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1 GLI STATI UNITI D’AMERICA TRA IMMIGRAZIONE E DIFESA DELLO SPAZIO NAZIONALE (1870/2005) INTRODUZIONE Questo studio è volto ad individuare le regole giuridiche che disciplinano il fenomeno immigratorio nell’ordinamento americano. In particolare viene affrontato l’istituto della indefinite detention in connessione a situazioni di carattere emergenziale, utilizzando in parte il concetto di «formante» 1 . L’ipotesi di partenza è che la reazione dell’ordinamento americano agli attentati alle Torri Gemelle attraverso l’invocazione dello stato di emergenza, avesse avuto delle ripercussioni del tutto particolari sullo spazio di libertà goduto dall’immigrato rispetto al regime ordinario. Perciò ci si interrogherà su quali potessero essere, all’interno di una struttura costituzionale rigida, le modalità di instaurazione del regime di eccezione utilizzate dal Legislatore e le basi giuridiche cui la giurisprudenza si sarebbe potuta riferire al fine di bilanciare l’istanza della sicurezza nazionale con quella dello status dell’immigrato nell’ordinamento americano. Ci si propone di studiare la delicata questione del valore e dell’incidenza delle misure d’eccezione sul regime costituzionale ordinario per poi analizzare la risposta legislativa e giurisprudenziale al quesito se questa normativa possa, legittimamente, provocare o meno modifiche rilevanti sull’assetto dei poteri e sul sistema di diritti fondamentali, e gli effetti del possibile contrasto provocato dalla normativa straordinaria, in un’area esposta come quella dell’immigrazione. Nella sezione dedicata alla legislazione si analizzerà l’evoluzione della Immigration Law dalle origini fino agli emendamenti post-11 settembre 2001 allo scopo di definire quali siano stati gli orientamenti ordinari del Legislatore e di contro quali le basi giuridiche utilizzate negli stati di crisi per defezionare il principio di distribuzione dei poteri tra legislativo, esecutivo e giudiziario, nonché quali siano state le garanzie costituzionali compresse o sospese. Nella sezione relativa alla politica americana nei riguardi del Sud America, si tenterà invece di fornire un excursus storico-diplomatico sui rapporti intercorsi nell’ultimo secolo tra gli Stati Uniti e gli altri paesi dell’area continentale. 1. Il quadro generale Fin dalla loro fondazione, gli Stati Uniti hanno lottato per conciliare l’immagine che avevano di sé stessi quale “Anti-Europa”, paese dell’eguaglianza e del ripudio della visione gerarchica e feudale del vecchio continente, o l’idea di un’America quale terra della libertà e asylum di tutti i popoli oppressi, con l’esigenza di preservare le libertà di quanti già stanziatisi e con le paure di disgregazione e degenerazione morale del corpo politico. La maggior parte della normativa immigratoria è infatti caratterizzata da previsioni strumentali al beneficio interno, limitando certa immigrazione e incoraggiandone altra. Le previsioni restrittive, sia in entrata sia in uscita, sono dunque motivate da uno spirito protezionistico, mosso dalla percezione dello straniero come possibile minaccia per la salute pubblica, per i lavoratori locali, per la sopravvivenza dell’ordinamento politico degli Stati Uniti. Il Legislatore americano assicura la conservazione della propria organizzazione economico-istituzionale attraverso l’Immigration Law, e quindi attraverso una politica al limite “di confine”, giocata sulle categorie di “indesiderabili” e sulle procedure di ammissione ed espulsione. Il Congresso adotta norme assolutamente illiberali fondando le categorie di inammissibili 1 Per «formante» si intende l’insieme di regole e proposizioni, non necessariamente verbalizzate, che concorrono a dare forma e ordine al gruppo sociale e pertanto individuate dal giurista per desumere il canone corretto da applicare al caso di specie che ha la sua fonte nella legge, ma necessita di essere modellato alla situazione cogente, attingendo alle ricostruzioni giurisprudenziali e alle proposizioni dottrinali, nel rispetto del principio di uniformità e costanza implicito nel concetto di regola. Cfr. SACCO R., Legal Formants: a Dynamic Approach to Comparative Law, in «American Journal of Comparative Law», 39 (1991), p. 343 ss.; Id., Introduzione al diritto comparato, Torino 1992, p. 43 ss.

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GLI STATI UNITI D’AMERICA TRA IMMIGRAZIONE

E DIFESA DELLO SPAZIO NAZIONALE (1870/2005)

INTRODUZIONE Questo studio è volto ad individuare le regole giuridiche che disciplinano il fenomeno

immigratorio nell’ordinamento americano. In particolare viene affrontato l’istituto della indefinite detention in connessione a situazioni di carattere emergenziale, utilizzando in parte il concetto di «formante»1.

L’ipotesi di partenza è che la reazione dell’ordinamento americano agli attentati alle Torri Gemelle attraverso l’invocazione dello stato di emergenza, avesse avuto delle ripercussioni del tutto particolari sullo spazio di libertà goduto dall’immigrato rispetto al regime ordinario. Perciò ci si interrogherà su quali potessero essere, all’interno di una struttura costituzionale rigida, le modalità di instaurazione del regime di eccezione utilizzate dal Legislatore e le basi giuridiche cui la giurisprudenza si sarebbe potuta riferire al fine di bilanciare l’istanza della sicurezza nazionale con quella dello status dell’immigrato nell’ordinamento americano. Ci si propone di studiare la delicata questione del valore e dell’incidenza delle misure d’eccezione sul regime costituzionale ordinario per poi analizzare la risposta legislativa e giurisprudenziale al quesito se questa normativa possa, legittimamente, provocare o meno modifiche rilevanti sull’assetto dei poteri e sul sistema di diritti fondamentali, e gli effetti del possibile contrasto provocato dalla normativa straordinaria, in un’area esposta come quella dell’immigrazione.

Nella sezione dedicata alla legislazione si analizzerà l’evoluzione della Immigration Law dalle origini fino agli emendamenti post-11 settembre 2001 allo scopo di definire quali siano stati gli orientamenti ordinari del Legislatore e di contro quali le basi giuridiche utilizzate negli stati di crisi per defezionare il principio di distribuzione dei poteri tra legislativo, esecutivo e giudiziario, nonché quali siano state le garanzie costituzionali compresse o sospese.

Nella sezione relativa alla politica americana nei riguardi del Sud America, si tenterà invece di fornire un excursus storico-diplomatico sui rapporti intercorsi nell’ultimo secolo tra gli Stati Uniti e gli altri paesi dell’area continentale.

1. Il quadro generale Fin dalla loro fondazione, gli Stati Uniti hanno lottato per conciliare l’immagine che

avevano di sé stessi quale “Anti-Europa”, paese dell’eguaglianza e del ripudio della visione gerarchica e feudale del vecchio continente, o l’idea di un’America quale terra della libertà e asylum di tutti i popoli oppressi, con l’esigenza di preservare le libertà di quanti già stanziatisi e con le paure di disgregazione e degenerazione morale del corpo politico. La maggior parte della normativa immigratoria è infatti caratterizzata da previsioni strumentali al beneficio interno, limitando certa immigrazione e incoraggiandone altra. Le previsioni restrittive, sia in entrata sia in uscita, sono dunque motivate da uno spirito protezionistico, mosso dalla percezione dello straniero come possibile minaccia per la salute pubblica, per i lavoratori locali, per la sopravvivenza dell’ordinamento politico degli Stati Uniti. Il Legislatore americano assicura la conservazione della propria organizzazione economico-istituzionale attraverso l’Immigration Law, e quindi attraverso una politica al limite “di confine”, giocata sulle categorie di “indesiderabili” e sulle procedure di ammissione ed espulsione.

Il Congresso adotta norme assolutamente illiberali fondando le categorie di inammissibili

1 Per «formante» si intende l’insieme di regole e proposizioni, non necessariamente verbalizzate, che concorrono a dare forma e ordine al gruppo sociale e pertanto individuate dal giurista per desumere il canone corretto da applicare al caso di specie che ha la sua fonte nella legge, ma necessita di essere modellato alla situazione cogente, attingendo alle ricostruzioni giurisprudenziali e alle proposizioni dottrinali, nel rispetto del principio di uniformità e costanza implicito nel concetto di regola. Cfr. SACCO R., Legal Formants: a Dynamic Approach to Comparative Law, in «American Journal of Comparative Law», 39 (1991), p. 343 ss.; Id., Introduzione al diritto comparato, Torino 1992, p. 43 ss.

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e di deportabili su ragioni a sfondo razziale, ideologico, nonché violando le libertà fondamentali di parola e di libera associazione.

Sul piano procedurale il Legislatore delega agli organi esecutivi la predisposizione di regolamenti d’attuazione della normativa formulata tendenzialmente in termini vaghi che lasciano ampio spazio alla discrezionalità dell’autorità amministrativa.

Le garanzie procedurali, a tutela del non-cittadino contro gli abusi dell’amministrazione, sono generalmente circoscritte all’ambito amministrativo stesso, laddove l’Immigration and Naturalization Service è organo di polizia, requirente e giudicante, in primo e secondo grado. L’intera procedura è affidata ad agenti amministrativi, contenendo al massimo la possibilità di ricorso giudiziario.

Le politiche di favore all’immigrazione oltre che avere degli imprescindibili riflessi sul sistema delle quote di stranieri ammissibili, si sono spese soprattutto sul piano interno, ossia nei confronti degli immigrati già approdati negli USA. Netta è infatti la distinzione tra Immigration Law e Alienage Law, ossia la legislazione relativa allo status sociale dell’immigrato una volta entrato. Sotto l’aspetto dei diritti sociali, al lavoro, alla salute, all’istruzione, si può dire che l’immigrato, soprattutto se Lawful Permanent Resident (LPR), è pressoché parificato al cittadino, rimanendo riservati a quest’ultimo il diritto di voto, il diritto di far parte di una giuria popolare e il diritto di concorrere per certe cariche elettive o di essere scelti per alcune posizioni nell’ambito dell’amministrazione pubblica. L’enorme divario resta sempre il fatto che l’immigrato, anche permanente, è passibile di espulsione al ricorrere di fattispecie pienamente ed esclusivamente individuabili dal Legislatore con efficacia anche retroattiva, e con procedure poco garantiste del rispetto del principio di due process.

Nel dettaglio vengono esaminati i metodi interpretativi, precedenti all’11 settembre, impiegati dalle corti per determinare la portata e il contenuto delle diverse norme immigratorie, con particolare attenzione al ruolo del potere giudiziario nelle delicate situazioni d’eccezione, con l’intento di rintracciare eventuali differenze ed evidenziare le innovazioni proprie della situazione attuale rispetto al passato.

La competenza federale sull’immigrazione è frutto di una ricostruzione interpretativa della Corte Suprema investita della questione a causa della mancanza di un riferimento costituzionale espresso circa la materia immigratoria, fatta eccezione per l’attribuzione al Governo centrale della competenza sulla normativa di naturalizzazione. Il dibattito che si è sviluppato risente delle ansie istituzionali dell’epoca legate alla profonda sensazione di fragilità delle istituzioni.

La Corte Suprema, nella sua funzione prima di organo di vigilanza sul rispetto delle sfere di competenza degli Stati membri e dello Stato federale, ha interpretato la Costituzione a favore di quest’ultimo, individuandone la fonte nel concetto di sovranità e concettualizzando l’immigrazione come questione internazionale più che come questione individuale.

Il primo approccio è quindi di tipo organizzativo, di distribuzione delle competenze tra Stati membri e Stato federale, in una prospettiva tutta istituzionale, laddove l’immigrato con il suo bagaglio di diritti non ha alcuna rilevanza giuridica. In questo senso la giurisprudenza elabora la Plenary Power Doctrine, con la quale riconosce un potere assoluto ed esclusivo al Congresso a discapito degli Stati membri. In ciò si compie il sodalizio tra immigrazione, politica internazionale e sicurezza interna, che sarà il leit motiv dell’intera politica immigratoria americana.

Quando la giurisprudenza non può più esimersi dal valutare la posizione soggettiva del non-cittadino in rapporto al dettato costituzionale, l’affronta mantenendo lo stesso ragionamento impiegato per determinare la collocazione della competenza immigratoria nella dialettica tra Stati membri e Stato federale, a giustificazione della propria assoluta deferenza nei confronti del potere politico. Le argomentazioni radicali della Plenary Power Doctrine utilizzate dalla Corte Suprema per consolidare la competenza immigratoria nei riguardi del Governo centrale vennero poi riprese a fondamento delle decisioni relative allo status dell’immigrato rispetto all’Immigration Law.

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CAPITOLO I

LO SVILUPPO DELLA LEGISLAZIONE SULL’IMMIGRAZIONE NEGLI

STATI UNITI D’AMERICA

Figura 1: nave di immigrati nel porto di New York all’inizio degli anni Venti.

1. L’uso della Immigration Law nella politica americana.

Con il termine Immigration Law si intende sia la legge federale che disciplina criteri e modalità di ingresso negli Stati Uniti, sia le ragioni e le procedure di espulsione. Diversa e separata è la Alienage Law, legislazione sui diritti riconosciuti agli stranieri una volta entrati negli USA.

Se l’inizio della politica immigratoria americana può farsi – idealmente – risalire al 1798, con la promulgazione degli Alien and Sediction Acts, l’Immigration Law compare solo nel 1875, quando venne emanata la prima legge immigratoria (Act 3th March 1875) con la quale si escludeva l’ingresso negli Stati Uniti ai carcerati e alle prostitute2. Inoltre è rintracciabile una legislazione statale – per la categoria degli indesiderati, che ha disciplinato il commercio degli schiavi e ha sanzionato in modo indiretto gli ingressi illegali – che tuttavia non viene classificata come parte della Immigration Law3.

Gli Alien and Sediction Acts sono il primo esempio di legge federale che contempla e regola l’istituto della deportation, prevedendo l’espulsione di quegli stranieri che si credeva potessero rappresentare un pericolo per la sicurezza nazionale. Questo provvedimento è di estremo interesse per tre ordini di ragioni: 1. rappresenta il primo atto federale in materia di immigrazione; 2. anticipa quello che sarà un leit motiv nella storia legislativa nordamericana, ossia il connubio tra legislazione in materia immigratoria e stato emergenziale; 3. rappresenta il primo esempio di restrizione ideologica nel vaglio delle condizioni necessarie alla residenza negli Stati Uniti.

Verso la fine dell’Ottocento si ha il primo vero approccio organico al fenomeno immigratorio. Vengono quindi promulgate una serie di normative strutturali di controllo degli ingressi con l’individuazione delle categorie di persone “indesiderate” e le relative procedure di espulsione. L’istituto dell’espulsione nasce come strumento “punitivo-sanzionatorio” d’ausilio all’osservanza della legislazione immigratoria. Se le procedure di esclusione (in entrata) e di espulsione (in uscita) rimangono sostanzialmente le stesse, ciò che varia sono le categorie di stranieri escludibili ed espellibili, a seconda dei diversi momenti storici.

Il Novecento è caratterizzato da una legislazione immigratoria che svolge una funzione di

2 Cfr. 18 Stat. 477, Ch. 141, Act of March 3, 1875, che proibiva l’ingresso di criminali, prostitute, idioti, lunatici, e persone che potessero facilmente costituire un peso pubblico. 3 Parte della dottrina ritiene che le leggi disciplinanti il commercio degli schiavi non possano essere catalogate come Immigration Law, in quanto si trattava di immigrazione “involontaria” e lo schiavo era considerato legalmente una quasi-persona; vd. DANIELS R., Coming to America, New York 1990, p. 5455; per un’argomentazione fondata sulla Migration or Importation Clause, art. 1, sez. 9, Constitution of the United States of America (d’ora in avanti US Cost. o USC); contro la classificazione del commercio degli schiavi come forma di immigrazione, si veda BERNS W., The Constitution and the Migration of Slaves, «Yale Law Journal» 78 (1968), pp. 198-199. Le moderne leggi immigratorie si applicano tanto all’immigrazione involontaria quanto a quella volontaria; in proposito si vedano le sentenze Plyler v. Doe, 457 US 202, 219-20, 1982, D’Agostino v. Sahli, 230 F.2d 68, 67-71, 5th Cir., 1956. Altre leggi non sono immediatamente riconoscibili come Immigration Law, perché non prevedevano direttamente la punibilità degli immigrati, ma di coloro che li trasportavano; inoltre si applicavano, indifferentemente, all’immigrazione intrastatale e interstatale ovvero tanto ai cittadini americani che agli stranieri. Secondo un orientamento minoritario, se tali distinzioni potrebbero spiegare il motivo per cui le primissime norme non sono state classificate come Immigration Law, non possono però sviare l’attenzione dalla sostanza della disciplina che resta la prevenzione o la dissuasione di masse di stranieri dall’ingresso in un paese, anche se la normativa, al contempo, regolamenta le modalità di spostamento dei cittadini, o la libertà di movimento interno, anche se si tratta di spostamenti involontari. In proposito si può richiamare la definizione di Immigration Law, come «All laws, conventions, and treaties of the United States relating to the immigration, exclusion, deportation or expulsion of aliens» in 8 USC 1101(a)(17), 1988, allo scopo di individuare le norme da includere nel corpo normativo denominato Immigration and Nationality Act (INA). Ma anche la definizione di immigrazione della scienza demografica, che include tutte le persone in entrata in un paese con riferimento alla loro nazionalità; vd. ZLOTNIK H., The Concept of International Migration as Reflected in Data Collection System, in «International Migration Review», 21 (1987), pp. 925-927. Si veda anche NEUMAN G.L., The Lost Century of American Immigration Law (1776-1875), in «Columbia Law Review», 93 (1993), pp. 1833-1901.

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epurazione “politico-ideologica”, attraverso l’individuazione dei limiti in entrata e dei motivi giustificanti l’espulsione ispirati alla necessità di difesa nazionale (legati alle ideologie politiche anarchiche e comuniste4).

Con l’affacciarsi di nuove minacce alla sicurezza interna provenienti dal terrorismo internazionale – in seguito all’attentato ad un edificio federale di Oklahoma City nel 1996 e poi con la terribile devastazione del World Trade Center e del Pentagono l’11 settembre del 2001 – gli interventi legislativi in materia immigratoria riprendono la funzione di eccezionalità legata all’ordine pubblico, anche se con modalità di risposta differenti rispetto al passato.

2. La «Immigration Law» dal 1798 al 1990.

La Costituzione americana attribuisce espressamente al Congresso la competenza in materia di commercio, di affari esteri e di sicurezza nazionale, mentre tace in riferimento alla materia immigratoria5. Dunque nei primi anni della Repubblica, ogni Stato aveva proprie leggi e propri criteri in materia, e quando il Congresso voleva adottare delle norme restrittive doveva proporne la relativa adozione agli Stati 6 . È stata la giurisprudenza a ricostruire per via interpretativa il rango costituzionale della attribuzione al potere legislativo federale della Immigration Law.

Prima del 1875, l’ Immigration Law era il punto di incontro tra politiche statali e politica federale, laddove a livello federale venivano consolidate le scelte assunte localmente. Il Congresso approvò esplicitamente le leggi sulla quarantena e le leggi statali di esclusione degli stranieri neri e l’Esecutivo esortava i governi stranieri a rispettare quelle politiche che erano espressione delle sole leggi statali. La rinuncia da parte del Governo centrale ad una normativa uniforme non era solo il frutto di quella che alcuni definiscono la «politica dei confini aperti» – in quanto mancavano il controllo dei confini e i criteri limitativi gli ingressi – ma era anche espressione del desiderio di lasciare la politica immigratoria sotto l’autorità statale. Solo a Guerra Civile terminata, quando la questione della schiavitù perse la sua forza di divisione della nazione, divenne possibile una disciplina immigratoria a livello federale.

La legge immigratoria statale, nel secolo antecedente il 1875, contemplava cinque categorie di indesiderati: i condannati, gli indigenti, i malati (era prevista la quarantena in mare e l’interruzione delle comunicazioni via terra), diverse politiche in ordine alla schiavitù a seconda delle aree, incluso il divieto della tratta degli schiavi e l’interdizione ai neri “liberi” di spostamento intrastatale, ed infine i Seamen’s Acts. Tale legislazione utilizzava poi tre metodi per garantire il rispetto della normativa: l’espulsione dello straniero indesiderato, la comminazione di una pena per chi, già espulso, fosse rientrato (mentre i neri “liberi”, che illegalmente fossero entrati in uno Stato, erano immediatamente e direttamente assoggettabili alla sanzione penale), e anche un regime sanzionatorio per il soggetto terzo responsabile per l’ingresso dello straniero indesiderato7. Figura 2: espansione degli Stati Uniti d’America dal 1803

3. Gli «Alien and Sediction Acts».

Inizialmente il Governo federale mantenne un atteggiamento prudente nell’affermare la

propria autorità sulle legislazioni statali, almeno fino al 1798, anno in cui venne promulgato un

4 Per una letteratura sulla regolamentazione ideologica dell’immigrazione vd. JOHNSON K.R., The Antiterrorism Act, The Immigration Reform Act, and Ideological Regulation in the Immigration Law: Important Lesson for Citizens and Noncitizens, in «Saint Mary’s Law Journal», 28 (1997), p. 833 ss.; HUTCHINSON E.P., Legislative History of American Immigration Policy 1798-1965, Philadelphia 1981, pp. 443-46; TILNER M.C., Ideological Exclusion of Aliens: The Evolution of a Policy, «Georgetown Immigration Law Journal», 2 (1987), pp. 53-57; SCANLAN J.A., Aliens in the Marketplace of Ideas: The Government, the Academy, and the McCarran-Walter Act, in «Texas Law Review», 66 (1988) p. 1481 ss.; per un’analisi sull’impatto della campagna anticomunista nella vita americana vd. JEZER M., The Dark Ages: Life in the United States 1945-1960, Cambridge (MA) 1982, pp. 77-106. 5 Art. 1, sez. 8, US Cost. 6 Vedi la risoluzione congressuale con la quale si prevede che gli Stati emanino leggi «for preventing the transportation of convicted malefactors from foreign countries into the United States», «Journals of the Continental Congress» 34 (16 settembre 1788), pp. 528-29. 7 Si vedano a titolo esemplificativo sui rei: Act of February 10, 1787, 1787 General Assembly Acts 40, Act of March 27, 1789, ch. 463, 3, 1788-89 Pennsylvania Acts 692, 693; sugli indigenti: Act of February 26, 1794, ch. 32, 13, 1794 Massachusetts Acts & Laws 375, 383; sul regime di quarantena: Act of March 10, 1821, ch. 127, 2, 1821 Maine Laws 443, 443, Act of March 27, 1794, ch. 53, 2, 1794 New York Laws 525, 526; sui neri «liberi»: Act of February 10, 1831, ch. 66, 2, Ind. Rev. Laws 37576, 1831, Act of December 12, 1793, ch. 23, 1, 1793 Virginia Acts 28, 28.

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pacchetto legislativo denominato Alien and Sediction Acts. Furono le forti tensioni politiche con la Francia, nel 1798, a motivare l’emanazione, da

parte del Congresso, delle prime leggi per disciplinare l’espulsione dei non-cittadini, giustificate proprio con l’esigenza di difesa nazionale.

Nell’estate del 1798, vennero emesse quattro leggi (Alien Act, Alien Enemies Act, Naturalization Act, e Sediction Act), conosciute comunemente come gli Alien and Sediction Acts. I primi tre atti riguardavano direttamente gli stranieri, mentre il Sediction Act non disciplinava strettamente la materia immigratoria, ma stabiliva la punibilità di chiunque, cittadino o non-cittadino, denigrasse un alto ufficiale federale8.

Il primo atto federale (Naturalization Act) introdusse criteri uniformi per la naturalizzazione9, nonché la previsione di un sistema di registrazione per tutti gli stranieri bianchi in arrivo negli USA, i quali dovevano dichiarare il proprio ingresso presso un ufficiale a ciò preposto entro quarantotto ore dall’arrivo, al fine di ottenere un certificato di registrazione. Per gli stranieri già residenti negli Stati Uniti l’obbligo di registrazione aveva una scadenza di sei mesi dall’ingresso.

La registrazione rappresentava la data dalla quale iniziava la decorrenza del periodo di quattordici anni per ottenere la naturalizzazione. Inoltre la mancata registrazione comportava un illecito penale, punito con una pena pecuniaria (fine) e la necessità di fornire adeguate garanzie sul proprio comportamento futuro.

Sette giorni dopo venne promulgato l’Alien Act 10 (Act Concerning Aliens), misura temporanea – in vigore solo per un biennio11 – per espellere alcune categorie di stranieri che costituivano una minaccia per l’America.

L’Alien Act autorizzava il Presidente a deportare gli stranieri che erano considerati « un pericolo per la pace e la sicurezza degli Stati Uniti» o nei confronti dei quali «[il Presidente avesse] reasonable grounds to suspect are concerned in any treasonable or secret machinations against the government12».

Dunque il Presidente poteva espellere uno straniero con l’emissione dell’ordine di lasciare il suolo americano entro una determinata data, altrimenti il soggetto sarebbe stato perseguito penalmente e condannato ad un massimo di tre anni di prigione. La condanna aveva come conseguenza l’interdizione a vita dalla possibilità di assumere la cittadinanza americana13.

Il Presidente poteva inoltre disporre la rimozione forzata di uno straniero se ragioni di pubblica sicurezza avessero richiesto uno «speedy removal»14. Lo straniero che, dopo essere stato espulso, fosse rientrato negli Stati Uniti commetteva un reato, punito con la reclusione per un periodo di tempo stabilito dal Presidente in relazione alle ragioni di pubblica sicurezza.

Ancora la § 4 riconosceva alle corti federali piena giurisdizione in relazione a «… tutti i reati e le infrazioni commesse in violazione di questa legge», mentre tutte le ulteriori questioni erano rimesse all’autorità del Presidente.

Questo atto fu veementemente condannato nelle Virginia and Kentucky Resolutions15 come un atto lesivo sia dei diritti individuali sia della divisione delle competenze tra Governo

8 Cfr. 1 Stat. 596, Ch. 74, 1798. 9 Il Naturalization Act (1798) portò il periodo di residenza, per divenire un cittadino americano, da cinque a quattordici anni, eliminando così i precedenti criteri di ammissibilità previsti a livello statale. Interdisse la naturalizzazione degli stranieri provenienti da Paesi in guerra con gli Stati Uniti. Il Congresso richiedeva un periodo di quattordici anni dalla registrazione come requisito per ottenere la naturalizzazione, per ragioni di sicurezza nazionale, in modo da consentire adeguate indagini nei confronti dei potenziali stranieri sovversivi, 1 Stat. 566, Ch.54, Act of June 18, 1798, abrogato dal Ch. 28, 5, 2 Stat. 153, 155, Act of April 14, 1802. Il Naturalization Act produsse scarsi effetti, tanto è vero che, alcuni anni dopo la sua adozione, un quotidiano lo descriveva come «been disregarded both by aliens themselves and by the magistrates of place in which they resided», Kentucky Palladium, gennaio 1802, in FRANKLIN F.G., The Legislative History of Naturalization in the United States, Chicago, 1906, p. 107. Con la sua abrogazione, nel 1802, l’obbligo di registrazione venne trasformato da requisito legale in presupposto necessario per ottenere la naturalizzazione, come documento probante il periodo di residenza prescritto al fine della naturalizzazione, Ch. 28, 2, 2 Stat. 153, 154, Act of April 14, 1802. Successivamente venne abrogata anche tale previsione in quanto «[t]he neglect is common, nay, almost universal, because aliens do not know the law, and would not, for sometime after their arrival, conform to it even if they did … Some courts do, and others do not, carry this part of it into execution… It would be better at once to dispense with this registry», commento del Repubblicano BUCHANAN J., 4 Cong. Deb., pt. 2, 1828, 2556. 10 Cfr. 1 Stat. 570, Ch. 58, Act of June 25, 1798 11 Cfr. Section 6, 1 Stat. 570, Ch. 58, 25 giugno 1798. 12 Cfr. § 1, 1 Stat. 570, Ch. 58, 1798. 13 Idem. 14 § 2, 1 Stat. 570, Ch. 58, 1798. 15 Virginia Resolutions, 24 dicembre 1798 in, ELLIOT J., The Debates in the Several Conventions on the Adoption of the Federal Constitution, IV, Philadelphia 1836, p. 528; Kentucky Resolutions, 19 novembre 1798, in ELLIOT J., op. cit., p. 540.

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federale e Governi statali16. Successivamente il Congresso approvava una nuova legge: l’Alien Enemies Act17 (Act

Respecting Alien Enemies) che prevedeva l’arresto, la detenzione o l’espulsione (senza udienza davanti ad un organo giudiziario) degli stranieri, cittadini di una nazione nemica, in caso di una dichiarazione ufficiale di aggressione, intesa come «… declared war between the United States and any foreign nation or government, or any invasion or predatory incursion shall be perpetrated, attempted or threatened against the territor of the United States18 …».

L’utilizzo del vocabolo «enemy» ha un significato prettamente militare, in quanto serve a distinguere gli stranieri cittadini di una nazione “amica”, ossia con la quale gli Stati Uniti intrattengono rapporti pacifici, e i cittadini di una nazione “nemica”, con la quale al contrario è in corso una guerra.

Dopo quanto esposto va richiamata l’attenzione su due aspetti di questo intervento: il primo è quello concernente il ricorso al concetto costituzionale di «stato di crisi»; il secondo è l’assenza di una dichiarazione di guerra, nel caso di specie nei confronti della Francia.

Quanto al primo problema si nota che tale normativa rappresenta un tipico esempio di ricorso alla concentrazione del potere in un solo organo statale e di sospensione delle garanzie costituzionali relative ai diritti e alle libertà, come disposizione di un regime derogatorio della Costituzione, in casi eccezionali (stato di guerra o stato d’assedio), proprio di ogni Stato liberale19.

Quanto al secondo problema è caratteristico che la formulazione di una norma, che prevede il conferimento eccezionale – dichiarazione di guerra – dei pieni poteri al Presidente nel disporre l’arresto, la detenzione, nonché la sua durata e l’espulsione degli stranieri, avvenga in assenza di una dichiarazione di guerra.

L’Alien Enemies Act è ancora oggi in vigore codificato nel codice degli Stati Uniti (50 USC 21-24, 2001). Nonostante abbia ad oggetto l’espulsione di non-cittadini, questa legge non può essere annoverata nella normativa immigratoria, bensì tra le previsioni preventive dell’eventualità di un regime derogatorio nel caso di dichiarato stato di crisi. L’intera normativa è subordinata alla dichiarazione ufficiale dello stato di guerra o di assedio, presentando i presupposti propri del regime straordinario: 1) eccezionalità, 2) temporaneità, 3) necessità, intesa quale suprema esigenza di conservazione della Costituzione e quindi prevalente sulla legalità formale.

4. Immigration Law come strumento di epurazione politica.

Verso la fine dell’Ottocento vengono promulgate delle normative organiche di controllo degli ingressi e viene disciplinato l’istituto dell’espulsione come strumento d’ausilio rispetto ai criteri limitativi delle ammissioni imposti dalla legge. In altre parole l’espulsione è originariamente disegnata come mezzo con il quale far rispettare le leggi immigratorie, come procedura mediante la quale riportare al di fuori dei confini statunitensi quanti siano entrati in violazione delle leggi.

La legislazione del XIX secolo ha una spiccata matrice internazionalistica. I trattati con le nazioni limitrofe, con diritti reciproci di ingresso per ragioni commerciali, spingono il Governo federale a promulgare norme volte a disciplinare il fenomeno immigratorio.

Si ha quindi una progressiva espansione delle ragioni di inammissibilità, e di conseguenza di espulsione, fino alla generica previsione di esclusione di «ogni straniero che entri negli Stati 16 Per la letteratura sull’argomento vd.: NEUMAN G.L., Whose Constitution?, in «Yale Law Journal», 100 (1991), p. 909 ss.; MILLER J.C., Crisis in Freedom: The Alien and Sediction Acts, Boston 1963; MCLAUGHLIN A.C., A Constitutional History of the United States, New York 1935, p. 470; KOCH A., AMMON H., The Virginia and Kentucky Resolutions: An Episode in Jefferson’s and Madison’s Defence of Civil Liberties, in «William & Mary Quarterly», V, 3rd series (1948), pp. 145-150. 17 Cfr. 1 Stat. 577, Ch. 66, Act of July 6, 1798. 18 § 1, Ch. 66, 1 Stat. 577, 6 Luglio 1798. 19 Si può notare lo schema del conferimento parlamentare dei poteri attraverso cui si deroga al regime normale di separazione a favore del Presidente e del Governo federale, e la sospensione delle garanzie costituzionali relative ai diritti di libertà, possibilità contemplata in Costituzione all’art. 1, sez. 9, 2. La Costituzione attribuisce al Congresso diversi «enumerated war powers»: autorizza il Congresso a «declare war, grant letters of marque and reprisal, and make rules concerning captures on land and water», art. 1, sez. 8, 11; «provide for the common defence», art. 1, sez. 8, 1; «raise and support armies», art. 1, sez. 8, 12; «provide and maintain a navy», art. 1, sez. 8, 13; «provide for calling forth the militia to execute the laws of the Union, suppress insurrections and repel invasions», art. 1, sez. 8, 15; «make rules for the government and regulation of the land and naval force», art. 1, sez. 8, 14; la Costituzione investe il Governo federale dell’obbligo di proteggere ogni Stato «against invasion» e «against domestic violence», art. 4, sez. 4. Inoltre lo autorizza a «make all laws which shall be necessary and proper for carrying into execution the foregoing powers», art. 1, sez. 8, 18.

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Uniti in violazione della legge20». È con il Novecento – con l’unica eccezione rappresentata dagli Alien Acts del 1798 – che

la legislazione immigratoria viene utilizzata come strumento di difesa nazionale, ossia come filtro in ingresso e in uscita per rimuovere dal suolo americano quei soggetti che, a seconda delle emergenze storiche, vengono considerati un pericolo per la sicurezza economica, sociale e politica del paese. Se la procedura di esclusione rimane la stessa, sono le ragioni che determinano l’inammissibilità e l’espulsione degli stranieri ad essere ampliati, di volta in volta, a seconda delle necessità del momento.

La commistione tra sicurezza nazionale e legge immigratoria scandisce la maggior parte della storia legislativa in materia: il Congresso e l’Esecutivo hanno di volta in volta regolato la normativa immigratoria per prevenire o combattere situazioni critiche per la sicurezza interna.

A seguito dell’assassinio del Presidente McKinley nel 1901 da parte dell’anarchico Leon F. Czolgosz, un cittadino americano con cognome straniero, segue la promulgazione di una norma che prevede l’esclusione, in entrata, di persone che sono membri o soci di organizzazioni che promuovono o insegnano la dottrina anarchica; la norma prevede inoltre l’esclusione degli «anarchici, o delle persone che professano il rovesciamento con la forza del Governo degli Stati Uniti … o l’assassinio [politico]21».

Tale previsione viene successivamente estesa alle ragioni di espulsione dalla § 19 dell’Act del 1917, che stabilisce la deportabilità di «ogni straniero che in un qualsiasi momento successivo al suo ingresso sia trovato professare [il sovvertimento dell’ordinamento politico costituito]»22.

Con la Prima Guerra Mondiale l’impatto di regolamentazione della legge viene esteso ulteriormente, ricomprendendo, tra le ragioni determinanti l’inammissibilità e l’espulsione dei non-cittadini, anche l’essere «member of or affiliated with any organization that entertains a belief in23» o «to distribute any written or printed matter which advises, advocates, or teaches any of the proscribed doctrines, or who are members of or affiliated with any group or organization that does any of these acts24».

