E-book campione Liber Liber · sul pensiero teoretico; al punto che l'idealismo, il quale...

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Adelchi BaratonoIl mondo sensibile

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il mondo sensibileAUTORE: Baratono, AdelchiTRADUTTORE: CURATORE: NOTE: CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

COPERTINA: n. d.

TRATTO DA: Il mondo sensibile : introduzioneall'estetica / Adelchi Baratono. - Messina ;Milano : Principato, stampa 1934. - 329 p. ; 23 cm.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 15 marzo 2018

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa

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1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:PHI001000 FILOSOFIA / Estetica

DIGITALIZZAZIONE:Paolo Alberti, [email protected]

REVISIONE:Paolo Oliva, [email protected]

IMPAGINAZIONE:Paolo Alberti, [email protected]

PUBBLICAZIONE:Catia Righi, [email protected]

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Liber Liber

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4I.L'ANTINOMIA SUI SENSIBILI...................................8II.IL SOGGETTO E L'ESPERIENZA.............................54III.L'INTELLIGIBILITÀ DEL SENSIBILE...................108IV.IL SENSOCOME PROBLEMA PSICOLOGICO.......................164V.LA REALTÀE IL VALORE SENSIBILE.......................................225VI.IL BELLO...................................................................290VII.L'ARTE.......................................................................338

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4I.L'ANTINOMIA SUI SENSIBILI...................................8II.IL SOGGETTO E L'ESPERIENZA.............................54III.L'INTELLIGIBILITÀ DEL SENSIBILE...................108IV.IL SENSOCOME PROBLEMA PSICOLOGICO.......................164V.LA REALTÀE IL VALORE SENSIBILE.......................................225VI.IL BELLO...................................................................290VII.L'ARTE.......................................................................338

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ADELCHI BARATONO

IL MONDO SENSIBILE

INTRODUZIONE ALL’ESTETICA

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ADELCHI BARATONO

IL MONDO SENSIBILE

INTRODUZIONE ALL’ESTETICA

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Al Dott. LELIO LUXARDOche da intelligentissimo alunno

mi divenne impareggiabile amicodedico questo saggio

scritto per gli alunni e per gli amici

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Al Dott. LELIO LUXARDOche da intelligentissimo alunno

mi divenne impareggiabile amicodedico questo saggio

scritto per gli alunni e per gli amici

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I.L'ANTINOMIA SUI SENSIBILI

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I.L'ANTINOMIA SUI SENSIBILI

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1. – Il mondo sensibile è tutto ed è nulla.Per la filosofia, il mondo sensibile non è nulla. Come

conoscenza e verità teoretica, la sensazione, prima edopo Platone, non è nulla di reale; tutt'al più, essa è cre-duta una realtà soggettiva, psicologica, la più soggettivadelle realtà. Un colore, un suono, una sensazione organi-ca, che valore reale posson avere? Non soltanto questisono elementi empirici sparpagliati, semplicemente con-tigui nello spazio e nel tempo, i quali attendono dallamemoria e, attraverso questa, dall'intelletto la loro unifi-cazione, nei rapporti, appunto, di spazio e di tempo, epoi nelle categorie logiche che li fanno diventare la talecosa o il tal fatto e in questa guisa ce li fanno compren-dere: cosicchè anche il più opaco sensismo, nonchèquello d'un Gassendi, di un Locke, di un Condillac, devefinire col riconoscere in essi dei semplici contenuti diuna forma logica, dei punti di partenza all'attività pen-sante, dei fenomeni organizzati dalle categorie superiori;ma perfino l'esser queste sensazioni suoni colori doloriecc., e l'esser in genere sensazioni, questo loro «essere»,dico, si realizza ed «è» insomma suono o colore o dolo-re sol in quanto è idea.

L'idealismo è inoppugnabile. Conosciamo teoretica-

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1. – Il mondo sensibile è tutto ed è nulla.Per la filosofia, il mondo sensibile non è nulla. Come

conoscenza e verità teoretica, la sensazione, prima edopo Platone, non è nulla di reale; tutt'al più, essa è cre-duta una realtà soggettiva, psicologica, la più soggettivadelle realtà. Un colore, un suono, una sensazione organi-ca, che valore reale posson avere? Non soltanto questisono elementi empirici sparpagliati, semplicemente con-tigui nello spazio e nel tempo, i quali attendono dallamemoria e, attraverso questa, dall'intelletto la loro unifi-cazione, nei rapporti, appunto, di spazio e di tempo, epoi nelle categorie logiche che li fanno diventare la talecosa o il tal fatto e in questa guisa ce li fanno compren-dere: cosicchè anche il più opaco sensismo, nonchèquello d'un Gassendi, di un Locke, di un Condillac, devefinire col riconoscere in essi dei semplici contenuti diuna forma logica, dei punti di partenza all'attività pen-sante, dei fenomeni organizzati dalle categorie superiori;ma perfino l'esser queste sensazioni suoni colori doloriecc., e l'esser in genere sensazioni, questo loro «essere»,dico, si realizza ed «è» insomma suono o colore o dolo-re sol in quanto è idea.

L'idealismo è inoppugnabile. Conosciamo teoretica-

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mente qualcosa, fosse pure una minima sensazione,come quella tal cosa, in quanto la pensiamo, la realizzia-mo nell'idea di sensazione o di quella sensazione. Il sen-sibile in sè, fuori della mediazione del pensiero, non èdunque nulla, o meglio non può essere nulla: è un nonessere.

Meno ancora i sensibili hanno valore alcuno rispettoall'attività pratica e quindi alla filosofia della pratica. Ilsenso, lo spregevole senso, è negato dalla ragion mora-le; il mondo materiale viene respinto dalla volontà etica,che tale è appunto in quanto nega e supera il dato sensi-bile, il fatto, la materia. Se chiamiamo corpo la materiain quanto è senso, ebbene, il valore morale è morale inopposizione al corpo, e lo si chiama anima e spirito.Anzi, fenomeno interessante, questa energica negazionedei sensibili da parte del pensiero etico reagisce anchesul pensiero teoretico; al punto che l'idealismo, il qualelogicamente si dovrebbe contentar d'affermare chel'empirico, il sensibile, la materia insomma, sono puressi idee e hanno quindi per lo meno diritto di cittadi-nanza nel mondo delle idee accanto alle altre, se puregerarchicamente più in basso, tuttavia di solito gonfia legote contro l'empirico, lo respinge dal proprio sistema,rifiutando perfino di vedere nella filosofia empiristaquello ch'essa è veramente: non un'opposizione all'idea-lismo filosofico, ma una correzione rispetto al problemadei contenuti conoscitivi del pensiero teoretico.

Anche per la scienza la sensazione non è nulla. Lascienza, sì, osserva il dato empirico, il fatto, il sensibile;

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mente qualcosa, fosse pure una minima sensazione,come quella tal cosa, in quanto la pensiamo, la realizzia-mo nell'idea di sensazione o di quella sensazione. Il sen-sibile in sè, fuori della mediazione del pensiero, non èdunque nulla, o meglio non può essere nulla: è un nonessere.

Meno ancora i sensibili hanno valore alcuno rispettoall'attività pratica e quindi alla filosofia della pratica. Ilsenso, lo spregevole senso, è negato dalla ragion mora-le; il mondo materiale viene respinto dalla volontà etica,che tale è appunto in quanto nega e supera il dato sensi-bile, il fatto, la materia. Se chiamiamo corpo la materiain quanto è senso, ebbene, il valore morale è morale inopposizione al corpo, e lo si chiama anima e spirito.Anzi, fenomeno interessante, questa energica negazionedei sensibili da parte del pensiero etico reagisce anchesul pensiero teoretico; al punto che l'idealismo, il qualelogicamente si dovrebbe contentar d'affermare chel'empirico, il sensibile, la materia insomma, sono puressi idee e hanno quindi per lo meno diritto di cittadi-nanza nel mondo delle idee accanto alle altre, se puregerarchicamente più in basso, tuttavia di solito gonfia legote contro l'empirico, lo respinge dal proprio sistema,rifiutando perfino di vedere nella filosofia empiristaquello ch'essa è veramente: non un'opposizione all'idea-lismo filosofico, ma una correzione rispetto al problemadei contenuti conoscitivi del pensiero teoretico.

Anche per la scienza la sensazione non è nulla. Lascienza, sì, osserva il dato empirico, il fatto, il sensibile;

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Page 11: E-book campione Liber Liber · sul pensiero teoretico; al punto che l'idealismo, il quale logicamente si dovrebbe contentar d'affermare che l'empirico, il sensibile, la materia insomma,

ma l'osserva al solo scopo di superarlo, sostituendolocon elementi e rapporti d'ordine razionale. La storia del-le scienze fisiche è tutta aperta a testimoniarci che ildato sensibile non è che un punto di partenza, un sog-gettivo illusorio, una qualità seconda, a cui è còmpitodella scienza sostituire una realtà più vera, oggettiva euniversale, e alla fin dei conti razionale, possibilmentematematica. Questa luce che vedo, per il fisico è merasoggettività; egli se ne serve soltanto di punto di riferi-mento empirico per giungere a leggi matematiche, ossiaall'enunciazione di rapporti costanti, rispetto ai quali,non solo questa luce visibile, ma anche altri elementid'ordine immaginativo, come la rappresentazione allaFresnel d'ondulazioni eteree, di cui si deve servire peranalogia con l'esperienza comune, non sono che mo-menti e gradi di passaggio per giungere alla costruzionerazionale del vero scientifico. L'epistemologia odiernaha messo ben in evidenza questo contrasto interno che sidibatte nel pensiero scientifico fra una necessità pura-mente empirica, che lo lega all'esperienza, e la sua in-coercibile aspirazione ad una perfetta concettualità, e ra-zionalità formale, in cui starebbe il coronamento del sa-pere obbiettivo; fra il doversi contentare di enunciarepositivisticamente leggi come constatazione di rapportiosservati a posteriori, e il bisogno di raggiungere le cau-se determinanti logicamente i fatti. Certo, malgrado tut-to l'induzionismo da Bacone a noi, la scienza accetta ilfatto sensibile solamente perchè ed in quanto non nepuò fare a meno: l'accetta cioè provvisoriamente, su

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ma l'osserva al solo scopo di superarlo, sostituendolocon elementi e rapporti d'ordine razionale. La storia del-le scienze fisiche è tutta aperta a testimoniarci che ildato sensibile non è che un punto di partenza, un sog-gettivo illusorio, una qualità seconda, a cui è còmpitodella scienza sostituire una realtà più vera, oggettiva euniversale, e alla fin dei conti razionale, possibilmentematematica. Questa luce che vedo, per il fisico è merasoggettività; egli se ne serve soltanto di punto di riferi-mento empirico per giungere a leggi matematiche, ossiaall'enunciazione di rapporti costanti, rispetto ai quali,non solo questa luce visibile, ma anche altri elementid'ordine immaginativo, come la rappresentazione allaFresnel d'ondulazioni eteree, di cui si deve servire peranalogia con l'esperienza comune, non sono che mo-menti e gradi di passaggio per giungere alla costruzionerazionale del vero scientifico. L'epistemologia odiernaha messo ben in evidenza questo contrasto interno che sidibatte nel pensiero scientifico fra una necessità pura-mente empirica, che lo lega all'esperienza, e la sua in-coercibile aspirazione ad una perfetta concettualità, e ra-zionalità formale, in cui starebbe il coronamento del sa-pere obbiettivo; fra il doversi contentare di enunciarepositivisticamente leggi come constatazione di rapportiosservati a posteriori, e il bisogno di raggiungere le cau-se determinanti logicamente i fatti. Certo, malgrado tut-to l'induzionismo da Bacone a noi, la scienza accetta ilfatto sensibile solamente perchè ed in quanto non nepuò fare a meno: l'accetta cioè provvisoriamente, su

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Page 12: E-book campione Liber Liber · sul pensiero teoretico; al punto che l'idealismo, il quale logicamente si dovrebbe contentar d'affermare che l'empirico, il sensibile, la materia insomma,

l'esempio del grande Leibniz, per tentar di ridurlo a unalegge a priori, e adopera l'induzione e l'esperimento so-lamente col proposito di farne un metodo, non di prova,ma di riprova e controllo della veridicità delle ipotesi.

Tutto ciò non può far meraviglia se si considera ciòche i sensi sono anche nella vita comune. La nostra vitaè costituita dalla nostra volontà, e i valori di essa riguar-dano le finalità del nostro volere. Orbene, la volontà alsenso non s'arresta mai: essa lo adopera come un sem-plice segno di qualcosa che ne sta al di là e che costitui-sce il proprio fine. Nessun volere s'appaga mai dell'esse-re sensibile; nessuno spirito umano si loderebbe di nonaspirare a qualche cosa oltre il sensibile; nessun pensie-ro sarebbe pensiero se non contrapponesse, al sensibile,i valori superiori e se non reagisse al mondo dei sensi innome d'un mondo della ragione.

2. – Tuttavia, filosofia scienza e vita, appunto perchètrovan nei sensibili un ostacolo alle aspirazioni dellospirito (ostacolo che chiamano vile materia, empiricità,male e carne), debbon implicitamente riconoscervi unvalore di necessità. Che dico? Non possono a meno difare i conti con esso, di subire l'esistenza del senso. Al-lora, per un altro verso, il mondo sensibile può apparir-ne il solo mondo reale e cacciare l'anima, lo spirito, laragione nel mondo delle illusioni: una sensazione, inten-do dire una sensazione pura, razionale, non ancora co-noscenza e idea – ciò che tocco vedo sento immediata-mente –, è il sassolino che fa sempre inciampare la ma-

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l'esempio del grande Leibniz, per tentar di ridurlo a unalegge a priori, e adopera l'induzione e l'esperimento so-lamente col proposito di farne un metodo, non di prova,ma di riprova e controllo della veridicità delle ipotesi.

Tutto ciò non può far meraviglia se si considera ciòche i sensi sono anche nella vita comune. La nostra vitaè costituita dalla nostra volontà, e i valori di essa riguar-dano le finalità del nostro volere. Orbene, la volontà alsenso non s'arresta mai: essa lo adopera come un sem-plice segno di qualcosa che ne sta al di là e che costitui-sce il proprio fine. Nessun volere s'appaga mai dell'esse-re sensibile; nessuno spirito umano si loderebbe di nonaspirare a qualche cosa oltre il sensibile; nessun pensie-ro sarebbe pensiero se non contrapponesse, al sensibile,i valori superiori e se non reagisse al mondo dei sensi innome d'un mondo della ragione.

2. – Tuttavia, filosofia scienza e vita, appunto perchètrovan nei sensibili un ostacolo alle aspirazioni dellospirito (ostacolo che chiamano vile materia, empiricità,male e carne), debbon implicitamente riconoscervi unvalore di necessità. Che dico? Non possono a meno difare i conti con esso, di subire l'esistenza del senso. Al-lora, per un altro verso, il mondo sensibile può apparir-ne il solo mondo reale e cacciare l'anima, lo spirito, laragione nel mondo delle illusioni: una sensazione, inten-do dire una sensazione pura, razionale, non ancora co-noscenza e idea – ciò che tocco vedo sento immediata-mente –, è il sassolino che fa sempre inciampare la ma-

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Page 13: E-book campione Liber Liber · sul pensiero teoretico; al punto che l'idealismo, il quale logicamente si dovrebbe contentar d'affermare che l'empirico, il sensibile, la materia insomma,

gnifica corrente dello spirito umano alla ricerca dei va-lori superiori. Allora, la filosofia cede il posto all'empi-rico, s'adatta ad accettarlo almeno come il necessariocontenuto delle forme conoscitive, almeno come la ne-cessaria resistenza alle ali dell'intelletto. Allora, lascienza deve riconoscere, che per quanto alta e profondasia la legge che ha scoperto, il più piccolo contrasto adessa, osservato in un fenomeno particolare, basta a ca-povolgerla. Allora, la psicologia stessa è obbligata aconvenire, che non soltanto nella percezione, ma in ognigrado e forma rappresentativa c'è un elemento sensibilein cui essa forma si attua; in ogni attività, per quanto no-bile, dello spirito, c'è un sentimento, un «gusto», unasensibilità che la règola e dirige.

Il pensiero è pensiero in parole e in atti sensibili; isuoi valori valgono realmente come sentimenti che spin-gono le nostre attività: che vale la legge morale se nonpalpita in un cuore? che cos'è la stessa ragione, se nondiviene un bisogno, direi un istinto, o in ogni modo unsentir le cose intuendole come valore? Non soltanto unbuon ingegnere è quell'ingegnere che ha ridotto a sensotecnico le sue conoscenze teoriche, e così un buon medi-co ecc.; ma anche un sapiente è un saggio, e un filosofoè tale se vivono sensibilmente il loro sapere e la loro fi-losofia, nel che si distinguono dai semplici scolari o imi-tatori, i quali possono ripeterne con grande esattezza gliammaestramenti e i concetti, ma non vi aderiscono conl'anima, non li sentono: comprendere significa sentire!Perfino l'erudito, il puro erudito, è un vero erudito quan-

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gnifica corrente dello spirito umano alla ricerca dei va-lori superiori. Allora, la filosofia cede il posto all'empi-rico, s'adatta ad accettarlo almeno come il necessariocontenuto delle forme conoscitive, almeno come la ne-cessaria resistenza alle ali dell'intelletto. Allora, lascienza deve riconoscere, che per quanto alta e profondasia la legge che ha scoperto, il più piccolo contrasto adessa, osservato in un fenomeno particolare, basta a ca-povolgerla. Allora, la psicologia stessa è obbligata aconvenire, che non soltanto nella percezione, ma in ognigrado e forma rappresentativa c'è un elemento sensibilein cui essa forma si attua; in ogni attività, per quanto no-bile, dello spirito, c'è un sentimento, un «gusto», unasensibilità che la règola e dirige.

Il pensiero è pensiero in parole e in atti sensibili; isuoi valori valgono realmente come sentimenti che spin-gono le nostre attività: che vale la legge morale se nonpalpita in un cuore? che cos'è la stessa ragione, se nondiviene un bisogno, direi un istinto, o in ogni modo unsentir le cose intuendole come valore? Non soltanto unbuon ingegnere è quell'ingegnere che ha ridotto a sensotecnico le sue conoscenze teoriche, e così un buon medi-co ecc.; ma anche un sapiente è un saggio, e un filosofoè tale se vivono sensibilmente il loro sapere e la loro fi-losofia, nel che si distinguono dai semplici scolari o imi-tatori, i quali possono ripeterne con grande esattezza gliammaestramenti e i concetti, ma non vi aderiscono conl'anima, non li sentono: comprendere significa sentire!Perfino l'erudito, il puro erudito, è un vero erudito quan-

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Page 14: E-book campione Liber Liber · sul pensiero teoretico; al punto che l'idealismo, il quale logicamente si dovrebbe contentar d'affermare che l'empirico, il sensibile, la materia insomma,

do il materiale ch'egli amorosamente raccoglie si riscal-da della sua sensibilità fatta squisita e si dispone secon-do una scelta diretta, per così dire, più dal fiuto che dal-la ragione; o meglio, dalla ragione che sente e respira.

Non basta. La vita del pensiero, mai pago del sensibi-le, del fatto, del raggiunto, e così ardentemente teso araggiungere una realtà sempre più profonda oltre il sen-sibile, a inseguire un'idealità posta sempre oltre le esi-stenze sensibili, ecco che, riguardata da quest'altroaspetto, apparisce pur tutta presa dal mondo dei sensi,tutta dedita ad attuare sensibilmente i suoi fini, a nonriuscire a porre la felicità se non nel sensibile. E ciò nonsoltanto nel quadretto umoristico che si potrebbe abboz-zare, del religioso che al mattino si preoccupa del suocaffè e latte e alle dieci del suo uovo a bere e poi via viadelle più corporee, delle più materiali abitudini che purcomprendono tanta parte della sua vita; ma la volontàstessa, fosse pure generosa volontà d'attuare la leggedella ragion pura, fosse pur volontà e desiderio di Dio,in che può collocare il suo fine ultimo se non nell'attuareconcretamente, e cioè sensibilmente, in un individualeatto sensibile, questi valori universali?

Se desidero una cosa, è ben vero che non mi contentomai di ciò ch'essa è sensibilmente – mettiamo,quest'arancio che vedo, quel manifesto che raffigura ipicchi delle Dolomiti ergentisi dalle selve di abeti, osemplicemente la parola (per es. «Monte Cristallo») –,ma è anche vero che il mio desiderio s'appagherà soltan-to nel trasformare queste sensazioni rappresentative in

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do il materiale ch'egli amorosamente raccoglie si riscal-da della sua sensibilità fatta squisita e si dispone secon-do una scelta diretta, per così dire, più dal fiuto che dal-la ragione; o meglio, dalla ragione che sente e respira.

Non basta. La vita del pensiero, mai pago del sensibi-le, del fatto, del raggiunto, e così ardentemente teso araggiungere una realtà sempre più profonda oltre il sen-sibile, a inseguire un'idealità posta sempre oltre le esi-stenze sensibili, ecco che, riguardata da quest'altroaspetto, apparisce pur tutta presa dal mondo dei sensi,tutta dedita ad attuare sensibilmente i suoi fini, a nonriuscire a porre la felicità se non nel sensibile. E ciò nonsoltanto nel quadretto umoristico che si potrebbe abboz-zare, del religioso che al mattino si preoccupa del suocaffè e latte e alle dieci del suo uovo a bere e poi via viadelle più corporee, delle più materiali abitudini che purcomprendono tanta parte della sua vita; ma la volontàstessa, fosse pure generosa volontà d'attuare la leggedella ragion pura, fosse pur volontà e desiderio di Dio,in che può collocare il suo fine ultimo se non nell'attuareconcretamente, e cioè sensibilmente, in un individualeatto sensibile, questi valori universali?

Se desidero una cosa, è ben vero che non mi contentomai di ciò ch'essa è sensibilmente – mettiamo,quest'arancio che vedo, quel manifesto che raffigura ipicchi delle Dolomiti ergentisi dalle selve di abeti, osemplicemente la parola (per es. «Monte Cristallo») –,ma è anche vero che il mio desiderio s'appagherà soltan-to nel trasformare queste sensazioni rappresentative in

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nuove sensazioni reali (il sapore dell'arancio, la visionedi quel paesaggio alpino ecc.): benchè già si scorge che itermini «rappresentativo» e «reale» non riguardano ciòche una sensazione è per sè stessa, ma il valore che noile diamo. Parimenti, se amo una persona, bramo vederlaudirla toccarla, unirmi con essa, possedere qualche og-getto di lei: non conosco l'amore insensibile... Anche lastretta di mano fra conoscenti, l'abbraccio fra amici nonsono una mera convenzione, ma un bisogno e, direi, unsimbolo di sensibile unione. Anche qui il «materiale» eil «morale» riguardano il valore etico; ma la madre co-pre di baci il corpo della sua creaturina, e perfino il piùprofondo misticismo spasima d'unirsi sensibilmente colValore assoluto. Onde gli equivoci del materialismo; maqui si tratta del fatto che un valore, per esistere, bisognach'esista sensibilmente pur se vale in quanto nega e re-spinge i sensibili: la forza di certe virtù rigide e perfinselvagge sta nell'impeto della lor nascosta sensualità.

