetta
et una pulce drento ad una calza,
che vadi in su in giù per istaffetta;
una mano imbrattata ed una netta;
una gamba calzata ed una scalza;
esser fatto aspettar ed aver fretta:
chi più n’ha più ne metta
e conti tutti i dispetti e le doglie,
ché la peggior di tutte è l’aver moglie.
GABRIELE D’ANNUNZIO
L’ulivo
Laudato sia l'ulivo nel mattino!
Una ghirlanda semplice, una bianca
tunica, una preghiera armoniosa
a noi son festa.
Chiaro leggero è l'arbore nell'aria
E perché l'imo cor la sua bellezza
ci tocchi, tu non sai, noi non sappiamo,
non sa l'ulivo.
Esili foglie, magri rami, cavo
tronco, distorte barbe, piccol frutto,
ecco, e un nume ineffabile risplende
nel suo pallore!
O sorella, comandano gli Ellèni
quando piantar vuolsi l'ulivo, o côrre,
che 'l facciano i fanciulli della terra
vergini e mondi,
imperocché la castitate sia
prelata di quell'arbore palladio
e assai gli noccia mano impura e tristo
alito il perda.
Tu nel tuo sonno hai valicato l'acque
lustrali, inceduto hai su l'asfodelo
senza piegarlo; e degna al casto ulivo
ora t'appressi.
Biancovestita come la Vittoria,
alto raccolta intorno al capo il crine,
premendo con piede àlacre la gleba,
a lui t'appressi.
L'aura move la tunica fluente
che numerosa ferve, come schiume
su la marina cui l'ulivo arride
senza vederla.
Nuda le braccia come la Vittoria,
sul flessibile sandalo ti levi
a giugnere il men folto ramoscello
per la ghirlanda.
Tenue serto a noi,di poca fronda,
è bastevole: tal che d'alcun peso
non gravi i bei pensieri mattutini
e d'alcuna ombra.
O dolce Luce, gioventù dell'aria,
giustizia incorruttibile, divina
nudità delle cose, o Animatrice,
in noi discendi!
Tocca l'anima nostra come tocchi
il casto ulivo in tutte le sue foglie;
e non sia parte in lei che tu non veda,
Onniveggente!
GIORGIO CAPRONI
Ritorno
Sono tornato là
dove non ero mai stato.
Nulla, da come non fu, è mutato.
Sul tavolo (sull'incerato
a quadretti) ammezzato
ho ritrovato il bicchiere
mai riempito. Tutto
è ancora rimasto quale
mai l'avevo lasciato.
MARCHESE DI CACCAVONE
'A cunfessione 'e Taniello
Taniello, ch’ave scrupolo,
mo che se vo’ nzurà,
piglia e da Fra Liborio
va pe se cunfessà.
- Patre, - le dice, - io roseco
e pe niente me ‘mpesto;
ma po’ dico ‘o rusario,
e chello va pe’ chesto...
Patre, ‘ncuollo a li femmene
campo e ‘ncoppo a o’ burdello;
ma sento messe a prereche
e chesto va pe’ chello.
Jastemmo, arrobbo... ‘O prossimo
spoglio e lle dongo ‘o riesto;
ma po’ faccio ‘a lemmosena...
e chello va pe’ chesto.
- E mo, Patre, sentitela
st’urdema cannunata:
‘a sora vosta, Briggeta,
me l’aggio ‘nzapunata... –
Se vota Fra Liborio:
— Guagli, tu si’ Taniello?
Io me ‘nzapono a mammeta,
e chesto va pe’ chello!
ALDO FABRIZI
La dieta
Doppo che ho rinnegato Pasta e pane,
so' dieci giorni che nun calo, eppure
resisto, soffro e seguito le cure...
me pare un anno e so' du' settimane.
Nemmanco dormo più, le notti sane,
pe' damme er conciabbocca a le torture,
le passo a immaginà le svojature
co' la lingua de fòra come un cane.
Ma vale poi la pena de soffrì
lontano da 'na tavola e 'na sedia
pensanno che se deve da morì?
Nun è pe' fà er fanatico romano;
però de fronte a 'sto campà d'inedia,
mejo morì co' la forchetta in mano!
LANGSTON HUGHES
Jim Crow
Dov’è il posto per Jim Crow
sui cavalli di questa giostra?
Vuoi sapere, signore,
perché ho tanta voglia
di andare a cavallo?
Io vengo dal Sud,
dove al negro e al bianco
- giù nel Sud -
non è permesso di sedere fianco a fianco.
Giù, nel Sud, il treno
ha un vagone a parte
per Jim Crow.
E nell’autobus,
ci mettono dietro, nell’autobus.
Ma la giostra è rotonda
e non possono mettermi dietro:
dov’è il cavallo
per una ragazzina che è negra?
LAO TSU
Veder lontano
Senza uscir dalla porta
si può sapere il mondo.
senza guardare fuor della finestra
conoscere si può le vie del cielo
più lontano si va men s’apprende
per questo l’uomo saggio
non cammina ed arriva
non riguarda e sa il nome delle cose
non agisce e pur compie.
SALVATORE DI GIACOMO
Marzo
Marzo: nu poco chiove
e n’ato ppoco stracqua:
torna a chiòvere, schiove,
ride ‘o sole cu ll’acqua.
Mo nu cielo celeste,
mo n’aria cupa e nera:
mo d’ ’o vierno ‘e tempeste,
mo n’aria ‘e primmavera.
N’auciello freddigliuso
aspetta ch’esce ‘o sole:
ncopp’ ’o turreno nfuso
suspireno ‘e vviole.
Catarì!…Che buo’ cchiù?
Ntiénneme, core mio!
Marzo, tu ‘o ssaie, si’ tu,
e st’ auciello songo io.
MARZIALE
Il colmo della brevità
Che son lunghi i miei carmi tu, Veloce, rilevi.
Tu non ne scrivi punti: perciò sono più brevi.
EUGENIO MONTALE
Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
VIRGILIO GIOTTI
I veci che ‘speta la morte
I la 'speta sentai su le porte
de le cesete svode d'i paesi;
davanti, sui mureti,
5 co' fra i labri la pipa.
E par ch'i vardi el fumo,
par ch'i fissi el ziel bianco inuvolado
col sol che va e che vien,
ch'i vardi in giro le campagne e, sotto,
10 i copi e le stradete del paese.
Le pipe se ghe studa;
ma lori istesso i le tien 'vanti in boca.
Pipe,
che le xe squasi de butarle via,
15 meze rote, brusade,
che le ciama altre nove:
ma za
le bastarà.
Se senti el fabro del paese bàter,
20 in ostaria ch'i ciàcola,
un contadin che zapa là vizin,
e el rugna
e el se canta qualcossa fra de sé
ch'el sa lu' solo;
25 e po' ogni tanto un sparo,
in quel bianchiz smorto de tuto,
un tiro solo, forte.
I veci che 'speta la morte.
I la speta sentai ne le corte,
30 de fora de le case, in strada,
sentai su 'na carega bassa,
co' le man sui zenoci.
I fiori che zoga 'ntorno.
I zoga coi careti,
35 i zoga còrerse drio,
i ziga, i urla
che no' i ghe ne pol più:
e quei più pici i ghe vien fina 'dosso,
tra le gambe;
40 i li sburta,
i ghe sburta la sedia,
i ghe porta la tera e i sassi
fin sui zenoci e su le man.
Passa la gente,
45 passa i cari de corsa con un strèpito,
pieni, stivai de òmini e de muli
che torna de lavor:
e tra de lori ghe xe un per de fie
mate bacanone,
50 che in mezo a quei scassoni
le ridi e ridi;
e le ga el rosso del tramonto in fronte.
I veci che 'speta la morte.
I la 'speta a marina sui muci
55 tondi de corde;
ne le ombre d' i casoti,
cuciai par tera,
in tre, in quattro insieme.
Ma ziti.
60 I se regala qualche cica
vanzada d' i zigàri de la festa,
o ciolta su, pian pian, par tera,
con un dolor de schena:
i se regala un fulminante
65 dovù zercar tre ore,
con quele man che trema,
pai scarselini del gilè.
A qualchidun ghe vigniria, sì,
de parlare qualche volta;
70 ma quel che ge vien su,
che lu' el volaria dir,
lo sa anca l'altro,
lo sa anca staltro e staltro.
Nel porto, in fondo, xe 'na confusion,
75 un sussuro lontan,
forte che se lo senti istesso.
I vaporeti parti
e riva drïo man.
I ciapa el largo, i va via pieni neri;
80 i riva driti, i se gira, i se 'costa,
i sbarca in tera
muci de gente
che se disperdi sùbito.
Resta solo el careto de naranze,
85 un per de muli
che i se remena tuto el dopopranzo
l' 'torno,
e el scricolar sul sol del ponte.
I veci che 'speta la morte.
90 I la 'speta sentai su le porte
dei boteghini scuri in zitavècia;
nei pìcoli cafè, sentai de fora,
co' davanti do soldi
de àqua col mistrà;
95 e i legi el foglio le ore co' le ore.
In strada,
ch'el sol la tàia in due,
ghe xe un va e vien contìnuo,
un mòverse, nel sol ne l'ombra,
100 de musi, de colori.
I legi el foglio:
ma tte robe xe
che ghe interessa poco;
ma come mi i lo legi,
105 quando che 'speto su 'na cantonada
la mia putela,
che tiro fora el foglio
par far qualcossa,
ma che lèger, credo de lèger,
110 ma go el pensier invezi a tuto altro;
e un caminar, 'na vose,
che me par de sintir,
me fermo e 'scolto.
EDGAR LEE MASTERS
La collina
Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,
l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso?
Tutti, tutti, dormono sulla collina.
Uno trapassò in una febbre,
uno fu arso nella miniera,
uno fu ucciso in rissa,
uno morì in prigione,
uno cadde da un ponte lavorando per i suoi cari -
tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.
Dove sono Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie,
la tenera, la semplice, la vociona, l’orgogliosa, la felice?
Tutte, tutte, dormono sulla collina.
Una morì di un parto illecito,
una di amore contrastato,
una sotto le mani di un bruto in un bordello,
una di orgoglio spezzato, mentre anelava al suo ideale,
una inseguendo la vita, lontano, in Londra e Parigi,
ma fu riportata nel piccolo spazio con Ella, con Kate, con Mag -
tutte, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina.
Dove sono zio Isaac e la zia Emily,
e il vecchio Towny Kincaid e Sevigne Houghton,
e il maggiore Walker che aveva conosciuto
uomini venerabili della Rivoluzione?
Tutti, tutti, dormono sulla collina.
Li riportarono, figlioli morti, dalla guerra,
e figlie infrante dalla vita,
e i loro bimbi orfani, piangenti -
tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.
Dov’è quel vecchio suonatore Jones
che giocò con la vita per tutti i novant'anni,
fronteggiando il nevischio a petto nudo,
bevendo, facendo chiasso, non pensando né a moglie né a parenti,
né al denaro, né all’amore, né al cielo?
Eccolo! Ciancia delle fritture di tanti anni fa,
delle corse di tanti anni fa nel Boschetto di Clary,
di ciò che Abe Lincoln
disse una volta a Springfield.
JEAN-ARTHUR RIMBAUD
Bimbi attoniti
Neri, sopra la neve, nella bruma,
davanti allo spiraglio che s’alluma,
i culi a giro-tondo,
cinque bimbi – miseria – ginocchioni
ammirano il fornaio fare i buoni
tòcchi di pane biondo.
Guardano il braccio bianco andare intorno
nell’impasto; le fàuci aperte, il forno
attende rosso vivo.
Ascoltano la pasta che si cuoce,
mentre il grasso fornaio dà la voce
ad un vecchio motivo.
Incantàti. Non uno mai s’è mosso.
Alita lo spiraglio un fiato rosso
e caldo come un seno.
E quando, nella bruma, mezzanotte
Scocca, e crocchianti e sode le pagnotte
Riversa il forno pieno,
quando le profumate croste d’oro
sotto i travi fumosi fanno coro
coi grilli nei crepacci;
e l’ampia bocca un àlito di vita
spande, - sèntono l’anima rapita
nei pochi cenci diacci.
Ricorre ai bimbi nelle vene un fiotto
vivo, a quei Cristi abbrividenti sotto
la sferza, tutta brina;
incollano le facce bianco-rosa
all’inferriata, cantano qualcosa
d’indistinto in sordina:
una preghiera con le labbra smorte,
protesi a quel miraggio con sì forte
slancio, che nell’istante
si schiàntano le cinque braghe in fila,
e le camicie lacere staffila
il vento sibilante.
RAINER MARIA RILKE
La pantera
Il difilar dei ferri entro la gabbia,
il suo sguardo accecò. Più non ravvisa.
Moltiplica le sbarre, a cento, a mille:
ma, dietro quelle sbarre, è il vuoto, il nulla.
Nel flessuoso molleggiar dei passi
grevi tornanti entro il racchiuso giro,
par che l’Impeto danzi attorno a un centro,
ove una enorme Volontà vien meno.
Solo, a volte, su l’arida pupilla,
tacito, un velo si solleva; e irrompe
una imagine in essa; e via balena
lungo il silenzio delle membra tese,
per smorzarsi, veloce, in fondo al cuore.
KONSTANTINOS KAVAFIS
I troiani
Sono gli sforzi miei come gli sforzi
dei Troiani: un’impresa ci riesce,
prendiamo il sopravvento, e cominciamo
ad avere coraggio e a sperar bene.
Ma sempre vien qualcosa che ci arresta:
Achille sul fossato avanti a noi
esce, e con grandi grida ci terrifica.
Sono gli sforzi nostri come quelli
dei Troiani: pensiamo che l’ardire
e la decisione muteranno
la sorte che precipita. E stiam fuori,
per affrontar la lotta. Ma allorquando
giunge il momento critico, l’audacia
e la fermezza nostra se ne vanno.
Si turba il nostro spirito, vaneggia:
e noi facciamo il giro delle mura,
cercando di salvarci con la fuga.
Pur la caduta nostra è certa. Sulle
mura già il lutto cominciò…
Amaro
per noi versa, con Priamo, ecuba il pianto.
KONSTANTINOS PALMAS
Dinanzi alla finestra
Davanti è la finestra, là nel fondo
il cielo, solo il cielo, e nulla più;
e in mezzo, tutto fasciato di cielo,
alto snello un cipresso; e nulla più.
E sia sereno il cielo oppur sia scuro,
gioia d’azzurro, èmpito di tempesta,
calmo ed egual sempre il cipresso oscilla,
splendido e disperato. E nulla più
SALVATORE DI GIACOMO
Pianefforte ‘e notte
Nu pianefforte 'e notte
sona luntanamente,
e 'a museca se sente
pe ll'aria suspirà.
È ll'una: dorme 'o vico
ncopp' a nonna nonna
'e nu mutivo antico
'e tanto tiempo fa.
Dio, quanta stelle 'n cielo!
Che luna! e c'aria doce!
Quanto na della voce
vurria sentì cantà!
Ma sulitario e lento
more 'o mutivo antico;
se fa cchiù cupo 'o vico
dint'a ll'oscurità..
Ll'anema mia surtanto
rummane a sta fenesta.
Aspetta ancora. E resta,
ncantannese, a pensà.
MARZIALE
Tu solo hai campagne, tu solo hai quattrini,
o Candido, e gli ori e i vasi più fini,
tu solo ti bevi i Massicci vini,
tu solo ci hai cuore, tu solo ci hai testa,
tu solo ci hai tutto – e chi lo contesta?:
soltanto in comune tua moglie ci resta.
TRILUSSA
L’onestà de mi’ nonna
Quanno che nonna mia pijò marito
nun fece mica come tante e tante
che doppo un po' se troveno l'amante...
Lei, in cinquant'anni, nu' l'ha mai tradito!
Dice che un giorno un vecchio impreciuttito
che je voleva fa' lo spasimante
je disse: - V'arigalo 'sto brillante
se venite a pijavvelo in un sito. -
Un'antra, ar posto suo, come succede,
j'avrebbe detto subbito: - So' pronta.
Ma nonna, ch'era onesta, nun ciagnede;
anzi je disse: - Stattene lontano... -
Tanto ch'adesso, quanno l'aricconta,
ancora ce se mozzica le mano!
EMILY DICKINSON
Se non dovessi vivere
Se non dovessi vivere
quando vengono i pettirossi,
date a uno di essi
una briciola in memoria.
Se non potessi ringraziarvi,
essendomi appena addormentata,
pensate che tenterò di farlo
con le mie labbra di granito.
EDWARD ESTLIN CUMMINGS
Due XI
La mia cara vecchia eccetera
zia lucia durante l'ultima
guerra poteva dirvi
e quel che è più importante
dirvi esattamente
per cosa tutti stavano
combattendo,
mia sorella
isabella creava centinaia
(e centinaia) di calzini per non
parlare delle camice
scaldaorecchie e antipulci
eccetera stringipolsi eccetera,
mia madre sperava che
io morissi eccetera
coraggiosamente è naturale
mio padre usava
diventare rauco parlando
di come era un privilegio
e se solo potesse mentre io
stesso eccetera giacevo
tranquillamente
nel fango profondo e
eccetera
(sognando,
e
eccetera, del
Tuo sorriso
occhi ginocchia e del tuo
Eccetera).
VINCENZO CARDARELLI
Attesa
Oggi che t'aspettavo non sei venuta.
E la tua assenza so quel che mi dice,
la tua assenza che tumultuava,
nel vuoto che hai lasciato,
come una stella.
Dice che non vuoi amarmi.
Quale un estivo temporale
S'annuncia e poi s'allontana,
così ti sei negata alla mia sete.
L'amore, sul nascere, ha di
questi improvvisi pentimenti.
Silenziosamente ci siamo intesi.
Amore, Amore, come sempre,
vorrei coprirti di fiori e d'insulti.
TRILUSSA
Er Porco e er Somaro
Una matina un povero Somaro
Ner vede un Porco amico annà ar macello,
Sbottò in un pianto e disse: - Addio, fratello,
Nun ce vedremo più nun c'è riparo!
- Bisogna esse' filosofo,bisogna:
- Je disse er Porco - via nun fa' lo scemo,
Chè forse un giorno ce ritroveremo
In quarche mortatella de Bologna!
VALERY LARBAUD
Nel piccolo bar
Nel piccolo bar chiaro dai mobili cerati,
avevamo sorbito bevande inglesi, a lungo;
tepida intimità, le cortine tirate.
Fuori, il vento del mare: e tremavan le sedie.
Stanza da fumatori, parea, di nave e treno.
Avevo il cuore stretto come quando si viaggia;
ero tutto commosso, ero dolce e distante;
ero come un fanciullo pieno d’angoscia e savio.
Eppure, intorno a noi tutto era così calmo!
La gente presso il banco, si facea confidenze.
Oh come si è piccini, oh come si è in ginocchio,
certe sere, sentendovi sì vicine, onde immense!
JULES SUPERVIELLE
Preghiera all’ignoto
Ecco che mi sorprendo a rivolgerti la parola,
Mio Dio, io che ancora non so se esisti
E non comprendo la lingua delle tue chiese bisbiglianti.
Guardo gli altari, la volta della tua dimora,
Come chi dica semplicemente: ecco il legno, la pietra,
Ecco le colonne romane.
A questo santo manca il naso.
E dentro come fuori, c’è l’angoscia umana.
Abbasso gli occhi senza potermi inginocchiare durante la messa,
Come se lasciassi passare il temporale sulla mia testa.
E non posso impedirmi di pensare a tutt’altra cosa.
Ahimè! Avrò passato la mia vita a pensare a un’altra cosa.
Quest’altra cosa, sono sempre io.
È forse il mio vero io.
È là che mi rifugio.
È la che forse tu sei.
Non avrei vissuto che in queste lontananze attraenti.
Il momento presente è un regalo del quale non ho saputo approfittare.
Non ne conosco bene l’uso.
Lo giro in ogni senso,
Senza saper avviare il suo complicato meccanismo.
JACQUES PRéVERT
Colazione del mattino
Egli ha versato il caffè
Nella tazza
Egli ha versato il latte
Nella tazza di caffè
Egli ha messo lo zucchero
Nel caffelatte
Con il cucchiaio
Ha mescolato
Egli ha bevuto il caffelatte
E ha posato la tazza
Senza parlarmi
Ha acceso
Una sigaretta
Ha fatto dei cerchi
Con il fumo
Ha messo la cenere
Nella ceneriera
Senza parlarmi
Senza guardarmi
S’è alzato
Ha messo
Il cappello in testa
Ha messo
l’impermeabile
Perché pioveva
Ed è andato via
Sotto la pioggia
Senza una parola
Senza uno sguardo
E io ho preso
La testa tra le mani
E ho pianto.
ANTONIO MACHADO
Esperienza
Ho percorso strade su strade,
ho tracciato nuovi sentieri:
per cento mari ho salpato:
a cento approdi son giunto:
e in ogni paese ho veduto
carovane di tristezza:
superbi e malinconici
beoni dall'ombra nera:
e pedantoni in vetrina,
che guardano e tacciano e pensano:
che sanno, perché non bevono
il vino delle taverne.
Pessima gente, che appesta
la terra dove cammina.
E in ogni paese, ho veduto,
v'e' gente che danza e che giuoca
fin quando si può, poi lavora
i quattro suoi palmi di terra.
Se giungono a nuovi paesi,
non chiedono mai dove sono;
se vanno in viaggio, li vedi
sul dorso a decrepite mule;
e non conoscono fretta
, neppure nei giorni di festa;
e bevono vino, se han vino:
se non han vino, acqua fresca.
Buona gente, gente che vive,
che lavora, che soffre, che sogna;
che infine, in un dì come tanti,
vanno a dormire sotterra.
ALDO PALAZZESCHI
Il passo delle Nazarene
Nazarene bianche, Nazarene nere.
Del fiume alle rive
si guardan da tanto i conventi,
si guardan con occhio di vecchia amicizia
le piccole torri, una bianca e una nera,
le suore s' incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Due volte s' incontran, le bianche e le nere,
sul ponte, sul ponte che unisce i conventi,
li unisce da tanto per vecchia amicizia,
le piccole torri si guardan ridenti
una bianca e una nera,
le suore s' incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Le piccole chiese al crepuscolo s' aprono,
ne sortono leste le suore ed infilano il ponte,
nel mezzo s' incontran, s' inchinano,
le bianche e le nere,
si recan l' un l' altre alla piccola chiesa al saluto;
vi fanno una breve preghiera
e leste rinfilano il ponte.
Di nuovo s' incontran, s' inchinan le file
una bianca e una nera,
le suore s' incontran la sera,
la sera, la sera al crepuscolo.
ROCCO GALDIERI
Pènzame, guappo
Guappo, ca t’appresiente cu’ ‘sta catena d’oro.
Guappo, ca tu m’accide? Che mme ne ‘mporta? [Moro.
Si ‘a miette sotto chiave… ‘Nu mese… e ce [scummetto
ca moro ‘o stesso. Guappo, pirciò… si vuò, [t’aspetto.
N’amminaccià; ma famme chiammà pe’ quacche [amico
Fidato ‹‹ Don Gennaro ve vò! Sta for’ ‘o vico. ››
Zompo addò staie. Te parlo comm’ ‘a perzona [cara;
e te dico a tte ‹‹ So’ pronto… Guappo, sì guappo? E [spara! ››
Zitto, comme mme cuoglie, vattenne muro muro…
E si nun moro subbeto, còccate… e sta’ sicuro:
Nun pparlo a ‘e Pellerine. Moro, senza dì niente.
Si avesse dì quaccosa, dicesse sulamente
Però, quanno so’ muorto… pènzame. ‘O munno [avota…
e tu sarraie felice tennenola vicino!
Ma… quanno, dinto ‘o vierno… dopp’ ‘o bicchiere [‘e vino,
primma ‘e luvare ‘a tavula, tagliate ‘nu mellone…
ch’esce zucuso ‘e zuccaro… Sì ‘ncaso maie [t’adduone
ch’essa… se mette a chiagnere… nun farle ‘o [musso stuorto…
Pènzame! ‘sti mellune…saie chi ‘appennette? ‘O [muorto!
JORGE GUILLéN
Albero autunnale
Già matura
a foglia pel sereno suo distacco
discende
nel cielo sempre verde dello stagno.
In calmo
languore della fine, l’autunno s’immedesima.
Dolcissima
la foglia s’abbandona al puro gelo.
Sott’acqua
con incessanti foglie va l’’albero al suo dio.
GERARDO DIEGO
Gli anni perduti
E la tua infanzia, dimmi, dove sta la tua infanzia?
Perché io la voglio.
Le acque che bevesti,
i fiori che calpestasti,
le trecce che annodasti,
i sorrisi che perdesti.
Come è possibile che non fossero miei?
Dimmelo, sono triste.
Quindici anni soltanto tuoi, e mai miei.
Non mi celare la tua infanzia.
Chiedi a Dio che rifaccia il tempo:
tornerà la tua infanzia e giocheremo.
ALCEO DI MITILENE
La conchiglia marina
O conchiglia marina, figlia
della pietra e del mare biancheggiante,
tu meravigli la mente dei fanciulli.