Nel 1940 si ha un nuovo rafforzamento25 con lo scopo di garantire l’espulsione di ogni straniero associato ad un’organizzazione sovversiva «for no matter how short a time or how far in the past», secondo quanto risulta dal rapporto del Senato sul progetto di legge26. A norma di tale legge viene impedito l’ingresso negli Stati Uniti alle seguenti persone: anarchici, stranieri che si oppongano a qualsiasi «organized government», stranieri che promuovano il rovesciamento violento dell’ordinamento politico e giuridico degli Stati Uniti, o l’assassinio politico, o la distruzione della proprietà privata, o azioni di sabotaggio; ancora sono inammissibili coloro che «advise, advocate, or teach, or who are members of or affiliated with organizations that advise, advocate, or teach these doctrines», o coloro che «write, publish, or who knowingly circulate, distribuite, or have in their possession for the purpose of circulation, distribution, publication, or display, any written or printed matter which advises, advocates, or teaches any of the proscribed doctrines, or who are members of or affiliated with any group or organization that does any of these acts» ed infine sono banditi quanti finanzino in qualsiasi forma «giving, loaning, or promising money to be used for teaching, advising, or advocacy» tali gruppi o organizzazioni.

La procedura è sempre la stessa 27 . Lo straniero che, al momento della richiesta d’ammissione o in un momento successivo il suo ingresso regolare, sia ritenuto inammissibile o deportabile per una delle ragioni stabilite dalla legge, di volta in volta, può essere preso in custodia preventivamente. Tale disposizione è, in pendenza del procedimento di rimozione, soggetta a revisione, da parte del Secretary of Labor, fino al 1917, quindi dell’Attorney General. Questi può, a sua discrezione, confermare la detenzione o rimettere lo straniero in libertà

20 Cfr. §11, Ch. 551, 24 Stat. 1086, 1891. 21 «Anarchists, or persons who believe in or advocate the overthrow by force or violence of the Government of the United States … or the assassination of public officials», § 2, Ch. 1012, 32 Stat. 1219, 1903. 22 «Any alien who at any time after entry shall be found advocating, or teaching the unlawful destruction of property, or advocating or teaching anarchy, or the overthrow by force or violence of the Government of the United States or of al forms of law or the assassination of public officials», § 19, Ch. 29, 39 Stat. 889, 1917. 23 Cfr. § 1, Ch. 186, 40 Stat. 1012, Anarchist Act 1918. 24 Cfr. § 1, Ch. 251, 41 Stat. 1008, 1920. 25 Nel 1940 viene promulgata una legge, con efficacia retroattiva, che modifica quella del 1918, stabilendo l’espulsione per «any alien who was at the time of entering the United States, or has been at any time thereafter, a member of [any society, group, or assembly of persons advocating such overthrow], shall … be deported …. The provisions of this section shall be applicable to the classes of aliens mentioned in this Act, irrespective of the time of their entry into the United States.», § 23(b), Ch. 439, 54 Stat. 673, Alien Registration Act, 1940. 26 Cfr. S. Rep. No. 1796, 76th Cong., 3d Sess. 3, 1940. 27 Cfr. § 19, 39 Stat. 889, Immigration Act, 1917, codificato nel titolo 8 del United States Code (8 USC) § 155.

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condizionata o su cauzione. Nel procedimento allo straniero è riconosciuto il diritto alla difesa. È a carico del Governo l’onere probatorio di dimostrare il carattere sovversivo dell’organizzazione l’affiliazione alla quale fonda la ragione dell’inammissibilità o dell’espulsione; mentre è a carico dello straniero di dimostrare il suo diritto all’ingresso o a rimanere.

Se il procedimento si conclude con un ordine definitivo di rimozione, decorrono sei mesi dalla pronuncia del provvedimento, perché questo sia reso effettivo, durante i quali lo straniero può essere detenuto, rimesso in libertà condizionata o su cauzione. Decorsi inutilmente i sei mesi, lo straniero «shall become subject to such further supervision and detention pending eventual deportation as is authorized».

Con l’era della Guerra Fredda viene aggiunta, ai motivi di inammissibilità e di espulsione, l’apologia di comunismo28, ma l’aspetto più interessante è che ora, perché sia determinata l’inammissibilità, è sufficiente una presunzione29.

Il Subversive Activities Control Act del 1950 rende inammissibili gli stranieri che abbiano sostanziali o anche solo vaghi legami con attività che «would be prejudicial to the public interest, or would endanger the welfare or safety of the United States30»; inoltre impedisce l’ingresso degli stranieri che diffondono «the economic, international, and governmental doctrines of world communism or the economic and governmental doctrines of any other form of totalitarianism» o circa i quali «there is reason to believe» che, una volta entrati negli USA, possano facilmente implicarsi in attività eversive o in ogni altra attività che si proponga il compito di atti di violenza aventi per fine la soppressione dell’ordine democratico.

Il McCarran-Walter Act del 1952, approvato come Immigration and Nationality Act (INA), riunifica le precedenti immigration laws in un unico atto, che oggi rappresenta il testo normativo in materia immigratoria, attualizzato e riformato dai successivi interventi legislativi31.

Sarà l’intervento legislativo del 1990, in un clima geopolitico di distensione, ad abrogare le previsioni fondanti l’inammissibilità e l’espulsione sulla base delle opinioni politiche, della aderenza o partecipazione ad organizzazioni di matrice anarchico-comunista32, riportando così l’Immigration Law alla sua funzione di disciplina organica dei confini. Figura 3: gli attuali confini degli Stati Uniti d’America

5. La Riforma degli «Immigration acts» del 1996.

Nel 1996 sono state emanate due fondamentali leggi immigratorie: Antiterrorism and

Effective Death Penalty Act 33 (AEDPA) e Illegal Immigration Reform and Immigrant Responsibility Act 34 (IIRIRA), che hanno emendato alcuni punti dell’Immigration and Nationality Act.

L’elemento di assoluta innovazione, rispetto alla legislazione precedente, consiste nella sostituzione delle due precedenti procedure – l’una di esclusione, l’altra di espulsione – con una procedura unificata «removal proceeding». Se a norma della precedente normativa alle due distinte categorie di stranieri – escludibili e deportabili – corrispondevano anche due distinte procedure di rimozione, ora è stata mantenuta la distinzione tra ragioni di inammissibilità e ragioni di deportabilità, ma è stato adottato un unico procedimento di esclusione.

È altresì vero che viene prevista una speciale procedura, cosiddetta Alien terrorist removal procedures, prevista dall’Antiterrorism and Effective Death Penalty Act e che si affianca a quella di ordinario removal.

28 Cfr. § 241(a), 66 Stat. 212, McCarran-Walter Act, 1952. 29 Cfr. § 22(3), Ch. 1024, 64 Stat. 987, Subversive Activities Control Act, 1950; «Any alien who may appear to the examining immigration officer or to the special inquiry officer during the examination before either of such officers to be excludable … shall be temporarily excluded … . If the Attorney General is satisfied that the alien is excludable under of such paragraphs on the basis of information of a confidential nature, the disclosure of which the Attorney General, in the exercise of his discretion, and after consultation with the appropriate security agencies of the Government, concludes would be prejudicial to the public interest, safety, or security, he may in his discretion order such alien to be excluded and deported without any inquiry or further inquiry by a special inquiry officer.», § 235(c), 66 Stat. 212, 1952. 30 Cfr. § 22, Pub. Law, 831, ch. 1024, Titolo 1 dell’Internal Security Act, 1950. 31 D’ora in avanti i riferimenti all’Immigration and Nationality Act si riferiscono al corpo normativo all’attivo dei vari emendamenti e non già solo al testo del McCarran-Walter Act. 32 § 601, 101 P.L. 649, 1990. 33 Pub. L. No. 104 -132, 24 Aprile 1996, ristampata in 1996 «United States Code Congressional and Administrative News» (d’ora in avanti USSCAN), 110 Stat. 1214. 34 Pub. L. No. 104 -208, 30 Settembre 1996, ristampata in 1996 USCCAN, 110 Stat. 3009.

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A) Il Removal Proceeding ordinario previsto dall’Illegal Immigration Reform and Immigrant Responsibility Act (IIRIRA)

Le sezioni 212 e 237 elencano le ragioni che determinano rispettivamente l’inammissibilità e la deportabilità di un straniero.

Per inammissibile si intende lo straniero che, ricorrendo una delle ragioni di cui alla § 212 dell’Immigration and Nationality Act, non può ottenere il visto d’ingresso e per l’ammissione negli Stati Uniti, o che sia entrato illegalmente.

Per deportabile si intende lo straniero che si trova già in territorio americano legalmente, ma la permanenza del quale, ricorrendo una delle ragioni di cui alla § 237 dell’Immigration and Nationality Act, non può continuare.

Tra le ragioni di inammissibilità e deportabilità ricorrono quelle relative alla sicurezza interna35.

A norma della legge immigratoria del 1996, uno straniero sospettato di essere coinvolto in attività di tipo terroristico viene arrestato e nei suoi confronti è avviato il procedimento di espulsione o mediante la contestazione del reato di terrorismo, oppure attraverso l’addebito di una violazione della normativa immigratoria, quindi può essere fissata una cauzione, a discrezione dell’Immigration and Naturalization Service (INS).

La § 219 Immigration and Nationality Act, intitolata «Designation of foreign terrorist organization», definisce e descrive la modalità con la quale vengono individuate le organizzazioni terroristiche ai fini delle procedure di rimozione dei non-cittadini. Il Segretario di Stato indica le organizzazioni che, alla luce delle informazioni a sua disposizione, vengono qualificate come organizzazioni terroristiche internazionali – «foreign terrorist organization» – costituenti un pericolo per la sicurezza nazionale e per i cittadini statunitensi. La designazione deve essere comunicata al Congresso e quindi pubblicata nel Registro Federale. Ha validità biennale, con possibilità di rinnovo.

Ai fini delle procedure di rimozione, l’appartenenza ad un’organizzazione individuata nella sezione costituisce una presunzione di colpevolezza. Pertanto lo straniero membro dell’organizzazione terroristica è di per se stesso inammissibile. Al contrario la mera appartenenza ad organizzazioni terroristiche non designate dal Segretario di Stato, con la procedura descritta dalla summenzionata sezione dell’Immigration and Nationality Act, non è di per sé sufficiente a determinare l’inammissibilità di un soggetto, ma è necessario provare la sua personale partecipazione alle attività terroristiche.

A norma della § 240 Immigration and Nationality Act, può essere istruito un removal proceeding nei confronti di due categorie di non-cittadini: a) «excludable», ossia lo straniero in arrivo, o già presente negli Stati Uniti senza però essere stato ammesso o paroled36, b) lo straniero regolarmente ammesso ma «deportable»37.

Primo atto del procedimento è la notifica dell’ordinanza di apparizione davanti all’immigration judge38. La procedura di rimozione può essere preceduta dall’arresto dello straniero, che può essere disposto sia con mandato, che senza mandato39. Entro ventiquattro ore dall’arresto se non viene istruito il procedimento di rimozione, deve esserne disposto il rilascio. Nello stesso lasso di tempo l’Immigration and Naturalization Service deve decidere se continuare la detenzione dello straniero o se disporne il rilasciato su cauzione40. Nel caso in cui

35 Per «Security and related grounds » di inammissibilità § 212(a)(3) Immigration and Nationality Act, codificato in 8 USCA § 1182; per «Security and related grounds » di deportabilità § 237(a)(4) Immigration and Nationality Act, codificato in 8 USCA § 1227. 36 § 212 Immigration and Nationality Act, 8 «United States Code Annotated» (d’ora in avanti USCA) § 1182. 37 § 237 Immigration and Nationality Act, 8 USCA § 1227. 38 La notifica della «Notice to Appear» (formalmente è un Order to Show Cause) può avvenire di persona o per posta ordinaria, in quest’ultimo caso verrà inviata all’ultimo indirizzo, conosciuto, dello straniero. Al fine di garantire al soggetto la possibilità di essere rappresentato da un avvocato, l’udienza non può essere fissata prima che siano decorsi dieci giorni dalla notifica. Lo straniero ha facoltà di chiedere, per iscritto, l’anticipazione dell’udienza, § 239 Immigration and Nationality Act, 8 USCA § 1229. 39 Arresto con mandato, § 236 Immigration and Nationality Act, 8 USCA § 1226; arresto senza mandato «Any officer or employee of the Service authorized under regulations prescribed by the Attorney General shall have power without warrant ... (2) to arrest any alien who his presence or view is entering or attempting to enter the United States in violation of any [immigration] law or regulation, or to arrest any alien in the United States, if he has reason to believe that the alien so arrested is in the United States in violation of any such law or regulation and is likely to escape before a warrant can be obtained for his arrest, but the alien arrested shall be taken without unnecessary delay for examination before an officer of the Service having authority to examine aliens as to their right to enter or remain in the United States», § 287(a)(2) Immigration and Nationality Act, 8 USCA § 1357. 40 «…the Attorney General 1) may continue to detain the arrested alien; and 2) may released the alien on A) bond of at least $1,500 with security approved by, and containing conditions prescribed by, the Attorney General; or B) conditional parole…», § 236 Immigration and Nationality Act, 8 USCA § 1226.

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si proceda nei confronti di uno straniero sospettato di essere inammissibile o deportabile per legami con il terrorismo, l’Immigration and Nationality Act ne impone la detenzione obbligatoria.

L’onere probatorio grava sul non-cittadino per quanto riguarda la sua ammissibilità, mentre è a carico del Governo in caso di espulsione 41 . Allo straniero, sottoposto al procedimento, è riconosciuto il “privilegio” dell’assistenza legale e gli è data «la ragionevole opportunità di esaminare le prove [della sua inammissibilità o deportabilità], di presentare prove a proprio favore, e di svolgere un contro esame dei testimoni governativi42». Questi diritti vengono meno nel caso in cui il Governo basi le ragioni della rimozione su «national security information».

Al termine del procedimento il giudice decide, sulla base degli elementi addotti nel procedimento dalle parti, se lo straniero deve essere rimosso dagli Stati Uniti.

La § 241 Immigration and Nationality Act prevede un «removal period» di novanta giorni dalla pronuncia dell’ordine definitivo di espulsione, entro il quale l’espulsione deve essere portata a termine. Durante tale periodo, la detenzione dello straniero è obbligatoria ed è esclusa qualunque possibilità di rilascio, se l’espulsione è stata ordinata sulla base di determinate ragioni di inammissibilità o deportabilità, tra le quali il terrorismo43. Se l’espulsione non viene effettuata entro i novanta giorni, la detenzione può essere prolungata44, oltre il removal period, per alcune categori 45 di non-cittadini tra i quali coloro che siano stati giudicati inammissibili/deportabili a causa del coinvolgimento in attività terroristiche.

È poi contemplata una procedura di rimozione abbreviata – «expedited removal» – applicabile ai soli stranieri “in arrivo” sospettati di essere inammissibili per motivi relativi alla sicurezza, che ne consente la rimozione senza svolgimento di un’udienza formale46.

A discrezione di un agente immigratorio o di un immigration judge, allorquando un non-cittadino sia ritenuto (suspected) inammissibile ricorrendo una delle ragioni di inammissibilità 47 , può essere ordinata la rimozione senza che siano svolte approfondite (further) indagini né sia disposta l’udienza, prevista ordinariamente. L’agente o l’immigration judge hanno l’obbligo di darne notizia all’Attorney General, al quale compete il riesame. Laddove lo Attorney General ritenga, sulla base delle informazioni confidenziali a sua disposizione e sulla base delle ulteriori informazioni ricevute dalle competenti agenzie governative per la sicurezza interna, sufficientemente provata l’inammissibilità dello straniero, ne conferma l’ordine di rimozione con procedura semplificata 48 ; altrimenti disporrà il procedimento ordinario.

B) Alien terrorist removal procedures. L’Antiterrorism and Effective Death Penalty Act prevede un tribunale speciale ed una

41 «an applicant for admission [has the burden to show] that the alien is clearly and beyond doubt entitled to be admitted and is not inadmissible under section 212 [8 USCA § 1182]; or by clear and convincing evidence, that the alien is lawfully present in the United States pursuant to a prior admission.», § 240(c)(2) Immigration and Nationality Act; «the Service has the burden of establishing by clear and convincing evidence that, in the case of an alien who has been admitted to the United States, the alien is deportable.», § 240(c)(3)(A) Immigration and Nationality Act. 42 «the alien shall have a reasonable opportunity to examine the evidence against the alien, to present evidence on the alien’s own behalf, and to cross-examine witnesses presented by the Government», § 240(b)(4)(B) Immigration and Nationality Act, 8 USCA § 1229a. 43 § 241(a)(2) Immigration and Nationality Act, 8 USCA § 1231. 44 «may be detained beyond the removal period [90 days following the entry of final order of removal]», INA § 241 (a)(6). 45 Le categorie di non-cittadini, raggiunti da un ordine di espulsione, per le quali non può essere disposto il rilascio sono: a) coloro che hanno commesso, in un momento successivo al loro ingresso regolare negli USA, due o più reati di «moral terpitude», b) un «aggravated felons», c) coloro che hanno commesso «drug crimes, firearms offences, or miscellaneous crimes», d) coloro che avendo commesso un reato di «moral terpitude» sono stati condannati ad un almeno un anno di reclusione, e) persone coinvolte in attività terroristiche, § 233(c) Immigration and Nationality Act, 8 USCA § 1226. 46 «Removal of aliens inadmissible on security and related grounds», § 235(c) Immigration and Nationality Act, 8 USCA § 1225. 47 Le ragioni di inammissibilità sono quelle di «Security and related grounds», «Terrorist activities», «Foreign policy», § 212(A)(B)(C) Immigration and Nationality Act. 48 «If the attorney General (i) is satisfied on the basis of confidential information that the alien is inadmissible …, and (ii) after consulting with appropriate security agencies of the United States Government, concludes that disclosure of the information would be prejudicial to the public interest, safety, or security, the Attorney General may order the alien removed without further inquiry or hearing by an immigration judge.», §235(c)(2)(B) Immigration and Nationality Act, 8USCA § 1225.

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procedura di espulsione ad hoc per gli stranieri qualificati come terroristi49. In generale, ai fini della normativa immigratoria per “alien terrorist” si intende «ogni

straniero che è stato, o è attualmente impegnato, o in un qualsiasi momento successivo al suo ingresso negli Stati Uniti ha partecipato ad un’attività di stampo terroristico50.

Il tribunale speciale è composto di cinque giudici federali distrettuali nominati dal Chief Justice of the United States per un quinquennio51. I procedimenti davanti a tale tribunale possono essere istruiti solo dall’Attorney General, nel caso in cui questi «sia in possesso di informazioni qualificanti lo straniero come un terrorista, secondo la definizione contenuta nella legge»52, anche se nulla sembra evidenziare un obbligo dell’Attorney General ad adire tale tribunale53.

La speciale procedura si applica solo se l’Attorney General attesta e un solo giudice, componente il tribunale ad hoc, determina che: «a) lo straniero è un terrorista; b) lo straniero è fisicamente sul territorio americano; c) la sua espulsione attraverso la procedura ordinaria potrebbe costituire un rischio per la sicurezza nazionale54». Come giurisdizione ad hoc, alla “removal court” sono state attribuite competenze delimitate ratione materiae e loci.

Ratione materiae il Tribunale è competente per i soli casi in cui l’espulsione venga motivata dalla sussistenza di elementi sufficienti – informazioni di fonte governativa riservate – a giustificare l’accusa di “alien terrorist”.

Ratione loci il Tribunale ha competenza limitatamente ai non-cittadini fisicamente presenti negli Stati Uniti, a prescindere però dal luogo in cui sia stata commessa l’attività terroristica.

Nei confronti degli stranieri “in arrivo”, l’Immigration and Nationality Act conferisce agli agenti e giudici immigratori la possibilità di ordinarne la “rimozione”, ricorrendone i presupposti di inammissibilità per motivi di sicurezza interna. Se l’Attorney General ritiene le informazioni soddisfacenti, o se dispone di ulteriori informazioni confidenziali, la rivelazione delle quali potrebbe pregiudicare la pubblica sicurezza o il pubblico interesse, può ordinarne la rimozione senza ulteriori indagini, né udienza davanti all’immigration judge55.

L’Attorney General può disporre la detenzione di ogni straniero soggetto a «such certification» 56 , eccezion fatta per il caso in cui l’individuo sia un «Lawful Permanent Residence, (LPR)». Ai Lawful Permanent Residence è riconosciuto il diritto ad un’udienza per il rilascio prima che il giudice fissi quella per l’espulsione. L’onere probatorio, relativo allo stato di residente permanente, all’assenza del pericolo di fuga e al non costituire un pericolo per la sicurezza nazionale e della collettività, è a carico dello straniero57.

L’udienza per l’espulsione deve svolgersi il più celermente possibile ed è aperta al pubblico. Allo straniero deve essere data notizia del luogo e del giorno in cui si svolgerà l’udienza, nonché della natura dell’imputazione, «including a general account of the basis for the charges», a meno che, potendo la rivelazione delle informazioni costituire un pericolo per la sicurezza nazionale, non si renda opportuna la trattazione ex parte e in camera58. L’accusato ha 49 Cfr. §§ 501-507 Immigration and Nationality Act, 8 USCA §§ 1531-1537. 50 «As used in this Act, the term “terrorist activity” means any activity in which is unlawful under the laws of the place where it is committed (or which, if it had been committed in the United States, would been unlawful under the laws of the United States or any State) and which involves any of the following: (I) The highjacking or sabotage of any conveyance (including an aircraft, vessel, or vehicle). (II) The seizing or detaining, and threatening to kill, injure, or continue to detain, another individual in order to compel a third person (including a governmental organization) to do or abstain from doing any act as an explicit or implicit condition for the release of the individual seized or detained. (III) A violent attack upon an internationally protected person (as defined in section 1116(b)(4) of Title 18) or upon the liberty of such a person. (IV) An assassination. (V) The use of any (a) biological agent, chemical agent, or nuclear weapon or device, or (b) explosive, firearm, or other weapon or dangerous device (other than for mere personal monetary gain), with intent to endanger, directly or indirectly, the safety of one or more individuals or to cause substantial damage to property. (VI) A threat, attempt, or conspiracy to do any of the foregoing.», § 212 (a)(3)(B)(iii) Immigration and Nationality Act. 51 § 502 (a) Immigration and Nationality Act, 8 USCA § 1532. 52 § 503 Immigration and Nationality Act, 8 USCA § 1533. 53 Vedi anche il testo della legge che utilizza il condizionale: «… [the Attorney General] may seek removal of the alien under this title by filing an application with the removal court…». 54 § 503(a), (c) Immigration and Nationality Act, 8 USCA § 1533. 55 § 235 (c)(2)(B)(ii) Immigration and Nationality Act, 8 USCA § 1225. 56 § 506 (a)(1) Immigration and Nationality Act, 8 USCA § 1536. 57 § 506 (a)(2) Immigration and Nationality Act, 8 USCA § 1536. 58 È previsto che allo straniero non venga fornito più che un sunto delle «classified information» se il giudice ritenga che «(I) the continued presence of the alien in the Unite States would likely cause serious and irreparable harm to the national security or death or serious bodily injury to any person, and (II) the provision of the summary would likely cause serious and irreparable harm to the national security or death or serious bodily injury to any person.», § 504 (e)(3) Immigration and Nationality Act, 8 USCA § 1534. In alcuni casi, se lo straniero è un LPRs, il giudice nomina un «special attorney to assist the alien, (I) by reviewing in camera the classified information on behalf of the alien, and (II) by challenging through an in camera proceeding the veracity of the evidence contained in the classified

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diritto di essere presente all’udienza e di ricevere assistenza legale59. Figura 4: la Corte Suprema degli Stati Uniti a Washington (DC)

6. Emendamenti e nuove previsioni normative dopo l’11 settembre 2001.

I devastanti attentati terroristici dell’11 settembre 2001 hanno sollevato enormi questioni

di sicurezza nazionale, alle quali l’amministrazione Bush ha risposto con una normativa molto complessa e ramificata in diversi settori della vita pubblica americana, tra cui ovviamente la politica immigratoria, dal momento che gli autori degli atroci attentati erano persone immigrate negli USA. Compiendo una panoramica generale, si può dire che l’attività normativa – del Congresso e dell’Esecutivo – in ambito immigratorio ispirata alla sicurezza nazionale, è stata direzionata grosso modo in sei aree:

1. detenzione; 2. intelligence-gathering; 3. dilatazione delle ragioni di rimozione dei non-cittadini dal paese; 4. limitazione dei diritti procedurali; 5. visti e politiche d’Oltreoceano; 6. rafforzamento dei controlli lungo i confini. Tra gli aspetti legislativi più interessanti emerge senza dubbio l’enorme potenziamento

dello strumento della detenzione in via preventiva. Primo atto significativo compiuto a ridosso degli attentati terroristici è stata la

promulgazione, da parte del Dipartimento di Giustizia, di una previsione (regulation) ad interim che ha portato da ventiquattro a quarantotto ore il fermo (detention) di uno straniero senza formulazione di un capo di imputazione. Inoltre «in tempo di emergenza e in circostanze straordinarie» l’Immigration and Naturalization Service può arrestare un soggetto, senza mandato d’arresto, e detenerlo, senza formulare un capo di imputazione, «per un periodo ragionevole», oltre le quarantotto ore dall’arresto60.

Il regolamento richiede l’esame da parte di un ulteriore ufficiale rispetto a quello che ha effettuato l’arresto oppure dello stesso ufficiale che ha effettuato l’arresto – se qualificato – allorché l’individuazione dell’ulteriore agente dovesse determinare un inutile ritardo. Se l’ufficiale esaminante dovesse ritenere, dagli elementi raccolti in prima facie, che il soggetto stava tentando di entrare, o già entrato si trova in territorio americano in violazione delle leggi immigratorie, ne da notizia all’immigration judge, o ne ordina il «expedited removal» (se ne sussistono i presupposti), oppure prende i provvedimenti applicabili al caso di specie61. Solo una volta istruito il procedimento “immigratorio” è previsto che l’arrestato sia informato delle ragioni dell’arresto e dei diritti di assistenza legale62.

Il 26 ottobre 2001 il Congresso approvava il discusso USA PATRIOT Act (acronimo di Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism) 63 che, tra le varie previsioni, da una parte aumenta le fattispecie di rimozione connesse al terrorismo, sulla base delle quali gli stranieri possono essere esclusi o deportati (sezione 411), dall’altra stabilisce nuovi meccanismi per la certificazione e detenzione degli stranieri in pendenza del procedimento di espulsione-rimozione (sezione 412).

La sezione 411 modifica parzialmente le sezioni dell’Immigration and Nationality Act sulle ragioni di escludibilità, e di deportabilità, ricomprendendo non solo i non-cittadini che abbiano tramato o compiuto atti terroristici, ma anche quelli che possono essere ritenuti

information.». La rivelazione di tali informazioni da parte dello “special attorney” all’accusato o ad un suo rappresentante legale, costituisce un reato penale, § 504 (e)(3)(F) Immigration and Nationality Act, 8 USCA § 1534. 59 § 504 Immigration and Nationality Act, 8 USCA § 1534. 60 «… a determination will be made within 48 hours of the arrest, except in the event of an emergency or other extraordinary circumstance in which case a determination will be made within an additional reasonable period of time, whether the alien will be continued in custody or released on bond or recognizance and whether a notice to appear and warrant of arrest as prescribed in 8 CFR parts 236 and 239 will be issued.», 8 «Code of Federal Regulations» (CFR) 287.3(d), come modificato dal 66 FR 183, 20 settembre 2001. La norma è resa effettiva dal 17 settembre 2001, tre giorni prima della sua pubblicazione. 61 8 CFR 287.3(b). 62 8 CFR 287.3(c). 63 Pub. L. No. 107-56, 115 Stat. 272, 2001.

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connessi con le organizzazioni terroristiche64. La nuova previsione, pur mantenendo in vigore la procedura di individuazione delle

organizzazioni terroristiche65, aggiunge ulteriori conseguenze immigratorie nel coinvolgimento con altri due tipi di organizzazioni.

In primo luogo viene individuata una distinta categoria di organizzazioni, che consente al Segretario di Stato, in consultazione con l’Attorney General, di qualificare ogni organizzazione, interna o internazionale, come organizzazione terroristica se questa «commits, incites, prepares, plans, gathers information for, or provides material support toward terrorist activities66»; i nomi di queste organizzazioni vengono pubblicati di volta in volta e si provvede a dare notizia della localizzazione dei soggetti affiliati.

In secondo luogo viene sanzionata l’implicazione con non-indicate organizzazioni, cui si accompagna un ampliamento della nozione di organizzazione terroristica, ora intesa come gruppo di due o più persone, organizzate o meno impegnate a commettere, inneggiare o pianificare una attività terroristica67. In questo modo sono stati resi decisamente incerti i confini della definizione non consentendone l’individuazione a priori.

Le previsioni di cui alla § 411 hanno efficacia retroattiva68. La nuova legge si applica a tutti i non-cittadini che, al momento della sua promulgazione, abbiano già chiesto o intendano presentare domanda di ammissione negli Stati Uniti, nonché a tutti i procedimenti di espulsione in corso o futuri. Il soggetto che abbia finanziato, promosso, o sostenuto materialmente organizzazioni con finalità di terrorismo individuate dal Segretario di Stato, prima della loro qualificazione, non sarà ritenuto responsabile (libale), purché tale organizzazione non ricada nella definizione di cui alla § 411 dell’USA PATRIOT Act, che consente di ricomprendere anche le organizzazioni non predeterminate69.

La sezione 412 del USA PATRIOT Act ha introdotto una nuova sezione dell’Immigration and Nationality Act che disciplina le modalità di determinazione (certification) della connessione terroristica di uno straniero e ne impone le detenzione obbligatoria70.

L’Attorney General può individuare come punibile (certify) uno straniero in caso abbia ragione di ritenere che il soggetto rientri in una delle previsioni di deportabilità basate sui motivi di sicurezza a norma dell’Immigration and Nationality Act, o che costituisca in altro modo un pericolo per la sicurezza nazionale71.

La differenza con la normativa precedente, che prevedeva anch’essa l’escludibilità o la deportabilità di un non-cittadino per ragioni di sicurezza nazionale, incluse le attività spionistiche, sovversive e terroristiche, sta nel fatto che ora, anche se uno straniero non può essere espulso sulla base delle ragioni citate, può comunque essere “certificato” allorquando l’Attorney General «abbia ragione di credere» che questi altrimenti costituisca un pericolo per la sicurezza interna. Il potere di determinazione delle ragioni di inammissibilità o deportabilità dell’Attorney General non è quindi limitato da chiare e precostituite previsioni.

L’Attorney General, una volta “certificato” il non-cittadino, deve disporne la reclusione – che è «mandatory» – per un periodo massimo di sette giorni, entro il quale o viene formulata un’imputazione penale, o viene iniziato il procedimento di espulsione o, infine, ne viene disposto il rilascio72.

La modifica inoltre prevede una speciale previsione per i soggetti “certificati”, che hanno ricevuto un ordine di espulsione, ma l’espulsione dei quali non è avvenuta nel prescritto periodo di novanta giorni e si dimostra inverosimile in un prevedibile futuro. In tal caso se l’individuo

64 Il mero finanziamento economico di un’organizzazione che svolga attività di opposizione politico-sociale sia con strumenti pacifici e legali, sia con attività illecite, rappresenta ragione di inammissibilità o deportabilità, costituendo, secondo il dettato della § 411 del USA PATRIOT Act, attività terroristica. A titolo esemplificativo l’African National Congress (organizzazione che ha combattuto l’apartheid in Sud Africa sia con mezzi pacifici che con attività di stampo terroristico) potrebbe presumibilmente essere qualificata tra le organizzazioni il supporto delle quali determina l’inammissibilità o la deportabilità di un individuo. 65 Vedi sopra. 66 § 411, 8 USC 1182(a)(3), USA PATRIOT Act, 2001. 67 «group of two or more individuals, whether organized or not», § 411(a)(1)(G), 8 USC 1182 (a)(3)(B)(vi)(III), USA PATRIOT Act, 2001. 68 § 411(c)(1)(A), USA PATRIOT Act. 69 § 411(c)(3)(A), (c)(3)(B)(ii), USA PATRIOT Act. 70 «Mandatory detention of suspected terrorists; habeas corpus; judicial review», § 236A Immigration and Nationality Act, 8 USCA § 1226a. 71 «The Attorney General may certify an alien under this paragraph if the Attorney General has reasonable grounds to believe that the alien, (A) is described in section 212 (a)(3)(A)(i) [spionaggio o sabotaggio], 212 (a)(3)(A)(iii) [con intento di sovvertire l’ordinamento], 212 (a)(3)(B) [attività terroristiche], 237 (a)(4)(A)(i), 237 (a)(4)(A)(iii), 237 (a)(4)(B), (B) is engaged in any other activity that endangers the national security of the United States.», § 412 (a)(3)(F), USA PATRIOT Act, codificato in 8 USC 1226a (a)(3), 2001. 72 § 412, USA PATRIOT Act.

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rappresenta una minaccia per la stabilità e la sicurezza nazionale o per la collettività, il periodo di detenzione verrà prolungato di sei mesi73.

L’Attorney General deve riesaminare la posizione dell’individuo ogni sei mesi e decidere, a sua discrezione, se revocare il provvedimento e ordinarne il rilascio condizionato. Il soggetto detenuto può chiedere al Governo di riconsiderare la sua posizione presentando documentazione o altri elementi probatori a suo favore74. Inoltre il soggetto può impugnare il provvedimento solo attraverso un’istanza di habeas corpus, poiché la § 412 espressamente limita i ricorsi giudiziari alle istanze di habeas corpus. Questa restrizione si applica ad ogni decisione di certification e ad ogni decisione presa «pursuant to the provision’s limitations on indefinite detention»75. La norma omette di indicare quale tipo di azioni giudiziarie (claims) possono essere proposte in un procedimento di habeas corpus. Hanno giurisdizione, in merito, la Corte Suprema federale, il District of Columbia Circuit, e ogni tribunale distrettuale che abbia altrimenti giurisdizione, mentre per i ricorsi in appello ha competenza esclusiva il D.C. Circuit76.

In ultimo è stato stabilito che l’Attorney General debba presentare una relazione semestrale alle commissioni giudiziarie di entrambi i rami del Congresso (Senato e Camera dei rappresentanti)77.

La § 412 dello USA PATRIOT Act preserva la procedura certificativa e detentiva da eventuali errori fondandola su a) “reasonable grounds to believe”; b) richiesta di revisione scritta (submissions) della certificazione, ogni sei mesi; c) riesame sulla base di istanze di habeas corpus davanti ad un tribunale distrettuale federale. La norma però non prevede alcuna forma di ricorso all’interno del Dipartimento di Giustizia prima o dopo la certificazione. È quindi difficile valutare la portata di tali garanzie poiché viene lasciato ampio spazio all’attività interpretativa sia dell’Immigration and Naturalization Service, con la sua regolamentazione, sia dei tribunali federali.

L’indeterminatezza della formula consente di ricomprendere nelle ragioni fondanti la deportabilità innumerevoli categorie di soggetti. Non vengono indicate in modo sufficientemente chiaro le linee guida né per il successivo intervento regolamentare dell’Immigration and Naturalization Service, né per l’interpretazione giudiziaria.