Appunto: i fini intellettuali e morali, le idee e gliideali, han valore teoretico e pratico in quanto s'oppon-gono al mondo dei sensi e lo trascendono all'infinito, perattingere la conoscenza delle cause universali e necessa-rie e delle leggi assolute; e il pensiero umano è pensieroin quanto fòrza i sensi e sale a Dio: pur nondimeno tuttociò, se esiste, esiste sensibilmente, come mio individua-le essere empirico, e all'individuale sensibile, alla«cosa» e all'«atto», deve ritornare, se non vuol piombarnell'astratto. L'astratto, nella conoscenza e nella pratica,è dopo tutto esso medesimo null'altro che l'illusione d'un

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nuove sensazioni reali (il sapore dell'arancio, la visionedi quel paesaggio alpino ecc.): benchè già si scorge che itermini «rappresentativo» e «reale» non riguardano ciòche una sensazione è per sè stessa, ma il valore che noile diamo. Parimenti, se amo una persona, bramo vederlaudirla toccarla, unirmi con essa, possedere qualche og-getto di lei: non conosco l'amore insensibile... Anche lastretta di mano fra conoscenti, l'abbraccio fra amici nonsono una mera convenzione, ma un bisogno e, direi, unsimbolo di sensibile unione. Anche qui il «materiale» eil «morale» riguardano il valore etico; ma la madre co-pre di baci il corpo della sua creaturina, e perfino il piùprofondo misticismo spasima d'unirsi sensibilmente colValore assoluto. Onde gli equivoci del materialismo; maqui si tratta del fatto che un valore, per esistere, bisognach'esista sensibilmente pur se vale in quanto nega e re-spinge i sensibili: la forza di certe virtù rigide e perfinselvagge sta nell'impeto della lor nascosta sensualità.

Appunto: i fini intellettuali e morali, le idee e gliideali, han valore teoretico e pratico in quanto s'oppon-gono al mondo dei sensi e lo trascendono all'infinito, perattingere la conoscenza delle cause universali e necessa-rie e delle leggi assolute; e il pensiero umano è pensieroin quanto fòrza i sensi e sale a Dio: pur nondimeno tuttociò, se esiste, esiste sensibilmente, come mio individua-le essere empirico, e all'individuale sensibile, alla«cosa» e all'«atto», deve ritornare, se non vuol piombarnell'astratto. L'astratto, nella conoscenza e nella pratica,è dopo tutto esso medesimo null'altro che l'illusione d'un

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concreto, che l'insufficenza del nostro ingegno o la de-bolezza del nostro volere non ci han permesso di rag-giungere: ipocrisia e viltà. Allora, «cogito ergo sum» si-gnifica: posso dubitare di tutto, ma non posso dubitaredel mio pensiero perchè lo sento: lo sento sensibilmente,proprio, come dubbio; questo è il suo esistere, che nondipende dal mio volere – perchè il volere è sempre diret-to a ciò che ancora non è – fare che non sia. Quanto allarealtà di ciò di cui dubito, per esempio del mondo o diDio, e alle idee che me ne vado formando con l'atto dipensare in cui s'attua quel dubbio, anch'esse esistonocome giudizi e parole: come realtà in sè, debbono esiste-re, ma la sola prova che ne posseggo è la certezza cheaccompagna l'idea chiara ed evidente. Certezza, comeognun vede, è di nuovo un sentire; di nuovo, nell'internodel pensiero pensante, il suo essere reale si sdoppia con-trapponendo il valore di realtà – il suo dover essere uni-versale e necessario (a priori) – all'esistenza di essa real-tà come sensibile, anzi come mero sentire, dubbio e cer-tezza (almeno di tal dubbio). L'antica saggezza indicacol dito il cielo delle idee assolute; ma non appena rin-giovanisce, «Dafür! esclama: Gefühl ist alles»...

3. – Assurdo è il sensismo, se ci fosse un sensismodel puro senso: una teoria che negasse l'idea, ossia sestessa: ma la sensazione esiste. Non è nulla ancora, nonè nulla fuori del pensiero – intendo ormai dire che non èuna realtà logica, poichè questa realtà di cosa o fatto de-terminato glie l'attribuisce il pensiero –, ma esiste. Anzi,

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concreto, che l'insufficenza del nostro ingegno o la de-bolezza del nostro volere non ci han permesso di rag-giungere: ipocrisia e viltà. Allora, «cogito ergo sum» si-gnifica: posso dubitare di tutto, ma non posso dubitaredel mio pensiero perchè lo sento: lo sento sensibilmente,proprio, come dubbio; questo è il suo esistere, che nondipende dal mio volere – perchè il volere è sempre diret-to a ciò che ancora non è – fare che non sia. Quanto allarealtà di ciò di cui dubito, per esempio del mondo o diDio, e alle idee che me ne vado formando con l'atto dipensare in cui s'attua quel dubbio, anch'esse esistonocome giudizi e parole: come realtà in sè, debbono esiste-re, ma la sola prova che ne posseggo è la certezza cheaccompagna l'idea chiara ed evidente. Certezza, comeognun vede, è di nuovo un sentire; di nuovo, nell'internodel pensiero pensante, il suo essere reale si sdoppia con-trapponendo il valore di realtà – il suo dover essere uni-versale e necessario (a priori) – all'esistenza di essa real-tà come sensibile, anzi come mero sentire, dubbio e cer-tezza (almeno di tal dubbio). L'antica saggezza indicacol dito il cielo delle idee assolute; ma non appena rin-giovanisce, «Dafür! esclama: Gefühl ist alles»...

3. – Assurdo è il sensismo, se ci fosse un sensismodel puro senso: una teoria che negasse l'idea, ossia sestessa: ma la sensazione esiste. Non è nulla ancora, nonè nulla fuori del pensiero – intendo ormai dire che non èuna realtà logica, poichè questa realtà di cosa o fatto de-terminato glie l'attribuisce il pensiero –, ma esiste. Anzi,

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a ben considerare, esistere significa proprio e soltantoesser o poter essere sensibile.

Difatti, se l'esistenza è quel valore che corrisponde alsentimento di certezza che ci dà un oggetto, la certezzariguarda prima di tutto il sensibile e tanto più quanto piùè tale, come il tatto e il senso organico. Non si confondala certezza con la fede. Fede e certezza son due forme dicredenza: la prima può esser mille volte più energicadella seconda, perchè può rispondere a un bisogno millevolte più urgente di quello di riconoscer come esistenteciò ch'esiste (chi per es. ha fede nell'anima immortale oin Dio, colorisce il suo oggetto d'una sicurezza intrepi-da, tutt'affatto volontaria); ma questa credenza apoditti-ca riguarda il dover essere, non riguarda il semplice es-sere esistenziale delle cose. La certezza dipende da unanecessità e in fondo da una passività: sono certo di que-sto foglio bianco perchè mi s'impone; son certo che seuscissi da questa stanza, questo foglio resterebbe ancoraqui sol perchè son certo che ritornandovi ne avrei anco-ra la sensazione. La fede è una credenza attiva e quindilibera, laddove la certezza è un'obbligazione, un ricono-scere che qualche cosa non dipende da noi. Tal'è appun-to la sensazione. E se esistenza vuol dire l'esserci qual-che cosa d'assoluto, d'in sè, che non dipenda da noi, ilsentimento della realtà poggia tutto e soltanto sui sensi-bili.

Si può obbiettare che noi siamo ancor più certi dellaverità d'un ragionamento. Lo stesso Locke riteneva, contutto il razionalismo, che il ragionamento «more geome-

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a ben considerare, esistere significa proprio e soltantoesser o poter essere sensibile.

Difatti, se l'esistenza è quel valore che corrisponde alsentimento di certezza che ci dà un oggetto, la certezzariguarda prima di tutto il sensibile e tanto più quanto piùè tale, come il tatto e il senso organico. Non si confondala certezza con la fede. Fede e certezza son due forme dicredenza: la prima può esser mille volte più energicadella seconda, perchè può rispondere a un bisogno millevolte più urgente di quello di riconoscer come esistenteciò ch'esiste (chi per es. ha fede nell'anima immortale oin Dio, colorisce il suo oggetto d'una sicurezza intrepi-da, tutt'affatto volontaria); ma questa credenza apoditti-ca riguarda il dover essere, non riguarda il semplice es-sere esistenziale delle cose. La certezza dipende da unanecessità e in fondo da una passività: sono certo di que-sto foglio bianco perchè mi s'impone; son certo che seuscissi da questa stanza, questo foglio resterebbe ancoraqui sol perchè son certo che ritornandovi ne avrei anco-ra la sensazione. La fede è una credenza attiva e quindilibera, laddove la certezza è un'obbligazione, un ricono-scere che qualche cosa non dipende da noi. Tal'è appun-to la sensazione. E se esistenza vuol dire l'esserci qual-che cosa d'assoluto, d'in sè, che non dipenda da noi, ilsentimento della realtà poggia tutto e soltanto sui sensi-bili.

Si può obbiettare che noi siamo ancor più certi dellaverità d'un ragionamento. Lo stesso Locke riteneva, contutto il razionalismo, che il ragionamento «more geome-

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trico» rappresentasse il modello della verità certa. Infattisiamo certi, per prendere il classico esempio, che lasomma dei tre angoli d'un triangolo è uguale a due retti.Sì, la somma dei tre angoli è uguale a due retti se è veroil postulato d'Euclide sopra le parallele dal quale questaconclusione si deduce; ma se il postulato delle paralleleva a gambe in aria, come nella geometria riehmanniana,anche la conclusione viene a mancare. In altri termini, leverità matematiche sono tali condizionatamente ai prin-cipii da cui si deducono. E i principii? Il razionalismone faceva delle verità categoriche sol perchè attribuivaun assoluto valore alla ragione: oggi le matematiche sonda considerarsi come scienze costruttive e ipotetiche,per cui, ad esempio (come dice il Poincaré), «non ha piùsenso chiedersi se la geometria è vera o falsa».

Ancor più chiaramente: pur considerando, secondo latradizione, le scienze matematiche come scienze astrattee deduttive, la loro verità e quindi la loro realtà è pura-mente logica, e noi vi crediamo in rapporto alla veritàdei principii da cui deducono e alla realtà degli oggettida cui astraggono: è vera la geometria in quanto è verolo spazio geometrico; se questo è un astratto, essa è tuttaquanta astratta e formale, vale a dire che le sue conclu-sioni, giuste in sè, saranno vere sol in quanto sono reali ipunti le linee le superfici i volumi dello spazio euclideo;e se passiamo ad una geometria ad n dimensioni, avre-mo conseguenze diverse, la verità delle quali sarà sem-pre condizionata dalla convenzione iniziale e dalla real-tà dei concetti assunti come principii. In ogni modo, la

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trico» rappresentasse il modello della verità certa. Infattisiamo certi, per prendere il classico esempio, che lasomma dei tre angoli d'un triangolo è uguale a due retti.Sì, la somma dei tre angoli è uguale a due retti se è veroil postulato d'Euclide sopra le parallele dal quale questaconclusione si deduce; ma se il postulato delle paralleleva a gambe in aria, come nella geometria riehmanniana,anche la conclusione viene a mancare. In altri termini, leverità matematiche sono tali condizionatamente ai prin-cipii da cui si deducono. E i principii? Il razionalismone faceva delle verità categoriche sol perchè attribuivaun assoluto valore alla ragione: oggi le matematiche sonda considerarsi come scienze costruttive e ipotetiche,per cui, ad esempio (come dice il Poincaré), «non ha piùsenso chiedersi se la geometria è vera o falsa».

Ancor più chiaramente: pur considerando, secondo latradizione, le scienze matematiche come scienze astrattee deduttive, la loro verità e quindi la loro realtà è pura-mente logica, e noi vi crediamo in rapporto alla veritàdei principii da cui deducono e alla realtà degli oggettida cui astraggono: è vera la geometria in quanto è verolo spazio geometrico; se questo è un astratto, essa è tuttaquanta astratta e formale, vale a dire che le sue conclu-sioni, giuste in sè, saranno vere sol in quanto sono reali ipunti le linee le superfici i volumi dello spazio euclideo;e se passiamo ad una geometria ad n dimensioni, avre-mo conseguenze diverse, la verità delle quali sarà sem-pre condizionata dalla convenzione iniziale e dalla real-tà dei concetti assunti come principii. In ogni modo, la

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certezza di tali verità non è reale, ma formale: siamocerti del giusto ragionamento, non della vera ragione.

Del pari siamo certi che due più due fanno quattro ot-tenendo questo risultato coll'aggiungere (1 più 1) più (1più 1). Ma che cos'è l'unità matematica? L'uno quantita-tivo è un'individualità reale o non piuttosto una misuradi questa? Invero, le matematiche sono scienze astraentipiuttosto che astratte, e il loro valore è normativo, ossiautile alla misurazione, piuttosto che reale e obbiettivo.La matematica non scopre leggi di natura, ma inventaformule logiche, per cui la sua verità è ineccepibile solnei limiti e nelle condizioni entro cui si elabora. Difattioggi la matematica, o si chiude in sè stessa come ricercapuramente formale, e in questo senso non ci dà altra cer-tezza che quella conveniente al rapporto stesso di noncontraddizione che ne regge lo svolgimento analitico;oppure s'applica come scienza positiva alle ricerche fisi-che, e in questo senso diventa un semplice strumento dimisurazione che abbrevia l'esperienza e ci permette pervia di riduzione di giungere a risultati che l'esperienzasensibile non ci darebbe.

4. – Ma a parte tutto ciò, il ragionamento in generalein che senso è certo? Vorrei rispondere con un giuoco diparole: è certo se ha un «senso». Il ragionamento non èla ragione. È strumento di conoscenza, non è la cono-scenza; anche un idiota (anche una macchina) può ra-gionare benissimo e non capir niente: basta che ragionia fil di logica, secondo i principii d'identità e contraddi-

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certezza di tali verità non è reale, ma formale: siamocerti del giusto ragionamento, non della vera ragione.

Del pari siamo certi che due più due fanno quattro ot-tenendo questo risultato coll'aggiungere (1 più 1) più (1più 1). Ma che cos'è l'unità matematica? L'uno quantita-tivo è un'individualità reale o non piuttosto una misuradi questa? Invero, le matematiche sono scienze astraentipiuttosto che astratte, e il loro valore è normativo, ossiautile alla misurazione, piuttosto che reale e obbiettivo.La matematica non scopre leggi di natura, ma inventaformule logiche, per cui la sua verità è ineccepibile solnei limiti e nelle condizioni entro cui si elabora. Difattioggi la matematica, o si chiude in sè stessa come ricercapuramente formale, e in questo senso non ci dà altra cer-tezza che quella conveniente al rapporto stesso di noncontraddizione che ne regge lo svolgimento analitico;oppure s'applica come scienza positiva alle ricerche fisi-che, e in questo senso diventa un semplice strumento dimisurazione che abbrevia l'esperienza e ci permette pervia di riduzione di giungere a risultati che l'esperienzasensibile non ci darebbe.

4. – Ma a parte tutto ciò, il ragionamento in generalein che senso è certo? Vorrei rispondere con un giuoco diparole: è certo se ha un «senso». Il ragionamento non èla ragione. È strumento di conoscenza, non è la cono-scenza; anche un idiota (anche una macchina) può ra-gionare benissimo e non capir niente: basta che ragionia fil di logica, secondo i principii d'identità e contraddi-

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zione. È in questi che abbiam fede: deve esistere qualco-sa d'identico perchè ci sia una realtà, sebbene non sen'abbia alcuna esperienza perchè tutto muta nel mondosensibile. Dev'esserci un'unità a posteriori corrisponden-te all'unità a priori del nostro intelletto. Allora, la cono-scenza consiste nel cercare, ossia nello scoprire l'identi-co a traverso le differenze: la sostanza d'una «cosa» è lapresunta unità delle sue proprietà permanenti identiche asè stesse, la causalità d'un «fatto» è la presunta identitàdel rapporto fra cose diverse o proprietà varianti dellecose, ecc.; ma che prova abbiamo noi che all'unificazio-ne del pensiero corrisponda l'unità reale, se non quelladella spontaneità dello spirito? che certezza, se nonquella che s'appoggia sulla conferma dei sensibili? Per-ciò la scienza – che come teoria a ciò è destinata: ade-guare il sensibile all'intelligibile nella cosiddetta leggedi natura – da questo punto di vista apparisce il tentativopiù serio di riprova empirica delle idee metafisiche, chene rimangono, per dirla col Meyerson, il «postulato se-greto».

Il contrasto fra scienza e filosofia è un trascurabileepisodio de' nostri giorni, contrasto fra l'acriticismod'alcuni scienziati tutti dediti alla tecnica e l'arazionali-smo d'alcuni filosofi innamorati del soggetto puro; madel resto venne già risolto col prammatismo e poi a suavolta superato. L'eccezione dimostra l'esattezza del cri-terio, che la scienza segue fedelmente le sorti della filo-sofia (e cioè del pensiero umano) a cui deve servire diraccordo empirico, collocandosi fra la metafisica, che ri-

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zione. È in questi che abbiam fede: deve esistere qualco-sa d'identico perchè ci sia una realtà, sebbene non sen'abbia alcuna esperienza perchè tutto muta nel mondosensibile. Dev'esserci un'unità a posteriori corrisponden-te all'unità a priori del nostro intelletto. Allora, la cono-scenza consiste nel cercare, ossia nello scoprire l'identi-co a traverso le differenze: la sostanza d'una «cosa» è lapresunta unità delle sue proprietà permanenti identiche asè stesse, la causalità d'un «fatto» è la presunta identitàdel rapporto fra cose diverse o proprietà varianti dellecose, ecc.; ma che prova abbiamo noi che all'unificazio-ne del pensiero corrisponda l'unità reale, se non quelladella spontaneità dello spirito? che certezza, se nonquella che s'appoggia sulla conferma dei sensibili? Per-ciò la scienza – che come teoria a ciò è destinata: ade-guare il sensibile all'intelligibile nella cosiddetta leggedi natura – da questo punto di vista apparisce il tentativopiù serio di riprova empirica delle idee metafisiche, chene rimangono, per dirla col Meyerson, il «postulato se-greto».

Il contrasto fra scienza e filosofia è un trascurabileepisodio de' nostri giorni, contrasto fra l'acriticismod'alcuni scienziati tutti dediti alla tecnica e l'arazionali-smo d'alcuni filosofi innamorati del soggetto puro; madel resto venne già risolto col prammatismo e poi a suavolta superato. L'eccezione dimostra l'esattezza del cri-terio, che la scienza segue fedelmente le sorti della filo-sofia (e cioè del pensiero umano) a cui deve servire diraccordo empirico, collocandosi fra la metafisica, che ri-

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guarda l'universale (assoluto come dover essere), e lastoria, che riguarda il particolare (assoluto come essere),per dare alla lor sintesi filosofica la certezza teoretica sul'analisi dei reali sensibili. Infatti nei secoli del raziona-lismo la scienza seguì prevalentemente l'indirizzo carte-siano e ci aprì il velario sopra un mondo assoluto, in cuiforze in sè movevano le masse, intese come sostanzemateriali in balìa di forze assolute, l'inerzia e la gravità,misteriosamente agenti a distanza, in uno spazio e in untempo assoluti: è lo spettacolo della natura newtoniana,chiamata divina perchè vera razionalmente (matematica-mente), in realtà certa materialisticamente come sistemadi sostanze (corpi) e cause (forze) in sè. Quando il criti-cismo filosofico dimostrò che il pensiero non può tra-scender se stesso (teoreticamente); che la «materia» nonè che l'ipostasi d'elementi sensibili più costanti presiastrattamente, come il movimento e il peso, a far da so-strato agli altri e a spiegarli (Berkeley); che la realtà del-le sostanze e la necessità delle cause sono valori di natu-ra sensibile, credenze ottenute per analogia con la cer-tezza delle impressioni abituali (Hume); o meglio, chele categorie della conoscenza teoretica – a priori, sì, per-chè la loro necessità e universalità è indeducibiledall'esperienza, ma di valore oggettivo – sono relative aicontenuti sensibili, e non valgono se applicate al di là diquesti in un mondo che trascenda l'esperienza (Kant):allora anche la scienza entrò a vele spiegate nel fiumedel relativismo immanentista. Comte prosegue Kant enon contraddice Hegel: il suo fenomenismo non è che il

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guarda l'universale (assoluto come dover essere), e lastoria, che riguarda il particolare (assoluto come essere),per dare alla lor sintesi filosofica la certezza teoretica sul'analisi dei reali sensibili. Infatti nei secoli del raziona-lismo la scienza seguì prevalentemente l'indirizzo carte-siano e ci aprì il velario sopra un mondo assoluto, in cuiforze in sè movevano le masse, intese come sostanzemateriali in balìa di forze assolute, l'inerzia e la gravità,misteriosamente agenti a distanza, in uno spazio e in untempo assoluti: è lo spettacolo della natura newtoniana,chiamata divina perchè vera razionalmente (matematica-mente), in realtà certa materialisticamente come sistemadi sostanze (corpi) e cause (forze) in sè. Quando il criti-cismo filosofico dimostrò che il pensiero non può tra-scender se stesso (teoreticamente); che la «materia» nonè che l'ipostasi d'elementi sensibili più costanti presiastrattamente, come il movimento e il peso, a far da so-strato agli altri e a spiegarli (Berkeley); che la realtà del-le sostanze e la necessità delle cause sono valori di natu-ra sensibile, credenze ottenute per analogia con la cer-tezza delle impressioni abituali (Hume); o meglio, chele categorie della conoscenza teoretica – a priori, sì, per-chè la loro necessità e universalità è indeducibiledall'esperienza, ma di valore oggettivo – sono relative aicontenuti sensibili, e non valgono se applicate al di là diquesti in un mondo che trascenda l'esperienza (Kant):allora anche la scienza entrò a vele spiegate nel fiumedel relativismo immanentista. Comte prosegue Kant enon contraddice Hegel: il suo fenomenismo non è che il

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riconoscimento dell'impossibilità teoretica di raggiungerla realtà in sè: ci dobbiamo contentare di fermare i rap-porti costanti fra i fenomeni in leggi che valgono soloper essi.

Che cos'è dunque il reale oggi per la scienza? Quelloche è per la filosofia! La filosofia, a riguardarla tuttaquanta nel suo corso storico, è un immane sforzo millevolte iterato per trasferire il valore d'esistenza, e quindila certezza reale, dal mondo sensibile a quello intelligi-bile: cento volte l'onda dell'uman pensiero ascende finoall'assoluto, fin a Dio, per elevare un sistema metafisicoche non sia soltanto sentimentale ed etico, ma anche ra-zionale e teoretico; altrettante volte deve, criticamente,ridiscendere nei confini dell'esperienza soggettiva e con-venire che, se l'essere totale e perfetto implica perchètale l'esistenza, nulla ci assicura ancora che un essereperfetto esista, fuor che il suo attuarsi in noi e nella no-stra esperienza: la prova logica, reale e causale, di Dioval più della prova ontologica.

Pertanto la scienza, senza cessar di postulare l'unità eidentità in sè dei reali (per obbedire al principio e allalegge dell'intelletto), trasforma l'unità della materianell'equivalenza delle energie; considera queste comeuna pluralità di aspetti dell'esperienza irriducibili ad al-tro (energetismo), oppure, poichè le energie si trasfor-mano una in altra, modifica il vecchio atomismo in unaconcezione dinamica del mondo fisico chimico, in cuigli atomi diventan masse apparenti prodotte da centrid'energia elettro magnetica che si materializzano e de-

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riconoscimento dell'impossibilità teoretica di raggiungerla realtà in sè: ci dobbiamo contentare di fermare i rap-porti costanti fra i fenomeni in leggi che valgono soloper essi.

