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Glocale. Rivista molisana di storia e scienze sociali (www.storiaglocale.it) Direttore: Gino Massullo ([email protected]) Comitato di redazione: Rossella Andreassi, Antonio Brusa, Oliviero Casacchia, Renato Cavallaro, Raffaele Colapietra, Gabriella Corona, Massimiliano Crisci, Marco De Nicolò, Norberto Lombardi, Sebastiano Martelli, Massimiliano Marzillo, Gino Massullo, Giorgio Palmieri, Roberto Parisi, Rossano Pazzagli, Edilio Petrocelli, Antonio Ruggieri, Saverio Russo, Ilaria Zilli Segreteria di redazione: Marinangela Bellomo, Maddalena Chimisso, Michele Colitti, Antonello Nardelli, Bice Tanno Direttore responsabile: Antonio Ruggieri Progetto grafico e impaginazione: Silvano Geremia Questa rivista è andata in stampa grazie al contributo di:

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Migrazioni

Novembre 2011

Argilli / Casacchia / Chieffo / Chiodi / Colucci / Costa / Crisci / De Clementi / De Luca / De Martino / Di Rocco / Di Stasi / Faonte /

Izzo / N. Lombardi / T. Lombardi / Marinaro / Martelli / Massa / Massullo / Melone / Palmieri / Pazzagli / Pesaresi / Piccoli / Pittau /

Presutti / Ruggieri / Scaroina / Spina / Tarozzi / Verazzo

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In copertina: Berga, Gli emigranti, tecnica mista, tela, 110 x 140 cm, 2012 © 2013 Glocale. Rivista molisana di storia e scienze sociali, Edizioni Il Bene Comune Tutti i diritti riservati Registrazione al Tribunale di Campobasso 5/2009 del 30 aprile 2009

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Indice 9 Migrazioni, dal secondo dopoguerra ad oggi

FACCIAMO IL PUNTO 17 L’emigrazione meridionale nel secondo dopoguerra

di Andreina De Clementi

1. I limiti della riforma agraria 2. Forme e tempi dell’esodo 3. Il sorpasso meridionale 4. I quartieri italiani 5. Il polo europeo 6. L’inarrestabile cataclisma 7. Ruoli e percorsi di genere 8. L’impiego dei risparmi e delle rimesse 9. Il futuro nel passato

37 Governi, partiti, sindacati: le politiche dell’emigrazione

di Michele Colucci

1. Le posizioni dei partiti e dei sindacati all’indomani della guerra 2. Le sinistre 3. La Democrazia cristiana

IN MOLISE

51 I molisani tra vocazioni transoceaniche e richiami continentali

di Norberto Lombardi

1. Cade lo steccato del Molise «ruralissimo» 2. Esodo e spopolamento 3. Vecchie traiettorie transoceaniche 4. Nuovi approdi transoceanici 5. La scoperta dell’Europa

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6. La svolta europea 7. Molisani nel mondo 8. Le reti associative 9. Le leggi e le Conferenze regionali 10. Studi e rappresentazioni dell’emigrazione dei molisani 11. Conclusioni: quasi un inizio

107 Appendice: Le associazioni di Molisani in Italia e nel mondo

a cura di Costanza Travaglini 117 L’esodo dal Molise tra il 1952 e il 1980. Nuove destinazioni e riflessi

socio-economici di Cristiano Pesaresi

1. Il quadro d’insieme 2. Le principali destinazioni nell’intervallo 1962-68 e le condizioni socio-

economiche del Molise 3. Le tendenze degli anni 1972-80 e le condizioni socio-economiche del Molise

131 La mobilità silente: i molisani nei percorsi globali

di Oliviero Casacchia e Massimiliano Crisci

1. La mobilità residenziale dagli anni novanta ad oggi 2. Concetto e fonti della mobilità temporanea di lavoro 3. I flussi temporanei per lavoro 4. Alcune conclusioni

151 L’immigrazione nel Molise: presenze, aspetti sociali e occupazionali

di Renato Marinaro e Franco Pittau

1. Il Molise nell’attuale quadro nazionale dell’immigrazione 2. I dati principali sulle presenze 3. Gli indicatori sociali 4. Le statistiche occupazionali 5. Immigrazione e integrazione 6. L’emergenza del 2011: l’accoglienza dei flussi in provenienza dal Nord Africa 7. Conclusioni: potenziare le politiche migratorie e la sensibilizzazione

165 Letteratura come autobiografia: la scrittura di Rimanelli tra le due

sponde dell’oceano di Sebastiano Martelli

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Indice

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INTERVISTE 185 Testimonianze d’altrove: domande per alcuni giovani diplomati e

laureati che hanno lasciato il Molise negli ultimi anni a cura di Norberto Lombardi

IERI, OGGI E DOMANI

205 Risorse umane

Tavola rotonda a cura di Antonio Ruggieri

RIFLESSIONI 247 Dal globale al locale. Riflessioni sul progetto territorialista

di Rossano Pazzagli

1. Ritorno al territorio 2. Il territorio come bene comune 3. Urbano e rurale 4. Nuovi sentieri nell’orizzonte della crisi

253 Territorialità, glocalità e storiografia

di Gino Massullo

1. Comparazione e contestualizzazione 2. Territorialità e glocalità

WORK IN PROGRESS

261 Identità, emigrazione e positivismo antropologico

di Paola Melone

1. Introduzione 2. Considerazioni concettuali 3. La corrente del positivismo antropologico 4. L’emigrazione italiana negli Stati Uniti: la classificazione etnica e gli

stereotipi culturali 5. Conclusioni

275 Donne e corporazioni nell’Italia medievale

di Jacopo Maria Argilli

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DIDATTICA 289 Tra “buona pratica” e teoria efficace. Quando la Storia aiuta la persona,

stimola il gruppo, sostiene un popolo di Clara Chiodi e Paola De Luca

1. Primi giorni di scuola 2. Cognizione e metacognizione 3. Dal bisogno educativo all’azione didattica

STORIOGRAFIA

297 Fra storiografia e bibliografia. Note sui “libri dei libri”

di Giorgio Palmieri

1. Un “libro dei libri” 2. Altri “libri dei libri” 3. I “libri dei libri”

MOLISANA

307 Almanacco del Molise 2011

Recensione di Antonella Presutti 313 Salvatore Mantegna, Giacinta Manzo, Bagnoli del Trigno. Ricerche

per la tutela di un centro molisano Recensione di Clara Verazzo

316 I di Capua in Molise e il controllo del territorio. Note a margine della

presentazione del volume curato da Daniele Ferrara, Il castello di Capua e Gambatesa. Mito, Storia e Paesaggio di Gabriella Di Rocco

321 Abstracts 327 Gli autori di questo numero

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Letteratura come autobiografia: la scrittura di Rimanelli tra le due sponde dell’oceano

di Sebastiano Martelli

Come per ogni scrittore italoamericano il tema dell’emigrazione rappresen-ta per Rimanelli un inevitabile inciampo narrativo1: già nella produzione del-la stagione italiana questo tema aveva trovato rappresentazione nel suo se-condo romanzo, Peccato originale (1954)2, ambientato nel Molise dell’im-mediato secondo dopoguerra quando si consuma l’ultimo grande esodo dal Mezzogiorno d’Italia, ma anche in Una posizione sociale (1959)3 nella stra-ordinaria figura di nonno Dominick, americano rientrato che nelle notti d’inverno al paese natio, Casacalenda nel Molise, beve e suona la tromba jazz ricordando il vissuto americano e l’eccidio degli immigrati italiani a New Orléans nel 1891. Preludio alla scelta dell’America come spazio-tempo della propria vita è Biglietto di terza (1958)4, un originale reportage sulle rot-te degli emigranti verso e dentro il Nord America.

L’“esilio” americano (1960) di Giose Rimanelli nasce da una complessa condizione intellettuale ed esistenziale, soprattutto per la sua atipica figura di irregolare incapace di integrarsi nella società letteraria italiana, come si evin-ce, tra l’altro, dalle reazioni alla sua produzione narrativa: Tiro al piccione (1953), Peccato originale (1954), Biglietto di terza (1958), Una posizione sociale (1959) e a quella di critico militante (Il mestiere del furbo, 1959)5.