Per quanto riguarda l’istanza di revisione della “certificazione”, va innanzitutto premesso che questa è limitata all’atto certificativo in sé stesso, mentre è precluso un riesame sostanziale, ossia degli elementi che hanno dato luogo alla sua assunzione. In proposito è da rilevare che, nel novembre dello stesso anno, l’Immigration and Naturalization Service ha adottato un regolamento78 che disciplina la detenzione degli stranieri raggiunti da un ordine di espulsione definitivo, il cui rilascio non sembra ragionevolmente probabile entro il periodo di novanta giorni dalla pronuncia dell’ordine di espulsione, come stabilito dalla legge79. Il regolamento stabilisce che per gli stranieri sospettati di terrorismo la detenzione continui, ma sarà loro fornita una descrizione scritta degli elementi probatori della loro reclusione, compatibilmente alla protezione delle informazioni segrete, e un’opportunità di prestare una memoria probatoria80 (to submit a written statement and evidence). Inoltre allo straniero sospettato di terrorismo, il cui ordine di espulsione sia basato sulla contestazione della violazione della normativa immigratoria, sarà concesso un colloquio con un ufficiale del servizio immigratorio81.

In ultimo, come già anticipato, la norma limita la facoltà di contestare per via giudiziaria, sia nel merito che nella procedura, ogni atto o decisione assunti ai sensi dell’USA PATRIOT Act ai soli ricorsi contestanti la violazione dell’habeas corpus82, ma la legge omette di indicare la tipologia delle domande che lo straniero detenuto può avanzare in un ricorso per habeas corpus. In particolare non è chiaro se la corte, davanti ad un habeas petition, potrà esaminare gli elementi fattuali che fondano la decisione di “certificazione”.

Inoltre va ulteriormente sottolineato che il Dipartimento di Giustizia ha adottato un regolamento ad interim che prevede una sospensione (automatic stay) dell’ordine di rilascio su cauzione deciso da un immigration judge da parte dell’Immigration and Naturalization Service

73 § 412 (a)(6), 8 USC 1226a (a)(6), USA PATRIOT Act, 2001. Per un commento un come tale previsione risenta della pronuncia della Corte Suprema in Zadvydas, 533 US 678, vedi cap. 2. 74 § 412 (a)(7), 8 USC 1226a (a)(7), USA PATRIOT Act, 2001. 75 § 412 (b)(1), 8 USC 1226a (b)(1), USA PATRIOT Act, 2001. 76 § 412 (b)(2)-(3), 8 USC 1226a (b)(2)-(3), USA PATRIOT Act, 2001. 77 § 412 (c), 8 USC 1226a (c), USA PATRIOT Act, 2001. 78 Continued Detention of Aliens Subject to Final Orders of Removal, 66 Fed. Reg. 56967, 14 novembre 2001, codificato in 8 CFR 241. 79 § 412 (a)(7), 8 USC 1226a (a)(7), USA PATRIOT Act, 2001. 80 8 CFR 241.14(d)(2), 2001. 81 8 CFR 241.14(d)(3), 2001. 82 § 412 (b)(1), 8 USC 1226a (b)(1), USA PATRIOT Act, 2001.

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District Director – il “prosecutor”, ossia colui che, nel procedimento di espulsione rappresenta l’organo pubblico che promuove l’azione contro il non-cittadino – che decida di respingerlo anche solo temporaneamente 83 . Il District Director può, quindi, bloccare il rilascio dello straniero semplicemente proponendo un appello84 contro l’ordine del giudice, a prescindere dalla sua fondatezza. Perciò, stando alla lettera della previsione regolamentare, viene mantenuto lo stato di reclusione nonostante l’ordine del giudice, ordine che, secondo la legge immigratoria, può essere pronunciato solo se, in considerazione di tutti gli elementi probatori, si ritenga che il soggetto non costituisce un pericolo per la società e non vi sia motivo di ritenere che possa darsi alla fuga. Tanto la norma sulla detenzione obbligatoria quanto quella sull’automatic stay autorizzano la privazione della libertà di uno straniero per ragioni diverse dalla necessità di prevenirne la fuga o congelarne la pericolosità per la collettività.

7. Considerazioni conclusive.

La maggior parte degli atti in materia immigratoria sono stati motivati da situazioni politico-sociali a carattere emergenziale, come tensioni internazionali (con la Francia post-rivoluzionaria; durante gli anni della guerra fredda), questioni di ordine pubblico (con i disordini a sfondo razzista nei confronti degli emigranti asiatici della seconda metà dell’Ottocento, durante il cosiddetto «pericolo giallo») e stato di crisi mai dichiarato ma invocato in più occasioni, come giustificazione politica della compressione delle libertà civili (in seguito alla minaccia anarchico-comunista del Novecento; oggi in seguito alla minaccia del terrorismo internazionale).

Come si evince dall’analisi precedente, la politica immigratoria americana, nella veste di regolamentazione delle ammissioni e delle espulsioni, è stata intesa anche come strumento di difesa nazionale.

Il Legislatore ha periodicamente compresso quelli che la Costituzione pone come i valori fondamentali dell’ordinamento sociale americano, quali la libertà di parola, di associazione, con l’individuazione, da una parte di categorie di stranieri “sgraditi” su base ideologica, e, dall’altra, dilatando la discrezionalità dell’autorità pubblica.

In primo luogo si nota che ad ogni tensione geopolitica si ha un irrigidimento delle categorie di inammissibilità e deportabilità, nel senso di una risposta diretta alla situazione costituente un pericolo. Tra i criteri identificanti le classi dei soggetti non graditi, sono ricorrenti il motivo ideologico e l’affiliazione ad associazioni di stampo eversivo, con una certa gradualità; si parte infatti da previsioni ad hoc, specifiche per la situazione in concreto, per poi passare a formulazioni sempre più generiche. Si può notare come – ad esempio nella legislazione della prima metà del Novecento – le previsioni, che si susseguono a distanza di pochi anni le une dalle altre, siano dapprima caratterizzate da una puntuale individuazione del gruppo, o dell’attività ritenuta “escludibile”, per poi assumere contorni sempre più incerti, fino all’individuazione di un genus entro il quale ricondurre diverse specie («would be prejudicial to the public interest, or would endanger the welfare or safety of the United States85»). Quanto affermato è proprio anche della ultima legislazione, laddove si passa dall’individuazione preventiva e certa delle organizzazioni terroristiche ad una certificazione incerta e successiva, fondata solo sul «reasonable grounds to believe86».

Quindi, una volta stabilita la tipologia degli “indesiderati”, il secondo elemento su cui si articola la Immigration Law è quello procedurale.

Il potere di disciplinare gli ingressi e le espulsioni è distribuito tra il Congresso e il Presidente, in un “classico” quadro di distribuzione dei poteri all’interno di una Repubblica presidenziale: al potere legislativo (Congresso) la formulazione della normativa sostanziale e procedurale, al potere esecutivo (Presidente) la disciplina di dettaglio per dare attuazione al dettato legislativo. Nella realtà, però, in questa materia si assiste ad un’esasperazione da parte del Governo dei suoi poteri esecutivi rispetto ad atti legislativi del Congresso sempre meno dettagliati e che tendono a trasformarsi in “normative di cornice” mettendo irrimediabilmente a rischio le libertà civili dello straniero.

In tutte le situazioni emergenziali si può notare il dilatarsi della portata della

83 Cfr. 66 Fed. Reg. 54909, 31 ottobre 2001, codificato 8 CFR 3.19(4)(i)(2), 2002. 84 I ricorsi in appello contro le decisioni di custodia, normalmente durano mesi. Il regolamento, nello stabilire l’automatic stay, non pone limiti di durata del procedimento di impugnazione. 85 Cfr. nota 31. 86 Confronta la § 212 Immigration and Nationality Act secondo la formulazione del 1996, con le modifiche apportate dallo USA PATRIOT Act.

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discrezionalità degli organi esecutivi che si traduce in un ampio e autonomo potere decisionale. Paradossale risulta essere l’Alien terrorist removal procedures rispetto al Removal

Proceeding ordinario, ovvero quello del 1996, promulgato in seguito all’attentato terroristico di Oklahoma City. Dal confronto, emerge come l’Alien terrorist removal procedures stabilisca una procedura di espulsione per gli stranieri che siano affiliati ad associazioni, gruppi terroristici, molto più rispettosa dei diritti dell’uomo, che non il Removal Proceeding ordinario, dimostrando con ciò quale sia il rapporto della politica americana con l’immigrazione. L’ambito immigratorio risulta una volta di più l’area in cui è concesso al Governo di fare ciò che è severamente vietato dall’ordinamento politico americano.

Ma se la situazione contingente è la forza motrice per la promulgazione di una disciplina irrispettosa delle libertà dei singoli, non viene mai posta come base giuridica in senso stretto. In altre parole la clausola dello stato di crisi viene solo invocata nelle dichiarazioni politiche, ma non sono mai stati utilizzati quei meccanismi costituzionali che consentono la sospensione delle libertà civili e il rafforzamento del potere esecutivo. Solo l’Alien Enemies Act subordina alla sua entrata in vigore che vi sia una dichiarazione ufficiale dello stato di guerra o di assedio, presentando i presupposti propri del regime straordinario. Va però rammentato che questa legge fu adottata in una situazione di “guerra non dichiarata” con la Francia.

Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, il Presidente Bush ha proclamato lo stato di emergenza nazionale istituendo i tribunali militari87. Gli attentati sono stati descritti come «acts of war 88» e il Presidente, insieme con il Consiglio di sicurezza, si è impegnato in un «comprehensive assault on terrorism89». Il Congresso ha varato una Risoluzione congiunta nella quale, essendo necessario e doveroso che gli Stati Uniti esercitino il loro diritto alla difesa in risposta agli attacchi dell’11 settembre, conferisce al Presidente l’autorità costituzionale «to take action to deter and prevent acts of international terrorism against the United States» e lo investe del potere «to use all necessary and appropriate force against those nations, organizations or persons he determines planned, authorized, committed, or aided the terrorist attacks that occurred on September 11, 2001, or harbored such organizations or persons, in order to prevent any future acts of international terrorism against the United States by such nations, organizations or persons.»

Ma, nonostante la proclamazione della “war against terrorism”90, il fronte della quale è entro i confini statunitensi, non vi è alcun atto ufficiale con il quale venga posto lo stato di guerra come base giuridica delle norme promulgate, così come avvenne con la War Powers Resolution del 197391. Con l’invocazione della guerra come strumento di lotta al terrorismo, il potere esecutivo ha voluto richiamare la fonte costituzionale dello stato di necessità, ritenendo di poter agire anche senza la sorveglianza del Congresso e nel pieno rispetto della Costituzione. Ashcroft, ministro della Giustizia, nel discorso alla Commissione Giustizia del Senato, disse: «our fight against terrorism is not merely or primarily a criminal justice endeavor. It is a defense of our nation and its citizens92». Figura 5: il Presidente George W. Bush mentre sigla l’USA PATRIOT Act

87 Cfr. Military Order del 13 novembre, 2001, in Parte IV, Titolo III, Federal Register, vol. 66, 57833. 88 Così il Presidente G.W. Bush durante il discorso al Consiglio di Sicurezza, disponibile alla pagina internet, http://www.whitehouse.gov/news/releases/2001/09/20010912-4.html, 12 settembre, 2001. 89 Così il Presidente G.W. Bush nel discorso radiofonico alla Nazione, disponibile alla pagina internet, http://www.whitehouse.gov/news/releases/2001/09/20010915.html, 14 settembre, 2001. 90 Così il Presidente G.W. Bush, nel discorso per la firma del Homeland Security Act, H.R. 5005, disponibile alla pagina internet:http://www.whitehouse.gov/news/releases/2002/11/20021125-6.html, 25 novembre, 2002. 91 “Authorization For Use of Military Force”, Pub. Law No. 107-40, 115 Stat. 224. 92 Disponibile alla pagina web, http://www.usdoj.gov/ag/testimony/2001/0925AttorneyGeneraljohnAshcroftTestimonyBeforetheSenateCommitteeontheJudiciary.html, 25 settembre, 2001.

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CAPITOLO II

IL GIUDIZIO DI COSTITUZIONALITÀ SULLA «IMMIGRATION LAW».

1. Introduzione.

Il problema dell’inquadramento della Immigration Law nel sistema delle fonti – causato dalla assenza nel testo costituzionale di un espresso riconoscimento al Congresso, di una potestà di legiferare “sull’escludibilità degli stranieri” – fu originariamente affrontato dalla giurisprudenza costituzionale mediante un procedimento logico deduttivo, che ponendo a raffronto le proposizioni costituzionali, consente di ricavare la regola di competenza che legittima l’autorità a disciplinare la materia dell’immigrazione; d’altro lato, però, la stessa giurisprudenza si preoccupa di offrire un fondamento giuridico al potere degli organi federali, mediante il ricorso a concetti, per così dire, “extra-costituzionali”.

Parallelamente alla questione della distribuzione delle competenze tra entità federali e statali, la Corte Suprema è chiamata ad affrontare il problema del bilanciamento tra le libertà negative (“libertà da…”), costituzionalmente riconosciute all’individuo, e il non-cittadino, da una parte, e le risposte politiche via-via emergenti dalla necessità di controllo dei flussi immigratori.

In questa sezione viene analizzata, innanzitutto, la giurisprudenza con cui la Corte Suprema avvalora in termini costituzionali la potestà federale di controllo dell’immigrazione, rendendola esclusiva non solo in relazione al rapporto Unione - Stati membri, ma anche in relazione al rapporto potere legislativo - potere esecutivo da una parte e giudiziario dall’altra e quindi il sindacato di costituzionalità della Immigration Law e la posizione dell’immigrato rispetto ai diritti “naturali”, costituzionalmente riconosciuti all’individuo in quanto tale.

La linea guida elaborata dalla giurisprudenza per quanto riguarda il riparto delle competenze è la c.d. “Plenary Power Doctrine” finalizzata alla ricostruzione interpretativa della disciplina dell’organizzazione costituzionale della titolarità del potere tra Governo federale e Governo statale: poi, una volta consolidata l’interpretazione a favore della competenza federale, utilizzata anche per disciplinare le relazioni essenziali fra organi costituzionali (legislativo e esecutivo da una parte, e giudiziario dall’altra), nonché fra questi e gli stranieri governati; per quanto concerne lo status costituzionale dello straniero invece la Corte Suprema ha prima argomentato la dicotomia diritto-privilegio e poi ha sviluppato la c.d. “entry fiction” finendo per qualificare la detenzione immigratoria come misura civil-amministrativa e non penale.

Il fatto che manchi l’analisi della giurisprudenza post-11 settembre è stato determinato dal fatto che non vi sono ancora casi giuridici in materia, in parte a causa del limite interno contenuto negli emendamenti all’Immigration and Nationality Act, operati dallo USA PATRIOT Act, in parte a causa del fatto che le misure emergenziali assunte per combattere la “war against terrorism” hanno influito solo di riflesso sul precedente ordinamento immigratorio.

1. Immigration Law e struttura federale degli Stati Uniti d’America.

Gli Stati Uniti sono una federazione in cui la sovranità è ripartita tra Governo federale e cinquanta Stati, componenti l’Unione, secondo il principio per cui la sovranità degli Stati è la regola, mentre quella delle autorità federali è l’eccezione. Ai sensi del X Emendamento della Costituzione, i singoli stati sono sovrani in tutte le materie che non siano riservate espressamente allo Stato federale93, mentre il Congresso ha una potestà legislativa residuale che si estrinseca nelle materie – elencate nel testo costituzionale – definite “Enumerated/Delegated Powers”94.

In ambito immigratorio la Costituzione affida espressamente al Congresso il solo compito di fissare le linee principali della politica di naturalizzazione, mentre è silente sugli altri aspetti dell’immigrazione, sollevando così ambiguità, non solo in relazione ai poteri concorrenti dei singoli Stati, ma anche di collocazione del potere federale nel sistema delle fonti.

L’orientamento dottrinale, giurisprudenziale e politico prevalente è stato di favorire 93 «The powers not delegated to the United States by the Constitution, nor prohibited by it to the States, are reserved to the States respectively, or to the people.», X Emendamento, US Cost. 94 Cfr. Art. 1, sez. 8, US Cost.

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l’esclusività federale sulla materia immigratoria, lasciando pochi spazi di intervento a livello di legislazione statale e ciò sulla base della visione dell’immigrazione come logica conseguenza derivante dalle relazioni con altre nazioni.

Fermo restando l’importanza del principio dei “delegated powers”, il silenzio costituzionale, circa la competenza legislativa in materia immigratoria, è stato risolto dalla Corte Suprema, a favore del Congresso, per la parte volta immediatamente alla disciplina e al controllo dei comportamenti individuali nei riguardi del potere politico. Mentre nei settori volti essenzialmente alla tutela effettiva dei beni, di interessi concreti, è ammesso l’intervento statale95. Secondo la ricostruzione giurisprudenziale, agli Stati è inibita la legiferazione in materia immigratoria, intesa come legge che disciplina l’ammissione e l’espulsione dei cittadini stranieri, ma non è inibita l’emanazione di norme “immigratorie” per disciplinare materie in cui essi sono competenti; in tal senso gli Stati non possono derogare alla Immigration Law generale, ma la integrerebbero con l’emanazione di norme complementari, accessorie ed integrative. La distinzione tra “Immigration Law” e “Alienage Law” manifesta che in tale ambito coesistono fattori profondamente diversi fra loro per essenza, contenuto e finalità96.

Sono state sostanzialmente due le argomentazioni usate dalla giurisprudenza per disconoscere l’autorità regionale immigratoria: l’ingerenza con il “foreign commerce power”97, uno dei poteri federali esclusivi che coinvolge anche la “Migration and Importation Clause”98 e la possibile interferenza tra immigration law statale e politica estera99.

La maggiore contestazione di un potere regionale immigratorio si è fondata sul dettato costituzionale, laddove attribuisce al Congresso il potere di regolare il commercio interno ed estero. Il controllo dei flussi immigratori era, in origine, avvertito come un attributo della sovranità nazionale e un corollario degli scambi commerciali con i paesi stranieri100; tant’è vero che, nei “Head Money Cases”101, la Corte Suprema fa affidamento sulla “Commerce Clause” per sostenere la legittimità di una legge federale, che imponeva un’imposta di cinquanta centesimi su ogni straniero in arrivo negli USA, affermando che: «Congress [has] the power to pass a law regulating immigration as a part of commerce of this country with foreign nations.»102.

Tale interpretazione non è sempre stata netta. Per il periodo precedente la Guerra Civile si potrebbe anche cogliere una tendenza opposta, a favore dell’autorità statale.

Nella sentenza Gibbons v. Ogden 103 per l’annullamento del monopolio dei battelli a vapore di New York, la Corte Suprema affermava sì che il trasporto di passeggeri rientrasse nel concetto di “commercio” e lo interpretava come incluso tra i “delegated powers”, esclusiva

95 Cfr. COOLEY T., A Treaties on the constitutional limitations which rest upon the legislative power of the States of the American Union, 7a ed., Boston 1903, pp. 507-08; TRIBE L., American constitutional law, New York 1978, § 5-2, 225. 96 Per “Immigration Law” si intende la legislazione diretta a disciplinare l’ingresso e la permanenza degli stranieri, mentre per “Alienage law” si intende la legislazione diretta a disciplinare gli aspetti civili, economici e sociali dell’immigrazione; cfr. BOSNIAK L., Membership, Equality, and the Difference that Alienage Makes, in «New York University Law Review» 69 (1994), pp. 1087-1101. Un esempio abbastanza recente di tale distinzione concettuale e dei problemi che essa pone è rappresentato dalla Proposition 187 della California. La Proposition 187 fu una proposta di legge sottoposta, in forma di referendum, al voto dei californiani, che avrebbe scoraggiato l’ingresso in California alla immigrazione illegale e favorito l’allontanamento volontario di quanti già presenti, attraverso la preclusione, per gli immigrati clandestini, della maggior parte dei servizi pubblici (inclusa l’assistenza sanitaria, l’accesso all’istruzione pubblica), con l’obbligo per gli impiegati pubblici, statali e locali, di verificare lo status della persona con la quale venissero in contatto e di denunciare i sospetti stranieri illegali, a chi di competenza. Infine si proponeva di introdurre nuove fattispecie di reato sanzionanti la produzione, vendita e l’uso di documenti falsi. Il referendum ebbe esito positivo ma venne bloccato da una corte distrettuale federale, in quanto indirettamente regolante l’immigrazione, come tradizionalmente intesa (ammissione ed espulsione), fatta però eccezione per le previsioni penali; si vedano le sentenze League of United Latin American Citizens v. Wilson, 908 F. Supp., 755, 786-787 (C.D. Cal., 1995), ibidem, 997 F. Supp., 1244 (C.D. Cal., 1997). 97 «Power of Congress to regulate commerce. To regulate commerce with foreign nations, and among the several Stats, and with the Indian tribes», art. 1, sez. 8, cl. 3, US Cost.. 98 L’art. 1, sez. 9, cl. 1, US Cost. dispone che: «The Migration or Importation of such Persons as any of the States now existing shall think proper to admit, shall not be prohibited by the Congress prior to the Year one thousand eight hundred and eight». 99 «[The President] shall have Power, by and with the Advice and Consent of the Senate, to make Treaties, provided two thirds of the Senators present concur», art. 2, sez. 2, cl. 2, US Cost.. 100 Per la concezione del potere di controllo sull’immigrazione come attributo della sovranità, si vedano le sentenze, Tiaco v. Forbes, 228 US, 1913, 549, 556-57, Fong Yue Ting v. United States, 149 US, 1893, 698, 711; ancora nel 1976 la Corte Suprema ha sostenuto che gli stati possono esercitare il loro potere sovrano in ambito immigratorio a condizione che la norma interna non sia in contrasto con le previsioni federali, DeCanas v. Bica, 424 US, 1976, 351. Per l’interpretazione del potere di controllo sull’immigrazione come corollario degli scambi commerciali si vedano le sentenze, United States ex rel. Turner v. Williams, 194 US, 1904, 279, 290, Fok Yung Yo v. United States, 185 US, 1902, 302-03, Edye v. Robertson (Head Money Cases), 112 US, 1884, 580. 101 Gli “Head Money Cases” sono inclusivi delle seguenti sentenze: 112 US, 580, 1884; 5 S.Ct. 247, 28 L.Ed., 798, 1884. 102 Così la Corte nella sentenza 5 Supreme Court, 254, 1884. 103 22 US (9 Wheat.), 1824, 1.

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competenza del Congresso 104 , ma allo stesso tempo osservava anche che alcuni aspetti potrebbero anche essere lasciati alle autorità locali come esercizio del potere di polizia, senza per questo entrare in conflitto con la legislazione federale105. Tra gli esempi di legislazione statale legittima, la Corte cita le leggi sulla quarantena e sulla salute pubblica, per le quali il Governo federale aveva mobilitato funzionari federali106.

Nei Passenger Cases107 , la Corte, seppur con una maggioranza di cinque a quattro, annullava una normativa statale che imponeva una tassazione sui passeggeri, ritenendola incostituzionale, in quanto interferente con la “Commerce Clause”, ma nei pareri dissenzienti venne riconosciuta l’autorità dei singoli Stati di escludere alcune categorie di stranieri a titolo di “police power” 108 , senza per questo interferire con la normativa federale espressione del “commerce power”.

Oltre a tale giurisprudenza si possono richiamare le Virginia e Kentucky’s Resolutions che sostenevano l’incostituzionalità dell’Alien Act del 1798, ritenendo la disciplina dell’ingresso degli stranieri di esclusiva competenza statale109. In queste risoluzioni si sosteneva che, stando al X emendamento, la Costituzione riservi agli Stati l’autorità per il controllo dell’immigrazione dato che non attribuisce espressamente al Congresso un tale potere. Veniva inoltre invocata la “Migration and Importation Clause”, che inibiva al Congresso la possibilità di limitare le scelte locali che disciplinavano la migrazione o l’importazione di «such persons» fino al 1808, come preclusiva di una legislazione federale sugli ingressi.

A tale interpretazione si può obiettare che se da una parte l’articolo vieta l’emanazione di norme federali in merito agli ingressi, dall’altra però, nulla dice in merito alla disciplina delle espulsioni. Inoltre la previsione costituzionale non si applicava ad ogni espulsione ordinata a norma dell’Alien Act110. In ultimo la norma non si riferiva genericamente agli immigrati, bensì a «such persons», termine eufemistico per “schiavi”111.

L’Alien Act stabilì il precedente per l’affermazione dell’autorità federale di deportare gli stranieri. Esaurito il periodo di validità della norma112, il Governo federale non riaffermò il proprio potere sul controllo dell’immigrazione fino alla guerra del 1812, quando si riaffacciò la minaccia dell’invasione da parte della Gran Bretagna113.

104 «Congress may control the States laws, so far as it may be necessary to control them, for the regulation of commerce», 203-06, 22 US (9 Wheat.), 1824, 1. 105 «Can anything fall more directly within the police power and internal regulation of a state, than that which concerns the care and management of paupers or convicts, or any other class or description of persons that may be thrown into the country, and likely to endanger its safety, or become chargeable for their maintenance?», opinione del giudice Thompson, 148; «On the same principle by which a state may prevent the introduction of infected persons or goods, and articles dangerous to the persons or property of its citizens, it may exclude paupers who will add to the burdens of taxation, or convicts who will corrupt the morals of the people, threatening them with more evils than gunpowder or disease», opinione del giudice Baldwin, 153b; «… quarantine laws and health laws of every description [fanno parte della] immense mass of legislation, which embraces everything within the territory of a State, not surrendered to the general government», 203-06, 22 US (9 Wheat.), 1824, 1. 106 Cfr. Ch. 31, 1 Stat. 474, Act of May 27, 1796. 107 Smith v. Turner, Norris v. City of Boston, Passenger Cases, 48 US (7 How.), 1849, 283-86, 12 L.Ed., 702. 108 Cfr. I pareri dissenzienti in 48 US (7 How.), 1849. Il giudice L. Woodbury osservava «It is for the State where the power resides to decide on what is sufficient cause for it, whether municipal or economical, sickness or crime; as, for example, danger of pauperism, danger to health, danger to morals, danger to property, danger to public principles by revolutions and change of government, or danger to religion.», 528; il giudice Taney, nel suo parere dissenziente, sosteneva il diritto degli stati di espellere «any person, or class of persons, whom it might deem dangerous to its peace, or likely to produce a physical or moral evil among its citizens», senza alcuna interferenza da parte del Congresso, 474. 109 Si vedano Virginia Resolutions, § 3-5, 24 dicembre 1798 e Kentucky Resolutions, § 4-5, 9, 19 novembre 1798, in The Debates in the Several Conventions on the Adoption of the Federal Constitution, IV, Jonathan Elliot edition, 1836, 528-29, 541-44. 110 L’Alien Act prevedeva solo l’istituto della «deportation», mentre nulla diceva in relazione all’istituto della «exclusion». Fino al 1996, all’atto dell’emanazione dell’Illegal Immigration Reform and Immigrant Responsibility Act of 1996, Division C, 304, Pub. L. No. 104-208, 110 Stat. 3009, 1996, codificata alla § 240 Immigration and Nationality Act, 8 USC 1229, è perdurata la dicotomia deporatation – exclusion, poi abrogata con l’introduzione di un unico procedimento per entrambe le categorie. Per un’analisi sul punto si rimanda al cap. 1. 111 J. Dayton, delegato per il New Jersey alla assemblea costituente, spiegò al Congresso che i delegati del South Carolina proposero la “Migration and Importation Clause” con «express purpose of preventing Congress from interfering with the introduction of slaves into the United States», e che i costituenti non usarono il termine “schiavi” per non «[to] stain the Constitutional code with such term», in, Annals of Congress, VIII, 1798, 1992-93; «There has never been any doubt that this clause had exclusive reference to persons of the African race», in New York v. Compagnie Generale Transatlantique, 107 US, 1883, 59, 62; «[The clause] restrains Congress from prohibiting the importation of slaves prior to the year 1808», in Butler v. Hopper, 4 F. Cas., 904-905 (C.C.D. Pa. 1806, Washington Circuit Justice). Si veda BERNS W., The Constitution and the Migration of Slaves, in Yale L. J., 78 (1968), p. 202. 112 La norma stabiliva un termine di validità di due anni dalla sua emanazione, quindi espirò il 24 giugno 1800. 113 Nel 1813 il Presidente Madison si richiamò all’Alien Enemies Act del 1798, quando ordinò la ricollocazione o l’internamento dei cittadini britannici situati entro quaranta miglia dalla costa atlantica, poiché costituivano un «danger to public peace and safety», così proclamato dal Presidente Madison, 23 febbraio 1813, citato nella sentenza Lockington v. Smith, 15 F. Cas., 758, (C.C.D. Pa. 1817) (No. 8,448).

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Conclusa anche questa guerra, il Governo federale assunse nuovamente un cauto atteggiamento nell’affermazione delle proprie competenze immigratorie, lasciando largo spazio alle politiche statali. Il Congresso, per i successivi cinquanta anni, promulgò leggi per monitorare gli ingressi, per garantire la sicurezza dei viaggi della speranza, e tra il 1798 e il 1875 emanò ben ventiquattro leggi sulla cittadinanza e la naturalizzazione. Si può affermare che il Congresso iniziò a esercitare, realmente, il proprio potere in ambito immigratorio solo durante la Guerra Civile, in un quadro di generale e violenta affermazione della supremazia dell’Unione sui singoli Stati.

Al termine della Guerra Civile, la Corte Suprema, reinvestita della questione con i casi Henderson v. Mayor of New York114 e Chy Lung v. Freeman115, dichiarava in modo unanime il carattere esclusivo del potere federale in materia immigratoria, cassando le leggi immigratorie rispettivamente di New York e della California, in quanto interferenti con la conduzione dei “foreign affairs”, materia di esclusiva competenza del Legislatore federale. La Corte Suprema sancisce: «the Constitution of United States is no such instrument. The passage of laws which concern the admission of citizens and subjects of foreign nations to our shores belongs to Congress, and not to the States. It has the power to regulate commerce with foreign nations: the responsibility for the character of those regulations, and for the manner of their execution, belongs solely to the national government. If it be otherwise, a single State can, at her pleasure, embroil us in disastrous quarrels with other nations116.».

Ma anche queste due sentenze, normalmente citate come estintive del potere statale sull’immigrazione, lasciano aperta la questione sul potere di escludere gli immigrati che costituiscano un pericolo per la collettività. Infatti, nel cassare tali previsioni normative, la Corte, pur sottolineando di non essere stata richiesta di pronunciarsi nel merito, balenava la possibilità per il Legislatore statale di emanare norme a tutela della sicurezza interna, nei casi in cui il Legislatore federale non abbia regolato una determinata situazione117.

La Corte Suprema consolidò, definitivamente, in capo al Congresso il potere di regolamentare gli ingressi degli immigrati nel famoso “Chinese Exclusion Case”118, come logica ed imprescindibile manifestazione del principio di sovranità verso l’esterno. Il “Chinese Exclusion Case” è considerata la pietra miliare della “plenary power doctrine”.

Il caso nasceva sull’onda della prima legge di esclusione (Chinese Exclusion Act of 1882), che sospendeva l’immigrazione dei lavoratori cinesi per dieci anni. Inizialmente la norma non si applicava ai lavoratori cinesi già presenti negli USA; a questi veniva rilasciato un documento, attestante la loro residenza in terra americana, che avrebbe consentito loro di recarsi in Cina e poi di rientrare liberamente negli Stati Uniti. Ma nel 1888 il Congresso modificò la norma negando i rientro anche di quei cinesi che avevano regolarmente ottenuto la certificazione prescritta.

Chae Chan Ping era uno dei diversi cinesi che si videro negare la riammissione, dopo un soggiorno nella propria madrepatria. Ricorse davanti alla Corte Suprema lamentando l’invalidità della legge del 1888 per incostituzionalità e per contrasto con i trattati bilaterali precedentemente stipulati tra Cina e Stati Uniti119.

Il giudice Field, nel rigettare il ricorso, annovera la regolamentazione dell’immigrazione tra le competenze federali esclusive mediante la connessione con il “foreign affaire power”:

114 Con parere unanime la Corte Suprema dichiarò l’incostituzionalità della normativa con la quale New York imponeva, per gli immigrati, il pagamento di un’imposta sulla persona fisica, 92 US, 1876, 259. 115 Con parere unanime la Corte Suprema abrogò una legge dello Stato della California che richiedeva il pagamento di un bond da parte degli stranieri in arrivo, 92 US, 1876, 275. 116 Idem, 279-80. Per un esempio giurisprudenziale, più recente, si veda Hines v. Davidowitz, 312 US 52, 61 S.Ct. 399, 85 L.Ed. 581, 1941, invalidante il Pennsylvania’s Alien Registration Act, sulla base della potenziale interferenza nella conduzione dei rapporti con le Potenze straniere. 117 «Whether, in the absence of action by Congress, the States can, or how far they can, by appropriate legislation, protect themselves against actual paupers, vagrants, criminals, and diseased persons, arriving in their territory from foreign countries, we do not decide», così la Corte in Henderson (cfr. nota 20), 275; e ancora la Corte in Chy Lung «we are not called upon by this statute to decide for or against the right of a State, in the absence of legislation by Congress, to protect herself by necessary and proper laws against paupers and convicted criminals from abroad; not to lay down the definite limit of such right, if it exists. Such a right can only arise from a vital necessity for its exercise, and cannot be carried beyond the scope of that necessity». 118 “The Chinese Exclusion Case”, Chae Chan Ping v. United States, 130 US, 1889, 581. 119 Il Burlingame Treaty che riconosceva il diritto connaturato e inalienabile dell’uomo di emigrare e la libera immigrazione dei cittadini americani e cinesi per motivi di piacere, affari, o di residenza, 28 luglio 1868, United States-China, 16 Stat. 739, T.S. No. 48; il trattato del 1880 autorizzava gli USA a regolare, limitare o sospendere l’immigrazione dei lavoratori cinesi nel caso in cui questa «affects or threatens to affect the interests of that country, or to endanger the good order of [the United States] or of any locality within the territories thereof», pur preservando il diritto dei lavoratori cinesi, già residenti in nordamerica, di andare e venire liberamente, United States-China, 22 Stat. 826, T.S. No. 49, 17 novembre 1880.

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«[t]he United States, in their relation to foreign countries and their subjects or citizens, are one nation, invested with powers which belong to independent nations …. …[F]or national purposes, embracing our relations with foreign nations, we are but one people, one nation, one power.». La Corte Suprema ribadisce: «the Constitution of United States is no such instrument. The passage of laws which concern the admission of citizens and subjects of foreign nations to our shores belongs to Congress, and not to the States. It has the power to regulate commerce with foreign nations: the responsibility for the character of those regulations, and for the manner of their execution, belongs solely to the national government. If it be otherwise, a single State can, at her pleasure, embroil us in disastrous quarrels with other nation.».

Per quanto riguarda il secondo motivo del ricorso, la Corte dichiara che, in caso di contrasto, prevale la norma adottata per ultima120, nel caso di specie la legge federale.