Che cos'è dunque il reale oggi per la scienza? Quelloche è per la filosofia! La filosofia, a riguardarla tuttaquanta nel suo corso storico, è un immane sforzo millevolte iterato per trasferire il valore d'esistenza, e quindila certezza reale, dal mondo sensibile a quello intelligi-bile: cento volte l'onda dell'uman pensiero ascende finoall'assoluto, fin a Dio, per elevare un sistema metafisicoche non sia soltanto sentimentale ed etico, ma anche ra-zionale e teoretico; altrettante volte deve, criticamente,ridiscendere nei confini dell'esperienza soggettiva e con-venire che, se l'essere totale e perfetto implica perchètale l'esistenza, nulla ci assicura ancora che un essereperfetto esista, fuor che il suo attuarsi in noi e nella no-stra esperienza: la prova logica, reale e causale, di Dioval più della prova ontologica.

Pertanto la scienza, senza cessar di postulare l'unità eidentità in sè dei reali (per obbedire al principio e allalegge dell'intelletto), trasforma l'unità della materianell'equivalenza delle energie; considera queste comeuna pluralità di aspetti dell'esperienza irriducibili ad al-tro (energetismo), oppure, poichè le energie si trasfor-mano una in altra, modifica il vecchio atomismo in unaconcezione dinamica del mondo fisico chimico, in cuigli atomi diventan masse apparenti prodotte da centrid'energia elettro magnetica che si materializzano e de-

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materializzano condensandosi o radiando nell'etere.Però, se chiedete a un fisico d'oggi che cos'è un campoelettro magnetico, risponderà ch'è un rapporto algebrico;e se gli chiedete che cos'è l'etere, vi dirà ch'è una con-venzione formale. Il vero scientifico è l'idea del reale(un reale più vero); ma il reale è l'esperienza e nientepiù: il più positivo degli scienziati oggi la pensa come ilpiù idealista dei filosofi: la conoscenza teoretica è ideache si obiettiva nell'atto sensibile, e cioè si realizza real-mente e non metaforicamente.

La scienza, resa esperta dal contingentismo edall'attualismo contemporaneo a non annettere alcun va-lore reale alle «etichette sulle bottiglie vuote», si dà percòmpito di costruire un sistema di leggi, non solo relati-ve ma anche relativizzate all'esperienza, misuratrici deifenomeni e non realtà oltre i fenomeni. L'ultima espres-sione della fisica odierna, lo Einstein, rappresenta ilpunto di vista più aderente al criticismo contemporaneo,che, pur opponendosi allo scetticismo dei prammatisti,secondo i quali è vera quell'ipotesi che ottiene maggiorsuccesso nelle applicazioni ai sensibili, fùga le ultimevestigia del razionalismo newtoniano. La realtà scienti-fica non è un trascendente: l'assoluto è il rapporto unita-rio fra i relativi, il «continuum» fisico definito pensandotutte le possibilità dei rapporti fra la misura e gli oggettimisurati. La scienza è semplicemente misurazione,quantitatizzazione di relazioni; giacchè spazio tempomovimenti non sono enti assoluti ma relazioni logichefra elementi analiticamente astratti che si definiscono

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materializzano condensandosi o radiando nell'etere.Però, se chiedete a un fisico d'oggi che cos'è un campoelettro magnetico, risponderà ch'è un rapporto algebrico;e se gli chiedete che cos'è l'etere, vi dirà ch'è una con-venzione formale. Il vero scientifico è l'idea del reale(un reale più vero); ma il reale è l'esperienza e nientepiù: il più positivo degli scienziati oggi la pensa come ilpiù idealista dei filosofi: la conoscenza teoretica è ideache si obiettiva nell'atto sensibile, e cioè si realizza real-mente e non metaforicamente.

La scienza, resa esperta dal contingentismo edall'attualismo contemporaneo a non annettere alcun va-lore reale alle «etichette sulle bottiglie vuote», si dà percòmpito di costruire un sistema di leggi, non solo relati-ve ma anche relativizzate all'esperienza, misuratrici deifenomeni e non realtà oltre i fenomeni. L'ultima espres-sione della fisica odierna, lo Einstein, rappresenta ilpunto di vista più aderente al criticismo contemporaneo,che, pur opponendosi allo scetticismo dei prammatisti,secondo i quali è vera quell'ipotesi che ottiene maggiorsuccesso nelle applicazioni ai sensibili, fùga le ultimevestigia del razionalismo newtoniano. La realtà scienti-fica non è un trascendente: l'assoluto è il rapporto unita-rio fra i relativi, il «continuum» fisico definito pensandotutte le possibilità dei rapporti fra la misura e gli oggettimisurati. La scienza è semplicemente misurazione,quantitatizzazione di relazioni; giacchè spazio tempomovimenti non sono enti assoluti ma relazioni logichefra elementi analiticamente astratti che si definiscono

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l'uno con gli altri. La scienza è obbligata ad astrarre perridurre il molteplice all'uno (per es. tutto il mondo fisicoa energia elettro magnetica e questa a movimenti, ossiaa rapporti spazio temporali misurabili quantitativamen-te); onde possiamo obbiettivamente concepire il cosmocome un campo di forze, non più esistenti in sè comel'inerzia e la gravità, ma definibili sol geometricamentenel rapporto delle quattro coordinate spazio temporali acui ogni movimento si può ricondurre tuttavia questoschema astratto di configurazione geometrica in cuisono possibili tutti i rapporti di movimento senz'altraipotesi che la riducibilità delle qualità sensibili a rappor-ti geometrici, è vero sol in quanto giova a stabilire ilcorrispondente sistema delle dieci equazioni che defini-scono l'invariante misura valida per qualunque osserva-tore in qualsiasi sistema di riferimento. È Cartesio, madivenuto relativista.

5. – D'altra parte, il relativismo – quello filosofico, daProtagora in poi – sembra non ci voglia lasciar posto adalcuna certezza reale, fuor che del soggetto stesso cono-scente: allora scoppia, tragica («questione di vita o dimorte», diceva il Feuerbach), l'opposizione fra il sensocomune, realista, il quale crede assoluti e fuori di noi,anzi indipendenti dal nostro pensiero gli oggetti dellasua certezza, e il pensiero riflesso, idealista, che ci av-verte che gli oggetti, tutti gli oggetti, sono oggetti per-chè conosciuti, e cioè nostre idee. Sono sicuro che sulmio capo esiste il cielo stellato, che esiste in sè, che esi-

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l'uno con gli altri. La scienza è obbligata ad astrarre perridurre il molteplice all'uno (per es. tutto il mondo fisicoa energia elettro magnetica e questa a movimenti, ossiaa rapporti spazio temporali misurabili quantitativamen-te); onde possiamo obbiettivamente concepire il cosmocome un campo di forze, non più esistenti in sè comel'inerzia e la gravità, ma definibili sol geometricamentenel rapporto delle quattro coordinate spazio temporali acui ogni movimento si può ricondurre tuttavia questoschema astratto di configurazione geometrica in cuisono possibili tutti i rapporti di movimento senz'altraipotesi che la riducibilità delle qualità sensibili a rappor-ti geometrici, è vero sol in quanto giova a stabilire ilcorrispondente sistema delle dieci equazioni che defini-scono l'invariante misura valida per qualunque osserva-tore in qualsiasi sistema di riferimento. È Cartesio, madivenuto relativista.

5. – D'altra parte, il relativismo – quello filosofico, daProtagora in poi – sembra non ci voglia lasciar posto adalcuna certezza reale, fuor che del soggetto stesso cono-scente: allora scoppia, tragica («questione di vita o dimorte», diceva il Feuerbach), l'opposizione fra il sensocomune, realista, il quale crede assoluti e fuori di noi,anzi indipendenti dal nostro pensiero gli oggetti dellasua certezza, e il pensiero riflesso, idealista, che ci av-verte che gli oggetti, tutti gli oggetti, sono oggetti per-chè conosciuti, e cioè nostre idee. Sono sicuro che sulmio capo esiste il cielo stellato, che esiste in sè, che esi-

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stette prima di me, che esisterà dopo di me: nel contem-po io son anche convinto che il cielo stellato è una miaesperienza; che comunque io lo conosca si tratta sempred'un atto del mio pensiero; che cielo stelle ecc. son mieiconcetti, e anche le qualità su cui me li sono formati,come luci colori distanze ecc., sono sempre idee o alme-no rappresentazioni, per cui non posso parlare d'un cieloindipendentemente da me o, per analogia, da uomini chelo veggano o che lo possano aver visto in un tempo pas-sato o futuro, che anch'esso è una mia rappresentazioneanalogica. Insomma, ritorna l'antinomia del certo comeessere reale in noi e come dover essere fuori di noi af-finchè sia reale in sè: c'è un'esigenza logica che m'obbli-ga a credere che ci sia qualcosa d'assoluto fuori di me, ec'è un'esigenza critica che in pari tempo mi astringe a ri-conoscere che tutto ciò che dico esistente, esiste in unamia attuale o possibile esperienza e perciò in relazionecon me. Quel cielo stellato, che dovrebb'essere anches'io non fossi mai nato, anche se nessun uomo avessemai aperto gli occhi a contemplarlo, che cosa mai po-trebb'essere in sè, dal momento che tutto quello che è, èil nostro modo di vederlo e di pensarlo?

La soluzione non ce la può fornire la scienza che,come abbiam visto, partecipò per la tesi quando la filo-sofia fu in prevalenza dogmatica, e partecipa per l'anti-tesi ora che la filosofia è critica. Una volta stabilital'impossibilità d'estendere di là dall'esperienza, in unmondo assoluto, le categorie che ci servono a organizza-re l'esperienza nei concetti di realtà oggettiva – se prefe-

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stette prima di me, che esisterà dopo di me: nel contem-po io son anche convinto che il cielo stellato è una miaesperienza; che comunque io lo conosca si tratta sempred'un atto del mio pensiero; che cielo stelle ecc. son mieiconcetti, e anche le qualità su cui me li sono formati,come luci colori distanze ecc., sono sempre idee o alme-no rappresentazioni, per cui non posso parlare d'un cieloindipendentemente da me o, per analogia, da uomini chelo veggano o che lo possano aver visto in un tempo pas-sato o futuro, che anch'esso è una mia rappresentazioneanalogica. Insomma, ritorna l'antinomia del certo comeessere reale in noi e come dover essere fuori di noi af-finchè sia reale in sè: c'è un'esigenza logica che m'obbli-ga a credere che ci sia qualcosa d'assoluto fuori di me, ec'è un'esigenza critica che in pari tempo mi astringe a ri-conoscere che tutto ciò che dico esistente, esiste in unamia attuale o possibile esperienza e perciò in relazionecon me. Quel cielo stellato, che dovrebb'essere anches'io non fossi mai nato, anche se nessun uomo avessemai aperto gli occhi a contemplarlo, che cosa mai po-trebb'essere in sè, dal momento che tutto quello che è, èil nostro modo di vederlo e di pensarlo?

La soluzione non ce la può fornire la scienza che,come abbiam visto, partecipò per la tesi quando la filo-sofia fu in prevalenza dogmatica, e partecipa per l'anti-tesi ora che la filosofia è critica. Una volta stabilital'impossibilità d'estendere di là dall'esperienza, in unmondo assoluto, le categorie che ci servono a organizza-re l'esperienza nei concetti di realtà oggettiva – se prefe-

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rite, la chiameremo «natura» o realtà empirica degli og-getti conoscibili, dei quali fa parte anche il soggetto em-pirico –, e una volta convenuti su l'incoerenza di volerconoscere teoreticamente la sostanza in sè (materia ospirito) e la cosa in sè – sol riuscendo a reduplicare inastratto elementi tolti all'esperienza –, la realtà scientifi-ca non è, per così dire, più reale della realtà data sensi-bilmente: la seconda legge della termodinamica è piùreale della prima! La scienza è una precisazione dei rea-li, un approfondimento del conoscere obbiettivo, spesso(come appunto la prima legge della termodinamica) unatraduzione in termini e in formule semplificate in mododa essere utili alla previsione dei fatti e alle applicazionipratiche: il vero del reale, appunto. Del resto, il vero,anche in generale, non è altro che il progresso, il diveni-re della conoscenza: definisce l'essere reale degli oggettiche già le appariscono esistenti, ma su questa esistenza(sensibile) fonda la certezza del loro (più) vero essere.Che quella nube sia rossa e che il sole laggiù scenda nelmare, mi risulterà erroneo quando esaminerò meglioquesti fatti, ma l'illusione è esistente e in tal senso realeal pari delle nuove osservazioni sperimentali, in con-fronto con le quali determinerò (in generale) la veritàdel rapporto più costante.

Riuscirà la filosofia a strappare il valore di certezzareale alle esistenze sensibili per trasferirlo in qualcosad'assoluto corrispondente alle forme pure della ragione?L'idealismo trascendente alla Parmenide e quello gno-seologico platonizzante sono stati mille volte convinti di

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rite, la chiameremo «natura» o realtà empirica degli og-getti conoscibili, dei quali fa parte anche il soggetto em-pirico –, e una volta convenuti su l'incoerenza di volerconoscere teoreticamente la sostanza in sè (materia ospirito) e la cosa in sè – sol riuscendo a reduplicare inastratto elementi tolti all'esperienza –, la realtà scientifi-ca non è, per così dire, più reale della realtà data sensi-bilmente: la seconda legge della termodinamica è piùreale della prima! La scienza è una precisazione dei rea-li, un approfondimento del conoscere obbiettivo, spesso(come appunto la prima legge della termodinamica) unatraduzione in termini e in formule semplificate in mododa essere utili alla previsione dei fatti e alle applicazionipratiche: il vero del reale, appunto. Del resto, il vero,anche in generale, non è altro che il progresso, il diveni-re della conoscenza: definisce l'essere reale degli oggettiche già le appariscono esistenti, ma su questa esistenza(sensibile) fonda la certezza del loro (più) vero essere.Che quella nube sia rossa e che il sole laggiù scenda nelmare, mi risulterà erroneo quando esaminerò meglioquesti fatti, ma l'illusione è esistente e in tal senso realeal pari delle nuove osservazioni sperimentali, in con-fronto con le quali determinerò (in generale) la veritàdel rapporto più costante.

Riuscirà la filosofia a strappare il valore di certezzareale alle esistenze sensibili per trasferirlo in qualcosad'assoluto corrispondente alle forme pure della ragione?L'idealismo trascendente alla Parmenide e quello gno-seologico platonizzante sono stati mille volte convinti di

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Page 27: E-book campione Liber Liber · sul pensiero teoretico; al punto che l'idealismo, il quale logicamente si dovrebbe contentar d'affermare che l'empirico, il sensibile, la materia insomma,

evidente paralogismo; ma l'idealismo soggettivista, ecioè relativista, in che crede, se non crede nel soggettosensibile? Infatti, non appena abbiamo dichiarato conl'antico Protagora che l'uomo, solamente l'uomo è misu-ra «delle cose che sono in quanto sono, di quelle chenon sono in quanto non sono», l'acutissimo Socrate ciporta a concludere, essere inoppugnabile allora la sen-tenza sfuggita dalla bocca di Teeteto: «La conoscenza èsensazione!»

Dopo quel memorabile dialogo molt'acqua è corsasotto i ponti, e la sensazione oggi si chiama idea per in-dicare, nonchè la sua natura soggettiva, il suo valore in-tellettivo, e la si pone qual primo momento del processodel divenire delle idee, ossia dei reali: ma perchè primo?che ragione ci forza a incominciare la conoscenza daisensibili, anzi a «porre» il sensibile, detto poi il più sog-gettivo degli oggetti, come il modo più oggettivo delsoggetto? Tanto oggettiva, questa soggettivissima realtà,che ci obbliga a uscir di noi stessi e a pensarla, incoe-rentemente, come fenomeno d'una cosa in sè; e sia purequesta inconoscibile!... «Le cose direttamente percepitesono idee o sensazioni, chiamatele come volete...» dice-va lo stesso Filonous, da cui parte l'idealismo contem-poraneo, nel dialogo di Berkeley: «Ma poichè io so chenon son io il loro autore, non essendo in mio potere de-terminare a piacere quali particolari idee dovrebbero im-pressionarmi aprendo i miei occhi od orecchi, esse de-vono esistere in qualche altra mente che vuole chem'appariscano».

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evidente paralogismo; ma l'idealismo soggettivista, ecioè relativista, in che crede, se non crede nel soggettosensibile? Infatti, non appena abbiamo dichiarato conl'antico Protagora che l'uomo, solamente l'uomo è misu-ra «delle cose che sono in quanto sono, di quelle chenon sono in quanto non sono», l'acutissimo Socrate ciporta a concludere, essere inoppugnabile allora la sen-tenza sfuggita dalla bocca di Teeteto: «La conoscenza èsensazione!»

Dopo quel memorabile dialogo molt'acqua è corsasotto i ponti, e la sensazione oggi si chiama idea per in-dicare, nonchè la sua natura soggettiva, il suo valore in-tellettivo, e la si pone qual primo momento del processodel divenire delle idee, ossia dei reali: ma perchè primo?che ragione ci forza a incominciare la conoscenza daisensibili, anzi a «porre» il sensibile, detto poi il più sog-gettivo degli oggetti, come il modo più oggettivo delsoggetto? Tanto oggettiva, questa soggettivissima realtà,che ci obbliga a uscir di noi stessi e a pensarla, incoe-rentemente, come fenomeno d'una cosa in sè; e sia purequesta inconoscibile!... «Le cose direttamente percepitesono idee o sensazioni, chiamatele come volete...» dice-va lo stesso Filonous, da cui parte l'idealismo contem-poraneo, nel dialogo di Berkeley: «Ma poichè io so chenon son io il loro autore, non essendo in mio potere de-terminare a piacere quali particolari idee dovrebbero im-pressionarmi aprendo i miei occhi od orecchi, esse de-vono esistere in qualche altra mente che vuole chem'appariscano».

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Page 28: E-book campione Liber Liber · sul pensiero teoretico; al punto che l'idealismo, il quale logicamente si dovrebbe contentar d'affermare che l'empirico, il sensibile, la materia insomma,

So bene che c'è un modo semplicissimo di risolvere leantinomie del pensiero: accettarle come constatazione difatto – constatare che il pensiero procede sempre per op-posizione di soggetto a oggetto, ponendosi come ogget-to (non io) e opponendosi come soggetto (io) –, e pro-muovere il fatto a legge e principio, riconoscendo in unterzo momento, quel della riflessione, che dunque ilpensiero è la sintesi dell'antitesi, nella quale ciascun de-gli opposti si realizza come oggetto e soggetto perl'altro. Però, questa è una legge psicologica, che spiega,direi, la «natura» del pensiero, ma non giustifica il valo-re reale del conoscere; esprime in modo unitario la dia-lettica delle forme, non ci dice perchè l'idea si specifica,esiste in una particolar sensazione, e come dalla sintesi(che significa realmente questo termine?) dell'intelligi-bile, definito come soggetto puro, col sensibile, definitosoggetto empirico, salti fuori l'oggetto reale.

D'altra parte, allorchè la filosofia (e si dica purel'idealismo filosofico, ch'è tutt'uno), decisa ormai a nonevadere l'esperienza, è forzata a concludere che l'univer-sale sempre si attua in concreto nell'individuale (e la fi-losofia stessa nella storia), è difficile evitare la conver-sione del sistema in un radicale empirismo, come giàavvenne dopo Hegel, dove tutto dev'essere com'è, salvoa chiamare idea l'essere attuale sensibile; e tanto varreb-be accogliere le conseguenze estreme coraggiosamentee brillantemente tratte dall'intuizionismo francese:l'essere è l'esistere immediato, intuitivo, e il conoscerloè il... sentirsi vivere. Sennonchè, una ragione che affer-

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So bene che c'è un modo semplicissimo di risolvere leantinomie del pensiero: accettarle come constatazione difatto – constatare che il pensiero procede sempre per op-posizione di soggetto a oggetto, ponendosi come ogget-to (non io) e opponendosi come soggetto (io) –, e pro-muovere il fatto a legge e principio, riconoscendo in unterzo momento, quel della riflessione, che dunque ilpensiero è la sintesi dell'antitesi, nella quale ciascun de-gli opposti si realizza come oggetto e soggetto perl'altro. Però, questa è una legge psicologica, che spiega,direi, la «natura» del pensiero, ma non giustifica il valo-re reale del conoscere; esprime in modo unitario la dia-lettica delle forme, non ci dice perchè l'idea si specifica,esiste in una particolar sensazione, e come dalla sintesi(che significa realmente questo termine?) dell'intelligi-bile, definito come soggetto puro, col sensibile, definitosoggetto empirico, salti fuori l'oggetto reale.

D'altra parte, allorchè la filosofia (e si dica purel'idealismo filosofico, ch'è tutt'uno), decisa ormai a nonevadere l'esperienza, è forzata a concludere che l'univer-sale sempre si attua in concreto nell'individuale (e la fi-losofia stessa nella storia), è difficile evitare la conver-sione del sistema in un radicale empirismo, come giàavvenne dopo Hegel, dove tutto dev'essere com'è, salvoa chiamare idea l'essere attuale sensibile; e tanto varreb-be accogliere le conseguenze estreme coraggiosamentee brillantemente tratte dall'intuizionismo francese:l'essere è l'esistere immediato, intuitivo, e il conoscerloè il... sentirsi vivere. Sennonchè, una ragione che affer-

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ma l'irrazionale, la contingenza, che ragione è?

6. – Il problema della intelligibilità dei reali è ancoraperto perchè appunto il mondo sensibile contiene unelemento in sè, il suo esistere, irriducibile, e cioè inde-ducibile dal pensiero puro, e al quale anzi appariscecondizionata la realtà della ragione medesima. Ora, per-chè siamo certi della realtà sensibile (anche se la siste-miamo in un vero e in un bene ideale)? Se il sensibile haun valore teoretico e pratico e diviene una cosa e un finesoltanto nella sintesi conoscitiva del nostro pensarlo,come può esister in sè? Come la più soggettiva e la piùempirica delle nostre conoscenze può essere condizioned'ogni realtà conosciuta obbiettivamente? E come evitardi precipitare o nel nominalismo scettico o nel realismotrascendente il soggetto nella «cosa in sè»?

Una soluzione di ripiego fu quella dell'empirio critici-smo tedesco: la sensazione è un dato, un contenuto persè arazionale e senz'alcun valore nè logico nè pratico, nèoggettivo nè soggettivo. Il valore glie lo darebbero dun-que le «forme» del pensiero, l'attività teoretica e pratica.Anch'io credo che i contenuti sensibili non si debbano,in quanto tali, intendere come soggetti o come oggetti,perchè oggetti e soggetti lo divengono proprio per operadell'attività conoscitiva: infatti li pensiamo come oggettie come soggetti mettendoli in rapporti logici d'identità ocontraddizione con sè stessi o con altri contenuti ugual-mente ideativi, nonchè mediando (relativizzando) l'ideadi oggetto con quella di soggetto e viceversa. In altre

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ma l'irrazionale, la contingenza, che ragione è?

6. – Il problema della intelligibilità dei reali è ancoraperto perchè appunto il mondo sensibile contiene unelemento in sè, il suo esistere, irriducibile, e cioè inde-ducibile dal pensiero puro, e al quale anzi appariscecondizionata la realtà della ragione medesima. Ora, per-chè siamo certi della realtà sensibile (anche se la siste-miamo in un vero e in un bene ideale)? Se il sensibile haun valore teoretico e pratico e diviene una cosa e un finesoltanto nella sintesi conoscitiva del nostro pensarlo,come può esister in sè? Come la più soggettiva e la piùempirica delle nostre conoscenze può essere condizioned'ogni realtà conosciuta obbiettivamente? E come evitardi precipitare o nel nominalismo scettico o nel realismotrascendente il soggetto nella «cosa in sè»?