1 Cfr. Sebastiano Martelli, La scrittura dell’emigrazione, in Italiani e stranieri nella tradi-zione letteraria, Atti del Convegno di Montepulciano (8-10 ottobre 2007), Salerno Editrice, Roma 2009, pp. 283-340.

2 Cfr. Sebastiano Martelli, Il crepuscolo dell’identità. Letteratura e dibattito culturale degli anni cinquanta, Laveglia, Salerno 1998, pp. 235-276.

3 Il romanzo è stato riedito con il titolo La stanza grande, a cura di S. Martelli, Avagliano Editore, Cava de’ Tirreni 1996.

4 Su Biglietto di terza cfr. Luigi Fontanella, La parola transfuga. Scrittori italiani in Ameri-ca, Edizioni Cadmo, Fiesole 2003, pp. 107-120.

5 Cfr. Rimanelliana. Studies on Giose Rimanelli, edited by Sebastiano Martelli, Stony Bro-ok-New York, Forum Italicum Publishing, New York 2000, Su/per Rimanelli, «Misure criti-che», 1987-1988, 65-67; Giambattista Faralli, Antologia delle opere di Giose Rimanelli, Ma-rinelli, Isernia 1982; Raffaele Liucci, Giose Rimanelli, «Belfagor», 1998, 6, pp. 673-685; San-

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L’America gli offre un’«uscita di sicurezza» dai territori troppo limitati e ideologicamente controllati dell’Italia degli anni cinquanta, che diventano a rischio per un irregolare che geneticamente intreccia livelli esistenziali, intel-lettuali e artistici. In America gli si aprono le porte di diverse università: Ya-le University, Sarah Lawrence College, New York University, British Co-lumbia, Los Angeles, Albany; in quest’ultima rimarrà per oltre un ventennio. L’approdo universitario si traduce nella costruzione di un altro da sé, che Rimanelli alimenta macinando «più lavoro che mezza dozzina di “contempo-ranei” messi insieme»6 e che gli consente di accumulare un dignitoso curri-culum di docente di letteratura italiana con al suo attivo operazioni di sco-perta e promozione di autori come Tozzi e Pavese per la critica e il pubblico americani. Se l’Italia era per lui «una terra lunga / una terra lunnnnnnnga / da dimenticare» (Carmina blabla) l’America è un «fiume umano inumano / umano fiume / sulla third avenue» da cui lasciarsi travolgere, in cui immer-gersi fino al rischio dell’annegamento. Si accampa come dato permanente una scissione che diverrà il dato genetico fondante del Rimanelli americano: lo spazio-tempo dell’insegnamento accademico, con i suoi obblighi, i suoi rituali, le lotte intestine, ma anche i campus che con i loro grandi spazi costi-tuiscono una sorta di immagine metaforicamente capovolta di quelli angusti e soffocanti dell’ltalia da cui era fuggito. Ma il campus anche come soglia verso l’America totale che è oltre, in cui egli si immerge con la stessa travol-gente impetuosità, senza risparmio, come il Rimanelli nell’ltalia “formicaio” dell’immediato dopoguerra. E non è solo la full immersion nell’America de-gli anni sessanta – crogiuolo di accelerate trasformazioni, segnata da grandi scontri sociali e razziali culminati nelle rivolte studentesche – che impregna le pagine di Tragica America (1968). Vi è anche l’America di una “nuova” e “diversa” cultura: on the road, underground, pop art, creative writing, happening; Kerouac, Lichtenstein, Warhol, Rosenquist, Rauscemberg, Allen Ginsberg, John Cage e William Burroughs; un groviglio di esperienze arti-stiche, un universo di possibilità estetiche che gli si pone davanti e, per uno come lui segnato dal demone dell’irrequietezza e della insoddisfazione, della ricerca continua lungo il muro del rischio, è l’affacciarsi su un campo infini-to di sperimentazioni.

È un decennio in cui Rimanelli è impegnato in una totale destrutturazione del proprio sapere e delle proprie capacità di scrittura, con un intenso assor-bimento della letteratura americana e inglese di cui molti scrittori gli erano gia familiari negli anni cinquanta, ma contaminazioni e modelli vanno ora ben oltre. Se il monologo e il realismo faulkneriani avevano potuto soddisfa- te Matteo, Radici sporadiche. Letteratura, viaggi, migrazioni, Cosmo Iannone Editore, Isernia 2007, pp. 125-145.

6 Ugo Moretti, Prefazione a Giose Rimanelli, Monaci d’amore medievali, Roma, Trevi, 1967, p. 13.

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Martelli, Letteratura come autobiografia: la scrittura di Rimanelli tra le due sponde dell’oceano

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re con la mediazione pavesiana la forza inventiva naturale del primo Rima-nelli ora è nella frantumazione sperimentale di Joyce che l’autore può trova-re percorsi rispondenti; se il «desiderio» e la «poesia della scoperta» whit-maniani potevano costituire un prezioso vademecum per il giovane Rimanel-li alla ricerca di se stesso e del mondo, ora è il whitmaniano Henry Miller di Tropico del Cancro con il suo totale autobiografismo anarchico e pansessua-le a sostenere la richiesta di osare oltre:

Dateci più oceani, nuovi oceani che cancellino il passato… Oceani che di-struggano e conservino al tempo stesso, oceani su cui si possa salpare, partire per nuove scoperte, nuovi orizzonti.

Occorre andare oltre i frammenti mitografici della lost generation di Fran-

cis Scott Fitzgerald, in percorsi accidentati a discesa libera: le proiezioni schizofrenico-imagiste di William Carlos Williams, l’eversione linguistica di E. E. Cummings, la combinazione di più linguaggi espressivi di John Cage, la scrittura automatica, il non-sense, la parola-pittura e la parola-suono; in-somma una ricerca onnivora in cui livelli esistenziali ed artistici della speri-mentazione si intersecano continuamente, come si intersecano con le pro-fonde epocali mutazioni che nella società occidentale si vanno consumando in quegli anni e che dalla specola americana in uno come Rimanelli – con i suoi codici genetici della civiltà europea preindustriale – si evidenziano nei loro elementi più parossistici e deflagranti: la disgregazione dell’io e del rea-le, l’ecatombe di valori, modelli e referenti tradizionali, l’impatto tra il radi-cale mutamento del campo visivo e la percezione dello scrittore spingono ad un diverso immaginario, ad una ricerca ininterrotta di nuove forme letterarie, ad una progettualità rimessa continuamente in discussione. Emblematici so-no i percorsi testuali di romanzi come Bella Italia amate sponde, I giovano-ni, I vecchioni, Graffiti, Shortage, romanzi autonomi poi montati e fusi in La macchina paranoica, quindi di nuovo smembrati, piegati a nuove possibili utilizzazioni, riscritti. Una secentesca “fabbrica” narrativa – di cui solo Graf-fiti e pochi altri capitoli hanno visto la luce – «con il montaggio delle se-quenze en abyme, la riflessione metanarrativa, la struttura verticale di catte-drale gotica, con le guglie e i pinnacoli dei generi diversi inseriti, con la di-mensione, infine, di predicabilità, di categoria del raccontare infinito»7. Una progettualità “paranoica”, labirintica, frutto di architetture e simbologie di meandri affettivi ed ideologici, di sofferte solitudini culturali ed esistenziali: il blocco tra due lingue e culture diverse, divaricate e sovrapposte in canali mentali ed espressivi che amplificano la dispersione e l’isolamento dello

7 Alberto Granese, Le anamorfosi di Rimanelli. Testo, pretesto e contesto del romanzo “Graffiti”, «Misure critiche», 1988, 61, pp. 214-215; Id., Tra i manoscritti di Rimanelli: nella «Macchina Paranoica» l’origine di «Detroit Blues», in Rimanelliana, cit., pp. 165-180.