Da quel momento in poi attraverso un processo dialettico la legislazione federale si è accresciuta e la giurisprudenza delle corti ha eroso il potere locale. Figura 6: la struttura federale degli Stati Uniti d’America

2. Immigration Law e Judicial Review.

L’impiego di concetti connessi con i “foreign affairs” e il diritto internazionale nella ricostruzione del potere legislativo immigratorio a favore del Congresso, ha comportato importanti implicazioni nell’analisi costituzionale dello stesso potere federale. Se da una parte il legame tra Immigration Law, “foreign affairs”, e “international law” ha rappresentato l’elemento argomentativo più utilizzato e sviluppato al fine di consolidare il potere legislativo federale, dall’altra la radicalità delle argomentazioni in tal senso ha dato vita ad un “immigration exceptionalism”, inteso nel senso di considerare la Immigration Law esente dagli ordinari limiti posti al potere legislativo, come la garanzia del judicial review. La scelta di intendere la competenza immigratoria come un aspetto derivante dalle relazioni internazionali tra due o più nazioni sovrane, ha suggerito uno scarso, se non inesistente, ruolo per il potere giudiziario.

La giurisprudenza, nell’elaborazione ed affermazione della “Plenary Power Doctrine”, al fine di garantire l’esclusività federale in ambito immigratorio, è andata oltre, assumendo un atteggiamento deferente nel riconoscere l’assoggettabilità della Immigration Law al controllo di costituzionalità e creando uno spazio giuridico, all’interno del quale potere legislativo ed esecutivo hanno un’autorità esclusiva.

Tale atteggiamento si spiega, in parte, con la visione che il potere giudiziario ha della propria funzione, ossia di mantenimento e di attuazione dell’ordinamento giuridico, e quindi di dichiarare il diritto positivo in relazione a situazioni concrete121. Più che esprimere un sindacato sul vizio sostanziale della legge, la funzione giurisdizionale doveva limitarsi a garantire e controllare la corretta modalità di applicazione, al caso di specie, della regola così come espressa dagli atti primari e/o secondari, senza nulla aggiungere alla volontà del Legislatore, che è esclusiva.

Il diniego a svolgere un controllo di costituzionalità, sia sostanziale che procedurale, della Immigration Law, contrasta con il fiorire delle protezioni costituzionali accordate agli immigrati nei diversi settori della vita sociale (sanità, istruzione, lavoro).

Gli interessi sociali del non-cittadino sono sempre stati ammessi, in quanto diritti naturali che la Costituzione riconosce all’individuo, «[the] provisions [of the Constitution] are universal in their application, to all persons within the territorial jurisdiction, without regard to any differences of race, of color, or of nationality122.».

La Corte Suprema, nel sancire l’incostituzionalità di un’ordinanza municipale della città di San Francisco (apparentemente non discriminatoria sulla base della razza, ma che, in realtà, rendeva impossibile per i cittadini cinesi la trasmissione a titolo di successione della attività di

120 Il criterio di prevalenza temporale, partendo da un piano di parità tra le due fonti, fu affermato in Whitney v. Robertson: «By the Constitution a Treaty is place on the same footing, and made of like obligation, with an Act of legislation. Both are declared by that instrument to be supreme law of the land, and no superior efficacy is given to either over the other. … [I]f the two are inconsistent, the one last in date will control the other, provided always the stipulation of the Treaty on the subject is self executing.», 124 US, 1888, 194. 121 «[Il potere giudiziario] non ha forza né volontà, ma soltanto giudizio e dovrà ricorrere all’aiuto del Governo perfino per dare esecuzione ai propri giudizi», in HAMILTON, Il federalista, 78, a cura di D’ADDIO M., NEGRI G., Bologna 1980. 122 Così la Corte nel caso Yick Wo v. Hopkins, 118 US, 368-70, 6 S.Ct., 1070-71, 30 L.Ed. 220, 1886.

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lavanderia) stabiliva che «[t]he rights of the petitioners, … are not less, because they are aliens and subjects of the Emperor of China». Lo straniero legalmente presente negli USA è parte della comunità costituzionalmente protetta e pertanto merita «equal protection123», a prescindere dal fatto che la sua presenza sia «legale, illegale, temporanea o permanente»124.

Se è pacificamente riconosciuta l’assoggettabilità al giudizio di costituzionalità della “Alienage Law”, la posizione della giurisprudenza muta radicalmente per la “Immigration Law”.

3.1 “The Plenary Power Doctrine”. L’elaborazione della “The Plenary Power Doctrine”, al fine di individuare il centro di

produzione legislativa nell’ambito di una organizzazione dello Stato di tipo federale, è avvenuta in risposta a ricorsi individuali, proposti da singoli stranieri che lamentavano la violazione dei diritti costituzionali. In origine la giurisprudenza rigetta i ricorsi individuali per irricevibilità, senza svolgere alcuna considerazione se i diritti dell’individuo straniero possano in qualche modo limitare il pieno potere del Legislatore, e ciò sulla base di due considerazioni principali: l’elemento territoriale e la natura civil-amministrativa del ricorso contro le decisioni di ammissione e allontanamento. La giurisprudenza dapprima nega in assoluto la sindacabilità delle norme e degli atti amministrativi immigratori per poi cambiare parzialmente prospettiva richiamandosi alla duplice portata del principio di due process: procedurale e sostanziale. Per due process procedurale si intende il controllo di costituzionalità, da parte della Corte Suprema, sulla legislazione e sulla giurisprudenza degli atti federali e dei singoli stati, e sugli atti amministrativi, nel senso di fair procedures di assunzione degli stessi. Mentre per due process sostanziale si intende il requisito per cui la legge non può essere irragionevole, arbitraria o capricciosa e i mezzi prescelti devono avere un ragionevole rapporto con gli obiettivi che essa si propone. È quindi ammessa la ricevibilità dei ricorsi per vizio procedurale, sebbene il “plenary power” del Legislatore non viene mai messo in dubbio nella sostanza delle scelte di politica immigratoria.

La Corte Suprema lamenta la propria incompetenza a pronunciarsi sulla costituzionalità delle iniziali leggi immigratorie, di esclusione, prima (The Chinese Exclusion Case125), e di espulsione, poi (Fong Yue Ting v. United States126), argomentando l’esclusiva competenza del Congresso e del Presidente, dal concetto di Sovranità, per il quale «ogni nazione sovrana…[ha il potere] di negare agli stranieri l’ingresso nei suoi domini127», e di «…espeller[li], ogniqualvolta [il Congresso] lo ritenga necessario o vantaggioso per l’interesse pubblico128».

Il problema dell’inquadramento della Immigration Law nel sistema delle fonti fu affrontato attraverso l’impiego dei concetti di Sovranità e Indipendenza, propri del diritto internazionale, che non può concepire che venga impedito ad una nazione di esercitare al proprio interno, in modo assoluto ed esclusivo, la propria sovranità, al fine di preservarne la stessa integrità. Le leggi immigratorie vengono descritte come ordinario strumento di uno Stato sovrano per difendersi dagli abusi e dai tentativi di usurpazione del potere provenienti dalle altre nazioni129.

123 XIV Emendamento, US Cost. 124 Così si esprime la Corte Suprema in Zadvydas v. Davis, 533 US, 693, 2001; ma vedi anche Plyler v. Doe, 457 US, 202, 210, 1982; Mathews v. Diaz, 426 US, 67, 77, 1976; Shaughnessy v. United States ex rel. Mezei, 345 US, 206, 212, 1953; Kwong Hai Chew v. Colding, 344 US, 590, 596-98 & n. 5, 1953; Wong Yang Sung v. McGrath, 339 US, 33, 49-50, 1950;“The Japanese Immigrant Case”, 189 US, 86, 100-01, 1903; Yick Wo v. Hopkins, 118 US, 356, 369, 1886. 125 «Whether a proper consideration by our government of its previous laws, or a proper respect for the nation whose subjects are affected by its actions, ought to have qualified its inhibition … are not question for judicial determination.», in Chae Chan Ping v. United States, 130 US 581, 1889. 126 149 US 698, 1893. 127 Così sentenziava Justice GRAY, in Nishimura Ekiu v. United States, 142 US 651, 12 S.Ct. 336, 35 L.Ed. 1146, 1892. 128 Cfr. Fong Yue Ting v. United States, 149 US 698, 1893. 129 «[The power to exclude aliens] is an incident of every independent nation … . If it could not exclude aliens it would be to that extent subject to the control of another power.», così si è espressa la Corte Suprema in The Chinese Exclusion Case, 130 US, 106; e «[The right to deport foreigners] is an inherent and inalienable right of every sovereign and independent nation, essential to its safety, its independence and its welfare.», così la Corte Suprema in Fong Yue Ting v. United States, 149 US, 711. Ancora più evidente nelle politiche assolutamente discriminatorie – in particolare nei confronti degli immigrati indigenti, malati e handicappati mentali o fisici – dei singoli stati, i quali «…temevano che gli Stati europei stessero inviando i loro soggetti più vagabondi ed intemperanti e i loro disabili fisici e mentali per mettere alla prova l’America», così NEUMAN G.L., The Lost Century of American Immigration Law (1776-1875), in «Columbia Law Review», 93 (1983), pp. 1847-48.

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Sovranità “esterna”130, quindi, intesa come potere di regolazione dei rapporti con gli altri Stati, l’esercizio della quale è espressamente attribuito al Congresso e al Presidente dalla Costituzione131.

Di fronte all’assenza di indicazioni testuali espresse, si capisce come la giurisprudenza e la dottrina abbiano, inizialmente, propeso per una qualificazione giuridica – della normativa immigratoria federale – “extra-costituzionale” 132 . Extra-costituzionalità poi ridimensionata, nella sua portata concettuale. L’Immigration Law sarebbe extra-costituzionale solo in senso formale – in quanto non enunciata espressamente – mentre se si ricorre al concetto di Costituzione materiale 133 – insieme dei fini e dei valori che costituiscono il principio fondamentale di unità e di ordine politico – è logicamente intrinseca alla vita dell’ordinamento politico. In altre parole, la Costituzione rappresenterebbe un dato essenziale prodotto da una determinata autorità politica statuale nella quale il ruolo complessivo dell’istituzione fondamentale, ed in particolare del suo Governo, è quello di conferire unità e coerenza alla società orientando in tal senso tutte le funzioni dello Stato. La Costituzione rappresenta dunque «il modo stesso di esistere dello Stato, in altre parole la condizione della sua unità politica, anzi della sua “anima”, presupposto di una situazione di ordine costituzionale» (Schmitt134).

Descrivendo le scelte di politica immigratoria come “questioni politiche”135, connesse agli interessi di sovranità nazionale, auto-definizione e auto-conservazione, la giurisprudenza ha prima escluso, e poi limitato il judicial review, non solo degli atti primari, ma anche di quelli secondari, sostenendo che la decisione del pubblico ufficiale soddisfacesse, di per sé stessa, il principio di due process of law per gli stranieri richiedenti l’ammissione136.

Il “Chinese Exclusion Case” nell’originare l’idea che il potere politico avrebbe, in generale, “plenary power” sul controllo dell’immigrazione, lasciò comunque indeterminato il limite di tale potere rispetto a tre punti essenziali.

In primo luogo, la Corte nel caso di specie, affrontava direttamente il solo problema della collocazione (Stato federale/singoli stati) della potestà legislativa immigratoria.

Quindi la Corte ometteva di pronunciarsi sulla lamentata violazione dei diritti costituzionali di due process of law e di divieto di ex post facto law 137 , non escludendo espressamente la ricevibilità di un ricorso formulato in questi termini.

Infine manca la specificazione se la “plenary power doctrine” escludesse il judicial review anche per i casi di espulsione, trattandosi la sentenza solo di un caso re-ingresso, ossia di ammissione.

130 In un contesto differente (in materia di affari esteri), la Corte arriva ad affermare l’extra-costituzionalità della fonte del potere federale: «As a result of the separation from Great Britain by the colonies acting as a unit, the powers of external sovereignty passed from the Crown not to the colonies severally, but to the colonies in their collective and corporate capacity as the United States of America. … The Union existed before the Constitution, which was ordained and established among other things to form “a more perfect Union”. … it results that the investment of the federal government with the power of external sovereignty did not depend upon the affirmative grants of the Constitution. », Justice SUTHERLAND, in United States v. Curtiss-Wright Export Corp., 299 US 304, 57 S.Ct. 216, 81 L.Ed. 255, 1936, 218-20. 131 «[Il Presidente] avrà il potere, su parere e con il consenso del Senato, di concludere trattati», art. 2, § 2, cl.2, US Cost.; «Il Congresso avrà facoltà di regolare il commercio con le altre nazioni…di fissare le norme generali per la naturalizzazione…di dichiarare guerra…», art. 1, § 8, cls. 3, 4, 11, US Cost. 132 La dottrina non è unanimemente concorde sul ruolo attribuito alla Costituzione in “The Chinese Exclusion Case”. Secondo alcuni The Chinese Exclusion Case utilizza il concetto di sovranità, solo al fine di separare la competenza legislativa immigratoria dagli “enumerated powers”, così LEGOMSKY S.H., Immigration Law and the Principle of Plenary Congressional Power, in «Supreme Court Review» (1984) 274; altri sostengono, che la qualificazione non costituzionale della fonte del potere di disciplinare l’immigrazione non fosse radicale nella sentenza Chae Chan Ping, ma che sia stata, successivamente, radicalizzata per giustificare la teoria che l’Immigration Law non è soggetta ai controlli di costituzionalità, propri di ogni atto legislativo, così HENKIN L., The Constitution and United States Sovereignty: A Century of Chinese Exclusion and Its Progeny, «Harvard Law Review», 100 (1987), 858; altri ancora affermano che la Corte condusse sì un’analisi costituzionale della potestà legislativa immigratoria, ma attraverso una lente esterofila, più che di ricostruzione delle modalità con le quali possa essere dedotta dal testo o dalla struttura della Costituzione, così ALEINIKOFF T.A., Federal Regulation of Aliens and the Constitution, in «American Journal of International Law», 83 (1989) 862, 863. 133 Per una esaustiva trattazione sul significato e sulla portata delle Costituzioni si consulti, MORTATI C., voce Costituzione dello Stato (parte I, Dottrine Generali), in «Enciclopedia del diritto», XI (1962), ora in Id., Scritti sulle fonti del diritto e sull’interpretazione (Raccolta di scritti -II), Milano 1972, p. 79 ss. 134 Cfr. SCHMITT C., Dottrina della Costituzione, Milano 1984 (trad. it. dall’edizione del 1928). 135 Per un’ampia dissertazione sulla relazione tra “questione politica” e “plenary power doctrine” si consulti, LEGOMSKY S.H., Immigration Law and the Principle of Plenary Congressional Power, in «Supreme Court Review», (1984) p. 261-69,; NAGEL R.F., Political Law, Legalistic Politics: A Recent History of the Political Question Doctrine, in «University of Chicago Law Review», 56 (1989) p. 643 ss. 136 “The Chinese Exclusion Case”, 130 US, 660, 1889; la Corte Murray, citando Nishimura: «As to such persons, the decisions of executive or administrative officers, acting within powers expressly conferred by Congress, are due process of law», Murray’s Lessee v. Hoboken Land and Improvement Co., 59 US (18 How.), 1855, 272. 137 Questi, tra gli altri, gli argomenti fondanti il ricorso nel caso Chae Cjan Ping, 130 US, 584, 589.

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La Corte Suprema rispose a tali questioni nelle sentenze Nishimura Ekiu v. United States138 e Fong Yue Ting v. United States139.

In Nishimura Ekiu, nel rigettare un ricorso di una cittadina giapponese, alla quale era stato rifiutato l’ingresso poiché giudicata poter facilmente divenire un peso pubblico, la Corte escluse il judicial review, riprendendo l’orientamento precedente.

Il giudice Gray, parlando per la Corte, statuiva che: «It is an accepted maxim of international law, that every sovereign nation has the power, as inherent in sovereignty, and essential to preservation, to forbid the entrance of foreigners within its dominions, or to admit them only in such cases and upon such conditions as it may see fit to prescribe. In the United States, this power is vested in the national government, to which the Constitution has committed the entire control of international relations, in peace as well as in war140».

Nel caso Fong Yue Ting la “plenary power doctrine” viene infine estesa all’espulsione, assimilata all’esclusione. Il ricorrente lamentava la violazione del diritto costituzionale di due process da parte di una previsione legislativa che stabiliva la deportabilità dei lavoratori cinesi i quali, entrati negli USA prima del 1892, non fossero provvisti di un documento provante la data anteriore dell’ingresso, documento che l’autorità pubblica avrebbe rilasciato solo previa presentazione di almeno una credibile testimonianza (ovvero dietro testimonianza di un bianco); credibile testimonianza richiesta anche nel caso in cui l’immigrato avesse fallito di ottenere la certificazione, al fine di dimostrare buoni motivi dell’insolvenza e il tempo di residenza141.

La Corte fonda i motivi del rigetto sull’esclusività del potere federale, caratterizzando le decisioni in materia immigratoria come “questioni politiche” e qualificando l’ammissione negli Stati Uniti come una licenza sottoposta a condizione e revocabile142. Un ulteriore argomento utilizzato fu l’interpretazione dell’espulsione nel senso di misura non a carattere punitivo, ma come «a method of enforcing the return to his own country of an alien who has not complied with the conditions upon the performance of which the government of the nation, acting with its constitutional authority and through the proper departments, has determined that his continuing to reside here shall depend.143».

Interessanti sono i tre pareri dissenzienti in quanto influenzeranno la giurisprudenza successiva nel tentativo di limitare la legittimità della “plenary power doctrine” alle sole scelte sostanziali del Legislatore. Il giudice Fuller scriveva: «[the Act] contains within it the germs of the assertion of an unlimited and arbitrary power, in general, incompatible with the immutable principles of justice, inconsistent with the nature of our government, and in conflict with the written Constitution by which that government was created and those principles secured144.».

In primo luogo veniva distinta l’esclusione dall’espulsione sulla base della considerazione dell’elemento territoriale. L’elemento territoriale segnerebbe i limiti della validità personale e territoriale dell’ordinamento statale e di conseguenza la copertura costituzionale sarà garantita a quanti si trovino all’interno degli USA, mentre ne saranno scoperti coloro che siano al di fuori della giurisdizione americana. Nei pareri dissenzienti si precisa che gli stranieri residenti costruiscono dei legami con gli Stati Uniti meritevoli di una tutela maggiore e di una appropriata garanzia giuridica145.

In secondo luogo si qualificava l’espulsione come una punizione cui la protezione costituzionale deve essere riconosciuta146.

Dovranno trascorrere dieci anni perché la giurisprudenza, pur non mettendo in discussione la legittimità della “plenary power doctrine” in generale, ammetta la ricevibilità di un ricorso invocante il due process fondandola proprio sui ragionamenti svolti nei pareri dissenzienti di Fong Yue Ting.

138 Nishimura Ekiu v. United States, 142 US 651, 12 S.Ct. 336, 35 L.Ed. 1146, 1892. 139 Fong Yue Ting v. United States, 149 US 698, 1893. 140 Così in Nishimura Ekiu v. United States, 142 US 651, 12 S.Ct. 336, 35 L.Ed. 1146, 1892. 141 Legge del 1892, ch. 60, §§ 6-7, 27 Stat. 25, 26, (abrogate nel 1943), citata nella sentenza Fong Yue Ting v. United States, 149 US 698, 700-03, 1893. 142 La Corte arguiva che il Congresso possa «in trust the final determination of [relevant] facts to an executive officer, and … if it did so, his order was due process of law» esente da controllo giudiziario, citando Nishimura Ekiu, id., 713; inoltre l’esclusione da judicial review era giustificata dal fatto che si trattava di «matters involving public rights», id., 715, citando Murray’s Lessee v. Hoboken Land & Improvement Co., 59 US (18 How.) 272, 284, 1856. 143 Fong Yue Ting v. United States, 149 US, 730, 1893. 144 Il parere dissenziente del giudice Fuller in Fong Yue Ting v. United States, 149 US, 763, 1893. 145 Si vedano i tre pareri dissenzienti, giudice Brewer, 734-738, giudice Field, 746, giudice Fuller, 762, 149 US. 146 Cfr. i pareri del giudice Brewer, 740, e del Fuller, 763, 149 US.

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In “The Japanese Immigrant Case”147, la Corte distingue tra ammissione ed espulsione, limitando la “plenary power doctrine” alla prima, mentre per quanto attiene all’espulsione afferma che il Congresso «is not competent for … any executive officer … arbitrarily to cause an alien, who has entered the country, and has become subject in all respects to its jurisdiction, and a part of its population, although alleged to be illegally here, to be taken into custody and deported without giving him all opportunity to be heard upon the question involving his right to be and remain in the United States148.»

Yamataya rappresenta l’inizio di un, seppur tenue, ridimensionamento dell’originaria “plenary power doctrine”.

Distinguendo tra esclusione ed espulsione, e ancora tra carattere sostanziale e carattere formale del sindacato di costituzionalità di una norma, se si nega la ricevibilità di un ricorso sui contenuti dell’atto, per contrasto tra la scelta legislativa e il valore della Costituzione, avendo gli organi politici federali esclusiva autorità di disciplinare l’immigrazione149, dall’altra però si afferma la ricevibilità dei ricorsi lamentanti violazioni di procedural due process, ossia di incostituzionalità del procedimento di formazione dell’ordine di espulsione. Sebbene vi sia un’apertura circa la ricevibilità del ricorso, la giurisprudenza continua a mantenere un’estrema deferenza verso le procedure amministrative, privando così il requisito di procedural due process di ogni contenuto reale.

3.2 The “Plenary Power Doctrine” e le istanze di sicurezza nazionale della prima metà del Novecento.

Nel periodo di escalation dell’antagonismo tra Stati Uniti ed Unione Sovietica la retorica torna con forza. La risposta politica ad un quadro geopolitico di dura contrapposizione tra i due blocchi e ad un clima interno esasperato dalla minaccia comunista, fu la promulgazione di leggi decisamente restrittive gli spazi di libertà dell’immigrato e di dubbia costituzionalità; scelte politiche avvallate da una giurisprudenza che riteneva che «…in the present state of the world, it would be rash and irresponsible to reinterpret our fundamental law to deny or qualify the Government’s power of deportation 150 », ripristina 151 la formulazione ottocentesca della “plenary power doctrine” e arriva a sostenere che «whatever the procedure authorized by Congress is, it is due process so far as a denied entry is concerned152.»

Durante l’era del maccartismo la Corte Suprema utilizza il precedente di Yamataya sulla distinzione territoriale, creando una finzione giuridica, “entry fiction”, in base alla quale riconoscere o meno l’applicabilità delle garanzie costituzionali all’immigrato.

La Corte ha avuto occasione di affrontare il problema del riconoscimento del “writ of habeas corpus” al non-cittadino nella sentenza United States ex rel. Knauff v. Shaughnessy153. Nella fattispecie Ellen Knauff, cittadina tedesca fuggita in Inghilterra durante il periodo nazista e al termine della guerra tornata in patria lavorando al fianco delle potenze alleate, in seguito alle nozze con un cittadino americano fa richiesta di ingresso negli USA e di naturalizzazione. Il Governo americano ne ordinava l’esclusione permanente considerando l’ammissione della Knauff pregiudizievole per l’interesse nazionale. Ellen Knauff ricorreva in giudizio lamentando il fatto che l’adozione dell’ordine di esclusione senza udienza, violasse la previsione normativa e fosse in contrasto con la “Due Process Clause” del V emendamento.

La Corte Suprema ha escluso il contrasto tra atto amministrativo e testo legislativo, precisando che il Legislatore con l’attribuire all’Attorney General un potere discrezionale nella 147 Il ricorrente Karou Yamataya, cittadina giapponese, atterrata a Seattle e dopo quattro giorni raggiunta da un ordine di espulsione, in seguito ad un’indagine condotta da un ispettore dell’immigrazione a fronte della quale è risultata inammissibile al momento dell’ingresso essendo un’indigente, lamenta l’inadeguatezza dell’ispezione svoltasi in inglese, lingua da lei non conosciuta, essendole così stato impedito di dimostrare effettivamente e coerentemente di non essere deportabile, Yamataya v. Fischer, 189 US, 86, 23 S.Ct., 611, 47 L.Ed., 721, 1903. 148 Cfr. 189 US, 97. 149 Un esempio di continuata affermazione dell’esclusività del potere congressuale si ha nella sentenza Lapina v. Williams, nella quale si ribadisce che «The authority of Congress over the general subject-matter is plenary; it may exclude aliens altogether, or prescribe the terms and conditions upon which they may come into or remain in this country.», in 232 US, 78, 88, 1914. 150 Queste le parole del giudice Jackson parlando per la Corte nella sentenza Harisiades v. Shuaghnessy, 342 US, 580, 72 S.Ct., 512, 96 L.Ed., 586, 1952. 151 «Courts have long recognized the power to expel or exclude aliens as a fundamental sovereign attribute exercised by the Government’s political departments largely immune from judicial control.», in Shaughnessy v. United States ex rel. Mezei, 345 US, 206, 73 S.Ct., 625, 97 L.Ed. 956, 1953. 152 Così il giudice Minton nel caso United States ex. rel. Knauff v. Shuaghnessy, 338 US, 537, 70 S.Ct., 309, 94 L.Ed., 317, 1950. 153 United States ex rel. Knauff v. Shaughnessy, 338 US, 537, 1950.

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adozione degli ordini di esclusione, avesse legittimato l’esclusione sulla base di informazioni riservate e senza concedere al richiedente la facoltà di una audizione. Quindi una volta accertata la fonte legislativa del potere dell’organo amministrativo, la Corte nega che la legge in questione contrasti con il V emendamento sia sotto l’aspetto procedurale che sostanziale.

Dal punto di vista procedurale si sostiene laconicamente che «whatever the procedure authorized by Congress is, it is due process so far as a denied entry is concerned154», poiché il potere di esclusione ha il suo fondamento nel principio di sovranità e pertanto è esente da revisione giudiziale155.

La Corte esclude inoltre l’irrazionalità della norma secondaria rispetto al valore costituzionale riconoscendo la legalità del potere arbitrario dell’organo amministrativo in tempo di emergenza nazionale156.

In un'altra sentenza dell’epoca, Shaughnessy v. United States ex rel. Mezei157, la Corte Suprema non riconosce la titolarità delle fondamentali libertà civili all’immigrato interpretando in modo paradossale il concetto di ingresso. Il caso riguardava un non-cittadino residente permanente negli USA da venticinque anni, che nel 1948 si reca a far vista alla anziana madre in Romania. A causa della situazione post-bellica in cui versava l’Europa dell’epoca il Mezei riesce a fare ritorno negli Stati Uniti solo nel 1950, in possesso di un regolare visto rilasciatogli da un consolato americano in Europa. Arrivato in America viene dichiarato inammissibile «sulla base di informazioni riservate la rivelazione delle quali pregiudicherebbe l’interesse pubblico158». Mezei trascorrerà ventuno mesi in custodia prima che una corte distrettuale accolga il suo writ of habeas corpus e ne ordini il rilascio.

La Corte Suprema, con una maggioranza di cinque a quattro, estende il significato normativo di “ingresso” fino a ricomprendere il re-ingresso di un residente permanente.

Va premesso che tutta la legislazione immigratoria è stata imperniata sulla localizzazione – dentro o fuori – dello straniero, individuando così due distinte tipologie di regole: la disciplina dell’ammissione legata al sistema delle quote e alle regole dell’esclusione e la disciplina dell’espulsione finalizzata all’allontanamento di coloro che siano entrati illegalmente o abbiano commesso, dopo l’ammissione, atti non socialmente tollerabili. La questione chiave risulta quindi stabilire quando si debba ritenere che uno straniero sia entrato in territorio americano, perché nel caso in cui costui chieda di entrare, ma non sia entrato, allora si applicherà la normativa sull’ammissione-esclusione; in caso contrario, avvenuto l’ingresso, lo straniero sarà soggetto alle regole sulla espulsione.

La Corte Suprema caratterizza la posizione costituzionale di Mezei in rapporto alla disposizione legislativa come quella di uno straniero «on the threshold of initial entry159», e afferma, motivando il ricorso al distinguishing dal precedente di Yamataya, che «for purposes of the immigration laws, moreover, the legal incidents of an alien’s entry remain unaltered whether he has been here once before or not. He is an entering alien just the same, and may be excluded if unqualified for admission under existing immigration laws.160».

L’elaborazione della “entry fiction” – in base alla quale per entry si intende non solo la richiesta di ammissione formulata per la prima volta, ma ogni volta che lo straniero, a prescindere dal suo status precedente, si trovi al di là del confine nordamericano e voglia rientrare – inglobando nella categoria degli ammissibili/escludibili anche i residenti permanenti che si siano allontanati dagli Stati Uniti, consente di superare quella minima tutela costituzionale riconosciuta dalla precedente giurisprudenza proprio agli stranieri all’interno degli USA.

Mentre Knauff e Mezei delineano per lo straniero che si trovi oltre il confine americano una condizione di assenza di tutele, alla mercé dell’autorità amministrativa, e Yamataya riconosce allo straniero all’interno degli Stati Uniti un’estensione delle tutele costituzionali

154 Così il giudice Minton, 338 US, 544. 155 «Whatever the rule may be concerning deportation of persons who have gained entry into the United States, it is not within the province of any court, unless expressly authorized by law, to review the determination of the political branch of the Government to exclude a given alien.», 338 US, 542-43. 156 «In the particular circumstances of the instant case the Attorney General, exercising the discretion entrusted to him by Congress and the President, concluded upon the basis of confidential information that the public interest required that petitioner be denied the privilege of entry into the United States. He denied her a hearing on the matter because, in his judgment, the disclosure of the information on which he based that opinion would itself endanger the public security. We find no substantial merit to petitioner’s contention that the regulations were not “reasonable” as they were required to be by the 1941 Act. We think them reasonable in the circumstances of the period for which they were authorized, namely, the national emergency of World War II.», 338 US, 543. 157 Shaughnessy v. United States ex rel. Mezei, 345 US, 206, 1953. 158 Citazione della legge del 1941, ch. 210, § 1, 55 Stat. 252, in 345 US, 208. 159 Cfr. 345 US, 212. 160 Cfr. 345 US, 213.

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limitatamente alla sindacabilità degli aspetti procedurali, diverso è il discorso per gli elementi sostanziali rispetto ai quali l’essere entro i confini perde di valore.

Nella sentenza Carlson v. Landon161, la Corte Suprema sostiene che lo status di residente permanente non crea diritti, essendo la ammissione a risiedere in America sempre e solo una concessione, un privilegio e di conseguenza l’immigrato «remain[s] subject to the plenary power of Congress to expel [him] under the sovereign right to determine what non-citizens shall be permitted to remain within our borders162». I toni sono simili a quelli utilizzati in Harisiades v. Shaughnessy163 ove si ribadisce che lo status di residente permanente «is a matter of permission and tolerance», la sua residenza è precaria, e il Governo ha il potere di determinare le condizioni della sua ospitalità. Il caso riguardava l’espulsione di Harisiades, cittadino greco residente negli USA dal 1916, e di altri due non-cittadini (Mascitti, di nazionalità italiana e residente in America dal 1920; Coleman, di nazionalità russa, residente dal 1914) a causa della loro affiliazione, dopo il regolare ingresso, ad un’organizzazione con finalità di eversione dell’ordinamento democratico (i ricorrenti erano Stati membri del partito comunista rispettivamente tra il 1925 e il 1939, 1923 e 1929, in modo discontinuo dal 1919 al 1938), secondo quanto disposto dall’Alien Registration Act del 1940 164 . I ricorrenti lamentavano l’incostituzionalità della norma per contrasto con il I emendamento – libertà di parola e di associazione – e per violazione del principio di irretroattività (art.1, § 9, cost.).

La Corte Suprema non riscontra alcuna violazione del I emendamento, perché considera che l’incitamento a sovvertire con atti violenti l’ordinamento costituito si ponga esso stesso in contrasto con il dettato costituzionale nel caso di una sua reale verificazione165.

La Corte, oltre a ribadire che il fatto che «aliens remain vulnerable to expulsion after long residence is a practice that bristles with severities. But it is a weapon of defense and reprisal confirmed by international law as a power inherent in every sovereign state 166 » e a sottolineare come il divieto di leggi ex post facto sia riferibile alle sole norme penali167, mentre la Immigration Law per quanto severe possano essere le sue conseguenze è materia civile, aggiunge di non potere entrare nel merito delle scelte legislative, data la situazione politica contingente.

Il giudice Jackson, per la maggioranza, dopo avere richiamato l’orientamento dominante della giurisprudenza 168 , nota come «any policy toward aliens is vitally and intricately interwoven with contemporaneous policies in regard to the conduct of foreign relations, the war power, and the maintenance of a republican form of government. Such matters are so exclusively entrusted to the political branches of government as to be largely immune from judicial inquiry or interference. … We think that, in the present state of the world, it would be harsh and irresponsible to reinterpret our fundamental law to deny or qualify the Government’s power of deportation. … Reform in this field must be entrusted to the branches of the Government in control of our international relations and treaty-making powers.169».

Questi casi letti insieme denotano due linee di tendenza seguite dalla giurisprudenza nell’analisi costituzionale degli atti primari e secondari in materia immigratoria: la collocazione dello straniero e la tipologia del ricorso proposto davanti all’organo giudiziario.

L’individuazione della ubicazione dello straniero, se al confine o all’interno, è utilizzato come criterio di “soglia minima” per stabilire se sia titolare di alcune tutele costituzionali o meno. Una volta raggiunta tale soglia, ossia una volta stabilita la titolarità di alcune garanzie costituzionali si tratta di stabilire quali siano gli strumenti a disposizione dell’immigrato per far valere in giudizio i suoi diritti. A tale proposito la giurisprudenza ritiene non giudicabile la volontà del Legislatore, ossia la ratio (sostanza) immanente alle disposizioni normative, mentre 161 Carlson v. Landon, 342 US, 524, 1952. 162 342 US, 524. 163 Harisiades v. Shaughnessy, 342 US, 580, 1952. 164 Cfr. 8 USC 137. 165 Si veda 342 US, 591-93 e si consultino le motivazioni della sentenza, Dennis v. United States, 341 US, 494, 1951, cui si richiama la Corte in Harisiades. 166 Cfr. 342 US, 587-88. per una conferma su tale orientamento della giurisprudenza dell’epoca si possono consultare le sentenze, Galvan v. Press, 347 US, 522, 1954; Jay v. Boyd, 351 US, 345, 1956. 167 La Corte Suprema in un caso precedente Kessler v. Strecker, 307 US, 22, 1939, con una maggioranza di sette a due, stabiliva che uno straniero, iscrittosi al Partito Comunista dopo il suo ingresso negli USA ma che avesse cessato la sua partecipazione prima dell’arresto, non fosse deportabile a norma della legge del 1918, § 1, 40 Stat. 1012. Il Congresso per arginare l’interpretazione statutaria data dalla giurisprudenza promulgava, nel 1940, l’Alien Registration Act, emendante la norma del 1918 con lo stabilire l’espulsione per ogni straniero che fosse stato membro di un’organizzazione con finalità eversive «at any time» dopo l’ingresso negli USA. La costituzionalità di tale emendamento venne affrontata nella sentenza Harisiades. 168 Il giudice Jackson cita le sentenze United States v. Curtiss-Wrigth Export Corp., 299 US, 304, 319-322; Hirabayashi v. United States, 320 US, 81; Korematsu v. United States, 323 US, 214. 169 342 US, 588-90.

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riconosce una garanzia nei confronti dello straniero che le limitazioni della sua sfera di libertà avvengano attraverso un procedimento amministrativo fair due.

3.3 L’orientamento della giurisprudenza di fine Novecento.

Venuto meno lo stato di necessità e distesisi i rapporti internazionali, la giurisprudenza

assume un atteggiamento più possibilista, ma sempre cauto e limitato al riconoscimento dell’ammissibilità dei soli ricorsi a carattere procedurale.

