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Capitolo 1 Giusnaturalismo SOMMARIO: 1. Le origini del giusnaturalismo nel pensiero greco. – 2. Sviluppi del giusnaturalismo nel pensiero greco-romano. – 3. Giusnaturalismo e pensiero cri- stiano. – 4. Il giusnaturalismo nel Medioevo e la sistemazione tomistica. – 5. Il gius- naturalismo nell’età moderna. – 6. Le critiche al giusnaturalismo. – 7. La funzione storica del giusnaturalismo e la sua rinascita nel Novecento. 1. Le origini del giusnaturalismo nel pensiero greco Le origini di quella corrente che nel pensiero moderno verrà definita giusnaturalismo si collocano in Grecia nel V secolo a.C. Già Eraclito, uno dei filosofi presocratici o naturalisti, in un frammento scrive: “tutte le leggi umane sono nutrite da un’unica legge divina”, ma è Sofocle (circa 497-405 a.C.), uno dei grandi tragici greci, a porre il problema del rapporto tra le leggi positi- ve, istituite dallo Stato e da questo fatte valere, e le norme che l’uomo trova dentro di sé, indipendentemente dalla legislazione statale. È questo infatti il motivo di una delle sue tragedie più famose, Antigone, in cui si narrano le vicende della figlia di E- dipo, Antigone, che, obbedendo alla propria coscienza e trasgre- dendo agli ordini del re Creonte, aveva dato sepoltura al fratello Polinice, che era caduto in battaglia combattendo contro la sua città natale, Tebe. Condotta al cospetto del re, Antigone così giustifica il suo comportamento: “… certo non è stato Zeus ad emanare questo editto e la giustizia che dimora con gli dei sotterranei non ha mai stabilito per gli uomini leggi simili. Ed io non ritenevo che i tuoi

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Capitolo 1

Giusnaturalismo 

SOMMARIO: 1. Le origini del giusnaturalismo nel pensiero greco. – 2. Sviluppi del giusnaturalismo nel pensiero greco-romano. – 3. Giusnaturalismo e pensiero cri-stiano. – 4. Il giusnaturalismo nel Medioevo e la sistemazione tomistica. – 5. Il gius-naturalismo nell’età moderna. – 6. Le critiche al giusnaturalismo. – 7. La funzione storica del giusnaturalismo e la sua rinascita nel Novecento.

1. Le origini del giusnaturalismo nel pensiero greco 

Le origini di quella corrente che nel pensiero moderno verrà definita giusnaturalismo si collocano in Grecia nel V secolo a.C.

Già Eraclito, uno dei filosofi presocratici o naturalisti, in un frammento scrive: “tutte le leggi umane sono nutrite da un’unica legge divina”, ma è Sofocle (circa 497-405 a.C.), uno dei grandi tragici greci, a porre il problema del rapporto tra le leggi positi-ve, istituite dallo Stato e da questo fatte valere, e le norme che l’uomo trova dentro di sé, indipendentemente dalla legislazione statale. È questo infatti il motivo di una delle sue tragedie più famose, Antigone, in cui si narrano le vicende della figlia di E-dipo, Antigone, che, obbedendo alla propria coscienza e trasgre-dendo agli ordini del re Creonte, aveva dato sepoltura al fratello Polinice, che era caduto in battaglia combattendo contro la sua città natale, Tebe.

Condotta al cospetto del re, Antigone così giustifica il suo comportamento: “… certo non è stato Zeus ad emanare questo editto e la giustizia che dimora con gli dei sotterranei non ha mai stabilito per gli uomini leggi simili. Ed io non ritenevo che i tuoi

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bandi avessero tanta forza che un mortale potesse soverchiare le leggi non scritte (ά ό) ed incrollabili degli dei. Perché queste non vivono oggi o ieri, ma in eterno, e nessuno conosce il momento in cui ebbero origine”.