Una soluzione di ripiego fu quella dell'empirio critici-smo tedesco: la sensazione è un dato, un contenuto persè arazionale e senz'alcun valore nè logico nè pratico, nèoggettivo nè soggettivo. Il valore glie lo darebbero dun-que le «forme» del pensiero, l'attività teoretica e pratica.Anch'io credo che i contenuti sensibili non si debbano,in quanto tali, intendere come soggetti o come oggetti,perchè oggetti e soggetti lo divengono proprio per operadell'attività conoscitiva: infatti li pensiamo come oggettie come soggetti mettendoli in rapporti logici d'identità ocontraddizione con sè stessi o con altri contenuti ugual-mente ideativi, nonchè mediando (relativizzando) l'ideadi oggetto con quella di soggetto e viceversa. In altre

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parole, quando conosciamo il sensibile, l'abbiamo giàtrasceso in quell'oggetto, ossia in quell'idea, di cui essonon è più che la «rappresentazione»: questo rettangolobianco è un oggetto perchè mi rappresenta una cosa, peres. un foglio di carta, o me stesso, la mia sensazione, ap-punto, di bianco. Il conoscere va sempre, l'abbiam detto,oltre i sensibili; mentre che ora in essi dobbiam noi ri-manere evitando di trascenderli.

Ma anche il dire che il sensibile è un dato neutro esenz'alcun valore, è una contraddizione in termini, per-chè in tal caso non sarebbe nulla, non se ne potrebbeparlare affatto. Il Kant pose i sensibili come contenuti,per sè (o meglio, per noi) ciechi, delle forme, per sèvuote, dell'intelletto; ma ciò in astratto, allo scopo di de-finire i limiti e le condizioni della conoscenza teoretica:quei contenuti, a lor volta considerati, cioè conosciuti,sono per il Kant fenomeni, sono cioè l'apparire a poste-riori (indipendente da noi) del mondo in sè, del mondoche dobbiam pensare debba esistere assolutamentequantunque non si possa conoscere teoreticamente. In-somma, il fenomeno kantiano è nientemeno che il cono-scibile del noumeno, verso cui risaliamo organizzandoquei contenuti nelle forme conoscitive, che pur esse val-gono in quanto rinviano ad un assoluto affermato alme-no praticamente come un dover essere. Se invece, conl'immanentismo empirio criticista, togliamo al sensibilenon soltanto ogni valore teoretico, ma anche il valoreassoluto che lo condizionava presso Kant, che «dato» èpiù esso? dato da chi? O non c'è più niente, e la cono-

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parole, quando conosciamo il sensibile, l'abbiamo giàtrasceso in quell'oggetto, ossia in quell'idea, di cui essonon è più che la «rappresentazione»: questo rettangolobianco è un oggetto perchè mi rappresenta una cosa, peres. un foglio di carta, o me stesso, la mia sensazione, ap-punto, di bianco. Il conoscere va sempre, l'abbiam detto,oltre i sensibili; mentre che ora in essi dobbiam noi ri-manere evitando di trascenderli.

Ma anche il dire che il sensibile è un dato neutro esenz'alcun valore, è una contraddizione in termini, per-chè in tal caso non sarebbe nulla, non se ne potrebbeparlare affatto. Il Kant pose i sensibili come contenuti,per sè (o meglio, per noi) ciechi, delle forme, per sèvuote, dell'intelletto; ma ciò in astratto, allo scopo di de-finire i limiti e le condizioni della conoscenza teoretica:quei contenuti, a lor volta considerati, cioè conosciuti,sono per il Kant fenomeni, sono cioè l'apparire a poste-riori (indipendente da noi) del mondo in sè, del mondoche dobbiam pensare debba esistere assolutamentequantunque non si possa conoscere teoreticamente. In-somma, il fenomeno kantiano è nientemeno che il cono-scibile del noumeno, verso cui risaliamo organizzandoquei contenuti nelle forme conoscitive, che pur esse val-gono in quanto rinviano ad un assoluto affermato alme-no praticamente come un dover essere. Se invece, conl'immanentismo empirio criticista, togliamo al sensibilenon soltanto ogni valore teoretico, ma anche il valoreassoluto che lo condizionava presso Kant, che «dato» èpiù esso? dato da chi? O non c'è più niente, e la cono-

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scenza è forma vuota; o c'è soltanto il contenuto arazio-nale, che non cerca alcuna forma, non avendo alcun va-lore.

Per me, il problema dei sensibili in quanto tali è me-tafisico, non è gnoseologico: di essi non abbiamo unaconoscenza mediata, ma un'intuizione immediata e di-retta; meglio ancora, essi sono il nostro esistere, il no-stro partecipare dell'essere. Anche la coscienza di questo«nostro» che ora dico, vien dopo, si fa conoscitivamen-te, parlandone appunto; e del pari la coscienza di essere,contrapposto a noi; ché sopra il sensibile si formano in-differentemente così le idee d'oggetto come quelle sog-gettive, la natura e lo spirito. La conoscenza è sempreattività oggettivante e perciò dualizzante: la conoscenzateoretica oggettiva i contenuti prescindendo da se stessa,dal soggetto attivo, dal pensiero pensante, e organizzal'esperienza in un sistema di concetti e di leggi che chia-ma natura; la conoscenza pratica organizza il pensierostesso, le forme o i fini che dir si voglia, prescindendodai contenuti, in un sistema d'idee deontologiche e nor-me che chiama spirito; e questi due mondi a lor voltas'oppongono assolutamente (eticamente) oppure cercanoaccordi condizionandosi a vicenda (utilitaristicamente).Ma un contenuto, un sensibile, per la conoscenza è giàun'idea: conosco questo bianco (ripeto) almeno comeidea astratta di bianco (le «idee semplici» del Locke) eme ne servo per definire l'oggetto bianco o me stessocome senziente questo bianco. Sono già dentro l'ogget-to, e lo stesso contenuto apparisce secondo i casi come

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scenza è forma vuota; o c'è soltanto il contenuto arazio-nale, che non cerca alcuna forma, non avendo alcun va-lore.

Per me, il problema dei sensibili in quanto tali è me-tafisico, non è gnoseologico: di essi non abbiamo unaconoscenza mediata, ma un'intuizione immediata e di-retta; meglio ancora, essi sono il nostro esistere, il no-stro partecipare dell'essere. Anche la coscienza di questo«nostro» che ora dico, vien dopo, si fa conoscitivamen-te, parlandone appunto; e del pari la coscienza di essere,contrapposto a noi; ché sopra il sensibile si formano in-differentemente così le idee d'oggetto come quelle sog-gettive, la natura e lo spirito. La conoscenza è sempreattività oggettivante e perciò dualizzante: la conoscenzateoretica oggettiva i contenuti prescindendo da se stessa,dal soggetto attivo, dal pensiero pensante, e organizzal'esperienza in un sistema di concetti e di leggi che chia-ma natura; la conoscenza pratica organizza il pensierostesso, le forme o i fini che dir si voglia, prescindendodai contenuti, in un sistema d'idee deontologiche e nor-me che chiama spirito; e questi due mondi a lor voltas'oppongono assolutamente (eticamente) oppure cercanoaccordi condizionandosi a vicenda (utilitaristicamente).Ma un contenuto, un sensibile, per la conoscenza è giàun'idea: conosco questo bianco (ripeto) almeno comeidea astratta di bianco (le «idee semplici» del Locke) eme ne servo per definire l'oggetto bianco o me stessocome senziente questo bianco. Sono già dentro l'ogget-to, e lo stesso contenuto apparisce secondo i casi come

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un oggetto, dirò così, oggettivato o come un soggettooggettivato, la natura in sè o la natura mia, la fisica o lapsicologia.

Dico che l'attività conoscitiva adopera il sensibilecome segno (questo bianco, la parola «bianco»), vale adire come rappresentazione di qualcos'altro intelligibile(una «cosa» o me stesso) che vuol definire teoretica-mente o di cui si vuol servire praticamente; ma non và-luta affatto il sensibile in sè medesimo, o lo vàluta comeun dato, un limite a posteriori privo di valor positivo:l'empirico, il molteplice, il nulla logico ed etico; anchela gnoseologia pertanto ci può sputar sopra. Tuttavia noiviviamo di sensazioni: esse sono ciò che noi sentiamo,anzi, evidentemente, non sentiamo che il sensibile; que-sto solo appare come evidente e certo, certo d'una neces-sità immediata, metafisica, come quella di Dio. Ora,come provare, come giustificare razionalmente (filosofi-camente) tal valore positivo del mondo sensibile, chetutti sentono come necessitato in sè, ma che per la dettaragione sfugge a ogni prova conoscitiva e mediata?

7. – È questo problema ch'io m'accingo a risolverenelle pagine seguenti. Per me, la sensazione è il soloponte che ci riunisca al cosmo; il solo che congiunga leopposte rive di quegli abissi scavati dalla conoscenzaumana, che si chiamano dualismi. Tagliar questo ponteper meglio avanzare nel mondo delle idee, negare il sen-sibile per affermare assoluto il sovrasensibile, rifiutarela realtà dell'essere come contingente esistenza per attin-

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un oggetto, dirò così, oggettivato o come un soggettooggettivato, la natura in sè o la natura mia, la fisica o lapsicologia.

Dico che l'attività conoscitiva adopera il sensibilecome segno (questo bianco, la parola «bianco»), vale adire come rappresentazione di qualcos'altro intelligibile(una «cosa» o me stesso) che vuol definire teoretica-mente o di cui si vuol servire praticamente; ma non và-luta affatto il sensibile in sè medesimo, o lo vàluta comeun dato, un limite a posteriori privo di valor positivo:l'empirico, il molteplice, il nulla logico ed etico; anchela gnoseologia pertanto ci può sputar sopra. Tuttavia noiviviamo di sensazioni: esse sono ciò che noi sentiamo,anzi, evidentemente, non sentiamo che il sensibile; que-sto solo appare come evidente e certo, certo d'una neces-sità immediata, metafisica, come quella di Dio. Ora,come provare, come giustificare razionalmente (filosofi-camente) tal valore positivo del mondo sensibile, chetutti sentono come necessitato in sè, ma che per la dettaragione sfugge a ogni prova conoscitiva e mediata?

7. – È questo problema ch'io m'accingo a risolverenelle pagine seguenti. Per me, la sensazione è il soloponte che ci riunisca al cosmo; il solo che congiunga leopposte rive di quegli abissi scavati dalla conoscenzaumana, che si chiamano dualismi. Tagliar questo ponteper meglio avanzare nel mondo delle idee, negare il sen-sibile per affermare assoluto il sovrasensibile, rifiutarela realtà dell'essere come contingente esistenza per attin-

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ger quella dell'essere come dover essere in se, è nobileatteggiamento del pensiero puro pratico, dominante infondo anche tutta la filosofia: ma ciò costituisce l'«illu-sione metafisica», l'illusione del volo al di sopradell'aria che lo condiziona.

Senza dubbio, se il nostro pensiero potesse creare li-beramente i suoi oggetti, formarli cioè indipendente-mente dai sensibili in giudizi e in atti puri, noi costrui-remmo il mondo assoluto e necessario, il mondo metafi-sico, l'intelligibile della ragion pura, l'incondizionato.Ciò in effetto avviene in quanto il pensiero è libero, ed èlibero in quanto è volontà, chè volontà e libertà sono si-nonimi, l'una e l'altra indicando non una «cosa» (reale) eun «fatto» (causale) – contenuti, questi, della conoscen-za o volontà teoretica –, ma un rapporto di valore, unafinalità. In altre parole, il pensiero è libero in quantovuol esserlo: il che costituisce l'atteggiamento praticodel pensiero puro, il pensiero come volere, la «ragionpuro-pratica» kantiana.

Ora, in quanto il pensiero è libero, e cioè si vuol libe-rare da tutte le condizioni empiriche – tanto più se le ri-conosce come suoi contenuti conoscitivi empirici –,esso corre a formarsi le idee assolute e universali in op-posizione ai sensibili, e conformi alla trascendentalitàdel pensiero stesso. In tal caso però, i contenuti del pen-siero, le idee assolute, sono formali; coincidono cioècon le stesse forme del volere e si riducono a un'obbiet-tivazione dei fini, che così divengono i valori prodottidall'attività pura. Sono idee trascendentali esprimenti il

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ger quella dell'essere come dover essere in se, è nobileatteggiamento del pensiero puro pratico, dominante infondo anche tutta la filosofia: ma ciò costituisce l'«illu-sione metafisica», l'illusione del volo al di sopradell'aria che lo condiziona.

Senza dubbio, se il nostro pensiero potesse creare li-beramente i suoi oggetti, formarli cioè indipendente-mente dai sensibili in giudizi e in atti puri, noi costrui-remmo il mondo assoluto e necessario, il mondo metafi-sico, l'intelligibile della ragion pura, l'incondizionato.Ciò in effetto avviene in quanto il pensiero è libero, ed èlibero in quanto è volontà, chè volontà e libertà sono si-nonimi, l'una e l'altra indicando non una «cosa» (reale) eun «fatto» (causale) – contenuti, questi, della conoscen-za o volontà teoretica –, ma un rapporto di valore, unafinalità. In altre parole, il pensiero è libero in quantovuol esserlo: il che costituisce l'atteggiamento praticodel pensiero puro, il pensiero come volere, la «ragionpuro-pratica» kantiana.

Ora, in quanto il pensiero è libero, e cioè si vuol libe-rare da tutte le condizioni empiriche – tanto più se le ri-conosce come suoi contenuti conoscitivi empirici –,esso corre a formarsi le idee assolute e universali in op-posizione ai sensibili, e conformi alla trascendentalitàdel pensiero stesso. In tal caso però, i contenuti del pen-siero, le idee assolute, sono formali; coincidono cioècon le stesse forme del volere e si riducono a un'obbiet-tivazione dei fini, che così divengono i valori prodottidall'attività pura. Sono idee trascendentali esprimenti il

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dover essere, la categoria; meglio, sono norme categori-che, imperativi morali (anche se a fine teoretico), postu-lati della ragione; e metton capo al principio stessodell'incondizionato e dell'assoluto, al postulato della li-bertà, che non è altro se non l'autonomia del volere ilquale si dètta la propria legge formale in opposizione atutti i contenuti esistenziali.

Il mondo intelligibile è dunque un mondo deontologi-co, un mondo di pure forme trascendentali: di forme chedebbono trascendere all'infinito l'esperienza per valerecome fini ultimi, puro-pratici, del volere: è il mondodello spirito. Or come le forme a priori, i valori spiritua-li (il dover essere pratico) divengono conoscenza e og-gettività anche teoretica, valori reali, la «natura» e la«storia»? Come il trascendentale, il dover essere (pernoi), diviene trascendente (essere in sè), e il valore sirealizza? Come la finalità o libertà diventa causalità, el'universale si particolarizza, il dovere si attua in potere,il diritto in fatto; come la categoria formale acquista icontenuti reali e l'idea si fa concetto?

Realtà implica esistenza, per quanto arricchita di tuttii valori ideali che in questa si realizzano convertendol'esistere in essere. E l'esistenza? Se qualcosa può e deveesistere per ipotesi o per certezza teoretica, se qualcosaesistette o esisterà per conoscenza storica o scientifica,si tratta sempre d'illazioni mediate e d'analogie unica-mente fondate sulla prova di qualcosa che esiste, che èpresente, immediatamente; e questo qualcosa diciamosensazione. Essa soltanto, la sensazione immediata (si

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dover essere, la categoria; meglio, sono norme categori-che, imperativi morali (anche se a fine teoretico), postu-lati della ragione; e metton capo al principio stessodell'incondizionato e dell'assoluto, al postulato della li-bertà, che non è altro se non l'autonomia del volere ilquale si dètta la propria legge formale in opposizione atutti i contenuti esistenziali.

Il mondo intelligibile è dunque un mondo deontologi-co, un mondo di pure forme trascendentali: di forme chedebbono trascendere all'infinito l'esperienza per valerecome fini ultimi, puro-pratici, del volere: è il mondodello spirito. Or come le forme a priori, i valori spiritua-li (il dover essere pratico) divengono conoscenza e og-gettività anche teoretica, valori reali, la «natura» e la«storia»? Come il trascendentale, il dover essere (pernoi), diviene trascendente (essere in sè), e il valore sirealizza? Come la finalità o libertà diventa causalità, el'universale si particolarizza, il dovere si attua in potere,il diritto in fatto; come la categoria formale acquista icontenuti reali e l'idea si fa concetto?

Realtà implica esistenza, per quanto arricchita di tuttii valori ideali che in questa si realizzano convertendol'esistere in essere. E l'esistenza? Se qualcosa può e deveesistere per ipotesi o per certezza teoretica, se qualcosaesistette o esisterà per conoscenza storica o scientifica,si tratta sempre d'illazioni mediate e d'analogie unica-mente fondate sulla prova di qualcosa che esiste, che èpresente, immediatamente; e questo qualcosa diciamosensazione. Essa soltanto, la sensazione immediata (si

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può anche dire «intuitiva», metafisica), ci può rappre-sentare conoscitivamente il soggetto e l'oggetto.

Conoscere significa rappresentarsi, per mezzo di unsensibile – e sia pure l'immagine o la parola, che sonosempre sensibili – una cosa o un fatto (percezione) e iloro valori concettuali e ideali (appercezione). Ora, que-ste conoscenze sono teoretiche (e non soltanto pratiche),queste rappresentazioni sono reali (e non fantastiche),questi valori sono veri valori (e non soltanto fini sogget-tivi), universali e necessari, se l'attività conoscitiva, ilpensiero, per quanto diretta oltre l'esperienza sensibile,si relativizza ad essa, relativizza i fini ideali ai mezziesistenziali, si concettualizza.

Con ciò non diciamo, col sensismo, che la conoscen-za reale consiste nella sensazione: al contrario! la sensa-zione non è conoscenza. Il sensibile diviene intelligibilenelle unificazioni che lo trascendono nei concetti di na-tura e di storia; ma queste sintesi sono teoretiche, questiconcetti sono reali, se la percezione e l'appercezione incui si attuano o i giudizi esistenziali in cui si esprimonosono il risultato dell'analisi sulle esistenze sensibili.Mentre che il pensiero pratico, la volontà cosciente disè, corre a' suoi sbocchi determinando i propri fini idealinell'opposizione pratica (antinomismo etico) coi sensibi-li, trascendendo assolutamente il soggetto e l'oggettoempirici; esso si fa pensiero teoretico, ossia volontà co-sciente dell'oggetto (e di sè come oggetto), sol in quantosi ripiega sui sensibili e sui propri sentimenti per ade-guarvi i fini, per riunificare il soggetto e l'oggetto, il vo-

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può anche dire «intuitiva», metafisica), ci può rappre-sentare conoscitivamente il soggetto e l'oggetto.

Conoscere significa rappresentarsi, per mezzo di unsensibile – e sia pure l'immagine o la parola, che sonosempre sensibili – una cosa o un fatto (percezione) e iloro valori concettuali e ideali (appercezione). Ora, que-ste conoscenze sono teoretiche (e non soltanto pratiche),queste rappresentazioni sono reali (e non fantastiche),questi valori sono veri valori (e non soltanto fini sogget-tivi), universali e necessari, se l'attività conoscitiva, ilpensiero, per quanto diretta oltre l'esperienza sensibile,si relativizza ad essa, relativizza i fini ideali ai mezziesistenziali, si concettualizza.

Con ciò non diciamo, col sensismo, che la conoscen-za reale consiste nella sensazione: al contrario! la sensa-zione non è conoscenza. Il sensibile diviene intelligibilenelle unificazioni che lo trascendono nei concetti di na-tura e di storia; ma queste sintesi sono teoretiche, questiconcetti sono reali, se la percezione e l'appercezione incui si attuano o i giudizi esistenziali in cui si esprimonosono il risultato dell'analisi sulle esistenze sensibili.Mentre che il pensiero pratico, la volontà cosciente disè, corre a' suoi sbocchi determinando i propri fini idealinell'opposizione pratica (antinomismo etico) coi sensibi-li, trascendendo assolutamente il soggetto e l'oggettoempirici; esso si fa pensiero teoretico, ossia volontà co-sciente dell'oggetto (e di sè come oggetto), sol in quantosi ripiega sui sensibili e sui propri sentimenti per ade-guarvi i fini, per riunificare il soggetto e l'oggetto, il vo-

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lere e l'essere. Tali unificazioni reali, dal più empiricodei percetti al più razionale dei concetti, non cessanodunque di essere sintesi a priori, razionali appunto per-chè trascendentali (e, in fondo, pratico teoretiche); manon sono, non debbono esser più trascendenti l'esperien-za e quindi la sensazione.

La critica della conoscenza non può far a meno diconsiderare le forme conoscitive in un necessario rap-porto con i contenuti sensibili e di ancorare i valori realialla presenza di qualcosa che esiste per sè stessa: dicia-mo che la sensazione «esiste» appunto perchè apparisce«in sè», necessariamente. Inseità è il termine filosoficodell'esistenza reale. Definendo la sensazione comel'immediato esistere in sè, non voglio affatto includerviil carattere dell'alterità (del «fuori di noi»), che la filoso-fia attribuisce all'in sè, perchè «io» e «non io» sono con-cetti che si costruiscono parimenti su l'analisi della sen-sazione, la quale è un sensibile com'è un sentito. Il suovalore teoretico (quello che diviene il contenutodell'idea di sensazione) è unicamente la necessità dellasua presenza, il non dipender questa dall'atto del pensie-ro che la pensa, e quindi che la deve pensare come in sè,relativizzandosi ad essa se ed in quanto la vuol conosce-re. Con ciò non indichiamo un dualismo di sensazione epensiero, di esistere ed essere: lo stesso pensiero esistesensibilmente, e perciò deve incominciare con l'afferma-re la propria esistenza di fatto, indipendentemente datutti gli altri valori che riconoscerà come suoi prodotti –«Cogito, ergo sum... sensibiliter», bisognerebbe inco-

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lere e l'essere. Tali unificazioni reali, dal più empiricodei percetti al più razionale dei concetti, non cessanodunque di essere sintesi a priori, razionali appunto per-chè trascendentali (e, in fondo, pratico teoretiche); manon sono, non debbono esser più trascendenti l'esperien-za e quindi la sensazione.

La critica della conoscenza non può far a meno diconsiderare le forme conoscitive in un necessario rap-porto con i contenuti sensibili e di ancorare i valori realialla presenza di qualcosa che esiste per sè stessa: dicia-mo che la sensazione «esiste» appunto perchè apparisce«in sè», necessariamente. Inseità è il termine filosoficodell'esistenza reale. Definendo la sensazione comel'immediato esistere in sè, non voglio affatto includerviil carattere dell'alterità (del «fuori di noi»), che la filoso-fia attribuisce all'in sè, perchè «io» e «non io» sono con-cetti che si costruiscono parimenti su l'analisi della sen-sazione, la quale è un sensibile com'è un sentito. Il suovalore teoretico (quello che diviene il contenutodell'idea di sensazione) è unicamente la necessità dellasua presenza, il non dipender questa dall'atto del pensie-ro che la pensa, e quindi che la deve pensare come in sè,relativizzandosi ad essa se ed in quanto la vuol conosce-re. Con ciò non indichiamo un dualismo di sensazione epensiero, di esistere ed essere: lo stesso pensiero esistesensibilmente, e perciò deve incominciare con l'afferma-re la propria esistenza di fatto, indipendentemente datutti gli altri valori che riconoscerà come suoi prodotti –«Cogito, ergo sum... sensibiliter», bisognerebbe inco-

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minciare a dire! –; e la volontà tutto può volere fuor chesè stessa in quanto spontaneamente vuole.