EZRA POUND
[…]
Le donne da cercare o da fuggire, le donne come ossessione. Ma anche le donne come Personae (titolo del suo secondo libro di versi), cioè le maschere tragiche che agli antichi attori consentivano di evocare gli dei e gli eroi. A una di queste è dedicato uno dei due canti scritti in italiano, il 73°, composto di getto e quasi in trance, sulla cadenza degli stilnovisti, intitolato Corrispondenza repubblicana (l’agenzia di stampa della Rsi) ma dedicato al Guido Cavalcanti che gli appare in sogno. La protagonistaè ‹‹ una contadinella un po’ tozza ma bella ›› stuprata a Rimini dagli alleati, che si vendica guidandoli in un campo minato per ucciderli saltando in aria con loro:
‹‹ All’inferno ‘l nemico
furon venti morti
morta la ragazza
fra quella canaglia… ››.
L’immolazione diventa una rapsodia e un’apologia:
‹‹ Morir per la patria
nella Romagna!
Morti non morti son’
Che bell’inverno!
Nel settentrion rinasce la patria
Ma che ragazza!
che ragazze
che ragazzi
portan’ il nero ››.
Poteva essere magnificata e vezzeggiata questa romagnola kamikaze che muore non solo per il suo onore di donna, ma anche per quello del nero che porta? Certamente no. E difatti, fino agli anni 70, il Canto LXXIII è puntualmente scomparso da tutte le edizioni poundiane pubblicate all’estero.
CARL SANDBURG
Il rapido
Io vado in rapido, uno dei treni scelti
della nazione.
A rotta di collo per la prateria nella bruma azzurrina
e nell’aria scura corrono quindici vagoni tutti acciaio con mille viaggiatori.
(Tutti i vagoni finiranno in ruggine e rottami, tutti gli uomini
e le donne che ridono nei vagoni-ristorante e nei vagoni-letto
finiranno in cenere.)
Chiedo ad un uomo dello scompartimento fumatori dove stia andando,
e lui risponde: “A Omaha”.
dalle SENTENZE INDIANE (inizio era volgare)
L’uom che in questo viver vano
cerca la felicità,
come il bambinello fa
che si succia il dito invano:
succia, succia, si dibatte,
vien saliva e non il latte.
TAO CH’IEN
I cinque figli
Ciocche bianche mi coprono le tempie;
son rugoso e appassito senza scampo.
Ho cinque figli, è vero;
ma tutti odian la carta ed il pennello.
Ha diciott’anni A-shu;
per la pigrizia è proprio impareggiabile.
A-suan fa quel che può:
ma in verità detesta le Arti Belle.
Jun-tuan ha tredici anni,
ma non distingue ancora sei da sette.
Nel nono anno Tung Tzu
non pensa che alle noci ed alle pere.
Se il ciel così mi tratta,
che posso far se non empir la coppa?
TRILUSSA
L’ape, er baco, lo scorpione
Un'Ape, ne l'uscì dall'osteria
con un Baco da seta e 'no Scorpione,
je disse - Grazzie de la compagnia:
spero de rivedevve a casa mia
in un'antra occasione.
Io, però, nun ricevo che a la sera
perché lavoro e tutta la giornata
fabbrico er miele e fabbrico la cera.
- Pur'io fatico e filo Dio sa quanto,
- fece er Baco da seta - e nun me resta
libbera che la festa...
- Su la tabbella der portone mio
- je disse lo Scorpione - ce sta scritto:
"Cammera del Lavoro". Lì sto io.
Per me qualunque giorno è indiferente,
so' pronto a fa' bisboccia a qualunqu'ora:
venite puro su libberamente...
- E voi che fate? - Gnente,
ma organizzo la gente che lavora.
PO CHU
Sulla mia calvizie
All’alba sospiravo
vedendo i miei capelli che cadevano,
a sera sospiravo
vedendo i miei capelli che cadevano,
e paventavo il giorno
quando l’ultima ciocca
se ne sarebbe andata.
Son tutti andati – e non m’importa nulla!
Il tedioso pettine
è messo via per sempre;
è terminato il faticoso compito
di lavare e asciugare.
Ma la cosa più bella:
nell’aria calda e umida
non aver più quel nodo
che pesa sulla testa.
Ripongo il polveroso casco a cono,
e mi sciolgo la frangia del colletto.
In un vaso d’argento
serbo un rivolo freddo:
sul mio capo pelato
lo faccio sgocciolare col cucchiaio.
Come uno battezzato
dall’acqua della Regola di Budda
accolgo questa fresca
e detergente gioia.
Ora so perché il prete
in cerca di riposo
per liberarsi il cuore
prima si rade il capo.
FRIEDRICH HOERDERLIN
‹‹ Tedium vitae ››
Ahi del mondo già goduta già goduta ho la [dolcezza…
Quanto tempo quanto tempo che fuggì la [giovinezza!
Ahi che Aprile Maggio e Luglio son lontani laggiù…
È finito è finito: e non bramo e non amo viver più.
LEONARDO SINISGALLI
A mio padre
L’uomo che torna solo
A tarda sera dalla vigna
Scuote le rape nella vasca
Sbuca dal viottolo con la paglia
Macchiata di verderame.
L’uomo che porta così fresco
Terriccio sulle scarpe, odore
Di fresca sera nei vestiti
Si ferma a una fonte, parla
Con un ortolano che sradica i finocchi.
E’ un uomo, un piccolo uomo
Ch’io guardo di lontano.
E’ un punto vivo all’orizzonte.
Forse la sua pupilla
Si accende questa sera
Accanto alla peschiera
Dove si asciuga la fronte.
EDWARD ESTLIN CUMMINGS
O dolce spontanea terra
O dolce spontanea
terra quante volte
ti hanno
rimbambite
dita di
perversi filosofi pizzicato
e
scavato
in te
, il pollice sfacciato
della scienza pungolato
la tua
bellezza .quante
volte ti hanno religioni preso
sulle ginocchia ossute
stringendoti e
sbertucciando per farti concepire
dei
(ma
fedele
all’incomparabile
letto della morte
tuo ritmico
amante
tu hai risposto
loro solo con
primavera)
RAINER MARIA RILKE
Annunciazione
(Le parole dell'Angelo)
Tu non sei più vicina a Dio
di noi; siamo lontani
tutti. Ma tu hai stupende
benedette le mani.
Nascono chiare a te dal manto,
luminoso contorno:
Io sono la rugiada, il giorno,
ma tu, tu sei la pianta.
Sono stanco ora, la strada è lunga,
perdonami, ho scordato
quello che il Grande alto sul sole
e sul trono gemmato,
manda a te, meditante
(mi ha vinto la vertigine).
Vedi: io sono l'origine,
ma tu, tu sei la pianta.
Ho steso ora le ali, sono
nella casa modesta
immenso; quasi manca lo spazio
alla mia grande veste.
Pur non mai fosti tanto sola,
vedi: appena mi senti;
nel bosco io sono un mite vento,
ma tu, tu sei la pianta.
SAFFO
Mi pare simile a un dio
l'uomo che ti siede accanto
e ti ascolta così, mentre parli
con lieve sussurro e ridi amabile:
questo mi stringe il cuore nel petto!
Basta che ti getti uno sguardo
e subito la voce mi manca
la lingua si spezza, subito
un fuoco sottile mi scivola
sotto la pelle,
lo sguardo s'offusca, rombano le oreccchie,
un freddo sudore mi cola, utta
mi scuote un tremito,
e più verde dell'erba divento
e poco manca che muoia.
Ma bisogna che tutto sopporti...
CHARLES BUKOWSKI
Un cavallo da 340 dollari
e una puttanada cento
non vi venga l' idea che io sono un poeta; mi trovate
mezzo sbronzo all' ippodromo ogni giorno
a puntare su quarter, trottatori e purosangue,
ma fatevelo dire, là ci sono delle donne
che seguono i quattrini, e qualche volta
quando guardi queste puttane queste puttane da cento dollari
qualche volta ti domandi se la natura non ha scherzato
a regalare tanto petto e tanto culo e la maniera
in cui sta tutto insieme, tu guardi e guardi e
e guardi e non ci credi; ci sono le donne qualsiasi
e poi c'è qualcos'altro che ti fa venir voglia
di sfondare quadri e spaccare dischi di Beethoven
sul coperchio del cesso; in ogni modo, la stagione
si trascinava e i pezzi grossi restavano in bolletta,
tutti i non professionisti, i produttori, gli operatori,
gli spacciatori di marijuana, i pellicciai, gli stessi
proprietari, e 'sto giorno correva Saint Louis:
un cavallo che rompeva quando l' arrivo era serrato
correva a testa bassa, era brutto e cattivo
dato 35 a 1, e io puntai un deca su di lui.
il guidatore lo spinse al largo
lo portò allo steccato dove sarebbe stato solo
anche se doveva fare il quadruplo di strada,
e fu così che fece
tutta la gara contro lo steccato
correndo per due miglia anziché una
e vinse come se avesse il diavolo alle calcagna
e non era nemmeno stanco,
e la bionda più grossa di tutte
tutta culo e tette, praticamente nient'altro
venne con me a riscuotere.
quella notte non riuscii a distruggerla
anche se le molle sprizzavano scintille
che rimbalzavano sui muri.
più tardi là seduta in sottoveste
bevendo Old Grandad
disse
come mai un tipo come te
vive in una stamberga come questa?
e io dissi
sono un poeta
e lei buttò indietro la testa e rise.
tu? tu... un poeta?
proprio così, dissi, proprio così.
ma mi piaceva ancora, sì, mi piaceva,
e tante grazie a un brutto cavallo
che ha scritto questa poesia.
JORGE LUIS BORGES
La Recoleta
Persuasi di caducità
da tante nobili certezze della polvere,
indugiamo e abbassiamo la voce
tra il lento susseguirsi delle tombe
la cui retorica di marmo e d’ombra
promette e prefigura l’augurabile
dignità di essere morti.
Sono belli i sepolcri,
il nudo latino e le congiunte date fatali,
il fiore accanto al marmo
e le piazzette fresche come patios
e i molti ieri della storia
oggi arrestata e unica.
Confondiamo quella pace con la morte,
pensiamo di anelare la nostra fine
ed aneliamo sonno e indifferenza.
Vibrante nelle spade e nell’ardore
e assopita nell’edera,
solo la vita esiste.
Sono due forme di spazio e tempo
sono strumenti magici dell’anima,
e quando questa si spegnerà,
si spegneranno insieme spazio, tempo e
morte,
come al cessare della luce
si estingue il simulacro degli specchi
che l’imbrunire aveva quasi spento.
Ombra benevola degli alberi,
vento di uccelli che sui rami ondeggia,
anima che si dissolve in altre anime,
sarebbe un miracolo se smettessero di esistere,
miracolo incomprensibile,
anche se il suo ripetersi illusorio
macchia di orrore i nostri giorni.
Queste cose pensai alle Recoleta
nel luogo delle mie ceneri.
VIRGILIO GIOTTI
Figura de putela
Davanti una vetrina,
che se spècia i colori
ciari de la matina,
‘na garzona ghe xe, col scatolon
sul brazzo, co la fronte sul lastron.
Sun na gamba sola
la sta; e el pie de l’altra,
lassada cascar mola,
la lo nina. Le scarpe che la ga
xe quele che la mistra ghe ga dà.
Dal viso solo un poco
se ghe vedi, un rosseto;
‘na rècia, el colo, un fioco.
Sora el covèrcio, bela, xe una man
de pìcia, là pozada, una sua man.
Un pitor, co’l ga ciolta
zo ‘na figura, altro
no’l fa. Cussì stavolta
fazzo anca mi. Meto ancora un fiatin
de rosa su le calze, un cincinin
quel nastro d’i cavei
fazzo ancora più scuro;
e meto zo i penei.
Altro de far, altro no’ go de dir:
che ben che vòio, ‘nidun pol capir.
La lasso parlar ela;
che sola la ve conti
quel che la varda in quela
vetrina, quel che la pensa, ormai là
ferma par sempre, quel che in cuor la ga.
CHARLES BAUDELAIRE
La sera
Complice dei ribaldi, ecco già la leggiadra
sera a passi di lupo giunge, come una ladra;
lento si chiude il cielo, come una grande alcova,
e una belva si muove nell'uomo, avida e nuova.
O dolce sera, premio di chi, senza mentire,
le affaticate braccia guardandosi, può dire:
<< Oggi s'è lavorato >>, tu che sai consolare
l'anime tribolate dalle pene più amare,
lo studioso ostinato che già reclina il ciglio,
l'operaio che curvo ritorna al suo giaciglio!
Pesantemente, intanto, nell'aria orde di neri
demoni si risvegliano a guisa di banchieri,
e su imposte e tettoie ciecamente s'avventano.
Nelle vie, fra le luci che la bora tormenta,
s'accende il Meretricio, e si scava, alla pari
d'un formicaio, mille labirinti e ripari,
aprendosi dovunque qualche varco nascosto,
come avanza nell'ombra furtivo un avamposto,
e nel grembo di fango delle città malsane
di soppiatto movendosi, come il verme nel pane.
Qua e là le cucine s'odono ora ansare,
e muggire i teatri, e le orchestre russare;
ora, in combutta, mettono bari e sgualdrine il piede
nei locali ove il gioco le sue gioie concede,
mentre i ladri, che posa non hanno né pietà,
vanno anch'essi al lavoro, e piano piano già
forzano gli usci e vuotano le casseforti infrante,
per vivere qualche giorno e vestire l'amante.
Chiuditi in te in questo solenne attimo, o mia
anima; ignora l'urlo che sale dalla via.
Questa è l'ora che accresce gli spasimi del male,
e di sospiri e aneliti riempie l'ospedale,
quando il comune abisso ad uno ad uno inghiotte
i morenti, abbrancati dalla squallida Notte.
- Mai più per loro, a sera, l'odorosa pietanza,
né, accanto al fuoco, un viso di donna, in una stanza...
Del resto, i più non hanno nemmeno conosciuto
il bene d'una casa, non hanno mai vissuto!
GUIDO GOZZANO
Cocotte
I.
Ho rivisto il giardino, il giardinetto
contiguo, le palme del viale,
la cancellata rozza dalla quale
mi protese la mano ed il confetto...
II.
«Piccolino, che fai solo soletto?»
«Sto giocando al Diluvio Universale.»
Accennai gli stromenti, le bizzarre
cose che modellavo nella sabbia,
ed ella si chinò come chi abbia
fretta d'un bacio e fretta di ritrarre
la bocca, e mi baciò di tra le sbarre
come si bacia un uccellino in gabbia.
Sempre ch'io viva rivedrò l'incanto
di quel suo volto tra le sbarre quadre!
La nuca mi serrò con mani ladre;
ed io stupivo di vedermi accanto
al viso, quella bocca tanto, tanto
diversa dalla bocca di mia Madre!
«Piccolino, ti piaccio che mi guardi?
Sei qui pei bagni? Ed affittate là?»
«Sì... vedi la mia mamma e il mio Papà?»
Subito mi lasciò, con negli sguardi
un vano sogno (ricordai più tardi)
un vano sogno di maternità...
«Una cocotte!...»
«Che vuol dire, mammina?»
«Vuol dire una cattiva signorina:
non bisogna parlare alla vicina!»
Co-co-tte... La strana voce parigina
dava alla mia fantasia bambina
un senso buffo d'ovo e di gallina...
Pensavo deità favoleggiate:
i naviganti e l'Isole Felici...
Co-co-tte... le fate intese a malefici
con cibi e con bevande affatturate...
Fate saranno, chi sa quali fate,
e in chi sa quali tenebrosi offici!
III.
Un giorno - giorni dopo - mi chiamò
tra le sbarre fiorite di verbene:
«O piccolino, non mi vuoi più bene!...»
«È vero che tu sei una cocotte?»
Perdutamente rise... E mi baciò
con le pupille di tristezza piene.
IV.
Tra le gioie defunte e i disinganni,
dopo vent'anni, oggi si ravviva
il tuo sorriso... Dove sei, cattiva
Signorina? Sei viva? Come inganni
(meglio per te non essere più viva!)
la discesa terribile degli anni?
Oimè! Da che non giova il tuo belletto
e il cosmetico già fa mala prova
l'ultimo amante disertò l'alcova...
Uno, sol uno: il piccolo folletto
che donasti d'un bacio e d'un confetto,
dopo vent'anni, oggi ti ritrova
in sogno, e t'ama, in sogno, e dice: T'amo!
Da quel mattino dell'infanzia pura
forse ho amato te sola, o creatura!
Forse ho amato te sola! E ti richiamo!
Se leggi questi versi di richiamo
ritorna a chi t'aspetta, o creatura!
Vieni! Che importa se non sei più quella
che mi baciò quattrenne? Oggi t'agogno,
o vestita di tempo! Oggi ho bisogno
del tuo passato! Ti rifarò bella
come Carlotta, come Graziella,
come tutte le donne del mio sogno!
Il mio sogno è nutrito d'abbandono,
di rimpianto. Non amo che le rose
che non colsi. Non amo che le cose
che potevano essere e non sono
state... Vedo la case, ecco le rose
del bel giardino di vent'anni or sono!
Oltre le sbarre il tuo giardino intatto
fra gli eucalipti liguri si spazia...
Vieni! T'accoglierà l'anima sazia.
Fa ch'io riveda il tuo volto disfatto;
ti bacierò; rifiorirà, nell'atto,
sulla tua bocca l'ultima tua grazia.
Vieni! Sarà come se a me, per mano,
tu riportassi me stesso d'allora.
Il bimbo parlerà con la Signora.
Risorgeremo dal tempo lontano.
Vieni! Sarà come se a te, per mano,
io riportassi te, giovine ancora.
ROCCO GALDIERI
Dummeneca
I’ mò, trasenno p’ ‘a porta, aggiu sentuto
ll’addore d’ ‘o rraù.
Perciò... Stateve bona ! ... Ve saluto...
Me ne vaco, gnorsì... Ca si m’assetto
nun me ne vaco cchiù...
E succede c’aspetto
ca ve mettite a ttavula... E nu sta...
Cchiù ccerto ‘e che so maccarune ‘e zita.
L’aggiu ‘ntiso ‘e spezzà,
trasenno ‘a porta. E’ ‘overo? E s’è capita
tutt’ ‘a cucina d’ogge: so’ brasciole,
so’ sfilatore ‘annecchia.
Niente cunzerva: tutte pummarole
passate pe’ ssetaccio...
E v’è rimasta pure ‘na pellecchia
‘ncopp’ ‘o vraccio...
Pare ‘na macchia ‘e sango...
Permettete? V’ ‘a levo! Comm’è fina,
sta pelle vosta... e comme è avvellutata:
mme sciulia sotto ‘e ddete...
E parite cchiù bella, stammatina.
‘O ffuoco, comme fusse... v’ha appezzata.
State cchiù culurita...
Cchiù ccerto e’ che so’ mmaccarune ‘e zita...
Ma i’ mme ne vaco... Addio! Ca si m’assetto
nun me ne vaco cchiù...
E succede c’aspetto...
ca ve mettite a ttavula... p’avé
‘nu vaso c’ ‘o sapore ‘e ‘stu rraù!
KONSTANTINOS KAVAFIS
Tomba di Iasìs
Iasìs qui giace. In questa gran città
e febo rinomato per beltà.
Sapienti m’ammirarono, e parimenti il popolo
Più semplice. Godevo e degli uni e dell’altro.
Ma infine, a furia d’essere creduto Erme e [Narcisso,
gli abusi mi consunsero, m’uccisero. Viandante,
se tu sei d’Alessandria, non mi condannerai. Tu sai [la foga
di questa vita: e quale ardore, e quale voluttà.
VINCENZO CARDARELLI
Alla deriva
La vita io l’ho castigata vivendola.
Fin dove il cuore mi resse
arditamente mi spinsi.
Ora la mia giornata non è più
che uno sterile avvicendarsi
di rovinose abitudini
e vorrei evadere dal nero cerchio.
Quando all’alba mi riduco,
un estro mi piglia, una smania
di non dormire.
E sogno partenze assurde,
liberazioni impossibili.
Oimè. Tutto il mio chiuso
e cocente rimorso
altro sfogo non ha
fuor che il sonno, se viene.
Invano, invano lotto
per possedere i giorni
che mi travolgono rumorosi.
Io annego nel tempo.
RUDYARD KIPLING
O madre mia
Se morissi impiccato sopra il colle,
o madre mia,
io bene so chi sempre mi amerebbe,
o madre mia!
Se morissi gettato in fondo al mare,
o madre mia,
io bene so chi sempre piangerebbe,
o madre mia!
E se l'anima mia fosse dannata,
so chi, pregando, allor mi salverebbe,
o madre mia!
ALDO FABRIZI
Minestra a li cento sapori
I
Pe’ fa’ ‘sta cosa ch’è tra le più jotte,
nun c’è bisogno d’esse inquatrinato:
basta lottà listesso a un pensionato
che tira avanti co’ le scarpe rotte.
Eccheve qua la prima de le lotte:
sabbato a giorno er pasto và scartato,
la sera, dopo ave’ ridiggiunato,
ce stà er problema d’affrontà la notte.
Pe’ nun da’ sfogo a li sbadijamenti
bisogna inturcinasse un fasciatore
intorno ar muso, come a un mar de denti.
Mannati giù sonniferi e carmanti
co’ la speranza de dormi’ un par d’ore,
consijo de prega’ madonne e santi.
ALDO FABRIZI
Minestra a li cento sapori
II
Er giorno doppo, gnente colazione:
all’una s’empie d’acqua un recipiente,
pe’ mettece ar momento ch’è bollente,
la Pasta, con amore e devozzione.
Scolata poco e messa ner piattone,
per accondilla serve poco e gnente,
un pizzico de pepe solamente,
come si fosse na’ benedizione.
Tanti lettori se domanderanno:
‹‹ E li cento sapori? Questo è uno!
L’antri 99, indove stanno? ››.
‹‹ L’antri 99, gente mia,
vengheno da la fame der diggiuno,
ch’è er mejo accondimento che ce sia. ››
CORRADO GOVONI
La trombettina
Ecco che cosa resta
di tutta la magia della fiera:
quella trombettina,
di latta azzurra e verde,
che suona una bambina
camminando, scalza, per i campi.
Ma, in quella nota sforzata,
ci son dentro i pagliacci bianchi e rossi;
c'è la banda d'oro rumoroso,
la giostra coi cavalli, l'organo, i lumini.
Come, nel sgocciolare della gronda,
c'è tutto lo spavento della bufera,
la bellezza dei lampi e dell'arcobaleno;
nell'umido cerino d'una lucciola
che si sfa su una foglia di brughiera,
tutta la meraviglia della primavera.
ALCEO DI MITILENE
Invito a bere
Perché aspettare le lucerne? Il giorno
sta per finire. Su, beviamo! Prendi
amico, i vasi grandi variegati!
Il figlio di Semele e Giove, Bacco,
diede vino ai mortali, oblio dei mali;
versa una parte d’acqua e due di vino
fino sull’orlo del bicchiere, e un altro
bicchiere segua il primo, e dopo un altro…
VLADIMIR MAJAKOVSKIJ
Congedo
In auto,
cambiato l'ultimo franco.
"A che ora parte il treno per Marsiglia?"
Parigi
fugge
accompagnandomi
in tutta
la sua bellezza impossibile.
Sali
agli occhi,
fanghiglia del distacco,
schianta
il mio cuore
con la sentimentalità!
Io vorrei
vivere
e morire a Parigi,
se non ci fosse
la terra che ha nome
Moskvà
WILLIAM BUTLER YEATS
La ruota
Tutto l’inverno invochiamo primavera,
E in primavera invochiamo l’estate,
E quando le siepi stracolme risuonano,
Giuriamo che meglio di tutti e’ l’inverno;
Dopo di che non c’e’ niente di buono
Perché la primavera non e’ ancora tornata-
E non sappiamo che a turbarci il sangue
E’ soltanto il suo anelito alla tomba
ORAZIO
L’ode del carpe diem (I 11)
Tu non chiedere – non è lecito
saperlo – quale fine hanno assegnato
a me, quale a te, gli dèi. Non provarci,
Leuconoe, con i dadi babilonesi.
Meglio, ciò che sarà, prenderlo
come viene! Sia che Giove ci abbia assegnato
più inverni, sia che per ultimo ci dia
questo che ora sfianca il mare Tirreno
sugli scogli in schiume, sii saggia: filtra
il vino e taglia la speranza in misure
piccole. Mentre parliamo il tempo
invidioso va via: afferralo, l’oggi,
e credi nel domani il meno possibile.
………………
Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. ut melius, quidquid erit, pati.
seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi
spem longam reseces. dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem quam minimum credula postero.
JORGE LUIS BERGES
Rione riconquistato
Nessuno vide la bellezza delle strade
fin quando spaventoso in fragore
si abbatté il cielo verdastro
in un rovescio di acqua e di ombra.
Il temporale fu unanime
e detestabile agli sguardi fu il mondo,
ma quando un arco benedisse
coi colori del perdono la sera,
e un odore di terra bagnata
rianimò i giardini,
uscimmo a camminare per le strade
come su un ricuperato possedimento,
e nei vetri ci furono generosità di sole
e nelle foglie lucenti
disse la sua tremula immortalità l'estate.