Sono parole di un poeta, che, tuttavia, esprimono la coscienza che il popolo greco doveva avere di questo problema, che si ri-trova formulato in termini filosofici presso i Sofisti e anche in Socrate.

I Sofisti, come è noto, non rappresentano un indirizzo di pen-siero unitario, ma hanno come caratteristica comune un particola-re interesse per i problemi etico-politici e giuridici e la convin-zione della fondazione razionalistica ed umanistica di tutti i valo-ri, convinzione riassumibile nel celeberrimo frammento di Prota-gora: “l’uomo è misura di tutte le cose” (άνθ ά έ). Essi contrappongono giusto per natura (ί ύ) e giusto per legge (ί ό, in cui ό indica la legge intesa come creazione umana artificiale), ma argomentano e risolvono variamente questo contrasto.

Ad esempio, Callicle afferma che per natura l’uomo migliore e più forte ha la superiorità sugli altri, mentre le leggi, opera dei più deboli, cercano di neutralizzare questa superiorità naturale: sono perciò contrarie alla natura ed ingiuste. In Callicle quindi il diritto di natura appare concepito come principio di condotta e-sterno all’uomo, imposto dal di fuori da una natura intesa come istinto, identificato con la forza.

Ippia, invece, sostiene che per natura gli uomini sono “con-sanguinei, parenti, concittadini”, mentre per legge questo non avviene, perché “la legge, tiranna degli uomini, alla natura fa molte volte violenza”. Antifonte afferma che “la maggior parte di ciò che è giusto secondo la legge è contrario alla natura”: sul-la base della legge di natura, ad esempio, “tutti siamo uguali in tutto, greci e barbari”. Alcidamante arriva a proclamare che “nessuno la natura ha fatto schiavo”. In Ippia, Antifonte e Alci-damante il diritto naturale non è, come per Callicle, una norma che si impone all’uomo dall’esterno, ma una norma che all’uo-mo è data dalla sua stessa natura.

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Appaiono così delineate fin dal V secolo a.C. le tre fonda-mentali versioni con cui il giusnaturalismo si presenterà nel cor-so della sua lunga storia, versioni che possono essere definite: giusnaturalismo volontaristico, giusnaturalismo naturalistico e giusnaturalismo razionalistico.

Il giusnaturalismo volontaristico, rappresentato da Sofocle, postula che al di sopra delle leggi positive umane ci siano leggi non scritte, dettate da una volontà divina.

Il giusnaturalismo naturalistico, rappresentato da Callicle, i-dentifica la legge di natura con l’istinto comune a tutti gli esseri animati.

Il giusnaturalismo razionalistico, rappresentato da Ippia, An-tifonte ed Alcidamante, considera il diritto naturale come l’insie-me dei principi di ragione, natura essenziale dell’uomo.

Questi tre filoni hanno avuto nel corso dei secoli storie molto diverse: il meno influente è stato il secondo, vale a dire il gius-naturalismo naturalistico, privo di spessore filosofico; il giusna-turalismo volontaristico si è coniugato, per lo più, con dottrine di ispirazione religiosa e sul piano politico ha spesso portato a concezioni assolutistiche; il giusnaturalismo razionalistico, in-vece, ha caratterizzato dottrine per lo più laiche e democratiche.

2. Sviluppi  del  giusnaturalismo  nel  pensiero  greco­romano 

Le tre differenti concezioni del diritto naturale che emergono nel pensiero greco del V secolo si ritrovano conciliate nella dot-trina degli Stoici (III sec. a.C.), i quali ritenevano che l’universo fosse animato da un principio assoluto, razionale e divino insie-me, il ό, che pervade e muove la materia, immedesimando-si in essa. Sullo sfondo di questa concezione panteistica, anche il diritto viene concepito come parte dell’ordine universale, quale principio insieme divino, razionale e naturale e da esso devono scaturire le leggi positive che quindi non possono essere che o-pera dei saggi.