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scrittore; scrivere in italiano pensando nella struttura della lingua inglese, tradurre la grammatica, il ritmo, l’energia della lingua inglese nelle modula-zioni arcaiche e retoriche dell’italiano. Una koinè macerata, realizzata con sforzo sisifico, cui Rimanelli vuole affidare il suo isolamento, la dispersione, lo sradicamento e la scissione culturale, esistenziale e linguistico-antropolo-gica; la rottura della sintassi, la iterazione e frantumazione del monologo, e più spesso la sovrapposizione tra dialogo interiore e dialogo effettuale, lo scatto anarchico-linguistico, i vuoti ed il ritmo sincopato della scrittura, l’adozione di linguaggi settoriali e materiali di deriva della comunicazione multimediale della società dello spettacolo, il prolungato scarto metaforico e simbolico materializzano l’immaginario e la condizione di alienazione, stra-niamento, frustrazione del Rimanelli degli anni sessanta-settanta, ma anche una più universale condizione dell’uomo occidentale contemporaneo. Una espansione di senso però mai cercata o minimamente suggerita, mentre l’iro-nia, il gioco linguistico, l’anarchia “globale” intervengono a corrodere gli ultimi possibili residui di una letteratura come valore-veicolo di comunica-zione estetica, etica, sociale, ideologica.

A testimoniare l’approdo rimanelliano ad una koinè americana che ha or-mai optato per la lingua inglese, novello campo di Agramante, emergono tra una mole di materiali dispersi, il romanzo Benedetta in Guysterland e le poe-sie di Alien, scritte tra il 1964 e il 1970, in cui il senso di alienazione dalle proprie radici e soprattutto dalla lingua originaria trova accenti nuovi anche per l’uso del cosiddetto «linguaggio esilico», come aveva acutamente osser-vato Anthony Burgess8. È l’approdo ad uno sperimentalismo metalinguistico che vuole fuoriuscire dai confini degli statuti disciplinari ed artistici: sono di questi anni una densa produzione pittorica ed una raccolta di poesie visuali per bambini Poems Make Pictures-Pictures Make Poems pubblicata in Ame-rica con la collaborazione di Paul Pimsleur ed illustrazioni di Ronny Solbert; una altrettanto ricca produzione musicale di blues, spirituals, canzoni ed arie. Una grande dispersione che ad intermittenze va a ricomporsi sulla zattera della scrittura, archeologia dell’esistere e del viaggio da proseguire, una scrittura che afferra e perde la vita continuamente, come afferra e perde il tempo e la storia che l’autore ha attraversato nel suo accidentato viaggio, col rischio sempre più incombente di perdere definitivamente la rotta e precipi-tare nel nulla. Ecco allora la necessità di una sosta, di una pausa di riflessio-ne per «autoauscultarsi»9 e ricomporre i lacerti di una identità in dispersione; e la poesia gli sembra uno strumento di più reattive ed immediate possibilità, mediante il quale tornare a fare i conti con le antiche urgenze autobiografi-

8 Anthony Burgess, Postfazione, in Giose Rimanelli, Alien Cantica. An American Journey (1964-1993), edited and translated by Luigi Bonaffini, Peter Lang, New York 1995, pp. 144-149.

9 Luigi Fontanella, La poesia di Giose Rimanelli: un “maudit” tra gioco e autodistruzione, «Misure critiche», cit., p. 47.

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Martelli, Letteratura come autobiografia: la scrittura di Rimanelli tra le due sponde dell’oceano

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che e liriche rimosse, «donarsi alla letteratura per sottrarsi alla vita o difen-dersi da essa»10. Le poesie raccolte in Carmina blabla e in Monaci d’amore medievali (entrambe apparse in Italia nel 1967) contrappuntano questo itine-rario “confessionale” lasciando riemergere luoghi e figure: New York, De-troit, Washington, Palm Beach, New Haven, Vancouver, ma anche il Molise; Bettina, la moglie americana che ha sostituito quella italiana, ma anche il padre con il suo rancore antico – una figura con cui continuamente Rimanelli torna a fare i conti nella sua scrittura – in un alternarsi di rifiuto / uccisione simbolica e di rievocazione / ritrovamento, la stessa speculare opposizione di quella patria fuggita, «una terra lunnnnnnnga / da dimenticare», ma anche «una terra lunnnnnnnga / da ricordare». Lungo questo itinerario della mente e dei luoghi può avvenire forse la ricomposizione delle scissioni e la parola, quella nuova e quella ritrovata, possono costituire il filo di Arianna per lega-re insieme passato e presente: anche quello massmediologico del figlio ame-ricano David, che ha quattro anni e gioca ai mostri e al batmaniano uomo mascherato nella villa di New Haven, con quello dei monaci, chierici vaganti del medioevo, uomini mascherati anch’essi con cui aveva in altro modo gio-cato il Rimanelli fanciullo ed adolescente in una fredda soffitta nelle lunghe giornate al paese del Molise. Nel caos e nel «ribollimento barbarico» con i suoi strappi brutali, dolorosi, questi «monaci dottori» riuscirono a non nau-fragare, costruendosi una zattera di parole intrecciate in liriche d’amore «as-sai belle e sincere, ora scapigliate e ora ironiche, ora peccaminose e ora pa-rodistiche», che Rimanelli traduce e riscrive per riannodare il filo spezzato tra passato e presente, avvertendo con ironia che Fratello Giose «morto per davvero» è un «Lazzaro risorto con dolore».

Ma l’«oscura disposizione all’autodistruzione, questo volersi fare male a tutti i costi, questa scomodità in agguato subito assunta»11 – che costituisce uno dei tratti peculiari della personalità rimanelliana e che ora sembra rimos-sa – è in realtà destinata a ripresentarsi, quando a metà degli anni settanta, a seguito di nuove lacerazioni affettive e del mancato approdo di quella grande macerazione di scrittura cui si era dedicato per un quindicennio, ritornano «voglia e gran bisogno della morte». Sarà un viaggio nel Molise – nella mente dello scrittore forse pensato come ultimo – ad offrirgli questa volta un’uscita di sicurezza, quasi a pareggiare i conti con quella che l’America gli aveva offerto quando era fuggito dall’Italia. E non sarà solo una reimmersio-ne nel luogo-tempo delle radici di una civiltà ormai quasi cancellata di cui ostinatamente ricercare brandelli, ricomponendola nella memoria o risco-prendola in segni, paesaggi, volti nuovi: il Molise, come luogo dal quale ri-cominciare per riannodare ancora una volta i fili perduti, per una nuova

10 Luigi Reina, La poesia di Giose Rimanelli, in Id., Percorsi di poesia, Alfredo Guida Edi-tore, Napoli 1993, p. 90.

11 L. Fontanella, La poesia di Giose Rimanelli, cit., pp. 253-254.

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scommessa con se stesso e con il mondo. Proprio da qui, dagli ultimi fuochi culturali della provincia assediati dalla glaciazione dell’omologazione con-sumistico-assistenziale partirà la resuscitazione e la riscoperta dello scrittore Rimanelli: nel 1977 la Editrice Marinelli pubblica Graffiti, un capitolo da La macchina paranoica; la stessa casa editrice pubblica nel 1979 Molise Molise, uno zibaldone di memorie e nel 1986 Il tempo nascosto tra le righe, una an-tologia di racconti inediti e sparsi che coprono significativamente ed esem-plarmente gran parte dell’iter artistico dello scrittore12. Nel 1989 appare il volume di poesie Arcano, una raccolta di testi scritti tra il 1970 ed il 1988, mentre nel 1990 Rimanelli dà alle stampe un volume di poesie dialettali, Mo-liseide, che con il loro ritmo musicale pensato e con la loro commistione e contaminazione plurilinguistica (italiano, inglese, dialetto) realizzano un nuovo spazio-tempo in cui confluiscono i tanti segmenti di esperienze esi-stenziali e culturali, memorie, lingue, voci di mondi distanti rappresentati, reinventati, fusi in una nuova koiné. Una edizione trilingue di tutta la produ-zione dialettale è stata pubblicata negli Stati Uniti dall’editore Peter Lang nel 1992 (Moliseide. Songs and Ballads in the Molisan Dialect, riproposta nel 1998 dalle edizioni Legas di New York, Moliseide and Other Poems).