8. – Ora, mentre tutti c'intendiamo quando parliamodella necessità o realtà della natura, perchè, comunquela si spieghi, essa è il mondo dell'esperienza sensibile;quando invece parliamo della realtà dello spirito, dellasua necessità e universalità, ci confondiamo e ci azzuf-fiamo. Gli è che può avvenire un colossale equivoco.Spirito ha due significati ben distinti, uno naturalistico el'altro filosofico in senso stretto. Quando facciamo dellafilosofia, ossia della critica (anzichè dell'indagine teore-tica diretta), spirito significa valore, pratico teoretico re-ligioso o qualunque altro esso sia, che gli oggettidell'esperienza (e noi stessi fra gli oggetti) prendono inrapporto coi fini del nostro volere il che si chiama anchepensiero. Un oggetto è utile buono giusto santo vero, inquanto lo giudichiamo; e lo giudichiamo in quanto vo-gliamo goderlo e usarlo, modificarlo, adorarlo, cono-scerlo: e difatti lo godiamo, miglioriamo, onoriamo, stu-diamo, realizzandovi i nostri fini. Allora, questi valori(utile, bene, verità, giustizia, santità...) si dicono spirito,ma sono inconfondibili con l'oggetto e il soggetto empi-rico, ossia col sensibile, presi separatamente, fuori delloro rapporto pensato. Nè una sensazione varrebbe senon vi s'attuasse il fine pratico o teoretico del pensiero,nè il fine stesso, come desiderio o volontà, varrebbe pra-ticamente o conoscitivamente, se non s'attuasse in unarealtà in qualche modo esistente, ossia sensibile. Ma lo

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minciare a dire! –; e la volontà tutto può volere fuor chesè stessa in quanto spontaneamente vuole.

8. – Ora, mentre tutti c'intendiamo quando parliamodella necessità o realtà della natura, perchè, comunquela si spieghi, essa è il mondo dell'esperienza sensibile;quando invece parliamo della realtà dello spirito, dellasua necessità e universalità, ci confondiamo e ci azzuf-fiamo. Gli è che può avvenire un colossale equivoco.Spirito ha due significati ben distinti, uno naturalistico el'altro filosofico in senso stretto. Quando facciamo dellafilosofia, ossia della critica (anzichè dell'indagine teore-tica diretta), spirito significa valore, pratico teoretico re-ligioso o qualunque altro esso sia, che gli oggettidell'esperienza (e noi stessi fra gli oggetti) prendono inrapporto coi fini del nostro volere il che si chiama anchepensiero. Un oggetto è utile buono giusto santo vero, inquanto lo giudichiamo; e lo giudichiamo in quanto vo-gliamo goderlo e usarlo, modificarlo, adorarlo, cono-scerlo: e difatti lo godiamo, miglioriamo, onoriamo, stu-diamo, realizzandovi i nostri fini. Allora, questi valori(utile, bene, verità, giustizia, santità...) si dicono spirito,ma sono inconfondibili con l'oggetto e il soggetto empi-rico, ossia col sensibile, presi separatamente, fuori delloro rapporto pensato. Nè una sensazione varrebbe senon vi s'attuasse il fine pratico o teoretico del pensiero,nè il fine stesso, come desiderio o volontà, varrebbe pra-ticamente o conoscitivamente, se non s'attuasse in unarealtà in qualche modo esistente, ossia sensibile. Ma lo

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spirito, come valore, non è la vita, è il pensiero. Perciòcredo che gli animali, pur avendo vita psichica, non ab-biano spirito, non creino valori.

All'inverso, quando indaghiamo l'esperienza diretta-mente, ossia formandocene i concetti reali e obbiettivi,lo spirito è quella parte dell'esperienza, che sentiamocome soggetto, ma del pari obbiettiviamo nei concetti dipsiche, anima e simili. Vedremo che qui è aperta unagrossa questione, che cercherò di risolvere a suo tempo;ma resta sempre la necessità di distinguere lo spirituali-smo naturalistico e teoretico, che ricerca un essere spiri-tuale concreto, l'io empirico, come sostanza (per es.«anima») e causa (per. es. «attività volente e conoscen-te»), in relazione con le altre (sia pure di contrasto fral'«in me» e il «fuori di me»), dalla filosofia, intesa comecritica dei valori, fra i quali è il valore di verità. Insom-ma, riappare il duplice punto di vista: altro è chiedersi diche natura sia una cosa – ch'è volerla spiegare teoretica-mente –, altro è giudicare del suo valore rispetto a noi (eagli stessi fini teoretici del sapere), ch'è un volerla criti-care filosoficamente. L'indagine diretta, il senso comunee la scienza ch'è il lor prolungamento, sono naturalistici;la conoscenza riflessa e la filosofia (in senso stretto)sono idealistiche. Però, quando l'idealismo dice che lospirito è reale, il solo reale, si confonde col naturalismospiritualista, dimenticando spesso di giustificarsi delpassaggio. I due atteggiamenti del conoscere nons'oppongono fra loro che in questo punto, nel punto incui si incontrano: laddove il cerchio delle conoscenze

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spirito, come valore, non è la vita, è il pensiero. Perciòcredo che gli animali, pur avendo vita psichica, non ab-biano spirito, non creino valori.

All'inverso, quando indaghiamo l'esperienza diretta-mente, ossia formandocene i concetti reali e obbiettivi,lo spirito è quella parte dell'esperienza, che sentiamocome soggetto, ma del pari obbiettiviamo nei concetti dipsiche, anima e simili. Vedremo che qui è aperta unagrossa questione, che cercherò di risolvere a suo tempo;ma resta sempre la necessità di distinguere lo spirituali-smo naturalistico e teoretico, che ricerca un essere spiri-tuale concreto, l'io empirico, come sostanza (per es.«anima») e causa (per. es. «attività volente e conoscen-te»), in relazione con le altre (sia pure di contrasto fral'«in me» e il «fuori di me»), dalla filosofia, intesa comecritica dei valori, fra i quali è il valore di verità. Insom-ma, riappare il duplice punto di vista: altro è chiedersi diche natura sia una cosa – ch'è volerla spiegare teoretica-mente –, altro è giudicare del suo valore rispetto a noi (eagli stessi fini teoretici del sapere), ch'è un volerla criti-care filosoficamente. L'indagine diretta, il senso comunee la scienza ch'è il lor prolungamento, sono naturalistici;la conoscenza riflessa e la filosofia (in senso stretto)sono idealistiche. Però, quando l'idealismo dice che lospirito è reale, il solo reale, si confonde col naturalismospiritualista, dimenticando spesso di giustificarsi delpassaggio. I due atteggiamenti del conoscere nons'oppongono fra loro che in questo punto, nel punto incui si incontrano: laddove il cerchio delle conoscenze

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naturali s'interseca con quello dei giudizi di valore, l'unocercando di abbracciare la natura dei giudizi stessi divalore, l'altro il valore del concetto di natura; ed è chiaroche il punto più delicato del problema sta proprio inquesto territorio prodotto dall'intersecarsi delle due in-chieste. Rispondere negando il valore della natura, colpretesto che noi stiamo ora pensandola come valore(reale), e che quindi siamo noi la natura di tal valore, in-verte il problema, ma non l'evita: che cosa siamo,«noi»?

Siccome prima di tutto e necessariamente noi sentia-mo, preferisco ricondurre la critica su la idea medesimadi sensazione, in accordo con la quale ci dobbiamo co-struire i concetti di natura, e in opposizione alla qualesogliamo pensare noi stessi come spirito. Allora vedre-mo che qui non v'ha una distinzione reale – nè pertantoè possibile una contraddizione teoretica fra l'essere sen-sibile (esistenza) e il fine o dover essere del pensiero –,ma un antinomismo pratico, rappresentato (o meglio,simboleggiato) dal sentimento, il quale diviene in talmodo il valore pratico o soggettività del sensibile allor-chè lo pensiamo in sè stesso, la sua natura trascendenta-le, il volere. E vedremo che nei concetti reali – ne' qualiil volere, come attività teoretica, tende a unificare l'espe-rienza e a universalizzarsi – il sensibile è del pari la rap-presentazione dell'intelligibile, che l'ha trasceso nelleforme logiche, e tuttavia lo deve mantenere come conte-nuto esistenziale, prova oggettiva e perciò appunto rap-presentativa del reale come natura.

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naturali s'interseca con quello dei giudizi di valore, l'unocercando di abbracciare la natura dei giudizi stessi divalore, l'altro il valore del concetto di natura; ed è chiaroche il punto più delicato del problema sta proprio inquesto territorio prodotto dall'intersecarsi delle due in-chieste. Rispondere negando il valore della natura, colpretesto che noi stiamo ora pensandola come valore(reale), e che quindi siamo noi la natura di tal valore, in-verte il problema, ma non l'evita: che cosa siamo,«noi»?

Siccome prima di tutto e necessariamente noi sentia-mo, preferisco ricondurre la critica su la idea medesimadi sensazione, in accordo con la quale ci dobbiamo co-struire i concetti di natura, e in opposizione alla qualesogliamo pensare noi stessi come spirito. Allora vedre-mo che qui non v'ha una distinzione reale – nè pertantoè possibile una contraddizione teoretica fra l'essere sen-sibile (esistenza) e il fine o dover essere del pensiero –,ma un antinomismo pratico, rappresentato (o meglio,simboleggiato) dal sentimento, il quale diviene in talmodo il valore pratico o soggettività del sensibile allor-chè lo pensiamo in sè stesso, la sua natura trascendenta-le, il volere. E vedremo che nei concetti reali – ne' qualiil volere, come attività teoretica, tende a unificare l'espe-rienza e a universalizzarsi – il sensibile è del pari la rap-presentazione dell'intelligibile, che l'ha trasceso nelleforme logiche, e tuttavia lo deve mantenere come conte-nuto esistenziale, prova oggettiva e perciò appunto rap-presentativa del reale come natura.

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A questo punto il mondo sensibile, spogliato dei valo-ri che, pur da esso condizionati, lo trascendono nelleidee pratiche e nei concetti teoretici, dovrebbe apparirciun mondo spento, il non essere: praticamente ridotto aun sentire senza eticità e quindi senza vera praticità; teo-reticamente, a un semplice dato esistente, a una mera«sintesi a posteriori» per sè alogica ed extraessenziale...Ma no! Se riusciremo a metterci da un punto di vistastrettamente riflettente1, se cioè riusciremo a guardareesteticamente (sensitivamente) il sensibile – idest, aconsiderare il sensibile secondo il sensibile, per sè me-desimo, senza trascenderlo –, ebbene, allora comprende-remo che l'unità sensibile, la sintesi a posteriori, la for-ma o «figura» sensibile (e poi lo «stile» dell'arte), chedivien contenuto rappresentativo dei valori logici ed eti-ci, possiede un proprio valore immanente, che chiamia-mo bellezza: bellezza «di natura» (ma non natura, con-cetto!), se data nella unità della sensazione, vale a direnel sentimento della forma sensibile in quanto tale «ma-teria», invece, delle forme logiche e «stimolo» dei senti-menti pratici); «arte», se volutamente cercata e prodotta,quando il bello divenga a sua volta un fine del pensiero,che gli presterà i propri valori (formali), i quali a lorvolta vi divengono dei semplici contenuti da tradurre informe sensibili.

1 Il giudizio «riflettente» è il giudizio sul dato in sè stesso, e,come vide il Kant, condiziona i processi induttivi; esso non vuoleancor «determinare» nulla deduttivamente, ossia non applica aldato categorie e valori a priori.

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A questo punto il mondo sensibile, spogliato dei valo-ri che, pur da esso condizionati, lo trascendono nelleidee pratiche e nei concetti teoretici, dovrebbe apparirciun mondo spento, il non essere: praticamente ridotto aun sentire senza eticità e quindi senza vera praticità; teo-reticamente, a un semplice dato esistente, a una mera«sintesi a posteriori» per sè alogica ed extraessenziale...Ma no! Se riusciremo a metterci da un punto di vistastrettamente riflettente1, se cioè riusciremo a guardareesteticamente (sensitivamente) il sensibile – idest, aconsiderare il sensibile secondo il sensibile, per sè me-desimo, senza trascenderlo –, ebbene, allora comprende-remo che l'unità sensibile, la sintesi a posteriori, la for-ma o «figura» sensibile (e poi lo «stile» dell'arte), chedivien contenuto rappresentativo dei valori logici ed eti-ci, possiede un proprio valore immanente, che chiamia-mo bellezza: bellezza «di natura» (ma non natura, con-cetto!), se data nella unità della sensazione, vale a direnel sentimento della forma sensibile in quanto tale «ma-teria», invece, delle forme logiche e «stimolo» dei senti-menti pratici); «arte», se volutamente cercata e prodotta,quando il bello divenga a sua volta un fine del pensiero,che gli presterà i propri valori (formali), i quali a lorvolta vi divengono dei semplici contenuti da tradurre informe sensibili.

1 Il giudizio «riflettente» è il giudizio sul dato in sè stesso, e,come vide il Kant, condiziona i processi induttivi; esso non vuoleancor «determinare» nulla deduttivamente, ossia non applica aldato categorie e valori a priori.

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Ma, avanti che il bello esprima in forma artistica i va-lori trascendenti il sensibile, in un idealismo o in un rea-lismo estetico, di forma classica o romantica, e intèrpretisensibilmente il vero e il bene, il mondo e Dio in operesensibili, che divengon così le esistenze reali in cui sitraduce lo spirito dei tempi con suoni colori marmi pa-role; prima dell'arte, dico, la folata sensibile così com'èin ciascuna esperienza implica già nella sua unità di og-getto e soggetto, cioè di sensazione sentita, tutti quei va-lori che il pensiero esplica nelle proprie forme trascen-denti: la sensazione – preso questo termine in concreto enon analiticamente (p, es. «bianco» o «suono do») ri-spetto alla conoscenza –, l'esperienza pura insomma, ri-flette nella sua bellezza individuale i valori universali,nella sua unità concreta l'unità razionale e n'è la solaprova reale, e perciò il senso, come «gusto» estetico, in-troduce il pensiero logico ed è educativo dell'etico...

Tuttavia, essendo, per me, l'estetico il valore dei sen-sibili in quanto tali – in quanto, proprio, sensibili –, ilproblema estetico non è nè logico nè pratico: è metafisi-co, riguardando un essere in sè, sia pure in quanto indi-viduale esistere sensibile, come il problema religioso ri-guarda in sè il dover essere universale sovrasensibile.Ora, per raggiungere un tal punto di vista, bisogna di-mostrare che sia possibile pensare i sensibili senza tra-scenderli; che cioè sia possibile l'immanenza del pensie-ro al mondo sensibile; e risolvere l'antinomia sui sensi-bili.

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Ma, avanti che il bello esprima in forma artistica i va-lori trascendenti il sensibile, in un idealismo o in un rea-lismo estetico, di forma classica o romantica, e intèrpretisensibilmente il vero e il bene, il mondo e Dio in operesensibili, che divengon così le esistenze reali in cui sitraduce lo spirito dei tempi con suoni colori marmi pa-role; prima dell'arte, dico, la folata sensibile così com'èin ciascuna esperienza implica già nella sua unità di og-getto e soggetto, cioè di sensazione sentita, tutti quei va-lori che il pensiero esplica nelle proprie forme trascen-denti: la sensazione – preso questo termine in concreto enon analiticamente (p, es. «bianco» o «suono do») ri-spetto alla conoscenza –, l'esperienza pura insomma, ri-flette nella sua bellezza individuale i valori universali,nella sua unità concreta l'unità razionale e n'è la solaprova reale, e perciò il senso, come «gusto» estetico, in-troduce il pensiero logico ed è educativo dell'etico...

Tuttavia, essendo, per me, l'estetico il valore dei sen-sibili in quanto tali – in quanto, proprio, sensibili –, ilproblema estetico non è nè logico nè pratico: è metafisi-co, riguardando un essere in sè, sia pure in quanto indi-viduale esistere sensibile, come il problema religioso ri-guarda in sè il dover essere universale sovrasensibile.Ora, per raggiungere un tal punto di vista, bisogna di-mostrare che sia possibile pensare i sensibili senza tra-scenderli; che cioè sia possibile l'immanenza del pensie-ro al mondo sensibile; e risolvere l'antinomia sui sensi-bili.

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9. – Ebbene: oso dire che tutto il pensiero filosoficodopo Hegel è prevalentemente diretto a questo fine. Senon ci soffermiamo a divergenze che solo la vicinanzaci fa sembrar grandi, e se non c'impuntiamo su seconda-rie soluzioni di problemi e non ci perdiamo a seguire lesopravvivenze della filosofia prekantiana, questi centoanni che corrono dalla morte di Hegel ci apparirannoquasi unicamente dedicati a restituire al fenomeno, al«divenire», ai fatti o accadimenti, al contingente e attua-le, all'immediato e irrazionale, al soggettivo ed empirico– vale a dire, infine, alle esistenze sensibili – quei valo-ri, che il razionalismo aveva relegato in un mondo og-gettivo e assoluto, necessario e reale in sè. Il programmadella filosofia contemporanea c'è già nello Schelling,come uno de' suoi lampi fra nubi: lo spirito filosoficonon deve arrossire di alcuno dei gradi per i quali è pas-sato, ma i vari sistemi non ebber mai altro scopo che dispiegare il puro e semplice «fatto», dal quale incominciae al quale deve alla fine metter capo ogni ricerca, che infondo è un «empirismo filosofico», avente per suo veroobbietto quel dato di fatto immediato, non ancora nèsoggetto nè oggetto, che si tratta di giustificare.

Del resto, in che consiste la scoperta di Giorgio Fede-rico Hegel?2 Il mondo non ha più potuto ignorare o di-

2 S'intende che le «scoperte» filosofiche non sono come lascoperta dell'America, son piuttosto come... l'uovo di Colombo.Voglio dire, che un filosofo non deve scoprire qualche cosa, unoggetto; non arricchisce la quantità del nostro sapere aumentan-done i contenuti: si contenta di modificare la nostra posizione

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9. – Ebbene: oso dire che tutto il pensiero filosoficodopo Hegel è prevalentemente diretto a questo fine. Senon ci soffermiamo a divergenze che solo la vicinanzaci fa sembrar grandi, e se non c'impuntiamo su seconda-rie soluzioni di problemi e non ci perdiamo a seguire lesopravvivenze della filosofia prekantiana, questi centoanni che corrono dalla morte di Hegel ci apparirannoquasi unicamente dedicati a restituire al fenomeno, al«divenire», ai fatti o accadimenti, al contingente e attua-le, all'immediato e irrazionale, al soggettivo ed empirico– vale a dire, infine, alle esistenze sensibili – quei valo-ri, che il razionalismo aveva relegato in un mondo og-gettivo e assoluto, necessario e reale in sè. Il programmadella filosofia contemporanea c'è già nello Schelling,come uno de' suoi lampi fra nubi: lo spirito filosoficonon deve arrossire di alcuno dei gradi per i quali è pas-sato, ma i vari sistemi non ebber mai altro scopo che dispiegare il puro e semplice «fatto», dal quale incominciae al quale deve alla fine metter capo ogni ricerca, che infondo è un «empirismo filosofico», avente per suo veroobbietto quel dato di fatto immediato, non ancora nèsoggetto nè oggetto, che si tratta di giustificare.

Del resto, in che consiste la scoperta di Giorgio Fede-rico Hegel?2 Il mondo non ha più potuto ignorare o di-

2 S'intende che le «scoperte» filosofiche non sono come lascoperta dell'America, son piuttosto come... l'uovo di Colombo.Voglio dire, che un filosofo non deve scoprire qualche cosa, unoggetto; non arricchisce la quantità del nostro sapere aumentan-done i contenuti: si contenta di modificare la nostra posizione

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menticare il filosofo di Stoccarda; in questi ultimi centoanni niuno ha più potuto formulare un'idea senza fare iconti con lui. Perchè? per il suo spiritualismo metafisi-co? per il suo conservatorismo politico? per il suo tradi-zionalismo etico? Al contrario: perchè l'idealismo hege-liano è un essenziale realismo; è un idealismo realisticoe perciò assoluto, contrapposto al realismo idealistico

mentale, la forma del pensare; e quindi il modo istesso di consi-derare l'esperienza e la scienza. In compenso, è proprio tale nuovaposizione mentale quella che poi dirige anche lo scienziato nellesue proprie scoperte, che gl'indica i valori del «vero» cercato e ilsenso in cui lo deve cercare. Perciò, come dicevamo sopra, quan-do la filosofia era razionalista, lo era del pari la scienza della na-tura, dove forza e materia, spazio e moto ecc. venivano considera-ti come reali in sè, mentre che oggi, dopo Hegel, essi non son piùche rapporti d'idee entro cui si costruisce la realtà naturale in unrazionalismo divenuto tutto relativista. S'intende che le «scoper-te» filosofiche non sono come la scoperta dell'America, son piut-tosto come... l'uovo di Colombo. Voglio dire, che un filosofo nondeve scoprire qualche cosa, un oggetto; non arricchisce la quanti-tà del nostro sapere aumentandone i contenuti: si contenta di mo-dificare la nostra posizione mentale, la forma del pensare; e quin-di il modo istesso di considerare l'esperienza e la scienza. In com-penso, è proprio tale nuova posizione mentale quella che poi diri-ge anche lo scienziato nelle sue proprie scoperte, che gl'indica ivalori del «vero» cercato e il senso in cui lo deve cercare. Perciò,come dicevamo sopra, quando la filosofia era razionalista, lo eradel pari la scienza della natura, dove forza e materia, spazio emoto ecc. venivano considerati come reali in sè, mentre che oggi,dopo Hegel, essi non son più che rapporti d'idee entro cui si co-struisce la realtà naturale in un razionalismo divenuto tutto relati-vista.

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menticare il filosofo di Stoccarda; in questi ultimi centoanni niuno ha più potuto formulare un'idea senza fare iconti con lui. Perchè? per il suo spiritualismo metafisi-co? per il suo conservatorismo politico? per il suo tradi-zionalismo etico? Al contrario: perchè l'idealismo hege-liano è un essenziale realismo; è un idealismo realisticoe perciò assoluto, contrapposto al realismo idealistico

mentale, la forma del pensare; e quindi il modo istesso di consi-derare l'esperienza e la scienza. In compenso, è proprio tale nuovaposizione mentale quella che poi dirige anche lo scienziato nellesue proprie scoperte, che gl'indica i valori del «vero» cercato e ilsenso in cui lo deve cercare. Perciò, come dicevamo sopra, quan-do la filosofia era razionalista, lo era del pari la scienza della na-tura, dove forza e materia, spazio e moto ecc. venivano considera-ti come reali in sè, mentre che oggi, dopo Hegel, essi non son piùche rapporti d'idee entro cui si costruisce la realtà naturale in unrazionalismo divenuto tutto relativista. S'intende che le «scoper-te» filosofiche non sono come la scoperta dell'America, son piut-tosto come... l'uovo di Colombo. Voglio dire, che un filosofo nondeve scoprire qualche cosa, un oggetto; non arricchisce la quanti-tà del nostro sapere aumentandone i contenuti: si contenta di mo-dificare la nostra posizione mentale, la forma del pensare; e quin-di il modo istesso di considerare l'esperienza e la scienza. In com-penso, è proprio tale nuova posizione mentale quella che poi diri-ge anche lo scienziato nelle sue proprie scoperte, che gl'indica ivalori del «vero» cercato e il senso in cui lo deve cercare. Perciò,come dicevamo sopra, quando la filosofia era razionalista, lo eradel pari la scienza della natura, dove forza e materia, spazio emoto ecc. venivano considerati come reali in sè, mentre che oggi,dopo Hegel, essi non son più che rapporti d'idee entro cui si co-struisce la realtà naturale in un razionalismo divenuto tutto relati-vista.