TRILUSSA
Er leone riconoscente
Ner deserto dell' Africa, un Leone
che j' era entrato un ago drento ar piede,
chiamò un Tenente pe' l' operazzione.
- Bravo! - je disse doppo - Io t' aringrazzio:
vedrai che te sarò riconoscente
d' avemme libberato da 'sto strazio;
qual'è er pensiere tuo? d' esse promosso?
Embè, s' io posso te darò 'na mano... -
E in quela notte istessa
mantenne la promessa
più mejo d' un cristiano;
ritornò dar Tenente e disse: - Amico,
la promozzione è certa, e te lo dico
perchè me so magnato er Capitano.
CHARLES BUKOWSKI
essi, tutti lo sanno
chiedete ai pittori da marciapiede di Parigi
chiedete al sole su un cane addormentato
chiedete ai 3 porcellini
chiedete al giornalaio
chiedete alla musica di Donizetti
chiedete al barbiere
chiedete all'assassino
chiedete all'uomo appoggiato al muro
chiedete al predicatore
chiedete all'ebanista
chiedete al borsaiolo o al prestatore
su pegno o al soffiatore di vetro
o al venditore di letame
o al dentista
chiedete al rivoluzionario
chiedete all'uomo che ficca la testa
nelle fauci d'un leone
chiedete all'uomo che sgancerà la prossima
bomba atomica
chiedete all'uomo che si crede Cristo
chiedete alla cutrettola che la sera torna
al nido
chiedete al guardone
chiedete all'uomo che muore di cancro
chiedete all'uomo che ha bisogno d'un bagno
chiedete all'uomo con una gamba sola
chiedete al cieco
chiedete all'uomo che parla bleso
chiedete al mangiatore d'oppio
chiedete al chirurgo tremante
chiedete alle foglie sulle quali camminate
chiedete a uno stupratore o al bigliettario
di un tram o a un vecchio
che strappa le erbacce nel giardino
chiedete a una sanguisuga
chiedete a un domatore di pulci
chiedete a un mangiatore di fuoco
chiedete all'uomo più miserabile che riuscite
a trovare nel suo più miserabile
momento
chiedete a un maestro di judo
chiedete a un guidatore di elefanti
chiedete a un lebbroso, un ergastolano, un tisico
chiedete a un professore di storia
chiedete all'uomo che non si pulisce mai
le unghie
chiedete a un pagliaccio o alla prima faccia che vedete
chiedete chiedete chiedete e
tutti vi diranno:
una moglie brontolona affacciata alla ringhiera
è più di quanto un uomo possa sopportare.
JACQUES PRéVERT
Quadretto familiare
La madre fa la maglia
il figlio fa la guerra
la madre trova naturale tutto ciò
e quanto al padre cosa fa il padre?
Fa affari
sua moglie fa la maglia
suo figlio fa la guerra
e lui fa affari
il padre trova naturale tutto ciò
e il figlio il figlio
che gliene pare al figlio?
non gliene pare assolutamente niente al figlio
Il figlio sua madre fa la maglia suo padre gli affari e lui la guerra
quando avrà finito la guerra
farà affari con suo padre
la guerra continua la madre continua a fare la maglia
il padre continua a fare affari
il figlio viene ammazzato e non continua più
il padre e la madre vanno al cimitero
il padre e la madre trovano assolutamente naturale tutto ciò
la vita continua la vita con la maglia la guerra gli affari
gli affari la guerra la maglia la guerra
gli affari gli affari e gli affari
la vita con dentro il cimitero.
EDOARDO NICOLARDI
‘ O trammo ‘e Puceriale
Stanno, ‘o carcere e ‘o Campusanto,
quase a’ stessa lucalità.
Chillo ca more nu poco ogne ttanto
chillo ca more pe’ ll’eternità, llà va!
E stu trammo ‘e Puceriale
ca porta ‘a folla d’ ‘e pariente.
N’ato nun ce ne sta ca è tale e quale
e ca purtasse chesta stessa ggente.
Addora ‘e sciure e ‘e cucenato,
sente ‘e caruofane e ‘o rraù...
Chesta, porta ‘o mmagnà p’ ‘o carcerato,
chella, na rosa a chi nun ce sta cchiù.
Ce sta a signora e ‘a sié maesta;
‘o galantommo e ‘o malandrino...
Ll’acrisante e ‘a zuppiera cu ‘a menesta,
‘a tuberosa e o’ perettiello ‘e vino...
‘A mercante, ch’allucca e spicca
ca ll’avvucato è nu chiachiello;
ma a ccosto ch’adda vennere ‘a puteca,
Marciano adda difennere all’appello!
‘A chiazzera ca pe’ nu niente
fa n’assuocio cu ‘o cunduttore...
E ‘o prutettore ca già ammola ‘e diente
e guarda stuorto, e caccia ‘o pietto ‘nfore...
Nnante ‘o carcere, fremma ‘o trammo,
e ‘sti femmene cu ‘e mappate
scenneno scacatianno... “E gghiesce.. E ghiammo..
E votta ‘e mmane... ‘Ve site nchiummate?”
E accussì restano sultanto
tutte chille vestute a llutto...
Na figliulella s’asciutto ‘o chianto...
E na mamma ca chiagne a ciglio asciutto.
Mo se sente sultanto ‘addore
d’ ‘e caruofene e ll’ati sciure...
Chi parla cchiù? Chi ‘o mette cchiù a rummore?
Poc’ato, e ‘o trammo se sbavanta pure..
Ma mt’ ‘o trammo, rrobba caduta,
ce rummane sempe quaccosa.
‘Nterra na mela, ‘na spica arrustuta...
Llà ncoppa nu caruofeno o ‘na rosa
VINCENZO CARDARELLI
Spiragli
Che cosa mi colpisce ormai!
Un velo d'ombra di mare
sui monti lontani,
un lembo di nuvola tutelare.
Ma basta levare la testa.
Le cose non stanno che a ricordare.
Piano piano i minuti vissuti,
fedelmente li ritroveremo.
Coraggio, guardiamo.
GIOVANNI PAPINI
Il contadino
Io ti rispetto e ti vo' tanto bene
o contadino sudicio e strappato
quando, chinate sotto il sol le sirène,
seghi il tuo grano o falci in furia il prato,
o quando son le giornate serene
tu vanghi e zappi senza pigliar fiato
e tardi, a notte, distendi le rene
e godi e dormi colla donna a lato.
Di tutto si rallegra e si contenta
e, sorridendo, il duro pane inghiotte
che con la dura terra l’imparenta.
Di grazie e di bei modi se n’infotte
ma con ugual vigore egli sementa
messi di giorno e popoli di notte.
VIRGILIO GIOTTI
Piova
Spiovazza. Ombrele negre,
drite, storte, le cori
le scampa. Soto i àlbori,
nel sguaz, xe pien de fiori.
Xe alegro 'sto slavazzo.
Vien l'istà. E altri istai
se svea in mi pa' un àtimo,
ùmidi, verdi… andai!
'N omo se ga fermado
soto un'ombrela sbusa.
El varda i fioi che sguazza
nel ziel de 'na calusa.
Nota: (calusa = pozzanghera)
GABRIELE D’ANNUNZIO
Stabat nuda Aestas
Primamente intravidi il suo piè stretto
scorrere su er gli aghi arsi dei pini
ove estuava l'aere con grande
tremito, quasi bianca vampa effusa.
Le cicale si tacquero. Più rochi
si fecero i ruscelli. Copiosa
la resina gemette giù pe'fusti.
Riconobbi il colùbro dal sentore.
Nel bosco degli ulivi la raggiunsi.
Scorsi l'ombre cerulee dei rami
su la schiena falcata, e i capei fulvi
nell'argento pallàdio trasvolare
senza suono. Più lunghi nella stoppia,
l'allodola balzò dal solco raso,
la chiamò, la chiamò per nome in cielo.
Allora anch'io per nome la chiamai.
Tra i leandri la vidi che si volse.
Come in bronzea mèsse nel falasco
entrò, che richiudeasi strepitoso.
Più lungi, verso il lido, tra la paglia
marina il piede le si tolse in fallo.
Distesa cadde tra le sabbie e l'acque.
Il ponente schiumò nei sui capegli.
Immensa apparve , immensa nudità.
LEONARDO SINISGALLI
Monete rosse
I fanciulli battono le monete rosse
contro il muro. (Cadono distanti
per terra con dolce rumore.) Gridano
a squarciagola in un fuoco di guerra.
Si scambiano motti superbi
e dolcissime ingiurie. La sera
incendia le fronti, infuria i capelli.
Sulle selci calda è come sangue.
Il piazzale torna calmo.
Una moneta battuta si posa
vicino all'altra alla misura di un palmo.
Il fanciullo preme sulla terra
la sua mano vittoriosa.
ANTONIO DE CURTIS in arte Totò
‘A cunzegna
'A sera quanno 'o sole se nne trase
e dà 'a cunzegna a luna p' 'a nuttata,
lle dice dinto 'a recchia - ‹‹ I' vaco 'a casa:
t'arraccumanno tutt' 'e nnammurate ››.
CESARE PASCARELLA
La scoperta dell’america
I
Ma che dichi? Ma leva mano, leva!
Ma prima assai che lui l'avesse trovo,
Ma sai da quanto tempo lo sapeva
Che ar monno c'era pure er monno novo!
E siccome la gente ce rideva,
Lui sai che fece un giorno? Prese un ovo,
E lì in presenza a chi nun ce credeva,
Je fece, dice: - Adesso ve lo provo.
E lì davanti a tutti, zitto zitto,
Prese quell'ovo e senza complimenti,
Pàffete! je lo fece regge dritto.
Eh! Ner vedé quell'ovo dritto in piede,
Pure li più contrari più scontenti,
Eh, sammarco! ce cominciorno a crede.
II
Ce cominciorno a crede, sissignora;
Ma, ar solito, a sto porco de paese
Si vòrse trovà appoggio pe le spese
De la Scoperta, je tocco a annà fora.
E siccome a quer tempo lì d'allora
Regnava un re de Spagna portoghese,
Agnede in Portogallo e lì je chiese
De poteje parlà p'un quarto d'ora.
Je fece 'na parlata un po' generica,
E poi je disse: - Io avrebbe l'intenzione,
Si lei m'ajuta, de scoprì l'America.
- Eh, fece er re, ched'era un omo esperto,
Si, v'ajuto... Ma, no pe fa eccezione,
Ma st'America c'è? Ne séte certo?
III
- Ah! fece lui, me faccio maravija
Ch'un omo come lei pò dubitallo!
Allora lei vor dì che lei mi pija
Per uno che viè qui per imbrojallo!
Nonsignora, maestà. Lei si consija
Co' qualunque sia ar caso de spiegallo,
E lei vedrà ch'er monno arissomija,
Come lei me l'insegna, a un portogallo.
E basta avecce un filo de capoccia
Pe capì che, dovunque parte taja,
Lei trova tanto sugo e tanta coccia.
E er monno che cos'è? Lo stesso affare.
Lei vadi indove vò, che non si sbaja,
Lei trova tanta terra e tanto mare.
IV
Je capacita sto ragionamento?
- Sicuro, fece er re, me piace assai
E, vede, je dirò che st'argomento
Ancora nu' l'avevo inteso mai.
Però, dice, riguardo ar compimento
De l'impresa, siccome... casomai...
- Ma 'bbi pazienza, fermete un momento...
Ma ste fregnacce tu come le sai?
Eh, le so perché ci ho bona memoria.
- Già! Te ce sei trovato! - Che significa?
Le so perchè l'ho lette ne la storia.
- Ne la storia romana? - È naturale.
Ne la storia più granne e più magnifica,
Che sarebbe er gran libro universale.
V
Ché l'antri libri, no pe dinne male,
Nun contrasto, saranno cose bone,
Ma all'urtimo sò tutti tale e quale:
Legghi, legghi, e che legghi? un'invenzione.
Ma invece co' la storia universale
Nun ci hai da facce manco er paragone,
Ché lì ce trovi scritto er naturale
De li fatti de tutte le persone.
Vedi noi? Mò noi stamo a fà bardoria:
Nun ce se pensa e stamo all'osteria...
Ma invece stamo tutti ne la storia.
E per questo m'ha sempre soddisfatto,
Perché in qualunque storia ch'uno pïa,
Tu nun legghi 'na storia; legghi un fatto.
VI
Basta, dunque, pe fà breve er discorso,
Va be', je fece er re, quer ch'ho promesso
Lo mantengo; ma, dice, ve confesso,
Che io nun ce vorrebbe avé rimorso;
Per cui, st'affare qui ha da fà er suo corso:
Perch'io, si governassi da me stesso,
Che c'entra? ve direbbe: annate adesso...
- Ma allora, fece lui, co' chi ho discorso?
Ma voi chi sete? er re o un particolare?
- Pe esse re so re, nun c'è quistione;
Ma mica posso fà quer che me pare.
Vor dì che voi portate li registri
De le spese, l'esatta relazione,
Che ve farò parlà co li ministri.
VII
E li ministri de qualunque Stato
So' stati sempre tutti de 'na setta!
Irre orre... te porteno in barchetta,
E te fanno contento e cojonato.
E così lui: ce se trovò incastrato
A doveje pe forza daje retta,
Je fecero la solita scoletta,
Da Erode lo mannaveno a Pilato.
E invece de venì a 'na decisione,
- Sa? je fecero, senza complimenti
Qui bisogna formà 'na commissione.
Lei j'annerà a spiegà de che se tratta,
E, dice, quanno loro so' contenti,
Ritorni pure che la cosa è fatta.
VIII
Eh, giacchè ho fatto trenta, fece quello,
Be', dice, che vòi fà? famo trentuno.
Ci agnede, e se trovò in mezzo a un riduno
De gente che Dio sàrvete, fratello!
Lo teneveno lì come er zimbello!
L'interrogorno tutti, uno per uno,
E poi fecero, dice: - Sarv'ognuno,
Ma questo s'è svortato de cervello.
Lui parlava, ma manco lo sentiveno;
E più lui s'ammazzava pe scoprilla
E più quell'antri je la ricopriveno.
Ma lì, secondo me, ne li segreti
De quer complotto lì, ma manco a dilla,
C'era sotto la mano de li preti.
IX
Ché mettetelo in testa ch'er pretaccio
È stato sempre lui, sempre lo stesso!
Er prete? È stato sempre quell'omaccio
Nimico de la patria e der progresso.
E in quelli tempi, poi, si un poveraccio
Se fosse, Dio ne scampi, compromesso,
Lo schiaffaveno sotto catenaccio,
E quer che'era successo era successo.
E si poi j'inventavi un'invenzione,
Te daveno, percristo, la tortura
Ner tribunale de l'inquisizione.
E 'na vorta lì dentro, sarv'ognuno,
La potevi tené più che sicura
Da fà la fine de Giordano Bruno.
X
Lui, defatti, se mésse in diffidenza;
E fece: dice, qui p'er vicinato
Se sente un po' de puzza d'abbruciato...
Ma fresca! dice, qui ce vo' prudenza.
Defatti tornò su da su' eccellenza,
Je fece: - Be', cos'hanno combinato?
- Eh, dice, sa? l'affare è un po' impicciato,
Ripassi un'antra vorta, abbia pazienza.
Ma lui pensò: ma qui giocamo a palla!
Ma qui me vonno mette ner canestro!
Ma sai che nova c'è? Mejo a piantalla!
La voleva piantà. Ma 'na matina,
Ma indovinece un po'? Nun je viè l'estro
De volè annà a parlà co' la regina?
XI
E lì defatti, come se trovorno
Assieme, lui je fece: -Sa?, mi pare
Che, dice, è mejo a dì le cose chiare:
Tanti galli a cantà 'n se fa mai giorno.
Ce vado, ce ripasso, ce ritorno,
Je dico: dunque, be' de quell'affare?
Quale? dice, quer gran viaggio di mare?
Potrebbe ripassare un antro giorno?
Ma che crede che ce n'ho fatti pochi
De 'sti viaggi? Percui, dico, che famo?
Dico, sacra maestà, famo li giochi?
Dunque lo dica pure a suo marito,
Si me ce vò mannà che combinamo,
Si no vado a provà in quarch'antro sito.
XII
Ché qui fra re, ministri, baricelli,
Sapienti... dice, è inutile a parlanne,
Percui, sa, me ridia li giocarelli,
Che fo tela! - Ma me scusi le domanne,
Fece lei, lei che vò - Tre navicelli.
- E ognuno, putacaso, quanto granne?
- Eh, fece lui, sur genere de quelli
Che porteno er marsala a Ripa granne.
- Va bene, fece lei, vi sia concesso. -
Capischi si com'è? Je venne bene,
Che je li fece dà quer giorno stesso.
E lui, sortito appena da Palazzo,
Prese l'omini, sciorse le catene,
E agnede in arto mare com'un razzo.
XIII
Passa un giorno... due... tre... 'na settimana...
Passa un mese che già staveno a mollo...
Guarda... riguarda... Hai voja a slungà er collo,
L'America era sempre più lontana.
E 'gni tanto veniva 'na buriana:
Lampi, furmini, giù a rotta de collo,
Da dì: qui se va tutti a scapicollo.
E dopo? Dopo 'na giornata sana
De tempesta, schiariva a poco a poco,
L'aria scottava che pareva un forno,
A respirà se respirava er foco,
E come che riarzaveno la testa,
Quelli, avanti! Passava un antro giorno,
Patapùnfete! giù, n'antra tempesta.
XIV
E l'hai da sentì dì da chi c'è stato
Si ched'è la tempesta! So' momenti,
Che, caro amico, quanno che li senti,
Rimani a bocca aperta senza fiato.
Ché lì, quanno che er mare s'è infuriato,
Tramezzo a la battaja de li venti,
Si lui te pò agguantà li bastimenti
Te li spacca accusì, com'un granato.
Eh!, cor mare ce s'ha da rugà poco...
Già, poi, dico, non serve a dubitallo,
Ma l'acqua è peggio, assai peggio der foco.
Perché cor foco tu, si te ce sforzi
Co' le pompe, ce 'rivi tu a smorzallo;
Ma l'acqua, dimme un po', co' che la smorzi?
XV
Eppure er mare... er mare, quann'è bello,
Che vedi quel'azzurro der turchino,
Che te ce sdraji longo lì vicino,
Te s'apre er core come 'no sportello.
Che dilizia! Sentì quer ventarello
Salato, quer freschetto fino fino
Dell'onne, che le move er ponentino,
Che pare stieno a fà nisconnarello!
Eppure... sotto a tutto quer celeste,
Ma, dico, dimme un po', chi lo direbbe
Che ce cóveno sotto le tempeste?
Cusì uno, finché non ce s'avvezza,
Che te credi che lui ce penserebbe
Si fino a dove arriva la grannezza?
XVI
Ché lì mica te giova esse sapiente;
Nun giova avecce testa o ritintiva,
Cor mare, si nun ci hai immaginativa,
Te l'immagini sempre diferente.
Ché lì tu hai da rifrette co' la mente,
Che quello che tu vedi da la riva,
Lontano, insin che l'occhio te ci arriva,
Pare chissà che cosa, e invece è gnente.
Ché lì pòi camminà quanto te pare:
Più cammini e più trovi l'infinito,
Più giri e più ricaschi in arto mare.
Séguiti a camminà mijara d'ora...
Dove c'è er cèlo te pare finito,
Invece arrivi lì... comincia allora!
XVII
E figurete quelli che ce staveno,
Figurete che straccio d'allegria!
Avanti! Sempre avanti! ...Tribolaveno:
E l'America? Si! Vattela a pïa!
E poi, co' tante bocche che magnaveno,
Magna, magna, se sa, per quanto sia,
Le proviste più stava e più calaveno.
Per cui, qui, dice, è mejo a venì via.
E defatti, capischi, un po' per vorta
Cominciaveno a dì: - Ma dove annamo?
Ma s'accidente qui, dove ce porta? -
E abbotta abbotta; arfine venne er giorno
Che fecero: - Percristo, ma che famo? -
J'agnedero davanti, e je parlorno.
XVIII
- Eh... je fecero, dice, ce dispiace;
Ce dispiace de dijelo davanti,
Ma qui, chi più chi meno, a tutti quanti
'Sta buggiarata qui poco ce piace.
Così lei pure, fatevi capace,
Qui nun ce so' né angeli né santi,
Qui 'gni giorno de più che se va avanti
Se va da la padella ne la brace.
«Avanti, avanti!» So' parole belle;
Ma qui, non ce so' tanti sagramenti,
Caro lei, qui se tratta de la pelle!
Già, speramo che lei sia persuasa;
Si no, dice, nun facci complimenti,
Vadi pure... Ma noi tornamo a casa.
XIX
- Eh, fece lui, si avevio st'intenzione,
Potevio fà de meno de fà er viaggio!
Rifrèttece ar momento de l'ingaggio,
No mo' che stamo qui in agitazione.
Che nun se sa? Quanno ch'uno s'espone,
Ha da stà cor vantaggio e lo svantaggio...
Armeno accusì fa chi ci ha coraggio. -
Eh, je lo disse bene, e co' ragione;
Perché quann'uno, caro mio, se vanta
D'esse un omo d'onore, quanno ha dato
La parola, dev'esse sacrosanta.
E sia longa la strada, o brutta o bella,
Magara Cristo ha da morì ammazzato,
Ma la parola sua dev'esse quella.
XX
Ma d'antra parte, quelli ciurcinati,
Pure loro bisogna compatilli:
Lì, soli, in mezzo ar mare, abbandonati,
Se dice presto, rimané tranquilli!
Capisco, dichi tu: ce séte annati,
Dunque è inutile a fà tutti 'sti strilli:
Ma, dimme un po', dov'ereno 'rivati?
Che faceveno lì? Qui sta er busilli.
E 'gni giorno era come er giorno appresso:
Oggi era brutto... Speravi domani...
Te svejavi domani, era lo stesso.
E senza mai sapé dov'uno annasse!
Cristogesumaria! Manco li cani!
Dev'esse stato un gran brutto trovasse!
XXI
E io ne la mia piccola ignoranza
Me c'investo. Fa tutto quer cammino:
Arrivà in arto mare: arrivà insino...
Insino... a quela straccio de distanza,
E védete la morte in lontananza;
Volé vive, e sentitte lì vicino,
Ne l'orecchie, la voce der destino
Che te dice: lassate 'gni speranza!
Ma pensa quer che deve avé sofferto
Quell'omo, immassimato in quer pensiero,
De dì: - La terra c'è... Si...! Ne sò certo...-
E lì, sur punto d'essece arrivato,
Esse certo, percristo, ch'era vero,
E dové dì: va be', me sò sbajato.
XXII
Ma lui che, quanto sia, già c'era avvezzo
A parlà pe convince le persone,
Je fece, dice: - Annamo co' le bone,
Venite qua, spaccamo er male in mezzo.
È vero, si, se tribola da un pezzo;
Percui, per arisorve sta quistione
Non c'è antro che fà 'na convenzione
Che a me me pare sia l'unico mezzo;
Che noi p'antri du' giorni annamo avanti,
E poi si proprio proprio nun c'è gnente
Se ritrocede indietro tutti quanti.
Ve capacita? Quelli ce pensorno;
Be', dice, sò du' giorni solamente...
Be', je fecero: annamo! e seguitorno
XXIII
Ma lui, capischi, lui la pensò fina!
Lui s'era fatto già l'esperimenti,
E dar modo ch'agiveno li venti,
Lui capì che la terra era vicina;
Percui, lui fece: intanto se cammina,
Be', dunque, dice, fàmoli contenti,
Ché tanto qui se tratta de momenti...
Defatti, come venne la matina,
Terra... Terra...! Percristo!... E tutti quanti
Ridevano, piagneveno, zompaveno...
Terra... Terra...! Percristo!... Avanti... Avanti!
E lì, a li gran pericoli passati
Chi ce pensava più? S'abbraccicaveno,
Se baciaveno... E c'ereno arrivati!
XXIV
- Oh! Mo' che grazziaddio semo 'rivati,
A Bracioletta! portece da beve...
...Dì un po', quanti n'avevi già portati?
- Sette... e tre... - fanno dieci. A Nino, beve!
Bevéte, sora Pia, questo è Frascati,
Come vié se ne va. Ch'è roba greve?
...Dunque... Dunque dov'erimo restati?
- Che gnente ce voressivo ribeve?
- Oh, mo' nun comincià che nun hai voja.
Domani?... Ma de che?! Daje stasera,
Te possin'ammazzatte, sei 'n gran boja!
Eh, già, si tu facevi l'avocato,
Sai quanti ne finiveno in galera!
Dunque, sbrighete, sù, fatte escì er fiato.
XXV
Dunque come finì? - Finì benone!
Finì che quanno tutto era finito,
Se cominciò a formà come un partito,
Che je voleva fà l'opposizione.
Je diceveno: Si, avete ragione,
Nun c'è gnente che dì, séte istruito,
È l'America, si, nun c'è quistione,
Ma poi, si invece fosse un antro sito? -
Ma lui li mésse co' le spalle ar muro:
Je fece, dice: Ah si? Ne dubitate?