Gli anni novanta rappresentano un decennio di vera e propria riscoperta dello scrittore sia in Italia che in Nord America: si aprono con la riedizione einaudiana del suo romanzo più importante, Tiro al piccione13, che segna un punto di svolta rimettendo in circolazione nelle lettere italiane uno scrittore che aveva subito una vera e propria cancellazione, tanto che per molti è una vera e propria scoperta, come mostrano gli interventi della critica sia militan-te che accademica seguiti alla riedizione del romanzo14. L’ultimo decennio lo risarcisce in parte: la produzione poetica coeva, fortemente espansiva, tro-va collocazione editoriale sia in Italia che in Nord America: From G. to G.: 101 Somnets (Peter Lang, 1996); Sonetti per Joseph (Caramanica, 1998); Jazzymood (Gradiva, 2000). Ma anche per la prosa quest’ultimo decennio segna tappe importanti con appuntamenti editoriali sia in lingua inglese che in lingua italiana: Benedetta in Guysterland (Guernica, 1993), che nel 1994 ha ottenuto l’importante riconoscimento dell’American Book Awards; De-troit Blues (Soleil, 1997)15, reinvenzione e riscrittura di uno dei capitoli della Macchina paranoica. Nel 1997 l’editore canadese Guernica ha pubblicato Accademia, un romanzo in cui l’autore, tra l’ironico e il grottesco, ritrae il

12 Su Graffiti e Il tempo nascosto tra le righe cfr. Sheryl Lynn Postman, Crossing the Acheron. A Study of Nine Novels by Giose Rimanelli, Legas, New York 2000, pp. 107-125, 147-167.

13 Giose Rimanelli, Tiro al piccione, Introduzione di Sebastiano Martelli, Einaudi, Torino 1991. 14 cfr. Sebastiano Martelli, Un “irregolare” nella letteratura degli anni cinquanta, in Rima-

nelliana, cit., pp. 9-36. 15 Su Detroit Blues cfr. L. Fontanella, La parola transfuga, cit., pp. 133-146; cfr. anche S.

L. Postman, Crossing the Acheron, cit., pp. 129-145; A. Granese, Tra i manoscritti di Rima-nelli, cit., pp. 165-180.

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mondo accademico in cui è vissuto per circa un trentennio16. Anche in Italia non sono mancate presenze editoriali: nel 1996 l’editore Avagliano ha ripro-posto il romanzo Una posizione sociale, con il titolo La stanza grande, men-tre nel 2000 sono apparse due novità significative: Discorso con l’altro e Familia17. Il primo, scritto a quattro mani con Enrico Cestari – un ritrovato commilitone del tempo della Repubblica Sociale di Salò – è un dialogo che mette insieme due memorie separate dall’oceano e da quarant’anni di silen-zio, ma accomunate da segni indelebili della traumatica esperienza della guerra civile su cui questa scrittura apre squarci ed illuminazioni utili anche per una rilettura di Tiro al piccione. Familia è l’ultimo approdo di un consi-stente filone della produzione di Rimanelli – che possiamo definire del rac-conto critico – che da Molise Molise, attraverso una consistente stratificazio-ne di contributi sparsi in diverse sedi italiane e nordamericane, è pervenuta a Dirige me Domine, Deus meus e a Familia: una scrittura che incrocia memo-ria autobiografica, riflessione saggistica, reinvenzione narrativa, un modello che ben si adatta al magma rimanelliano di letteratura e vita, in cui entra ne-cessariamente anche la dimensione dello studioso, del suo farsi ed essere sta-to per circa un trentennio professore nelle università nordamericane. Un pe-culiare invasivo autobiografismo che lo scrittore così definisce:

Definisco il “fascino di rappresentarsi” quella diretta o indiretta autobiografia che si avverte in quasi tutti i miei scritti, ciò che – anche geneticamente par-lando – si identifica con etnicità ed etnografia in quanto l’autobiografia opera un po’ come l’etnografo che fruga in ciò che è nascosto e latente nei linguag-gi, nelle culture che a un primo contatto appaiono opache, ostiche quasi, per rivelare poi alla fine lo splendore dei caratteri: il discorso, la dinamica18.

Autobiografia non solo come recupero e rappresentazione di pezzi di vissu-

to, di memoria ma come scavo antropologico-culturale nella/e realtà in rap-porto all’io che le ha attraversate; il tutto ricreato nel laboratorio di una scrit-tura onnivora che pratica una incessante contaminazione di vissuto, di lacerti memoriali, culturali, linguistici, in cui le pagine migliori si hanno lì dove

16 Su Benedetta in Guysterland e su Accademia cfr: Romana Capekhabekovic, Texts Within the Text: Hermeneutica of the “Fluid” Novel «Benedetta in Guysterland» for the Jabber-wocky Reader, in Rimanelliana, cit., pp. 199-221; Anthony Julian Tamburri, «Benedetta in Guysterland»: Postmodernism [Pre] Visited, ivi, pp. 223-240; Fred L. Gardaphè, Giose “The Trickster” Rimanelli’s Great Italian American Parody, ivi, pp. 241-253; Id., Achademic Ar-chetypes, “Fra Noi”, Chicago, 5 febbraio 1998; Anthony Julia Tamburri, A Semiotics of Eth-nicity. In (Re)cognition of the Italian/American Writer, Suny Press, Albany 1998; L. Fonta-nella, La parola transfuga, cit., pp. 158-167; Rimanelli americano, a cura di Anthony Verna, «Rivista di studi italiani», 2001, 1,; S. Matteo, Radici sporadiche, cit., pp. 147-156; 161-186.

17 Giose Rimanelli, Discorso con l’altro, Mursia, Milano 2000; Id., Familia. Memoria dell’emigrazione, Isernia, Cosmo Iannone Editore, 2000.

18 G. Rimanelli, Familia, cit., p. 89.

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Giose riesce a realizzare una equilibrata fusione dei diversi materiali gover-nandone i canali di alimentazione:

Memoria spaziale e temporale degli eventi narrati affondano le unghie nel passato dei personaggi principali per riattivarsi nel presente, in tal modo sta-bilendo un genetico ed ideologico legame tra ciò che fu ieri e ciò che è oggi, il presente: una fusione di voci e brame che nello stesso istante del farsi crea-no interconnessi canali autobiografici che consentono a quest’autore motivi di autoriflessione ed autoanalisi, autogiudizio e, infine, autodefinizione. Ovviamente interviene, in un tessuto del genere, ogni possibile (ma pertinente tuttavia) allusione di storia e cultura, critica letteraria e poesia, costituendo un lar-vato dialogo col mondo dei morti e quello dei vivi attraverso rigurgiti d’infanzia nell’antico, passi adolescenziali e fertile espansione della mente che vigila e crea nel qui e ora, fiduciosa, anzi in attesa sempre del bacio, del consenso di quella vi-va e gentile illusione di riuscire un dì ad afferrare per certo, per vero, un barlume di arcano: il capolavoro che permane attraverso la veglia19.

In Dirige me Domine e Familia il grumo delle memorie familiari apre ad

una ricomposizione di significativi lacerti autobiografici, voci, figure, pae-saggi, eventi, lacerazioni come quelle del tempo lungo dell’emigrazione; en-tra in campo l’ombra della malattia e della morte, con la quale la scrittura dialoga allungando il filo della vita. Una scrittura polimorfa (racconto, dia-rio, saggio, poesia, teatro, musica) che ancora una volta ferma sulla propria soglia vita e creatività artistica con un inestricabile nodo.

Negli anni novanta la scrittura di Rimanelli incrocia le ombre della malattia e della morte, quella dei genitori, che si allungano anche verso il proprio ap-puntamento inevitabile e, come il cavaliere del bergmaniano Settimo sigillo, lo scrittore dialoga con la morte giacché è l’unico modo per confrontarsi con il senso della fine e allungare il filo della vita.

Dirige me Domine assorbe pezzi molto significativi di quest’ultimo tempo segnato dalla malattia e dalla morte, si accampa una memoria intermittente: frammenti di vita, figure, paesaggi, situazioni, parole, recuperati del mondo sommerso delle origini. Anche la forma della scrittura rispecchia le caratteri-stiche di questa memoria; sono frammenti intermittenti di racconto, di sag-gio, di poesia, in lingua e in dialetto, di musica, sì, anche di musica, che nella vita di Rimanelli ha sempre avuto un ruolo centrale: «la mia compagna più intima».

