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Giuseppe Limone, Il rigore teoretico della persona come sfida
eversiva e il problema della giustizia, in Il pensiero politico di
Emmanuel Mounier nel Centenario della nascita, Convegno
Nazionale di Studi di Ragusa – dell’11-12.3.2005 – sul pensiero
politico di Emmanuel Mounier nel Centenario della nascita,
Rubbettino editore, Soveria Mannelli, 2006, in corso di
pubblicazione.
2
Il rigore teoretico della persona come sfida
eversiva e il problema della giustizia
di Giuseppe Limone
1. Una premessa
Uno dei criteri ermeneutici essenziali per rendere teoreticamente fecondo
il pensiero di Emmanuel Mounier e per consentire a noi tutti di mirare –
sulla base delle sue coordinate di fondo – oltre di esso, è, a nostro avviso,
quello di prendere sul serio le sue dichiarazioni di principio, assumendole
nella loro semplicissima radicalità. Si tratta, lungo questa metodica, di
considerare, da un lato, come l’opera mounieriana sia rimasta
sostanzialmente incompiuta e si tratta di capire, dall’altro, quanto il testo
mounieriano si ponga, in realtà, come un tessuto semantico che, pur chiaro
e icastico, è configurabile come uno strato di pieni e di vuoti, nel quale il
pensiero può rivelarsi ricco di chances teoretiche, singolarmente atto a
stimolare l’impensato.
Se si guarda al percorso mounieriano, infatti, è a nostro avviso possibile
estrarne una specifica grammatica speculativa, che è oggi più viva che mai
e che tale, a nostro avviso, resterà, in attesa del grande cammino
ermeneutico che l’attende, all’altezza del millennio che si è aperto.
Diremmo qui, in premessa, che bene ha fatto Giorgio Campanini a
pubblicare, in appendice alla nuova traduzione de Il personalismo, le
conclusioni della giovanile tesi di laurea di Emmanuel Mounier su ‘Il
conflitto dell’antropocentrismo e del teocentrismo nella filosofia di
3
Cartesio”. Là dove Mounier, fra l’altro, cita efficacemente San Paolo:
“Chiunque crede di sapere qualcosa, non conosce ancora ciò che deve
sapere, né come deve saperlo” (Paolo, I, Cor, 8, 2)1.
Anche dell’opera di Emmanuel Mounier, a ben guardare, può dirsi
qualcosa di strettamente affine, ove ci si rivolga, oggi, all’interprete
dell’opera del Nostro. L’itinerario dei testi mounieriani, infatti, si pone, in
più sensi, come opera incompiuta, eppur costituita di passaggi teoretici
decisivi per una conoscenza più ricca e più ardita, lungo un sentiero in cui
l’interprete è chiamato senza sosta a scoprire.
Assumeremo, qui, come punti di riferimento di base, anche se non unici,
Che cos’è il personalismo, Il personalismo e Il Trattato del carattere, e ciò
faremo pur nella consapevolezza della essenzialità di tutti gli altri testi
mounieriani e nella pari coscienza che c’è tutto un lavoro teoretico da ri-
fare sull’opera del Nostro, se ci si riesce a collocare ben dentro il circùito
denso – a volte contratto, eppur sempre aperto e luminoso – del suo
itinerario di ricerca.
2. La giustizia come problema
Intendiamo premettere, qui, un’osservazione di base. Esaminata nella
prospettiva personalista, la giustizia si rivela un problema e un paradosso.
Perché, nell’approfondirla a partire dalla ‘persona’, può scoprirsi, già fin
dall’esplorazione del suo statuto speculativo, una singolare configurazione
aporetica, pur se virtuosamente tale.
Va intanto chiarito da subito che occorre, nella prospettiva personalista,
sfuggire al pericolo di delineare una ‘giustizia’ intesa come mera
quadratura concettuale fra una ‘Ragione’ e un ‘Uomo’ – ossia fra un
1 Emmanuel Mounier, Il personalismo, a cura di Giorgio Campanini e Massimo Pesenti, AVE,
Roma, 2004, p. 166.
4
concetto generale di ‘ragione’ e un concetto generale di ‘uomo’. Non sarà
mai sottolineato abbastanza, infatti, che nella concezione personalista non è
mai in questione una ‘Ragione’ in generale, né – tanto meno – un ‘Uomo’
in generale. Ciò perché, nella sua scommessa teoretica e nella sua
articolazione specifica, il centro speculativo di ogni discorso sull’uomo e
sul mondo è la ‘persona’: la ‘persona’ intesa come una precisa idea di
uomo, anzi come l’idea dell’uomo singolare, concreto, in carne ed ossa, e
pertanto non riducibile – in quanto tale – a costituenti logici che si pongano
come antecedenti e primari rispetto alla sua identità costituita. In altra sede
abbiamo preferito dire che la ‘persona’, in quanto tale, si pone come
numero primo – e pertanto come non divisibile se non per sé stessa e per
l’unità2. Così come, nella stessa sede, ci siamo spinti a sottolineare che la
‘persona’, rispetto all’infinitamente grande e all’infinitamente piccolo di
Pascal, si pone – di fronte a un’opzione teorica che intenda realizzare una
possibile azione di riduzione logica – come una terza forma d’infinito3.
Occorre, a questo punto, a nostro avviso, chiarire, nel discorso sulla
‘persona’, alcuni presupposti precisi, distinguendo al suo interno un livello
epistemologico e un livello assiologico. Solo lungo questo sentiero si
rivela, infatti, possibile ciò che è, al tempo stesso, necessario: ovverossia la
scelta di sdoganare nettamente Mounier da quella sottile retorica, più o
meno inconsapevole e più o meno banalizzante, che, accompagnandone il
pensiero in ogni suo snodo come un occulto cono d’ombra, lo consegna
subliminalmente e di fatto a un puro discorso di edificazione. Una tale
strada ‘edificante’, infatti, sfoca e snatura, a nostro avviso, il senso della
lezione mounieriana. Ciò significa che occorre saper andare, per essere
fedeli a Mounier, con lui oltre di lui, piuttosto che con lui senza di lui. Il
2 Giuseppe Limone, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli, 1997, p. 146. 3 Giuseppe Limone, Dimensioni del simbolo, cit., p. 146.
5
che significa, innanzi tutto, mettere in prima luce, nel pensiero
mounieriano, le aporie che nascono dalle impostazioni radicali e le
impostazioni radicali che nascono dalle aporie. Una tale configurazione
aporetica, infatti, per quanto ardita, non è matrice di blocchi, ma di
pensiero.
Che cos’è la ‘persona’? Va, rispetto a una tale domanda, chiarito
innanzitutto che la ‘persona’ non è una nozione generale di ‘uomo’, perché
la sua proiezione semantica concerne l’uomo concreto, singolare,
irripetibile, indicato tout court nella sua radicale ecceità. E’ certamente
paradossale che io, per indicare una persona concreta che si rifiuta alla
generalizzazione, debba impiegare un termine che appare, al tempo stesso,
come una vera e mera ‘nozione’ generale, ma si tratta, a ben vedere, del
paradosso ineludibile nascente dalla necessità di avere un linguaggio, che è
pur sempre strutturalmente vertebrato da una modalità generale e
impersonale. Il linguaggio è come il corpo e nel corpo si vive l’illusione
teoretica della colomba kantiana: la quale non sa che ciò che fa resistenza,
è anche il sostegno su cui ha consistenza ciò a cui si resiste4. E’, questo, un
punto specifico di cui, come si sa, Emmanuel Mounier era lucidamente
consapevole.