Mentre è largamente accettata l’idea che le regole procedurali spesso riflettano valori sostanziali in tutti i campi del diritto, l’anomala struttura che la “plenary power doctrine” pone in relazione all’aspetto costituzionale della Immigration Law, fa sì che le decisioni sulla costituzionalità procedurale siano spesso l’unico mezzo per arginare i vizi sostanziali. Superati gli anni della guerra fredda la giurisprudenza si è adoperata per riconoscere all’immigrato i diritti sostanziali che la “plenary power doctrine” sembra precludere, ma sempre e solo attraverso l’impostazione iniziale, ossia attraverso il sindacato di costituzionalità procedurale, arrivando spesso a delle forzature evidenti pur di non rivedere i fondamenti della “plenary power doctrine”. La giurisprudenza di fine Novecento arriva a riconoscere all’immigrato residente permanente i diritti individuali nel loro reale significato costituzionale.

Il nuovo approccio adotta come criterio di discernimento il diverso grado di connessione dell’immigrato con gli USA. In altre parole l’immigrato non viene più visto solo come individuo singolo, per di più cittadino di un’altra nazione e dotato di diritti “statunitensi” solo se all’interno del confine, ma come centro di una molteplicità di relazioni (lavorative, sociali, familiari), lo stroncamento delle quali implica una privazione della libertà dell’individuo in uno dei suoi aspetti essenziali.

La giurisprudenza dalla seconda metà del secolo scorso approda ad una visione positiva della libertà dell’immigrato, partendo dalla nuova considerazione dell’interesse dell’immigrato a rimanere in quella che gli fu concesso divenisse la sua società di riferimento. Pertanto se l’esigenza iniziale è stata quella di limitare e assicurare all’immigrato “inside” una certa protezione dalle azioni coercitive degli organi esecutivi, ora si ammette che l’immigrato possa essere titolare di un interesse, meritevole di tutela, ad essere e rimanere membro di una società.

La prima importante affermazione del nuovo principio si ha in un caso del 1963 Rosenberg v. Fleuti170. Nella fattispecie la Corte è intervenuta sull’ordine di allontanamento emesso nei confronti di un residente permanente dal 1952, in quanto inammissibile sulla base della legge in vigore al momento dell’ingresso171, di ritorno da un brevissimo (qualche ora) viaggio in Messico nel 1956. A questa esclusione si è poi aggiunta la considerazione di instabilità mentale (così considerata dal’Immigration and Naturalization Service) di Fleuti a causa della sua omosessualità.

La Corte Suprema fonda l’invalidità dell’atto sul fatto che non sia possibile qualificare come “entry” il reingresso di un residente permanente, in quanto un’assenza temporanea non determina una significativa interruzione della residenza. La Corte interpreta la definizione legislativa di “entry”, così come modificata dall’intervento legislativo172 del 1952 allo scopo di escludere espressamente il ritorno da un’inaspettata o involontaria assenza, come necessariamente escludente anche «innocent, casual, and brief» assenza, come nel caso di specie173.

Va sottolineato come l’elemento di novità rispetto al passato della sentenza Fleuti sia limitato ad un mero utilizzo dello stesso concetto di “entry” reinterpretato e ammorbidito. Al contrario il vero e proprio mutamento di orientamento va rintracciato nella sentenza Landon v. Plasencia174, nella quale la Corte Suprema riconosce la ricevibilità di un ricorso di due process ad un residente permanente di ritorno, motivando che «once an alien begins to develop the ties

170 Rosenberg v. Fleuti, 374 US, 449, 1963. 171 La legge prevedeva l’inammissibilità all’ingresso per chi fosse «afflicted with psychopathic personality», § 212(a)(4) Immigration and Nationality Act, § 1182(a)(4) 8 USC, 1988. L’Immigration and Naturalization Service motivava l’ordine di espulsione sulla base della qualificazione dell’omosessualità come «psychopathic personality», essendo il Fleuti omosessuale. 172 Cfr. Pub. L. No. 82-414, § 101, 66 Stat., 163, 167, 1952. Questo intervento legislativo volto a modificare la definizione legale di “entry”, si rese necessario in seguito a due sentenze esasperanti il concetto di reingresso, si vedano Delgadillo v. Carmichael, in cui viene rifiutato il reingresso ad uno straniero che durante il sonno era inconsapevolmente uscito e rientrato negli USA, ignorando che il treno sarebbe passato attraverso il Canada, nel viaggio da Buffalo a Detroit, 332 US 388, 1947; DiPasquale v. Karnuth, in cui ad uno straniero, soccorso in mare e trasportato a Cuba in seguito ad un naufragio, venne rifiutato il reingresso, 158 F.2d 878 (2d Cir.), 1947. 173 Cfr. 374 US, 457-58. 174 Landon v. Plasencia, 459 US, 21, 103 S. Ct., 321, 1982.

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that go with permanent residence, [her] constitutional status changes accordingly175». Qui la Corte poggia il suo ragionamento su nuove basi, partendo dal presupposto non più della localizzazione dello straniero, bensì dal suo status all’interno della società americana, riconoscendone l’interesse alla partecipazione e allo sviluppo della sua personalità al suo interno.

Il caso riguardava una cittadina salvadoregna, Maria Antonieta Plasencia, residente negli USA dal 1970, sposata con un cittadino americano e con figli. La ricorrente recatasi in Messico con il marito al suo rientro viene fermata al confine e nella sua macchina vengono trovati sei stranieri, tra messicani e salvadoregni, nel tentativo di farli entrare illegalmente. Quindi veniva emesso un ordine di esclusione contro la Plasencia.

La ricorrente adiva la Corte Suprema lamentando il vizio di procedura, in quanto, essendo lei una residente permanente di ritorno, sosteneva avrebbe dovuto esserle applicata la procedura di espulsione e non quella di esclusione, invocando la consequenziale violazione del due process nella udienza per la sua esclusione.

La Corte rigetta la contestazione della ricorrente, ritenendo corretta la procedura di esclusione e non di espulsione applicata alla Plasencia, ma estendendo anche allo straniero inammissibile la titolarità di «invoke the Due Process Clause …176».

La Corte distingue il caso di specie da Mezei sulla base del fattore tempo, ossia in relazione alla durata del periodo di assenza dagli USA177, precisando inoltre che lo straniero può perdere lo status protetto se la sua assenza è prolungata. Presumibilmente con questa locuzione la Corte ha ampliato lo standard di protezione di «innocent, casual, and brief» in Fleuti.

La giurisprudenza si dimostra più aperta a svolgere il controllo di costituzionalità sugli atti secondari piuttosto che sugli atti primari. Si approfondisce l’indagine sul rispetto del principio di legalità, ossia sulla corrispondenza della decisione dell’organo esecutivo alla regola predeterminata, in modo da scongiurare che la discrezionalità, lasciata dalla formulazione astratta e generale della regola, si risolva in arbitrio. Da questo punto di vista le corti iniziano a svolgere un’indagine sostanziale contro gli eventuali abusi derivanti da un’applicazione arbitraria e capricciosa della Immigration Law.

Nel caso Kleindienst v. Mandel 178 , nato dal rifiuto del non-immigrant visto ad un giornalista belga invitato a partecipare a convegni tenuti da diverse università americane, in quanto dichiaratamente filo-marxista, la Corte Suprema distingue tra decisioni del Legislatore e decisioni degli organi esecutivi.

Nel ricorso si lamentava infatti la violazione del I emendamento, contestando non la norma congressuale, bensì l’arbitrarietà dell’azione amministrativa. La Corte accoglie tale impostazione e afferma che, dal momento che nel ricorso si riconosce la piena autorità del Legislatore di determinare le categorie di stranieri cui bandire l’ingresso, «when the Executive exercises [the conditional power delegated from Congress to it] negatively on the basis of a facially legitimate and bona fide reason, the courts will neither look behind the exercise of that discretion, nor test it by balancing its justification against the First Amendment interests of those who seek personal communication with the applicant. What First Amendment or other grounds may be available for attacking exercise of discretion for which no justification whatsoever is advanced is a question we neither address or decide in this case.179».

La giurisprudenza attuale si caratterizza per il fatto di essersi, in parte, riappropriata della sua funzione giurisdizionale sebbene limitatamente agli atti degli organi esecutivi, mantenendo salda l’insondabilità delle scelte legislative. Quindi se da una parte i giudici americani si mantengono sulla originaria incapacità di dichiarare l’incostituzionalità delle leggi immigratorie, dall’altra accrescono il ricorso alle sentenze interpretative. Il giudice, partendo dalla constatazione che una certa norma si presta a diverse interpretazioni, ne individua, elabora l’interpretazione conforme alla Costituzione, scegliendo sempre di pronunciare sentenze di rigetto rispetto al dubbio di costituzionalità sollevato. Il giudice tiene conto della c.d. «interpretazione corrente» di un certo testo o disposizione per cui dichiara l’incostituzionalità di una norma così come applicata, e dunque in base al significato corrente attribuito alla medesima. In altre parole, «l’interpretazione conforme» o «la presunzione di costituzionalità» viene giustificata dalla necessità di escludere interpretazioni arbitrarie o inusuali al solo fine di 175 Così in 103 S. Ct., 329. Similmente anche in Mathews v. Diaz, 426 US, 67, 77-80, 1976. 176 459 US, 32. 177 «[Mezei] does not govern this case, for Plasencia was absent from the country only a few days, and the United States has conceded that she has a right to due process.», 459 US, 34. 178 Kleindienst v. Mandel, 408 US, 753, 1972. 179 408 US, 770. Si legga inoltre il parere dissenziente del giudice Douglas: «Attorney General exceeded his statutory powers because his discretion was limited to “matters commonly within the competence of the Department of Justice – national security, importation of drugs, and the like”», 774.

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dichiarare la norma conforme alla Costituzione. Figura 7: manifestazione di immigrati per il riconoscimento dei diritti a San Francisco nel 2006

4. “Indefinite detention” e questioni costituzionali.

La Immigration Law ha sempre contemplato la possibilità che l’Immigration and Nationality Service privi lo straniero della libertà personale nel periodo di espletamento della procedura di esclusione/espulsione, anche se sia stato emesso l’ordine di espulsione al fine di assicurarne l’esecuzione.

L’ordinamento americano riconosce il diritto alla libertà personale nel prevederne i limiti e i presupposti per le restrizioni ammesse: «… no person shall be deprived of life, liberty, or property, without due process of law180». Inoltre è costituzionalmente riconosciuta, in termini pressoché assoluti «unless when in case of rebellion or invasion the public safety may require [the suspension]», una procedura che va sotto il nome di writ of habeas corpus di tutela contro l’arresto o la detenzione arbitraria.

Il valore che la Costituzione riconosce alla libertà personale ha determinato l’evoluzione di tutta una serie di principi e regole processuali volti a garantire i diritti individuali dagli abusi del Legislatore e a controllare effettivamente il potere esecutivo.

Il carattere inviolabile della libertà personale, riprova che l’uso della coercizione fisica va limitato in rapporto ai soli casi dai quali risulti inevitabile il costo della restrizione. I casi di restrizione ammessa coincidono con i reati, ma anche in abito civile la previsione della custodia è stata ritenuta compatibile con i principi costituzionali di “Due Process Clause” e “Suspension Clause” purché il suo esercizio sia limitato a circostanze determinate e nel rispetto dei principi di una corretta procedura, con l’unica eccezione del caso in cui sia dichiarato lo stato di guerra.

La misura detentiva in ambito immigratorio ha una funzione preventiva per definizione, rappresentando una misura di sicurezza strumentale al procedimento di esclusione/espulsione la cui applicazione è affidata ad una autorità amministrativa e non giudiziaria, pertanto priva della competenza funzionale, propria solo degli organi giudiziari.

La Corte Suprema ha avuto occasione di pronunciarsi sull’interpretazione dell’istituto detentivo, per la prima volta, nel caso Wong Wing v. United States181, ove, precisa il carattere non punitivo dell’espulsione, cassando una norma che prevedeva la condanna ai lavori forzati per gli stranieri illegalmente presenti negli USA, in seguito ad un procedimento svolto unicamente dagli organi esecutivi, al di fuori delle aule giudiziarie182. Senza mettere in dubbio il pieno potere del Legislatore di stabilire i criteri di ingresso e di allontanamento, la Corte dichiara l’incostituzionalità della condanna ai lavori forzati, in quanto sanzione punitiva, pena comminata in violazione del V e VI emendamento183, che sanciscono il principio per il quale è possibile limitare la libertà personale nei soli modi previsti dalla legge e nell’ambito di un giusto processo184. La Corte si preoccupa di distinguere la detenzione civile, funzionale ai procedimenti

180 Il due process of law della Costituzione Americana trae il suo precedente diretto dal § 39 della Magna Carta Libertatum. L’espressione risale ad uno statute di Enrico III del 1354, indica un giusto processo inteso non solo come garanzia di legalità ma anche di giustizia. Per una ricostruzione storica del due process of law e più in generale dell’habeas corpus, DUKER W.F., A Constitutional History of Habeas Corpus, Westport (Connecticut) 1980, pp. 12-94; HOLDSWORTH W.S., A History of English Law, Boston 1926, pp. 104-25; HURD R.C., A Treatise on the Right of Personal Liberty and on the Writ of Habeas Corpus and the Practice Connected with it: with a View of the Law of Extradition of Fugitives, Albany 1858, pp. 73-104; MEADOR D.J., Habeas Corpus and Magna Carta: Dualism of Power and Liberty, Charlottesville (Virginia) 1966, pp. 3-38; SHARPE R.J., The Law of Habeas Corpus, Oxford 1976, pp. 1-19. 181 163 US, 228, 1896. 182 La norma prevedeva che ogni cittadino cinese, la cui presenza negli USA fosse stata giudicata illegale, «shall be imprisoned at hard labor for a period of no exceeding one year and thereafter removed from the United States», ch.60, 27 Stat. 25, 1892. 183 Il V Emendamento recita: «No person shall be held to answer for a capital, or otherwise infamous crime, unless on a presentment or indictment of a Grand Jury … nor be deprived of life, liberty, or property, without due process of law»; mentre il VI Emendamento afferma: «In all criminal prosecutions, the accused shall enjoy the right to a speedy and public trial, by an impartial jury … to be informed of the nature and cause of the accusation; to be confronted with the witnesses against him; to have compulsory process for obtaining witnesses in his favour, and to have the Assistance of Counsel for his defense.». 184 Così 163 US, 237-38, 1896.

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immigratori 185 , assimilata alle misure di sicurezza penali, dalla detenzione come pena, assolutamente illegittima se applicata dall’autorità amministrativa e al di fuori di un due process finalizzato ad accertare la colpevolezza dell’imputato186.

Wong Wing delimita il pieno potere congressuale, riconducendolo allo scopo vero e proprio dell’autorità legislativa che è di disciplinare gli ingressi e gli allontanamenti. Le scelte e azioni governative connesse con questa finalità sono esclusive del potere politico, sulle quali il potere giudiziario è incompetente a svolgere un controllo in virtù della “plenary power doctrine”, ma le norme e azioni che trascendono lo scopo implicito nella Immigration Law, possono essere sottoposte al vaglio della magistratura, negando al Congresso l’autorità di promulgare norme a carattere punitivo per gli immigrati senza le garanzie del processo penale187. La Corte riconosceva al Congresso il potere di privare uno straniero della libertà personale solo come «temporary confinement, as part of the means necessary to give effect to the provisions for the exclusion or expulsion of aliens188».

Nel 1952 il Congresso promulgava una norma autorizzante l’Attorney General, durante i sei mesi successivi alla pronuncia di un ordine definitivo di espulsione, a ricorrere alternativamente alla misura detentiva o al rilascio, con lo scopo di garantire l’effettività del provvedimento189. Solo per un breve periodo la disposizione normativa venne interpretata dalla giurisprudenza come severamente limitata ai sei mesi successivi l’ordine di espulsione190, poi a fronte delle istanze di sicurezza nazionale venne avvallato il ricorso alla detenzione anche a tempo indefinito, mediante lo stratagemma della “entry fiction”, stando alla quale la Costituzione americana ha una forza circoscritta dai confini nazionali, ma «una volta entrati nel paese, le circostanze legali mutano, in quanto la “Due Process Clause” si applica a tutte le persone negli Stati Uniti, stranieri inclusi, a prescindere dal fatto che la loro presenza sia legale, illegale, temporanea o permanente191».

Nelle sentenze United States ex rel. Knauff v. Shaughnessy192 e Shaughnessy v. United States ex rel. Mezei193, la Corte Suprema sostiene che una straniero possa essere tenuto in custodia, potenzialmente a tempo indeterminato, senza che l’organo amministrativo sia tenuto a rivelare le ragioni e gli elementi probatori sulla base dei quali ha giudicato che il soggetto costituisca un pericolo per la sicurezza pubblica e senza che sia svolta un’indagine puntuale secondo le garanzie e i principi penalistici.

Le ragioni per le quali la Corte ha ignorato il precedente di Wong Wing possono essere ricondotte a due principali motivazioni.

In primo luogo Wong Wing atteneva alla espulsione, mentre Knauff e Mezei coinvolgevano situazioni catalogate nella categoria dell’esclusione. Dall’analisi svolta precedentemente, è emerso come la giurisprudenza abbia distinto nettamente tra deportabili ed escludibili, riconoscendo solo ai primi alcune tutele costituzionali. Va comunque sottolineato che la distinzione giurisprudenziale è intervenuta solo con la sentenza Yamataya v. Fischer194 e quindi successivamente alla pronuncia di Wong Wing. Ne consegue che Wong Wing possa applicarsi tanto ai casi di esclusione quanto a quelli di espulsione.

La seconda motivazione può essere ricondotta al fatto che se Wong Wing bandiva l’uso del potere di condanna da parte dell’autorità non giudiziaria e in spregio dei principi processuali

185 «We think it clear that detention, or temporary confinement, as part of the means necessary to give effect to the provisions for the exclusion or expulsion of aliens would be valid. Proceedings to exclude or expel would be vain if those accused could not be held in custody pending the inquiry into their true character and while arrangements were being made for their deportation.», queste le parole della Corte nella sentenza, Wong Wing v. United States, 163 US, 235. 186 Sulla misura detentiva di matrice civile, 163 US, 237. 187 «But to declare unlawful residence within the country to be an infamous crime, punishable by deprivation of liberty and property, would be to pass out of the sphere of constitutional legislation, unless prevision were made that the fact of guilty should first be established by a judicial trial.» Id. 237. 188 Cfr. 163 US, 235. 189 Cfr. Pub. L. No. 414, 66 Stat. 163, 1952. Fino al 1952 il Legislatore prevedeva che lo straniero potesse essere «taken into custody and deported», ch. 29, 39 Stat. 874. Il silenzio normativo circa il periodo di durata della detenzione fu interpretato dalle corti come legittimo se ragionevole. A questo proposito si vedano le sentenze, Caranica v. Nagle, 28 F.2d, 955, 957 (9th Cir.), 1928; United States ex rel. Ross v. Wallis, 279 F., 401, 403 (2d Cir.), 1922. 190 Si vedano i casi United States v. Witkovich, 140 F. Supp. 815 (N.D. Ill.), 1956; United States ex rel. Blankenstein v. Shaughnessy, 117 F. Supp., 699 (Southern District of New York), 1953; United States ex rel. Lee Ah Youw v. Shaughnessy, 102 F. Supp., 799 (S.D.N.Y.), 1952. 191 Così si esprime la Corte Suprema in Zadvydas v. Davis, 533 US, 693, 2001; ma si veda anche Plyler v. Doe, 457 US, 202, 210, 1982; Mathews v. Diaz, 426 US, 67, 77, 1976; Shaughnessy v. United States ex rel. Mezei, 345 US, 206, 212, 1953; Kwong Hai Chew v. Colding, 344 US, 590, 596-98 & n. 5, 1953; Wong Yang Sung v. McGrath, 339 US, 33, 49-50, 1950;“The Japanese Immigrant Case”, 189 US, 86, 100-01, 1903; Yick Wo v. Hopkins, 118 US, 356, 369, 1886. 192 United States ex rel. Knauff v. Shaughnessy, 338 US, 537, 1950. 193 Shaughnessy v. United States ex rel. Mezei, 345 US, 206, 1953. 194 Yamataya v. Fischer, 189 US, 86, 23 S.Ct., 611, 47 L.Ed., 721, 1903.

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penalistici, nei casi Knauff e Mezei il ricorso alla coercizione fisica era disegnato come momento incidentale e strumentale al procedimento di esclusione, quindi avente natura civile e non penale. Ma se può essere accettato che la Corte abbia ignorato il precedente di Wong Wing sulla base della distinzione azione civile e azione penale, la spiegazione assume contorni evanescenti quando si fa riferimento alla questione relativa all’autorità del potere esecutivo di restringere la libertà personale di un individuo senza due process.

Nel caso Carlson v. Landon195, relativo alla reclusione, in pendenza del procedimento di espulsione, di cinque immigrati accusati di essere membri del Partito Comunista e lamentanti l’illegittimità della detenzione senza che fosse stata provata la loro pericolosità per la sicurezza nazionale. La Corte Suprema riprende le primordiali interpretazioni ponendo sullo stesso piano esclusione e deportazione e sostiene che «deportation is not a criminal proceeding and has never been held to be punishment. No jury sits. No judicial review is allowed196». Riconosce che l’espulsione sia una misura particolarmente drastica che richiede da parte dell’organo esecutivo un esercizio responsabile «in a manner consistent with due process», ma anche che «there is no denial of the due process of the Fifth Amendment under circumstances where there is reasonable apprehension of hurt from aliens charged with a philosophy of violence against this Government 197», non ritenendo necessaria la prova soggettiva della pericolosità, ma sufficiente l’affiliazione ad una organizzazione che professa ideologie eversive: «as all alien Communists are deportable, like Anarchists, because of Congress’ understanding of their attitude toward the use of force and violence in such a constitutional democracy …, evidence of membership plus personal activity in supporting and extending the Party’s philosophy concerning violence gives adequate ground for detention. It cannot be expected that the Government should be required in addition to show specific acts of sabotage or incitement to subversive action.198».

L’orientamento giurisprudenziale successivo arriva a riconoscere allo straniero la titolarità di alcune libertà naturali, almeno quando questi si trovi all’interno del territorio americano. In merito all’uso della misura detentiva questo passo avanti comporta che una volta appurata la titolarità dello straniero alla libertà personale, si rende necessario stabilire se questa misura cautelare coinvolga tale interesse.

La giurisprudenza ha col tempo consolidato l’interpretazione199 che accosta la custodia in carcere dell’immigrato escludibile o deportabile alle misure cautelari di stampo penale e alla carcerazione di sicurezza di natura civile, tendendo a sottolineare il carattere della funzione preventiva, ancorata alla necessità di assicurare l’effettività dell’esclusione-espulsione e alla esigenza della difesa preventiva della società.

La carcerazione cautelare extra-penale è di fatto una misura afflittiva, in quanto priva il soggetto della libertà personale attraverso un procedimento amministrativo e non mediante un processo giurisdizionale. In abito civile la previsione della custodia è stata ritenuta compatibile con i principi costituzionali di “Due Process Clause” purché l’interesse pubblico che la richiede sia bilanciato con l’interesse dell’individuo alla libertà e con il principio del ricorso alla coercizione fisica come extrema ratio. Una volta stabilito che lo straniero ha un diritto alla libertà personale che può essere ristretto, si tratta di stabilire gli standards di protezione che gli devono essere accordati nel rispetto del principio di due process.

La giurisprudenza ha elaborato due «balancing tests» per valutare se siano rispettati i requisiti di due process nelle varie situazioni contingenti di ricorso alla carcerazione cautelare prima che la responsabilità penale sia accertata in forma definitiva o al di là dell’ambito criminale.

195 Carlson v. Landon, 342 US, 524, 1952. 196 Cfr. 342 US,538. 197 Cfr. 342 US, 542. 198 Cfr. 342 US, 540-41. 199 Numerose sono state le sentenze che hanno caratterizzato le procedure di esclusione ed espulsione come materia civile anziché penale; a titolo esemplificativo si possono vedere: Carlson v. Landon, 342 US, 524, 537, 1952; Mahler v. Eby, 264 US, 32, 39, 1924; United States ex rel. Bilokumsky v. Tod, 263 US, 149, 154, 1923; Bugajewitz v. Adams, 228 US 585, 591, 1913; United States v. Bodre, 948 F.2d, 28, 33-35, 1st Cir., 1991 (cert. negato, 112 S. Ct. 1487, 1992). Per la letteratura sulla natura civile dell’istituto dell’espulsione, P.H. SCHUCK, The Transformation of Immigration Law, in Colum. Law Review, 84, 1984, 24-27. Altre sentenze hanno riconosciuto le pesanti conseguenze dell’espulsione, facendo comunque prevalere la caratterizzazione civile anziché penale della materia, negandone la portata punitiva. Ad esempio, nel caso Fong Haw Tan v. Phelan la corte descrive «deportation is a drastic measure and at times the equivalent of banishment or exile», 333 US, 1948, 6, 10; «deportation can be the equivalent of banishment or exile», in Delgadillo v. Carmichael, 332 US, 1947, 388, 391; «[a]lthough deportation technically is not criminal punishment, it may nevertheless visit as great a hardship as the deprivation of the right to pursue a vocation or a calling», in Bridges v. Wixon, 326 US, 1945, 135, 147; la deportazione può avere come conseguenza «loss of both property and life; or of all that makes life worth living», in Ng Fung Ho v. White, 259 US, 1922, 276, 284.

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In United States v. Salerno 200 la Corte sostiene la costituzionalità di una legge autorizzante le corti federali a detenere un individuo in pendenza di giudizio se il Governo dimostra in modo chiaro e convincente che la sicurezza pubblica non può essere in altro modo garantita. La Corte riconosce la costituzionalità della norma, in quanto soddisfa sia il due process sostanziale, laddove serve per un interesse legittimo e imprescindibile e si applica solo a determinate categorie particolarmente gravi di reati201. Inoltre sotto l’aspetto procedurale si ritiene, generalmente, rispettato il principio della giusta procedura (fair procedure) quando siano assicurate adeguate informazioni sulle ragioni fondanti il provvedimento, la possibilità di un effettivo ricorso giudiziario, e le garanzie procedurali, che includono:

a) la prova, da parte del Governo, del «probable cause» che il reato imputato sia stato commesso;

b) una «full-blown adversary hearing» nella quale siano portati chiari ed evidenti elementi probatori che dimostrino l’impossibilità del rilascio a causa di insufficienti garanzie per la sicurezza collettiva;

c) il diritto ad un difensore; d) principio di legalità e della certezza del diritto («statutorily enumerated factors

guiding the detention decision»); e) accertamento scritto dei fatti e delle ragioni fondanti la decisone; f) garanzia del ricorso in appello contro la decisione202. Per quanto attiene all’aspetto sostanziale la giurisprudenza ha precisato che il ricorso alla

carcerazione extra-penale non può essere disancorato dall’accertamento della pericolosità del soggetto, a mezzo di un regolare giudizio203.

In Mathews v. Eldridge204 la Corte precisa che non si configura violazione delle garanzie di due process solo se l’interesse governativo a restringere lo spazio di libertà dell’individuo ha maggiore peso rispetto all’interesse personale che viene sacrificato, quando ogni altra misura risulti inadeguata.

La Corte Suprema, nella sentenza Reno v. Flores 205 , ha affermato che, poiché la detenzione è parte necessaria della procedura di espulsione206, deve essere effettuata nel rispetto degli standards procedurali del due process. Il caso riguardava la contestazione di un regolamento dell’Immigration and Naturalization Service che permetteva il rilascio degli stranieri minorenni arrestati, solo se affidati ai genitori o a parenti stretti. Si sosteneva che il regolamento violasse il due process, in quanto non richiedeva che l’Immigration and Naturalization Service, nel determinare la custodia o il rilascio del minore sotto la responsabilità di un adulto responsabile, svolgesse una valutazione, caso per caso, nel miglior interesse del minore.

La Corte, pur riconoscendo l’adeguatezza della procedura nel caso di specie, ribadisce, da un lato, l’applicabilità agli stranieri della garanzia del due process of law nel procedimento di espulsione, e dall’altro afferma la necessità di analizzare se la procedura stabilita sia adeguata207.

Per questi motivi la giurisprudenza ha limitato il ricorso a tale misura ai soli casi in cui vi sia una concreta esigenza di prevenzione, che in ambito immigratorio si traduce nell’esigenza di assicurare la concreta esecuzione dell’ordine di espulsione. Così si potrebbe rendere necessario garantire la presenza fisica dello straniero, allorquando ne venisse accertata la presenza illegale giustificante l’emissione dell’ordine di espulsione, laddove sussista il concreto pericolo che possa darsi alla fuga208; ancora esigenze cautelari potrebbero essere sollevate dai soggetti socialmente pericolosi209.

La Corte Suprema ha affrontato la questione della costituzionalità dell’indefinite detention poco prima del tragico attentato terroristico dell’11 settembre 2001 pronunciando una

200 Il caso riguardava l’invocazione dell’incostituzionalità del Bail Reform Act, per la parte in cui prevedeva la carcerazione preventiva, in pendenza di giudizio, agli imputati per reati federali, United States v. Salerno, 481 US, 739, 1987. 201 Cfr. 481 US, 749-50. 202 Cfr. United States v. Salerno, 481 US, 750-752; Goldberg v. Kelly, 397 US, 254, 1970; Mathews v. Eldridge, 424 US, 319, 1976. 203 Si vedano in proposito le sentenze, Kansas v. Hendricks, 521 US, 346, 1997; Foucha v. Louisiana, 504 US, 71, 1992. 204 Mathews v. Eldridge, 424 US, 319, 1976. 205 Reno v. Flores, 507 US, 292, 1993. 206 Cfr. 342 US, 524, 538, 1952. 207 Cfr. 507 US, 292, 300, 306, 1993. 208 Cfr. Le sentenze Carlson v. Landon, 342 US, 524, 541-42, 1952; United States v. Salerno, 481 US, 752-53, 1987; Zadvydas v. Davis, 533 US, 688, 2001. 209 Cfr. Kansas v. Hendricks, 521 US, 346, 357, 1997; Kansas v. Crane, 534 US, 412-413; Zadvydas v. Davis, 533 US, 690.

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sentenza Zadvydas v. Davis 210 che rappresenterà un nuovo leading case nella storia giurisprudenziale in ambito immigratorio e che ha già influenzato il Legislatore all’indomani della tragedia di New Work e del Pentagono.

Zadvydas, residente permanente, viene raggiunto da un ordine di espulsione a fronte di una condanna penale e detenuto oltre il removal periodo di novanta giorni 211 , decorso inutilmente il quale il ricorrente è detenuto indefinitely data l’incapacità dell’Immigration and Naturalization Service di rimpatriarlo. Il ricorrente proponeva ricorso di habeas corpus contestando la legittimità della detenzione indeterminata davanti alla corte distrettuale della Louisiana, che ne ordinava il rilascio ritenendo che, sebbene le legge autorizzi la «indefinite detention», il perdurare del periodo di carcerazione di Zadvydas sarebbe stato eccessivo e irrispettoso del sua diritto al due process212. In appello il verdetto viene ribaltato. La corte d’appello del Fifth Circuit sostiene la legittimità della continuata detenzione di uno straniero espulso «based on either ranger to the community or risk of flight while good faith efforts to effectuate the alien’s deportation continue and reasonable parole and periodic review procedures are in place213». Il caso approda quindi davanti alla Corte Suprema che lo riunifica al caso Kim Ho Ma v. Reno214 al fine di eliminare il contrasto tra le due sentenze, annulla e rinvia la decisione d’appello.

La Corte interpreta la norma come fissante un limite massimo di durata della custodia dello straniero espulso, oltre il quale se l’espulsione risulti verosimilmente impraticabile nell’immediato futuro lo straniero deve essere rilasciato. La Corte sceglie di non raffrontare, direttamente, la legge e la norma costituzionale assunta a parametro e di dichiarare l’incostituzionalità del testo nella parte in cui significa ammettere l’indefinite detention. Opta piuttosto per la pronuncia di una sentenza interpretativa sulla circostanza che l’indeterminatezza della norma si presta ad essere interpretata in modo da risultare conforme al dettato costituzionale. «It is a cardinal principle of statutory interpretation, however, that when an Act of Congress raises a serious doubt as to its constitutionality, this Court will first ascertain whether a construction of the statute is fairly possible by which the question may be avoided». «… [I]n our view, the statute, read in light of the Constitution’s demands, limits an alien’s post-removal-period detention to a period reasonably necessary to bring about that alien’s removal from the United States. It does not permit indefinite detention215».

Nel ricorso si sosteneva la frustrazione della finalità della misura detentiva, posta allo scopo di garantire effettivamente l’espulsione, qualora questa si dimostri plausibilmente inverosimile, violando di conseguenza il due process sostanziale. Il Governo resisteva affermando che lo status dello straniero espulso è assolutamente diverso rispetto allo status degli altri non-cittadini all’interno degli USA, in quanto l’ordine di espulsione estingue qualsiasi diritto che lo straniero potrebbe vantare; in tal caso l’indefinite detention non solleverebbe alcuna questione di costituzionalità.

La Corte Suprema respinge l’argomentazione governativa, precisando che il V emendamento protegge tutte le persone all’interno degli Stati Uniti, anche se illegali o raggiunti da un ordine di espulsione, e che un’interpretazione della norma come autorizzante l’indefinite detention porrebbe gravi problemi di costituzionalità: «[A] statute permitting indefinite detention of an alien would raise a serious constitutional problem. The Fifth Amendment’s Due Process Clause forbids the Government to deprive any “person … of … liberty … without due process of law. Freedom from imprisonment – from government custody, detention, or other forms of physical restraint – lies at the heart of the liberty that clause protects. … And this Court has said that government detention violates that Clause unless the detention is ordered

210 Zadvydas v. Davis, 533 US, 678, 2001. 211 L’Immigration and Naturalization Service abitualmente trattiene in custodia lo straniero raggiunto da un ordine di espulsione nei novanta giorni successivi al pronunciamento dell’ordine stesso al fine di assicurarne l’effettività. Decorso inutilmente il removal period l’Immigration and Naturalization Service può continuare a detenere alcune categorie di persone per un «post removal period». 212 Al momento del ricorso Zadvydas aveva trascorso in custodia tre anni e nove mesi e le possibilità di effettuare il rimpatrio apparivano verosimilmente nulle. La corte distrettuale precisava che la legge autorizzava la detenzione a tempo indeterminato, ma che il periodo di custodia del ricorrente eccedeva il significato intrinseco alla finalità legislativa della misura di rendere effettiva l’espulsione, Zadvydas v. Caplinger, 986 F. Supp., 1011, 1026-27 (E.D. La.), 1997. 213 Così nella sentenza d’appello Zadvydas v. Underdown, 185 F.3d, 279, 297 (5° Cir.), 1999. 214 Hyung Joon Kim, residente permanente negli USA, viene espulso in seguito all’aver commesso un «aggravated felony» (§ 1227(a)(2)(A)(iii) Immigration and Nationality Act) e quindi detenuto. Kim allora propone, davanti alla corte distrettuale della California, un ricorso di habeas corpus, che viene accolto. In appello la corte d’appello del Ninth Circuit concludeva che la previsione della carcerazione di post removal, sebbene non fosse apertamente incostituzionale, violasse il V emendamento in applicazione ad un residente permanente, Kim Ho Ma v. Reno, 208 F.3d, 815 (9° Cir.), 2000. 215 Cfr. 533 US, 690.