Il titolo del libro, Dirige me Domine, Deus meus20, tratto dal salmo V, che apre il rito cattolico dei defunti, racchiude suggestivamente quello che è il segmento centrale intorno a cui tutto il testo è costruito: la morte del padre.

19 Giose Rimanelli, Letteratura come autobiografia, «Frontiere», 2002, 6, pp. 16-17. 20 Id., Dirige me Domine, Deus meus, Edizioni Enne, Campobasso 1996.

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L’incipit si incastona nel paesaggio molisano: il cimitero di Roccamandolfi visto da una casa in alto al paese, collegato con uno scarto immediato alla terra americana: «penso a mio padre morto da poco a Detroit, Michigan, lon-tano da Casacalenda, Molise: il nostro paese».

Tutto il libro è costruito intorno a questa immagine–evento, vera e propria epifania di scrittura: la morte del padre, l’America, Casacalenda e il Molise, il recupero della paternità e del senso della famiglia, il tempo lungo del si-lenzio, la morte lontana da emigrante, fuori dall’orizzonte comunitario, dal paese d’origine. Scorrono fotogrammi significanti di una vita: i familiari, gli amici o altre figure che sono entrate non solo nella propria vita ma si sono materializzati nella scrittura; Giovanni Cerri, il poeta dialettale di Casaca-lenda, suo maestro ed amico, di cui Giose patrocinò l’unica raccolta poetica pubblicata in vita, I guàie (Rebellato, 1959) rispondendo all’invito accorato e discreto (U mmìte) del vecchio poeta, che sente vicino il tramonto della vi-ta: «So’ tant’anne, u tiémpe astrégne: / aspett’i cumpagne / chi vracce tése / e l’acqu’appese. / E chiù pàssene i iuórne / e chiù u sanghe z’assécche / dent’a vócche du core».

Scorrono altri fotogrammi in cui si intrecciano memoria delle radici, emi-grazione, lontananza e ritorno, realtà e letteratura: Eddie Lang, il musicista jazz i cui genitori alla fine dell’Ottocento erano partiti dal Molise per gli Sta-ti Uniti, dove era morto giovanissimo ma già entrato nella storia e nel mito del jazz. Attraverso zumate continue la scrittura si sposta seguendo la memo-ria e i passi dell’autore, che si aggira tra i relitti che il naufragio dell’emi-grazione e del tempo ha lasciato: dal cimitero di Monteroduni, alla ricerca delle tombe degli antenati di Eddie Lang, a quello di Casacalenda per depor-re una rosa sulla tomba del poeta Giovanni Cerri o seguire le tracce cancella-te della tomba di nonno Dominick, il vecchio ombrellaio “pazzo”, emigrato rientrato, protagonista del romanzo Una posizione sociale.

La morte del padre diventa dunque per Rimanelli una sorta di viatico per riattraversare la sua vita, la sua memoria, luoghi e tempi di esistenza reale e letteraria. E così ai pezzi di memoria e dell’immaginario letterario ed antro-pologico delle radici si affiancano, intersecandosi, quelli dell’esperienza a-mericana: il vissuto, il paesaggio, la poesia come quella dei due poeti «pazzi e adorabili» Blake e Hopkins.

Durante il viaggio verso Detroit da Albany, dove lo aveva raggiunto la no-tizia della morte del padre, era iniziato un nuovo capitolo del suo rapporto con la figura paterna, un rapporto segnato per tutta la vita da un lungo, ine-stinguibile «rancore»; una figura uscita ed entrata più volte nella sua scrittu-ra: è l’ombra sovrastante all’origine della fuga del Marco protagonista di Ti-ro al piccione; è Nicola Vietri di Peccato originale, padre-padrone che l’autore fa morire mentre si accinge a partire per l’America con tutta la fa-miglia. Ora il padre è lì, nella bara davanti al figlio che si accinge a leggere il

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suo “elogio” e per la prima volta sente di poter parlare con lui liberamente, finalmente colloquiare affettuosamente come non era mai accaduto prima. Eppure il padre era stato l’unico della famiglia a leggere i suoi libri e quindi a scoprire come il figlio lo aveva reincarnato, rappresentato nei suoi roman-zi. Giose capisce ora che il filo forte della sua storia familiare e delle sue ra-dici era stato proprio il padre; ora gli si chiariscono tante cose, si illuminano tanti angoli oscuri; ora sì, può affidare alla scrittura questo suo rapporto ri-trovato col padre, come alla scrittura aveva affidato quel grande e lungo ran-core che aveva segnato la sua vita fino ad allora.

L’immaginario letterario lo soccorre in questa sua prima ricerca di nuove parole per il padre: è una poesia di William Blake: «Padre, padre dove te ne vai? / Oh non camminare così in fretta»; e sull’onda di questi versi anche Giose prova ad indirizzare al padre il suo “elogio” poetico: «Oh padre, padre / andato di là. / O occhi che videro!». Ma non sono le parole giuste, è come se questi versi non raggiungessero il padre, non riuscissero a placare la sua ombra, che nelle notti americane continua a ritornargli accanto, mentre gli occhi spalancati navigano «nel vuoto ancestrale dei viaggi, delle fughe, dei ritorni, delle liti, le riconciliazioni, i banchetti del perdono e la musica del ramo di olivo». E così permane una «inalienabile pena» che Giose non riesce a superare.

In realtà di mezzo c’è anche altro: c’è l’emigrazione, la grande lacerazione che ha segnato la vita del padre e della sua famiglia, e morire da emigrante è come morire due volte, una sorta di morte moltiplicata, perché si muore «lontani dalla culla», lontani da quell’habitat comunitario delle radici della propria vita, che dovrebbe naturalmente accompagnare anche il nostro ultimo viaggio; quel mon-do e quella possibilità che mancano all’emigrante che muore lontano dal proprio paese. Allora per comporre fino in fondo il lutto per la perdita del padre emigra-to occorre fare entrare nel cerchio della sua oggettivazione anche quella lacera-zione dell’emigrazione, che aveva segnato la sua vita.

Nella canzone Cala sole di Giovanni Cerri le ombre degli emigranti ritor-nano in paese dopo il tramonto del sole a cercare e rivivere tutto ciò che con l’emigrazione hanno perduto; sono come fantasmi, ombre di morti che non hanno trovato pacificazione, quel ponte di passaggio tra la vita e la morte che solo l’elaborazione del lutto da parte della comunità familiare e paesana può assicurare: «Ma quanne cal’ a u sole na Defese / se sent’u passe vuostre pu paese»21.

Dunque anche questa lacerazione occorre mettere nel conto di quel lutto per il padre che Rimanelli sta cercando di comporre definitivamente dentro

21 Cfr. S. Martelli, Rappresentazioni letterarie dell’emigrazione molisana tra Ottocento e Novecento, in Antonio Pinelli (a cura di), L’emigrazione molisana: il caso Roccamandolfi, Cosmo Iannone Editore, Isernia 2004, pp. 123-124.

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di sé; e una notte egli si ritrova nella mente e tra le mani parole diverse e con esse si accorge di riuscire a perforare la tela che avvolge l’ombra del padre: sono le parole del dialetto nativo, quello suo e di suo padre, il dialetto di Ca-sacalenda. Con esse finalmente può sciogliere il nodo, sono quelle le parole giuste con cui rivolgersi al padre per dirgli ciò che per tutta la vita non era riuscito a dirgli; sono quelle le parole giuste per placare la sua ombra, per chiudere il cerchio dell’elaborazione del lutto, per costruire quel ponte tra la vita e la morte su cui far passare il dolore di chi resta e la memoria di chi ha iniziato l’ultimo viaggio: «Pàtreme, / ù pàtre mije ze n’è jùte, / ze n’è jute errét’à pòrte / errét’à porte ze n’è jùte/ […] Pàtreme, / ù pàtre mije ze n’è jù-te, – cuant’è móre, cuànte ràje – / e à ditte “Zitte, me ne vàje?”…».