L’individuazione di un tale paradosso preliminare consente, pertanto, di
evitare, in qualche misura, almeno uno dei rischi connessi all’uso delle
parole: quello nascente, ad esempio, dall’ipostatizzazione di una
‘concretezza mal riposta’. Preliminarmente sappiamo, pertanto, che
diciamo ‘persona’, ma intendiamo pur sempre tante – diverse e
reciprocamente non riducibili – ‘persone’. Come uscire dall’impasse?
Un simile approccio ci consente, forse, di capire meglio alcune
indicazioni metodologiche, da Mounier stesso consapevolmente delineate 4 Emmanuel Mounier, Il personalismo, AVE, Roma, 1964, p. 56.
6
nell’attraversamento del concreto. Si tratta di indicazioni che vorremmo
riassumere, qui, facendo riferimento, per adesso, solo a due punti specifici
dell’opera del Nostro:
1. Da un lato, l’osservazione che “non è bene che una riflessione nuova
leghi troppo presto il covone dei suoi problemi”5.
2. Dall’altro lato, l’opzione per la quale “un punto di vista storicamente
situato, incerto sul passato e ignorante dell’avvenire, qual è quello di
qualunque osservatore umano, non potrà mai proporsi come definizione
adeguata della natura dell’uomo. Non si tratterebbe più di un punto di vista
umano, se non si inscrivesse già su un orizzonte di universalità e non
recasse dell’uomo una testimonianza che fa traboccare sino a
quest’orizzonte la propria condizione particolare di testimonianza
individuale”6.
La prima indicazione metodologica concerne, pertanto, la necessità di
muovere dal concreto, lasciando perennemente aperto il lavoro del
concetto. Il che è appunto ciò che vale – ancor più e ancor più radicalmente
(ciò che spesso si dimentica) – per l’avvistamento teorico della ‘persona’.
La seconda indicazione metodologica concerne la necessità di indirizzare
il pensiero – lungo l’itinerario che muove dal concreto – verso
l’enucleazione di un modello che, pur restando alla scala del concreto
stesso, aspiri a una significazione e a una validità universali – seppur
continuando a restare nel concreto in cui è. E’ il modello di pensiero su cui
abbiamo già altrove concentrato l’attenzione e che richiama – pur andando
coscientemente oltre gli stessi limiti in cui fu originariamente espresso – il
kantiano ‘giudizio riflettente’7.
5 Emmanuel Mounier, Il personalismo, AVE, Roma, 1964, p. 11.
6 Emmanuel Mounier, Che cos’è il personalismo, Einaudi, Torino, 1948, p. 44.
7 Giuseppe Limone, Dal giusnaturalismo al giuspersonalismo. Alla frontiera geoculturale della
persona come bene comune, Graf, Napoli, 2005.
7
In un tale orizzonte teoretico, a ben guardare, muovere dall’idea di
‘persona’ significa, in realtà, contrastare epistemologicamente qualsiasi
modello razionale che intenda porsi – lo diciamo con Mounier – come un
mero “distributore automatico di soluzioni e di ordini”8, o come un modello
giuridico-istituzionale consistente in un’ingegneria di ingranaggi9. In
questo senso, la concezione personalista considera radicalmente
provvisorio e insufficiente tutto ciò che esteriorizza, cataloga,
generalizza10
. E ciò fa allo scopo di propiziare teoreticamente il senso di
una ‘realtà personale’ intesa come un emergere dall’interno: come un
possibile ‘risorgere continuo’.
Certo, può specificamente cogliersi come in Mounier siano impostati i
concetti di ‘uguaglianza’ e di ‘giustizia’. Il Nostro, infatti, come si sa, lega
la prima all’idea del vincolo umano che le è essenziale11
e àncora, d’altra
parte, la seconda, nella sua declinazione moderna, a quell’azione di
riconquista perenne contro la natura che ricrea incessantemente
l’ineguaglianza. La giustizia, infatti, “è un regno e un vincolo
(Proudhon)”12
. Non a caso, Mounier stesso citerà, in proposito, G.
Madinier: “L’uguaglianza è ciò che diventa l’esteriorità degl’individui,
quando questi aspirano a formare una comunità morale”13
.
L’‘uguaglianza’ rappresenta perciò, per così dire, l’aspetto esteriore di
quanto il vissuto di comunità sente da dentro. Inoltre, come Mounier stesso
altrove affermerà, l’idea di ‘uguaglianza’, e quindi di ‘giustizia’, deve
8 Emmanuel Mounier, Il personalismo, a cura di Giorgio Campanini e Massimo Pesenti, AVE,
Roma, 2004, p. 28. 9 Emmanuel Mounier, Il personalismo, a cura di Giorgio Campanini, cit., p. 52.
10 Op. cit., p. 55. 11
Emmanuel Mounier, Il personalismo, AVE, Roma, 1964, p. 61. 12
Emmanuel Mounier, Il personalismo, cit., p. 61. 13 Emmanuel Mounier, Il personalismo, cit., p. 61.
8
essere svincolata sia dalla pura connotazione matematica, che guarda in
modo individualistico e astratto – e dall’esterno –, sia dalla pura
connotazione biologica, che guarda, a sua volta, in modo olistico e astratto
– e ancora dall’esterno.
Si tratta di capire quindi, innanzitutto e sempre, la miseria di un
approccio teoretico che intenda, per sua struttura epistemologica, guardare
solo dall’esterno. Emmanuel Mounier terrà, quindi, lungo questa direttrice,
sempre a precisare come – per quanto concerne l’idea di ‘uguaglianza’ e di
‘giustizia’ – vada permanentemente scongiurata la sopravvalutazione della
mera ragione formale e del mero diritto positivo14
.
Si tratta di sottolineare, in realtà, che ogni possibile criterio di ‘giustizia’
e ‘uguaglianza’ non può non girare intorno a un criterio più radicale e
profondo: l’idea di ‘persona’.
3. La ‘persona’
Diceva Norberto Bobbio, cimentandosi con l’idea personalista, che la
persona è l’individuo elevato al grado di valore. Noi diremmo, qui, che una
tale notazione, pur importante, non è sufficiente. Occorre, infatti, a nostro
avviso, prima di delineare la persona nel suo livello assiologico, riuscire a
coglierne i connotati ben prima: sul piano epistemologico.
Potremmo affermare pertanto, in un tale contesto, che la ‘persona’, presa
al suo livello epistemologico, è l’individuo elevato al grado della sua
costitutiva distinzione da ogni altro e, al tempo stesso, al grado della sua
costitutiva apertura. Un’‘apertura’ da intendere, a ben vedere, in almeno
due sensi: come costitutiva apertura nei confronti dell’altro
14 Emmanuel Mounier, Il personalismo, cit., p. 61.
9
(“relazionalità”) e come costitutiva apertura verso un’eccedenza interiore
che non si dà mai come analiticamente totalizzabile (“profondità”).
Vediamo ora, per un primo approccio, alcuni aspetti di queste
fondamentali coordinate:
1. La persona è ciò che non si ripete. Essa è, infatti, ciò che si distingue
da ogni altra. E’ ciò che non è una copia. Perché essa è, per suo costitutivo
statuto epistemologico, un originale. Un novum. La persona è unicità.