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Questo giusnaturalismo stoico ebbe grande fortuna a Roma, dove fu divulgato efficacemente soprattutto da Cicerone (106-43 a.C.), uomo politico e “avvocato” di grande fama, che, sopratut-to nel De legibus, compie un’ampia e argomentata trattazione del principio del diritto.

Con evidenti echi stoici egli scrive: “la legge è ragione su-prema insita nella natura, che comanda ciò che si deve fare e proibisce il contrario: ragione che, attuantesi nel pensiero del-l’uomo, è appunto la legge”. È da questa legge suprema, uguale in ogni tempo, che occorre prendere le mosse per ritrovare il principio del diritto. Il diritto infatti – continua Cicerone – non nasce dalle leggi positive: se a fondare il diritto fossero le leggi positive, potrebbe essere diritto rubare, commettere adulterio qualora queste azioni venissero approvate dal voto o dal decreto di un legislatore. Inoltre se non vi fosse norma naturale non si potrebbe distinguere una legge buona da una cattiva.

Questa concezione giusnaturalistica viene ripresa anche in al-tre opere di Cicerone: una delle sue formulazioni più esplicite la ritroviamo in una pagina del De republica, tramandata da uno dei Padri della Chiesa, Lattanzio: “vi è una legge vera, ragione retta conforme alla natura, presente in tutti, invariabile, eterna, tale da richiamare con i suoi comandi al dovere e da distogliere con i suoi divieti dall’agire male ... A questa legge non è possi-bile che si tolga valore né è lecito che in qualcosa si deroghi, né essa può essere abrogata; da questa legge non possiamo essere sciolti ad opera del Senato o del popolo. Essa non è diversa a Roma o ad Atene, non è diversa ora o in futuro: tutti i popoli, invece, in ogni tempo saranno retti da quest’unica legge eterna ed immutabile. Ed unico comune maestro, per così dire, e sovra-no di tutti sarà Dio, di questa legge egli solo è l’autore, l’inter-prete, il legislatore e chi non gli obbedirà rinnegherà se stesso, e, rifiutando la sua natura di uomo, per ciò medesimo incorrerà nelle massime pene, anche se potrà essere sfuggito ad altre puni-zioni”.

L’importanza della concezione ciceroniana è stata grandissi-ma: la teoria del diritto come “summa ratio” di derivazione stoi-

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ca si diffuse largamente e, grazie alle sue opere, penetrò nel pen-siero cristiano (come abbiamo detto la pagina del De Republica sopra citata è riportata da Lattanzio) e in quello medioevale.

Nelle opere dei giuristi romani si trovano anche altre defini-zioni di diritto naturale, mutuate dalla filosofia greca: Ulpiano, ad esempio, parla di esso come quel diritto che “la natura ha in-segnato a tutti gli esseri animati … non è proprio solo del genere umano, bensì è comune a tutti gli esseri animati che nascono in terra ed in mare e anche agli uccelli”. Ulpiano riprende la defini-zione del diritto naturale in senso naturalistico, che abbiamo già incontrato in Callicle, definizione che attraverso di lui giungerà ai filosofi e ai giuristi medioevali tra i quali, ad esempio, Isidoro da Siviglia e Odofredo Denari, uno dei giuristi dello studio bo-lognese.

Giulio Paolo definisce il diritto naturale “ciò che è sempre giusto e buono” e, al tempo di Giustiniano, con evidente in-fluenza cristiana, si diffuse la definizione di esso in senso volon-tarista, come insieme di norme “stabilite da una provvidenza di-vina”.

I giuristi romani non comprendevano però la portata filosofi-ca di queste definizioni e, d’altra parte, non si posero mai il pro-blema del possibile contrasto tra diritto naturale e diritto positivo.

3. Giusnaturalismo e pensiero cristiano 

L’estendersi del cristianesimo nei territori ellenistici e romani favorì l’assimilazione da parte cristiana della cultura greco-romana. Questo se, da un lato, favorì il radicarsi del cristianesi-mo, dall’altro, comportò un travisamento dell’autentico messag-gio cristiano, come ben si coglie proprio con riferimento al pro-blema del diritto.