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in a criminal proceeding with adequate procedural protection, see United States v. Salerno, 481 U.S. 739, 746 (1987), or, in certain special and narrow non-punitive circumstance, [see] Foucha [v. Louisiana, 504 U.S. 71, 80 (1992)], where a special justification, such as harm-threatening mental illness, outweighs the “individual’s constitutionally protected interest in avoiding physical restraint.” Kansas v. Hendricks, 521 U.S. 346, 356 (1997)216». Come emerge da questo passaggio della sentenza la misura detentiva immigratoria è assimilata alla analoga misura civile, soggetta alle stesse tutele e limiti costituzionali.

Nella memoria governativa si legge che due sono gli scopi legislativi della detenzione dello straniero espulso: «ensuring the appearance of aliens at future immigration proceedings» e «preventing danger to the community»217. La Corte boccia la prima argomentazione perché «weak or nonexistent where removal seems a remote possibility at best», mentre concede che la restrizione della libertà personale sulla base di un giudizio di pericolosità «only when limited to specially dangerous individuals and subject to strong procedural protections»218. Infine va notato che è mantenuta la distinzione territoriale per la quale solo coloro che si trovano all’interno dei confini americani sono pienamente garantiti dal testo costituzionale. La Corte si rifiuta di riconsiderare il precedente di Mezei, in quanto distingue tra la fattispecie anteriore, nella quale il non-cittadino era stato fermato alla frontiera, e quella attuale nella quale il non-cittadino è stato legalmente ammesso e si trovava negli Stati Uniti al momento dell’instaurazione del procedimento di espulsione: «[T]he distinction between an alien who has affected an entry into the United States and one who has never entered runs throughout immigration law. … It is well established that certain constitutional protections available to persons inside the United States are unavailable to aliens outside of our geographic borders219». 5. Considerazioni conclusive.

La Costituzione, come è emerso nei precedenti paragrafi, non si occupa direttamente della tematica dell’immigrazione né sotto l’aspetto organizzativo, ossia di ripartizione collaborativa dei poteri tra organo federale ed organi statali, né tanto meno della figura dello straniero, sollevando quindi la questione se questi sia un soggetto meritevole di tutela e in quali termini.

Il generale atteggiamento della giurisprudenza nei confronti dell’immigrazione è stato ed è tuttora, anche se con delle attenuazioni, permeato dalla concezione dell’immigrato da un punto di vista “internazionale”. L’immigrazione è materia di diritto internazionale, nel senso primordiale del termine, e cioè di relazioni tra nazioni sovrane, per cui l’immigrato prima che persona è cittadino di un’altra nazione.

Comprendendo tale posizione si capisce allora la nascita e il susseguente radicamento della “plenary power doctrine” finalizzata sia all’attribuzione del potere di regolamentare la materia in capo al Governo federale, sia a giustificare la auto-limitazione, operata a proprio carico dalla stessa Corte Suprema, del margine di movimento in sede di controllo di costituzionalità.

Quanto al primo punto, la giurisprudenza ha cercato di inferire la potestà legislativa federale ricercandone il fondamento all’interno del testo costituzionale. Della Immigration Law è esaltato l’aspetto “estero”, di relazione con altre nazioni sovrane, e pertanto interpretabile come ennesima sfaccettatura dell’autorità di dichiarare guerra, di stipulare trattati internazionali, di sopprimere insurrezioni, di respingere le invasioni, di regolare il commercio con l’estero, di garantire la democrazia dei singoli stati componenti l’Unione, di concedere la cittadinanza. Questi sono «sovereign powers, restricted in their exercise only by the Constitution itself and considerations of public policy and justice which control, more or less, the conduct of all civilized nations220».

Quanto al secondo aspetto dell’inquadramento della Immigration Law nel sistema delle fonti, la giurisprudenza ne ricava il fondamento giuridico non già dalla carta costituzionale, bensì ricorrendo al concetto “extra-costituzionale” di necessità e di preservazione dell’ordinamento sociale ed istituzionale, arrivando ad una esternalizzazione della legislazione immigratoria tale da giustificarne la sottrazione dal judicial review.

Dai paragrafi precedenti sono emerse tre linee evolutive nella storia giurisprudenziale

216 Cfr. 533 US, 690. 217 Le argomentazioni della memoria presentata dal Governo sono citate nella sentenza, 690. 218 Cfr. 533 US, 691. 219 Cfr. 533 US, 693. 220 “The Chinese Exclusion Case”, 130 US, 604, 1889.

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dell’Immigration Law: interpretazione assolutamente rigida della “plenary power doctrine”, inammissibili contro deportabili, ed infine preferenza per le pronunce interpretative di rigetto.

La prima giurisprudenza interpreta rigidamente l’esclusività del potere governativo di disciplinare l’immigrazione che, in quanto attinente alla sfera diplomatica e di relazioni con l’estero, esula dalla funzione giurisdizionale tout court volta alla corretta attuazione della legge con riguardo ai casi concreti e a garantire il singolo contro la legge e gli atti subordinati nel rispetto dei valori fondamentali espressi nella Costituzione. Le corti trattano indistintamente le questioni derivanti dall’ammissione e dall’espulsione, qualificando lo status dello straniero nel senso di cittadino di un’altra nazione e negandogli ogni libertà costituzionale.

Se le corti federali rinunciano a svolgere la funzione giurisdizionale sugli atti del Governo federale, non così avviene nei confronti degli atti statali. Il potere giudiziario federale mantiene fermamente il suo ruolo primigenio nelle controversie statali in merito alle libertà positive («libertà di…») che esprimono l’ambito di autonomia individuale nella vita di relazione, e quindi nei rapporti economico-sociali, riconosciute a «all persons» negli Stati Uniti, senza distinzione, stranieri inclusi a prescindere dal fatto che la loro presenza sia legale, illegale, temporanea o permanente. La giurisprudenza contribuisce, quindi, alla formazione del doppio binario che esiste in materia a livello legislativo, ove si distingue tra Immigration Law e Alienage Law. Sviluppa infatti una doppia tendenza che affianca al riconoscimento pieno dei diritti sociali (come la pretesa di ricevere prestazioni pubbliche riguardanti, ad esempio, l’istruzione, la sicurezza sociale, la proprietà, la tutela della salute, i servizi culturali) dello straniero – legale o illegale che sia – un orientamento meno garantista circa i diritti negativi, ossia quelle libertà tradizionalmente insopprimibili, quali quella di pensiero e le sue manifestazioni, di riunione e associazione, quella personale, con particolare riferimento alla sicurezza personale e alla libertà da arresti immotivati (habeas corpus).

Successivamente la giurisprudenza apre alla ricevibilità delle eccezioni di legittimità degli atti amministrativi rispetto al dettato costituzionale (due process of law e writ of habeas corpus), circoscrivendo in qualche modo la “plenary power doctrine” alle scelte sostanziali del Legislatore, che continuano ad essere esonerate dal giudizio di costituzionalità.

Quando però il contesto geopolitico spinge l’autorità politica ad internalizzare le esigenze di sicurezza nazionale, le corti riprendono l’antica deferenza elucubrando uno escamotage finalizzato a paralizzare nei fatti il diritto, precedentemente riconosciuto, al due process procedurale. Con la “entry fiction” al non-cittadino è negata o riconosciuta la titolarità di alcuni diritti costituzionali, partendo dal presupposto che gli aspetti caratteristici e distintivi di un ordinamento statale – popolo e territorio – segnerebbero i limiti della sua validità personale e territoriale.

La “entry fiction” è criterio puramente geografico che segna il confine della giurisdizione americana, ma sempre e solo in un’ottica interna. Lo straniero continua ad essere concepito non come persona ma come cittadino di un altro paese, nei confronti del quale la società americana accorda o rifiuta il privilegio di partecipare alla propria collettività ogniqualvolta che costui si trovi al confine, a prescindere dal fatto che si tratti di una richiesta di primo ingresso o di rientro. L’immigrato è «persona» nel senso costituzionale del termine solo se all’interno degli USA senza alcuna considerazione per i legami che l’individuo può aver sviluppato con la società americana.

Gli effetti della distensione dei rapporti internazionali e dell’inizio di una serena revisione critica del periodo si ripercuotono in campo giuridico, allorquando i giudici non avvertono più il peso del necessario avvallo della politica degli ingressi e allontanamenti scandita dai concitati momenti della “cortina di ferro”.

Si apre così una nuova fase più possibilista ma sempre cauta, nella quale la giurisprudenza non disconosce i precedenti orientamenti ma li piega a giudizi più garantisti attraverso lo strumento interpretativo.

Si continua a discernere tra le due categorie “esclusi” e “espulsi”, ma non più attraverso il criterio puramente geografico. Le corti consolidano lo status del residente permanente, dello straniero cioè che in seguito all’ammissione ha avuto il privilegio di costruire la propria vita e sviluppare la propria personalità in seno alla società americana, indebolendo i legami con la terra d’origine. Il residente permanente, viene riconosciuto, è più person che alien e per questo gli devono essere garantiti i diritti che i costituenti si sono limitati a riconoscere come libertà naturali proprie di tutte le persone.

La giurisprudenza poi approfondisce lo scrutinio delle norme immigratorie ma non sotto il profilo costituzionale, preferendo al sindacato di incostituzionalità espresso, il proprio potere di interferenza sulla legislazione mediante sentenze interpretative, laddove nell’ordinamento nordamericano le decisioni giurisprudenziali sono creative di diritto. Il nuovo spirito delle corti

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muta nella tecnica e di riflesso nella sostanza senza però contrastare mai esplicitamente il Legislatore, come è espresso in modo molto chiaro nella sentenza Immigration and Naturalization Service v. St. Cyr nella quale si legge: «[the rule] recognized that Congress, like this Court, is bound by and swears an oath to the Constitution. The courts will therefore not lightly assume that Congress intended to infringe constitutionally protected liberties or usurp power constitutionally forbidden it221». Questa potrebbe essere una rilettura in chiave moderna della vecchia “plenary power doctrine”.

CAPITOLO III

STATI UNITI ED IMMIGRAZIONE NEL XXI SECOLO: LA GIURISPRUDENZA TRA TOLLERANZA ED ESPULSIONE

Abbiamo notato come l’ordinamento americano, in seguito all’attacco al World Trade

Center e al Pentagono, abbia riscritto la propria politica immigratoria, sotto il profilo dei diritti dell’immigrato, per fronteggiare la lotta al terrorismo internazionale creando le premesse per delle azioni di contrasto. L’indagine ha evidenziato come dallo stato di crisi post-11 settembre non è conseguita una legislazione particolarmente innovativa, dato che gli Stati Uniti hanno sempre mantenuto la concezione dell’emigrazione come di una materia attinente agli affari esteri e alla sicurezza nazionale, caratterizzata da decisioni legislative integrative a seconda delle eccezioni intervenute in un determinato momento storico. In questo senso sono necessarie ulteriori precisazioni per comprendere alcuni passaggi essenziali di questa concezione.

Innanzitutto si vuole richiamare la cornice istituzionale rispetto alla suddivisione delle funzioni dello Stato – legislativa, esecutiva e giudiziaria – alla gerarchia delle fonti e allo stato di crisi o di emergenza.

Come è noto all’articolo 1 il Congresso è investito della funzione legislativa in tutte le materie indicate, e inoltre gli è attribuito il potere di «provide for the common Defense», di «define and punish … [O]ffences against the Law of Nations», di «declare War … make Rules concerning Captures on Land and Water»222. L’articolo 2, invece, conferisce il potere esecutivo al Presidente, il quale è «Commander in Chief» delle forze armate, nonché responsabile per gli affari esteri, inclusa l’autorità di stipulare trattati e di intrattenere le relazioni diplomatiche223. L’articolo 3, infine, investe del potere giudiziario la Corte Suprema e «[in] such inferior Courts as the Congress may from time to time … establish».

La gerarchia delle fonti è indicata all’articolo 6 il quale eleva le norme contenute nella Costituzione al rango di fonte suprema, seguita dagli atti federali primari e dai trattati internazionali.

Per quanto riguarda lo stato di crisi o di emergenza la Carta costituzionale dedica scarni riferimenti per lo più generici e poco precisi; esso opererebbe come sistema di chiusura di un complesso di fonti formali e ordinarie, nella formulazione che «il privilegio dell’habeas corpus non sarà sospeso se non quando, in caso di ribellione o di invasione, lo esiga la sicurezza pubblica»224 . Sembrerebbe quindi che le garanzie costituzionali possano anche subire una temporanea sospensione, ma soltanto nei due casi specifici espressamente previsti: ribellione, e quindi insurrezione avverso i poteri costituiti, ed invasione, ovvero introduzione permanente e duratura di forze straniere nel territorio dello Stato. È altrettanto vero però che la mancanza di una base giuridica sicura ed obiettiva non escluderebbe che possano intervenire misure idonee a fronteggiare determinate situazioni di pericolo. In generale, sarebbe perciò la necessità a giustificare comunque interventi extra ordinem con l’evidente scopo di preservare l’ordinamento nel suo complesso dallo scardinamento e dalla caducazione, e la collettività interessata da possibili pericoli. In altre parole, l’insufficienza delle fonti formali o la loro incompletezza determinerebbe automaticamente un accrescimento dell’ambito delle fonti necessitate e dunque delle prerogative delle autorità di Governo.

Ora muovendo più nel dettaglio della materia di indagine, è stato mostrato che la Corte Suprema è intervenuta a più riprese in materia immigratoria e che la sua giurisprudenza può

221 Cfr. Immigration and Naturalization Service v. St. Cyr, 121 S. Ct., 2271, 2279 n.12, 2001, citando le parole del giudice Edward nella sentenza DeBartolo Corp. v. Florida Gulf Coast Building & Constr. Trades Council, 485 US, 568, 1988. 222 Art. 1, §§ 8, 9, Cost. 223 Art. 2, §§ 2, 3, Cost. 224 Art.1, § 9, cl. 2, Cost.

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essere distinta in due gruppi di sentenze: a) Un primo gruppo ha risolto il conflitto di competenza tra Stati membri e Federazione;

infatti la competenza congressuale di disciplinare gli ingressi e gli allontanamenti degli stranieri non ha dirette basi costituzionali (essendo la carta costituzionale silente sul punto, fatta eccezione per l’uniformazione delle regole di naturalizzazione);

b) il secondo gruppo, cronologicamente successivo, è relativo ai diritti dell’immigrato e, in particolare, alle restrizioni in materia di libertà personale.

Come abbiamo notato, l’intera politica immigratoria americana è connessa ad istanze di sicurezza nazionale e, forse, è proprio tale percezione a spiegare il fondamento dell’orientamento giurisprudenziale che non riconosce allo straniero i diritti naturali che il costituente aveva riconosciuto a “all persons” o “all people”, senza distinzioni di nazionalità225. Strettamente connesso a questo punto è il fatto che, tradizionalmente, per gestire situazioni domestiche e internazionali eccezionali sono stati utilizzati atti normativi provenienti dalla assemblea legislativa, anziché ricorre all’esecutivo al quale, però, direttamente e indirettamente, è riservata la gestione e l’attuazione dei compiti e dei poteri individuati dall’assemblea. Infatti, nella pratica, il Congresso riduce la propria funzione legislativa ad una mera indicazione delle finalità da perseguire, indicando, talvolta in modo decisamente generico, i principi e i criteri direttivi cui l’esecutivo deve ispirarsi nel predisporre i provvedimenti secondari, e limitando il ruolo del potere giudiziario in modo drastico. Apparentemente vi sarebbe quindi un ribaltamento delle posizioni e delle funzioni delle diverse fonti, e quelle fondate sulla necessità tenderebbero ad assumere apparenze quasi “normali ed ordinarie”, perdendo perciò il connotato eccezionale che è loro proprio.

Così, ad esempio, la situazione emergenziale con la Francia origina due distinti interventi legislativi: l’Alien Enemies Act che prevedeva l’arresto, la detenzione o l’espulsione (senza udienza davanti ad un organo giudiziario) degli stranieri, cittadini di una nazione nemica, in caso di una dichiarazione ufficiale di aggressione, intesa come «… declared war between the United States and any foreign nation or government, or any invasion or predatory incursion shall be perpetrated, attempted or threatened against the territory of the United States226 …» (si noti che questo atto non è poi stato utilizzato poiché la guerra non venne mai dichiarata); l’Alien Act, che autorizzava il Presidente (seppure temporaneamente, essendo previsto che la legge avrebbe smesso di vigere entro due anni dall’emanazione) a deportare gli stranieri da lui considerati «poter costituire un pericolo per la pace e la sicurezza degli Stati Uniti» o nei confronti dei quali «[avesse] reasonable grounds to suspect are concerned in any treasonable or secret machinations against the government227».

Per la prima delle due leggi – Alien Enemies Act – è evidentemente l’aggancio con il testo costituzionale che subordina la compressione della sfera delle libertà personali – in questo caso dello straniero – al ricorrere dei presupposti dello stato di crisi:

1) accertamento concreto e puntuale della fonte necessitata (dichiarazione di guerra); 2) eccezionalità; 3) temporaneità. L’organo esecutivo viene così investito dei poteri necessari dal Legislatore e, sotto la

spinta dell’emergenza, si determina uno sbilanciamento tra il ruolo del Parlamento e della Magistratura da un lato, e del Governo dall’altro lato, a tutto vantaggio di quest’ultimo, ma nel rispetto del principio di legalità: infatti gli atti esecutivi devono trovare nella legge contemporaneamente il loro fondamento e il loro limite. Altrettanto prevista e disciplinata dalla Costituzione, in certe circostanze, è la deroga alla garanzia giurisdizionale da parte di un giudice indipendente.

Con l’Alien Act, al contrario, il Congresso delega all’Esecutivo il potere di far fronte alla situazione di emergenza con misure adeguate, lasciando a questo l’accertamento della sussistenza della situazione di particolare pericolo per l’ordinamento con la formulazione assolutamente generica di «reasonable grounds».

Legittimazione di tale potere non è più la fonte suprema, ma una fonte-fatto, ossia l’invocazione del principio di necessità da parte dello stesso organo che, in definitiva, delibererà i poteri eccezionali necessari e sarà anche competente ad esercitarli. Questa impostazione caratterizza anche l’Immigration Law della prima metà del Novecento e le modifiche introdotte, nel 2001, dallo USA PATRIOT Act, in materia.

Il potere politico sembrerebbe non essersi mai fatto carico di disciplinare la materia: ha

225 Si veda il medesimo problema linguistico affrontato da Cecilia Corsi in riferimento alla Costituzione italiana: CORSI C., Lo stato e lo straniero, Padova 2001, p. 66 ss. 226 § 1, Ch. 66, 1 Stat. 577, 6 luglio 1798. 227 Cfr. § 1, 1 Stat. 570, Ch. 58, 1798.

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preferito conformare la propria azione non a regole precostituite, ma ad esigenze contingenti e mutevoli, in continuo divenire. Alla base della possibile adozione di misure di emergenza ulteriori, rispetto al quadro preesistente, assumeva una rilevanza fondamentale il principio di necessità, invocato a fronte dell’emergenza “cinese”, piuttosto che del diffondersi di ideologie politiche “eversive”, della minaccia del terrorismo internazionale. Quindi al determinarsi di una situazione critica consegue sul piano interno l’adozione di regimi di polizia a tutto discapito dell’immigrato, nei confronti del quale vengono assunte scelte politiche inaccettabili se riferite al cittadino comune228. La ragione principale di questo atteggiamento è che la determinazione della facoltà, per un individuo, di essere ammesso nella società americana e successivamente allontanato è una questione essenzialmente politica, internazionale e legata ai rapporti diplomatici tra nazioni sovrane, un compito a tal punto implicito nel concetto di sovranità da non essersi resa necessaria l’annoverazione tra i “Delegated Powers”.

Il quadro dei diritti che l’ordinamento americano riconosce allo straniero è il frutto di un’intensa attività deduttiva svolta dalla giurisprudenza nel costante tentativo di destreggiarsi nel bilanciamento tra l’istanza – posta dall’organo politico – dell’interesse pubblico e il dettato costituzionale, dal momento che la Costituzione non adotta la condizione della cittadinanza come criterio di inclusione o di esclusione dai diritti fondamentali, ma anzi nel riconoscere le libertà naturali utilizza locuzioni quali «people» (I e IV emendamento) e «person» (V e XIV emendamento), prive di qualsiasi riferimento nazionale; il riferimento alla cittadinanza è solo un requisito per il godimento dei diritti politici (elettorato attivo e passivo).

Il risultato giuridico cui è approdata la giurisprudenza americana nel corso della storia può essere definito di “patriottismo costituzionale”, allorquando le corti riconducono l’estensione delle libertà negative al dato territoriale «[I]t is well established that certain constitutional protections available to persons inside the United States are unavailable to aliens outside of our geographic borders. But once an alien enters the country, the legal circumstance changes, for the Due Process applies to all “persons” within the United States229».

In seguito alla sentenza Yamataya v. Fischer, con la quale per la prima volta allo straniero viene riconosciuta, contro un atto illegittimo dell’autorità immigratoria, la tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo – costituzionalmente protetto dal due process – al buon andamento e all’imparzialità, la Corte Suprema ne ha esteso e ampliato la portata, fino a riconoscere all’immigrato, all’interno dei confini nazionali, anche la titolarità dei diritti soggettivi ed in particolare del diritto alla libertà fisica.

In particolare la protezione dei diritti di un non-cittadino soggetto a procedimento di espulsione, e magari sottoposto alla misura della custodia cautelare, è sempre stata particolarmente problematica per la natura amministrativa del procedimento, nel quale l’Immigration and Naturalization Service è l’organo responsabile sia delle funzioni di polizia (arresto) sia requirenti (avvio del procedimento) sia infine giudicanti.

L’impiego della misura della custodia cautelare come strumento per assicurare l’effettività dell’espulsione, è stata ritenuta legittima nell’esclusivo perseguimento dello scopo prefissato e mediante la valutazione ponderata degli interessi coinvolti caso per caso. Da questa impostazione di massima, che riguarda il modo in cui si colloca la detenzione immigratoria tra scopi di sicurezza e principi costituzionali, secondo l’indirizzo di una giurisprudenza abbastanza condivisa e consolidata dalla Corte Suprema, poco prima dell’attentato alle Torri, nella sentenza Zadvydas, si possono provare a trarre delle considerazioni sulla normativa emergenziale contenuta nello USA PATRIOT Act.

Come noto, all’indomani dei terribili attentati al World Trade Center e al Pentagono, il Congresso ha ritenuto necessario intervenire anche sulla normativa immigratoria in adeguamento alla nuova minaccia, non convenzionale, del terrorismo internazionale, ritenendosi una nazione in guerra e decretando una legislazione d’urgenza.

La situazione eccezionale ha legittimato un accrescimento delle prerogative del potere esecutivo e delle sue strutture operative, soprattutto quelle preposte all’attività di polizia e sicurezza, come in ambito immigratorio l’Immigration and Naturalization Service. Un’ulteriore conseguenza dell’adozione di tale regime è la riduzione pressoché generalizzata dei diritti di libertà che infatti subiscono sia un restringimento sotto il profilo sostanziale, sia limitazioni dal punto di vista procedurale e di controllo, con diminuzione delle competenze degli organi giudiziari, in favore degli apparati di polizia.

Le novità immigratorie, contenute nello USA PATRIOT Act, consistono in un’espansione delle ragioni che determinano l’inammissibilità o l’espulsione di uno straniero per ragioni di

228 Cfr. la sentenza Mathews v. Davis, 426 US, 67, 80, 1976. 229 Queste le parole della corte nella sentenza Zadvydas v. Davis, 533 US, 693, 2001.

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affiliazione ad organizzazioni terroristiche (§ 411), e nella previsione di nuovi meccanismi di indagine e detenzione in pendenza di un procedimento di espulsione (§ 412).

Nonostante queste misure potrebbero essere in contrasto con il complesso dei diritti garantiti dalla Costituzione (Bill of Rights e Habeas Corpus) e in particolare il I emendamento (diritto di rivolgere petizioni all’autorità governativa in caso di torti o illeciti compiuti dalle forze dell’ordine) il V emendamento (che vieta ogni forma di privazione della libertà personale e dei beni in assenza di una regolare procedura giudiziaria (due process)) e il VI emendamento (che garantisce condizioni di celerità e trasparenza delle procedure giudiziarie), la giurisprudenza della Corte Suprema non fornisce in modo univoco un criterio per valutare se la norma che disciplinan la procedura di applicazione della misura della custodia cautelare, contemplata dallo USA PATRIOT Act, sia costituzionalmente “due”.

Al fine di indagare se la disposizione normativa delinei una procedura “due”, stando al dettato costituzionale, si può ricorrere al “balancing test” architettato dalla sentenza Mathews v. Eldridge, nonostante sia riferita alla detenzione preventiva in ambito civile e non immigratorio; cosa assolutamente corretta data la consolidata definizione della Immigration Law come materia civile-amministrativa. Il “Mathews test” basa la correttezza della procedura, con la quale si priva un individuo della libertà personale in via preventiva e al di fuori di un procedimento penale, sulla valutazione di tre elementi: 1) interesse privato del soggetto; 2) inadeguatezza di altre misure di sicurezza in relazione al rischio di erronea valutazione; 3) adeguatezza della misura rispetto allo scopo.

Nella custodia cautelare l’interesse privato coinvolto è il diritto fondamentale alla libertà personale, che la giurisprudenza ha riconosciuto anche all’immigrato. Il rischio di errore nella procedura descritta dalla § 412 dello USA PATRIOT Act è elevato laddove non si prevede che, ad un certo punto, sia fissata un’udienza e al soggetto sia data la possibilità di conoscere le prove raccolte a suo carico. Se la necessità della sicurezza nazionale può legittimare l’arresto preventivo, una volta che l’individuo è in custodia tale necessità non può più essere a lungo invocata, soprattutto se il diritto che viene sacrificato è quello massimo alla libertà fisica. A ciò si aggiunga la rinuncia alla prova ed alla rilevanza dei fatti. Ovviamente nel confronto tra interesse privato alla libertà e interesse pubblico alla sicurezza nazionale è scontato che al secondo sia riconosciuto maggior valore, ma ciò non toglie la possibilità e la necessità di predisporre procedure che consentano allo straniero di conoscere i motivi e di chiederne la revisione in udienza della certificazione, così che sia assicurata protezione da decisioni arbitrarie, seppure in un contesto emergenziale. Questo rilievo assume maggior peso se si considera l’atteggiamento giurisprudenziale in merito al trattamento degli “enemy aliens”, ritenuto assoggettato ai limiti costituzionali «[neither the Proclamation] nor the fact that the [petitioners] were enemy aliens forecloses consideration by the courts of petitioners’ contentions that the Constitution and laws of the United States constitutionally enacted forbid their military commission230». Partendo dal fondamentale principio che nessuno dei tre poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – trae legittimazione se non dalla Costituzione, si afferma che anche in “war time” ogni potere dello Stato deve essere esercitato nel rispetto dei limiti costituzionali231.

Certamente i poteri bellici non sono meno fondamentali per difendere la sicurezza nazionale del potere di regolare l’immigrazione e se nel primo caso si riconosce l’impossibilità di escludere totalmente la giurisdizione ordinaria, allora così dovrebbe essere a maggior ragione in ambito immigratorio. Questo ragionamento potrebbe però essere rigettato appellandosi alla primordiale dottrina dei pieni poteri dedotti dal concetto “extra-costituzionale” di sovranità. Va però anche rilevato come nel corso della giurisprudenza tale teoria, seppure mai abbandonata del tutto, sia stata fortemente ridimensionata, riconoscendo che anche i poteri immigratori sono «subject to important constitutional limitations232».

Se dal punto di vista procedurale le nuove previsioni soffocano il principio di due process, da un punto di vista sostanziale si rinuncia a dimostrare l’inevitabilità e la concretezza del pericolo, arrestandosi alla fase del sospetto. La contestabilità in giudizio della violazione del V emendamento nel suo aspetto sostanziale risulta essere una strada impervia, data la secolare reticenza delle corti a svolgere un sindacato di costituzionalità sui contenuti delle leggi

230 Così nella sentenza Ex parte Quirin. Il caso nasceva dalla cattura e assegnazione al tribunale militare, per il relativo processo, di un gruppo di sabotatori tedeschi sul territorio americano durante la Seconda Guerra Mondiale, sulla base di un Ordine del Presidente in qualità di Commander in Chief delle forze armate, con il quale i soggetti catturati, cittadini o non-cittadini, e accusati «with committing or attempting or preparing to commit sabotage, espionage, hostile or warlike acts, or violations of the law of war, shall be subject to the law of war and to the jurisdiction of military tribunals. … all such persons were denied access to the courts.», Ex parte Quirin, 317 US, 1, 22-23, 1942. 231 317 US, 26. 232 Cfr. Zadvydas v. Davis, 533 US, 695.

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immigratorie e inoltre a fronte del precedente, mai riveduto, del caso Carlson v. Landon233, nel quale la Corte Suprema sostenne la legittimità della detenzione in pendenza del procedimento di espulsione «without bond» di quattro stranieri «where there is reasonable apprehension of hurt from aliens charged with a philosophy of violence against the Government234».

Al di fuori dell’area immigratoria la giurisprudenza ha precisato che il ricorso alla misura della custodia preventiva e cautelare deve avvenire come extrema ratio, poiché «in our society, liberty is the norm, and detention prior to trial or without trial is the carefully limited exception 235», principio ribadito anche nella sentenza Zadvydas ove la Corte afferma che «freedom from imprisonment [lay] at the heart of the liberty that the Due Process Clause protects236».

La decisione di Zadvydas presenta alcune analogie con le problematiche sollevate dalle previsioni dello USA PATRIOT Act. In quel caso la Corte non invalidava la norma e sosteneva che «Government detention violates [the Due Process] Clause unless the detention is ordered in a criminal proceeding with adequate procedural protections, or, in certain special and narrow non-punitive circumstances, where a special justification, such as harm-threatening mental illness, outweighs the individual’s constitutionally protected interest in avoiding physical restraint237». La Corte riteneva legittimo l’uso della detenzione per due ordini di ragioni: assicurare l’esito del procedimento di espulsione, allo scopo di evitare che ne sia frustrata la funzione, e proteggere la comunità.

Quattro decisioni di alcune corti federali, post-Zadvydas, Patel v. Zemski238, Kim v. Ziglar 239 , Hoang v. Comfort 240 , Welch v. Ashcroft 241 , pur essendosi espresse sulla costituzionalità dell’imposizione della custodia per lo straniero che sia stato condannato per reati penali in attesa di espulsione (§ 236(c) Immigration and Nationality Act), e non per ragioni di terrorismo, sono, comunque, assolutamente interessanti nella discussione sulla legittimità della § 412 dello USA PATRIOT Act. In primo luogo in queste sentenze le corti non si rifiutano di svolgere un’approfondita indagine di costituzionalità della norma cui potrebbe quindi anche essere sottoposta la § 412; in secondo luogo l’impianto di Zadvydas per individuare la portata del significato di «special justification» in rapporto alle finalità che si vogliono perseguire con la custodia durante il post-removal-period, è stato esteso anche alla detenzione in pendenza del procedimento di espulsione.

Si potrebbe sostenere che la giurisprudenza propenda per il principio garantista, rifiutando l’idea di pericolosità generica insita nell’essere straniero, esigendo al contrario che sussistano elementi precisi e circostanziati, idonei a far ritenere che lo straniero costituisca un pericolo per l’incolumità sociale e possa darsi alla fuga.

L’analisi fin qui condotta ha dunque messo in luce i principi e i criteri fondanti le scelte interpretative della giurisprudenza per la definizione del significato della misura della custodia cautelare, strumento ausiliario della procedura di espulsione e anche l’idea che l’Immigration Law non sia sottoponibile ad un sindacato di costituzionalità sostanziale perché afferente a questioni squisitamente politiche, quali le relazioni internazionali e la sicurezza nazionale, appunto, è storicamente radicata.

Infatti la Corte Suprema ha ripetutamente sottolineato che le scelte di politica immigratoria «are frequently of a character more appropriate to either the Legislature or the Executive than to the Judiciary [and thus] dictate a narrow standard of review242» e che sono «intricately interwoven [with] the conduct of foreign relations, the war power, and the maintenance of a republican form of government [and were thus] largely immune from judicial inquiry or interference 243». È vero però che la Corte, sebbene non in giudizi di costituzionalità, ha precisato che anche l’autorità plenary deve essere letta attraverso «a constitutionally permissible means244», non escludendo che in futuro possa essere riconosciuta la ricevibilità di un ricorso in cui si chieda un’analisi costituzionale dei contenuti sostanziali della normativa immigratoria. Nonostante ciò l’appello alla “plenary power doctrine” potrebbe

233 Carlson v. Landon, 342 US, 524, 1952, per un’analisi della sentenza si rimanda al capitolo 2, §§ 3.2, 4. 234 Cfr. 342 US, 541-42. 235 Cfr. United States v. Salerno, 481 US, 755. 236Cfr. Zadvydas v. Davis, 533 US, 690. 237 Cfr. 533 US, 690. 238 275 F.3d, 299 (3d Cir.), 2001. 239 276 F.3d, 523 (9th Cir.), 2002. 240 282 F.3d, 1247 (10th Cir.), 2002. 241 293 F.3d, 213 (4th Cir.), 2002. 242 Cfr. la sentenza Fiallo v. Bell, 430 US, 796, 1977. 243 Cfr. la sentenza Harisiades v. Shaughnessy, 342 US, 588-89, 1952. 244 Cfr. Immigration and Naturalization Service v. Chadha, 462 US, 940-41, 1983; Zadvydas v. Davis, 533 US, 695.

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essere un ineluttabile escamotage nelle questioni relative al terrorismo, tant’è vero che proprio in Zadvydas la Corte espressamente distingue gli immigrati delinquenti dai sospetti terroristi, precisando che le motivazioni della decisione del caso di specie non tengono in considerazione «terrorism or other special circumstances where special arguments might be made for forms of preventive detention and for heightened deference to the judgments of the political branches with respect to matters of national security245».

D’altro canto però se è vero che le parole usate dalla Corte in Zadvydas potrebbero suggerire che i sospetti terroristi potrebbero costituire una speciale categoria di soggetto pericoloso, è altrettanto vero che la procedura certificativi si applica non solo ai “terroristi”, ossia a coloro nei confronti dei quali siano stati raccolti sufficienti elementi probanti l’implicazione in attività terroristiche, bensì anche ai “sospetti terroristi”, sospetto desumibile da una qualsiasi forma di coinvolgimento con gruppi terroristici, prescindendo dallo scopo dell’affiliazione, ossia dalla consapevolezza dello scopo terroristico dell’organizzazione. La nuova normativa stabilisce una indiscutibile presunzione che lo straniero certificato sia un pericolo per la comunità o che sussista il pericolo che possa darsi alla fuga. Come è stato notato dalla Corte Suprema un’indiscutibile presunzione viola il V emendamento nella parte in cui frustra il requisito di adeguata conformità del criterio della classificazione e lo scopo che con essa si persegue.

In quest’ottica di «… prevention first, prosecution second246», lo straniero è naturalmente ostile e rappresenta una risorsa informativa, utile a colmare quei deficit investigativi, che forse sono inevitabili in una guerra non convenzionale.