Possiamo, certo, avere un bel dire nel dire che abbiamo ben compreso
questo punto teoretico, ma crediamo importante sottolineare come molto
spesso un’invisibile Fata morgana mentale s’interponga fra ciò che
pensiamo e ciò che crediamo di pensare. La nostra testimonianza di verità,
di noi stessi agli altri e a noi stessi, si rivela, a ben guardare, sincera, ma
falsa. Per far emergere bene questo specifico punto, si veda ciò che
Emmanuel Mounier scrive adducendo l’esempio di Bernard Chartier15
.
“Ecco il mio vicino: egli ha del proprio corpo un sentimento singolare
che non posso provare. Posso però esaminare questo corpo dall’esterno:
osservarne gli umori, le eredità, la forma, le malattie; trattarlo, in breve,
come materia del sapere fisiologico, medico, ecc. Quest’uomo è un
funzionario: ci sono delle norme per i funzionari, una psicologia del
funzionario che io posso studiare sul suo caso, quantunque tutte queste cose
non siano lui nella sua interezza e nella sua realtà comprensiva. E, allo
stesso modo, egli è anche un francese, un borghese, oppure un maniaco, un
socialista, un cattolico, ecc… Ma egli non sarà mai un Bernard Chartier:
egli è Bernard Chartier. Come un esemplare di una classe posso definirlo in
mille diversi modi, che mi aiuteranno a comprenderlo e, soprattutto, a
utilizzarlo, a sapere come comportarmi praticamente con lui; ma tutte
queste non sono che sagome ritagliate di volta in volta su un aspetto della 15
Emmanuel Mounier, Il personalismo, cit., p. 11 ss.
10
sua esistenza. Mille fotografie ben accastellate non possono fare un uomo
che cammina, pensa e vuole”16
. Il che, d’altra parte, non significa che tener
conto delle più minute diversità basti ad avvicinarsi di più alla sua persona.
Infatti, come Mounier immediatamente precisa: “E’ un errore credere che il
personalismo si limiti a pretendere che si tenga conto delle più minute
diversità degli uomini anziché trattarli come oggetti in serie. Il “migliore
dei mondi possibili” di Huxley è un mondo in cui intere legioni di medici e
di psicologi si adoperano a condizionare ciascun individuo secondo norme
minuziose. E, poiché lo fanno dal di fuori e d’autorità riducendoli tutti a
pure e semplici macchine ben congegnate e conservate, questo mondo
superindividualizzato è, nonostante tutto, l’opposto di un universo
personale, perché in esso tutto si cataloga, nulla si crea: svanisce
l’avventura di ogni libertà responsabile. L’umanità diventa un immenso e
perfetto magazzino di fantocci”17
. In altri termini detto: non si parla
veramente di questa ‘unicità’ inclassificabile, se non la si coglie, al tempo
stesso, a partire dalla sua profonda – non catalogabile, non riducibile alla
categorizzazione esterna – sorgività attiva.
Se parlo, quindi, di Bernard Chartier come persona, non parlo mai
dell’incrocio delle molteplici caratteristiche che in lui s’incontrano. E ciò
semplicemente perché egli, come persona, non sarà mai riducibile
all’insieme delle sue caratteristiche, fossero anche infinite. Se l’uomo
concreto non è visto nella sua radicale distinzione da ogni altro, egli non è
percepito come ‘persona’: perché egli viene di fatto ridotto a una copia
seriale, a un fantoccio, a un qualsiasi pupazzo collocato in un magazzino18
.
Percepire Bernard Chartier come persona, invece, significa guardarlo
nella sua – reale e mentale – non riducibilità a uno schema di costituenti 16
Emmanuel Mounier, Il personalismo, AVE, Roma, 1964, p. 12. 17 Emmanuel Mounier, Il personalismo, cit., p. 12. 18
Emmanuel Mounier, cit., p. 62.
11
logici, biologici, sociali, storici. I quali, incrociati, non potrebbero generare
che copie. Di tutto ciò è illuminante indizio teorico il rapporto concettuale
istituibile fra ‘persona’ e ‘individuo’. Là dove, a ben vedere, l’‘individuo’,
pur significando certamente una realtà individuale, la índica, in realtà,
secondo una configurazione di senso radicalmente diversa da quella con cui
s’intende la persona. Chi dice ‘individuo’, infatti, índica lo stesso
significato (l’uomo concreto), ma secondo altro senso: índica, infatti, una
realtà individuale concepita a prescindere da ciò che la distingue da ogni
altra: a prescindere, quindi, da quanto potrebbe impedire di pensarla come
mera variante accidentale all’interno di un genus.
Nella percezione epistemologica dell’ ‘individuo’, a ben guardare, la
differenza dall’altro ‘individuo’, pur presente, possiede un valore
accidentale. Proprio là dove, invece, per quanto concerne la ‘persona’,
quella distinzione è a fondamento del suo senso.
2. La persona è relazione. Non nel senso che essa ‘ha’ relazioni, ma
nello specifico senso che essa ‘è’ relazione. L’uomo concreto è,
costitutivamente, relazione. Il che significa che nell’altro ne va di me.
Esattamente come, per costitutiva reciprocità, in me ne va dell’altro. Ne è
una possibile illuminazione teorica, per contrasto, la diversa idea di un
uomo concepito come ‘atomo’ irrelato, ossia come realtà precedente la
relazione, a prescindere dalle relazioni in cui esiste, dai gruppi cui
appartiene, dalla cultura in cui vive, dal tempo in cui è incardinata.
3. La persona è profondità. Essa è, in quanto tale, apertura – costitutiva
apertura – verso un ‘fondo’, verso un ‘indeterminato’, verso un ‘possibile’
che eccede, per proprio statuto, tutte le determinazioni concettuali e tutti i
determinismi logici e fisici: i quali, a ben vedere, possono non rivelarsi
altro che precipitati di un pensare autopretendentesi esaustivo. Si tratta di
un ‘possibile’ che, quindi, si sottrae, per sua costituzione specifica, a ogni
12
sguardo epistemologico che pretenda di decretarne l’esaurimento
concettuale. Si tratta, a ben guardare, di una ‘profondità’ che può essere
vista sia ex ante, sia ex post. Ex ante come libertà. Ex post come resistenza
alla totalizzazione concettuale. In ogni uomo possono darsi, infatti, tanti
percorsi possibili – tanti ‘io’ possibili – su cui non c’è possibile sguardo
esaustivo. Di tutto ciò è illuminante indizio teorico il rapporto ‘persona-
personalità’19
. Mentre ne è un preciso segnale – ontologico, ben prima che
psicologico – il ‘pudore’20
.
Dell’intera impostazione concettuale consegnata nelle tre coordinate
indicate (‘unicità’, ‘relazionalità’, ‘profondità’) è, a ben vedere, un preciso
e possibile indizio teorico la configurazione del rapporto ‘io-tu-egli’.
Trattare, infatti, un uomo come un ‘egli’ è proprio un trattarlo a prescindere
dall’unicità, dalla relazione e dalla profondità. Ciò significa trattarlo come
un assente. E un uomo, in quanto persona, non può essere guardato, né
trattato, come un assente.
Non a caso, quindi, Mounier dirà che la persona è l’intero volume
dell’uomo, di cui individuerà, fin dall’inizio del suo itinerario teorico,
specifiche coordinate nella vocazione, nell’incarnazione e nella
comunicazione.
4. Un percorso per approssimazioni
Unicità, relazionalità, profondità, quindi. Proviamo ora a vedere un tale
articolato concettuale a un approccio ulteriore.