Me dispiace, ma io ne sò sicuro.
Vor dì che poi, si voi nun ce credete,
Domani presto, ar primo che incontrate
Annàtejelo a dì, che sentirete.
XXVI
E quelli puntuali! Appena giorno,
Che ce se cominciava appena a vede,
Se n'agnedero, e come che sbarcorno
Nun sapeveno dove mette er piede.
Defatti, appena scenti se trovorno
Davanti a 'na foresta da nun crede,
Dove che malappena che c'entrorno,
Che vòi vedé, percristo, lo stravede!
Te basta a dì che lì in quella foresta,
Capischi? Le piantine de cicoria
Je 'rivaveno qui, sopra la testa.
Eh, quelli, già, se sa, sò siti barberi:
Ma tu, invece de ride, pïa la storia
E poi tu viemme a dì si che sò l'arberi.
XXVII
Ché lì l'arberi, amico, o callo o gelo,
Be', quelli da li secoli passati,
Da che Domineddio ce l'ha piantati
Sò rimasti così, quest'è vangelo.
E lì, cammini sempre in mezzo a un velo
D'un ciafrujo de rami, intorcinati
Co' l'antri rami, che te sò 'rivati
Che le punte, perdio, sfonneno er cèlo.
E l'erba? Sta intrecciata così stretta
Che 'na persona, lì, si vò annà avanti,
Bisogna che la rompe co' l'accetta.
E poi che rompi? Si!... Ne rompi un metro;
Ma all'urtimo bisogna che la pianti,
Ché lì fai un passo avanti e cento addietro.
XXVIII
Ma poi nun serve a dille tutte quante!
La gran difficortà de quella sérva
È che tu, framezzo a quelle piante,
Tu 'gni passo che fai, trovi 'na berva.
E li, capischi, ce ne trovi tante
Come stassero drento a 'na riserva;
E ce bazzica puro l'eliofante,
Che sarebbe er Purcin de la Minerva.
Eh, p'annà lì bisogna èssece pratico,
Perché poi, quanno meno te l'aspetti,
C'è er caso d'incontrà l'omo servatico.
E quello è peggio assai de li leoni;
E quello te se magna a cinichetti,
Te se magna co' tutti li carzoni.
XXIX
- E quelli? - Quelli? Je successe questa:
Che mentre, lì, framezzo ar villutello
Cusì arto, p'entrà ne la foresta
Rompeveno li rami cor cortello,
Veddero un fregno buffo, co' la testa
Dipinta come fosse un giocarello,
Vestito mezzo ignudo, co' 'na cresta
Tutta formata de penne d'ucello.
Se fermorno. Se fecero coraggio...
- A quell'omo! je fecero, chi séte?
- E, fece, chi ho da esse? Sò un servaggio.
E voi antri quaggiù chi ve ce manna?
- Ah, je fecero, voi lo saperete
Quando vedremo er re che ve commanna.
XXX
E quello, allora, je fece er piacere
De portalli dar re, ch'era un surtano,
Vestito tutto d'oro: co' 'n cimiere
De penne che pareva un musurmano.
E quelli allora, co' bone maniere,
Dice: - Sa? Noi venimo da lontano,
Per cui, dice, voressimo sapere
Si lei siete o nun siete americano.
- Che dite? fece lui, de dove semo?
Semo de qui, ma come sò chiamati
'Sti posti, fece, noi nu' lo sapemo. -
Ma vedi si in che modo procedeveno!
Te basta a dì che lì c'ereno nati
Ne l'America, e manco lo sapeveno.
XXXI
E figurete allora tutti quelli!
Ner védeli così senza malizia,
Je cominciorno a dì: - Famo amicizia...
Viva la libertà... Semo fratelli...
E intanto l'antri su li navicelli,
Ch'aveveno sentito la notizia,
Capirno che la cosa era propizia,
Sbarcorno tutti giù da li vascelli.
E quelli je sbatteveno le mano:
E quell'antri, lo sai come succede?
Je daveno la guazza, e a mano a mano
Che veddero che quelli ci abboccaveno,
Che agiveno co' tutta bona fede,
Figurete si come li trattaveno!
XXXII
Li trattaveno come ragazzini;
Pijaveno du' pezzi de specchietti,
'Na manciata de puje, du' pezzetti
De vetro, un astuccetto de cerini...
Je diceveno: - Eh? Quanto sò carini!
- Voler controcambiare vostri oggetti? -
E tutti quanti queli poveretti
Je daveno le spille e l'orecchini.
Figurete! Ce fecero la mozza:
E lì le ceste d'oro, così arte,
Le portaveno via co' la barozza.
Eh, me fai ride! Come je le daveno?
Quanno me dichi che da quele parte
Lì li quatrini nu' li carcolaveno!
XXXIII
Perché er servaggio, lui, core mio bello,
Nun ci ha quatrini; e manco je dispiace:
Ché lì er commercio è come un girarello,
Capischi si comè? Fatte capace:
Io sò 'n servaggio, e me serve un cappello:
Io ci ho 'n abito e so che a te te piace,
Io te dò questo, adesso damme quello,
Sbarattamo la roba e semo pace.
E così pe li generi più fini,
E così pe la roba signorile;
Ma loro nun ce l'hanno li quatrini.
Invece noi che semo una famija
De 'na razza de gente più civile,
Ce l'avemo... e er Governo se li pija.
XXXIV
Ma lì nun ce sò tasse e le persone
T'agischeno secondo er naturale:
Lì nun ce trovi tante distinzione,
'Gni servaggio che vedi è un omo uguale.
Che dichi? che nun ci hanno l'istruzione?
Ma intanto sò de core e sò reale;
E tu finché lo tratti co' le bone
Nun c'è caso che lui te facci male.
Vor dì che si ce fai la conoscenza
Che quelli te spalancheno le braccia,
Be' tu nun j'hai da fà 'na prepotenza.
Si quello te viè a fatte le carezze
E invece tu je dài li carci in faccia,
Se sa, quello risponne co' le frezze.
XXXV
E così finì lì; che venne er giorno
Che quelli cominciorno a annà in gattaccia:
E quell'antri je diedero la caccia,
E venne er giorno che ce l'acchiapporno.
E allora, se capisce, cominciorno
Le lite, e dopo venne er vortafaccia:
Quelli je seguitorno a ride in faccia;
Ma quell'antri, lo sai?, je la cantorno.
Dice: lassamo perde le servagge,
Si no, dice, mannaggia la miseria,
'Na vorta o l'antra qui nasce 'na stragge!
Ma quelli... quelli, invece seguitaveno,
E allora diventò 'na cosa seria,
Perché le donne, poi, quelle ce staveno.
XXXVI
Eh, er bianco, già, laggiù ce fa furore!
E dice che, si lui ce l'incoraggia,
Bisogna vede lei come ce sgaggia,
Quanno ce se pò mette a fà l'amore.
Che dichi? La quistione der colore?
Be' vedi: er bianco, lui, si 'na servaggia,
Capischi, si Dio liberi l'assaggia,
Nun te lo lassa più, fino che more.
E mica ce sarebbe tanto male;
La gran dificortà è che ci ha er difetto
De nasce co' quer porco naturale,
Che come vede l'erba ce s'intrufola,
E quanno viè la notte che va a letto,
Puzza un po' de l'odore de la bufola.
XXXVII
Però, capischi, o bufola o vaccina,
Da quele parti lì, si ci hai famija,
Quanno che puta caso ci hai 'na fija
Trovi subito chi se la combina.
Qui, invece, tu pòi avecce 'na regina,
Che ha tempo, ha voja a fà l'occhi de trija,
Ché prima de trovà chi se la pija,
N'ha da attastanne armeno 'na ventina.
Lì, invece, pe sposassele, le pregheno:
Mica è come ne l'epoca presente,
Che vedi le regazze che se spregheno.
Perché lì li servaggi, o belli o brutti,
Appena che l'età je l'acconsente,
Da quele parte lì sposeno tutti.
XXXVIII
Ma perché? Perché lì nun c'è impostura,
Ché lì, quanno er servaggio è innamorato,
Che lui decide de cambià de stato,
Lo cambia co' la legge de natura.
Invece qui... le carte, la scrittura,
Er municipio, er sindico, er curato...,
Er matrimonio l'hanno congegnato
Che quanno lo vòi fà mette pavura.
E dove lassi poi l'antri pasticci
Der notaro? La dote, er patrimonio...
Si invece nun ce fossero st'impicci
Che te credi che ce se penserebbe?
Si ar monno nun ce fosse er matrimonio,
Ma sai si quanta gente sposerebbe!
XXXIX
Basta, dunque laggiù finiva male,
Quelli je seguitaveno a dà sotto,
Seguitorno le lite, è naturale,
Cominciava a volà quarche cazzotto.
Poi le cose arivorno a un punto tale,
Che lesto e presto fecero un complotto:
- E qui, prima che schioppa er temporale,
Qui, dice, è mejo assai de fà fagotto. -
Defatti, senza tanti complimenti,
S'agguantorno più roba che poteveno,
La caricorno su li bastimenti,
Spalancorno le vele in faccia ar vento;
Ormai tanto la strada la sapeveno,
E ritornorno a casa in d'un momento.
XL
E quello che successe ner ritorno,
Per quanto ch'uno ci ha immaginazione,
Come ce vòi arivà co' la ragione,
A capì quer che fu quanno sbarcorno?
Ma figurete un po' come restorno
Tutte quele mijara de persone,
Quanno veddero quela processione
De tutto quanto quello che portorno!
Servaggi incatenati, pappagalli,
Scimmie africane, leoni, liofanti,
Pezzi d'oro accusì, che pe portalli
L'aveveno da mette sur carretto;
Le perle, li rubini, li brillanti
Li portaveno drento ar fazzoletto.
XLI
E lui fu accorto peggio d'un sovrano!
Li re, l'imperatori, le regine,
Te dico, je baciaveno le mano:
Le feste nun aveveno mai fine.
E da pertuttoquanto er monno sano,
Fino ar fine de l'urtimo confine,
Onori... feste... E dopo, piano piano
Cominciorno li triboli e le spine.
Ché l'invidiosi che, percristo, viveno
De veleno, ner vede uno ch'arriva
A fà quello che loro nun ci arriveno,
Je cominciorno come li serpenti,
Mentre che lui nemmanco li capiva,
A intorcinallo ne li tradimenti.
XLII
E lui, quello ch'aveva superato,
Ridenno, li più boja tradimenti
Der mare, de la terra, de li venti,
Coll'omo ce rimase massacrato.
E lui, quello ch'aveva straportato
Li sacchi pieni d'oro a bastimenti,
Fu ridotto a girà pe li conventi,
Cor fijo in braccio, come un affamato!
Er re (che lo ripossino ammazzallo
Dove sta) dopo tanto e tanto bene
Ch'aveva ricevuto, pe straziallo,
Co' l'antri boja ce faceva a gara.
E dopo aveje messo le catene,
Voleva fallo chiude a la Longara.
XLIII
Ma come? Dopo tanto e tanto bene,
M'avressi da bacià dove cammino,
E invece? Me fai mette le catene?
Me tratti come fossi un assassino?
E tu sei Gasperone... Spadolino...
E che ci avrai, percristo, ne le vene?
Er sangue de le tigre? de le jene!
E che ci avrai ner core? Er travertino?
Ma come?! Dopo tutto quer ch'ho fatto,
Che t'ho scoperto un monno e te l'ho dato,
Mo' me voi fà passà pure pe matto?
Ma sarai matto tu, brutto impostore,
Vassallo, porco, vile, scellerato;
Viè de fora, che me te magno er core!
XLIV
Cusì j'avrebbe detto a quel'ingrato.
Invece quello, quello ch'era un santo,
Rimase fermo lì, cor core sfranto,
Senz'uno che l'avesse consolato.
E quelli che je s'erano rubato
La scoperta, l'onori, tutto quanto,
Nun je diedero pace, insino a tanto
Che loro non lo veddero schiantato.
Eh, l'omo, tra le granfie der destino,
Diventa tale e quale a un giocarello
Che te capita in mano a un ragazzino:
Che pò esse er più bello che ce sia,
Quando che ci ha giocato un tantinello,
Che fa?, lo rompe, e poi lo butta via.
XLV
E poi semo sur solito argomento,
Ch'hai voja a fà, ma l'omo è sempre quello!
Ponno mutà li tempi, ma er cervello
De l'omaccio ci ha sempre un sentimento.
Ma guarda! Si c'è un omo de talento,
Quanno ch'è vivo, invece de tenello
Su l'artare, lo porteno ar macello,
Dopo more, e je fanno er monumento.
Ma quanno è vivo nu' lo fate piagne,
E nun je fate inacidije er core,
E lassate li sassi a le montagne.
Tanto la cosa è chiara e manifesta:
Che er monumento serve per chi more?
Ma er monumento serve per chi resta.
XLVI
Basta, adesso bevémese un goccetto
Ché questo ce rimette in allegria.
Ah, questo te ne pòi scolà un carretto
Ché questo mica dice la bucìa.
- E poi der resto, già, l'ho sempre detto
Che ar monno, se nun ci hai filosofia,
La vita, te lo pòi tenello stretto,
La vita che diventa? Un'angonìa.
Ah, er monno, se capisce, er monno è brutto.
Bévete 'n'antro goccio. Bè che fai?
Vacce piano, nun te lo beve tutto.
Ma piuttosto de beve a 'sta maniera;
Ma dico, dimme un po', ma tu lo sai,
Si lui, Colombo, proprio de dov'era?
XLVII
- De dov'era? Lo vedi com'è er monno?
Quann'era vivo, ch'era un disgraziato,
Se pò dì che nessuno ci ha badato,
E mo' che nun c'è più, tutti lo vonno.
Nun fa gnente? Ma intanto te risponno.
Li Francesi ci aveveno provato:
E si loro nun se lo sò rubato,
È proprio, caro mio, perché nun ponno.
Eh, quelli, già, sò sempre d'un paese!
E tutto, poi, perché? Pe la gran boria
De poté dì che quello era francese.
Ma la storia de tutto er monno sano...
Eh, la storia, percristo, è sempre storia!
Cristofero Colombo era italiano.
XLVIII
E l'italiano è stato sempre quello!
E si viè 'n forestiere da lontano,
Sibbè ch'ha visto tutto er monno sano
Si arriva qui s'ha da cavà er cappello.
Qui Tasso, Metastasio, Raffaello,
Fontan de Trevi, er Pincio, er Laterano,
La Rotonna, San Pietro in Vaticano,
Michelangelo, er Dante, Machiavello...
Ma poi nun serve mo' che t'incomincio
A dilli tutti, tu, si te l'aggusti
Tutti st'omini qui, vattene ar Pincio.
E lì, mica hai da fà tanti misteri:
Ché quelli busti, prima d'esse busti,
Sò stati tutti quanti òmini veri.
XLIX
E che òmini! Sopra ar naturale.
Che er monno ce l'invidia e ce l'ammira!
E l'italiano ci ha quer naturale
Che er talentaccio suo se lo rigira.
Pe 'n'ipotise; vede uno che tira
Su 'na làmpena? Fà mente locale
E te dice: sapé, la terra gira.
Ce ripensa e te scopre er canocchiale.
E quell'antro? Te vede 'na ranocchia
Ch'era morta; la tocca co' 'n zeppetto
E s'accorge che move le ginocchia.
Che fa? Te ce congegna un meccanismo;
A un antro nu' j'avrebbe fatto effetto,
L'italiano t'inventa er letricismo.
L
Cusì Colombo. Lui cor suo volere,
Seppe convince l'ignoranza artrui.
E come ce 'rivò! Cor suo pensiere!
Ècchela si com'è... Dunque, percui
Risemo sempre lì... Famme er piacere:
Lui perchè la scoprì? Perché era lui.
Si invece fosse stato un forestiere
Che ce scopriva? Li mortacci sui!
Quello invece t'inventa l'incredibile:
Che si poi quello avesse avuto appoggi,
Ma quello avrebbe fatto l'impossibile.
Si ci aveva l'ordegni de marina
Che se troveno adesso ar giorno d'oggi,
Ma quello ne scopriva 'na ventina!
LEONARDO SINISGALLI
Eri dritta e felice
Eri dritta e felice
sulla porta che il vento
apriva alla campagna.
Intrisa di luce
stavi ferma nel giorno,
al tempo delle vespe d’oro
quando al sambuco
si fanno dolci le midolla.
Allora s’andava scalzi
per i fossi, si misurava l’ardore
del sole dalle impronte
lasciate sui sassi.
GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI
Er bello è cquer che ppiasce
A llui je piasce quella e sse la fotte.
Lo sputà ssu li gusti è da granelli.
Nun ze paga pe vvede le marmotte?
Tante teste, se sa, ttanti scervelli.
Quanno sortanto li gruggnetti bbelli
trovassino marito, bbona notte.
Disce il proverbio: Si ttutti l’uscelli
conoscessino er grano, addio paggnotte.
È ttanta bbuggiarona vostra fijja,
eppuro, eccolo llí, ggià ss’è ttrovato
er ziconno cojjon che sse la pijja.
Questo sia pe nnun detto. Io v’ho pportato
sto paragone cqua, ssora Scescijja,
pe spiegà ccome er monno è acconcertato.
KONSTANTINOS KAVAFIS
Una notte
La camera era povera e triviale,
nascosta sull’equivoca taverna.
Dalla finestra si vedeva il vicolo
sudicio e angusto. Dabbasso
provenivano voci di operai
che giocavano a carte e facevano baldoria.
E lì, sull’infinito e sordido giaciglio,
ebbi il corpo d’amore, ebbi le labbra
sensuali e rosate dell’ebbrezza –
rosate di una tale ebbrezza, che anche adesso
che scrivo, dopo tanti anni!,
nella mia casa solitaria, m’ubriaco ancora.
EDWARD THOMAS
Adlerstrop
Si, mi ricordo di Adlerstrop, del nome,
perché in un caldo pomeriggio il treno
diretto vi fece una sosta imprevista.
S’era agli ultimi giorni di un bel giugno.
Un fischio, poi qualcuno si schiarì
la gola. Ma nessuno se ne andò
dalla nuda piattaforma, nessuno
salì, e fu solo Adlerstrop: un nome,
e salici e tanta erba profonda
e la regina dei prati e i covoni
di fieno così fermi e solitari
come le nubi alte nel cielo estivo.
Per un istante cantò vicinissimo
un merlo e gli risposero indistinti
più e più lontano poi tutti gli uccelli
delle terre di Oxford e di Gloster.
JEAN-ARTHUR RIMBAUD
Romanzo
I
Non si è molto seri a diciassette anni.
- Una bella sera, stufo di birre e di limonate,
di caffè chiassosi dalle luci scintillanti!
- Si va tra i tigli verdi della passeggiata.
I tigli sanno di buono nelle belle sere di giugno!
L’aria è talvolta così dolce, che lo sguardo s’arresta;
il vento carico di suoni, - la città non è lontana, -
ha profumi di vigna e profumi di birra…
II
- Ecco che intravedi uno straccetto
d’azzurro cupo, incorniciato da un rametto,
punto da una cattiva stella, che si fonde
con dei dolci brividi, piccola e tutta bianca…
Notte di giugno! Diciassette anni! – Ci si lascia inebriare.
La linfa è champagne e vi va alla testa…
Si divaga; si sente un bacio sulle labbra
Che là palpita, come una piccola bestia…
III
Il cuore pazzo Robinson attraverso i romanzi,
- Fino a che, nel chiarore di un pallido riverbero,
passa una signorina dai vezzi affascinanti,
sotto l’ombra del colletto terribile di suo padre…
IV
Tu sei innamorato. Cotto fino ad agosto.
Tu sei innamorato. – I tuoi sonetti la fanno ridere.
Tutti i tuoi amici se ne vanno, tu non hai buon gusto.
- Poi, l’adorata, una sera, s’è degnata di scriverti!…
- Quella sera,… - tu torni nei caffè chiassosi,
tu ordini delle birre o della limonata…
Non si è molto seri a diciassette anni.
E con i verdi tigli della passeggiata.
JORGE LUIS BORGES
Il Sud
Da uno dei tuoi cortili aver guardato
le antiche stelle,
dal sedile in
ombra aver guardato
quelle luci disperse
che la mia ignoranza non ha imparato a nominare
né a ordinare in costellazioni,
aver sentito il cerchio dell’acqua
nella segreta cisterna,
l’odore del gelsomino e della madreselva,
il silenzio dell’uccello addormentato,
l’arco dell’androne, l’umidità
- tali cose, forse, sono la poesia.
SAFFO
La sera
O sera, tu raccogli le cose
che si spersero al sole,
riporti l’agnello, il capretto,
riporti il bambino alla mamma…
TRILUSSA
Er porco
Un vecchio Porco disse a certe Vacche:
- la vojo fa' finita
de fa' 'sta porca vita.
Me vojo mette er fracche,
le scarpe co' lo scrocchio,
un fiore, un vetro all'occhio,
e annammene in città,
indove c'è la gente più pulita
che bazzica la bona società. –
Fu un detto e un fatto, e quela sera istessa
agnede a pijà er tè da 'na contessa:
s'intrufolò framezzo a le signore,
disse quarche parola de francese,
sonò, cantò, ballò, fece l'amore.
Ma doppo du' o tre giorni
er vecchio porco ritornò ar paese.
Che? - fecero le Vacche - già ritorni?
Dunque la società poco te piace...
No - disse er Porco - so' minchionerie!
Io ce starebbe bene: me dispiace
che ce se fanno troppe porcherie...
LI PO
In montagna un giorno d’estate
Agito lievemente un bianco ventaglio di piuma,
seduto colla camicia aperta in un verde bosco.
Mi tolgo il berretto e l’appendo ad una pietra
[sporgente;
Il vento dei pini piove aghi sulla mia testa nuda.
CHARLES BUKOWSKI
Le 3,16 e mezzo…
dovrei essere un grande poeta
e il pomeriggio casco dal sonno
so che la morte mi viene addosso
come un toro gigantesco
e il pomeriggio casco dal sonno
so di guerre e di uomini che si battono nell’arena
apprezzo la buona cucina, il vino e le donne
e il pomeriggio casco dal sonno
so cos’è l’amore di una donna
e il pomeriggio casco dal sonno,
mi piego al sole dietro una tenda gialla
mi chiedo dove sono finite le mosche dell’estate
ricordo la morte sanguinosa di Hemingway
e il pomeriggio casco dal sonno.
Un giorno non cascherò dal sonno, il pomeriggio,
un giorno scriverò una poesia che di quelle colline laggiù
farà vulcani
ma ora casco dal sonno, il pomeriggio,
e qualcuno mi chiede: “ Bukowski, che ore sono?”
e io dico: “le 3,16 e mezzo”.
Mi sento in colpa, mi sento odioso, inutile,
pazzo, mi sento
cascare dal sonno il pomeriggio,
bombardano le chiese, okay, va bene,
nel parco i bimbi cavalcano i ponies, okay, va bene,
le biblioteche sono piene di libri di scienza,
una gran musica aspetta dentro la radio vicina
e il pomeriggio io casco dal sonno,
ho in mente questa tomba che dice:
ah, gli altri facciano pure, vincano pure,
lasciatemi dormire,
la saggezza è nelle tenebre,
vado dove sono andate le mosche dell’estate,
acchiappatemi se vi riesce.
UMBERTO SABA
Tre vie
C’è a Trieste una via dove mi specchio
nei lunghi giorni di chiusa tristezza;
si chiama Via del Lazzaretto Vecchio.
Tra case come ospizi antiche uguali,
ha una nota, una sola, d’allegrezza;
il mare in fondo alle sue laterali.
Odorata di droghe e di catrame
dai magazzini desolati a fronte,
fa commercio di reti, di cordame
per le navi: un negozio ha per insegna
una bandiera; nell’interno, volte
contro il passante, che raro le degna
d’uno sguardo, coi volti esangui e proni
sui colori di tutte le nazioni,
le lavoranti scontano la pena
della vita: innocenti prigioniere
cuciono tetre le allegre bandiere.
A Trieste ove son tristezze molte,
e bellezze di cielo e di contrada,
c’è un’erta che si chiama Via del Monte.
Incomincia con una sinagoga,
e termina ad un chiostro; a mezza strada
ha una cappella; indi la nera foga
della vita scoprire puoi da un prato,
e il mare con le navi e il promontorio,
e la folla e le tende del mercato.
Pure, a fianco dell’erta, è un camposanto
abbandonato, ove nessun mortorio
entra, non si sotterra più, per quanto
io mi ricordi: il vecchio cimitero
degli ebrei, così caro al mio pensiero,
se vi penso ai miei vecchi, dopo tanto
penare e mercatare, là sepolti,
simili tutti d’animo e di volti.
Via del Monte è la via dei santi affetti,
ma la via della gioia e dell’amore
è sempre Via Domenico Rossetti.
Questa verde contrada suburbana,
che perde dì per dì del suo colore,
che è sempre più città, meno campagna,
serba il fascino ancora dei suoi belli
anni, delle sue prime ville, sperse,
dei suoi radi filari d’alberelli.