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del precedente illuminismo.In fondo (per dirla alla buona) Hegel viene incontro

all'uomo comune e gli raddrizza gli occhiali. L'uomo co-mune deride l'idealismo perchè crede d'esser lui il «rea-lista». Per realtà egli intende ciò che si può vedere toc-care provare: l'esperienza, insomma; e da questa dividele idee e glie le contrappone. Per es. dirà che reale è lascatola di fiammiferi che sa d'aver in tasca, perchè lapuò prendere e adoperare; irreale (ideale) chiamerà uncerchio perfetto o il paradiso, che non ha mai incontratoin terra e solamente spera di trovare in cielo. Ebbene,Hegel non solo gli dà ragione, ma rincara la dose: leidee pure platoniche, le idee assolute – che son poi leidee dei valori presi in sè, verità e bellezza, bene e giu-stizia, riassumibili nell'idea di Dio – non hanno altra esi-stenza che d'esser nostre idee attuali, puramente sogget-tive. Sono forme, modelli di ciò che lo spirito aspira araggiungere, ma non li possiamo prendere come realtàesistenti fuori di noi, in un mondo trascendente e divino.L'idea si realizza nell'esperienza, Dio si attua nel mon-do, i valori spirituali son immanenti nei lor contenutireali.

In altre parole, la realtà per lo Hegel non è qualcosadi già dato come perfetto immobile e identico a sè stes-so: è il «divenire», il farsi delle conoscenze stesse, tutterelative l'una all'altra, non essendovi di assoluto che ilprocesso medesimo in cui quei valori si attuano. Perciòha torto, non soltanto Platone, che pensa esistenti in sè imodelli ideali, l'Essere delle cose (che invece «divengo-

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del precedente illuminismo.In fondo (per dirla alla buona) Hegel viene incontro

all'uomo comune e gli raddrizza gli occhiali. L'uomo co-mune deride l'idealismo perchè crede d'esser lui il «rea-lista». Per realtà egli intende ciò che si può vedere toc-care provare: l'esperienza, insomma; e da questa dividele idee e glie le contrappone. Per es. dirà che reale è lascatola di fiammiferi che sa d'aver in tasca, perchè lapuò prendere e adoperare; irreale (ideale) chiamerà uncerchio perfetto o il paradiso, che non ha mai incontratoin terra e solamente spera di trovare in cielo. Ebbene,Hegel non solo gli dà ragione, ma rincara la dose: leidee pure platoniche, le idee assolute – che son poi leidee dei valori presi in sè, verità e bellezza, bene e giu-stizia, riassumibili nell'idea di Dio – non hanno altra esi-stenza che d'esser nostre idee attuali, puramente sogget-tive. Sono forme, modelli di ciò che lo spirito aspira araggiungere, ma non li possiamo prendere come realtàesistenti fuori di noi, in un mondo trascendente e divino.L'idea si realizza nell'esperienza, Dio si attua nel mon-do, i valori spirituali son immanenti nei lor contenutireali.

In altre parole, la realtà per lo Hegel non è qualcosadi già dato come perfetto immobile e identico a sè stes-so: è il «divenire», il farsi delle conoscenze stesse, tutterelative l'una all'altra, non essendovi di assoluto che ilprocesso medesimo in cui quei valori si attuano. Perciòha torto, non soltanto Platone, che pensa esistenti in sè imodelli ideali, l'Essere delle cose (che invece «divengo-

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no»); ma ha torto anche il nostro brav'uomo, quandocrede che la sua scatola di fiammiferi esista «fuori dilui», esista e permanga come una cosa in sè, indipen-dente dal suo divenir quella cosa nel pensiero attualeche la costruisce, la conosce come un oggetto...

Ma come! esclamerà il nostro sedicente realista: que-sta scatola, il mondo, la stessa natura, non esistono fuoridi me? non son dunque reali?... Buon uomo! risponde-rebbe Hegel: prima di tutto sei stato tu ad ammettere chereale è la sola esperienza. Di che esperienza parlavi senon di quella che conosci, ch'è idea della tua coscienza?Le realtà di cui tu parli sono le verità che tu formi nelpensiero, unificando prima le sensazioni soggettive nel-la rappresentazione, per es., di una «cosa»; e poi unifi-cando ancora queste esperienze nell'idea di corpo, dimondo, di natura in concetti sempre più vasti. Realeperò è sempre e soltanto questo atto del pensiero, questasintesi oggettiva, questa esperienza, e non l'oggetto pre-so in sè, come se fosse dato dal di fuori.

In secondo luogo, che cosa intendi quando dici «fuoridi me»? Io e Non io, «soggetto» e «oggetto» sono ideeche si formano, come tutti i valori, in relazione l'una conl'altra; c'è l'una perchè c'è l'altra, e quindi si mediano avicenda. Per es. questo bianco è prima un sensibile sog-gettivo; poi io lo oggettìvo, ne faccio una cosa (un fo-glio di carta), negando il soggetto per affermare l'ogget-to; infine riconosco appunto che esso è l'oggetto del mioconoscere e porta le impronte del pensiero. Insomma, ilpensiero procede sempre per antitesi e per sintesi di

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no»); ma ha torto anche il nostro brav'uomo, quandocrede che la sua scatola di fiammiferi esista «fuori dilui», esista e permanga come una cosa in sè, indipen-dente dal suo divenir quella cosa nel pensiero attualeche la costruisce, la conosce come un oggetto...

Ma come! esclamerà il nostro sedicente realista: que-sta scatola, il mondo, la stessa natura, non esistono fuoridi me? non son dunque reali?... Buon uomo! risponde-rebbe Hegel: prima di tutto sei stato tu ad ammettere chereale è la sola esperienza. Di che esperienza parlavi senon di quella che conosci, ch'è idea della tua coscienza?Le realtà di cui tu parli sono le verità che tu formi nelpensiero, unificando prima le sensazioni soggettive nel-la rappresentazione, per es., di una «cosa»; e poi unifi-cando ancora queste esperienze nell'idea di corpo, dimondo, di natura in concetti sempre più vasti. Realeperò è sempre e soltanto questo atto del pensiero, questasintesi oggettiva, questa esperienza, e non l'oggetto pre-so in sè, come se fosse dato dal di fuori.

In secondo luogo, che cosa intendi quando dici «fuoridi me»? Io e Non io, «soggetto» e «oggetto» sono ideeche si formano, come tutti i valori, in relazione l'una conl'altra; c'è l'una perchè c'è l'altra, e quindi si mediano avicenda. Per es. questo bianco è prima un sensibile sog-gettivo; poi io lo oggettìvo, ne faccio una cosa (un fo-glio di carta), negando il soggetto per affermare l'ogget-to; infine riconosco appunto che esso è l'oggetto del mioconoscere e porta le impronte del pensiero. Insomma, ilpensiero procede sempre per antitesi e per sintesi di

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queste antitesi; ma la realtà, l'esser oggetto, non è chel'attuarsi del pensiero nel perenne divenire delle idee.

Questa legge si chiama la «dialettica» del pensiero,che produce gli oggetti per negazione del soggetto eproduce i particolari soggetti per negazione dell'oggetto.Ma la filosofia, l'autocoscienza, riconosce negli oggettie nei soggetti empirici null'altro che le costruzioni diuno Spirito che diviene, si evolve, realizzandosi comemondo. Non soltanto il mondo è il mondo delle idee chesi fanno, e non dei morti «fatti» (nel senso del realismoingenuo che li prende come «dati» già così esistenti),ma le idee sono la realtà nel suo sviluppo, di cui la natu-ra è una parte astratta. Guardando da questa altezza, tan-to la natura di cui parla la scienza, quando la scatola difiammiferi del nostro buon uomo, sono sempre una par-te dello spirito, che sempre la supera in qualcosa di piùuniversale e necessario. Pensare la natura in sè èun'astrazione, perchè si astrae dallo spirito in cui si attual'idea di natura – idea e realtà sono la stessa cosa, astrat-to è chi le divide –, ma del pari, il soggetto empirico, ilmio «io» come natura, è l'attuarsi temporaneo del dive-nire dello Spirito, quando si limita di fronte al «non io»da lui stesso posto nello spazio. Non si cade nel solipsi-smo, perchè «io» è qualcosa in quanto conoscenza, ed èconoscenza in quanto contenuto (particolare) d'un pen-siero che ora lo pensa e quindi lo supera.

Anche nel campo dei valori morali e religiosi, comeognun sa, per lo Hegel vige la stessa legge dialettica chevale per il vero teoretico. Anche qui non c'è che lo Spiri-

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queste antitesi; ma la realtà, l'esser oggetto, non è chel'attuarsi del pensiero nel perenne divenire delle idee.

Questa legge si chiama la «dialettica» del pensiero,che produce gli oggetti per negazione del soggetto eproduce i particolari soggetti per negazione dell'oggetto.Ma la filosofia, l'autocoscienza, riconosce negli oggettie nei soggetti empirici null'altro che le costruzioni diuno Spirito che diviene, si evolve, realizzandosi comemondo. Non soltanto il mondo è il mondo delle idee chesi fanno, e non dei morti «fatti» (nel senso del realismoingenuo che li prende come «dati» già così esistenti),ma le idee sono la realtà nel suo sviluppo, di cui la natu-ra è una parte astratta. Guardando da questa altezza, tan-to la natura di cui parla la scienza, quando la scatola difiammiferi del nostro buon uomo, sono sempre una par-te dello spirito, che sempre la supera in qualcosa di piùuniversale e necessario. Pensare la natura in sè èun'astrazione, perchè si astrae dallo spirito in cui si attual'idea di natura – idea e realtà sono la stessa cosa, astrat-to è chi le divide –, ma del pari, il soggetto empirico, ilmio «io» come natura, è l'attuarsi temporaneo del dive-nire dello Spirito, quando si limita di fronte al «non io»da lui stesso posto nello spazio. Non si cade nel solipsi-smo, perchè «io» è qualcosa in quanto conoscenza, ed èconoscenza in quanto contenuto (particolare) d'un pen-siero che ora lo pensa e quindi lo supera.

Anche nel campo dei valori morali e religiosi, comeognun sa, per lo Hegel vige la stessa legge dialettica chevale per il vero teoretico. Anche qui non c'è che lo Spiri-

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to come principio dell'Essere, ragione universale, il qua-le si realizza nei particolari momenti del divenire. Nonci sono il bene e il male, il giusto e l'ingiusto, Dio el'uomo: il male è la negazione di ciò che prima sembra-va bene ed ora riconosciamo male avendolo superato inun bene più universale. La giustizia si attua a traversol'ingiustizia; la libertà si conquista negando il nostroparticolare egoistico arbitrio per riconoscerci nello spiri-to più vasto della famiglia, della società, della nazione.La storia umana culmina nell'avvento dello Stato etico,ch'è la sintesi delle antitesi individuali e sociali, quandolo spirito limitato dei singoli e delle classi riesce a trovarla sua piena libertà nell'ossequio alla legge che glie lagarantisce e potenzia.

Dalla «Fenomenologia dello Spirito» alla maggior«Logica», da questa all'«Enciclopedia» e alla «Filosofiadel Diritto», l'opera dello Hegel apparisce lo sforzo me-raviglioso di spiegare realmente e in concreto l'attuarsidi quei valori spirituali, che il realista comune proiettain un mondo trascendente e irraggiungibile. Dall'alto delsuo panteismo Hegel mira lo svolgersi di questi valorinella storia della natura, che in fondo è la storia del pen-siero obbiettivo, e nella storia degli uomini, ch'è il rea-lizzarsi dell'idea etica, l'universalizzarsi (qui come là)del pensiero diretto. A questo punto può sorgere la ri-flessione su noi stessi come Spirito assoluto; e sorgonoinfatti le attività pure e disinteressate: l'arte che simbo-leggia il soggetto puro (il sentimento) nelle immaginiestetiche; la religione che l'obbiettìva nelle rappresenta-

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to come principio dell'Essere, ragione universale, il qua-le si realizza nei particolari momenti del divenire. Nonci sono il bene e il male, il giusto e l'ingiusto, Dio el'uomo: il male è la negazione di ciò che prima sembra-va bene ed ora riconosciamo male avendolo superato inun bene più universale. La giustizia si attua a traversol'ingiustizia; la libertà si conquista negando il nostroparticolare egoistico arbitrio per riconoscerci nello spiri-to più vasto della famiglia, della società, della nazione.La storia umana culmina nell'avvento dello Stato etico,ch'è la sintesi delle antitesi individuali e sociali, quandolo spirito limitato dei singoli e delle classi riesce a trovarla sua piena libertà nell'ossequio alla legge che glie lagarantisce e potenzia.

Dalla «Fenomenologia dello Spirito» alla maggior«Logica», da questa all'«Enciclopedia» e alla «Filosofiadel Diritto», l'opera dello Hegel apparisce lo sforzo me-raviglioso di spiegare realmente e in concreto l'attuarsidi quei valori spirituali, che il realista comune proiettain un mondo trascendente e irraggiungibile. Dall'alto delsuo panteismo Hegel mira lo svolgersi di questi valorinella storia della natura, che in fondo è la storia del pen-siero obbiettivo, e nella storia degli uomini, ch'è il rea-lizzarsi dell'idea etica, l'universalizzarsi (qui come là)del pensiero diretto. A questo punto può sorgere la ri-flessione su noi stessi come Spirito assoluto; e sorgonoinfatti le attività pure e disinteressate: l'arte che simbo-leggia il soggetto puro (il sentimento) nelle immaginiestetiche; la religione che l'obbiettìva nelle rappresenta-

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zioni mitiche ponendo un Essere trascendente in cui ilsoggetto empirico si annulli; la filosofia che compie lasintesi riunendo la soggettività e l'oggettività dei Valorinel concetto di Spirito che si svolge come pensiero.

10. – Questo immane sforzo è riuscito? Sì, è riuscitonel senso che doveva. Ha diretto gli occhi degli uominiverso il gran fiume del divenire, e ne discesero l'evolu-zionismo e lo storicismo moderni. Ha indotto la scienzaa intendere le leggi della natura quali modi d'interpreta-zione dell'esperienza unificata in rapporti astratti, comela storia l'unifica e rivive in concreto. Le nuove correntisi affermarono (incominciando dal Feuerbach e dalla«Sinistra» hegeliana) negando Hegel, criticandolo,espurgandolo, riformandolo e a volte convertendolo inun radicale empirismo: ciò che del resto era previsto nelsistema hegeliano. Però, se l'idealismo hegeliano ci hainsegnato a compenetrare la natura col pensiero, ci hapure indotto a rifiutarci di cercare il reale in un'idea chenon si attui in un fatto contingente. La filosofia contem-poranea è per tre quarti filosofia della contingenza. Cene vogliamo persuadere?

Basterebbe istituire un parallelo tra la filosofia dopoHegel e quella prima di Kant per osservare come le duedirezioni del pensiero siano rivolte in senso diametral-mente opposto. Il razionalismo è un'induzione (ciò chefu detto il suo dogmatismo trascendente, la sua metafisi-ca) dal contingente al necessario, dal relativo all'assolu-to, dal divenire molteplice e mutevole all'essere identicoed uno: costruzione analogica, e quindi «impossibile»

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zioni mitiche ponendo un Essere trascendente in cui ilsoggetto empirico si annulli; la filosofia che compie lasintesi riunendo la soggettività e l'oggettività dei Valorinel concetto di Spirito che si svolge come pensiero.

10. – Questo immane sforzo è riuscito? Sì, è riuscitonel senso che doveva. Ha diretto gli occhi degli uominiverso il gran fiume del divenire, e ne discesero l'evolu-zionismo e lo storicismo moderni. Ha indotto la scienzaa intendere le leggi della natura quali modi d'interpreta-zione dell'esperienza unificata in rapporti astratti, comela storia l'unifica e rivive in concreto. Le nuove correntisi affermarono (incominciando dal Feuerbach e dalla«Sinistra» hegeliana) negando Hegel, criticandolo,espurgandolo, riformandolo e a volte convertendolo inun radicale empirismo: ciò che del resto era previsto nelsistema hegeliano. Però, se l'idealismo hegeliano ci hainsegnato a compenetrare la natura col pensiero, ci hapure indotto a rifiutarci di cercare il reale in un'idea chenon si attui in un fatto contingente. La filosofia contem-poranea è per tre quarti filosofia della contingenza. Cene vogliamo persuadere?

Basterebbe istituire un parallelo tra la filosofia dopoHegel e quella prima di Kant per osservare come le duedirezioni del pensiero siano rivolte in senso diametral-mente opposto. Il razionalismo è un'induzione (ciò chefu detto il suo dogmatismo trascendente, la sua metafisi-ca) dal contingente al necessario, dal relativo all'assolu-to, dal divenire molteplice e mutevole all'essere identicoed uno: costruzione analogica, e quindi «impossibile»

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secondo Kant; ridotta poi a sistema deduttivo «moregeometrico» per sussunzione dei contingenti particolarinegli universali necessari. Al razionalismo non interessail contingente, che per esso non è altro che il casuale eva ridotto all'incontro di cause necessarie; queste soleinteressano il realismo prekantiano (il realismo «ideali-sta», il platonismo in genere). Al contrario, il nostroidealismo («realista», dunque!) muove dall'assoluto –dato come semplice condizione a priori e per sè vuotacategoria (necessaria al pensiero) – verso i relativi con-tingenti nei quali si realizza l'essere come divenire attua-le e storico. Ciò che ora importa sono le qualità, le con-crete specificazioni del dato universale, che si chiamapensiero e spirito proprio in omaggio all'esperienza...

S'intende che, come c'è sempre stato un nominalismocritico per frenare i voli del realismo dogmatico, così c'èanche oggi un ontologismo metafisico tendente a libera-re il nostro idealismo dai vincoli dell'esperienza per ob-bedire al segreto bisogno religioso d'ogni filosofia; ma ènella «nostra» esperienza, nella concreta coscienza, chenoi moderni cerchiamo l'Essere, e non fuori di essa.Reale, per noi, è l'esperienza; filosofia è per noi la criti-ca dell'esperienza, che già si propone di non uscirne maitotalmente. Dopo che la critica dello Hume ebbe dimo-strato l'impossibilità razionale di uscire dal soggetto, equella di Kant ebbe ridotto l'Essere trascendente alle esi-genze trascendentali del pensiero in esso presenti (ossiaimmanenti) mutando in un problema critico interno ilproblema ontologico dei razionalisti, si apriva un'èra

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secondo Kant; ridotta poi a sistema deduttivo «moregeometrico» per sussunzione dei contingenti particolarinegli universali necessari. Al razionalismo non interessail contingente, che per esso non è altro che il casuale eva ridotto all'incontro di cause necessarie; queste soleinteressano il realismo prekantiano (il realismo «ideali-sta», il platonismo in genere). Al contrario, il nostroidealismo («realista», dunque!) muove dall'assoluto –dato come semplice condizione a priori e per sè vuotacategoria (necessaria al pensiero) – verso i relativi con-tingenti nei quali si realizza l'essere come divenire attua-le e storico. Ciò che ora importa sono le qualità, le con-crete specificazioni del dato universale, che si chiamapensiero e spirito proprio in omaggio all'esperienza...

S'intende che, come c'è sempre stato un nominalismocritico per frenare i voli del realismo dogmatico, così c'èanche oggi un ontologismo metafisico tendente a libera-re il nostro idealismo dai vincoli dell'esperienza per ob-bedire al segreto bisogno religioso d'ogni filosofia; ma ènella «nostra» esperienza, nella concreta coscienza, chenoi moderni cerchiamo l'Essere, e non fuori di essa.Reale, per noi, è l'esperienza; filosofia è per noi la criti-ca dell'esperienza, che già si propone di non uscirne maitotalmente. Dopo che la critica dello Hume ebbe dimo-strato l'impossibilità razionale di uscire dal soggetto, equella di Kant ebbe ridotto l'Essere trascendente alle esi-genze trascendentali del pensiero in esso presenti (ossiaimmanenti) mutando in un problema critico interno ilproblema ontologico dei razionalisti, si apriva un'èra

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unicamente destinata a considerare i valori nella contin-genza dei fatti di esperienza, e il fenomenismo o positi-vismo del secolo XIX° non fu che un aspetto particolaredi ciò che più universalmente fu l'hegelismo.

Ho sempre udito con stupore, dalla bocca dei nostrihegeliani, il vanto d'aver ucciso essi il materialismo, solperchè han combattuto il positivismo. Ma il materiali-smo appartiene all'antica mentalità illuminista, essendouna di quelle forme di sostanzialismo che i precritici in-glesi e il Kant avevan già superato; laddove l'empirismoo positivismo contemporaneo è un relativismo fenome-nico di tipo kantiano che, dichiarata inconoscibile teore-ticamente la sostanza e la causa assoluta o essere in sèdei fenomeni, e conoscibili soltanto questi, si propone dinon trascendere il dato e fatto dell'esperienza, propriocome farebbe un hegeliano coerente. Allora, la cono-scenza si obbiettìva solo in quanto traduce l'esperienzaempirica in rapporti generali universalmente validi, otte-nuti per astrazione di elementi e di costanti verificabiliinduttivamente.

Di qui al prammatismo, e da questo all'intuizionismoè breve il passo, che l'«ignorabimus» di Dubois-Rey-mond potè affrettare, ma che tutta la critica della scienzafatta da scienziati (dal Maxwell al Poincaré) già di persè calcava come necessario sviluppo dello stesso positi-vismo. Bergson è l'ultimo accento sull'indirizzo comtia-no: quell'indirizzo chiaro concreto positivo dello spiritofrancese, che segna il passo al soggettivismo posthege-liano, con minor ingegno ma con maggior intelligenza e

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unicamente destinata a considerare i valori nella contin-genza dei fatti di esperienza, e il fenomenismo o positi-vismo del secolo XIX° non fu che un aspetto particolaredi ciò che più universalmente fu l'hegelismo.

Ho sempre udito con stupore, dalla bocca dei nostrihegeliani, il vanto d'aver ucciso essi il materialismo, solperchè han combattuto il positivismo. Ma il materiali-smo appartiene all'antica mentalità illuminista, essendouna di quelle forme di sostanzialismo che i precritici in-glesi e il Kant avevan già superato; laddove l'empirismoo positivismo contemporaneo è un relativismo fenome-nico di tipo kantiano che, dichiarata inconoscibile teore-ticamente la sostanza e la causa assoluta o essere in sèdei fenomeni, e conoscibili soltanto questi, si propone dinon trascendere il dato e fatto dell'esperienza, propriocome farebbe un hegeliano coerente. Allora, la cono-scenza si obbiettìva solo in quanto traduce l'esperienzaempirica in rapporti generali universalmente validi, otte-nuti per astrazione di elementi e di costanti verificabiliinduttivamente.

Di qui al prammatismo, e da questo all'intuizionismoè breve il passo, che l'«ignorabimus» di Dubois-Rey-mond potè affrettare, ma che tutta la critica della scienzafatta da scienziati (dal Maxwell al Poincaré) già di persè calcava come necessario sviluppo dello stesso positi-vismo. Bergson è l'ultimo accento sull'indirizzo comtia-no: quell'indirizzo chiaro concreto positivo dello spiritofrancese, che segna il passo al soggettivismo posthege-liano, con minor ingegno ma con maggior intelligenza e

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coerenza delle correnti affini del praticismo anglo ame-ricano o del volontarismo e irrazionalismo che in Ger-mania metton capo alla filosofia del «come se» (Veihin-ger).