A una prima approssimazione, si tratta di prendere sul serio
contemporaneamente le tre coordinate, guardandole nella loro costitutiva
indivisibilità, pena il loro simultaneo snaturamento. 19
Sul punto vedi Giuseppe Limone, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli, 1997, p.
169 ss. 20
Sul punto del ‘pudore’ nel personalismo munieriano vedi oltre.
13
Il che significa poter far emergere un connotato essenziale: il fatto che
esse, nel loro congiunto voler-dire l’idea dell’uomo concreto, a ben vedere,
più che indicare ciò che l’uomo è, delineano invece ciò che egli non è.
Aprendo - attraverso negazioni – lo sfondo al cui interno ciò che egli è
possa, per sua specifica forza, in una certa misura, apparire. Un tale
congiunto operare delle coordinate genera una precisa apertura
epistemologica, ben collocata in un’‘ontologia del singolare’. ‘Apertura’ in
più sensi:
1. Apertura a un universo altro di cui si manca e a cui si chiede,
costitutivamente, apertura (‘unicità’).
2. Apertura a un’alterità da cui si è, intanto, costitutivamente abitati
(‘relazionalità’).
3. Apertura a un ‘fondo’ che sempre resiste a ogni possibile
totalizzazione concettuale (‘profondità’). L’uomo concreto, infatti, come
Mounier espressamente dice, non è ‘qualcosa che si trova al fondo di
un’analisi’.
4. Apertura al bisogno costitutivo di senso, che eccede ogni possibile
‘fine’ utilitariamente concettualizzato.
5. Apertura alla possibile inferenza epistemologica che da un
concretissimo – e restando nel concretissimo stesso – muova verso
l’enucleazione di un modello universale (“giudizio riflettente”).
Si tratta, in realtà, di un’opzione epistemologica – dell’opzione per
un’idea di uomo – dotata di un senso a più bersagli. Che si dichiara, infatti,
al tempo stesso, contro l’atomizzazione, contro la seriazione e contro la
totalizzazione. In ogni caso esprimendo, per un illuminante paradosso,
coordinate che índicano nell’uomo, nell’attimo stesso in cui ne individuano
la ricchezza, la costitutiva difettività.
A una seconda approssimazione, si tratta di cogliere tre aspetti:
14
1. L’unicità come la non riducibilità della ‘persona’ alle sue componenti
logiche e/o biologiche e/o sociali, ossia come la sua non riducibilità a una
componentistica di parti prime configurate come più radicali e originarie
(altrimenti, la ‘persona’ surrettiziamente si convertirebbe, dalla condizione
di ciò che non si ripete, all’identità-copia di ciò-che-sempre-si-ripete). E,
d’altra parte, una tale ‘unicità’ – che è anche la sua costitutiva ‘novità’ –
non dovrà mai essere confusa con una ‘diversità’ passiva e catalogabile,
osservata dall’esterno: altrimenti, essa diverrebbe, come già dicevamo,
un’identità propria del ‘mondo nuovo’ di Huxley21
, là dove ogni
trattamento si adatta a ciascuno secondo norme minuziose, ma proprio nel
momento in cui radicalmente si perde il senso di quel centro sorgivo di vita
che è costitutivo della ‘novità’ della ‘persona’ e che la salva
dall’annegamento in un ‘immenso magazzino di fantocci’22
. In realtà, a ben
vedere, in una tale idea positivizzata dell’uomo si perde di lui una
coordinata essenziale: perché si perde l’uomo concreto come giacimento di
possibilità.
2. La relazionalità come la non riducibilità della persona a una isolata
unicità e la contestuale sua non riducibilità a un incrocio di appartenenze.
3. La profondità come la non riducibilità della persona alle sue
manifestazioni e la contestuale sua non riducibilità a un mero ‘residuo
interno’23
o a un mero varco residuale ottenuto in elemosina dalla rete dei
determinismi naturali24
.
La ‘profondità’, quindi, nel suo significato cruciale, nega che l’uomo
concreto possa essere riducibile all’insieme delle sue immagini – e pertanto
21
Emmanuel Mounier, Il personalismo, AVE, Roma, 2004, p. 29. 22
Op. cit., p. 29. 23 Emmanuel Mounier, Il personalismo, AVE, Roma, 2004, p. 30. 24
Op. cit., p. 94.
15
recisamente significa che mai nessuna sua ‘storia’ potrà costituire la sua
immagine esaustiva.
Si dà, a ben vedere, in una tale profondità, un’eccedenza radicale. E
potremmo forse, qui, a mero scopo esemplificativo, istruttivamente
richiamarci a quel modello televisivo – quasi cult del nostro tempo –
chiamato ‘grande fratello’, là dove subliminalmente sembra
contrabbandarsi l’idea che, se una cosa sta permanentemente sotto i nostri
occhi, ventiquattr’ore su ventiquattro a noi esposta, noi la ‘conosciamo’.
Noi tutti, così, siamo invitati a ‘conoscere’, celebrando un’alleanza
mediatica fra esibizionismo e voyeurismo: là dove, forse, assistiamo
soltanto al frutto più clamoroso e innocente di un tempo nel quale il
nichilismo contemporaneo celebra sé stesso, ritualizzando la sua perdita di
pudore. Noi infatti, vedendo ventiquattr’ore su ventiquattro qualcuno,
siamo indotti a pensare che ‘conosciamo’. Laddove è vero soltanto che,
incarcerati in una gabbia virtuale come vedenti insieme coi visti, stiamo
conoscendo null’altro che il ‘visibile’ – e ciò che decide di rendersi tale. E
lo conosciamo all’interno di un paradigma della visibilità espresso da un
un mondo ‘osceno’ in cui tutto l’esistere – come dal noto etimo
dell’‘osceno’– consiste nel puro ‘stare sulla scena’.
Se l’‘unicità’ è la sua non riducibilità alle componenti logiche, biologiche
e sociali, la ‘profondità’ è, a ben guardare, la sua non riducibilità alle pure
componenti storificate. La ‘persona’ è, in questo senso, più della sua storia.
Essa è quanto è nascosto, in qualche misura, anche a sé stessa: groviglio
labirintico di intrecci fra contesti, talenti, disposizioni, percorsi possibili,
sentieri perduti; eccedenza radicale rispetto alle infinite combinatorie degli
sguardi; giacimento di possibilità che non riuscirono a venire alla luce;
profondità resistente a ogni sguardo, perché consistente in più di quel che
appare. Quindi, pudore.
16
In realtà, in un tale approccio, si nega – della persona – sia l’essere mera
combinatoria di parti logiche, sia l’essere mera combinatoria di parti bio-
psicologiche, sia l’essere mera combinatoria di appartenenze sociali, sia –
infine – l’essere mera combinatoria di manifestazioni storiche. La persona
non è somma. Non solo il biologismo e il sociologismo, ma anche lo
storicismo è, in un tale orizzonte, negato. La persona concreta si rivela,
quindi, a questo punto, anche a una seconda potenza, ‘unicità’ che,
eccedendo ogni percezione componentistica, pur mantiene – anche a questa
seconda potenza – il suo legame intrinseco con ‘relazionalità’ e
‘profondità’. Anzi, a questo secondo livello di analisi, ‘unicità’,
‘relazionalità’ e ‘profondità’ si rivelano coordinate di un unico volume
ontologico, di un unico mondo vissuto: l’uomo concreto, còlto nel suo
essere luogo di tangenza fra il suo essere ciò che è e il suo essere degno di
una considerazione che, non prescindendo da nulla di lui, lo colga nella sua
concreta universalità.