La seconda parte del libro è una sorta di esplicitazione e chiarificazione di questo approdo nella elaborazione del lutto paterno, una oggettivazione cul-turale che Rimanelli, ancora una volta affidandosi alla sua onnivora e sensi-tiva scrittura, realizza assemblando materiali colti, folklorici, letterari, musi-cali. Un libro straordinario gli fa da viatico: Morte e pianto rituale di Ernesto De Martino, un suggestivo viaggio nella cultura della morte, dal mondo e-braico a quello greco e romano, dai riti pagani a quelli cristiani per poi veri-ficarne persistenze, rielaborazioni e differenze nella civiltà contadina del Mezzogiorno d’Italia. De Martino indaga la centralità della morte nella cul-tura folklorica: la perdita scatena nel contesto familiare una «crisi della pre-senza», che impone la necessità di elaborare il lutto attraverso il pianto, il lamento funebre e l’insieme dei rituali che possono contribuire a superare la crisi, accettare l’evento e ricostruire una assenza-presenza della persona scomparsa. La civiltà pagana e quella cristiana confluiscono entrambe nella lunga durata della civiltà contadina: le prefiche e il lamento sul cadavere, ri-tuali individuali e collettivi fatti di pianti, parole, preghiere, canti, musiche entrano in un circuito controllato che ferma la dispersione sull’«orlo del ri-schio estremo»22.

Rimanelli con la guida di De Martino compie un sintetico ma efficace e-xcursus attraverso la letteratura colta, dalla Bibbia ai greci, dalla letteratura cristiana antica a Jacopone da Todi per poi giungere al patrimonio folklorico meridionale e molisano. Ma c’è di più: De Martino, indagando direttamente nelle permanenze della civiltà contadina meridionale degli anni quaranta-cinquanta, rileva che la stessa emigrazione è vissuta come «equivalente criti-co della morte», tanto che i rituali della partenza somigliano molto a quelli dell’accompagnamento del morto.

Con questo attraversamento ora lo scrittore può finalmente levare un pro-prio “canto” funebre che riesca finalmente a comporre il dolore per la perdita del padre ed insieme a segnare lo spazio-tempo di una necessaria assenza-

22 Ernesto De Martino, Morte e pianto rituale, Torino, Boringhieri, 1978.

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presenza. Assemblando parole e musica e recuperando un esperimento avan-guardistico già tentato negli anni cinquanta con Una posizione sociale – che per la prima volta in Italia offriva al pubblico un disco (di musiche jazz) al-legato al romanzo – Rimanelli mette insieme musiche funebri medievali (Pa-lestrina) e moderne (Gluck, Wagner, Bizet), romanze negre, ballate, spiri-tuals, blues e li fa incrociare con il patrimonio folklorico meridionale in par-ticolare molisano (il Bufù di Casacalenda). Da questo assemblaggio nasce Medley died (Pàtreme), in cui la commistione che più colpisce è quella tra il blues della musica nera e il dialetto casacalendese, che è anche un incontrarsi dei due mondi della vita di Giose e di suo padre, il tempo del Molise e il tempo dell’America. Ora sì, il cerchio si può chiudere: con questo canto Ri-manelli riesce finalmente a sciogliere il nodo, a comporre il lutto per il pa-dre, a pacificare la sua ombra e il lungo rancore (incomprensione, ribellione) di una vita. Così la perdita, il lutto si trasformano in una nuova condizione di dialogo, di comunicazione, di continuazione della vita. E con ironia, Giose alla fine può giustamente chiedersi: «Dal paradiso, dove certamente è anda-to, come fa ora mio padre a non sorridermi?».

In The Brotherhood of the Grape John Fante narra il suo congedo al padre, l’emigrato che concentra nella sua figura vissuto e immaginario dell’emigra-zione soprattutto di prima generazione:

The padre returned to the sacristy as the undertakers opened the casket and my mother led the mourners past the body. She raised her veil and kissed her husband on the forehead. Then she laced her white rosary around his stiff-ened fingers. Virgil led her away as she cried softly. One by one we passed the bier and stared down at Papa, the children startled, horrified, fascinated, the others weeping silently23.

Nella scelta del vocabolo italiano padre, in un contesto tutto inglese, «si-

gnificante e significato assumono una fissità rituale, sono univoci in maniera assoluta, solenne, sacrale». In tal modo il figlio rende un omaggio al padre ed elabora il viatico per un simbolico ritorno al paese, lì dove tutto è comin-ciato. Ma il vocabolo padre è anche «il residuo cinereo della lingua “natura-le”, altra, che contraccambia, sta al posto delle ceneri del genitore: ashes to ashes. E quell’unico segno antico emerge […] nel mezzo di un universo lin-

23 John Fante, The Brotherhood of the Grape, Houghton Miffin, Boston 1977, pp. 174-175; nella traduzione italiana di Francesco Durante in J. Fante, Romanzi e racconti, a cura di F. Durante, Milano, Mondadori, 2003, p. 1303: «Il padre ritornò in sacrestia mentre gli addetti delle pompe funebri aprivano la bara, e mia madre guidò la fila dei congiunti a fianco della salma. Sollevò il velo e baciò il marito sulla fronte. Quindi gli allacciò il rosario bianco alle dita irrigidite. Virgil la portò via mentre piangeva piano. A uno a uno sfilammo accanto alla bara guardando papà, i bambini erano stupefatti, terrorizzati, affascinati, gli altri piangevano in silenzio».

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guistico oramai totalmente mutato, affidato com’è alla lingua d’arrivo. Un segno isolato e definitivo: un addio»24.

Rimanelli in Dirige me Domine celebra anch’egli il congedo al padre, ma con soluzioni linguistiche e letterarie diverse: davanti al feretro prova a legge-re il suo elogio come a realizzare quel colloquio che non era mai stato possibi-le durante la vita; affida alla scrittura il rapporto finalmente ritrovato col padre, come alla scrittura aveva affidato il lungo ostinato rancore che aveva segnato la sua vita fino ad allora. L’immaginario letterario colto lo soccorre in questa sua prima ricerca di nuove parole, ma non sono le parole giuste, è come se queste non raggiungessero il padre, non riuscissero a placare la sua ombra. Per elaborare il lutto occorre far rientrare nella sua rappresentazione la lacerazione dell’emigrazione che aveva segnato la vita del padre e della sua famiglia, tro-vare le parole giuste che facciano da viatico ad un ultimo simbolico ritorno; solo con le parole della lingua materna il figlio/scrittore può placare l’ombra del padre, chiudere il cerchio dell’elaborazione del lutto costruendo quel ponte tra la vita e la morte per far incontrare il dolore di chi resta e la memoria di chi ha iniziato l’ultimo viaggio.

Questi due elogi funebri a confronto credo possano ben rappresentare le scansioni della letteratura italoamericana ed insieme le diversificate filiere letterarie e linguistiche sulle quali il tema dell’emigrazione va a disporsi: Fante nel recupero della parola padre all’interno di una opzione linguistica, che è quella inglese, rappresenta, non solo per se stesso, il passaggio che ne-gli anni trenta si consuma dalla letteratura italoamericana delle «fondamen-ta»25 a quella che adotta la lingua inglese portandovi dentro solo frammenti della lingua madre e materiali di deriva del sostrato antropologico-culturale delle origini. Rimanelli, invece, immigrant writer di generazione successiva, che ha avuto una formazione italiana – è il caso anche di Joseph Tusiani – e addirittura una prima importante stagione di scrittore in Italia, può aggancia-re uno stratificato patchwork colto e popolare, letterario, musicale, antropo-logico italiano ed europeo contaminato con quello americano senza alcuna frizione facendo così incontrare due mondi e due tempi, quello delle radici e quello americano, realizzando così una vera scrittura interculturale.

Qualche anno dopo Giose compirà un viaggio a Windsor, in Canada, per chiudere un altro cerchio della vita e tradurre ancora nella scrittura un altro importante segmento autobiografico, questa volta riguardante la madre. La figura della madre – da quella vestita a lutto di Tiro al piccione per il figlio creduto morto a quella letterariamente plasmata di immaginario psicanalitico

24 Martino Marazzi, «Azzorrait»: microspie della lingua italiana in emigrazione, in Milano da leggere, Atti della quarta edizione del Convegno letterario ADI-SD, a cura di Barbara Pe-roni, Milano 2007, p. 115.