Chi la passeggia in queste ultime sere
d’estate, quando tutte sono aperte
le finestre, e ciascuna è un belvedere,
dove agucchiando o leggendo si aspetta,
pensa che forse qui la sua diletta
rifiorirebbe all’antico piacere
di vivere, di amare lui, lui solo;
e a più rosea salute il suo figliolo.
ARDENGO SOFFICI
Trottoir
Elle a marché
Sous nos yeux
Presque gênée
De sa beauté.
ALDO PALAZZESCHI
L’indifferente
Io sono tuo padre.
Ah, sì?...
Io sono tua madre.
Ah, sì?...
Questo è tuo fratello.
Ah, sì?...
Quella è tua sorella.
Ah, sì?...
MICHELE GALDIERI
Scirocco
Nun se respira. 'N'afa che se taglia.
Nu cielo ‘e chiummo. Nun se move foglia
‘a pece ‘ncoppa ‘all’asteco se squaglia…
‘mbrugliata s’è a matassa e nun se sbroglia…
Senza ‘na lira dint’ ‘o portafoglio…
Mm’ ‘o voglio arricurdà ‘stu mese ‘e luglio!
Madonna! E cumm’è triste ‘sta campana!
S’è mmisa dint’ ‘e rrecchie ‘a stammatina!
Tu staje luntana…
Tu staje luntana…
e mm’he lassato sulo… cu’ ‘stu figlio,
cu’ ‘stu scirocco e ‘o bbene ca te voglio!
Mm’ ‘o voglio arricurdà ‘stu mese ‘e luglio!
‘O ninno coce. Smania. ‘A freva saglie…
E si muresse?... Forse… sarria meglio!
È meglio che campà ‘mmiez’a ‘sti ‘mbruoglie
si vene ‘a Morte e a tutt’e dduje ce piglia!
Sott’ ‘o tturreno, almeno… nun se squaglia!
Mm’ ‘o voglio arricurdà ‘stu mese ‘e luglio!
Madonna! E cumm’è triste ‘sta campana…
Sarrà passata ‘a Morte, ccà vicina…
Ma ccà nun vene…
No ccà nun vene!
Nun vene pecché ‘a chiammo, pecché ‘a voglio…
Comme nun vene ‘a mamma ‘e chistu figlio!
Mm’ ‘o voglio arricurdà ‘stu mese ‘e luglio!
LUCIANO FOLGORE
Porta verniciata di fresco
Freschezza di una tinta verde
(E tu, porta, che la senti
con la resina dentro in pieno odore).
Primavera della vernice
(e potremmo anche avviarci
per un paese di pini
e d'altre aromatiche piante
con un bel mare a maggese
in fondo).
Ma c'è un sole che ci ferma
a mezza strada,
invischiando la maraviglia nostra
fra le pagliuche d'oro
del tuo colore fresco.
Porta lasciata sola
in questo muro di cinta.
perduta forse;
premuta forse
non so da quanti cespugli in amore:
Ronzano due calabroni
e una goccia più verde
cammina lungo la serratura,
lentissimamente.
Nella strada nessuno.
Soltanto un poco di senso d'infanzia
per cinque dita di bimbo
impresse nel fresco della vernice.
E la guarda strano il mandarino,
che si spenzola
pesantemente dal muro,
nel desiderio di gocciarsi
vicino alla porta.
Chissà?
Cerca una mano che colga
la sua maturità,
più che due stille di resina
sparpagliate
in una primavera di tinta.
Ma...
GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI
Il saggio del marchesino Eufemio
A dì trenta settembre il marchesino,
D'alto ingegno perché d'alto lignaggio,
Diè nel castello avito il suo gran saggio
Di toscan, di francese e di latino.
Ritto all'ombra feudal d'un baldacchino,
Con ferma voce e signoril coraggio,
Senza libri provò che paggio e maggio
Scrivonsi con due g come cugino.
Quinci, passando al gallico idïoma,
Fe' noto che jambon vuol dir prosciutto,
E Rome è una città simile a Roma.
E finalmente il marchesino Eufemio,
Latinizzando esercito distrutto,
Disse exercitus lardi, ed ebbe il premio.
GIUSEPPE UNGARETTI
Fratelli
( Mariano, 15 luglio 1916 )
Di che reggimento siete
fratelli
Parola tremante
nella notte
foglia appena nata
nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli
ALCEO DI MITILENE
Canicola
La gola irriga con il vino; l’astro
il giro compie, la stagione è greve,
avvampano le cose nel calore.
Risuona la cicala da le fronde…
Fiorisce il cardo. Ed ora son le donne
più ardenti, ed ora gli uomini più fiacchi,
poiché testa e ginocchia Sirio spossa
bruciando…
PIERO JAHIER
Vogliono sempre impedirmi di esser triste
Vogliono sempre impedirmi di esser triste;
ma se è la mia sola gioia esser triste:
cresce solo piangendo
questa gemma d'albero che volete asciugare.
ASCLEPIADE
Corri Demetrio, va' in piazza: là chiedi ad Aminta [tre rombi
piccoli, e chiedi pure dieci naselli. Prendi
anche (ma contali bene tu stesso) dei gamberi, [fanne
dodici paia e poi torna da me. Passando
chiedi a Tabùrio sei belle corone di rose; poi dalla
strada, ma non fermarti, chiama la mia ragazza.
Didima con le sue grazie m'ha preso: a vederla sì [bella,
povero me, mi struggo come la cera al fuoco.
"Ella è sì bruna!". Che importa? pur nera è la brace [ma quando
uno l'accende, splende come purpurea rosa.
THOMAS HARDY
Bellezze di un tempo
Queste signore della Fiera, anziane, con i labbri [appassiti,
le guance rilassate,
sono quelle che amammo negli anni fuggiti,
le care, le adorate?
Sono queste le giovani cose seriche e rubiconde
cui ci votammo, e giurammo,
nelle feste d’ estate, nascosti sulle sponde
del Froom e di Budmouth?
Ricorderanno esse le gaie note che s’ intrecciava
là sull’ erba abbracciati,
sinchè la luna sul prato irradiava
splendore di broccati?
Oh, esse hanno scordato, scordato, non sanno
quello che già furono,
o la memoria le trasfigurerebbe, mostrandole
belle come già furono.
VINCENZO CARDARELLI
Estiva
Distesa estate,
stagione dei densi climi
dei grandi mattini,
dell'albe senza rumore
ci si risveglia come in un acquario
dei giorni identici,astrali,
stagione la meno dolente
d'oscuramenti e di crisi,
felicità degli spazi,
nessuna promessa terrena
può dare pace al mio cuore
quanto la certezza di sole
che dal tuo cielo trabocca;
stagione estrema,che cadi,
prostrata in riposi enormi;
dai oro ai più vasti sogni,
stagione che porti la luce
a distendere il tempo
di là dai confini del giorno,
e sembri mettere a volte
nell'ordine che procede
qualche cadenza dell'indugio eterno.
E ora, in queste mattine
così stanche
che ho smesso di chiedere e di sperare,
e tutto il giardino è per me,
per il mio male sontuosamente,
penso agli amici che mai più rivedrò,
alle cose care che sono state,
alle amanti rifiutate,
ai miei giorni di sole…
GABRIELE D’ANNUNZIO
La pioggia nel pineto
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove sui pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude,
o Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitio che dura
e varia nell'aria secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immensi
noi siam nello spirito
silvestre,
d'arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, Ascolta. L'accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall'umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s'allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s'ode su tutta la fronda
crosciare
l'argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell'aria
è muta: ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell'ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le palpebre gli occhi
son come polle tra l'erbe,
i denti negli alveoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
( e il verde vigor rude
ci allaccia i melleoli
c'intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude,
o Ermione.
ATTILIO BERTOLUCCI
I pescatori
Avete visto due fratelli, l’uno
di quindici l'altro di dieci anni, lungo
il fiume, intento il primo a pesca,
il secondo a servire con pazienza
e gioia? Il sole pomeridiano colora
i visi così simili e diversi
come una foglia a un’altra foglia nella
pianta, una viola a un’altra viola in terra.
Oh, se durasse eternamente questa
mattina che li svela e li nasconde
come erra la corrente tranquilla,
e li congiunge sempre se un silenzio
troppo dura fra loro e li opprime
così da cercarsi a una voce e trovarsi,
intatte membra, intatti cuori, rami
che la pianta trattiene strettamente.
JORGE LUIS BORGES
Il truco
Quaranta carte da gioco hanno preso il posto della [vita.
talismani brillantemente colorate di cartone,
ci fanno dimentico dei nostri destini
e una creazione più gradevoli
i popoli le ore rubate
con la malizia teatrale
di una mitologia fatta in casa.
Alla frontiera della carta- tavolo
la vita degli altri viene negato l'ingresso.
All'interno si trova un altro paese:
exploit di rivendicazione e di sfida,
l'autorità del Asso di Spade,
onnipotente come don Juan Manuel,
. e il 7 di Denari tintinnanti sua speranza
esitazioni recalcitrante
mantenere interrompendo le parole,
e come tutte le decisioni possibili
venire ancora e ancora,
gli uomini che giocano stasera
ripetere i trucchi antichi:
tutto ciò fa rivivere un po ', molto poco,
le generazioni dei padri
che hanno lasciato in eredità le ore di inattività di [Buenos Buenos
le stesse rime, le stesse bugie e diavolerie.
(Tradotto dallo spagnolo da Dick Barnes e Robert Mezey)
GIUSEPPE UNGARETTI
Soldati
Bosco di Courton luglio 1918
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie
EUGENIO MONTALE
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
TRILUSSA
La violetta e la farfalla
Una vorta, ‘na Farfalla
mezza nera e mezza gialla,
se posò su la Viola
senza manco salutalla,
senza dije ‘na parola.
La Viola, dispiacente
d’esse tanto trascurata,
je lo disse chiaramente:
- Quanto sei maleducata!
M’hai pijato gnente gnente
Per un piede d’insalata?
Io so’ er fiore più grazzioso,
più odoroso de ‘sto monno,
so’ ciumaca e nun ce poso,
so’ carina e m’annisconno.
Nun m’importa de ‘sta accanto
a l’ortica e a la cicoria:
nun me preme, io nun ciò boria:
so’ modesta e me ne vanto!
Se so’ fresca, per un sòrdo
vado in mano a le signore;
appassita, so’ un ricordo;
secca, curo er raffreddore…
Prima o poi so’ sempre quella,
sempre bella, sempre bona:
piacio all’ommini e a le donne,
a qualunque sia persona.
Tu, d’artronne, sei ‘na bestia,
nun capischi certe cose… -
La Farfalla j’arispose:
- Accidenti, che modestia!
ARTHUR RIMBAUD
Al Cabaret-Vert
le cinque di sera
Da otto giorni straziavo le scarpe
per le strade sassose. Arrivo a Charleroi.
– Al Cabaret-Vert: chiedo tartine
imburrate e prosciutto freddo a metà.
Sotto il tavolo verde, beato, distendo
le gambe: contemplo ingenue scenette
sulla tappezzeria. – E quale delizia, quando,
occhio vivo, enormi tette, la ragazza
– Non sarà un bacio a spaventarla, quella lì! –
sorride portando tartine imburrate,
il prosciutto tiepido, su un piatto colorato,
prosciutto rosa e bianco che uno spicchio d’aglio
profuma, – e mi colma il gran boccale, mentre
al raggio d’un sole attardato si dora la schiuma.
LUCA POSTIGLIONE
Ll’ata notte
Ll'ata notte, for' 'a loggia,
m'aggarbavo nu percuoco,
felle felle, dint 'o vino;
e senteva sparà 'o ffuoco,
mo luntano, mo vicino.
Steva llà, cu ‘a giarra mmano,
e penzavo a tutt’ ‘e ccose
ca sta vita hanno ‘ntricciata.
(Vranche ‘e prete preziose
me pareva ogne granato…)
E bevevo. E riflettevo:
“Chistu vino e chistu frutto,
chesto e chello ca t’attocca…
E che fa? Sta bene. È tutto…
si stu vino è doce mmocca”.
E mettette a’a giarra ‘nterra.
Me susette cu na pena,
na stracquezza int’ ‘e ddenocchie.
Me senteva chell’arena
che fa ‘o suonno dint’all’uocchie…
Aspettaie n’ata granata
Salutaie: – Felice notte… –
chi sa a chi dint’ ‘a nuttata…
GIOSUE CARDUCCI
San Martino
La nebbia a gl'irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;
ma per le vie del borgo
dal ribollir de' tini
va l'aspro odor de i vini
l'anime a rallegrar.
Gira su' ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
sull'uscio a rimirar
tra le rossastre nubi
stormi d'uccelli neri,
com'esuli pensieri,
nel vespero migrar.
ALDO PALAZZESCHI
Disappetenza
Vorrei mangiare sotto una cupola.
Com’è immondo mangiare in un qualunque [restaurant.
Mangiare e veder mangiare.
Una sala da pranzo cattedrale!
Ma è incomodo mangiare colla gente a pregare.
Mangiare e sentir borbottare.
C’è da vomitare.
Mangiare… senza tanto pensare.
Mangiare e non ci badare.
UMBERTO SABA
Caffè Tergeste
Caffè Tergeste, ai tuoi tavoli bianchi
ripete l’ubbriaco il suo delirio;
ed io ci scrivo i miei piu allegri canti.
Caffè di ladri, di baldracche covo,
io soffersi ai tuoi tavoli il martirio,
lo soffersi a formarmi un cuore nuovo.
Pensavo: Quando bene avrò goduto
la morte, il nulla che in lei mi predico,
che mi ripagherà d’esser vissuto?
Di vantarmi magnanimo non oso;
ma, se il nascere è un fallo, io al mio nemico
sarei, per maggior colpa, più pietoso.
Caffè di plebe, dove un dì celavo
la mia faccia, con gioia oggi ti guardo.
E tu concili l’ítalo e lo slavo,
A tarda notte, lungo il tuo bigliardo.
MARCELLO MARCHESI
A l’unico amico
Vieni a trovarmi
se puoi
tra un taxi e una telefonata
un contratto
e un’arrabbiatura.
Tra un giornale e una preghiera
tra un film e un aperitivo
vieni a trovarmi
finché son vivo
una mattina
una sera
scambiamoci un sacco
d’idee sbagliate.
Invecchiamo un’ora insieme.
LIBERO BOVIO
‘O zio ‘e ll’America
Zi’ Andrea? Ma che pazziate? Quanno more
se cagna tutto nzieme ‘a stella mia,
a Dio piacenno, pozzo fa’ ‘o signore,
me levo ‘a dinto a ’sta pezzentaria…
Me lassa duie palazze, nu vapore,
tre pare ‘e scarpe, tutta ‘argenteria,
nu bacarino c’ ‘o cammenatore,
‘o tubo, ‘a sciassa, ‘e guante e ‘a biancaria.
………………………………………………….
E aspettavo.
E, aspettanno, m’è arrivata
‘na lettera pesante comme a cche,
cu ‘na ddiece ‘e meloppa sigillata.
“Caro nipote stono per morire,
e ‘ncopp’ ‘o munno tengo sulo a tte….
Pe’ carità, mànname ciento lire”!
LIBERO BOVIO
Està
(Nun voglio fa’ niente!)
Che sole, che sole,
che sole cucente!
E chi vò fa’ niente?
E chi pò fa’ niente?
Che bella canzone
ca sona ’o pianino…
Mò ’nzerro ’o balcone
pe’ nun ’a sentì.
Che bella figliola,
ca passa p’’o vico…
Mò a chiammo e lle dico:
«Volete salì?»
No, no… cu stu sole,
stu sole cucente,
nun voglio fa’ niente!
Ma dint’’a cuntrora
che caldo se sente!…
E chi vò fa’ niente?
E chi po’ fa’ niente?
Mò piglio e me spoglio,
me ’nfilo ’int’’o lietto,
me leggo nu foglio,
me metto a fumà…
ma ’a cammera ’e lietto
sta troppo luntano…
cchiù meglio ’o divano…
nu passo, e sto llà…
Ah, dint’’a cuntrora
Che caldo se sente…
Nun voglio fa’ niente!…
Che luna, che luna,
che luna lucente!
E chi vò fa’ niente?
E chi po’ fa’ niente?…
Mò arrivo a’ Turretta,
po’ torno p’’a villa…
Va bbuo’, nun da’ retta…
me scóccio ’e vestì…
Che bella canzone
tenevo p’’e mmane…
mò veco dimane
si ’a pozzo fenì…
pecchè cu sta luna,
sta luna lucente,
nun voglio fa’ niente!
DINO CAMPANA
La petite promenade du poète
Me ne vado per le strade
strette oscure e misteriose
vedo dietro le vetrate
affacciarsi Gemme e Rose.
Dalle scale misteriose
c'è chi scende brancolando
dietro i vetri rilucenti
stan le ciane commentando.
..................................
La stradina è solitaria
non c'è un cane; qualche stella
nella notte sopra i tetti:
e la notte mi par bella.
E cammino poveretto
nella notte fantasiosa
pur mi sento nella bocca
la saliva disgustosa. Via dal tanfo
via dal tanfo e per le strade
e cammina e via cammina,
già le case son più rade.
Trovo l'erba: mi ci stendo
a conciarmi come un cane:
Da lontano un ubriaco
canta amore alle persiane.
GIACOMO LEOPARDI
Il sabato del villaggio
La donzelletta vien dalla campagna
in sul calar del sole,
col suo fascio dell'erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e viole,
onde, siccome suole, ornare ella si appresta
dimani, al dí di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dí della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch'ebbe compagni nell'età piú bella.
Già tutta l'aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
giú da' colli e da' tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore;
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dí del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l'altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s'affretta, e s'adopra
di fornir l'opra anzi al chiarir dell'alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d'allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
EDGAR LEE MASTERS
Sonia la russa
Io, nata a Weimar
di madre francese e padre tedesco,
un professore illustrissimo,
orfana a quattordici anni,
divenni ballerina, ero conosciuta come Sonia la russa,
su e giù per i boulevards di Parigi,
dapprima l’amante di numerosi duchi e conti,
e più tardi di artisti poveri e di poeti.
All’età di quarant’anni, passée, puntai su New York
e sulla nave incontrai il vecchio Patrick Hummer,
rubicondo e gagliardo a dispetto dei suoi sessant’anni
passati,
stava tornando a casa dopo aver venduto
un carico di bestiame nella città tedesca di Amburgo.
Lui mi portò a Spoon River e ci siamo vissuti
vent’anni – ci hanno sempre creduti sposati!
La quercia qui accanto a me
è il rifugio preferito delle gazze bianche e blu
che cicalano e cicalano tutto il giorno.
E perché no? perfino la mia polvere ride
pensando a quella cosa piena di humour
chiamata vita.
CORRADO GOVONI
Dolce, la sera, quando le campane
cessan di piovere sulla città
la loro torrenziale avemaria,
andar vagabondando soli e puri
nei quartieri più poveri ed oscuri !
Sembran le trombe d' oro dei soldati
soffiare dalle squallide caserme
il vetro iridescente del crepuscolo;
nelle deserte vie, contro le case,
stendono i rami pallidi i fanali «
in lunghe file come alberi insonni ;
gettan da muro a muro larghe scie
come scialbi traguardi d' ubbriachi :
sono meravigliosi ragni accesi
aggrappati con tutte le lor zampe
ai cenci sporchi di vecchia dell'ombra.
Negli armadi imporriti ai crocevia,
una Madonna di chincaglieria
sull' altarino come uno sgabello
piange divinamente con il mazzo
di coltelli d'argento sopra il cuore,
o si disgrega in preda ai tarli un Cristo
incartapccorito come un rettile :
s' afflosciano dei fiori in un bicchiere
come spugne imbevute di veleno.
Dove le nostre scarpe ci conducono ?
Qua una gran casa di sepolte vive ;
là una fabbrica cupa sempre aperta
dove donne si strascican furtive
nella complice notte a deporre una
elemosina tetra di bambini.
Poi il cancello d' una beccheria
triste, sfarzosamente illuminata,
dove sparati pendon dal soffitto
imbottiti di gialla stearina
dei buoi interi sgocciolando sangue
sul pavimento, dal collo reciso ;
i soliti giardini delle scuole,
pisciatoi, umidi confessionali....
Nella chiusa fucina solitario
batte il fabbro ferraio sull' incude,
sulla suola inzuppata il ciabattino
in un atrio, col lume sul deschetto.
Fermandosi a spiar dalle finestre
si vede della gente andar a letto,
levarsi con un senso di sollievo
gli abiti tristi, entrar sotto i lenzuoli
come in una incantata e dolce culla
che tosto celere li condurrà
nei giardini dei sogni e delle stelle
nel paese fantastico del nulla;
si vedon nelle povere cucine
famiglie mute intorno a bianche tavole
su cui nei lievi paralumi a fiori
come tra abbarbaglianti riflettori
a gambe ignude danzano le lampade
simili a verdi rosee ballerine.
LEONARDO SINISGALLI
Muore il ragazzo un poco
Muore il ragazzo un poco
ogni giorno per giuoco.
Per giuoco morde invano
il cavo della mano.
Trascorre le vacanze ebbro
tra i maceri cespi di papaveri
steso sul letto per noia
e diletto a guardare le travi.
Ma lo stornano ombre
solitarie nel cielo della stanza,
labili ombre passeggere
sul soffitto. E l’ariete
che batte ostinato le corna
a capofitto nella quiete.
CHARLES BUKOWSKI
I vecchi film
erano i migliori, la Legione S. francese
ogni uomo con una zoccola e gli arabi che venivano all’attacco
su bianchi cavallini da parata, e il Sergente che teneva
il forte raddrizzando i morti finché non arrivavano i rinforzi.
E quelli coi ragazzi che volavano qua e là sugli spad pieni
di tiranti e una bionda plat. che sembrava il simbolo
di tutto. Forse era solo perché ero bambino
o forse non è più la stessa cosa. Tutti i piani,
i cauti patrioti i segnalatori d’incursioni aeree, le sigarette per farsi una scopata, e persino il nemico pareva che giocasse.
O la volta che trovarono l’infermiera giapponese nel cratere della granata
che era stata colpita al petto e voleva un po’ di sulfamidici
e uno dei ragazzi disse: “Ehi, credete che possiamo chiavarla
prima che muoia?”.
ARDENGO SOFFICI
Firenze
A Firenze in Via Tornabuoni
Una fuciacca di cielo è tesa
Sui fili
Del telefono 8-85
L’altro emisfero si rinfresca
Da Doney e Nipoti
Con una penna di paradiso
Al cappello
E fra le trine un profumo
Di Floride e Splendid Hotel.
Un vecchio affogato nella primavera
Trascina un paniere d’iride sul marciapiede
Lungo le vetrine infuocate
Di cravatte di fogli da mille e di liquori
“Due soldi il mazzo le violette
I narcisi e gli anemoni”.
La collina di San Miniato
Sciacqua nell’Arno i suoi ori di Bisanzio
I suoi cipressi
E le ville
Il Ponte vecchio incrostato di gemme
I campanili
I tea rooms
Coll’acqua verde
Partono fra due argini felici di sole.
Non si può vivere in questa pace
D’azzurri viali
Dove non c’è che un tranvai
Ogni venti minuti
Candele steariche e buste fiorite
Nelle vetrine
E visi di spose e di bimbi
Soffocati di calda noia
Alle finestre
Spalancate sul nulla di mezzogiorno.
Un affisso delle Folies bergère
O dello Splendor
È più emozionante
Di tutta la storia
Rassegata in fronte alle torri
E alle cupole senza dio né colombe
(I piccioni del Duomo
Li mangia il Priore
Della Misericordia).
La notte si scrive col fuoco
Sui muri del Centro
A nuova vita restituito
Nomi e orari
Attimi vibrati nell’eternità
Come questa sigaretta che accendo
In un caffè d’Europa
La Rosa
Il 6 marzo 1915.
Su tutte le case degli stranieri
C’è l’appiggionasi
Le Family pensions
Non hanno più amori
Dietro le bianche cortine
Non più yes da oui ja
Non c’è più un fiaccheraio al passo per le Cascine
Non più serenate di parrucchieri
Il lume di luna è tutto alla guerra.
Non ci siam più che noi a cantare
Di disperazione.
Per i vicoli morti
Oltr’Arno
A San Frediano
Al Canto alla Briga
Si cammina sulle immondezze
Sui gatti assassinati
E i capelli
Accanto alle porte inchiodate dei bordelli
Appena un lampione e qualche stella appesa a [rami in amore
Ci fan ricordare che la vita
Ricomincia tutte le mattine.
Voglio scurdarme ‘o cielo
Tutte ‘e canzone e ‘o mare.
Nelle botteghe fuori la legge
La teppa ride e bestemmia
In chiave d’organino e di coltello
Confitta nel fumo
E nell’afrore del vino bianco e nero
La prostituzione
Imbelletta le cantonate
Sul fondo di vecchie reclame
Ogni donna è un fiore
Caduto da questi giardini sepolti di tenebra
Inzuppato di menta glaciale
E impolverato di minio
Come l’aurora.