Un tale rilievo rende possibile, quindi, a una terza approssimazione, una
riflessione speciale. Come avevamo già premesso, si tratta, qui, di
affrontare il livello epistemologico dell’uomo concreto, ben prima del
livello assiologico (pur sapendo, d’altra parte, che esiste sempre nel
momento epistemologico – fin dallo stato nascente del momento
epistemologico – un’intrascendibile opzione valutativa: il che non cambia
le questioni, ma semplicemente le reduplica a un livello ulteriore).
Ma, a questo punto, a nostro avviso, una precisazione è d’obbligo. Si
tratta di sottolineare, infatti, che un tale approccio epistemologico al
‘singolare’ individua un preciso momento in cui si assume – ben prima che
la dignità in senso assiologico – un’altra ‘dignità’: la dignità
epistemologica. Vale a dire, quella ‘dignità’ per la quale il ‘singolare’ –
ancor prima della valutazione che possa darsene in senso assiologico – è
17
degno di una considerazione conoscitiva che non lo riduca a componenti
che lo precedano. Ciò, in una prospettiva epistemica in cui si assuma che
quel ‘singolare’ vada conosciuto nella sua irriducibilità, ossia nella sua
primarietà: nella sua ‘principialità’. A ben osservare, qui, la ‘dignità
epistemologica’ del ‘singolare’ costituisce la differenza specifica rispetto a
quell’‘individuo’ che, pur sembrando semanticamente, identico alla
‘persona’, si rivela, invece, ben diverso nella sua configurazione di senso.
La ‘dignità epistemologica’, pertanto, è concettualmente indipendente
dalla ‘dignità assiologica’ – ed eventualmente la precede, se e in quanto
questa seconda – la dignità assiologica – risulti anch’essa specificamente
affermata.
Movendoci a una quarta approssimazione, vorremmo qui ricordare che
la serrata analisi con cui Paul Ricoeur ha condotto un’esplorazione
sull’uomo, inscrivendolo in due diverse coordinate dello ‘stesso’ (l’‘ipse’ e
l’‘idem’), pur essendo teoreticamente meritoria, manca di un’analitica che,
nell’orizzonte della ‘persona’, sarebbe invece, a nostro avviso, più che mai
essenziale. Intendiamo parlare, qui, di un’analitica del novum, ossia di
un’esplorazione specifica che legga e sappia leggere l’individuo umano non
solo secondo il quesito del ‘che cosa’ permanga in lui e del ‘come’
concepire un tale ‘che cosa’, ma anche secondo il quesito su ‘che cosa’ e su
‘come’ si dia quel ‘quid’ che è la novità di ogni individuo rispetto a ogni
possibile altro. Il fatto che Ricoeur graviti teoreticamente nell’àmbito del
primo orizzonte problematico (l’‘ipse’ e l’‘idem)’, gli consente certamente
di possedere alcune chiavi strategiche con cui rispondere all’altezza dei
problemi posti da Parfit, ma rivela anche, a nostro avviso,
indipendentemente da ogni sua intenzione consapevole, quanto si sia oggi,
nello Zeitgeist contemporaneo, più sensibili al problema della
‘frammentazione’ e della ‘conservazione’ della soggettività che a quello
18
della novità che ogni individuo umano costituisce nella vicenda dell’esserci
e del cosmo25
.
In un orizzonte teoretico che manca di un’adeguata intuizione del nuovo
e dell’analitica che le compete, l’esplorazione teoretica della persona pone,
pertanto, a nostro avviso, alcune domande cruciali, degne dell’avvenire.
A una quinta approssimazione, possiamo vedere come un’utile
provocazione possa venire dallo stesso Ricoeur. Il quale, come è noto, ha
inteso, con la sua analisi del ‘ciascuno’, individuare un preciso limite del
personalismo nella sua incapacità di indagare strutturalmente sulla
‘giustizia’: che è – appunto – il problema del ‘ciascuno’. Il quale, in quanto
tale, non può ricondursi alle mere coordinate del rapporto ‘faccia a faccia’.
A ben vedere, però, se si svolge un’analisi puntuale dei testi mounieriani,
non è affatto vero che il personalismo di Mounier si riduca all’orizzonte del
rapporto ‘faccia a faccia’. Anzi, possiamo affermare con forza che esiste
specificamente in Mounier un’esplicita critica di ogni orizzonte teoretico
che intenda ridursi a una simile scala26
. La critica mounieriana a ogni
‘mistica del piccolo’ che ignori la scala più alta del passo cui l’uomo deve
commisurarsi27
, la critica mounieriana a ogni ‘moralismo’ e alla sua
costitutiva disattenzione per il ruolo strategico delle strutture, la
sottolineatura forte dell’importanza dell’azione politica, del Diritto e dei
Diritti fondamentali sono tutti momenti decisivi di un pensiero che non
intende farsi catturare sul puro piano del rapporto ‘io-tu’28
. Si tratta, qui, di
fattori speculativi precisi che, consapevolmente operando nell’opera del
25 Su questo problea dell’idem vedi anche Remo Bodei, Destini personali. L’età della
colonizzazione delle coscienze, Feltrinelli, Milano, 2003. 26
Emmanuel Mounier, Il personalismo, AVE, Roma, 1964. 27 Emmanuel Mounier, Il personalismo, AVE, Roma, 2004, p. 65. 28
Su questi punti ci permettiamo rinviare ai due nostri volumi su Emmanuel Mounier: Tempo
della persona e sapienza del possibile. Valori, politica e diritto in Emmanuel Mounier, t. I, ESI,
Napoli, 1988; Tempo della persona e sapienza del possibile. Per una teoretica, una critica e
una metaforica del personalismo, t. II, ESI, Napoli, 1991.
19
Nostro, concorrono a delineare l’esigenza indefettibile di un’attuazione
strutturale dei significati del valore29
. Potrà dirsi, certo, che in Mounier una
simile strada doveva essere ulteriormente proseguita e articolata: ma è,
questa, altra questione, che riguarda soltanto il carattere incompiuto
dell’opera mounieriana – interrotta all’età di appena 45 anni – e non
certamente le sue intenzioni speculative manifestate.
Come connettere, quindi, il percorso del ‘singolo’ e del ‘ciascuno’? A
ben guardare, nelle coordinate teoretiche del pensiero di Emmanuel
Mounier intorno all’uomo concreto, emergono tre precisi livelli: 1. il livello
dell’uomo singolare, epistemologicamente irriducibile, in carne ed ossa; 2.
il livello dell’uomo possibile; 3. il livello dell’uomo ideale. Ed è su questi
tre livelli che bisogna saper misurare distinzioni e connessioni.
5. La giustizia come problema
Come è noto e come dicevamo, Mounier si oppone sia a una visione
‘matematica’, sia a una visione ‘biologistica’ della giustizia. E, a ben
vedere, l’impostazione si chiarisce, fondamentalmente, a partire dalle stesse
coordinate epistemologiche in cui emerge la ‘persona’. Se la giustizia è per
la persona, è nella persona, infatti, la chiave di volta per approssimare il
problema della giustizia30
.
Possiamo dire, pertanto, che è nonostante ciò – e anzi proprio per ciò –
che la giustizia rivela una struttura paradossalmente aporetica. In cui si
gioca, in realtà, il rapporto fra il ‘singolo’ e il ‘ciascuno’.