Reale è l'esperienza nel suo continuo farsi, nello svol-gersi sempre nuovo della sua attuale «durata»: l'espe-rienza dunque come soggetto, «spirito», «slancio vita-le». Questa realtà la possiamo afferrare sol per intuizio-ne diretta; l'intelletto invece non fa che tradurla in sche-mi astratti praticamente utili e in abbreviazioni comodeper la memoria obbiettiva e la previsione dei fatti. Leleggi scientifiche sono ipotesi di comodo, strumenti dilavoro teoretico buone in quanto applicabili per organiz-zare l'esperienza e per intervenire in natura.

In mezzo a questo nominalismo si colloca la filosofiadella contingenza nel suo più stretto senso, quale fu ri-velata a sè stessa nei brevi semplici scritti del Boutroux;e diviene il centro teoretico della speculazione diretta alsensibile, verso il quale s'avviavano, per chi ben guardi,anche le scuole tedesche del secondo Ottocento che nesembrano più distanti, come da una parte l'empiriocriti-cismo e la «filosofia dell'immanenza», e dall'altra tuttoquel soggettivismo che si equilibrò nella «filosofia deivalori» e intese il conoscere come un mezzo del volere el'oggetto come uno dei modi dell'attività spirituale.

Quello che realmente oggi importa è il contingente,l'attuale, l'individuale, che gli schemi logici impoveri-scono, uccidendolo nella oggettività di natura: il contin-gente, ricco delle sue qualità sempre nuove e originali,

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coerenza delle correnti affini del praticismo anglo ame-ricano o del volontarismo e irrazionalismo che in Ger-mania metton capo alla filosofia del «come se» (Veihin-ger).

Reale è l'esperienza nel suo continuo farsi, nello svol-gersi sempre nuovo della sua attuale «durata»: l'espe-rienza dunque come soggetto, «spirito», «slancio vita-le». Questa realtà la possiamo afferrare sol per intuizio-ne diretta; l'intelletto invece non fa che tradurla in sche-mi astratti praticamente utili e in abbreviazioni comodeper la memoria obbiettiva e la previsione dei fatti. Leleggi scientifiche sono ipotesi di comodo, strumenti dilavoro teoretico buone in quanto applicabili per organiz-zare l'esperienza e per intervenire in natura.

In mezzo a questo nominalismo si colloca la filosofiadella contingenza nel suo più stretto senso, quale fu ri-velata a sè stessa nei brevi semplici scritti del Boutroux;e diviene il centro teoretico della speculazione diretta alsensibile, verso il quale s'avviavano, per chi ben guardi,anche le scuole tedesche del secondo Ottocento che nesembrano più distanti, come da una parte l'empiriocriti-cismo e la «filosofia dell'immanenza», e dall'altra tuttoquel soggettivismo che si equilibrò nella «filosofia deivalori» e intese il conoscere come un mezzo del volere el'oggetto come uno dei modi dell'attività spirituale.

Quello che realmente oggi importa è il contingente,l'attuale, l'individuale, che gli schemi logici impoveri-scono, uccidendolo nella oggettività di natura: il contin-gente, ricco delle sue qualità sempre nuove e originali,

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che l'intelletto riduce a rapporti quantitativi per adeguar-lo in misure convenzionali; il contingente, che non èl'incontro casuale di cause necessarie, ma si attua ognivolta con caratteri irreducibili di originalità e libertà, te-stimone della creatività dello spirito nella sua continuitàsempre diversa. Ciò che dicesi natura, «oggetto» dellascienza, è tuttavia spirito, soggetto che si depotenzia ob-biettivandosi, o meglio automatizzandosi e facendosimateria col rinunciare a ciò che v'ha di sempre nuovo elibero nell'individuale esperienza per fissarsi nelle ripe-tizioni e somiglianze uguagliatrici di fatti e caratteri co-stanti...

Ma non diversamente parlano, in fondo, i nuovi hege-liani, che intendono l'oggetto come una posizione astrat-ta del pensiero, e concludono che il reale è il farsi attua-le, il costituirsi individuale e originale dello spirito. Per-ciò anche il nuovo hegelismo sfocia nello storicismo enell'attualismo, che sono perfettamente conformiall'indirizzo del nostro tempo.

Tuttavia, se reale è l'esperienza, il contingente storicoe di fatto, anzi l'attualità dell'atto, è altrettanto illogicoinferirne oggi la realtà di un soggetto, l'essere dello spi-rito, quanto lo era ieri indurre alla realtà dell'oggetto edella natura. Il contingente è l'esistere sensibile: l'essere,soggettivo od oggettivo che sia, lo trascende sempre.Che diritto abbiamo di parlare di soggetto e di oggetto,ossia che diritto abbiamo di pensare? Che prova trovia-mo nel sensibile dei valori trascendentali, se non la pro-va del valore sensibile stesso, del valore estetico?

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che l'intelletto riduce a rapporti quantitativi per adeguar-lo in misure convenzionali; il contingente, che non èl'incontro casuale di cause necessarie, ma si attua ognivolta con caratteri irreducibili di originalità e libertà, te-stimone della creatività dello spirito nella sua continuitàsempre diversa. Ciò che dicesi natura, «oggetto» dellascienza, è tuttavia spirito, soggetto che si depotenzia ob-biettivandosi, o meglio automatizzandosi e facendosimateria col rinunciare a ciò che v'ha di sempre nuovo elibero nell'individuale esperienza per fissarsi nelle ripe-tizioni e somiglianze uguagliatrici di fatti e caratteri co-stanti...

Ma non diversamente parlano, in fondo, i nuovi hege-liani, che intendono l'oggetto come una posizione astrat-ta del pensiero, e concludono che il reale è il farsi attua-le, il costituirsi individuale e originale dello spirito. Per-ciò anche il nuovo hegelismo sfocia nello storicismo enell'attualismo, che sono perfettamente conformiall'indirizzo del nostro tempo.

Tuttavia, se reale è l'esperienza, il contingente storicoe di fatto, anzi l'attualità dell'atto, è altrettanto illogicoinferirne oggi la realtà di un soggetto, l'essere dello spi-rito, quanto lo era ieri indurre alla realtà dell'oggetto edella natura. Il contingente è l'esistere sensibile: l'essere,soggettivo od oggettivo che sia, lo trascende sempre.Che diritto abbiamo di parlare di soggetto e di oggetto,ossia che diritto abbiamo di pensare? Che prova trovia-mo nel sensibile dei valori trascendentali, se non la pro-va del valore sensibile stesso, del valore estetico?

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Son questi i problemi che si agiteranno, sotto variaspetti, nelle pagine seguenti. Esse possono presentarequalche difficoltà per il lettore non filosofo – lettoreignaro dei tormenti e delle gioie che forman la nostrapassione, della disperazione di certi istanti in cui per noila realtà si dissolve affondandoci nel terrore del nulla, edella sovrana gioia di risalire a un'unità d'intelligentecoerenza e di penetrante certezza –; mentre poco m'illu-do di richiamar l'attenzione dei filosofi, come spesso av-viene quando non sanno in che scuola classificare unautore che prende a maestri specialmente i suoi antago-nisti e più ama ed ammira coloro, di cui meno si fa ser-vo e seguace.

Nondimeno, esprimere la propria opinione ed offrire irisultati delle proprie ricerche sui problemi ancor apertidella filosofia, non è sol questione di soddisfazione per-sonale e di vanissima gloria. Per chi professa filosofiada una cattedra a inesperti alunni, è anche e principal-mente un elementare dovere, il dovere di mettersi incondizione di venir giudicato dagli studiosi; tanto piùanzi, quanto più modesto e men noto è l'autore.

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Son questi i problemi che si agiteranno, sotto variaspetti, nelle pagine seguenti. Esse possono presentarequalche difficoltà per il lettore non filosofo – lettoreignaro dei tormenti e delle gioie che forman la nostrapassione, della disperazione di certi istanti in cui per noila realtà si dissolve affondandoci nel terrore del nulla, edella sovrana gioia di risalire a un'unità d'intelligentecoerenza e di penetrante certezza –; mentre poco m'illu-do di richiamar l'attenzione dei filosofi, come spesso av-viene quando non sanno in che scuola classificare unautore che prende a maestri specialmente i suoi antago-nisti e più ama ed ammira coloro, di cui meno si fa ser-vo e seguace.

Nondimeno, esprimere la propria opinione ed offrire irisultati delle proprie ricerche sui problemi ancor apertidella filosofia, non è sol questione di soddisfazione per-sonale e di vanissima gloria. Per chi professa filosofiada una cattedra a inesperti alunni, è anche e principal-mente un elementare dovere, il dovere di mettersi incondizione di venir giudicato dagli studiosi; tanto piùanzi, quanto più modesto e men noto è l'autore.

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II.IL SOGGETTO E L'ESPERIENZA

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II.IL SOGGETTO E L'ESPERIENZA

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1. – Se conveniamo di chiamare col nome di «espe-rienza» i contenuti del nostro conoscere, e quindi lostesso conoscere in quanto divien contenuto di nuovi atticonoscitivi, l'esperienza in fondo è l'esser presente, l'esi-stere sensibilmente, sia tal sensibile quell'albero chefrondeggia al vento o questa pagina scritta; e quali chesiano i valori pratici o teoretici di questi, che nel pensar-li divengono gli «oggetti» del pensiero, o meglio i suoi«dati» rappresentativi di quei valori.

Facciamo la stessa distinzione gnoseologica col dire,che isolando un momento della nostra esistenza, trovia-mo sempre qualcosa di dato a posteriori, che ora noi va-lutiamo e pensiamo. E come i nuovi valori che si gene-rano col pensiero s'aggiungono all'esperienza, cosìl'esperienza data implica naturalmente il pensiero pensa-to. Tali valori di fatto, oggettivi e soggettivi, sono peròimpliciti in un sensibile (come avviene nella percezione)che li rappresenta agli effetti pratici e teoretici del pen-siero o giudizio esplicito che vi s'aggiunge: quel verderappresenta un albero, questa parola rappresenta un'idea.Voglio dire, che qualunque valore, per quanto generatonel pensiero e per quanto trascendente il sensibile – noi,l'esperienza, la trascendiamo in ogni istante, ogni volta

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1. – Se conveniamo di chiamare col nome di «espe-rienza» i contenuti del nostro conoscere, e quindi lostesso conoscere in quanto divien contenuto di nuovi atticonoscitivi, l'esperienza in fondo è l'esser presente, l'esi-stere sensibilmente, sia tal sensibile quell'albero chefrondeggia al vento o questa pagina scritta; e quali chesiano i valori pratici o teoretici di questi, che nel pensar-li divengono gli «oggetti» del pensiero, o meglio i suoi«dati» rappresentativi di quei valori.

Facciamo la stessa distinzione gnoseologica col dire,che isolando un momento della nostra esistenza, trovia-mo sempre qualcosa di dato a posteriori, che ora noi va-lutiamo e pensiamo. E come i nuovi valori che si gene-rano col pensiero s'aggiungono all'esperienza, cosìl'esperienza data implica naturalmente il pensiero pensa-to. Tali valori di fatto, oggettivi e soggettivi, sono peròimpliciti in un sensibile (come avviene nella percezione)che li rappresenta agli effetti pratici e teoretici del pen-siero o giudizio esplicito che vi s'aggiunge: quel verderappresenta un albero, questa parola rappresenta un'idea.Voglio dire, che qualunque valore, per quanto generatonel pensiero e per quanto trascendente il sensibile – noi,l'esperienza, la trascendiamo in ogni istante, ogni volta

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che vogliamo qualcosa –, esiste come dato, e fatto sol-tanto in un'esistenza sensibile, in un'esperienza, conte-nuto delle nuove forme conoscitive.

La filosofia ha dunque avuto torto quando ha conclu-so, che l'immediata sensazione è senza valore, è un nonessere, perchè non è ancora o non è più idea. Prima ditutto, essa diviene non essere proprio quando divieneidea mediata e opposta all'idea di essere (come dover es-sere): quando cioè non è più sensazione. In secondo luo-go, l'esistere sensibile possiede, relativisticamente, tutti ivalori rappresentativi, e li conserva implicitamente ossiali attua. Infine, se si obbietta che tali valori, essendo tuttiideali, e soltanto rappresentati dai sensibili ma prodottidal pensiero conoscente, si servono del sensibile comesemplice mezzo e strumento privo per sè di alcun valo-re, bisogna ricordare che tutti i valori sono veramentetali se sono reali, e son reali se esistono; e per noi nonpossono esistere che sensibilmente: l'esistenza sensibilediviene allora l'unica prova che qualcosa esiste realmen-te e non metaforicamente, perchè anche il pensiero nonesiste che in questo modo. La sensazione implica tutti ivalori possibili – e quindi ne condiziona, naturalistica-mente, il pensiero – perchè, metafisicamente parlando,tutto l'essere converge ad attuarsi in quella particolarsensazione contingente, dalla quale si può tentar di risa-lire conoscitivamente verso il tutto. Se i valori emergen-ti nella lor universalità e necessità con la coscienza, nonfossero in tal senso innati, sarebber essi le «ombre» e lasensazione l'unico reale!

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che vogliamo qualcosa –, esiste come dato, e fatto sol-tanto in un'esistenza sensibile, in un'esperienza, conte-nuto delle nuove forme conoscitive.

La filosofia ha dunque avuto torto quando ha conclu-so, che l'immediata sensazione è senza valore, è un nonessere, perchè non è ancora o non è più idea. Prima ditutto, essa diviene non essere proprio quando divieneidea mediata e opposta all'idea di essere (come dover es-sere): quando cioè non è più sensazione. In secondo luo-go, l'esistere sensibile possiede, relativisticamente, tutti ivalori rappresentativi, e li conserva implicitamente ossiali attua. Infine, se si obbietta che tali valori, essendo tuttiideali, e soltanto rappresentati dai sensibili ma prodottidal pensiero conoscente, si servono del sensibile comesemplice mezzo e strumento privo per sè di alcun valo-re, bisogna ricordare che tutti i valori sono veramentetali se sono reali, e son reali se esistono; e per noi nonpossono esistere che sensibilmente: l'esistenza sensibilediviene allora l'unica prova che qualcosa esiste realmen-te e non metaforicamente, perchè anche il pensiero nonesiste che in questo modo. La sensazione implica tutti ivalori possibili – e quindi ne condiziona, naturalistica-mente, il pensiero – perchè, metafisicamente parlando,tutto l'essere converge ad attuarsi in quella particolarsensazione contingente, dalla quale si può tentar di risa-lire conoscitivamente verso il tutto. Se i valori emergen-ti nella lor universalità e necessità con la coscienza, nonfossero in tal senso innati, sarebber essi le «ombre» e lasensazione l'unico reale!

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Per noi, la sensazione è il solo concreto reale, da cuila conoscenza astrae – e si astrae – per analisi, comemeglio vedremo. Ma quando la sintesi (a priori) ottenutaper mezzo di quest'analisi vuol ritrovare il concreto,vuol essere una nozione concreta teoretica o vuol attuar-si praticamente, deve ritrovare la sua unità col sensibile:infatti diciamo ch'è concreto quel pensiero che unifical'universalità del valore con l'individualità del fatto (lafilosofia alla storia), e che realmente è pratico quel sog-getto che si attua oggettivamente, vale a dire sensibil-mente, chè soltanto nella sensazione soggetto e oggettocoincidono: quel verde è un verde sentito.

In luogo di «sentito», è più proprio, a questo punto,dire «intuìto». Intuizione e sentimento indican lo stessosoggetto astratto dal suo oggetto; ma il primo è un ter-mine gnoseologico, è il soggetto sensibile riguardato dalpunto di vista noetico – la natura soggettiva del cono-scere che diviene oggettivo nell'idea –; il secondo è ter-mine psicologico, designando la natura soggettiva diquel rapporto fra l'esistere e il dover esistere (essere),che si dice volere. In altri termini, il sentimento è provo-cato dallo stimolo attuale, ma diretto ad altro che si at-tuerà a traverso un atto pratico (per es., il piacere di que-sta rosa veduta è diretto al suo profumo); l'intuizione èinvece il sentimento dello stimolo sensibile, il piaceredel colore in quanto tale, il sentimento del sensibile.Perciò la chiameremo intuizione estetica: ma intantoessa è anche la natura conoscitiva del pensiero prima de'suoi valori pensati; e quindi, come ha profondamente

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Per noi, la sensazione è il solo concreto reale, da cuila conoscenza astrae – e si astrae – per analisi, comemeglio vedremo. Ma quando la sintesi (a priori) ottenutaper mezzo di quest'analisi vuol ritrovare il concreto,vuol essere una nozione concreta teoretica o vuol attuar-si praticamente, deve ritrovare la sua unità col sensibile:infatti diciamo ch'è concreto quel pensiero che unifical'universalità del valore con l'individualità del fatto (lafilosofia alla storia), e che realmente è pratico quel sog-getto che si attua oggettivamente, vale a dire sensibil-mente, chè soltanto nella sensazione soggetto e oggettocoincidono: quel verde è un verde sentito.

In luogo di «sentito», è più proprio, a questo punto,dire «intuìto». Intuizione e sentimento indican lo stessosoggetto astratto dal suo oggetto; ma il primo è un ter-mine gnoseologico, è il soggetto sensibile riguardato dalpunto di vista noetico – la natura soggettiva del cono-scere che diviene oggettivo nell'idea –; il secondo è ter-mine psicologico, designando la natura soggettiva diquel rapporto fra l'esistere e il dover esistere (essere),che si dice volere. In altri termini, il sentimento è provo-cato dallo stimolo attuale, ma diretto ad altro che si at-tuerà a traverso un atto pratico (per es., il piacere di que-sta rosa veduta è diretto al suo profumo); l'intuizione èinvece il sentimento dello stimolo sensibile, il piaceredel colore in quanto tale, il sentimento del sensibile.Perciò la chiameremo intuizione estetica: ma intantoessa è anche la natura conoscitiva del pensiero prima de'suoi valori pensati; e quindi, come ha profondamente

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Page 58: E-book campione Liber Liber · sul pensiero teoretico; al punto che l'idealismo, il quale logicamente si dovrebbe contentar d'affermare che l'empirico, il sensibile, la materia insomma,

veduto il Kant, la possibilità o condizione dei giudizi ri-flettenti, dei giudizi cioè oggettivi, che valutano i sensi-bili in quanto tali, riunendoli nelle leggi di natura.

L'intuizione non va dunque intesa come un primogrado della conoscenza teoretica, e nemmeno come «co-noscenza dell'individuale», se conoscere significa ogget-tivare i contenuti intuitivi unificandoli nelle forme uni-versali (anche se individuale è il contenuto!), e prima ditutto in quelle spazio temporali. Altro è dire «conoscen-za intuitiva», ossia, kantianamente, conoscenza formalee a priori di contenuti puramente intuitivi (per es. mate-matica), altro è dire intuizione conoscitiva, che sarebbeuna contraddizione in termini. No: intuire è partecipareimmediatamente dell'essere, sentirlo come esistenza,anzi esisterlo a quel modo, sentendo. È ben vero, ripeto,che il termine «intuizione» è gnoseologico, ma sol inquanto intuire è condizione (astratta, ossia «naturale»)del conoscere. Mentre che per conoscere ci vuole unsoggetto che oppone a sè il suo oggetto, per es. perce-pendo quell'albero come una cosa fuori di noi, nellapura intuizione soggetto e oggetto costituiscono un solovalore esistenziale: chi intuisce è quella stessa sensazio-ne che viene intuita, dove l'esistere non è che certezza.

2. – Fu proprio l'urgenza di distinguere l'intuizionedalla conoscenza, e di distinguerla radicalmente, quellache spinse l'intuizionismo francese all'estremo opposto,dell'intender l'intuizione come la sola vera conoscenza:vera perchè reale possesso della cosa, immedesimazione

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veduto il Kant, la possibilità o condizione dei giudizi ri-flettenti, dei giudizi cioè oggettivi, che valutano i sensi-bili in quanto tali, riunendoli nelle leggi di natura.

L'intuizione non va dunque intesa come un primogrado della conoscenza teoretica, e nemmeno come «co-noscenza dell'individuale», se conoscere significa ogget-tivare i contenuti intuitivi unificandoli nelle forme uni-versali (anche se individuale è il contenuto!), e prima ditutto in quelle spazio temporali. Altro è dire «conoscen-za intuitiva», ossia, kantianamente, conoscenza formalee a priori di contenuti puramente intuitivi (per es. mate-matica), altro è dire intuizione conoscitiva, che sarebbeuna contraddizione in termini. No: intuire è partecipareimmediatamente dell'essere, sentirlo come esistenza,anzi esisterlo a quel modo, sentendo. È ben vero, ripeto,che il termine «intuizione» è gnoseologico, ma sol inquanto intuire è condizione (astratta, ossia «naturale»)del conoscere. Mentre che per conoscere ci vuole unsoggetto che oppone a sè il suo oggetto, per es. perce-pendo quell'albero come una cosa fuori di noi, nellapura intuizione soggetto e oggetto costituiscono un solovalore esistenziale: chi intuisce è quella stessa sensazio-ne che viene intuita, dove l'esistere non è che certezza.

2. – Fu proprio l'urgenza di distinguere l'intuizionedalla conoscenza, e di distinguerla radicalmente, quellache spinse l'intuizionismo francese all'estremo opposto,dell'intender l'intuizione come la sola vera conoscenza:vera perchè reale possesso della cosa, immedesimazione

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del soggetto nell'esistere immediato, presenzialitàdell'oggetto nel soggetto. Nulla di male se si convenissedi chiamare conoscenza l'intuizione, il presentarsi di ciòch'esiste contingentemente in una sensazione come tale,e quindi l'unità esistenziale di conoscenza e realtà; mabisognerebbe trovare un diverso termine per indicare ilconoscere teoretico e pratico – per es. il termine «giudi-zio» o «valutazione» –, che secondo quel nuovo nomi-nalismo non sarebbe altro che il sovrapporsi d'un'astrattae prammatistica simbologia verbale al concreto cono-scere intuitivo: mentre io credo che il pensiero conosci-tivo produca, nel rapporto di soggetto a oggetto, i valoriideali, trascendenti l'empirico esistere sensibile, che sen-za di esso pensiero non s'attuerebber mai. Se l'intuizionerimanesse sensazione, esistenza dell'essere com'è, nondiverrebbe mai intuizione anche del sovrasensibile nelsensibile, intuizione dell'assoluto, esistenza (e prova) deldover essere come valore. Infatti l'intuizione – vale adire la sensazione riguardata dal punto di vista della co-noscenza – è prima e dopo il pensiero conoscitivo, comel'unità è prima e dopo le analisi e valutazioni teoretichee pratiche, prima come condizione, dopo come risultatoreale.

Quanto all'odierno idealismo, gli siamo più vicini diquel che possa sembrare, sebbene sopra un piano diver-so che capovolge le posizioni, come spesso accade trafilosofie molto affini. L'idealismo non vuol uscire dalpensiero pensante: se noi ora parliamo della sensazione,esso dice, questa non è che un'idea, e un'idea astratta

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del soggetto nell'esistere immediato, presenzialitàdell'oggetto nel soggetto. Nulla di male se si convenissedi chiamare conoscenza l'intuizione, il presentarsi di ciòch'esiste contingentemente in una sensazione come tale,e quindi l'unità esistenziale di conoscenza e realtà; mabisognerebbe trovare un diverso termine per indicare ilconoscere teoretico e pratico – per es. il termine «giudi-zio» o «valutazione» –, che secondo quel nuovo nomi-nalismo non sarebbe altro che il sovrapporsi d'un'astrattae prammatistica simbologia verbale al concreto cono-scere intuitivo: mentre io credo che il pensiero conosci-tivo produca, nel rapporto di soggetto a oggetto, i valoriideali, trascendenti l'empirico esistere sensibile, che sen-za di esso pensiero non s'attuerebber mai. Se l'intuizionerimanesse sensazione, esistenza dell'essere com'è, nondiverrebbe mai intuizione anche del sovrasensibile nelsensibile, intuizione dell'assoluto, esistenza (e prova) deldover essere come valore. Infatti l'intuizione – vale adire la sensazione riguardata dal punto di vista della co-noscenza – è prima e dopo il pensiero conoscitivo, comel'unità è prima e dopo le analisi e valutazioni teoretichee pratiche, prima come condizione, dopo come risultatoreale.