Al cristianesimo delle origini l’idea del diritto è del tutto e-stranea: il Vangelo chiama gli uomini all’unità mistica con Dio e il regno di Dio non ha bisogno di istituzioni giuridiche. La paro-

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la “giustizia” nell’Antico e nel Nuovo Testamento non ha mai il significato di virtù regolatrice dei rapporti sociali intersoggettivi, ma esprime la perfezione religiosa di chi, mediante la grazia, è redento dal peccato.

La polemica di S. Paolo contro il legalismo è molto dura: la legge è il segno del peccato, del mondo; si è resi giusti non dalla legge, ma dalla grazia di Dio, mercé la redenzione, e coloro che vivono secondo lo spirito non hanno bisogno della legge.

L’atteggiamento degli scrittori cristiani verso il problema giu-ridico cambia nei Padri della Chiesa (tra il II e l’VIII secolo d.C.), i quali, ispirandosi alla tradizione classica, ripropongono i temi del giusnaturalismo razionalistico, postulando una legge superiore quale fondamento e modello di ogni legge positiva umana, legge definita divina, ma identificata nella ragione da autori come Atenagora (II sec.), Origene (III sec.), Tertulliano (III sec.), Lattanzio (III sec.); così al misticismo e al volontari-smo teologico del primo cristianesimo si sostituisce, eredità classica, il giusnaturalismo razionalistico.

Il primo dei Padri della Chiesa a comprendere le implicazioni dell’accettazione di una concezione del diritto naturale in senso razionalistico fu S. Ambrogio (IV sec.), il quale si chiede che bi-sogno ci fosse di una legge rivelata dal momento che l’uomo possedeva, innata, quella della natura e, dopo aver risposto che fu resa necessaria dal fatto che gli uomini non osservavano a sufficienza quella naturale, conclude che, dopo la venuta di Cri-sto, il solo strumento di salvezza è la fede.

Ma, nello stesso periodo, S. Giovanni Crisostomo, partendo dalla stessa domanda di S. Ambrogio, giunge a ben altra conclu-sione, cioè che l’uomo è capace, grazie alla ragione, di raggiun-gere la virtù ed evitare il vizio.

Sarà poi S. Agostino (IV-V sec.) a prendere piena coscienza del problema dopo la polemica con Pelagio, che sosteneva tesi molto simili a quelle di S. Giovanni Crisostomo.

Anteriormente alla polemica con Pelagio, S. Agostino, analo-gamente ai Padri della Chiesa che l’avevano preceduto, scriveva che la legge positiva, storica, non è valida se non è conforme al-

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la legge eterna, che è la legge naturale, cioè ragione suprema. Dopo la polemica con Pelagio egli si rese conto della inconci-

liabilità di una simile posizione con il cristianesimo e, pur conti-nuando a parlare di legge naturale e di ordine naturale, li identi-fica con ciò che è posto dalla volontà divina, riprendendo l’inter-pretazione volontaristica propria del cristianesimo delle origini.

Si delinea così nell’opera dei Padri della Chiesa, e in partico-lare di S. Agostino, quello che sarà uno dei motivi costanti del Medioevo, il contrasto cioè tra intellettualisti, che sostengono che la legge naturale derivi dalla ragione, e antintellettualisti o volontaristi, per i quali la legge naturale è posta dalla volontà di Dio.

Sembrerebbero a prima vista questioni di astratta teologia, lontane dai problemi concreti, ma dietro ad esse si profilavano concezioni morali e politiche opposte, dal contrasto tra le quali si svilupperà il pensiero moderno.

4. Il  giusnaturalismo nel Medioevo  e  la  sistemazione tomistica 

Dopo S. Agostino per cinque secoli almeno la cultura euro-pea fu quasi del tutto spenta, ma quando, a partire dal IX secolo, cominciarono a fiorire le scuole teologiche e filosofiche, che dettero il nome alla Scolastica, i pensatori medioevali si trova-rono ancora di fronte al dilemma posto da S. Agostino.