A Firenze Per tutte le vie
A tutte le ore
S’incrociano le avventure del mondo
Il “Messaggiero” di Roma arrivato ora
Ed il vento
Che batte l’occhio giallo dell’orologio della stazione
Entrano dalle persiane aperte
E gonfiano tutti gli hangars multicolori
Della poesia.
GIUSEPPE UNGARETTI
San Martino del Carso
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
E’ il mio cuore
il paese più straziato
Valloncello dell’Albero Isolato 27 agosto 1916
GIUSEPPE GIUSTI
Teoria del quieto vivere
Che le cose del mondo vanno prese
a un tanto la calata io l'ho sentito
dire più e più volte al mio paese.
Chi fa così non perde l'appetito,
dorme sonni tranquilli e nella bara
scivola grasso, fresco e colorito.
Ma io questa tal vita, anima cara,
a dirtela, fin qui non l'ho imparata.
So che vivendo a vivere s'impara,
ma sento che la testa ossificata
non è capace di capacitarsi
della gran teoria soprallodata.
L'animo, poveretto, è di sì scarsi,
di sì deboli numeri, che in fondo
sarìa prima disposto a ripiegarsi
che a sforzarsi a voler esser giocondo,
quando le cose gli vanno attraverso,
quando vede attraverso andare il mondo.
In questo legno non c'è via né verso
di tagliarci uno scettico: d'un saio
voler fare un mantello è tempo perso.
E di me voler fare o Tizio o Caio,
levarmi dal mio passo naturale
è come pestar l'acqua nel mortaio.
Così son nato e resterò tal quale.
GABRIELE D’ANNUNZIO
La sabbia del tempo
Come scorrea la calda sabbia lieve
Per entro il cavo della mano in ozio,
Il cor sentì che il giorno era più breve.
E un'ansia repentina il cor m'assalse
Per l'appressar dell'umido equinozio
Che offusca l'oro delle piagge salse.
Alla sabbia del Tempo urna la mano
Era, clessidra il cor mio palpitante,
L'ombra crescente d'ogni stelo vano
Quasi ombra d'ago in tacito quadrante.
CHARLES BAUDELAIRE
L’uomo e il mare
Uomo libero, sempre avrai caro il mare!
È il tuo specchio: tu contempli la tua anima
nelle sue onde che all’infinito si accavallano
e il tuo spirito non ha baratri meno amari.
Ti piace tuffarti in grembo alla tua immagine;
la stringi con gli sguardi, le braccia, e il tuo cuore
si distrae qualche volta dal suo proprio rumore
al suono di questo lamento indomabile e selvaggio.
Siete tutti e due tenebrosi e discreti:
uomo, nessuno ha sondato il fondo dei tuoi abissi;
mare, nessuno conosce le tue intime ricchezze
tanto siete gelosi dei vostri segreti.
Eppure, ecco che da secoli innumerevoli
voi vi combattete senza pietà né rimorso
talmente li amate, il massacro e la morte,
o lottatori eterni, o fratelli implacabili.
JORGE LUIS BORGES
Un patio
Con la sera
si stancano i due o tre colori del patio.
Questa notte la luna, il chiaro cerchio,
non domina il suo spazio,
Patio, cielo incanalato.
Il patio è il declivio
sul quale straripa il cielo nella casa.
Serena
l’eternità attende al crocevia delle stelle.
È bello vivere con l’amicizia oscura
di un atrio, di una pergola e di una cisterna.
GABRIELE D’ANNUNZIO
I pastori
Settembre, andiamo. E' tempo di migrare.
Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all'Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.
Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d'acqua natía
rimanga ne' cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d'avellano.
E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!
Ora lungh'esso il litoral cammina
la greggia. Senza mutamento è l'aria.
il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquío, calpestío, dolci romori.
Ah perché non son io cò miei pastori?
GIORGIO CAPRONI
Il fischio
(parla il guardacaccia)
Non credo che questo sia
il fischio del bracconiere.
C’è troppa nebbia. Comunque
(qui son le carte) finite
voi la partita. Io
(potete continuare a bere
anche per me) conosco,
né posso esimermi, quello
ch’è il mio preciso dovere.
Qualsiasi richiamo nel bosco
oda insolito, uccello
o altro agente che sia,
devo andare a vedere.
Porgetemi per cortesia,
è lì a quel chiodo, il fucile
ed il mio cartucciere.
Intanto (scusate: ci vuole,
col freddo che m’aspetta)
lasciate ch’io mi versi ancora
– ultimo – quest’altro bicchiere.
Nel vino, a saper ben vedere,
c’è scienza – c’è illuminazione.
Ma voi, senza una ragione
al mondo, voi perché ora
ch’io sono pronto, e il cuore
già ho fatto allegro, ancora
voi mi state a guardare
a quel modo, quasi
con l’aria di chi sospetta
qualcosa, né si vuol pronunciare?
Vi vedo, o mi sbaglio, tremare,
agli angoli, la bocca?
Amici, posso anche sbagliare;
ma questo, comunque, vi dico,
e una volta per tutte:
temere fuori il nemico
(vi ripeto: il fucile)
è cosa, prima ancora che vile,
a parer mio troppo sciocca.
Porgetemi anche le cartucce
e rimettetevi a bere.
Dovreste almeno sapere
che quando s’è avuto una piuma
sul cappello, e in sorte
stivali e gabbana verde,
per non dir altro si perde
il tempo, pensando alla Morte.
Vedete, una volta vivevo
sul mare. Stavo a Livorno.
Che città! Dal Forno
Mascagni fino ai Quattro Mori,
un vento profondo sbiancava
le piazze, mentre vibrava
nei vetri la sirena
marittima dei vapori.
Uscivo di rado. Fuori,
rammento circolava
un’aria che mi sgomentava
di solitudine. Eppure,
sapeste come si popolava
quel vento, e che figliole
passavano, tra sassaiole
fitte di ragazzacci
aizzati, che si sgolavano,
per troppo amore, in ingiurie.
Traetene la conclusione
che più v’aggada. Io…
Non so se voi crediate in Dio
o ad altro. Per conto mio
– occhio! la stufa fuma,
e può annerirvi la piuma
annerendo la stanza –
tutto ciò ha un’importanza
relativa. Piuttosto
(ne parleremo insieme,
qui, al mio rientro)
ficcatevi bene in testa
quanto ancora vi dico:
che vale temere il nemico
fuori, quand’è già dentro?
Il guardacaccia, caccia
od è cacciato. Questa
è una norma sicura.
Al diavolo perciò la paura,
giacché non serve. Tanto,
in tutti noi non resta
– sola – che la certezza
già da tempo in me sorta:
chi fabbrica una fortezza
intorno a sé, s’illude
quanto, ogni notte, chi chiude
a doppia mandata la porta.
Lasciatemi perciò uscire.
Questo, io vi volevo dire.
Per quanto siano bui
gli alberi, non corre un rischio
più grande di chi resta, colui
che va a rispondere a un fischio.
ANTONIO DE CURTIS (Totò)
Felicità
Felicità!
Vurria sapè chd’è, chesta parola,
vurria sapè che vvo’ significà.
Sarrà gnuranza ‘a mia, mancanza ‘e scola,
ma chi ll’ha ntiso maje annummenà.
DINO CAMPANA
Montagna – La chimera
Tu tra le rocce il tuo pallido
Viso traente sorriso
Da lontananze ignote:
Tu ne la china eburnea
Fronte fulgente, o giovane
Suora della Gioconda:
(Tu de le Primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina, o Regina adolescente)…
Oh! per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di Dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose
Regina de la melodia.
Oh! invano per vergine capo
Reclino io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo
Io fiso al tuo dolce mistero
Io fiso al tuo divenir taciturno
Oggi una fiamma pallida
Entro i capelli viventi
Sul Suo profondo pallore
O Estate che ardi nei cieli
Tu accendi per suo corpo eburneo:
A la regina dei sogni che appare nei vaghi suoi veli.
TRILUSSA
Er sonatore ambulante
Ogni tanto veniva in trattoria
pe' sonà quer violino strappacore,
e quanno nun raschiava er ‹‹ trovatore ››
martirizzava la ‹‹ cavalleria ››.
Successe che una sera, un'avventore,
je disse: - Basta, co’ ‘sta zinfonia!
perché c'hai rotto l'anima! Va via!
Sempre una lagna! Brutto scocciatore! -
Ner senti' 'ste parole, er violinista,
radica vera de baron futtuto,
J'incominciò a sonà l'inno fascista.
Allora l'avventore, rassegnato,
arzò la mano in segno de saluto,
ma sottovoce disse: - M'hai fregato!
JEAN-ARTHUR RIMBAUD
Il soldato dormente
Un brolo dove un rivo, cantando, si dispera
e spruzzi e lembi argentei all' erba, folle, adduce.
Luccica il sole a piombo dalla montagna fiera,
tutta la valle schiuma d' un brulichio di luce.
Un giovane soldato, a bocca aperta, giace
supino, e con il capo sfiora un cespuglio azzurro;
lo sovrasta una nube. Sul verde letto in pace
dorme: su lui la luce piove senza sussurro.
I piedi fra i giaggioli, nè triste nè felice,
sorride come un bimbo malato, e si riposa.
Tu cullalo, Natura: egli ha freddo, egli è stanco.
Non ai tepidi effluvii freme la sua narice.
Dorme al sole. Una mano, bianca, sul petto posa
tranquillo. Ed ha due squarci sanguinosi nel fianco.
JACQUES PRéVERT
Dalla fioraia
Un uomo entra dalla fioraia
e sceglie dei fiori
la fioraia incarta i fiori
l'uomo mette la mano in tasca
per cercare i soldi
i soldi per pagare i fiori
ma nello stesso tempo mette
improvvisamente
la mano sul cuore
e cade.
E mentre cade
le monete rotolano per terra
e poi i fiori cadono
insieme all'uomo
insieme alle monete
e la fioraia rimane là
con le monete che rotolano
con i fiori che si sciupano
con l'uomo che muore
evidentemente tutto questo è molto triste
e bisogna che ella faccia qualcosa
la fioraia
ma non sa cosa fare
non sa
da che parte cominciare.
Vi sono tante cose da fare
con quest'uomo che muore
questi fiori che si sciupano
e queste monete
queste monete che rotolano
che non la smettono di rotolare.
CAMILLO SBARBARO
Il canto degli ubriachi
Piccolo quando un canto d’ubriachi
giungevami all’ orecchio nella notte
d’impeto su dai libri mi levavo.
Dimentico di lor, la chiusa stanza
all’ aria della notte spalancavo
e mi sporgevo fuor della finestra
a bere il canto come un vino forte.
Con che occhi voltandomi guardavo
la chiusa stanza e dopo lei la casa
dove già tutti i lumi erano spenti!
Più d’una volta sulla fredda ardesia
al vento che passava nei capelli
alla pioggia che m’inzuppava il viso
io piansi delle lacrime insensate.
Adesso quell’inganno anche è caduto.
Ora so quanto amara sia la bocca
che canta spalancata verso il cielo.
Pur se ancora mi desta dal mio sonno
quel canto d’ubriachi per la via
ad ascoltar mi levo con sospeso
dall’improvvisa commozione il fiato,
e vado ancora a mettere la faccia
nel vento che i capelli mi scompigli.
Rinnovare vorrei l’amara ebrezza
e quel sottile brivido pel corpo,
e il ben perduto cui non credo più
piangere come allora…
Ma non m’escono
che scarse sciocche lacrime dagli occhi.
ALDO PALAZZESCHI
Gigino Siccoli, Jean Polverini Badel, Enzo Tolù, Carmine Lazzarini
– Tu vieni, Gigino, stasera da Lice Puda?
– Sì.
– Tu vieni, Jean, stasera da Lice Puda ?
– Sì.
– Tu vieni, Enzo, stasera da Lice Puda?
– Sì.
– Ti vieni, Carmine, stasera da Lice Puda?
– No.
ANITE
Alla cavalletta, usignolo dei campi
e alla cicala amante delle querce
Mirò eresse una tomba comune
versando lacrime di bambina.
Ade inesorabile
tutti e due le portò via i suoi
giocattoli.
GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI
La vita dell’omo
Nove mesi a la puzza: poi in fassciola
tra sbasciucchi, lattime e llagrimoni:
poi p’er laccio, in ner crino, e in vesticciola,
cor torcolo e l’imbraghe pe ccarzoni.
Poi comincia er tormento de la scola,
l’abbeccè, le frustate, li ggeloni,
la rosalía, la cacca a la ssediola,
e un po’ de scarlattina e vvormijjoni.
Poi viè ll’arte, er diggiuno, la fatica,
la piggione, le carcere, er governo,
lo spedale, li debbiti, la fica,
er zol d’istate, la neve d’inverno...
E pper urtimo, Iddio sce bbenedica,
viè la Morte, e ffinissce co l’inferno.
GIOVANNI PAPINI
Incontadinamento
Oggi sono alla bona ed alla mano
e mando a farsi fottere i pensieri.
Entra in cucina, amico paesano,
dammi que’ tu’ ditoni forti e neri.
Questo è un fiasco di vin di Carmignano,
ecco il pane col cacio, ecco i bicchieri,
e questo qui gli è un sigaro toscano
di quelli asciutti e scuri, di que’ veri.
E’ si sta tanto meglio intorno al fòco
a parlar del cognato e della zia
o del piovano che s’è dato al giòco
o di quella ragazza che andò via
che diventar nervoso, giallo e ròco
con una sbornia di filosofia!
LUCIANO FOLGORE
Sveglia Sentinella
Sentinella notturna
lassù
taciturna
sopra la roccia scabra.
Vent'anni,
viso bianco,
occhi di fanciullo febbrile,
e la mano che stringe
il fucile;
e il pensiero che si perde
nell'immensità della notte.
Stanchezza di piombo
per tutte le membra
dopo un giorno di lotte.
Il sonno è d'intorno
morbidamente muto
come un tentatore velluto
che accarezza le palpebre.
Passano lembi di visione
dinanzi alle pupille
pesanti,
figure oscillanti,
profili sonnolenti,
tormenti di visi
che non si definiscono
mai.
Ecco i velari del sogno!
Troppo dolce dormire
anche su letti di pietra!
Gambe che s'abbandonano
sotto fardelli di torpore...
ma uno stormire d'abeti,
ma un fresco di vento
che palpita fra due'
capelli biondi,
snebbia un istante
la pesantezza accasciante
e un brivido di volontà
ridà
la rigidità
alla sagoma snella
di questa sentinella
della Patria.
Il nemico è là dietro.
Bisogna guardare,
bisogna ascoltare,
lucidamente.
Ma ancora il fumo del sonno
che monta.
Stelle filanti nei cieli,
veli di verde lontano,
pensieri e frammenti:
sua madre che veglia...
il pozzo
un singhiozzo...
quel compagno caduto...
con una palla in fronte...
due bimbi in un cortile
del paese...
un vaso di maggiorana...
e lei... lontana...
vestita di bianco...
fresca come una fontana...
Oh, finalmente!
Scalpiccii
rotolii di sassi
parole sconnesse;
bisbigli:
un altro prende il tuo posto
e tu che discendi a dormire
con un saluto all'Italia
laggiù
dietro quei monti di fresco
e di blu.
VINCENZO CARDARELLI
Autunno
Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d'agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora passa e declina,
in quest'autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.
VIRGILIO GIOTTI
Con Bolàffio
Mi e Bolàffio, de fazza
un de l'altro, col bianco
de la tovàia in mezo,
su i goti e el fiasco in fianco,
parlemo insieme.
Bolàffio de 'na piazza
de Gorìzia el me conta,
ch'el voria piturarla:
'na granda piazza sconta,
che nissun passa.
Do tre casete atorno
rosa, un fiatin de muro,
un pissador de fero
vècio stravècio, e el scuro
de do alboroni.
Xe squasi mezogiorno.
E un omo, vignù fora
de là, se giusta pian
pian, e el se incanta sora
pensier. Bolàffio,
in 'sta su piazza bela,
noi, poeti e pitori,
stemo ben. La xe fata
pròpio pai nostri cuori,
caro Bolàffio.
In quel bel sol, in quela
pase, se ga incontrado
i nostri veci cuori;
là i se ga saludado
stassera alegri.
ANACREONTE
Il mese di Poseidone
eccolo, viene, e le nuvole
sono gonfie di pioggia e cupe
feroci le tempeste
strepitano.
LODOVICO ARIOSTO
Satira 111
In casa mia mi sa meglio una rapa,
ch’io cuoca, e cotta su ‘n stecco me inforco
e mondo, e spargo poi di aceto e sapa,
che a l’altrui mensa tordo, starna o porco
selvaggio; e così sotto una vil coltre,
come di seta o d’oro, ben mi corco.
PAUL VERLAINE
Motivo dimenticato
Piove su tutte le strade
e piove nel fondo al mio cuore:
non so, non so da dove
giunge questo languore.
Sonoro bruir della piova
per le zolle, sopra le ardesie;
a un cuor che dolce s'accora
oh dolce bruir della piova!
Questo pianger da dove mi viene?
Inganno? E quale? Nessuno.
Eppure nel cuore che geme
da dove, da dove mi viene?
E come duole un dolore
senza radice alcuna.
Odio non c'è, non c'è amore:
e tanta è la pena del cuore.
ERNESTO MUROLO
L’ardito
Trent’anne: nu gigante. S’ha spusata
a Clementina Dolge, na nchiastella
tutt’uocchie, bionda, pallida, sciupata,
c’ ‘o guarda e ‘o fa tremmà;
ca quanno ha ditta na parola, è chella,
e si penza a na cosa, ‘a dice e ‘a fa.
Isso s’è fatto ‹‹ ardito ››. Ha cumbattuto
cu’ ‘e mbomme n’ha scannate, ‘a ch’è partuto,
nisciuno ‘o ppo’ sapé.
Ma si sponta ‘a licenza, che ll’attocca,
fra ‘o zecchinetto, ll’annese e ll’amice,
nfuscato e lusingato, si ce ‘o ddice,
s’arrevota ‘o ‹‹ Cafè ››!...
E ‘a licenza è venuta. E p’ ‘o quartiere
l’hanno visto turnà cchiù guappo e bello.
Clementì, (s’è avutato ‘o cantiniere)
mo nun o fa’ nquartà,
ca mariteto ammarcia c’ ‘o curtiello!...
Essa ha reduto e l’ha tenuto mente
cu n’aria calma, fredda ‘ndifferente,
cumme si avesse ditto: – E… ch’aggi’ ‘a fa’?... –
(Uommene, nuie che simmo?...) Stammatina
na cummarella d’isso l’ha truvato
mucchio mucchio, assettato ‘int’ ‘a cucina,
ca sfucava a ffumà
ca ll’ha ditto ‹‹ bonnì ›› tutto ngrugnato,
tutto sceppato ‘nfaccia… e cu nu muorzo
can un era nu muorzo ‘e cane corzo…
E ‘a gatta dint’ ‘a casa nun ce sta.
ATTILIO BERTOLUCCI
Gli anni
Le mattine dei nostri anni perduti,
i tavolini nell'ombra soleggiata dell'autunno,
i compagni che andavano e tornavano, i compagni
che non tornarono più, ho pensato ad essi lietamente.
Perchè questo giorno di settembre splende
così incantevole nelle vetrine in ore
simili a quelle d'allora, quelle d'allora
scorrono ormai in un pacifico tempo,
la folla è uguale sui marciapiedi dorati,
solo il grigio e il lilla
si mutano in verde e rosso per la moda,
il passo è quello lento e gaio della provincia.
JORGE LUIS BORGES
Afterglow
Sempre è commovente il tramonto
per indigente o sgargiante che sia,
ma più commovente ancora
è quel brillìo disperato e finale
che arrugginisce la pianura
quando il sole ultimo si è sprofondato.
Ci duole sostenere quella luce tesa e diversa,
quella allucinazione che impone allo spazio
l'unanime paura dell'ombra
e che cessa di colpo
quando notiamo la sua falsità,
come cessano i sogni
quando sappiamo di sognare.
TU FU
L’aquilone si porta via il mio tetto
Durante l’ottava luna l’autunno s’avanza,
Mugola l’aquilone
E si porta via dal mio tetto tre strati di paglia
Che passa volando il fiume e si sparge ovunque.
Parte s’impiglia in mezzo ai rami degli alberi,
E parte già galleggia annegata nell’acqua.
I ragazzi del borgo approfittano
Della mia debolezza senile,
Acchiappan la paglia e la portano
Nel bosco degli alti bambù.
Li chiamo e li richiamo
Finché mi si secca la gola.
Testardi, non m’odono ed io
Rientro malinconico e stanco.
Ed ora il vento rallenta
Ma le nuvole si anneriscono;
Il cielo autunnale di piombo
Si perde dentro alle tenebre.
Le vecchie coperte son gelide come il ferro;
Entrando nel letto i miei ragazzi le strappano.
Il tetto è bucato; non c’è piú luogo all’asciutto;
La pioggia non cessa, sottile come tanti fili.
In questi tempi torbidi dormo di rado;
Questa notte lunga appare interminabile.
Perché non si può costruire un enorme edificio
Per alloggiare e mantener soddisfatti
I letterati dell’Universo intero?
Che questo edificio sia solido come montagna
Contro la pioggia ed il vento!
Pensando che il sogno s’avvera mi sento felice
Anche col tetto in rovina e morendo di freddo.
Rainer Maria Rilke
Herbstag
Herr, es ist Zeit. Der Sommer war sehr groß.
Leg deinen Schatten auf die Sonnenuhren,
und auf den Fluren lass die Winde los.
Befiehl den letzten Früchten, voll zu sein;
gib ihnen noch zwei südlichere Tage,
dränge sie zur Vollendung hin, und jage
die letzte Süße in den schweren Wein.
Wer jetzt kein Haus hat, baut sich keines mehr.
Wer jetzt allein ist, wird es lange bleiben,
wird wachen, lesen, lange Briefe schreiben
und wird in den Alleen hin und her
unruhig wandern, wenn die Blätter treiben.
FRANCESCO D’ASSISI
Altissimu, onnipotente bon Signore,
tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne [benedictione.
Ad Te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.
Laudato sie, mi' Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si', mi Siignore, per sora Luna e le stelle:
in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si', mi' Signore, per frate Vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.
Laudato si', mi Signore, per sor'Acqua.
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si', mi Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si', mi Signore, per sora nostra matre [terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti fior et herba.
Laudato si', mi Signore, per quelli che perdonano [per lo Tuo amore
et sostengono infermitate et tribulatione.
Beati quelli ke 'l sosterranno in pace,
ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si' mi Signore, per sora nostra Morte [corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime [voluntati,
ka la morte secunda no 'l farrà male.
Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.
DINO CAMPANA
Buenos Aires
Il bastimento avanza lentamente
Nel grigio del mattino tra la nebbia
Sull'acqua gialla d'un mare fluviale
Appare la città grigia e velata.
Si entra in un porto strano. Gli emigranti
Impazzano e inferocian accalcandosi
Nell'aspra ebbrezza d'imminente lotta.
Da un gruppo d'italiani ch'è vestito
In un modo ridicolo alla moda
Bonearense si gettano arance
Ai paesani stralunati e urlanti.
Un ragazzo dal porto leggerissimo
Prole di libertà, pronto allo slancio
Li guarda colle mani nella fascia
Variopinta ed accenna ad un saluto.
Ma ringhiano feroci gli italiani.
KONSTANTINOS KAVAFIS
Itaca
Allorchè in viaggio ti metti per Itaca
prega che lungo sia il cammino, pieno
di conoscenze e pieno di avventure.
Non temere i Listrigoni e i Ciclopi,
non temere l’irato Poseidone,
sulla tua strada non li icontrerai,
se eletto resta il tuo pensiero e un’alta
commozione ti tocchi corpo e mente.
I listrigoni e i Ciclopi e il feroce
Poseidone tu non incontrerai,
se non li porti dentro la tua anima
e questa non li drizza innanzi a te.
Prega che lungo sia il tuo cammino,
che molti siano i mattini estivi
in cui con allegria e gioia tu entri
in porti mai veduti prima d’ora,
fermandoti ai negozi dei Fenici
per comprare le belle mercanzie,
ambre, ebani, coralli e madreperle,
essenze d’ogni sorta voluttuose
e, quanto puoi, profuumi deliziosi;
nelle molte citta d’Egitto andrai
per imparar dai dotti tante cose.
Ma in mente devi avere sempre Itaca,
che là tu raggiunga è il tuo destino.
Ma non per nulla affretta questo viaggio.
Meglio che duri numerosi anni
E vecchio già tu approderai all’isola,
ricco del tuo guadagno sulla via
non aspettando da Itaca ricchezze.
Ti ha dato, Itaca, questo bel viaggio.
Senza di lei non ti saresti avviato.
Essa altre cose non ha più da darti.
Non ti ha ingannato, se la trovi povera.
Con l’esperienza ti sei fatto saggio
e ora sai cosa Itaca significhi.
TRILUSSA
Er baco da seta
Un povero Ragno
parlanno cor Baco
je disse: - Compagno,
sei matto o imbriaco?
Perché, scusa er termine,
sei tanto minchione
da crede’ a un padrone
che vive sur vermine?
Nun sai che li fiocchi
che fai te li cambia
co’ tanti bajocchi?