25 Cfr. Martino Marazzi, Misteri di Little Italy. Storie e testi della letteratura italoamerica-na, Franco Angeli, Milano 2001, pp. 17-66.

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in Una posizione sociale – si è reincarnata in tutta la produzione narrativa del primo tempo, ma anche in pagine della successiva, e ora non può non trovare un’ultima rappresentazione narrativa al capolinea della sua vita.

La madre si trova in una casa di riposo a Windsor, nel Canada da cui era partita nel 1913 seguendo il padre che era voluto rientrare in Italia (rientrerà in Nord America con il marito e i figli nel secondo dopoguerra):

«E mia madre?» Stava allungata sulla sua tavola tutta vestita di nero, con una camicetta di seta nera, ricamata ad ago, e la mano sinistra ingessata e sostenuta da uno stecco. «Signora. C’è suo figlio!» Non mi riconobbe. Piano piano l’aiutammo a mettersi in piedi, camminammo fino alla grande fi-nestra che affaccia sull’albero tagliato, e sedemmo al tavolo rotondo. L’infermiera portò il piatto concavo della minestra. Cercai d’imboccarla, ma lei disse no, noo, tu, tuuuu. Allora seppi che sapeva chi ero. Voleva che la mangiassi io, la minestra. Le carezzai la testa di passero, sorrideva appena, e io dicevo Ma’, Ma’…

Ancora una volta sono le parole della scrittura letteraria che consentono di

chiudere l’altro cerchio della vita:

Era domenica, 5 novembre 1995, e sul braccio ingessato di mia madre tentati di scrivere un ultimo sonetto a G. B., anche per divertirla. L’intitolai Ritorno:

Mia madre muore a Windsor, nell’Ontario in una casa abbandonata all’ombra. L’abbraccio, la vezzeggio, non s’adombra: lei sa d’esser sola nel suo santuario.

Qui a suo modo ognuno fa il solitario come a intrattenersi con la penombra che a poco a poco invade i vetri, e sgombra d’ogni residuo d’olio il lucernario.

Nella mia terra abbarbicata ai muri mia madre visse un riluttante esilio. Ora qui noi siamo, nella sua: duri

da rompere col rimpianto, l’ausilio dell’incognita, la testa agli scuri… La Gloria? Passa sotto il peristilio!

Ma c’è anche l’emersione della distanza, della estraneità che le nuove ge-

nerazioni, discendenti degli emigrati del secondo dopoguerra, hanno introiet-tato rispetto al mondo familiare delle origini:

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Se ne andò il 13 di ottobre 1996. Da Roseville, Minnesota, dove Ciliegia ed io vivevamo in quel tempo, ripercorremmo in macchina la lunga strada già fatta altre volte. I vicini, la solita gente, altra gente, tanta gente per mia madre alla Funeral Home della Ditta Calcaterra. E pareva una festa, col solito cica-lare, le donne sedute, compunte, parlicchiando testa contro testa, gli uomini in piedi, le braccia conserte, un’aria di sapienza come cipria sui loro capelli. In una stanzetta attigua, con caffè a disposizione, la figlia di Gino, Cinthya, piangeva silenziosamente nel fazzoletto. Il giovane marito le sedeva accanto muto, fumando. Mi avvicinai con il caffè e gliel’offersi. Cinthya scosse la te-sta. L’offersi a lui, il marito, che scosse la testa. «Volevi bene a nonna?». Fece sì con la testa. «Tu sei l’unica a piangere… È per questo che piangi?». Il giovane marito sorrise, e lei lo notò. Disse allora, guardando lui negli oc-chi, non me: «I’m crying just to cry. Do you care?». Piango per piangere, t’importa? Capii allora che avevo inciampato su di un altro tipo di morte. Umiliato, piut-tosto stanco tornai nella camera ardente, con il prete che ora raccontava la storia della nostra famiglia, quella che conosceva lui, fatta tutta di rose e spi-ne, com’è legittimo che sia ai giusti, agli eletti, ai belli, ai forti, ai pietosi… Infine, cosa? Dio dà, Dio toglie. Così sia26.

Rimanelli intitola Ritorno questo capitolo di Familia dedicato alla madre,

come a fissare metaforicamente e simbolicamente uno dei segmenti centrali dell’«emigrazione come destino», un ritorno impossibile che nella scrittura può trovare la sua ricomposizione poiché solo la scrittura può ricostruire e legare i fili della memoria e dare un senso a tutto quanto si è consumato.

Gli ultimi due approdi rimanelliani, l’uno poetico (Gioco d’amore Amore del gioco), l’altro narrativo (Il viaggio)27 testimoniano definitivamente di una scrittura che, rotti i ponti con la pratica in cui si colloca la sua produ-zione del primo tempo e insofferente a qualsiasi rispetto di canoni, generi letterari e confini linguistici, si inoltra in un territorio aperto, fantasmatico, lunare e nello stesso tempo con una forte concentrazione culturale. Emerge una frammentata realtà presente, gravata dalla solitudine che solo i segni della parola scritta possono riempire materializzando suoni ed immagini a-limentati da un flusso continuo, vorace, inestricabile di memoria e di imma-ginario. In Gioco d’amore Amore del gioco il dialetto si pone «al centro di

26 G. Rimanelli, Familia, cit., pp. 135-138. 27 G. Rimanelli, Gioco d’amore Amore del gioco. Poesia provenzale e moderna in dialetto

molisano e lingua, Isernia, Cosmo Iannone Editore, 2002; Id., Il viaggio. Un paese chiamato Molise, ivi, 2003.

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un gioco di rifrazioni interlinguistiche, che ne estendono notevolmente il respiro semantico ed espressivo»28: un palinsesto di traduzioni incrociate da lingue diverse, poesia latina (Orazio, Catullo), trobadorica (Jaufrè Rudel), inglese (William Butler Yeats, Blake), spagnola (Neruda, Octavio Paz), francese (Eluard), tedesca (Celan) o traduzioni da altre traduzioni, «randa-ge» – come Rimanelli le definisce – poeti cinesi, Petronio tradotto da Ben Johnson, Achmatova dall’inglese, con le quali il dialetto si confronta in un campo aperto alle più rischiose dilatazioni semantiche ed espressive ben ol-tre le sue tradizionali stratificazioni antropologiche, lessicali, fonetiche, sin-tattiche, musicali. Da lingua di un tempo cancellato il dialetto diventa lin-gua del presente, invaso dalle parole consumate ed inerti della quotidianità, cui il poeta oppone il viaggio in quel territorio fantasmatico, dove va a riempire con il suo carico di memoria e di immaginario il silenzio assordan-te della solitudine e il vuoto plastificato del presente. Un’operazione a forte imprinting sperimentale con cui si vuole realizzare il recupero delle radici primigenie del linguaggio poetico, una koinè linguistica e letteraria senza confini geografici, da Occidente a Oriente, che il dialetto coniuga con le pulsioni profonde e la memoria circolare dell’io poetante.

L’ultima opera edita, Il viaggio, mostra ancora una volta quanto lo sperimen-talismo degli anni sessanta e settanta – primo ventennio della full immersion americana – abbia profondamente segnato la scrittura di Rimanelli creando uno spartiacque rispetto alla sua prima stagione di scrittore italiano. Il romanzo scaturisce da un progetto originario, che prevedeva una sorta di ultimo viaggio alla terra dei padri, ultima Thule dove Marco Laudato – protagonista di Tiro al piccione e personaggio unico che con reincarnazioni diverse attraversa tutta la narrativa di Rimanelli – va a sciogliere definitivamente i nodi della sua vita, vissuta in diversi continenti reali, metaforici e letterari.