29
Su questi punti, ci pemettiamo rinviare specificamente a: Giuseppe Limone, Tempo della
persona e sapienza del possibile. Valori, politica, diritto in Emmanuel Mounier, tomo I, ESI,
Napoli, 1988; Giuseppe Limone, Tempo della persona e sapienza del possibile. Per una
teoretica, una critica e una metaforica del personalismo, tomo II, ESI, Napoli, 1990. 30 Sulla questione vedi il mio Giuseppe Limone, Tempo della persona e sapienza del possibile.
Per una teoretica, una critica e una metaforica del personalismo, tomo II, cit.
20
A ben vedere, infatti, il problema della giustizia implica il problema della
ragione. E, d’altra parte, il problema della ragione implica, a sua volta, un
preciso e complesso rapporto con la persona, guardata sia al suo livello
epistemologico, sia al suo livello assiologico.
In Mounier sono precisamente individuati, come è noto, alcuni
movimenti fondamentali, che fanno il quid proprium della persona dal
punto di vista assiologico31
. Ma non va dimenticato, d’altra parte, che, nel
momento in cui un tale quid proprium è posto, esso va a costituire quella
‘dignità’ in senso assiologico che è pur sempre preceduta dalla ‘dignità
epistemologica’ di cui dicevamo.
Si tratta di comprendere, in realtà, l’ontologia di una ‘singolarità aperta’,
in cui, da un lato, si guarda all’individuo in quanto còlto nella sua
distinzione da ogni altro e, dall’altro, si guarda alla sua costitutiva
apertura, da intendere sia in senso epistemologico sia in senso assiologico:
ricordando, d’altra parte, che la ‘dignità epistemologica’ precede la ‘dignità
assiologica’, perché, nel complessivo orizzonte personalista, è la prima a
costituire, in realtà, la condizione essenziale per la comprensione della
seconda.
Se è vero, infatti, come è vero, che Mounier afferma essere il capitalismo
un ‘disordine stabilito’, noi potremmo qui, impiegando la sua medesima
logica, dire, più radicalmente, che nella concezione mounieriana è lo stesso
concetto epistemologico di ‘individuo’ a essere disordine
epistemologicamente stabilito: perché una tale idea di ‘uomo’ e il modello
complessivo di pensiero da essa sotteso contrastano con ciò che l’uomo è
ancor prima di contrastare con ciò che l’uomo deve essere. Non è
possibile, qui, analizzare in dettaglio una tale impostazione, ma è
certamente possibile sottolineare quanto oggi la visione del grande 31
Vedi Emmanuel Mounier, Il personalismo, AVE, Roma, 1964, p. 50 ss.
21
economista Amartya Sen, premio Nobel dell’economia, abbia criticamente
riflettuto sulle premesse epistemologiche di una scienza economica centrata
intorno ai concetti di ‘homo oeconomicus’, di ‘razionalità economica’ e di
‘utile’ – ossia intorno a un’idea di uomo guardato nella sua strutturale
separazione dagli altri e nella sua epistemologica separazione da quell’idea
aristotelica di eudaimonía che è la possibilità del proprio autosviluppo
integrale: complesso di separazioni che delineano, a ben vedere, per altro
verso, l’insieme di quelle negazioni essenziali in cui consiste l’‘individuo’.
6. Stato, Ragione, Giustizia
E’ in un tale contesto teoretico che può cogliersi, a ben guardare, il
problema della ragione, dello Stato e del diritto. Mounier, infatti, dice
espressamente che lo Stato deve essere decentrato fino alla persona. Se
teniamo insieme, strettamente collegati, i due livelli della persona di cui
dicevamo (epistemologico e assiologico), noi possiamo, forse, essere ora in
grado di comprendere come, per la concezione mounieriana, uno Stato – in
quanto cristallizzazione del diritto, che costituisce a sua volta
cristallizzazione di una ragione – non solo deve essere mezzo e non fine
(“lo Stato è per l’uomo e non l’uomo per lo Stato”), ma deve
specificamente strutturarsi intorno ai valori fondamentali dei singoli
guardati nella loro novità, relazionalità, profondità. Si tratta, qui, in realtà,
delle persone pensate come fini – e non solo nella loro unicità irrelata, ma
nel plesso delle loro relazioni e nella loro irriducibile profondità.
Si coglie qui il delinearsi di quella struttura concettuale a cui oggi si
tende a dare il nome di ‘sussidiarietà’. Una struttura in cui, da un lato, la
‘sussidiarietà verticale’ è subordinata alla ‘sussidiarietà orizzontale’ e in
cui, dall’altro, la stessa ‘sussidiarietà orizzontale’ deve – qui – esser
concepita a partire dal suo ruotare intorno a valori personali (id est:
22
individuali) mai violabili. Non a caso, il pensiero mounieriano, in
proposito, attribuisce centrale importanza ai Diritti fondamentali. I quali,
mentre sono individuali, sono al tempo stesso relativi ai valori costitutivi
dell’individuo stesso come tale, còlto nei significati cruciali di cui
specificamente dicevamo (‘unicità’, ‘relazionalità’, ‘profondità’).
Ma è esattamente in questo specifico snodo che s’incrociano, da un lato,
la necessità strutturale di quelle generalità logiche, istituzionali e
giuridiche che sono lo Stato e il Diritto e, dall’altro, la necessità etica di
quell’ontologia del singolare che è la persona.
Il che significa che lo Stato, in quanto cristallizzazione del diritto e della
ragione, nel suo dover decentrarsi fino alla persona, deve riuscire a
decentrarsi non solo come Stato ma come Ragione. Ciò significa che è la
stessa ‘Giustizia’, in quanto Ragione, a doversi decentrare secondo
l’ontologia della persona.
E’ percezione acutissima di Emmanuel Mounier, infatti, la
consapevolezza di quell’alfabeto essenziale di giustizia che sono i diritti
fondamentali: i quali, sottolinea non a caso Mounier, “garantiscono
l’esistenza personale: integrità della persona nel fisico e nel morale, contro
le violenze sistematiche, i trattamenti degradanti, le mutilazioni fisiche e
mentali, le suggestioni e le propagande di massa; libertà di movimento, di
parola, di scritti, d’associazione, d’educazione, inviolabilità della vita
privata e del domicilio, habeas corpus; presunzione d’innocenza fino alla
prova della colpevolezza; protezione del lavoro, della salute, della razza,
del sesso, della debolezza, dell’isolamento”32
.
Ma è possibile, forse, a questo punto, compiere, nella riflessione, un
ulteriore passo. Se infatti in uno Stato che si decentra fino alla persona noi
possiamo cogliere il movimento strategico della sussidiarietà orizzontale, è 32
Emmanuel Mounier Il personalismo, cit., pp. 85-86.
23
al tempo stesso vero che, a una seconda potenza, in una Ragione che allo
stesso modo si decentri noi possiamo cogliere che esiste una sussidiarietà
più radicale e profonda, per la quale è la stessa ‘Giustizia’ a dover
configurarsi secondo il modello sussidiario: secondo il modello, cioè, di
una sussidiarietà che si articoli in base all’ontologia epistemologico-
assiologica della singolarità.
Ciò comporta, e non può non comportare, una struttura perennemente
aporetica della Giustizia. Perché essa, da una parte, intende essere
l’attribuzione del ‘proprio’ secondo il criterio del valore e, dall’altro, è
permanentemente rimessa in discussione da un valore che ha il suo
radicamento ultimativo nella novità, relazionalità e profondità di una
‘singolarità’ che mai può darsi come definitivamente concettualizzata e
oggettivata.