Che mentre tu sudi
magnano la foja
quer boja guadambia
mijara de scudi?
Bisogna aprì’ l’occhi
chè ormai la questione
se basa sur detto
Né Dio , né padrone!
- Stà in guardia, fratello!
Stà in guardia da quello!
- Strillò un Bagarozzo
che usciva da un pozzo.
Che quela carogna
t’imbroja e nun vede
che invece bisogna
ridatte la fede!
Sortanto cor crede’
che c’è un Padreterno,
che c’è un Paradiso,
ch’esiste un Inferno,
sortanto co’ questo
io credo che presto
ciavremo un Governo
più bono e più onesto!
- Va via! disse er Ragno -
se no me te magno!
- Te strozzo! Te sfagno! -
Strillò er Bagarozzo
- Vijacco! Scagnozzo!
- Buffone! - Compagno!...
Er Baco, scocciato,
ner vedè in pericolo
la casa e la seta
ch’aveva filato,
- Qua, - disse l’affare
comincia a imbrojasse:
è mejo a fa’ sciopero
è mejo a squajasse;
fintanto che sento
che tira ‘sto vento,
starò co’ la lega
der chi se ne frega.
E chiuse bottega.
1906
GIORGIO CAPRONI
senza titolo
… l’uomo che se ne va
e non si volta: che sa
d’aver più conoscenze
ormai di là che di qua …
CHARLES BUKOWSKI
Il topo
con un pugno, all'età di 16 anni e 1/2,
misi mio padre fuori combattimento,
un bastardo crudele e leccato con l'alito cattivo
e non tornai più a casa per un po', solo ogni tanto
per cercare di scucire un dollaro
alla cara mammina.
era il 1937 a Los Angeles ed era una Vienna
d'inferno.
stavo con questi ragazzi più grandi
ma anche per loro era la stessa cosa:
tirare, in genere, il fiato coi denti
e rapinare stazioni di servizio dove non c'era
il becco di un quattrino, e tra noi qualche fortunato
lavorava a mezza giornata come fattorino
della Western Union.
dormivamo in camere d'affitto che non erano affittate -
e bevevamo birra e vino
con gli scuri accostati
stando zitti zitti
e poi svegliando l'intero caseggiato
con una rissa
rompendo specchi, sedie e lampadari
e poi correndo giù per le scale
un momento prima che arrivasse la polizia
alcuni di noialtri soldati del futuro
correndo per le strade vuote e affamate e per i vicoli
di Los Angeles
e più tardi
ritrovandoci tutti
nella stanza di Pete
un bugigattolo in un sottoscala, stavamo là,
ammucchiati là dentro
senza donne
senza sigarette
senza niente da bere,
mentre i ricchi smanacciavano le loro
favorite e le ragazze li lasciavano fare,
le stesse ragazze che sputavano sulla nostra ombra quando
passavano.
era una Vienna
d'inferno.
3 di noi in quel sottoscala
furono uccisi nella Seconda Guerra.
un altro adesso è il manager
di una fabbrica di materassi.
e io? io ho 30 anni di più,
la città s'è ingrandita di 4 o 5 volte
ma non è meno marcia di prima
e le ragazze continuano a sputare
sulla mia ombra, si prepara un'altra guerra per un'altra
ragione, e oggi non riesco a trovare lavoro
per lo stesso motivo per cui non ci riuscivo allora;
non so niente, non so fare
niente.
donne? be', solo le vecchie bussano alla mia porta
dopo mezzanotte. io non riesco a dormire e loro vedono la luce accesa
e s'incuriosiscono.
le vecchie. i mariti non le vogliono più,
i figli se ne sono andati, e se mi mostrano due gambe ancora
buone (le gambe sono le ultime a morire)
io ci vado
a letto.
così le vecchie si danno da fare e io fumo le loro sigarette
mentre loro
parlano parlano parlano
e poi si torna a letto
e sono io che mi do da fare
e loro sono felici
e parlano
finché spunta il sole,
poi
si dorme.
è una Parigi
d'inferno.
CESARE PASCARELLA
Villa Gloria
1886
A Benedetto Cairoli
I.
A Terni, dove fu l'appuntamento,
Righetto ce schierò in d'una pianura,
E lì ce disse: — Er vostro sentimento
Lo conosco e nun c'è d'avé pavura;
Però, dice, compagni!, v'arimmento
Che st'impresa de noi nun è sicura,
E Roma la vedremo p'un momento
Pe' cascà' morti giù sott'a le mura.
Pe' questo, prima de pijà er fucile,
Si quarcuno de voi nun se la sente
Lo dica e sorta fora da le file.
Dice: non c'è gnisuno che la pianta? —
E siccome gnisuno disse gnente,
Dopo pranzo partissimo in settanta.
II.
E marciassimo fino a la matina
Der giorno appresso. Tutta la nottata!
A l'arba poi, fu fatta 'na fermata
Su l'erba zuppa fracica de brina.
Traversassimo un fiume de rapina,
Lassassimo la strada, e traversata
'Na macchia, se sboccò su 'na spianata
E venissimo in giù pe' la Sabina.
Dove che dietro a noi c'era pe' scorta
N'onibussetto tutto sganghenato,
Dov'uno ce montava un po' pe' vorta.
Pe' strada er celo ce se fece cupo,
E venne l'acqua che nun ci ha lassato,
Finché non semo entrati a Cantalupo.
III.
A Cantalupo, drento a 'na chiesola
Righetto ce divise in tre sezione,
E dopo avecce letto l'istruzione,
Fece: — Ripeto n'antra cosa sola:
Si fra voi c'è quarcuno che ciriola,
Lo dica e nun se metta soggezione. —
Gnisuno arifiatò. Fece: — Benone!
Vedo che sete tutti de parola.
Ma perchè non ce sia gnisun intoppo
(È inutile a sta' a fa' mezze parole)
S'io morissi c'è l'antro che viè' doppo. —
E lì de novo tutti in marcia. Arfine,
Caricassimo tutti le pistole
E a Corese passassimo er confine.
IV.
E a l'arba, mentre c'era un temporale,
'Rivorno da Firenze li cassoni
Dove c'erano drento li foconi
De quelli de la guardia nazionale.
Furno depositati in d'un casale
E dopo, assieme a l'antre munizioni,
Li portassimo drento a du' barconi
Presi da 'n capo-presa padronale.
Fatto er carico, sopra a 'gni barcone
Ce fu messa la legna e fu ridotto
Come quelli che porteno er carbone:
In modo ch'uno nun capisse gnente.
Poi dopo s'accucciassimo de sotto
E venissimo in giù co' la corrente.
V.
Avanti a tutti, drento a 'na gozzetta,
Come stassero lì a guardà' er carbone,
C'ereno li Cairoli de vedetta;
E noiantri giù a fonno ner barcone,
Sentimio da la riva la trombetta
De le truppe der papa! A Teverone,
Verso notte, se scense e 'gni sezione
Fu dislocata drento a 'na barchetta.
E m'aricordo ch'una era tarlata
E che cór sego e co' li stracci pisti
Lì su la riva fu calatafata.
Dopo annassimo da li doganieri,
Li legassimo tutti come Cristi,
E furno fatti tutti prigionieri.
VI.
Dopo fatta 'sta prima operazione,
Lì, ce se fece notte in mezzo a fiume:
C'era nell'aria come n'oppressione
De fracico e 'na puzza de bitume:
Nun se sentiva che scrocchià' er timone
Pe' nun impantanasse ner patume;
E verso Roma, in fonno a l'estensione,
Se vedeva ariluce' come un lume.
Un lume che sur celo era 'n chiarore.
E lì pe' fiume, in quer silenzio tetro,
Fòr che l'acqua non c'era antro rumore.
E in fonno a la campagna, a l'aria quieta,
De notte, er cupolone de San Pietro
Pareva de toccallo co' le deta.
VII.
Sangue de la Madonna! Che nottata!
Quanno che m'aritorna a la memoria,
Me pare come un pezzo de 'na storia
Che quarcuno m'avesse arriccontata.
Avemio da stà' a Roma a fa' l'entrata
Pe' trovacce la morte o la vittoria,
E invece er giorno dopo a Villa Gloria...
Destino! Basta, sotto a la spianata,
A mezzanotte, in mezzo a la corrente
Se fermassimo p'aspettà' er chi-viva.
Aspetta, aspetta, aspetta... Gnente!... Gnente!
Riguardassimo bene de lì intorno:
Manco un'anima!... Annassimo a la riva.
Per aspettà' che se facesse giorno.
VIII.
E a l'arba fu smontato dar battello,
E piano piano, senza move' un deto,
Perché non se scoprisse er macchiavello,
S'agguattassimo drento in un canneto.
Dopo, Righetto fece cór fratello:
— Annate in cinque su pe' sto querceto,
E scannajate un po' pe' sto stradello
Si ce fosse un ricovero segreto;
Ché staremo a vedé' quer che succede;
Intanto lì ce se potrà rimane'
Finché quarcuno non se faccia vede'. —
E mentre annamio sopra, intorno intorno
Se sentiveno batte' le campane
De Roma, che ce daveno er bongiorno!
IX.
Pe' la macchia trovamo un frattarolo,
— Faccia a terra, per Cristo! — Poveretto!
L'intorcinamo drento ar farajolo
E j'appuntamo le pistole in petto.
E lì, ner mentre lo tenemio stretto,
Giovannino je fa: — Voi sete solo?
Dice: — Per carità, so' er vignarolo;
Mi' moje è annata a Roma cór carretto;
Io so' 'n povero padre de famija...
— Ce so' li papalini? — So' innocente...
— Fate la spia? — Me faccio maravija!
— Be', allora, dice, datece ristoro. —
E pe' fàcce pijà' pe' bona gente
Je fu pagata 'na moneta d'oro.
X.
E quer vecchio tremanno de pavura
Ce portò sopra ar monte, in d'un casale,
Che invece era 'n casino padronale
Dove che ce se va in villeggiatura.
Fu aperto. Visitassimo le mura;
E dopo avé' girato pe' le sale
E avé' visto che lì tanto er locale
Quanto la posizione era sicura,
Fu mannato a chiamà' l'antri de sotto;
Furno messi lì intorno l'avamposti,
E poi fu fatto un piccolo complotto:
E mannassimo a Roma, ar Comitato,
Uno, pe' dije che stamio anniscosti
Sintanto che non fosse aritornato.
XI.
Dopo, Righetto assieme a Giovannino
Sortirno dar casale e perlustrorno
Li contorni, e siccome lì vicino
Scoprirno 'na casetta, ce mannorno
Tre fazioni, perché si de lì intorno
Se fosse visto quarche papalino,
Ce dassero er chi-viva su ar casino.
Defatti, poco dopo mezzogiorno,
Vengheno su de corsa du' fazioni;
E dice: — Che li possino ammazzalli!
S'è vista 'na patuja de dragoni.
Se so' avanzati fino sotto ar muro;
Hanno dato la fuga a li cavalli,
E so' spariti in giù pe' l'Arco Scuro.
XII.
Righetto allora, ch'ebbe er sentimento
Che la patuja de ricognizione
Voleva di' l'annunzio der cimento,
Chiama Giovanni assieme a la sezione,
Che c'ero io pure, e dice: — Sur momento
Va a la casetta e pîa la posizione. —
Annamo, e mentre stamio chiusi drento,
Dice: — All'armi! Ce semo... Un battajone! —
Sortìmo. Se mettemo alliniati,
(Saremo stati in tutto dicissette!)
E guardassimo sotto pe' li prati;
E in fonno fra le fratte de li spini
Vedemo luccicà' le bajonette.
— Viva l'Italia!... So' li papalini.
XIII.
Arrivati a la porta der cancello,
La tromba dà er segnale foc-avanti.
Se fermeno. Scavarcheno er murello,
E incominceno er foco tutti quanti.
E mentre stamio tutti lì davanti
A la casetta, drento ner tinello
Er vignarolo in mezzo a quer fraggello
Stava a cantà' le litanie de' santi.
E intanto ch'er nemico s'avanzava
E 'gni palla fischiava pe' cinquanta,
Sentìmio Giovannino che strillava,
Imperterrito immezzo a la tempesta,
Dice: — Pensate che semo settanta
E che ci avemo sei cartucce a testa.
XIV.
Nun sparate che quanno so' vicini... —
(E intanto che veniva un battajone,
Se vedeveno l'antri papalini
Che saliveno in su pe' lo stradone):
— Perdio! Nun se spregamo li quatrini...,
Strillava Giovannino, attenti... unione...
Nun sparate che quanno so' vicini...,
Fermi... fermi, perdio! Fermi... attenzione... —
E intanto che le truppe s'avanzaveno,
Che se po' di' che stamio faccia a faccia,
Le palle, fio de Cristo, furminaveno.
Ma quanno che ce córse tanto poco,
Che quasi je potemio sputà' in faccia,
Ninetto urlò: — Viva l'Italia! Foco!
XV.
E lì ner mejo der combattimento
De lotta a còrpo a còrpo davicino,
Ecco Erìgo fuggenno come er vento;
Guarda la posizione un momentino
E strilla, dice; — Addietro, sacramento!,
Ché ve fregheno, addietro, Giovannino!
Addietro, ché restate chiusi drento
Prigionieri... De corsa!, giù ar casino! —
Lì a la mejo facessimo er quadrato,
E vortassimo in giù pe' lo stradone
Dietro a Righetto a passo scellerato.
E 'rivati ar casale s'agguattassimo
Tra le rose e le piante de limone,
E accucciati lì sotto l'aspettassimo.
XVI.
Allora, dopo questo, li sordati
Che nun capirno ch'era 'na finzione,
Credennose che fossimo scappati,
Vennero pe' pijà' la posizione.
E mentre stamio tutti aridunati,
Li sentimio venì' pe' lo stradone
Urlanno come ossessi scatenati;
Ma Righetto che stava inginocchione
Avanti a tutti, fece: — Attento... Attento!... —
E quanno che ce stiedero davanti,
Righetto ch'aspettava quer momento,
Buttò via la berretta, fece 'n sarto,
Strillò: — Viva l'Italia!, e córse avanti,
E noi dietro je dassimo l'assarto.
XVII.
Ar vedecce sortì' da la piazzetta
Come er foco che uscisse de 'n vurcano,
Preso de fronte, er reggimento sano
Se mette a fugge' verso la casetta.
Noi, pe' poteje fa' la cavalletta,
S'arrampicamo sopra a 'n farso piano,
E mentre li vedemio da lontano
J'annamo sotto co' la bajonetta;
Ma mentre p'arrivalli c'era poco,
Sangue de Dio! Bum... bum... sentimo un botto
E vedemo 'na nuvola de foco.
Ce calò sopra a l'occhi com'un velo...
L'assassini, scappanno giù de sotto,
Ci aveveno sparato a bruciapelo.
XVIII.
Allora quelli che restamio dritti
Se buttassimo giù su lo stradale,
E quanno se vedessimo sconfitti
Ritornassimo drento ner casale.
E siccome mancava er generale,
Fu detto: — Si ce dànno li diritti
De l'onori de guerra, stamo zitti;
Si no, morimo tutti... tanto è uguale. —
Se fece notte: e mentre stamio drento
Ner casale aspettanno li sordati,
Ce parve de sentì' com'un lamento.
Annamo su la porta tutti uniti,
S'affacciamo, orecchiamo pe' li prati:
— So' li nostri, perdio! So' li feriti!
XIX.
Allora se buttamo giù p' er prato,
Fra l'arberi, a l'oscuro, e annamo in traccia
De li feriti... E dopo avé' cercato
Dove successe er fatto, fra l'erbaccia,
Sotto a n'arbero secco, fu trovato
Righetto! Stava steso, co' le braccia
Spalancate, cor petto insanguinato
Dar sangue che j'usciva da la faccia.
Mentre je damio l'urtimo saluto
De li morti, tra l'arberi lontani
Sentimo un antro che strillava ajuto;
Seguimo er sono, e sotto d'un ulivo
Ce trovassimo steso Mantovani,
In d'un lago de sangue, ancora vivo!
XX.
Ner casale fu messo su un divano,
E mentre je sfilamio la giberna
C'insegnò sur un fianco co' la mano
Come ci avesse 'na ferita interna.
Allora j'accostamo 'na lanterna
Sur fianco; lo scoprimo piano piano...
Sangue de Cristo! C'era 'na caverna,
Che je c'entrava 'n braccio sano sano!
Se mettessimo tutti inginocchiati.
Lui co' le mano s'acchiappò la gola
E ce fissò co' l'occhi spalancati:
Fece 'no sforzo, s'arzò su dar letto
Come volesse di' quarche parola,
E je cascò la testa sopra ar petto.
XXI.
Allora quelli che ereno spirati
Li portassimo drento a la cucina,
E accanto, ne la camera vicina,
Ce mettessimo l'antri più aggravati.
E aspettanno che fosse la matina,
Cusì a la mejo furno medicati;
Ma, senza un filo de 'na medicina,
Era 'na cosa da morì' straziati.
Tanto ch'a uno p'infasciaje 'n osso
D'un braccio, ce toccò a strappà' li tòcchi
De le camicie che portamio addosso.
Che strazio ch'è vedé' soffrì' la gente
Che te guarda cór core dentro a l'occhi,
Staje davanti e nun poté' fa gnente!
XXII.
Un passo addietro. Dopo er tradimento
De la scarica, appena inteso er botto,
Righetto e Giovannino in quer momento
Cascorno, sarv'ognuno, a bocca sotto.
Dice ch'allora, mentre er reggimento
Scappava giù p'er prato, sette o otto
Che li veddero senza sentimento
Tornorno addietro e je riannorno sotto.
E Giovannino in mezzo a quer macello,
Sporco de sangue, intanto che menaveno
Cercò cór petto de coprì' er fratello;
Ma dopo la difesa disperata,
Intanto che le truppe riscappaveno,
Cascorno giù fra l'erba insanguinata.
XXIII.
E verso notte, dice, che Righetto
(Mentre ch'er sono de l'avemmaria
De Roma je sonava l'angonia)
Fece: — Povera mamma! Benedetto!... —
Poi je crebbe l'affanno drento ar petto
E fece: — Si m'avrai da portà' via
Voj' esse' seppellito a casa mia. —
Fece un lamento e cascò giù. Ninetto
Allora lo chiamò. Strillò più forte.
Nun rispose. Lo prese pe 'na mano,
Era gelata. Er gelo de la morte!
Je diede un bacio e tartajanno a stento,
Speranno d'esse' inteso da lontano,
Strillò: — M'è morto Erìgo in sto momento.
XXIV.
E da lontano se sentì un sussuro
D'antre voci. — M'è morto mi' fratello! —
Strillò Ninetto, e dopo fece: — Io puro
Sento che moro e vado a rivedello... —
E intanto ch'antre voci lì a l'oscuro
Je parlaveno senza de vedello,
Strillò: — Si camperete, ve scongiuro,
Dice, de facce seppellì' a Groppello. —
E quanno che le forze j' amancorno,
Che lui se crese a l'urtimi momenti,
Strillò: — Viva l'Italia! — Intorno intorno
J'arisposero, e fu l'urtimo strillo:
Poi s'intesero ancora antri lamenti
E dopo... tutto ritornò tranquillo.
XXV.
E noi che s'aspettamio 'gni momento
La truppa, nun vedenno più gnisuno,
A l'arba, de comun consentimento,
Fu deciso de sciojese. Quarcuno
Rimase ner casale chiuso drento
Co' li feriti; e de nojantri, ognuno,
Dopo che s'approvò lo sciojimento,
Se sbandassimo tutti. Quarchiduno
Fu preso a Roma a piazza Barberina;
L'antri sperduti in braccio de la sorte
Agnedero a schizzà' pe' la Sabina,
Li più se riformorno in carovana,
Passorno fiume, presero le córte
Drento a li boschi, e agnedero a Mentana.
JORGE LUIS BORGES
Scacchiera
I
I giocatori, nel grave cantone,
Guidano i lenti pezzi. La scacchiera
Fino al mattino li incatena all’arduo
Riquadro dove s’odian due colori.
Raggiano in esso magici rigori
Le forme: torre omerica, leggero
Cavallo, armata regina, re estremo,
Alfiere obliquo, aggressive pedine.
I giocatori si separeranno,
Li ridurrà in polvere il tempo, e il rito
Antico troverà nuovi fedeli.
Accesa nell’oriente, questa guerra
Ha oggi il mondo per anfiteatro.
Come l’altro, è infinito questo giuoco.
II
Lieve re, sbieco alfiere, irriducibile
Donna, pedina astuta, torre eretta,
Sparsi sul nero e il bianco del cammino
Cercano e danno la battaglia armata.
Non sanno che la mano destinata
Del giocatore conduce la sorte,
Non sanno che un rigore adamantino
Governa il loro arbitrio di prigioni.
Ma anche il giocatore è prigioniero
(Omar afferma) di un’altra scacchiera
Di nere notti e di bianche giornate.
Dio muove il giocatore, questi il pezzo.
Quale dio dietro Dio la trama ordisce
Di tempo e polvere, sogno e agonia?
TRILUSSA
Fede
Credo in Dio Padre Onnipotente. Ma.....
- Ciai quarche dubbio? Tiettelo per te.
La Fede è bella senza li ‹‹ chissà ››,
senza li ‹‹ come ›› e senza li ‹‹ perché ››.
VINCENZO CARDARELLI
Alla morte
Morire sì,
non essere aggrediti dalla morte.
Morire persuasi
che un siffatto viaggio sia il migliore.
E in quell'ultimo istante essere allegri
come quando si contano i minuti
dell'orologio della stazione
e ognuno vale un secolo.
Poi che la morte è la sposa fedele
che subentra all'amante traditrice,
non vogliamo riceverla da intrusa,
né fuggire con lei.
Troppo volte partimmo
senza commiato!
Sul punto di varcare
in un attimo il tempo,
quando pur la memoria
di noi s'involerà,
lasciaci, o Morte, dire al mondo addio,
concedici ancora un indugio.
L'immane passo non sia
precipitoso.
Al pensier della morte repentina
il sangue mi si gela.
Morte non mi ghermire
ma da lontano annùnciati
e da amica mi prendi
come l'estrema delle mie abitudini.
VIRGILIO GIOTTI
Le bigolere
Nel mondo grando, ‘n una
zità sul grando mar,
che ga zità e zità
e là gente e dafar;
nel mile nove zento
quaranta dopo Cristo,
‘sto qua, n’ un canton de
subùrbio, se ga visto:
Quatro fie (e xe sabo
dopopranzo bonora),
giornaliere del pasti-
ficio, vignude fora
co’ la sirena; in ciapo [un mazzo]
‘torno de un tavolin,
coi soldi de la paga,
ficai nel scarselin
del traverson [grembiulone]; che le òrdina,
come d’i giovinoti,
un litruz de vin bianco
e spagnoleti [sigarette]. I goti
una impinissi, alzada
in pïe, morbinosa [l’allegria e la smania addosso] ,
c’un naso paro in su
e el sport [sigaretta sport] tra i labri rosa.
E le se parla e conta,
quatro teste tacade,
e le ridi e le scherza
un poco imborezzade [eccitate].
par quel che le ga fato.
Cheche [gazze] le par alegre,
calade su ‘na graia [siepe].
co’ le ale bianche e negre.
E cussì le se godi
in fra de lore una fià
dei su’ disdoto ani,
che xe quel che le ga.
Oh sì, bele! crature
de la vita che ieri
xe stada, che xe ogi,
che sarà diman. Veri
cari èsseri del mondo,
che a vardarle le fa
piànzer. E un le varda,
un griso, là sentà:
un poeta. Anca lui
bel, sì, anca lui, sì,
cratura de la vita
che iera e sarà: mi.
Mi, che in ‘sto dopopranzo,
in ‘sta zità sul mar
grando nel grando mondo;
de ‘na tola [tavolo] de un bar
del subùrbio; vardado
quele quatro fie go,
le bigolere, alegro
no, tristo gnanca no.
ALDO PALAZZESCHI
L’incendiario
1910
a F. T. Marinetti
anima della nostra fiamma
In mezzo alla piazza centrale
del paese,
è stata posta la gabbia di ferro
con l’incendiario.
Vi rimarrà tre giorni
perchè tutti lo possano vedere.
Tutti si aggirano torno torno
all’enorme gabbione,
durante tutto il giorno,
centinaia di persone.
‒ Guarda un pochino dove l’anno messo!
‒ Sembra un pappagallo carbonaio.
‒ Dove lo dovevano mettere?
‒ In prigione addirittura.
‒ Gli sta bene di far questa bella figura!
‒ Perchè non gli avete preparato
un appartamento di lusso,
così bruciava anche quello!
‒ Ma nemmeno tenerlo in questa gabbia!
‒ Lo faranno morire dalla rabbia!
‒ Morire! È uno che se la piglia!
‒ È più tranquillo di noi!
‒ Io dico che ci si diverte.
‒ Ma la sua famiglia?
‒ Chi sa da che parte di mondo è venuto!
‒ Questa robaccia non à mica famiglia!
‒ Sicuro, è roba allo sbaraglio!
‒ Se venisse dall’ inferno?
‒ Povero diavolaccio!