A conclusione è quindi possibile evidenziare i seguenti elementi: l’intrinseco carattere emergenziale della disciplina immigratoria, il latente (nonostante le ultime aperture limitante l’uso della indefinite detention) self restraint della Corte Suprema in rapporto alla definizione dello status e alla tutela dei diritti dello straniero, nato dalla ricostruzione della competenza federale mediante riconduzione della materia nell’alveo della sfera internazionale e della sicurezza, l’anomalo regime emergenziale instauratosi in seguito alla tragedia dell’11 settembre.

Vedere la materia immigratoria attraverso la lente del diritto internazionale, non è sicuramente irragionevole. Dopotutto gli stranieri sono cittadini di altri Stati, e il trattamento degli affari esteri solleva certamente questioni di portata internazionale, per le quali, nella distribuzione delle competenze tra Governo nazionale e governi statali è abbastanza pacifico il riconoscimento dell’autorità relativa a livello centrale, essendo sì gli Stati Uniti – da un punto di vista interno – la somma di più Stati, ma appunto “somma”, insieme di Stati federati, che nei confronti dei Paesi che non compongono l’Unione parlano come «one people, one nation, one power247». In una concezione di contrapposizione Stati Uniti e altro mondo si ha come ovvio corollario la connessione tra istanza di sicurezza nazionale e immigrato, laddove il ragionamento della giurisprudenza, a giustificazione del silenzio costituzionale in materia di immigrazione, è di tipo deduttivo partendo dal dettato della stessa Costituzione che autorizza il Congresso a «make all laws which shall be necessary and proper for carrying into execution the foregoing powers» (art. 1, § 8, cl. 18); e allora l’espulsione degli immigrati “nemici” «is a weapon of defense and reprisal confirmed by the international law as a power inherent in every sovereign state. Such is the traditional power of the Nation over the alien and we leave the law on the subject as we find it248», è un esercizio necessary e proper anche in assenza di una dichiarazione formale dello stato di guerra o di crisi, essendo «any policy toward aliens is vitally and intricately interwoven with contemporaneous policies in regard to the conduct of foreign relations, the war power, and the maintenance of a republican form of government249». Essendo queste le premesse storiche in materia di immigrazione sembrerebbe legittimo affermare che l’11 settembre non costituisca un reale turning point, bensì affondi le sue radici in una visione di per sé stessa emergenziale dell’intera materia. Ciò è ancora più evidente se si considera che nel corpo normativo della Immigration Law è prevista, dal 1996, una procedura ad hoc (§§ 501-507 Immigration and Nationality Act) per dare più spazio alle indagini e ai processi sui reati di terrorismo che però non è mai stata utilizzata. In seguito alla tragedia delle Torri Gemelle e del Pentagono, si è instaurato un regime emergenziale del tutto particolare e fuori dal concetto ordinario di stato di crisi, cioè netto ribaltamento dei poteri a

245 Cfr. 533 US, 696. 246 Parole pronunciate da J. Ashcroft nel discorso davanti alla commissione giustizia del Senato: http://www.usdoj.gov/ag/testimony/2001/0925AttorneyGeneraljohnAshcroftTestimonyBeforetheSenateCommitteeontheJudiciary.html, 25 settembre, 2001. 247 Così Justice FIELD, The Chinese Exclusion Case, 130 US, 581, 1889. 248 Cfr. la sentenza Harisiades v. Shaughnessy, 342 US, 587, 1951. 249 Cfr. 342 US, 588-89.

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favore del Presidente, temporaneità e dichiarazione formale di invocazione dello stato di emergenza, nonostante vi siano state dichiarazioni pubbliche di belligeranza in nome del valore preminente della sicurezza nazionale. L’anomalia più evidente sta nella mancanza di una delimitazione temporale della normativa emergenziale rappresentando il terrorismo caratteristiche del tutto non convenzionali e non inglobabili in un arco temporale definibile250. Inoltre l’assimilazione degli atroci attentati del 2001 ad un teatro di guerra piuttosto che ad un crimine è frutto di una scelta politica che si colloca al di fuori del dettato costituzionale reinterpretando una normativa che non può essere oggetto di interpretazione in qualità proprio di previsione di chiusura e limite al potere istituzionale. L’elemento di novità dell’intera legislazione emergenziale sta nella sua stessa finalità «[we must] prevent first, prosecute second», in base alla quale allora l’immigrato è una risorsa informativa, utile a colmare il vuoto di intelligence delle agenzie a ciò preposte. L’Immigration and Naturalization Service quindi detiene lo straniero al di là e a prescindere dalla disciplina di controllo dell’immigrazione, per tutto il tempo necessario al FBI di completare le indagini251, trasformando la previsione della detenzione da strumento d’ausilio a rendere effettivi i provvedimenti di espulsione in strumento investigativo, inficiando tutti i presupposti e i limiti giurisprudenziali individuati dall’ultima giurisprudenza in materia.

L’ipotesi iniziale dunque è solo parzialmente confermata, infatti è sì vero che la Costituzione contempla in un “war time” la possibilità che siano compresse le libertà civili, ma la giurisprudenza ha severamente vincolato la reinterpretabilità del principio di legalità al dettato costituzionale che, nel limitarsi a riconoscere il diritto alla libertà personale, lo preserva da indebite ingerenze, investendo i giudici della prerogativa di assicurarne il rispetto attraverso un dovuto bilanciamento con gli interessi legati alla sicurezza nazionale.

Alla giurisprudenza pertanto resta l’arduo compito di continuare la sua opera in un contesto politico dove è piuttosto il concetto di “war time”, nonché l’importanza della sicurezza nazionale nella gerarchia dei valori dell’ordinamento costituzionale, che appare cambiato dopo la dichiarazione di guerra al terrorismo internazionale. Figura 8: manifestazione di immigrati a San Francisco nel 2006 (Mission Dolores Park).

250 Sull’evoluzione dello stato di emergenza nei moderni contesti istituzionali post 11 settembre, si veda DE VERGOTTINI G., Guerra e Costituzione. Nuovi conflitti e sfide alla democrazia, Bologna 2004. 251 Numerosi sono i casi di detenzioni di questo tipo post 11 settembre. In proposito si vedano, DREW C., MILLER J., Though Not Linked to Terrorism, Many Detainees Cannot Go Home, in The New York Times, 18 febbraio, 2002; la richiesta di istruzione di un procedimento giudiziario in Turkmen v. Ashcroft (E.D.N.Y. 2002) (No. CV-02-307), disponibile alla pagina internet: http://news.corporate.findlaw.com/hdocs/docs/terrorism/turkmenash41702cm.; il rapporto di Amnesty International, United States of America Amnesty International’s concerns regarding post September 11 detentions in the USA, 14 marzo 2002, disponibile alla pagina web www.amnestyinternationl.org./library/index/engamr510442002.

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Capitolo 4 LE RELAZIONI STATI UNITI – AMERICA LATINA:

CONTROLLO O OPPORTUNISMO? 1. Introduzione L’arrivo di George W. Bush alla Casa Bianca nel 2000 aveva suscitato un certo iniziale fermento in tema di politica latinoamericana. Tanto a Washington quanto a sud del Rio Bravo esistevano aspettative di una crescita d’ordine gerarchico, se non sostanziale, dell’importanza delle relazioni continentali nell’agenda di politica estera statunitense. L’11 settembre ha nei fatti sconvolto ogni precedente agenda internazionale fissata dalla prima amministrazione Bush. L’America latina è passata ad essere un tema marginale. Un continente sufficientemente democratico, privo di armi di distruzione di massa, con una situazione economica certo difficile ma non disperata, e legami con il terrorismo internazionale piuttosto tenui non può rientrare tra le priorità statunitensi di questa particolare congiuntura storica. L’esperienza dimostra che ciò non è necessariamente un male. Nel discorso di insediamento per il secondo mandato, il Presidente Bush ha sottolineato come la sopravvivenza della libertà negli Stati Uniti sia sempre più dipendente dal successo della libertà in altre terre252. Conseguentemente, gli Stati Uniti appoggeranno la crescita di movimenti ed istituzioni democratiche in ogni nazione e cultura, e se l’uso della forza non è da considerarsi come lo strumento d’attuazione primario, tuttavia gli Stati Uniti sono pronti, nelle parole del Presidente, a difendersi e a difendere i propri amici. Questo enunciato si compone di due parti ben distinte. Nella prima si chiarisce che il godimento di certi diritti e benefici all’interno degli Stati Uniti dipende dalla condivisione, o talvolta anche dall’imposizione, in altre parti del mondo di taluni valori imprescindibili nella cultura nordamericana. L’ammissione di dipendenza degli Stati Uniti da quanto accade altrove segna una svolta filosofica e di azione concreta nella visione internazionale di Washington. Solo in situazioni eccezionali, in passato, gli Stati Uniti avevano ammesso che il proprio sviluppo e benessere interni potessero dipendere da quello altrui. Viene spontaneo il riferimento a Franklin Delano Roosevelt e alla lotta al nazismo durante la seconda guerra mondiale. Era un caso particolare e forse unico, si trattava del conflitto bellico più grande conosciuto dal nostro pianeta. Forse in questa direzione si può rintracciare un senso preciso al termine «guerra al terrorismo», sebbene il concetto di guerra oggi sia molto diverso da quello convenzionale. La seconda parte dell’enunciato di George Bush fa invece riferimento all’impegno nordamericano per la promozione della democrazia. Tale posizione si inserisce perfettamente nella storia della filosofia politica statunitense. Se l’applicazione concreta di questa seconda parte dell’enunciato allo scacchiere mediorientale può in effetti rappresentare un certo grado di novità, essa non è nulla di sconosciuto in America latina, dove gli interventi diretti e indiretti, militari e non, del colosso del nord rappresentano la prassi piuttosto che l’eccezione. Il grado di continuità della politica latinoamericana di Washington, a dispetto dei cambi di amministrazione e delle circostanze storiche, è sorprendente. La guerra fredda ha indubbiamente segnato uno spartiacque significativo, ma alcune delle direttrici fondamentali dell’azione di Washington nel resto del continente o sono rimaste immutate o sono prepotentemente riemerse con il crollo del sistema sovietico e la fine della contrapposizione bipolare. La ricerca della stabilità, specie in termini geo-politici, piuttosto che politici tout court, rappresenta l’elemento fondante dell’impegno continentale di Washington. In un’epoca in cui gli interessi della comunità internazionale e della sua potenza dominante si concentrano in altre aree del mondo, è evidente che il concetto di stabilità propagandato dagli Stati Uniti nei confronti dell’America latina sia da intendere più come strategia per evitare guai che come coinvolgimento attivo e diretto. Oltretutto, in quanto potenza continentale egemone, gli Stati Uniti hanno tutto l’interesse a mantenere tale posizione con il minor costo possibile. In questo quadro, è difficilmente ipotizzabile che il secondo mandato Bush porti grandi novità alle relazioni Stati Uniti – America latina. Si tratta piuttosto di un processo di mantenimento.

252 George W. Bush, Inaugural speech, www.whitehouse.gov/news/releases/2005/01/20050120-1.html, ultimo accesso 16 febbraio 2005.

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Ciò non significa che all’interno di una continuità di fondo non esistano spazi di innovazione o azioni di rottura con il passato. L’attenzione e la presenza statunitense, nell’ottica di evitare l’insorgere di nuovi problemi o l’aggravarsi dei vecchi, dovrebbero concentrarsi su specifiche aree tematiche. In ambito economico, i negoziati per la creazione di una Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA) sono stati affiancati da operazioni di contenimento di eventuali crisi finanziarie, e in tale ambito gli aspetti di continuità sembrano prevalere su quelli di rottura. In ambito più prettamente politico, almeno due delle linee tradizionali della politica latinoamericana di Washington sembrano oscillare tra obsolescenza e rinnovate sfere di applicazione. Primo, la tradizionale politica di contenimento verso l’influenza di paesi extracontinentali sembra poter trovare nuove motivazioni. Pur in un’epoca di unipolarità, nuove ombre orientali sembrano affacciarsi sui mercati, ma anche nelle stanze dei bottoni, di vari paesi latinoamericani. Secondo, l’opera di civilizzazione democratica, in un contesto in cui tutti i paesi latinoamericani, con l’eccezione di Cuba, appartengono formalmente alla grande famiglia democratica, sembra vicina al compimento. Come conseguenza di questo successo, e soprattutto della fine della guerra fredda, si assiste ad un interessante, forse inatteso, ma del tutto logico menage tra la sinistra latinoamericana e i neoconservatori del nord. Infine, sembra registrarsi un’evoluzione abbastanza significativa del concetto stesso di sicurezza continentale. In questo caso, la guerra fredda ha funzionato come vero e proprio spartiacque, e questioni quali la lotta al narcotraffico e la transizione post-castrista a Cuba necessitano di una rilettura attenta. Il ventaglio di opzioni a disposizione dei paesi latinoamericani per fronteggiare l’egemonia statunitense sembra essersi ampliato rispetto all’epoca della guerra fredda, e anche rispetto all’apogeo del neo-liberalismo. Le relazioni continentali all’inizio del nuovo millennio appaiono forse meno strette rispetto agli anni Novanta, ma sicuramente meno tese rispetto agli anni Ottanta253. 2. L’ Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA) Uno degli aspetti di maggiore continuità della politica latinoamericana degli Stati Uniti è il tentativo di proporre, se non di imporre, al resto del continente regole e modelli economici di proprio gradimento. L’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), che prevede la creazione di una zona di libero scambio dall’Alaska alla Terra del Fuoco, sembra in questo senso uno strumento particolarmente adatto all’era della globalizzazione e della divisione in grandi blocchi economici. Ma ci si può chiedere se in effetti l’ALCA sia un’innovazione, ancorché solo in termini di mezzi piuttosto che di fini, dettata dalle esigenze del mercato globale o non sia invece semplicemente il culmine o la ripetizione di processi già visti. Raramente, in passato, l’America latina ha avuto la capacità e la possibilità di proporre propri modelli di sviluppo economico. Ancora più raramente questi hanno trovato effettiva applicazione. Inoltre, il subcontinente ha sempre sofferto di alta dipendenza da perturbazioni esogene. L’importazione di modelli culturali ed economici dall’Europa e dagli Stati Uniti è da considerarsi come una costante. La loro imposizione, se non deliberata, si è rivelata nei fatti una condizione quasi inevitabile. Ripercorrendo solo il XX secolo, salta agli occhi come le teorie economiche elaborate negli Stati Uniti abbiano trovato immediato riscontro ed applicazione in America latina. Ancor più evidente risulta come le politiche economiche di maggior convenienza per Washington abbiano trovato terreno fertile nel sud del continente americano, dalla diplomazia del dollaro alla protezione delle grandi multinazionali fino al trionfo del modello neoliberale degli anni Novanta. Negli anni tra il 1900 e la fine degli anni Venti, gli Stati Uniti praticarono nei confronti di vari stati centroamericani e dell’area caraibica la cosiddetta diplomazia del dollaro254. Si trattava in sostanza dell’imposizione, anche con la forza, di un modello di rigore fiscale volto alla protezione degli interessi degli Stati Uniti. Il Governo di Washington incoraggiava le istituzioni bancarie nazionali ad assumersi il debito estero di alcuni paesi dell’area promettendo aiuto nella riscossione del debito. Tale manovra era volta da un lato al consolidamento del predominio economico e politico statunitense nel Mar dei Carabi, dall’altro ad evitare l’intervento delle potenze creditrici europee negli affari continentali.

253 REID M., Very recent developments in US-Latin American relations, presentazione al seminario “US-Latin American relations: Does Latin America matter to US foreign policy?” Latin American Bureau, Londra, gennaio 2005. 254 Paradigmatici sono i casi della Repubblica Dominicana (1916-1924), del Nicaragua (1909-1925) e di Haiti (1915- 1934).

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Anche negli anni dai Cinquanta ai Settanta, gli Stati Uniti hanno costantemente agito in difesa dei propri interessi economici in America latina, con mezzi leciti e a volte illeciti. La protezione degli interessi economici è stata spesso accompagnata da considerazioni geopolitiche legate allo sviluppo della guerra fredda. Col pretesto di proteggere i propri interessi economici, Washington è intervenuta per indebolire coalizioni “marxisteggianti” o semplicemente con ambizioni riformiste. La protezione delle grandi multinazionali installatesi in America latina durante il processo di industrializzazione del continente negli anni Cinquanta e Sessanta ha fornito nuove occasioni di intervento e ha portato alla nascita di dispute commerciali e finanziarie con paesi emergenti del continente. Dopo la fase di stagnazione caratterizzata dall’aggravarsi del debito estero verso la fine degli anni Settanta e nel corso degli anni Ottanta, l’America latina è ripartita sulla via dello sviluppo negli anni Novanta assorbendo un altro dei grandi modelli economici nordamericani, quello neo-liberale. Il “Consenso di Washington”, che nella sua versione originale255 stabiliva solo un insieme di aree di intervento per la istituzioni finanziarie internazionali in favore dello sviluppo in America latina, è stato invece dogmaticamente e spesso acriticamente applicato nella maggior parte del continente sotto la pressione del Governo di Washington e della istituzioni finanziarie internazionali. Vale però la pena precisare che il tutto è spesso avvenuto con l’entusiastico consenso dei governi latinoamericani. Vi è quindi una chiara linea di continuità tra le preferenze economico-commerciali degli Stati Uniti, la pressione di questi ultimi per la loro diffusione nel contesto latinoamericano, e i modelli di politica economica effettivamente adottati nel resto del continente. La conclusione dell’accordo di libero scambio delle Americhe sembra essere una delle poche vere aree di interesse della politica latinoamericana della seconda amministrazione Bush. Il Presidente, per altro in linea con i predecessori sia repubblicani che democratici, è fortemente in favore del libero mercato e della deregolamentazione del commercio internazionale, sempre che, ben inteso, ciò torni a beneficio degli Stati Uniti. E l’ALCA potrebbe rappresentare una buona opportunità di estendere i mercati per la produzione industriale e la fornitura di servizi. Resta però da chiedersi, da un lato, se l’ALCA sia un fenomeno legato alla globalizzazione e all’adozione di precetti economici neo-liberali, incluso l’abbattimento delle barriere commerciali, e, dall’altro, se a beneficiarne siano solamente gli Stati Uniti, a detrimento dei paesi latinoamericani, o se questi ultimi abbiano degli effettivi interessi e benefici dalla conclusione di tale accordo. Il quadro è in vero abbastanza complesso e variegato a seconda delle aree tematiche delle negoziazioni, delle aree geografiche coinvolte e delle sedi e livelli del negoziato. Innanzitutto, questo progetto di ALCA è figlio dei suoi tempi, del mercato globale, dell’espansione del commercio internazionale e della dottrina neoliberale, ma affonda le proprie radici nella storia e nella geografia stesse del continente americano. Gli antecedenti diretti dell’ALCA sono da rintracciare negli anni Novanta, con il lancio dell’Entreprise for the Americas Initiave (EAI) da parte del Presidente George Herbert Bush nel 1990, e con il primo Summit delle Americhe a Miami sotto l’egida del Presidente Clinton nel 1994. In quelle occasioni il continente era accomunato dall’entusiasmo per il trionfo nella guerra fredda e la ridemocratizzazione delle Americhe, dall’ottimistico e quasi spensierato prevalere di politiche economiche neoliberali in tutto il continente e da un ritrovato spirito di unità continentale che aveva aperto nuove speranze di collaborazione, e di relazioni più bilanciate e rispettose, tra il Nord e il Sud delle Americhe. Sulle ali di quell’entusiasmo si erano lanciati negoziati che avrebbero dovuto culminare nell’adozione dell’ALCA ad inizio 2005. La scadenza è stata superata, e i negoziati languono. L’analisi storica però ci ricorda che l’idea di un’area di libero scambio delle Americhe è qualcosa di tutt’altro che recente. A fine Ottocento un progetto con molte similarità era già apparso. Anche in quella occasione l’iniziativa era stata presa dagli Stati Uniti, con atteggiamento un pò magnanimo e paternalista, ma del tutto interessato; e anche in quella occasione la proposta era emersa nell’ambito di un clima favorevole al Pan-Americanismo. Alla Conferenza Pan-Americana del 1888, l’allora Segretario di Stato dell’amministrazione Harrison, James Blaine,

255 Nella versione originale elaborata da John Williamson nel 1989, il Consenso di Washington delineava in 10 punti le riforme più urgenti per il rilancio delle economie latinoamericane. Successive interpretazioni, miopi e spesso degenerative, ne hanno colto solo alcuni aspetti, quali la liberalizzazione commerciale, la privatizzazione, e la disciplina fiscale, scordando l’enfasi che era ad esempio stata posta sulla necessità di ridirezionare la spesa pubblica verso aree di interesse sociale con potenziali benefici per la ridistribuzione del reddito. Ciò che è peggio, indicazioni specificamente formulate per il contesto latinoamericano sono state adottate come dogma universale verso tutti i paesi in via di sviluppo, con conseguenze spesso nefaste.

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aveva illustrato un’agenda per il perseguimento della pace, del commercio e dell’integrazione economica continentale. Ma, anche in quella circostanza, le nazioni latinoamericane, temendo un impatto negativo sulla propria sovranità nazionale e autonomia in politica economica rigettarono il progetto. Durante il dibattito al Congresso nordamericano, il Senatore del Maine, Hale, aveva proposto un’area di libero commercio con il Canada e le nazioni latinoamericane. Tale progetto però non aveva valenza generale o semi-generale nell’universo tariffario doganale come quella attuale, ma si limitava al commercio di materie prime. Non era una coincidenza. Il boom industriale statunitense seguito alla guerra civile necessitava di materie prime per sostenere l’espansione industriale e l’importazione senza dazi di tali beni avrebbe profondamente avvantaggiato l’industria statunitense. Anche i paesi latinoamericani avrebbero goduto di taluni benefici, essenzialmente alle esportazioni e alla bilancia commerciale nel breve e forse medio periodo. Tuttavia, nel lungo periodo questi paesi avrebbero visto incrementare la loro dipendenza dal mercato nordamericano e depauperare ben presto il proprio patrimonio di risorse naturali. I critici dell’ALCA oggi sostengono che questa altro non sia che uno strumento per perpetuare il dominio economico statunitense sulle Americhe in un’era di globalizzazione. Si tratterebbe in altre parole di uno strumento che, attraverso un’apertura asimmetrica e condizionata dei mercati e delle barriere commerciali favorirebbe essenzialmente l’economia nordamericana con solo marginali benefici per quelle latine. Non solo, tale apertura finirebbe per approfondire un sistema iniquo di scambio tra le materie prime e i prodotti agricoli del sud e i manufatti ad alto valore aggiunto del nord, esacerbando quindi, anziché lenire, il peggioramento delle ragioni di scambio. E come nel 1888, anche oggi sono proprio i paesi latinoamericani, o l’avanguardia di essi, ad esitare di fronte al possibile accordo. Ed è a questo punto che entrano in gioco le complessità maggiori e le divisioni all’interno del sub-continente. L’America latina non è una entità omogenea. E i primi a comprenderlo bene sono proprio gli Stati Uniti, che da tempo hanno adottato un approccio del tipo, il «Messico e il resto»256. Il Messico, per ovvie ragioni di confine, riveste un ruolo preminente nella politica latinoamericana di Washington. Ed il Messico, in quanto membro del NAFTA, l’area di libero commercio nord americana, si è già garantito l’accesso al ricco mercato statunitense, e non vede di buon occhio la possibile concorrenza di altri paesi continentali. Cile e Argentina, che nel corso degli anni Novanta avevano cercato anch’essi di accedere al NAFTA, con diverse intensità e strategie, sono entrambi rimasti scottati257. Proseguendo per cerchi concentrici, in ordine di contiguità territoriale, e quindi di rilevanza geo-strategica per Washington, si trovano i paesi centroamericani e caraibici. Questi sono accomunati da economie poco diversificate e altamente dipendenti dall’accesso al mercato statunitense. Per Washington quest’area è maggiormente legata a temi di sicurezza che a progetti economici, ma l’importanza dei primi potrebbe facilitare il dipanarsi dei secondi. La conclusione dell’ALCA rappresenta un traguardo indispensabile per la sopravvivenza e la crescita delle economie di questa regione, e tali paesi sono ben disposti ad accettare anche condizioni onerose pur di concludere l’accordo. I paesi centroamericani in blocco hanno recentemente firmato con gli Stati Uniti un accordo di libero scambio, la cui entrata in vigore è però soggetta alla ratifica da parte del Senato nordamericano, che appare di umore decisamente protezionista. Diverso ancora è il discorso per i paesi del Sud America, specie per quelli, come il Brasile, che possono permettersi un’autonomia e un peso negoziale rilevante. Per molti di questi paesi, l’accesso senza barriere al mercato statunitense in termini di commercio rappresenterebbe una sicura conquista, ma non senza porre proprie condizioni e richieste. Gli Stati Uniti vorrebbero applicare restrizioni al libero ingresso dei prodotti agricoli per non scontentare i propri produttori nazionali, abbondantemente sussidiati, e le rispettive lobby. Per contro, i prodotti agricoli sono esattamente quelli per cui i paesi sudamericani guardano con maggiore interesse al mercato nordamericano. Non solo, i paesi produttori agricoli reclamano l’abolizione dei sussidi agricoli negli Stati Uniti. Washington vorrebbe anche includere nelle negoziazioni per l’ALCA disposizioni per la protezione degli investimenti, che invece i paesi latinoamericani preferirebbero discutere nei fori multilaterali quali l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Inoltre, i paesi del Sud America godono di economie maggiormente diversificate e di un portafoglio d’esportazione sufficiente ampio, Europa e Asia, da non dipendere interamente dal

256 REID M., Very recent developments in US-Latin American relations cit. 257 Il Cile, pur non riuscendo ad aderire al NAFTA, ha concluso un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti nel 2002, che è entrato in vigore nel 2004. La conclusione di tale accordo non ha suscitato particolari obiezioni in Messico vista la sostanziale diversità di produzioni, anche agricole, esistenti tra i due paesi.

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potente vicino. Nel caso del Sud America, se l’ALCA si farà, questa non sarà a solo ed esclusivo beneficio degli Stati Uniti ma terrà conto delle esigenze di entrambe le parti, specie se i paesi sudamericani sapranno mantenersi compatti. A completare il quadro dell’agenda economica latinoamericana dell’amministrazione Bush c’è l’impegno a contenere eventuali crisi finanziarie. Questa strategia rientra perfettamente nell’ottica di evitare ragioni di apprensione nel continente, ma segna una svolta nell’approccio statunitense alla materia rispetto agli anni Novanta. Se durante l’apice del riformismo neoliberale gli Stati Uniti avevano promosso una rigida applicazione dei dettami delle istituzioni finanziarie internazionali, oggi guardano con simpatia, e sostengono nelle sede competenti, i tentativi argentini di resistere alle ricette del Fondo Monetario Internazionale. Inoltre Washington sembra voler accettare con relativa serenità, rispetto all’irritazione del passato anche più recente, le sfide poste, soprattutto dal Brasile, in materia di negoziati internazionali. Questo pragmatismo in economia è solo uno degli aspetti caratterizzanti la nuova postura dell’amministrazione Bush verso i governi latinoamericani. Se questi ultimi sono in grado di garantire economie stabili nel rispetto del libero mercato, ben vengano ricette meno dogmatiche ma efficaci258. Figura 8: l’America latina

3. Esclusione di influenze esterne e politiche di preminenza Un altro tratto di grande continuità nella politica estera statunitense nei confronti dell’America latina è il costante impegno per escludere possibili influenze di poteri extracontinentali e mantenere una situazione di assoluta preponderanza politica, economica e militare nelle Americhe. Anche l’ALCA può essere in parte vista come strumento per la competizione tra blocchi regionali nell’economia mondiale e per contrastate la crescente importanza dell’Unione europea come partner commerciale di molti paesi sudamericani, in particolare Cile e paesi dell’area Mercosur259. La continuità di questa azione di potenza è stata dettata tanto da considerazioni di carattere politico, o geo-politico, di natura contingente, quanto da radicate convinzioni e precetti della filosofia politica nordamericana. In una concezione quasi sacrale del proprio ruolo nella storia, gli Stati Uniti si considerano depositari ed esecutori delle virtù e dei fini che Dio ha affidato loro. Ritenendosi associati con le virtù divine, e identificando storicamente il Vecchio Continente col vizio, gli Stati Uniti hanno voluto preservare il Nuovo Mondo dalle nefaste influenze del Vecchio260. Uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, Thomas Jefferson, già nel 1808 sosteneva che l’influenza europea nel Nuovo Mondo dovesse essere ridotta o eliminata attraverso - tra le altre - l’affermazione della superiorità statunitense sul continente. La dottrina Monroe del 1823 e i suoi successivi corollari null’altro erano se non tentativi di legittimare l’unilateralismo che da sempre caratterizza gli Stati Uniti nella loro condotta internazionale. Da allora in poi, tale dottrina è stata rivista e reinterpretata per suggellare l’esclusione di potenze ed ideologie non emisferiche dagli affari americani. Concepita come dichiarazione minimalista contro il colonialismo europeo nel Nuovo Mondo, la Dottrina Monroe è inizialmente servita contro le ambizioni della Russia zarista sui territori del Nord-Ovest americano. In seguito è stata usata per giustificare la guerra agli Spagnoli e scacciarli dai loro possedimenti caraibici. Più tardi, è stata invocata per limitare e contrastare le influenze commerciali e ideologiche del Terzo Reich in Sud America negli anni Trenta e alla vigilia e durante il secondo conflitto mondiale. Infine, la Dottrina Monroe ha funzionato da collante ideologico durante la guerra fredda per contrastare il possibile diffondersi del marxismo in America latina e interferire, anche senza troppi complimenti, nell’azione di Governo di regimi accusati di

258 SMITH P., The Talons of the Eagle, Oxford University Press, Oxford and New York, 2000. 259 Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay sono i membri fondatori del Mercosur. Bolivia, Cile e Perù godono dello status di membri associati. Il 17 dicembre 2004, è stato concluso ad Ouro Preto, in Brasile, un accordo di associazione anche con Colombia, Ecuador e Venezuela 260 Richard Olney, Segretario di Stato sotto l’amministrazione Cleveland, rilasciò durante le guerra dell’Orinoco tra Venezuela e Guiana Inglese un durissimo e rude comunicato, indirizzato principalmente alla Gran Bretagna, circa la supremazia degli Stati Uniti nelle questioni del continente americano. L’accettazione da parte inglese di un arbitrato dello stesso Presidente Cleveland per risolvere il conflitto sancì di fatto il diritto di predominio statunitense negli affari continentali.

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simpatie comuniste. Il Corollario Olney261 ha poi unilateralmente sancito la preminenza degli Stati Uniti sull’intero continente americano. Viene da chiedersi però quale possa essere l’attualità e l’eventuale applicazione di simili dottrine nelle relazioni interamericane odierne. Gli Stati Uniti sono rimasti l’unica superpotenza politica e militare con proiezione planetaria. La competizione economica è accettata anche a Washington come regola del gioco, e non ci si scandalizza di certo se in parti del Sud America l’Unione europea è diventata il primo investitore o il primo partner commerciale. Anche le affinità culturali e i rinnovati legami politici e sociali tra l’Europa e il Sud America vengono visti con serenità; la riaffermazione dei vincoli tra la Spagna e le ex-colonie latinoamericane non desta sospetto né viene percepita come una minaccia. C’è però una nuova crescente influenza in America latina che gli Stati Uniti stanno cominciando a monitorare con attenzione. Il primo viaggio di George W. Bush dopo la rielezione è stato in Cile. Oltre a potersi considerare un segno di buona volontà verso il resto del continente, questa missione aveva un valore strategico più ampio. Non a caso, in Cile era in corso il Summit del Gruppo di Cooperazione Economica Asia-Pacifico (APEC), ed era questo il principale obiettivo di Bush. L’Asia sta diventando un partner commerciale di crescente importanza per molti paesi dell’America latina, che guardano a questa nuova frontiera come a un possibile bilanciamento all’egemonia di Washington. Dopo gli Stati Uniti, Giappone e Cina sono i principali mercati di esportazione cileni. L’Argentina ha trovato nella Cina un’economia complementare e non competitiva, e un mercato che attutisce gli effetti negativi dei sussidi agricoli ai produttori nordamericani. Brasile e Cina stanno intensificando le proprie relazioni diplomatiche e commerciali. La recente intesa tra i paesi sudamericani per il miglioramento delle infrastrutture e delle comunicazioni nel sub-continente potrebbe accelerare gli scambi con i partner asiatici262. C’è però da verificare con cautela quale possa essere il reale impatto e la durevolezza dell’effetto- Cina sulle economie e sulle scelte politiche dei paesi latinoamericani. Gli scambi commerciali tra Cina e America latina hanno conosciuto un’esplosione esponenziale. Le esportazioni cinesi sono passate dal 5% del 1997 al 18% del primo trimestre 2004. Le esportazioni latinoamericane sono passate dal 4% ad oltre il 20% nello stesso periodo263. Il Presidente cinese, Hu Jintao, nel suo recente tour sudamericano del novembre 2004 ha promesso formidabili contributi cinesi all’ambizioso progetto sudamericano di miglioramento delle infrastrutture per i trasporti e le comunicazioni. Il Presidente Hu ha anche promesso un’ulteriore crescita nella relazioni commerciali e ha concesso ad Argentina e Brasile lo status di destinazioni turistiche approvate. Risulta chiaro che la Cina si aspetti qualcosa in cambio. Per ora il tour presidenziale ha fruttato il riconoscimento alla Cina da parte di Argentina, Brasile e Cile dello status di paese ad economia di mercato. La conseguenza pratica di maggior rilievo è che sarà più difficile aprire procedure anti-dumping contro le crescenti esportazioni di manufatti cinesi a basso prezzo sui mercati internazionali. L’accelerata crescita industriale e di prodotto interno lordo, e la relativa scarsità di terreni agricoli, rende la Cina un insaziabile cliente di prodotti alimentari primari e risorse naturali, che i paesi sudamericani hanno in quantità e sono ansiosi di esportare. Di più, un successo nel piano di sviluppo dei trasporti e delle comunicazioni in America latina rappresenterebbe un investimento doppiamente redditizio per Pechino, che potrebbe approvvigionarsi da quei mercati in quantità maggiori, tempi più brevi e a prezzi più contenuti, con un buon ritorno per entrambe le parti. Messa in questi termini, la presenza cinese ha suscitato speranze di crescita economica e creazione di nuovi posti di lavoro in America latina, con il non trascurabile vantaggio di rappresentare una possibile alternativa agli Stati Uniti e alle istituzioni internazionali, spesso dominate da questi ultimi. Tuttavia, un eccessivo entusiasmo sarebbe ingiustificato. Finora la Cina si è impegnata solamente con lettere di intenti, e, soprattutto, il modello di penetrazione cinese dovrebbe mettere in guardia i latinoamericani nei confronti di nuove dipendenze che hanno spesso tratti in comune con il vecchio e nuovo colonialismo. L’appoggio alle migliorie infrastrutturali, ad esempio, riporta ad un concetto base del colonialismo europeo, ed inglese in particolare, e cioè che rifornirsi di beni da terre lontane può risultare difficile e poco competitivo quando i mezzi di trasporto sono inadeguati. Inoltre, investimenti che si concentrino nel settore minerario ed estrattivo possono facilmente degenerare in situazioni di sfruttamento, come

261 MAKIN G., Relations between the US and Argentina under Kirchner, presentazione al seminario “US-Latin American relations: Does Latin America matter to US foreign policy?” Latin American Bureau, Londra, gennaio 2005. 262 L’8 dicembre 2004 è stato firmato a Cuzco, in Perù, l’atto costitutivo della Comunità Sudamericana di Nazioni, la cui priorità è la conformazione di un blocco regionale integrato fisicamente attraverso la realizzazione di infrastrutture di trasporto, e lo sviluppo di progetti e politiche comuni per lo sfruttamento delle risorse energetiche e naturali. 263 The Economist, www.economist.com/world/la/displayStory.cfm?story_id=3521240, ultimo accesso 6 gennaio 2005.