Ma occorre dire che il progetto è diventato qualcosa di molto diverso anche perché necessariamente avrebbe comportato il recupero di una tipologia di scrittura e di una forma narrativa vicina al primo tempo dello scrittore, cosa del tutto impossibile, come già detto e come abbondantemente conferma questo ultimo lavoro. E non è solo per l’evidente sovrabbondante incastro di forma narrativa e forma saggistica che si esplicita in un doppio strato di scrittura, testo narrativo e note saggistiche, ma che entra anche nel tessuto narrativo disarticolandolo continuamente attraverso sfalsamento di tempi, segmentazione e frammentazione di svolgimenti, dimensione onirica e proiezione fantastica, memoria e cronaca, invenzione e realtà. Il presente della cronaca – le Twin Towers, l’Irak, l’orrore quotidiano – si incastra con quello autobiografico del consumarsi dei giorni e della vita in cui conflui-scono fantasmi, rovelli e buchi neri del passato: l’infanzia al paese molisano,

28 L. Bonaffini, Introduzione a Gioco d’amore Amore del gioco, cit., p. 19.

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Martelli, Letteratura come autobiografia: la scrittura di Rimanelli tra le due sponde dell’oceano

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il seminario con la sua ovattata violenza, l’insofferenza, il ribellismo, la fuga del pavesiano “scappato di casa”, l’esperienza lacerante della guerra civile, il ritorno, la ricerca di una identità esistenziale cui la scrittura fornisce un’ancora di salvezza ed un percorso di vita “nova”, la svolta dell’esilio-emigrazione in Nord America, la costruzione di un’uscita di sicurezza affida-ta all’incontro di lingue e di culture, la terra d’origine persa e ritrovata in un inevitabile alternarsi di amore e di rifiuto.

Un tutto magmatico di presente e di passato visto ed immaginato da una grotta ipnagogica, spazio-tempo dell’io, osservatorio sul mondo e terminale di pulsioni che risalgono per vie molteplici dall’infanzia ampliandosi con segmenti di vissuto e di memoria fino alla coscienza del presente e del-l’ultimo crepuscolo; affidato ad una scrittura proteiforme: un io che si fram-menta e si ricompone ad intermittenza continua, un incastro di tempi, di luo-ghi e di personaggi veicolati da un treno che sembra deragliare ad ogni capi-tolo ma che rimane sui binari per una testarda forza interna che fa capo a quella nativa quasi animalesca forza della creatività scrittoria rimanelliana.

A proposito della complessa struttura di quest’ultimo romanzo Luigi Fon-tanella, attento e acuto critico del Rimanelli “americano”, scrive: «da un lato la disposizione ipnagogica ad un flusso interiore ininterrotto da parte della (delle) voce (voci) narranti – voci ovviamente riconducibili ad un unico auc-tor – dall’altra l’irriducibile volontà rimanelliana a chiarificare glossare in-formare»; uno scrivente in stato ipnagogico cui si sovrappone uno scrivente storico/saggista «che intende chiarificare quel magma che egli stesso, in chiave semi-onirica, sta liberando sulla pagina». Ne deriva un joyciano «“brontolio” di fondo, cupo e funereo […] (una specie di basso costante che informa l’intero romanzo), derivante dallo stato ipnagogico della voce nar-rante; un dormiveglia ch’è passivo e attivo nello stesso tempo; o, per essere più precisi, uno stato di apparente atarassia al quale però non sfugge nulla della realtà circostante»29. Un estraniarsi dalla realtà e insieme un continuo entrare e uscire dalla stessa ma sempre e solo per rientrare in se stesso, in quell’amebico spazio in cui l’io narrante rumina la realtà e la frantuma in mille fili con cui si avvolge. Emerge così la peculiarità fondante di questo approdo della scrittura narrativa rimanelliana: la sua «natura autoreferenzia-le e autogenerativa», una «circolarità narratologica» con la quale l’autore riattraversa la sua vita ed insieme la sua scrittura, quanto ha vissuto e quanto ha sognato di vivere, l’intreccio di realtà ed invenzione continuamente ripro-posto nella scrittura stessa.

A sostenere una così complessa architettura narratologica e ad accentuarne la forte intertestualità entra in campo quel plurilinguismo che Rimanelli ha già

29 L. Fontanella, Viaggiare il viaggiare: su Il viaggio di Giose Rimanelli, «Forum Italicum», 2004, 38/1, pp. 229-234.

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ampiamente dispiegato nella poesia: la lingua basica italiana è piegata conti-nuamente ad accogliere espressioni, pezzi di dialoghi in inglese insieme ad e-spressioni in dialetto molisano. Nello straordinario laboratorio della scrittura di Rimanelli – che per la quantità e peculiarità dell’accumulazione e macerazione non ha eguali nella narrativa del secondo Novecento – l’approdo a questo rac-contare il «viaggiare del viaggiare», a questo «registrare “passivamente” il proprio narrare (la sua narrabilità) direttamente attraverso le parole degli altri, parole che vanno ripercuotendosi nella sua voce dormiente / delirante / moren-te»30, pur con il rischio continuo di deragliare verso un solipsistico, narcisisti-co, autoreferenziale, artificioso accumulo fine a se stesso, riesce a trasmetterci alcune considerazioni: quali curvature strutturali formali e linguistiche posso-no consentire al romanzo moderno la raccontabilità della sfrangiata realtà vis-suta, parlata ed immaginata del nostro tempo, ed insieme come ridare senso ad una memoria delle radici in un tempo di svolta epocale che ci pone di fronte ad uno sconvolgimento dei rapporti tra popoli e civiltà.

Rimanelli in questi anni ha saputo guardare ad occhi asciutti anche al pro-prio crepuscolo e trovare le parole per continuare a tessere il filo della vita come il cavaliere bergmaniano di Settimo sigillo, con una coerente idea della letteratura. In Familia – una delle opere più accattivanti della scrittura rima-nelliana dell’ultimo quindicennio – troviamo come esergo un passo molto significativo che traduce suggestivamente questo ulteriore tratto della sua letteratura come autobiografia:

Quel caleidoscopio che intanto ora guardo, è quel barile di vino che ora quasi vuoto rotola pian piano giù per la stretta scala della vita, perché questa vita si restringe in se stessa ormai, ne conto le gocce rimaste cercando di fare un ul-timo paradigma sul dove, come, e quando del bevuto per infine poggiare la testa sulla pietra e dormire. Ma ricordo che in nessun luogo al mondo sono veramente riuscito a dormire più di qualche ora, dopodiché richiudevo il libro nello zaino e riprendevo il cammino31.

Nel dicembre del 1998 sul palcoscenico di tre teatri del Molise Rimanelli si

esibiva come attore nel recital di un suo testo, L’Arcangelo e il ragazzo, messo in scena con la regia di Pierluigi Giorgio; una performance straordina-ria – di cui per fortuna fu realizzata una registrazione audiovisiva – che sug-geriva plasticamente l’atipicità, l’originalità, la vitalità di uno scrittore che con passione, libertà e sofferenza ha saputo far incontrare e legare nella sua tranche de vie intellettuale e nella sua scrittura due mondi, due lingue, due culture. Nell’ultima scena Giose e il suo alter ego tracciano un ultimo bilan-cio che non può che essere all’incrocio tra vita e scrittura:

30 Ivi, pp. 232-233. 31 G. Rimanelli, Familia, cit., p. 7.

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Giose — Stanco della vita, Giose? Io — Terribilmente. Giose — Ti seguo da molto, sai? Io — Sei Giose? Il mendicante che dorme dietro l’imbarcadero? Giose — Ho dormito anche dietro l’imbarcadero; ma non sono un mendican-te … Viaggio, vedi, la valigia? (musica: il tema di Lares) Io — E cosa contiene? Giose — (apre la valigia) Guarda! Io — Ma è vuota. Giose — Sì, ma una volta era piena zeppa. Infine ho dovuto buttar via tutto. Io — Ma se è vuota, a che serve? Giose — Si riempirà di nuovo: la vita continua…32

Ancora in questo ultimo tratto del suo viaggio Rimanelli continua a riempi-

re la valigia di altre storie, parole, immagini che alimentano la sua scrittura che in oltre sessanta anni ha realizzato un significativo ponte tra le due spon-de dell’Oceano.

32 Il testo del recital è ora in Familia, cit., pp. 143-183.

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Finito di stampare nel mese di gennaio 2013

da Arti Grafiche Solimene s.r.l. Via Indipendenza, 23 - Casoria

per conto delle Edizioni Il Bene Comune