‒ Avreste anche compassione?
Se v’avesse bruciata la casa
non direste così.
‒ La vostra l’à bruciata?
‒ Se non l’à bruciata
poco c’è corso.
À bruciato mezzo mondo
questo birbaccione!
‒ Almeno, vigliacchi, non gli sputate addosso,
infine è una creatura!
‒ Ma come se ne sta tranquillo!
‒ Non à mica paura!
‒ Io morirei dalla vergogna!
‒ Star lì in mezzo alla berlina!
‒ Per tre giorni!
‒ Che gogna!
‒ Dio mio che faccia bieca!
‒ Che guardatura da brigante!
‒ Se non ci fosse la gabbia
io non ci starei!
‒ Se a un tratto si vedesse scappare?
‒ Ma come deve fare?
‒ Sarà forte quella gabbia?
‒ Non avesse da fuggire!
‒ Dai vani dei ferri non potrà passare?
Questi birbanti si sanno ripiegare
in tutte le maniere!
‒ Che bel colpo oggi la polizia!
‒ Se non facevan presto a accaparrarlo,
ci mandava tutti in fumo!
‒ Si meriterebbe altro che berlina!
‒ Quando l’ànno interrogato,
à risposto ridendo
che brucia per divertimento.
‒ Dio mio che sfacciato!
‒ Ma che sorta di gente!
‒ Io lo farei volentieri a pezzetti.
‒ Buttatelo nel fosso!
‒ Io gli voglio sputare
un’altra volta addosso!
‒ Se bruciassero un pò lui
perchè ridesse meglio!
‒ Sarebbe la fine che si merita!
‒ Quando sarà in prigione scapperà,
è talmente pieno di scaltrezza!
‒ Peggio d’una faina!
‒ Non vedete che occhi che à?
‒ Perchè non lo buttano in un pozzo?
‒ Nel cisternone del comune!
‒ E ci sono di quelli
che avrebbero pietà!
‒ Bisogna esser roba poco pulita
per aver compassione
di questa sorta di persone!
Largo! Largo! Largo!
Ciarpame! Piccoli esseri
dall’esalazione di lezzo,
fetido bestiame!
Ringoiatevi tutti
il vostro sconcio pettegolezzo,
e che vi strozzi nella gola!
Largo! Sono il poeta!
Io vengo di lontano,
il mondo ò traversato,
per venire a trovare
la mia creatura da cantare!
Inginocchiatevi marmaglia!
Uomini che avete orrore del fuoco,
poveri esseri di paglia!
Inginocchiatevi tutti!
Io sono il sacerdote,
questa gabbia è l’altare,
quell’uomo è il Signore!
Il Signore tu sei,
al quale rivolgo,
con tutta la devozione
del mio cuore,
la più soave orazione.
A te, soave creatura,
giungo ansante, affannato,
ò traversato rupi di spine,
ò scavalcato alte mura!
Io ti libererò!
Fermi tutti, v’ò detto!
Tenete la testa bassa,
picchiatevi forte nel petto,
è il confiteor questo,
della mia messa!
T’ànno coperto d’insulti
e di sputacchi,
quello sciame insidioso
di piccoli vigliacchi.
Ed è naturale che da loro
tu ti sia fatto allacciare:
quegl’ insetti immondi e poltroni,
sono lividi di malefica astuzia,
circola per le loro vene
il sangue verde velenoso.
E tu grande anima
non potevi pensare
al piccolo pozzo che t’avevan preparato,
ci dovevi cascare.
Io ti son venuto a liberare!
Fermi tutti!
Ti guardo dentro gli occhi
per sentirmi riscaldare.
Rannicchiato sotto il tuo mantello
tu sei senza parole,
come la fiamma: colore, e calore!
E quel mantello nero
te l’àn gettato addosso
gli stolidi uomini vero,
perchè non si veda che sei tutto rosso?
Oppure te lo sei gettato da te,
per ricuoprire un poco
l’anima tua di fuoco?
Che guardi all’orizzonte?
Se s’alza una favilla?
Dimmi, non sei riuscito a trafugare
l’ultimo zolfino?
Ti si legge negli occhi!
Ma ti saltan dagli occhi le faville,
a cento, a cento, a mille!
Tu puoi cogli occhi
bruciare tutto il mondo!
T’à creato il sole,
che bruci al sol guardarti?
Quando tu bruci
tu non sei più l’uomo,
il Dio tu sei!
Mi sento correr per le vene un brivido.
Ti vorrei vedere quando abbruci,
quando guardi le tue fiamme;
tutte quelle bocche,
tutte quelle labbra,
tutte quelle lingue,
non vengono a baciarti tutte?
Non sono le tue spose
voluttuose?
Bello, bello, bello e Santo!
Santo! Santo!
Santo quando pensi di bruciare.
Santo quando abbruci,
Santo quando le guardi
le tue fiamme sante!
E voi, rimasti pietrificati dall’orrore,
pregate, pregate a bassa voce,
orazioni segrete.
Anch’io sai, sono un incendiario,
un povero incendiario che non può bruciare,
e sono come te in prigione.
Sono un poeta che ti rende omaggio,
da povero incendiario mancato,
incendiario da poesia.
Ogni verso che scrivo è un incendio.
Oh! Tu vedessi quando scrivo!
Mi par di vederle le fiamme,
e sento le vampe, bollenti
carezze al mio viso.
Incendio non vero
è quello ch’io scrivo,
non vero seppure è per dolo.
Àn tutte le cose la polizia,
anche la poesia.
Là sopra il mio banco ove nacque,
il mio libro, come per benedizione
io brucio il primo esemplare,
e guardo avido quella fiamma,
e godo, e mi ravvivo,
e sento salirmi il calore alla testa
come se bruciasse il mio cervello.
Come mi sento vile innanzi a te!
Come mi sento meschino!
Vorrei scrivere soltanto per bruciare!
Nel segreto delle mie stanze
passeggio vestito di rosso,
e mi guardo in un vecchio specchio,
pieno di ebbrezza,
come fossi una fiamma,
una povera fiamma che aspetta....
il tuo riflesso!
Fuori vado vestito di grigio,
ovvero di nessun colore,
c’è anche per le vesti una polizia,
come per le parole.
E quella per il fuoco
è tremenda, accanita,
gli uomini ànno orrore delle fiamme,
gli uomini seri,
per questo anno inventato i pompieri.
Tu mi guardi, senza parlare,
tu non parli,
e i tuoi occhi mi dicono:
uomo, poco farai tu che ciarli.
Ma fido in te!
T’apro la gabbia vài
Guardali, guardali, come fuggono!
Sono forsennati dall’orrore,
la paura gli à tutti impazzati.
Potete andare, fuggite, fuggite,
egli vi raggiungerà!
E una di queste mattine,
uscendo dalla mia casa,
fra le consuete catapecchie,
non vedrò più le vecchie
reliquie tarlite,
così gelosamente custodite
da tanto tempo!
Non le vedrò più!
Avrò un urlo di gioia!
Ci sei passato tu!
E dopo mi sentirò lambire le vesti,
le fiamme arderanno
sotto la mia casa....
griderò, esulterò,
m’avrai data la vita!
Io sono una fiamma che aspetta!
Va, passa fratello, corri, a riscaldare
la gelida carcassa
di questo vecchio mondo!
ARDENGO SOFFICI
Via
Palazzeschi, eravamo tre,
noi due e l’amica ironia
a braccetto per quella via
così nostra alle ventitrè.
Il nome, chi lo ricorda?
dalle parti di San Gervasio;
Silvio Pellico o Metastasio;
c’era sull’angolo in blu.
Mi ricordo però il resto:
l’ombra d’oro sulle facciate,
qualche raggio nelle vetrate;
agiatezza e onorabilità.
Tutto nuovo, le lastre azzurre
del marciapiede innaffiato,
le persiane verdi, il selciato,
i lampioni color caffè;
Giardinetti disinfettati
canarini ai secondi piani,
droghieri, barbieri, ortolani,
un signore che guardava in su;
un altro seduto al balcone,
calvo, che leggeva il giornale.
Tra i gerani del davanzale
una bambinaia col bebè.
Un fiacchere fermo a una porta
col fiaccheraio assopito,
un can barbone fiorito
di seta, che ci annusò;
un sottotenente lucente
bello sulla bicicletta,
monocolo e sigaretta,
due preti, una vecchia un lacchè.
– Che bella vita – dicesti –
Ammogliati, una decorazione,
qui tra queste brave persone,
i modelli della città.
Che bella vita fratello! –
E io sarei stato d’accordo;
Ma un organetto un po’ sordo
si mise a cantare: Ohi Marì…
E fummo quattro oramai
a braccetto per quella via.
Peccato! La malinconia
s’era invitata da sé.
SALVATORE DI GIACOMO
A San Francisco
A San Francisco
mo sona ’o risveglio,
chi dorme e chi veglia
chi fa nfamità… Canzone ‘e carcerate
I
– Vuíe ccà!... Vuíe, don Giuvà!... Ccà dinto?!... – E’ [visto?!
So’ benuto ’int’ ’a cummertazione.
– …Sangro?... – Embè… sango. Mme so’ fatto [nzisto…
E tu? – Cuntrammenzione ’ammunizione. –
Sunàino ’e nnove. Na lanterna a scisto
sagliette cielo, mmiez’ ’o cammarone:
lucette nfaccia ’o muro ’o Giesucristo
croce, pittato pe devuzione.
S’aizàino ’a quatto o cinche carcerate…
– E cchesta è n’ ata notte! – uno dicette –
Mannaggia chillo Dio ca nce ha criate! –
E ghiastemmanno se spugliate. Trasette
nu secondino. Nfaccia ’e fferriate
sunaie: sbattette ’a porta e se ne iette.
II
– E mo?... – Mo? Nn’ ’o bberite? Ce cuccammo.
Tenite suonno? – Poco, ’a verità…
– Nun ve cuccate’… No. Veglio. – E vigliammo…
Ve faccio cumpagnia, mastu Giuvà.
– E ’o carceriero? – È amico. – E… si parlammo?
– Si ce sente? E che fa? Che ce po’ fa?
Basta, p’ ogni chi sa, mo nce ’o chiammammo,
’o mmuccammo na lira e se ne va.
– Questa è ’a muneta. – Senza cumprimente
’a cacciasse semp’io… Ma ccà, ’o ssapite,
parlanno cu rispetto ’e chi mme sente,
so’ zuzzuse, ’e renare so’ puibbrite
e fossero ’e renare sulamente…
Zi’… Sta passanno ’on Peppe… ’On Pè!... Sentite!
III
Ce sta st’ amico mio… – Be’?... – Mo è trasuto…
– Be’?... – Suonno nun ne tene… – E c’ aggia fa?
– Si premmettete… rummane vestuto…
veglia… C’ha dda viglià! S’ha dda cuccà!
« L’amico… mo è trasuto… mo è benuto… »
Ma che m’ammacche? A chi vuò fa ’ncuità?
Addò se crere ’e sta’? Ccà è dditinuto:
nun pozzo fa’ particularità…
– Ce steva na liretta… – Comm’ e’ ditto?
– Aggio ditto ce steva na liretta…
V’ ’a proio?... – Fatte cchiù ccà… Parla cchiù zitto.
È de carta?... – Gnernò, so’ sòrde… – E aspetta…
Pàssele chiano chiano… aspè… che faie?
Va quacche sòrdo nterra e tu mme nguaie!...
IV
Pe nu minuto, dint’ ’o cammarone,
nun se pepetiaie. Stracque, menate,
chisto ’a ccà, chillo ’a llà, ncopp’ ’o paglione
steveno ’a na dicina ’e carcerate.
Duie runfaveno già, vestite e buone,
e, mmiez’ a ll’ ate addurmute o scetate,
mariuolo a dudece anne, ’o cchiù guaglione
vutava attorno ll’ uocchie affiussiunate.
E ’o cammarone se nfucava. ’O scisto
feteva: ’a cazettella ca felava
affummecava ’e trave rusecate.
Ll’ ombra d’ ’a funa nfaccia ’o Giesucristo
tremmava, lenta : e ll’ aria s’abbambava
’e ll’ afa ’e tutte st’ uommene e sti sciate…
V
– Dunque – dicette ’o si’ Giuvanno Accetto,
assettato cu Tore « Nfamità »
ncopp’ a nu scannetiello appede ’o lietto –
dunque, aggio fatto ’o guaio: nun c’ è che fa’!...
’A n’ anno nun trovavo cchiù arricietto!
Patevo ’a n’ anno! E… ’o bbi’… Mo stonco ccà…
Se fotte! ’O core mm’ ’o diceva mpietto
ca nu iurno perdevo ’a libbertà!...
Fa ’o ualantomo, tratta buono ’a gente…
Quante cchiù meglio ’a tratte e cchiù lle faie,
cchiù nn’ aie cate ’e veleno e trarimente!
Riébbete, figlie, malatie : so’ guaie,
ma nun pogneno… ’E ccorna so’ pugnente!
To’!... Curtellate sì, ma corna maie!...
VI
– Ma… che bulite di’?... dicette Tore –
Io… nn’ arrivo a capì… Ronna Ndriana?!...
– Leve stu ddonna, famme stu favore!
Chiamamela a nomme… Schifosa, puttana!...
…Ll’ aggio accisa! – ’On Giuvà!... Sì!... Pe ll’onore
– Ndriana!... Accisa!... E… quanno?.... – ’A na [semmana.
Mme scurnacchiava ca nu mio signore,
e io ll’aggio accisa! Sì! Comm’ a na cana!...
… Siente… E pecché te scuoste? – Io?... Nun… [me scosto…
– E pecché te si’ fatto mpont’ ’o scanno?...
– Io?... No… – Fatte cchiù ccà… – Sto ccà…. Mm’ [accosto…
– Tu siente?... Siente… Mme ngannava!... ’A [n’anno!...
E… saie cu chi? – Cu… chi?... – Mo nn’ ’o ssaie [cchiù? –
St’ amico… nun ’o saie?... – Chi?... – Chi?... Si’ tu!
–
VII
Lucette ’acciaro ’e nu curtiello. ’O scanno
s’ avutaie, s’ abbuccaie. Tore cadette
e chill’ ato ’o fuie ncuollo. – È n’ anno, è n’ anno
ca te ievo truvanno! – lle dicette.
– Mamma r’ ’a Sanità!... Chiste che fanno!... –
strellaie nu carcerato. E se susette
mmiez’ ’o lietto, e guardaie… Nterra, ’on Giuvanno
ncasava a «Nfamità»… Tre botte ’o dette.
Tutte e tre mpietto… E s’aizàie. Pareva
nu cadavere. ’O sango ll’ era sciso
p’ ’a mano dint’ ’a maneca e scurreva…
– Chiammate ’on Peppe!... Ccà ce sta n’ amico
ca… mme vuleva bene!... E io ll’ aggio acciso!
Mm’ è ccustato na lira… ’a benerico!
JORGE LUIS BORGES
Il mare
Prima che il sogno (o il terrore) intrecciasse
Mitologie e cosmogonie
E che il tempo prendesse forma in giorni,
il mare, il sempre mare, era lì, eterno.
Chi è dunque il mare? Chi è quel violento
Mare antico che rode i pilastri
Della terra ed è uno e molti mari
Ed è abisso e splendore, caso e vento?
Lo si guarda ogni volta per la prima
Volta, con lo stupore che le cose
Elementari destano; maliose
Sere, la luna, il fuoco d'un falò:
chi è il mare, io chi sono? Lo saprò
il giorno che tien dietro all'agonia.
TRILUSSA
La stretta de mano
Quela de dà la mano a chicchessia
nun è certo un’usanza troppo bella:
te pò succede ch’hai da strigne quella
d’un ladro, d’un ruffiano o d’una spia.
Deppiù la mano, asciutta o sudarella,
quann’ha toccato quarche porcheria,
contiè er bacillo d’una malatia
che t’entra in bocca e va ne le budella.
Invece a salutà romanamente
ce se guadambia un tanto co l’iggiene
eppoi nun c’è pericolo de gnente.
Perché la mossa te viè a dì in sostanza:
“Semo amiconi … se volemo bene …
me restamo a una debbita distanza”.
BIAGIO MARIN
Le ultime ricele
Le ultime ricele
l'hè tolte zo per zuogo
co' 'l ponente za in fogo
e a levante le stele.
Pochi grani dulsìi
da la longa stagion,
savorusi de bon,
d'arumi za sfinìi.
La pergola xe rossa
e za le fogie cage
dal vento persuase
co' 'na picola scossa.
(ricele = grappoli)
TAO CH’IEN
Inondazione
Le nuvole insistenti corrono corrono,
La pioggia regolare gocciola gocciola.
Nelle Otto Direzioni è lo stesso crepuscolo;
E la pianura è una sola grande fiumana.
Vino, vino ho qui in serbo!
Ozioso bevo alla finestra d’Oriente.
Con grande nostalgia penso agli amici,
Ma non vedo apparir barca né cocchio.
JACQUES PRéVERT
Il ritorno al paese
E' un bretone, che ritorna al paese natale
dopo aver fatto parecchi colpacci.
Egli passeggia davanti alle fabbriche a Doirnainè.
Non riconosce nessuno. Nessuno riconosce lui.
E' molto triste.
Entra in una friggitoria per mangiare frittelle
ma non può mangiarle: ha qualcosa in gola che glielo impedisce.
Paga, esce, accende una sigaretta. Ma non può fumarla.
Vi è qualcosa, qualcosa nella sua testa, qualcosa di storto.
Egli è sempre più triste. E subito comincia a ricordare.
Qualcuno gli ha detto quando era bambino: "Tu finirai sul patibolo".
E per anni non ha mai osato fare niente. Né attraversare la strada,
né prendere la via del mare... Niente, assolutamente niente.
E si ricorda. Colui che aveva tutto predetto è lo zio Crazy R.
Lo zio Crazy R che portava a tutti scalogna. Il porco.
Il bretone pensa a sua sorella che lavora a Vugirard.
A suo fratello morto in guerra.
Pensa a tutte le cose che ha visto, a tutte le cose che ha fatto.
La tristezza si stringe contro di lui.
Ancora una volta tenta di accendere una sigaretta.
Ma non ha voglia di fumare.
Allora decide di andare a trovare lo zio Crazy R.
Va, apre la porta, lo zio non lo riconosce.
Ma lui lo riconosce, e gli dice:
"Buongiorno zio Crazy R". E poi gli torce il collo.
E finisce sul patibolo a Kimpere.
Dopo aver mangiato due dozzine di frittelle
e fumata una sigaretta.
EDUARDO DE FILIPPO
Te sistieme
Nu soldo dint' 'a sacca nn' 'o truvavo:
ll'amice, cene, femmene, 'o triato...
'A lira overamente nn' 'a curavo,
e quase sempe stevo disperato.
Dicev' 'a ggente: « Sulo na mugliera
te pò cagnà sta capa p' 'a galera.
Te nzure, te sistieme nsanta pace...
siente na vota nu cunsiglio mio! »
Embè, mò nun me pozzo fà capace,
embè, v' 'o giuro quanto è certio Dio:
j' nun sò stato maie tanto nguaiato
comme a mò ca me songo sistimato!
GIORGIO CAPRONI
da ‹‹ Natale dei poeti ››
S’avvicina il Natale.
Gesù, portami via.
La tua è la più bella bugia
che possa allettare un mortale.
TRILUSSA
Nummeri
- Conterò poco, è vero:
- diceva l'Uno ar Zero -
ma tu che vali? Gnente: propio gnente.
Sia ne l'azzione come ner pensiero
rimani un coso voto e inconcrudente.
lo, invece, se me metto a capofila
de cinque zeri tale e quale a te,
lo sai quanto divento? Centomila.
È questione de nummeri. A un dipresso
è quello che succede ar dittatore
che cresce de potenza e de valore
più so' li zeri che je vanno appresso.
1944
ALDO PALAZZESCHI
Movimento
Io vo... tu vai... si va...
Ma non chiedere dove
ti direbbero una bugia:
dove non si sa.
E è tanto bello quando uno va.
Io vo... tu vai... si va...
perchè soltanto andare
in un modno di ciechi
è la felicità.
GIORGIO CAPRONI
In una notte d’un gelido 17 dicembre
… l’uomo che di notte, solo,
nel ‹‹gelido dicembre››,
spinge il cancello e rientra
– solo – nei suoi sospiri.
LEONARDO SINISGALLI
I vezzi dei fanciulli
Qualcuno si rovescia le palpebre
per darsi importanza,
riesce a far centro con uno schioppetto
caricato di stoppa e di saliva.
Mira a distanza in un occhio
e colpisce. Porta in tasca
un peperoncino, ne stacca
la punta coi denti, la sputa
fulmineo non visto
in faccia alla gente.
FERNANDO PESSOA
Autopsicografia
Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.
E quanti leggono ciò che scrive,
nel dolore letto sentono proprio
non i due che egli ha provato,
ma solo quello che essi non hanno.
E così sui binari in tondo
Gira, illudendo la ragione,
questo trenino a molla
che si chiama cuore.
EDUARDO DE FILIPPO
Io vulesse truvà pace
Io vulesse truva’ pace;
ma na pace senza morte.
Una,’mmiez’a tanta porte,
s’arapesse pe’ campa’!
S’arapesse na matina,
na matin”e primmavera,
arrivasse fin”a sera
senza di’ : “nzerrate lla” !
Senza sentere cchiu’ ‘a ggente
ca te dice: “io faccio…io dico”,
senza sentere l’amico
ca te vene a cunziglia’
Senza sentere ‘a famiglia
ca te dice: “Ma ch’he fatto?”
senza scennere cchiu’ a patto
cu”a cuscienza e ‘a dignita’.
Senza leggere ‘o giurnale
‘a nutizia ‘mprussiunante,
ch’e’ nu guaio pe’ tutte quante
e nun tiene che ce fa.
Senza sentere ‘o duttore
ca te spiega ‘a malatia
‘a ricetta in farmacia
l’onorario ch’he ‘a pava’
Senza sentere stu core
ca te parla ‘e Cuncettina
Rita, Brigida, Nannina…
chesta si’… chell’ata no.
Pecche’ insomma si vuo’ pace
e nun sentere cchiu’ niente
‘e ‘a spera’ ca sulamente
ven’ ‘a morte a te piglia’?
Io vulesse truva’ pace
ma ‘na pace senza morte.
Una,’mmiez’ a tanta porte
s’arapesse pe’ campa’
S’arapesse ‘na matina
‘na matina ‘e primmavera
e arrivasse fin’a sera
senza di’ “nzerrate la’!”
VIRGILIO GIOTTI
Inverno
Dei purziteri,
ne le vetrine,
xe verdoline
le ulive za;
ghe xe le renghe
bele de arzento;
e sùfia un vento
indiavolà:
cativo inverno
èco' e qua!
WILLIAM BUTLER YEATS
Un aviatore irlandese prevede la sua morte
So che andrò incontro al mio destino
Lassù, da qualche parte fra le nuvole.
Io non odio coloro che combatto,
Coloro che difendo non li amo;
La mia patria è Kiltartan Cross,
I miei compatrioti la sua povera gente:
La mia probabile fine non potrà danneggiarli
O renderli felici più di prima.
Non legge, non dovere mi spinsero a combattere,
Né uomo politico, né folla plaudente:
Un impulso di gioia solitario
Portò a questo tumulto fra le nuvole.
Ho soppesato tutto, rammentato ogni cosa;
Gli anni a venire sembravano spreco di fiato,
Uno spreco di fiato gli anni addietro
In equilibrio con questa vita, questa morte.
FRANCIS JAMMES
Parlo del Signore Gesù
Parlo del Signore Gesù:
ma è vero poi che ci creda?
A cinque anni mi dicevano: su
fa’ il bravo, non fare il birbante,
va’ con Maria alla Chiesa,
tieni questo croccante;
ma prega
il buon Dio e prega
la Vergin Maria.
E poi c’era la processione
che io seguivo con la mia
governante, e i bei fiori di cotone
dentro i bossi della lotteria.
E credevo proprio che il Signore
fosse un vecchio candido e di buon cuore,
pronto a fare ogni favore.
Dicono: e se non ci fosse?
Che importa; io so che alla sera,
nel villaggio, la mia chiesa
è tanto grigia e tanto dolce
e invita alla preghiera.
GIUSEPPE UNGARETTI
Natale
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare
Napoli 26 dicembre 1916
BIAGIO MARIN
Me ‘speto senpre, ‘speto incora,
che fassa l’alba, che fassa aurora,
e che la vegna a dâme un baso,
a ufrîme el so geranio in vaso,
prima che ‘l nuòlo incora rosso
de l’ultima zornâ sia disparìo,
sora del lìo,
sora del dosso.
Xe za l’ultima ora:
la score calma e sita,
la porta via la luse de la vita
e me son qua che ‘speto incora.
GIORGIO CAPRONI
Congedo del viaggiatore cerimonioso
ad Achille Millo
Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.
Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi,
per l’ottima compagnia.
Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.
Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette,
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio) confidare.
(Scusate. È una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare.
Ecco. Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare).
Dicevo, che era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.
Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto s’io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.
Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.
Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione,
calma, senza sgomenti.
Scendo. Buon proseguimento.