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ampiamente dimostrato dalle compagnie estrattive nordamericane in America latina. Infine, e questo è forse il rischio più grave, la natura degli investimenti cinesi non è ancora chiara. Se questa si configurasse come tied-loans, cioè prestiti a basso interesse per progetti commissionati ad imprese cinesi, sussisterebbe il rischio concreto di un nuovo indebitamento, sotto la forma di pagamenti per le commesse assegnate. Nel lungo periodo poi, questa apparente “cuccagna” per l’America latina potrebbe rivelarsi un vero boomerang. Migliorando la propria situazione economica attuale con le vendite alla Cina, i paesi sudamericani contribuiscono anche alla forte crescita del paese asiatico e alla sua crescente penetrazione nei mercati mondiali dei manufatti. La Cina potrebbe finire col rimpiazzare, nel tempo, proprio alcuni dei prodotti d’esportazione a valore aggiunto dei paesi latinoamericani. Già tra i paesi andini esistono timori che con la deregolamentazione del commercio del tessile i prodotti cinesi possano rappresentare una concorrenza insostenibile sul mercato statunitense. E i produttori automobilistici brasiliani vedono già nei cinesi dei temibili concorrenti nei segmenti auto a prezzo medio-basso per il mercato latinoamericano. Dalla dipendenza economica alla perdita di autonomia politica il passo non è poi così lungo. Si riprodurrebbe il modello già in vigore con gli Stati Uniti. Paesi fortemente dipendenti dal mercato statunitense, o cinese, sarebbero disposti a concessioni politiche notevoli, ad esempio nei fori di discussione internazionale, pur di mantenere o incrementare l’accesso ai mercati di destinazione delle proprie esportazioni. Per gli Stati Uniti, la concorrenza cinese è una delle grandi sfide sui mercati mondiali nei prossimi anni. Ritrovarsi uno dei principali concorrenti con una posizione dominante proprio nel cortile di casa, l’America latina, non è una prospettiva allettante per Washington. Non ci si aspetti che la «Dottrina Monroe» venga riesumata, almeno esplicitamente, per arginare una eventuale accresciuta influenza cinese, e più in generale degli altri paesi asiatici emergenti. In forme rivedute e corrette, e più sofisticate e adatte alla complessità dei tempi, però, gli Stati Uniti potrebbero cominciare ad attivarsi per non perdere terreno in America latina. Questa appare la prospettiva migliore per guardare anche al rinnovato interesse nordamericano in fori quali l’APEC. 4. Le relazioni interamericane nel contesto democratico post-guerra fredda George W. Bush ha sottolineato già nel discorso inaugurale del suo secondo mandato come gli Stati Uniti intendano appoggiare la promozione e lo sviluppo della democrazia e della libertà in ogni area del mondo. Il tentativo di promuovere o di imporre governi democratici in America latina è una costante nella politica latinoamericana di Washington, ancorché con mezzi e prospettive che devono essere inquadrati nel loro appropriato contesto storico. La guerra fredda ha rappresentato solo una parziale eccezione, nel senso che gli Stati Uniti a volte hanno tollerato, e di fatto sponsorizzato, regimi tutt’altro che democratici o si sono sbarazzati di governi che invece democratici erano ma non rispondevano alle esigenze di lotta intransigente al comunismo e all’eversione della particolare fase storica. In un’epoca in cui tutti i paesi latinoamericani, con l’eccezione di Cuba, sono almeno formalmente delle democrazie, le relazioni interamericane hanno assunto nuove connotazioni che rappresentano un chiaro punto di rottura rispetto al passato e testimoniano il pragmatismo di questa amministrazione verso le problematiche continentali. Così come la politica di preminenza, anche la promozione della democrazia ha seguito e servito tanto profonde e radicate convinzioni filosofiche e politiche quanto esigenze dovute alle contingenze del momento. Il forte senso di eccezionalità che caratterizza la percezione statunitense di sé e del proprio ruolo ha dato luogo a spinte contrastanti, quali attivismo e isolazionismo. Quando la prima ha prevalso, gli Stati Uniti hanno sentito l’obbligo di diffondere il proprio credo politico, ossia la diffusione della democrazia 264 . Il Presidente Woodrow Wilson ha incarnato probabilmente meglio di chiunque altro questa visione quasi messianica della politica estera. Egli riteneva che attraverso il buon esempio, ma anche l’uso della coercizione, la nazioni latinoamericane avrebbero potuto conformarsi efficacemente al modello democratico nordamericano. In tempi di guerra fredda, l’amministrazione Kennedy ha perseguito l’appoggio ai governi democratici latinoamericani tanto per convinzione morale quanto per convenienza politica o supposta tale. Tra le innovazioni di quell’amministrazione spiccava il convincimento che la diffusione della democrazia nel mondo in via di sviluppo avrebbe favorito gli interessi

264 Peter Smith, The Talons of the Eagle. ???

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nordamericani, in quanto governi democraticamente eletti avrebbero quasi naturalmente sostenuto gli Stati Uniti nella lotta contro l’Unione Sovietica. Appurata l’inefficacia di tale approccio, che il successore di Kennedy, Lyndon Johnson, anch’egli Democratico, definì «un completo disastro», gli Stati Uniti disinvoltamente si riorientarono verso una serrata opposizione ai regimi di sinistra senza mostrare alcuna preferenza, in termini di concessioni politiche o economiche, per le istituzioni democratiche. Paradossalmente, la ridemocratizzazione del Sud America avvenne proprio in un momento di scarso impegno nordamericano sia verso il tema che l’area geografica. All’alba degli anni Ottanta, in un clima di recrudescenza, e non di attenuazione, della guerra fredda, e con la Presidenza Reagan intenta a combattere la presunta minaccia comunista in America centrale, Argentina, Brasile e Uruguay, tra gli altri, ritornarono alla democrazia grazie a processi di origine endogena, che poco o nulla avevano a che fare con gli Stati Uniti, e molto dipendevano invece da circostanze politiche, economiche e sociali di natura interna 265 . La fine della contrapposizione tra blocchi, affievolendo ulteriormente l’interesse USA a sostenere regimi autoritari, ha infine spianato la strada alla completa ridemocratizzazione del continente. La ritrovata universalità democratica nelle Americhe e le priorità dell’agenda economica continentale, unitamente all’enfasi mediorientale e di lotta al terrorismo della seconda amministrazione Bush, hanno dato vita a un fenomeno nuovo nella relazioni interamericane, l’intesa cordiale a interessata tra l’amministrazione neoconservatrice di Washington e i governi progressisti in carica in molti paesi sudamericani. Questo fenomeno, seppur nuovo rispetto sia alla tradizione nordamericana di lungo periodo che agli scenari della guerra fredda, è perfettamente logico e comprensibile alla luce delle contingenze del momento e agli obiettivi ultimi degli Stati Uniti in America latina. Durante le ultime elezioni presidenziali negli Stati Uniti la sinistra di tutta Europa ha attivamente sponsorizzato il candidato democratico John Kerry. I mezzi di informazione che più amano autocelebrarsi come liberi e indipendenti ne hanno fatto quasi una questione di principio, invitando l’elettorato americano a scegliere tra il bene e il male. E gli elettori d’oltre Oceano hanno beatamente ignorato gli accorati appelli. A questa spesso acritica crociata pro Kerry, o anti-Bush, del progressismo europeo ha fatto da contro altare la cautela della sinistra latinoamericana. E dire che da noi quest’ultima è sovente presa ad esempio di incontaminata purezza ideologica e resistenza all’imperialismo capitalista. Secondo il britannico «The Economist», alcuni leader progressisti latinoamericani hanno privatamente incoraggiato la rielezione di Bush junior266. Una possibile spiegazione è che gli strateghi repubblicani della comunicazione abbiano superato i colleghi democratici. Questa tesi ha certamente una sua validità. Kerry, nei rari spazi dedicati alla politica latinoamericana durante la campagna elettorale, aveva fatto appello soprattutto ai Latinos, i cittadini USA di origine latinoamericana. Tuttavia, puntare su questi elettori non necessariamente equivale a garantirsi l’apprezzamento dei paesi di provenienza. Con dichiarazioni elusive volte a non scontentare né i fautori né i detrattori dell’ALCA, Kerry ha probabilmente allarmato le elite di quei paesi latinoamericani, la maggioranza, le cui economie dipendono largamente dal mercato statunitense. Bush, al contrario, pur avendo trascurato l’America latina durante il suo primo mandato, ha saputo trasformare le sue debolezze in punti di forza. Il Presidente uscente ha così promesso nuove politiche immigratorie che favoriscano i lavoratori latinoamericani. Inoltre, Bush aveva sempre appoggiato il progetto ALCA. Nonostante questo venisse spesso etichettato come uno strumento dell’egemonia americana sul continente, il messaggio recepito dai leader politici latinoamericani è stato che Bush era pronto ad aprire i mercati USA mentre Kerry esitava. E’ lecito domandarsi che strana specie di sinistra sia questa che ammicca a Bush e alla sua politica liberoscambista. Va subito scartata l’ipotesi di un agglomerato confuso e isolato, facilmente assoggettabile all’agenda di Washington. In Brasile, seppur tra alterne vicende, la popolarità di Lula, Presidente operaio, rimane stabile. In Cile, La votazione per l'elezione del Presidente della Repubblica si è svolta l’11 dicembre 2005. Poiché nessun candidato ha ottenuto la maggioranza dei voti, il 15 gennaio 2006 si è svolto il ballottaggio tra il candidato della destra Sebastián Piñera Echenique e quella della sinistra Michelle Bachelet Jeria. Con il 53,50 % dei voti la Bachelet è diventata la prima donna a ricoprire la carica di Presidente della Repubblica in Cile. In Argentina, Kirchner, Presidente emanazione dell’ala sinistra del peronismo naviga apparentemente a vele spiegate. In Venezuela il simil-marxista Chávez, inviso alla classe media 265 Ronaldo Munck, Latin America: The transition to democracy, ZED Books, London, 1989. 266 The Economist, www.economist.com/World/la/displayStory.cfm?story_id=3403473, ultimo accesso 6 gennaio 2005.

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quanto al grande capitale, ha democraticamente vinto il referendum di conferma presidenziale. Persino in Nicaragua, dove i Sandinisti avevano collezionato quasi solo sconfitte negli anni Novanta, la sinistra è emersa vincente alle elezioni locali. Infine il progressista Tabaré Vásquez è stato eletto Presidente dell’Uruguay. Rigettate le ipotesi di una circonvenzione mediatico-elettorale e di una presunta debolezza di fronte al vicino arrogante e influente, resta da capire perché la sinistra latinoamericana in posizioni istituzionali non si sia schierata più apertamente contro la rielezione di George Bush. Dato per scontato che, nell’incertezza del risultato elettorale, l’America latina doveva prepararsi a convivere con entrambi i contendenti, c’è di più. George Bush, l’unilateralista neoconservatore, sembra ricambiare la moderatezza ricevuta con un ritrovato rispetto e senso di tolleranza per le amministrazioni progressiste latinoamericane. La spiegazione più convincente va ricercata nella crescente convergenza di interessi strategici continentali tra il nord e il sud delle Americhe. Due evoluzioni hanno contribuito a questa situazione. La prima riguarda i mutamenti storici, la seconda le continuità. Cambiano le situazioni, cambiano anche le ideologie. La sinistra latinoamericana, pur restando altamente ideologica in alcune sue componenti, si è adattata ai tempi. Soprattutto i suoi segmenti di livello istituzionale hanno assunto una posizione estremamente pragmatica. Da un lato, c’è una grande attenzione al sociale, aspetto trascurato dal neoliberismo della decade precedente. Così Kirchner destina allo sviluppo parte di quelle risorse che invece il Fondo Monetario Internazionale vorrebbe ripagassero il debito estero. Questa è l’unica via per garantire la pace sociale e quindi la stabilità, anche politica, del paese. L’obiettivo finale coincide con quello che, in ultima istanza, perseguono gli investitori internazionali, Stati Uniti in testa. Dall’altro lato, alla retorica terzomondista e radicale, si accompagna una gestione economica e finanziaria piuttosto conservatrice: è il caso del Brasile, dove alcuni reclamizzati programmi sociali, quali «Fame Zero», languono, mentre l’economia è gestita con oculatezza mantenendo i conti pubblici in ordine. D’altro canto, una certa continuità di fini ha caratterizzato la politica latinoamericana di Washington. Dalla loro comparsa come potenza sullo scacchiere continentale, nella seconda metà del XIX secolo, gli Stati Uniti hanno mirato a salvaguardare la stabilità del continente americano oltre che la propria supremazia su quest’ultimo. Nel dopo guerra fredda, la Casa Bianca ha inteso la stabilità politica continentale essenzialmente come binomio democrazia-mercato, mentre i fattori ideologici hanno perso importanza, schiacciati in un mondo che limita le possibilità di scelta per gli stati. E’ questa la chiave di lettura della ritrovata cordialità tra Stati Uniti neoconservatori e America latina progressista. Molti leader della regione, pur condannando l’unilateralismo di George Bush, hanno preferito il suo impegno verso l’ALCA ai timori di accresciuto protezionismo suscitati da Kerry. L’amministrazione Bush, dal canto suo, essendo in tutt’altre faccende affaccendata, ci tiene ad un’America latina stabile e che non crei problemi. Se i governi progressisti latinoamericani sono in grado di garantire democrazia e politiche economiche responsabili, ben vengano. Tanto più che essi portano un altro vantaggio per Washington: riducono l’attrazione del continente verso modelli estremi, come le sopravvivenze castriste a Cuba o le ambizioni chaviste in Venezuela. Ancora una volta continuità e cambio convergono nella formazione della politica latinoamericana di Washington. La cordialità tra qualsiasi amministrazione nordamericana ed eventuali regimi progressisti latinoamericani era virtualmente impossibile in tempi di guerra fredda. D’altra parte, gli Stati Uniti hanno sempre favorito un concetto di democrazia più prossimo ad una repubblica aristocratica che non a modelli partecipativi di massa, anteponendo il rispetto di legge e ordine a quello di equità e rivoluzione sociale267. Non ci troviamo quindi di fronte né ad una sinistra «bushista», né ad un clan di neoconservatori progressisti. Ma il mondo fluido e veloce di oggi richiede un pizzico di camaleontismo e flessibilità nelle alleanze. L’abiurare certe rigidezze e certi eccessi del passato, sia a destra che a sinistra, non appartiene più alla categoria del rinnegamento, ma a quella pragmatismo. Figura 9: l’area caraibica

6. L’evoluzione del concetto di sicurezza nel post guerra fredda: narcotraffico, terrorismo, e transizione cubana

267 Peter Smith, The Talons of the Eagle cit.

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Tradizionalmente, e fino alla vigilia del secondo conflitto mondiale, gli Stati Uniti avevano inteso il concetto di sicurezza, e di sicurezza continentale in particolare, in termini di protezione dei propri investimenti all’estero, di libertà di commercio, di promozione di governi – meglio se democratici - favorevoli ai propri interessi, e di prevenzione dell’instaurarsi di regimi che potessero minacciare la pace del continente o mettere in discussione la supremazia di Washington nello stesso. Durante la guerra fredda, il confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica si è retto su una serie di dicotomie ideologiche che abbracciavano tutti i campi dell’analisi sociale o quasi. Filosoficamente la contrapposizione era tra libertà e uguaglianza, politicamente tra liberaldemocrazia e socialismo, economicamente tra libero mercato e pianificazione centrale. Ogni seppur piccolo successo in uno di questi campi da parte di uno degli schieramenti era visto come una sconfitta dell’altro, si trattava di un gioco a somma zero, dove al guadagno di uno deve necessariamente corrispondere la perdita dell’altro. La competizione in ambito militare non faceva eccezione e la minaccia nucleare approfondiva questa visione. Come corollario alla componente militare della competizione vi era poi la necessità di mantenere compatto il proprio campo di alleati e satelliti e di impedire all’altro blocco di insinuarsi all’interno della propria sfera d’influenza. Ciò comportava per i paesi che sceglievano, o a cui era imposto, di allinearsi ad uno dei due campi non solo di non poter intrattenere relazioni di tipo militare con l’altro blocco, ma anche e soprattutto di doversi attenere all’ortodossia filosofica, politica ed economica della potenza di riferimento, limitando così drasticamente le opzioni politiche e di sviluppo interno. Per quarantacinque anni, gli Stati Uniti hanno costruito un concetto di sicurezza inter-americana fondato su questi criteri. Ed è legittimo chiedersi della sicurezza di chi si trattasse, e quale fosse effettivamente la definizione di sicurezza adottata. Può risultare quindi sorprendente che all’indomani della seconda guerra mondiale fossero precisamente le nazioni latinoamericane a spingere in favore di un trattato di reciproca difesa continentale con gli Stati Uniti. In realtà, questo fatto conferma l’equivoco sull’interpretazione del concetto di sicurezza con cui sono nate le organizzazioni collettive interamericane, il Patto di Rio del 1947 in materia militare, e l’Organizzazione degli Stati Americani del 1948 in materia di dialogo politico. La visione latinoamericana era che tali trattati potessero porre dei limiti ben precisi all’unilateralismo nordamericano. Per Washington, al contrario, tali accordi consentivano ampia libertà di manovra nel continente senza dover passare attraverso i meccanismi delle Nazioni Unite. Nei fatti, tra il 1947 e il 1989, sia l’uso delle organizzazioni inter-americane, sia l’interventismo degli Stati Uniti in America latina hanno reso evidente che un approccio alla sicurezza essenzialmente ideologico e militare prevaleva su considerazioni di carattere politico, economico, e sociale più vicine alla sensibilità di oggi. Con la fine del confronto tra super potenze, anche la polarizzazione ideologica è venuta meno. La competizione tra stati ha smussato i tratti più manichei, e anche la minaccia di possibili confronti militari, almeno in termini convenzionali, ha perso importanza. Le relazioni interamericane si sono riposizionate attorno a quelle dinamiche di stampo tradizionale che vigevano anteriormente alla guerra fredda. Sia gli Stati Uniti che i paesi latinoamericani hanno essenzialmente ripristinato definizioni dell’interesse nazionale concentrate sul benessere interno e imperniate su questioni politiche, economiche e sociali piuttosto che ideologiche e militari. Ciò non significa che gli scenari internazionali siano passati in secondo piano, ma che strumenti e priorità di azione sono mutati. Tale svolta ha avuto anche delle notevoli ripercussioni in tema di agenda di sicurezza. A partire dagli anni Novanta, ad esempio, il concetto di sicurezza ha cominciato ad includere tematiche quali il narcotraffico e l’immigrazione, che sono passate da questioni di ordine pubblico a vere e proprie minacce su scala internazionale nella concezione statunitense268. Inoltre, Washington considera che la stabilità delle Americhe, come già illustrato sopra, sia meglio tutelata dalla proliferazione di regimi democratici piuttosto che dalla persistenza di sacche autoritarie, ancorché allineate alle preferenze della Casa Bianca. Ciò significa che anche la promozione della democrazia passa dall’essere una preferenza politica ad una vera e propria strategia di sicurezza nazionale. In quest’ottica, la guerra fredda appare come una parentesi nel lungo corso delle relazioni interamericane. Da un lato, sono riemerse tendenze che parevano assopite, dall’altro, elementi

268 BULMER V.- DUNKERLEY T. e J. (a cura di), The United States and Latin America: The new agenda, ILAS, Londra, 1999.

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nuovi, legati al mutare dei tempi, hanno fatto la loro comparsa. Si possono ad esempio leggere in questa chiave i primi interventi militari nordamericani in America latina nel dopo guerra fredda. L’invasione di Panama del 1989 fu giustificata con la necessità di rimuovere il Generale Noriega, accusato di traffico internazionale di stupefacenti e frode elettorale. A questi tratti di innovazione corrisponde una tradizione di unilateralismo che era cominciata con la stessa secessione panamense dalla Colombia, con il fomento degli Stati Uniti, nel 1903. Gli Stati Uniti, prima di procedere all’invasione del 1989, non avevano né consultato né informato gli altri governi latinoamericani. L’invasione di Haiti, nel 1994, seppur avvenuta in seguito ad una ambigua risoluzione ONU, è stata giustificata con l’impellenza di restaurare la democrazia nel paese. Più plausibilmente, il vero motivo che spinse l’amministrazione Clinton all’azione era la necessità di arginare il flusso di rifugiati haitiani verso le coste della Florida. Il metodo migliore per ottenere lo scopo era fermare i massacri perpetrati dalla giunta militare di Haiti. E’ oggi difficile ipotizzare che George W. Bush possa ricorrere ad interventi diretti in America latina per questioni di sicurezza, anche in un’accezione molto ampia del termine. Non esistono situazioni talmente calde o delicate da far pensare ad una simile eventualità. Il terrorismo latinoamericano è in fase di forte arretramento. Dove narcotraffico e terrorismo sono in qualche modo apparentati, come il caso della Colombia, i gruppi eversivi sembrano emanazione di situazioni locali circoscritte, e legami col terrorismo internazionale, soprattutto con quello di matrice islamica, non sono ancora stati provati. Ciò che invece è più plausibile è che gli Stati Uniti continuino nella loro lotta al narcotraffico con un ritrovato pragmatismo. Non a caso, durante il suo viaggio post elettorale in America latina, Bush ha fatto tappa in Colombia. Tradizionalmente, e fino alla metà degli anni ottanta, le relazioni tra i due paesi erano state cordiali. La situazione si era irrigidita da quando, nel 1986, gli Stati Uniti avevano fatto della lotta ai trafficanti di cocaina una questione di sicurezza269, reagendo in maniera unilaterale e sproporzionata alle circostanze e favorendo la militarizzazione del conflitto interno alla Colombia, così provocando reazioni etichettabili come «narcoterrorismo» e «narconazionalismo» 270 . Dopo le difficoltà nei rapporti con le amministrazioni Samper e Pastrana, gli Stati Uniti stanno ora concedendo ampio sostegno ed una certa autonomia di azione al Presidente Uribe, compreso un pacchetto di aiuti di tre miliardi di dollari per combattere la produzione di stupefacenti e l’eversione ad essa correlata271. Se l’amministrazione Uribe dovesse riuscire ad avvicinarsi ad un accordo per la risoluzione del conflitto con le FARC e le altre fazioni in lotta, è anche possibile che gli Stati Uniti siano disposti ad abbassare ulteriormente il proprio profilo nella vicenda. Resta infine il nodo della transizione post castrista a Cuba. Anche in questo caso, la guerra fredda aveva offuscato, o inasprito, tendenze di lungo corso. La tradizione di tensioni tra Stati Uniti e Cuba, e le ambizioni dei primi sulla seconda, non risalgono infatti al periodo rivoluzionario post 1959, ma affondano le proprie radici fino alla metà del XIX secolo272. Già negli anni 1840 e 1850, negli Stati Uniti si erano registrate campagne per l’annessione di Cuba. I presidenti Polk e Pierce avevano invano cercato di trattarne l’acquisto dalla Spagna nella seconda metà del 1800. L’indipendenza cubana dalla Spagna avvenne solo per la mano armata degli Stati Uniti, e al prezzo dell’instaurazione di un protettorato de facto sancito da un trattato internazionale nel 1903. Anche negli anni della politica di buon vicinato inaugurata dal Presidente Franklin Delano Roosevelt, gli Stati Uniti interferirono pesantemente nell’attività politica ed economica dell’isola. La guerra fredda si è prepotentemente inserita su tendenze già presenti, trasformando Cuba in una questione di sicurezza, dovuta alla presenza di un regime marxista a poche miglia dalla costa della Florida, alla crisi dei missili, e all’attivismo rivoluzionario dell’Avana in America latina e Africa. Ma la fine della rivalità bipolare non ha spento l’animosità statunitense nei confronti dell’isola caraibica. Anzi, proprio nel dopo guerra fredda, gli Stati Uniti hanno irrigidito la propria posizione. Nel 1992, la legge Torricelli inaspriva le restrizioni economiche al commercio internazionale con l’isola. Nel 1996, la legge Helms-Burton dava un ulteriore giro di

269 MORRIS K., The impact of drugs on US-Colombian relations, 1989-2005, presentazione al seminario “US-Latin American relations: Does Latin America matter to US foreign policy?” Latin American Bureau, Londra, gennaio 2005. 270 STEINER R., “Hooked on Drugs: Colombian-US relations”, in Victor Bulmer-Thomas e James Dunkerley (a cura di), The United States and Latin America: The new agenda, ILAS, Londra, 1999. 271 The Economist, www.economist.com/World/la/displayStory.cfm?story_id=3403473, ultimo accesso 6 gennaio 2005. 272 Juan Triana Cordovi, “Cuba’s economic transformation and conflict with the United States”, in Victor Bulmer- Thomas e James Dunkerley (a cura di), The United States and Latin America: The new agenda, ILAS, Londra, 1999.

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vite alle sanzioni e conferiva unilateralmente, e senza alcun fondamento, prerogative speciali agli Stati Uniti nel processo di democratizzazione dell’isola. Da quando George Bush ha assunto la guida degli Stati Uniti, poco o nulla è cambiato nell’atteggiamento del Governo nordamericano. Bush ha annunciato che «la piena normalizzazione delle relazioni con Cuba – riconoscimento diplomatico, apertura commerciale e un sostanzioso programma di aiuti – sarà possibile solo quando Cuba avrà un Governo pienamente democratico»273. In base alla legge Helms-Burton, spetta al presidente statunitense determinare quando il regime cubano potrà definirsi democratico. Nel maggio 2002, Bush ha annunciato anche una Iniziativa per una Nuova Cuba, invitando il Governo dell’Avana a intraprendere riforme politiche ed economiche, e a indire elezioni democratiche per l’Assemblea Nazionale cubana. Nella stessa occasione, Bush ha precisato che «gli Stati Uniti non sono una minaccia per la sovranità di Cuba»274. Nell’ottobre del 2003, Bush junior ha anche creato una Commissione per l’Assistenza a Cuba Libera, con lo scopo di accelerare una rapida e pacifica transizione alla democrazia. La Commissione ha trasmesso al Presidente la propria relazione nel maggio 2004. Questa suggerisce di adottare misure volte al rafforzamento della società civile a Cuba, ad interrompere il monopolio sull’informazione esercitato dal regime castrista, a ridurre le fonti di sostentamento del medesimo, a diffondere nel mondo un’immagine corretta della realtà cubana e del suo regime, ad incoraggiare gli sforzi diplomatici internazionali per favorire la dipartita di Castro, e a indebolire la strategia di successione elaborata dal Governo dell’Avana per mantenere, a detta di Washington, le stesse strutture di potere. Le recenti cattive condizioni di salute di Fidel castro e la cessione temporanea del potere al fratello hanno ulteriormente rafforzato l’intresse degli Stati Uniti per l’isola caraibica. Con queste premesse non riesce facile ipotizzare un repentino cambio di strategia presidenziale, specie considerando la forte pressione esercitata dalle comunità di esiliati cubani in Florida a favore di una posizione USA intransigente verso il regime castrista. Condoleezza Rice, durante l’udienza di conferma della nomina a Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America ha dichiarato che le priorità della sua azione verso gran parte dell’America latina consisteranno nel «rafforzamento degli ideali e delle istituzioni democratiche, e nell’alleviamento della povertà»275. Per Cuba, tale dichiarazione appare una conferma che non vi saranno aperture se non nei confronti di un nuovo regime, la cui legittimità e democraticità spetteranno al giudizio del Governo di Washington. Cuba non rappresenta più un problema di sicurezza per gli Stati Uniti, ma l’atteggiamento di questi ultimi, benché differisca nei mezzi, non appare molto distante nei fini da quello adottato durante la guerra fredda e in periodi precedenti. 7. Conclusione da una prospettiva latinoamericana Le relazioni interamericane e la politica latinoamericana di Washington sono state segnate da alcuni peccati originali. Il primo è l’indubbia e oggettiva asimmetria tra il nord e il sud del continente. Potente politicamente, militarmente e culturalmente, e sviluppato economicamente, il nord ha sempre finito per prevalere ed imporsi nei confronti del sud. Secondo, la formazione territoriale stessa degli Stati Uniti è avvenuta a detrimento dell’area latina del continente, sfruttando le asimmetrie di cui sopra. Terzo, l’approccio politico e filosofico degli Stati Uniti è sempre stato caratterizzato da un senso di superiorità, e, in virtù di quest’ultima, dalla certezza che i propri modelli fossero sempre dalla parte del giusto ed equo276. L’attenzione degli Stati Uniti verso l’America latina ha conosciuto fasi alterne. A periodi di totale o quasi disimpegno seguivano momenti di intervento intenso e azione diretta. Ciò dipende dal fatto che la Casa Bianca si è mossa in America latina solo quando i propri interessi erano pesantemente in gioco. Ora, al di là dei problemi che questo atteggiamento ha indubbiamente creato al resto del continente, non si può chiedere ad un paese di condurre una politica estera a vantaggio più dei propri vicini che di se stesso. Si può e si deve chiedere invece una politica

273 Discorso del Presidente George W. Bush del 20 maggio 2002. www.state.gov/p/wha/rls/fs/10323.htm, ultimo accesso 16 febbraio 2005. 274 Discorso del Presidente George W. Bush del 20 maggio 2002. 275 Udienza di conferma della nomina del Segretario di Stato Condoleezza Rice, www.state.gov/p/wha/rls/news/39433.htm, ultimo accesso 16 febbraio 2005. 276 Martha Cottam, Images and intervention. US policies in Latin America, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh, 1994.

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estera di equilibrio, rispetto, proporzionalità e tolleranza, ma queste caratteristiche hanno fatto decisamente difetto alla politica latinoamericana di Washington. L’alternanza tra disinteresse e interventismo, lungi dal rappresentare una situazione di incongruenza, ha invece riflettuto il fine ultimo e costante degli Stati Uniti nel continente: la ricerca della stabilità. Ad essa si associano i corollari della supremazia continentale e dell’eliminazione di influenze o minacce esterne. In fasi in cui la stabilità era assicurata con una politica di basso profilo, Washington si sottraeva all’impegno continentale. Nei momenti in cui la stabilità geopolitica veniva turbata, gli Stati Uniti intervenivano per ripristinare l’equilibrio. Si trattava, e si tratta tuttora, però, di un equilibrio asimmetrico, prono agli interessi e obiettivi della potenza egemone più che a quelli della collettività delle Americhe. Il concetto attuale di stabilità si traduce nel binomio democrazia e mercato, una formula che, con le dovute proporzioni storiche, è anch’essa un chiaro aspetto di continuità. Sia la prima che la seconda amministrazione Bush non fanno eccezione. La combinazione di questo binomio con le particolarità dell’attuale congiuntura internazionale ha dato comunque luogo ad una agenda che presenta tratti innovativi rispetto al passato, pur in una sostanziale continuità di fini. Nella sfera economica, gli Stati Uniti continuano a propagandare il proprio credo di apertura commerciale e libero mercato, al momento attraverso la creazione di un’area di libero commercio delle Americhe, uno strumento non nuovo ma attualizzato e riformulato in funzione dell’epoca della globalizzazione. In ambito politico, gli Stati Uniti hanno per ora trovato un nuovo modus vivendi, basato sul reciproco interesse, con le amministrazioni progressiste e riformiste di molti paesi latinoamericani, in quanto queste ultime sono in grado di assicurare il binomio su cui si regge la stabilità perseguita da Washington. Pur in un contesto di incontrastata supremazia politica, economica e militare, gli Stati Uniti dovranno anche guardarsi dalla crescente espansione asiatica, e cinese in modo particolare, sui mercati latinoamericani, poiché questa potrebbe preludere ad ulteriori influenze di tipo politico. Infine, il concetto di sicurezza, una volta terminata la guerra fredda, ha largamente abbandonato accezioni ideologiche e militari e ha finito per comprendere aree quali la lotta al narcotraffico, al terrorismo e all’immigrazione clandestina. In questo contesto di mutamento, la transizione cubana ha cessato di essere un tema di sicurezza per rientrare nell’ambito della sfera più prettamente politica, benché mezzi e fini dell’azione nordamericana non si discostino molto da quelli usati nel passato. Resta da stabilire se questo nuovo pragmatismo, che certamente conviene a Washington, convenga anche al resto del continente. Durante la guerra fredda, le opzioni a disposizione dei paesi latinoamericani per fronteggiare lo strapotere e l’ingerenza nordamericana si limitavano essenzialmente a tre scelte: 1) la via al socialismo quale alternativa radicale al modello statunitense. Questa però implicava l’ostilità e la più che probabile azione di disturbo di Washington, così limitando le opportunità di successo. 2) Unirsi agli Stati Uniti nella crociata anticomunista e sperare in una benevole ricompensa. Di fatto, paesi che hanno tentato in tempi diversi questa strada, quali Argentina e Brasile, non hanno ottenuto quanto attendevano. 3) La soluzione della cooperazione tra poveri, attraverso il Movimento dei Paesi non Allineati o la rivendicazione di un Nuovo Ordine Economico Internazionale. Entrambi hanno prodotto risultati estremamente modesti. Con la fine della guerra fredda, la mitigazione dell’ortodossia neoliberale, e l’impegno statunitense in altre parti del mondo, ai paesi latinoamericani si aprono scenari nuovi per il proprio sviluppo. Molti paesi Sud Americani, Cile in testa, perseguono un modello di global trading volto a diversificare non solo le proprie esportazioni ma anche i mercati di destinazione. L’opzione di unirsi agli Stati Uniti resta comunque aperta, è il caso del Messico e della sua adesione al NAFTA. Ma questa soluzione presenta limiti geografici e non dipende tanto dalla volontà dei candidati quanto dalla buona predisposizione di Washington. L’integrazione sub-regionale riguadagna consensi e prospettive. Il Mercosur sembra riacquisire vita e senso dopo l’assopimento degli ultimi anni, e, soprattutto, la neonata Comunità Sudamericana277 appare come il frutto di una ritrovata consapevolezza di interessi comuni ancor prima che di una rinata solidarietà. Con la fine della guerra fredda, e con la mondializzazione dell’economia, nuove opportunità si aprono in termini di partenariato e alleanze internazionali, con Unione europea e Asia-Pacifico apparentemente ben disposte ad incrementare il proprio coinvolgimento in America latina.

277 La Comunità Sudamericana ingloba i membri del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay), del Patto Andino (Bolivia, Colombia, Ecuador, Perù e Venezuela),e il Cile, a cui si uniranno la Guyana e il Suriname.

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Infine, la messa in discussione del modello neoliberale, consente maggiore flessibilità in politica economica e nel perseguimento di modelli di sviluppo adatti alle esigenze locali. In passato, il disinteresse statunitense per l’area latinoamericana non è stato sempre nocivo. Ad una diminuzione degli incentivi politici ed economici provenienti dal nord, hanno fatto da contrappeso una maggiore autonomia decisionale e una più larga gamma di opzioni, a livello interno e internazionale. I risultati sono spesso stati apprezzabili non solo in termini di progresso locale, ma graditi alla stessa amministrazione di Washington. Le relazioni interamericane nella seconda Presidenza Bush sembrano inquadrarsi proprio in questa prospettiva. Figura 10: il «muro della vergogna» che divide Stati Uniti d’America e Messico all’altezza di Tijuana.

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