Si dà, in questo orizzonte, il problema delicato e perenne del rapporto fra
l’ontologia del singolo nel suo ‘novum’ e la strutturale necessità del
‘ciascuno’ nel suo ‘certum’.
Abbiamo già sottolineato come non sia vero che nel personalismo
mounieriano – come invece sembra far pensare Ricoeur – non sia
adeguatamente presente il problema strutturale del ‘ciascuno’. In Mounier
il problema strutturale è, invece, ben presente, anche se certamente la sua
linea di ricerca aspettava di poter essere ulteriormente sviluppata.
Se è certamente vero, infatti, che – come sopra dicevamo – guardare un
uomo come un ‘egli’ è un prescindere dalla sua unicità, dalla sua
relazionalità e dalla sua profondità, è anche e altrettanto vero che, alla scala
delle grandi organizzazioni umane, non può non pensarsi il ‘ciascuno’.
Mounier ha sempre saputo, come sottolineavamo, che il personalismo non
può ridursi alla mistica del ‘piccolo’ e del rapporto ‘faccia a faccia’, perché
questa pur corretta direttrice deve poter agire, nelle necessarie forme
24
mutate, a tutte le scale del percorso. E il ‘ciascuno’ è appunto, a ben
vedere, il luogo teorico in cui non l’‘egli’ ma il ‘tu’ deve essere
adeguatamente trasvalutato per essere puntualmente adeguato alla sua
forza e alla sua capacità di esprimere forza (di ‘valere’).
Il problema aporetico radicale – quindi – sta nel preciso quesito su come
possa e debba essere pensato il ‘ciascuno’. E su come possa e debba essere
pensato il ‘comune’.
Abbiamo già introdotto, nelle pagine precedenti e in altra sede, il
problema del giudizio riflettente. Ossia il problema di quel giudizio inteso
come capace di cogliere nel singolare – e restando alla sua scala – quel
modello che abbia dignità – sia sul piano epistemologico sia sul piano
valoriale – per essere assunto su scala universale.
In questo senso, il giudizio riflettente, come nel caso dell’opera d’arte, si
apre alla possibile configurazione di un universale mai chiuso. E, come
altrove dicevamo, “l’impiego del ‘giudizio riflettente’ nel percorso
ricostruttivo di un universale non chiuso [e mai chiuso] non è, a ben vedere,
teoreticamente indolore. […] Se ben osserviamo, attraverso un giudizio
riflettente che parta dalla concretezza di ogni uomo concreto, distinto da
ogni altro, per trarne contenuti degni di un rispetto universale, si sviluppa
una vera rivoluzione nel concetto di ‘bene comune’. Non solo in senso
etico, ma in senso epistemologico. Perché si postula che anche ciò che sia
singolarissimo, proprio di una persona, sia però, in quanto degno di una
considerazione universale, al tempo stesso ‘bene comune’ – donde
l’imperativo che nessuna maggioranza, per quanto ampia, possa lederne la
consistenza. […] L’umanità inscritta nella propria singolare concretezza è
la ‘persona’. Essa è l’uomo singolare concreto, non l’essere umano in
generale. […] In questa persona si coglie radicata un’idea – al grado
singolare – con valenza universale. Che è ‘luogo’ di un ‘logo’ per un ‘dia-
25
logo’. […] Questa ‘persona’ è, in quanto tale, ‘bene comune’. Nel senso
che è ‘bene comune a declinazione singolare’ e ‘singolarità al grado del
bene comune’”33
. Siamo, qui, forse, alla frontiera di un nuovo possibile
modo di intendere l’universale concreto. Perché ogni persona è un
universale concreto.
Posto che ci sia un rapporto permanente fra la giustizia come valore
universale e la persona come ontologia del singolare – e posto, come
Mounier pone, che ogni valore si dà sempre e necessariamente come
mediazione concettuale incarnata (e provvisoria) del valore34
-, tutto ciò
significa che viene a configurarsi, qui, al tempo stesso, un conflitto
permanente fra la giustizia come valore universale e la persona come
ontologia assiologica del singolare. Ciò non significa, però, che si debba
pregiudizialmente rinunciare ad avere un ordine razionale concettualmente
e linguisticamente sancito di ‘Giustizia’ con intenzioni universali, ma
significa, invece, che una qualsiasi ‘Giustizia’ come ordine razionale
concettualmente e linguisticamente sancito deve perennemente esporsi al
controllo falsificante dell’ontologia assiologica del singolare – di ogni
singolare – assunto nella sua costitutiva novità. Perché è proprio
l’universale concreto inscritto in questa ontologia del singolare a potere, in
qualsiasi momento, demistificare quella ‘Giustizia’ mostrandola come mera
(e deficitaria, se non fallimentare) mediazione concettuale e linguistica,
storicamente determinata, del Valore.
La struttura aporetica che ne emerge è – qui – radicale. Ciò non impedirà,
certo, che si possano costituire sedimentazioni concettuali per la messa in
33 Giuseppe Limone, Dal giusnaturalismo al giuspersonalismo. Alla frontiera geoculturale della
persona come bene comune, Graf, Napoli, pp. 77-79. Si veda sul punto anche la nostra
discussione su quel preteso ‘comune’ che è il ‘corpo’ in opposizione a quel preteso ‘non
comune’ che sarebbe il ‘personale’ (op. cit., p. 125). 34
Vedi Giuseppe Limone, Tempo della persona e sapienza del possibile, tomo I, cit.
26
opera della ‘Giustizia’, ma impedirà senza dubbio che una qualsiasi
sedimentazione possa porsi come chiusa e definitiva e, soprattutto,
impedirà che essa possa affermare una sua ultimativa maiestas imperniata
su un mero rapporto ‘universale-individuale’ in cui il secondo termine
soccomba. Insieme con l’universalità nell’individuale, c’è infatti – sempre
e indefettibilmente – una universalità dell’individuale. Anzi, l’universalità
dell’individuale, ove sia tale, può aver valore di decisivo controllo
falsificante nei confronti di ogni ‘universalità’ che si definisca e chiuda
troppo presto.
Una tale impostazione concettuale, se conosce un proprio radicale
svantaggio epistemologico in termini di determinazione concettuale,
possiede però un suo preciso vantaggio teoretico, perché esorcizza, sul
nascere e per sempre, il pericolo di una giustizia che si autodefinisca e si
autoconfermi per quadratura analitica interna fra un concetto di ‘ragione’ e
un concetto di ‘uomo’ teoreticamente precostruiti e predecisi come coerenti
fra loro.
Da un simile – e forse spaesante – articolato concettuale, in cui l’idea di
una sussidiarietà più radicale e fondante retroagisce sulla stessa idea della
giustizia, possono emergere, a ben vedere, due precisi livelli in una
giustizia, per così dire, sussidiariamente concepita e strutturata.
Il primo livello guarderà alla persona come al novum da raggiungere – da
solo e nel suo contesto relazionale – in quanto preciso e fondamentale
destinatario di ‘rispetto’ e di ‘cura’.
Il secondo livello guarderà alla persona come al novum da promuovere –
da solo e nel suo contesto relazionale – nella possibile maturazione delle
proprie, anche nascoste e insondate, risorse.