Come si accennava sopra, nella Scolastica si possono indivi-duare due correnti, una intellettualista e una antintellettualista: quest’ultima, recuperando elementi del platonismo e del mistici-smo agostiniano, è di orientamento volontarista e identifica il di-ritto naturale con la volontà di Dio; la prima, di ispirazione ari-stotelica, rivendica alla ragione una sua sfera, seppur limitata, e identifica la legge naturale con la ragione. In essa sopravvive l’istanza razionalistica di origine greco-ciceroniana che i Padri della Chiesa avevano tramandato.

Il più razionalista degli scolastici è Pietro Abelardo (XII

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sec.): egli per la prima volta usa l’espressione “ius positivum”, derivandola dal commento al dialogo platonico Timeo di Calci-dio, e ad esso contrappone lo “ius naturale”, definito come “ciò che la ragione stessa che per natura è presente in tutti persuade doversi compiere con l’azione”. Tale concezione si afferma con Alberto Magno (XIII sec.), maestro di Tommaso d’Aquino (1225/6-1274), al quale si deve l’opera di chiarificazione e siste-matizzazione della dottrina giusnaturalistica medioevale.

Nella Summa theologiae S. Tommaso distingue tra lex divina, lex aeterna, lex naturalis e lex humana.

La lex divina è la legge rivelata da Dio e come tale è superio-re a tutte.

La lex aeterna è la ragione stessa di Dio, sovrano della co-munità dell’universo e legislatore di essa. Tutte le cose soggette alla provvidenza di Dio sono regolate dalla legge eterna, quindi anche le creature razionali: “questa partecipazione della creatura razionale alla legge eterna si chiama legge naturale”. Quest’ul-tima non è una copia imperfetta della legge eterna, ma una parte di essa, ed è guida all’uomo nel perseguimento dei suoi fini ter-reni, sulla base del principio fondamentale “bonum faciendum, malum vitandum”.

La lex humana, cioè il diritto positivo, è istituita dall’uomo perché con la forza ed il timore egli si astenga dal male se, a causa delle passioni, non segue la sua natura razionale. La lex humana deriva da quella naturale in due modi:

– per modum conclusionum, cioè per deduzione da principi – per modum determinationis, cioè per specificazione di

norme più generali.

Ma il diritto positivo non è una semplice derivazione mecca-nica dalla legge naturale: esso, per S. Tommaso, nasce dalla vo-lontà comune, sia per un accordo privato, sia per accordo di tutto il popolo, sia per il comando del sovrano che rappresenta e go-verna il popolo.

Nella Summa theologiae viene posto anche il problema del pos-sibile contrasto tra la legge positiva e la legge naturale. S. Tomma-

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so premette che “una legge positiva che in qualche cosa differi-sca dalla legge naturale, non sarebbe più una legge, ma una cor-ruzione della legge (corruptio legis)”, tuttavia, pur negando ad essa valore morale, sembra riconoscerle validità giuridica al fine di evitare turbative sociali (propter vitandum scandalum vel tur-bationem). Solo alla legge contraria alla legge divina si deve di-sobbedire.

Con questa sistemazione S. Tommaso mette ordine nell’eclet-tica confusione in tema di diritto naturale in cui il pensiero me-dioevale si era dibattuto.

Egli distingue più piani: quello della fede e quello della ra-gione, quello della rivelazione e quello della filosofia. Conse-guentemente riconosce alla legge divina un carattere e fine che la pongono su un piano di superiorità, ma attribuisce alla legge naturale una sua legittimità che le deriva dall’essere posta dalla ragione. L’uomo ha infatti un fine soprannaturale e per questo ha bisogno della legge rivelata da Dio, la legge divina, ma, in quanto essere naturale e razionale, ha una sua autonomia, nel senso letterale del termine, cioè capacità di dare a se stesso le proprie leggi.