27
‘Tu hai il diritto di esistere oggi qui’, dice un famoso documento trovato
in una Chiesa di Baltimora. Si tratta, in un’idea di giustizia
personalisticamente fondata, di costruire le condizioni strutturali perché la
persona, in quanto atto di esistere nuovo, relazionato e profondo possa
esprimersi fino a far traboccare al livello dell’universale la decisività del
suo valore. E’ il cammino interminabile di quel preciso lavoro che è, più
che la fatica del concetto, la fatica del ‘giudizio riflettente’.
In questo senso, nessuna ‘giustizia’ potrà essere sovrapponibile mai a una
‘democrazia del numero’, perché l’arbitrio del numero non è in nulla
diverso dall’arbitrio della forza. La ‘giustizia’, pertanto, vivrà la radicale
aporia dell’essere sottoposta alla possibile falsificazione permanente
proveniente dall’ontologia personale – da ogni ontologia personale.
7. Per un’idea radicale di uomo. Fra pudore e speranza
Si tratta, in realtà, nel confrontarsi con l’idea dell’uomo custodita nella
parola ‘persona’, di resistere al fascino nascosto nelle parole d’ordine
troppo frettolosamente abbracciate. Si tratta di resistere, infatti, al fascino
del dire ‘uguaglianza’, del dire ‘trasparenza’, del dire ‘natura come
sviluppo’ o ‘storia come natura’o ‘natura come storia’. Si tratta di saper
resistere al fascino di un mondo parametrato solo sulle infinite differenze
esteriori e mai sulle promozioni di possibilità. Si tratta di comprendere altre
forme, forse inconsuete, di valore: il diritto alla solitudine,
all’imperfezione, alla differenza, all’apertura, al caso, alla fragilità.
E’ noto quanto sia stato, in Mounier, radicato il problema del pudore. Si
tratta di un nuovo significato e di una lunga storia, forse ancora da pensare.
Del ‘pudore’ Emmanuel Mounier ha scritto, in maniera diretta e indiretta,
in innumerevoli luoghi. In realtà, si tratta di capire, nel fondo, che ‘io sono
28
più di quel che appaio’35
. Mounier ne fa, non a caso, nel pensare
l’impensato delle categorie epistemologiche della psicologia e delle
scienze, un impiego straordinariamente radicale e fecondo: ‘Homo sum
absconditus. Noli me tangere’36
.
Il pudore, infatti, non è solo un bisogno profondo e ineludibile. Esso è
anche, al tempo stesso, per un pensiero speculativo che con esso si
confronti, una sfida teoretica: la domanda che – rivolta alla conoscenza,
alla scienza e alle categorie della scienza – affronta la questione radicale
sul se io possa essere inteso come conoscitivamente esaurito dallo sguardo
che – pur nei modi più sofisticati e complessi – mi guarda dall’esterno. Si
tratta, in realtà, della domanda sul se io possa essere interamente coesteso
col repertorio dei dati che la scienza consegue e può conseguire – in modo
sempre più sofisticatamente combinato – di me.
Un tale ‘pudore’ va pensato, in realtà, sia in termini fenomenologici sia
in termini assiologici. Ma diremmo che un tale pudore va innanzitutto
ripensato in termini ontologici. Un riferimento essenziale è certamente in
Platone (il Protagora), in Vico (il De Uno), in Capograssi interprete di
Vico (Attualità di Vico), in Mounier (Il personalismo, Il Trattato del
carattere e tutte le Oeuvres).
Non andrebbe dimenticato, in proposito, come proprio in Vico si faccia
largo anche un pudore ontologico: là dove il ‘pudore’ si dà anche nella
forma di un sottrarsi radicale del reale a una esaustiva conoscenza
oggettivante (si veda, in proposito, il De Uno).
35 Emmanuel Mounier, Il personalismo, cit., p. 103 e p. 68. Sulla questione del pudore in Vico,
vedi anche le penetranti pagine di Giuseppe Capograssi, L’attualità di Vico, in Opere, vol. IV,
Giuffrè, Milano, 1956, p. 397 ss. 36 Emmanuel Mounier, Trattato del carattere, a cura di Giorgio Campanini, Edizioni Paoline,
Roma, 1982, p. 610 e p. 95.
29
Il ‘pudore’ ha da fare, certo, con la ‘questità’ di quest’uomo e con la sua
resistenza irresistibile a essere ridotto a un fantoccio, a un ‘seriale’37
. Ma,
d’altra parte, come lo stesso Mounier magistralmente rileva, non bisogna
nemmeno pensare che il personalismo si limiti a pretendere che si tenga
conto delle più minute diversità fra gli uomini38
dimenticando, della
persona, la sua attiva e interiore sorgività.
Il pudore va pensato, infatti, non solo per istituire un pensiero adeguato
alle massime e minime diversità di ogni persona rispetto a ogni altra –
anche il mondo totalizzante di Huxley potrebbe far questo39
- e non solo per
istituire una zona di rispetto – per la persona – da non invadere mai, ma
anche per dar vita a un atteggiamento specifico che, sapendo che l’uomo
non è mero ‘oggetto’, ma centro profondo di risorse e di atti, a questo
centro nascosto e profondo apra varchi per propiziarne le possibili
espressioni.
Il pudore è, certo, segnale della profondità. Ma un tale ‘pudore’ va
pensato non solo in termini di ‘vigilanza di soglia’ e di ‘rispetto’, ma anche
in termini di apertura di varchi, di possibilità, di speranza. Si tratta, infatti,
nella valorizzazione di questa speranza e di queste possibilità, di
predisporre le condizioni – concettuali, giuridiche, istituzionali,
assiologiche – perché possano incontrare varchi espressivi gli atti della vita
personale.
Non a caso, per il pensiero mounieriano, guardare l’altro come persona
non significa solo averne rispetto, ma ‘fargli credito’40
, laddove trattarlo
37 Non a caso, in Trattato del carattere, lo stesso Mounier sembra vedere, citando Valéry, un
altro’ conoscere’ nel ‘co-nascere’: un connaître nel con-naître. 38
Emmanuel Mounier, Il personalismo, cit., p. 12. 39 Emmanuel Mounier, Il personalismo, cit., p. 12. 40
Emmanuel Mounier, Il personalismo, cit., p. 52.
30
come un repertorio di dati significherebbe, al contrario, disperare di lui:
trattarlo come un assente41
.
Dire ‘persona’ non è soltanto dire ‘rispetto’ di una identità che ha pudore
e verso cui si ha pudore, ma, anche e forse soprattutto, ‘speranza’ che il suo
novum ontologico possa, in condizioni predisposte al possibile nuovo, in un
pudore non impediente ma aprente, fiorire. Alla persona non si deve solo
pudore, ma, nel pudore, speranza. E la speranza è, nei testi di Emmanuel
Mounier, uno dei valori più abitati42
.
In questo senso una vera ‘giustizia’, che non sia solo impeditiva ma
attiva, pur nella sua aporetica struttura profonda, saprà non solo tutelare
quel pudore che è duplice rispetto della soglia (nel movimento a
salvaguardia degli altri e nel movimento a salvaguardia dagli altri), ma
anche aprire a quella diversa valorizzazione del pudore che è la
promozione di sé – di ogni persona – nel suo giacimento profondo di vite
quiescenti, di talenti nascosti, di risorse incondite, di capacità ignote, di
possibilità.
41 Emmanuel Mounier, Il personalismo, cit., pp. 51-52. 42
Si pensi, solo per un titolo, a L’espoir des désespérés, in Oeuvres, IV, Seuil, Paris, 1961.