I primissimi scrittori cristiani, in particolare S. Paolo, aveva-no negato valore al diritto perché negavano valore alla natura e alla ragione, contrapponendo ad esse la grazia e la fede. I Padri della Chiesa, sotto l’influsso della cultura greco-romana, aveva-no rivalutato il diritto e la ragione, cadendo in gravi contraddi-zioni, portate in luce in particolare da S. Agostino, che era ritor-nato a svalutare la natura, la ragione e quindi il diritto e lo Stato, legittimando il primo solo nella forma di legge posta dalla vo-lontà di Dio e il secondo nella forma di città di Dio.

S. Tommaso, senza negare il piano soprannaturale della gra-zia e della fede, riconosce legittimità anche al piano naturale e umano, in cui regna la ragione che si esprime in campo morale come legge naturale.

Occorre dunque andare molto cauti nell’accettare l’opinione di chi vede in S. Tommaso il rappresentante tipico del Medioe-vo: egli attua un equilibrio tra istanza religiosa e istanza monda-

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na, che portò ad un inasprirsi della tensione tra intellettualisti e antintellettualisti già presente, peraltro, nel pensiero pretomistico.

La reazione al razionalismo tomistico è rappresentata da Gu-glielmo da Occam (XIV sec.): in contrapposizione a S. Tomma-so – per il quale, come si è visto, l’uomo è partecipe della razio-nalità divina e ha in sé il criterio della moralità, grazie alla legge naturale – egli fa risiedere la moralità esclusivamente nell’obbe-dienza al comando di Dio, la cui volontà è assolutamente libera ed arbitraria, tanto che egli può volere che due più due non fac-cia quattro. Anche per Occam il diritto naturale è dettato dalla retta ragione, ma la retta ragione è per lui solo lo strumento con cui Dio rende nota all’uomo la propria arbitraria e incondiziona-ta volontà. Quindi il diritto naturale è norma esterna all’uomo, senza certezza né stabilità, in quanto perpetuamente in balìa del-la volontà divina: ad esso l’uomo non può derogare e le leggi positive non hanno valore se in contrasto con questo.

La tarda Scolastica segna così l’arresto di quel processo di razionalizzazione che la tradizione stoico-ciceroniana e il risco-perto aristotelismo avevano esercitato sull’etica medioevale e il ritorno al volontarismo dei primi autori cristiani.

Ma fu un discepolo di Occam a formulare per la prima volta la tesi più esplicita e radicale del razionalismo etico: Gregorio da Rimini (XIV sec.). Egli, come il suo maestro, è un volontari-sta radicale, ma, definendo il peccato “l’agire volontariamente contro la retta ragione”, così prosegue: “se si chiede perché io dico contro la retta ragione e non contro la ragione divina ri-spondo che non si deve credere che il peccato sia solamente con-tro la ragione divina e non contro qualsiasi ragione allo stesso proposito. Perché se per impossibile ipotesi la ragione divina o Dio stesso non esistessero o tale ragione non fosse retta, pure se qualcuno agisse contro la retta ragione degli angeli o dell’uomo o un’altra se una ce ne fosse peccherebbe. E se non esistesse af-fatto una ragione retta, pure se qualcuno agisse contro ciò che detterebbe doversi fare una ragione retta, se ce ne fosse una, egli peccherebbe”.

Qui è formulata esplicitamente la tesi dell’indipendenza della legge morale non solo dalla volontà, ma dall’esistenza stessa di

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Dio, e della sua fondazione unicamente nella ragione, tesi che ritroveremo in Grozio, in un contesto culturale profondamente cambiato, e che produrrà conseguenze rilevantissime nello svi-luppo del pensiero etico-giuridico e politico moderno.

5. Il giusnaturalismo nell’età moderna 

Il Medioevo era stato caratterizzato da una fondamentale uni-tà: all’universalismo spirituale facente capo alla Chiesa corri-spondeva un universalismo temporale rappresentato dall’Impe-ro. Ma, a partire dal XIV secolo, l’universalità e la sovranità del-l’Impero si vanno sempre più riducendo ad una finzione: la nuo-va realtà è costituita da una pluralità di Stati effettivamente so-vrani che non riconoscono un superiore (superiorem non reco-gnoscentes), che danno a se stessi autonomamente le proprie leggi e che non si considerano più, nemmeno formalmente, membri di uno stesso organismo.

Con la Riforma, luterana prima e calvinista poi, si spezza an-che l’unità religiosa e viene a mancare l’ultimo terreno comune di incontro, quale era la religione: anzi questa diviene nuova causa di contrasti aggiungendosi alle rivalità vecchie e nuove, tra le quali, soprattutto, il possesso delle terre recentemente sco-perte e il dominio dei mari, divenuto elemento fondamentale nella politica dei grandi Stati.

Prima della Riforma i rapporti internazionali erano trattati quali “casi di coscienza” da parte dei teologi, tra i quali, in parti-colare, gli esponenti della Seconda Scolastica spagnola, quali Francisco Suárez, Francisco de Vitoria, Domingo de Soto, ma, dopo la Riforma, al tempo delle guerre di religione, non era cer-to la teologia a poter fornire un fondamento a norme accettabili da parte dei contendenti, che proprio questioni religiose avevano posto in conflitto. Occorreva che il fondamento di queste norme, che venivano dette di diritto delle genti, e, con terminologia mo-derna, potremmo definire di diritto internazionale, fosse trovato al di fuori di qualsiasi legislazione positiva o religiosa, in qual-

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che cosa che fosse comune a tutti gli uomini indipendentemente dalla loro nazionalità.

Così nella seconda metà del XVI secolo Alberico Gentili, nel suo De iure belli, riconnette il diritto internazionale a quelle “leggi non scritte, innate” che, pur avendo il loro fondamento ultimo in Dio, sono dettate dalla ragione naturale.

Questa via dell’appello alla ragione naturale, il cui dettato è valido per tutti gli uomini indipendentemente dalla fede religiosa, è quella che seguirà Ugo Grozio (1583-1645), autore di numero-sissime opere letterarie, filologiche, storiche, teologiche, politi-che e giuridiche, che deve la sua fama ad un libello Mare libe-rum, in cui sostiene la libertà dei mari in polemica con il giurista inglese Selden, autore del Mare clausum e, soprattutto, al De iure belli ac pacis. Nella prima parte di quest’ultimo, i Prolegomena, Grozio si pone il problema del fondamento del diritto internazio-nale e lo individua nella natura razionale e sociale dell’uomo. I principi fondamentali di esso sono, in primo luogo, l’obbligo di tener fede ai patti (pacta sunt servanda), poi, come conseguenza, il rispetto delle cose altrui, la restituzione della proprietà altrui e del lucro derivatone, il mantenere le promesse e così via.

Tutto ciò, secondo Grozio, non può essere modificato da nes-suna volontà e “sussisterebbe in qualche modo ugualmente an-che se ammettessimo – cosa che non può farsi senza empietà gravissima – che Dio non esistesse (etiamsi daremus Deum non esse) o che non si occupasse dell’umanità”.

In questa proposizione fu scorta dai contemporanei un’auda-cia grandissima giungente addirittura all’empietà, in quanto Grozio, affermando l’indipendenza del diritto naturale da Dio, appare distruggere ogni presupposto trascendente, teologico e religioso della moralità e, fondando quest’ultima sulla sola natu-ra umana, proclamarne il carattere assolutamente immanentisti-co, razionalistico e laico.

Tutto ciò valse a Grozio, da un lato, la condanna della Chiesa e, dall’altro, secondo una interpretazione che risale a Samuel Pu-fendorf, la fama di fondatore della teoria moderna del diritto na-turale.