Quanto all'odierno idealismo, gli siamo più vicini diquel che possa sembrare, sebbene sopra un piano diver-so che capovolge le posizioni, come spesso accade trafilosofie molto affini. L'idealismo non vuol uscire dalpensiero pensante: se noi ora parliamo della sensazione,esso dice, questa non è che un'idea, e un'idea astratta

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perchè posta come qualcosa in sè, posta come non io dalsoggetto pensante che si nega per oggettivare il suo og-getto. Di concreto non c'è che il pensiero stesso, concre-to perchè sintesi di soggetto e oggetto che si definisconoper reciproca mediazione, prius logico rispetto a tutte lesue idee, e perciò anche prius ontologico e metafisico ri-spetto a tutti gli oggetti e soggetti particolari in cui si at-tua.

Giustissimo. Ma ciò, se non erro, significa che il pen-siero, «concreto» in sè stesso – non soltanto perchè datonecessario. punto di partenza di tutte le idee, ma ancheperchè unità di soggetto pensante e di oggetto pensato,si consideri questa come una sintesi di fatto, una sua es-senza o «natura», oppure come la necessaria sintesi disoggetto e oggetto nell'autocoscienza che riconosce suoigli oggetti conosciuti –, è «astratto», o meglio astraenterispetto alle idee che produce nelle operazioni conosciti-ve, quando si consideri il valore d'una di queste idee persè stessa, come l'idea stessa di sensazione.

Ripeto: la conoscenza, concreta come pensiero pen-sante (si può dire, natura del pensiero? non è questa na-tura un'idea anch'essa?), ne astrae per costruire i suoioggetti (si può dire, i suoi valori, e non son questi, inquanto oggetti, la realtà o natura?). Di fatti, il pensieroteoretico vuol giungere all'Essere assoluto, alla «cosa insè», e, in generale, ci dà un oggetto senza soggetto,quantunque soggettivo come pensiero; e il pensiero pra-tico vuol giungere al soggetto assoluto, allo Spirito, e cidà un soggetto senz'oggetto, quantunque oggettivo nel

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perchè posta come qualcosa in sè, posta come non io dalsoggetto pensante che si nega per oggettivare il suo og-getto. Di concreto non c'è che il pensiero stesso, concre-to perchè sintesi di soggetto e oggetto che si definisconoper reciproca mediazione, prius logico rispetto a tutte lesue idee, e perciò anche prius ontologico e metafisico ri-spetto a tutti gli oggetti e soggetti particolari in cui si at-tua.

Giustissimo. Ma ciò, se non erro, significa che il pen-siero, «concreto» in sè stesso – non soltanto perchè datonecessario. punto di partenza di tutte le idee, ma ancheperchè unità di soggetto pensante e di oggetto pensato,si consideri questa come una sintesi di fatto, una sua es-senza o «natura», oppure come la necessaria sintesi disoggetto e oggetto nell'autocoscienza che riconosce suoigli oggetti conosciuti –, è «astratto», o meglio astraenterispetto alle idee che produce nelle operazioni conosciti-ve, quando si consideri il valore d'una di queste idee persè stessa, come l'idea stessa di sensazione.

Ripeto: la conoscenza, concreta come pensiero pen-sante (si può dire, natura del pensiero? non è questa na-tura un'idea anch'essa?), ne astrae per costruire i suoioggetti (si può dire, i suoi valori, e non son questi, inquanto oggetti, la realtà o natura?). Di fatti, il pensieroteoretico vuol giungere all'Essere assoluto, alla «cosa insè», e, in generale, ci dà un oggetto senza soggetto,quantunque soggettivo come pensiero; e il pensiero pra-tico vuol giungere al soggetto assoluto, allo Spirito, e cidà un soggetto senz'oggetto, quantunque oggettivo nel

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valore perchè in sè. L'uno perviene così alla necessitàdella legge naturale, l'altro all'obbligatorietà della normamorale.

Allorquando però riflettiamo su questi valori conosci-tivi e risaliamo con l'idealismo al pensiero che li genera,troviamo che esso pensiero, in concreto, è attività espontaneità: parole, dal Kant in poi, pregnanti di quelsignificato arcanamente mistico e spiritualistico, ches'era dovuto trasportare dal mondo «esterno» del razio-nalismo a quello umano dell'immanentismo. Ma sponta-neità e attività non sono i caratteri coi quali definiamopsicologicamente (ossia, naturalisticamente) il senti-mento e il volere, vale a dire il soggetto empirico, il sog-getto sensibile? Dove e quando, questo soggetto, se nonnell'unità reale ch'è il nostro individuo in ciascuna sen-sazione, anima e corpo, io e mondo, natura d'ogni valoree valore primo, intuitivo, della natura?

O meraviglia! L'attività formale del pensiero, che,messa in rapporto (conoscitivo) co' suoi contenuti, de-termina tutti i valori trascendenti il sensibile, è dunqueessa medesima concreta soltanto nella sensibilità, entrocui sorge come spontaneità e attività vivente – carattericoi quali indichiamo l'esperienza intuitiva del nostro esi-stere, il sentire e il volere – e sulla quale reagisce finali-sticamente. E come reagirebbe, del resto, come attuereb-be i suoi fini, se non di nuovo per mezzo d'un sensibile?determinando «albero» quel verde, «bene» codesto atto,«vera» questa parola? Il vero e il bene, i valori cioè delpensiero puro, sarebber essi, proprio, gli astratti, se non

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valore perchè in sè. L'uno perviene così alla necessitàdella legge naturale, l'altro all'obbligatorietà della normamorale.

Allorquando però riflettiamo su questi valori conosci-tivi e risaliamo con l'idealismo al pensiero che li genera,troviamo che esso pensiero, in concreto, è attività espontaneità: parole, dal Kant in poi, pregnanti di quelsignificato arcanamente mistico e spiritualistico, ches'era dovuto trasportare dal mondo «esterno» del razio-nalismo a quello umano dell'immanentismo. Ma sponta-neità e attività non sono i caratteri coi quali definiamopsicologicamente (ossia, naturalisticamente) il senti-mento e il volere, vale a dire il soggetto empirico, il sog-getto sensibile? Dove e quando, questo soggetto, se nonnell'unità reale ch'è il nostro individuo in ciascuna sen-sazione, anima e corpo, io e mondo, natura d'ogni valoree valore primo, intuitivo, della natura?

O meraviglia! L'attività formale del pensiero, che,messa in rapporto (conoscitivo) co' suoi contenuti, de-termina tutti i valori trascendenti il sensibile, è dunqueessa medesima concreta soltanto nella sensibilità, entrocui sorge come spontaneità e attività vivente – carattericoi quali indichiamo l'esperienza intuitiva del nostro esi-stere, il sentire e il volere – e sulla quale reagisce finali-sticamente. E come reagirebbe, del resto, come attuereb-be i suoi fini, se non di nuovo per mezzo d'un sensibile?determinando «albero» quel verde, «bene» codesto atto,«vera» questa parola? Il vero e il bene, i valori cioè delpensiero puro, sarebber essi, proprio, gli astratti, se non

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si realizzassero in esistenze. Il pensiero, dico, astraendoin quanto òpera per distinzione e analisi dell'esperienza,concretizza le sue idee ogni volta che le relativizzaall'esperienza – le concettualizza, si potrebbe dire –,come attua i suoi fini ogni volta che li realizza sensibil-mente.

Naturalmente bisogna intenderci bene sul significatocol quale adoperiamo le parole. Per l'idealismo, «con-creto» e «reale» sono termini che vengono a coincidere.Anche per noi: ma il primo riguarda la natura dei conte-nuti conoscitivi – nel nostro caso, la natura del pensierosu cui riflettiamo, che per me è sensibile –; il secondoriguarda il valore dell'atto conoscitivo – e pertanto il va-lore della nostra attuale riflessione – che per l'idealismo,giustamente, è pensiero. Incontriamo dunque il nodoche dovremo sciogliere, formato dall'interferire di dueproblemi, l'uno sulla natura del valore, l'altro sul valoredel concetto di natura come esistenza. Sensazione e pen-siero conoscitivo sono i due capi di tal nodo, che la spa-da affilata della fede nel Soggetto puro come Pensieroassoluto può recider d'un colpo, ma soltanto la pazienzaobbiettiva e disinteressata può sciogliere teoreticamente.

3. – Ma prima di tutto, che cos'è il «soggetto»? Que-sta domanda, teoretica e scientifica, induce all'errore divoler determinare il soggetto come un qualche cosa,come un... oggetto, su l'analogia della conoscenza og-gettiva. Errore (disvalore teoretico), che può aver benis-simo un valore pratico, almeno temporaneo fin ch'io non

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si realizzassero in esistenze. Il pensiero, dico, astraendoin quanto òpera per distinzione e analisi dell'esperienza,concretizza le sue idee ogni volta che le relativizzaall'esperienza – le concettualizza, si potrebbe dire –,come attua i suoi fini ogni volta che li realizza sensibil-mente.

Naturalmente bisogna intenderci bene sul significatocol quale adoperiamo le parole. Per l'idealismo, «con-creto» e «reale» sono termini che vengono a coincidere.Anche per noi: ma il primo riguarda la natura dei conte-nuti conoscitivi – nel nostro caso, la natura del pensierosu cui riflettiamo, che per me è sensibile –; il secondoriguarda il valore dell'atto conoscitivo – e pertanto il va-lore della nostra attuale riflessione – che per l'idealismo,giustamente, è pensiero. Incontriamo dunque il nodoche dovremo sciogliere, formato dall'interferire di dueproblemi, l'uno sulla natura del valore, l'altro sul valoredel concetto di natura come esistenza. Sensazione e pen-siero conoscitivo sono i due capi di tal nodo, che la spa-da affilata della fede nel Soggetto puro come Pensieroassoluto può recider d'un colpo, ma soltanto la pazienzaobbiettiva e disinteressata può sciogliere teoreticamente.

3. – Ma prima di tutto, che cos'è il «soggetto»? Que-sta domanda, teoretica e scientifica, induce all'errore divoler determinare il soggetto come un qualche cosa,come un... oggetto, su l'analogia della conoscenza og-gettiva. Errore (disvalore teoretico), che può aver benis-simo un valore pratico, almeno temporaneo fin ch'io non

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Page 63: E-book campione Liber Liber · sul pensiero teoretico; al punto che l'idealismo, il quale logicamente si dovrebbe contentar d'affermare che l'empirico, il sensibile, la materia insomma,

riponga il valore pratico in un bene che sia anche ogget-tivamente reale. Intendo dire che se io, mosso da un'esi-genza pratica e religiosa, concepisco il soggetto in unospirito puro e in sè, reale e immortale al tempo stesso,non commetto un errore pratico, valendo quell'idea me-tafisica a' suoi scopi, a rasserenare la mia vita e a sorreg-gere la mia volontà: l'errore incomincia nell'istante incui pretendessi di razionalizzare quell'idea fra i concettiveri, intendendo per vero il reale costruito su l'esperien-za, il reale oggettivo così nella natura come nel valore,l'oggettività dell'oggetto.

In somma, prima di rispondere a una qualsiasi do-manda, bisogna convenire intorno ai fini, al metodo e ailimiti della ricerca: il non curar ciò è la sola causad'incomprensione fra uomini, nazioni, razze; e la filoso-fia è diventata critica a tale scopo riconosciuto. Possogiudicare un oggetto, una parola, un atto secondo i piùdiversi criteri di valutazione – riducibili ai due «usi» delpensiero (come li chiamava Kant), pratico e teoretico,soggettivo e oggettivo, prescrivente il dover essere o de-terminante l'essere, dei quali usi vedremo meglio l'unitànel valore –: confrontare, per esempio, quanti criteri simescolano in un giudizio penale. Un giudizio, mettia-mo, morale è dunque giusto o ingiusto secondo la co-scienza etica e non secondo la ragione logica: eticamen-te io faccio bene a condannare un malvagio anche se de-terminato da cause naturali fu il suo reato. E di solitonoi non vogliamo affatto cercare un accordo fra i diversicriteri del nostro pensiero, e in particolare fra il criterio

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riponga il valore pratico in un bene che sia anche ogget-tivamente reale. Intendo dire che se io, mosso da un'esi-genza pratica e religiosa, concepisco il soggetto in unospirito puro e in sè, reale e immortale al tempo stesso,non commetto un errore pratico, valendo quell'idea me-tafisica a' suoi scopi, a rasserenare la mia vita e a sorreg-gere la mia volontà: l'errore incomincia nell'istante incui pretendessi di razionalizzare quell'idea fra i concettiveri, intendendo per vero il reale costruito su l'esperien-za, il reale oggettivo così nella natura come nel valore,l'oggettività dell'oggetto.

In somma, prima di rispondere a una qualsiasi do-manda, bisogna convenire intorno ai fini, al metodo e ailimiti della ricerca: il non curar ciò è la sola causad'incomprensione fra uomini, nazioni, razze; e la filoso-fia è diventata critica a tale scopo riconosciuto. Possogiudicare un oggetto, una parola, un atto secondo i piùdiversi criteri di valutazione – riducibili ai due «usi» delpensiero (come li chiamava Kant), pratico e teoretico,soggettivo e oggettivo, prescrivente il dover essere o de-terminante l'essere, dei quali usi vedremo meglio l'unitànel valore –: confrontare, per esempio, quanti criteri simescolano in un giudizio penale. Un giudizio, mettia-mo, morale è dunque giusto o ingiusto secondo la co-scienza etica e non secondo la ragione logica: eticamen-te io faccio bene a condannare un malvagio anche se de-terminato da cause naturali fu il suo reato. E di solitonoi non vogliamo affatto cercare un accordo fra i diversicriteri del nostro pensiero, e in particolare fra il criterio

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teoretico esistenziale e quelli pratici e deontologici: se,per es., fate osservare alla pia madre mentre accende uncero per lo scampato pericolo del figlio, ch'è assurdo ri-portare al volere divino invece che al caso umano la sal-vezza d'uno che valeva quanto gli altri suoi compagniperiti, la offenderete inutilmente, Ma spesso, anche sequell'accordo fra i valori lo volessimo, non lo possiamoraggiunger di fatto nella coscienza viva e fattiva. Bastasorvegliarsi mezz'ora per constatarlo.

Ora, la filosofia, com'è, nella sua parte critica, rifles-sione sui valori dei nostri giudizi e quindi precisazione eimpostazione dei problemi, così è, nella sua parte positi-va e costruttiva, axiologia, unificazione dei valori comerazionalità e realtà, in cui tutti si debbono coordinare.Per quanto apertamente o segretamente spinta da un in-tento pratico o religioso, per quanto deontologica e uni-versalizzante, la filosofia si distingue dall'etica pratica edalla religione per il suo fine essenzialmente teoretico,oggettivo, realistico, ossia, in ultima analisi, in accordocon l'esperienza, sia pur quest'accordo dialettico, mentreche nella vita l'opposizione è proprio pratica e non teo-retica... Un'ora fa udii squillare il mio telefono: una vocefemminile mi chiese se rispondevo in persona; quindiaggiunse alcune parole incoerenti che terminarono in unrider lento e stanco come quello di certi dementi. Riap-pesi il microfono rabbrividendo e mi passò per la mentel'idea fantastica, che quella fosse stata la voce d'una per-sona morta (mia madre) che mi telefonasse!! È un'inter-pretazione come un'altra, e per me anzi più importante

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teoretico esistenziale e quelli pratici e deontologici: se,per es., fate osservare alla pia madre mentre accende uncero per lo scampato pericolo del figlio, ch'è assurdo ri-portare al volere divino invece che al caso umano la sal-vezza d'uno che valeva quanto gli altri suoi compagniperiti, la offenderete inutilmente, Ma spesso, anche sequell'accordo fra i valori lo volessimo, non lo possiamoraggiunger di fatto nella coscienza viva e fattiva. Bastasorvegliarsi mezz'ora per constatarlo.

Ora, la filosofia, com'è, nella sua parte critica, rifles-sione sui valori dei nostri giudizi e quindi precisazione eimpostazione dei problemi, così è, nella sua parte positi-va e costruttiva, axiologia, unificazione dei valori comerazionalità e realtà, in cui tutti si debbono coordinare.Per quanto apertamente o segretamente spinta da un in-tento pratico o religioso, per quanto deontologica e uni-versalizzante, la filosofia si distingue dall'etica pratica edalla religione per il suo fine essenzialmente teoretico,oggettivo, realistico, ossia, in ultima analisi, in accordocon l'esperienza, sia pur quest'accordo dialettico, mentreche nella vita l'opposizione è proprio pratica e non teo-retica... Un'ora fa udii squillare il mio telefono: una vocefemminile mi chiese se rispondevo in persona; quindiaggiunse alcune parole incoerenti che terminarono in unrider lento e stanco come quello di certi dementi. Riap-pesi il microfono rabbrividendo e mi passò per la mentel'idea fantastica, che quella fosse stata la voce d'una per-sona morta (mia madre) che mi telefonasse!! È un'inter-pretazione come un'altra, e per me anzi più importante

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d'un'altra; ma in sede di riflessione io debbo riconoscerl'incoerenza teoretica di prestare a uno spirito forze e at-tività che ho prima definito materiali: di concepire cioèl'anima come un ente per sè esistente e pur agente fisica-mente sulla materia.

Ritornando al nostro assunto, di definire il concetto disoggetto – e, di conseguenza, il concetto del concetto inquanto questo è un «prodotto» del soggetto –, avvertirprima che il soggetto non può esser un oggetto, che l'ionon può esser «in sè», è tanto ovvio, che sembra un ridi-colo giuoco di parole. Tuttavia, se noi ne inferiamo,com'è logico, che dunque il puro soggetto non è un rea-le, non esiste, non è niente, perchè il concetto di essere èoggettivo, si riferisce alle cose e ai fatti (alle sostanze ealle cause), cosicchè non appena l'applichiamo all'io nefacciamo uno «spirito» che duplica il mondo oggettivoma su l'analogia di questo, tutti insorgeranno. Come,«io» non esisto? non c'è lo spirito? ma come ci sarebbel'oggetto di nessun soggetto? non è questi l'autore anchedi quella realtà oggettiva che tale diviene in un giudizioesistenziale, in un concetto reale ma sempre concetto?Allora, per sfuggire alla stretta, non potendoci più fer-mare alle due sostanze cartesiane o ai due attributi spi-noziani, ci si getta al partito dello Spirito puro: reale èsoltanto lo spirito, il concetto puro: che dona poi il valo-re di realtà ai concetti empirici via via nel divenire delpensiero.

Questa soluzione è sempre stata, in varie vesti, la piùprofonda ed attraente, quantunque rovesci il senso co-

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d'un'altra; ma in sede di riflessione io debbo riconoscerl'incoerenza teoretica di prestare a uno spirito forze e at-tività che ho prima definito materiali: di concepire cioèl'anima come un ente per sè esistente e pur agente fisica-mente sulla materia.

Ritornando al nostro assunto, di definire il concetto disoggetto – e, di conseguenza, il concetto del concetto inquanto questo è un «prodotto» del soggetto –, avvertirprima che il soggetto non può esser un oggetto, che l'ionon può esser «in sè», è tanto ovvio, che sembra un ridi-colo giuoco di parole. Tuttavia, se noi ne inferiamo,com'è logico, che dunque il puro soggetto non è un rea-le, non esiste, non è niente, perchè il concetto di essere èoggettivo, si riferisce alle cose e ai fatti (alle sostanze ealle cause), cosicchè non appena l'applichiamo all'io nefacciamo uno «spirito» che duplica il mondo oggettivoma su l'analogia di questo, tutti insorgeranno. Come,«io» non esisto? non c'è lo spirito? ma come ci sarebbel'oggetto di nessun soggetto? non è questi l'autore anchedi quella realtà oggettiva che tale diviene in un giudizioesistenziale, in un concetto reale ma sempre concetto?Allora, per sfuggire alla stretta, non potendoci più fer-mare alle due sostanze cartesiane o ai due attributi spi-noziani, ci si getta al partito dello Spirito puro: reale èsoltanto lo spirito, il concetto puro: che dona poi il valo-re di realtà ai concetti empirici via via nel divenire delpensiero.

Questa soluzione è sempre stata, in varie vesti, la piùprofonda ed attraente, quantunque rovesci il senso co-

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mune del «reale»: io sono la realtà in sè, assoluta e uni-versale, lo Spirito che s'attua nel suo divenire come(mia) esperienza. Il Soggetto, infinitamente più vasto epiù ricco de' suoi particolari molteplici oggetti, fra glialtri valori che attua, che oggettiva, produce anche il va-lore di realtà empirica, di natura, che si riduce ad unaunificazione degli oggetti secondo categorie che il sog-getto stesso, come pensiero, trae da sè medesimo (apriori) appunto per realizzare, per far essere, spiritual-mente, quel molteplice che in sè non è nulla.

Tuttavia il nostro problemino si ripresenta, inesorabil-mente, come prima: o il reale (esistente) è platonica-mente l'idea pura, e in tal caso i concetti empirici e lostesso «io» empirico sono irreali e illusori e non posso-no esistere in sè; o hegelianamente lo spirito si attua, sirealizza (come esistenza ontologica) negli oggetti storicid'un attuale storico soggetto, e quello spirito è un doveressere – come valore – ma non un esistere, perchè l'esi-stere del soggetto, dell'io, non è fuori dell'esisteredell'oggetto, della relazione al non io.

4. – Non sono soltanto le esigenze metafisiche e reli-giose (che, del resto, sarebber panteiste o almeno aver-roiste) quelle ch'hanno sempre costretto la filosofia a ri-tornare dagli oggetti al soggetto e dalla natura allo spiri-to: fu anche e sopratutto l'impossibilità di definire teore-ticamente il soggetto spirituale senza ridurlo a naturaoggettiva, perdendone quindi il valore trascendentale. Ilragionamento che regge e preme tutto l'idealismo è, in

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mune del «reale»: io sono la realtà in sè, assoluta e uni-versale, lo Spirito che s'attua nel suo divenire come(mia) esperienza. Il Soggetto, infinitamente più vasto epiù ricco de' suoi particolari molteplici oggetti, fra glialtri valori che attua, che oggettiva, produce anche il va-lore di realtà empirica, di natura, che si riduce ad unaunificazione degli oggetti secondo categorie che il sog-getto stesso, come pensiero, trae da sè medesimo (apriori) appunto per realizzare, per far essere, spiritual-mente, quel molteplice che in sè non è nulla.

Tuttavia il nostro problemino si ripresenta, inesorabil-mente, come prima: o il reale (esistente) è platonica-mente l'idea pura, e in tal caso i concetti empirici e lostesso «io» empirico sono irreali e illusori e non posso-no esistere in sè; o hegelianamente lo spirito si attua, sirealizza (come esistenza ontologica) negli oggetti storicid'un attuale storico soggetto, e quello spirito è un doveressere – come valore – ma non un esistere, perchè l'esi-stere del soggetto, dell'io, non è fuori dell'esisteredell'oggetto, della relazione al non io.

4. – Non sono soltanto le esigenze metafisiche e reli-giose (che, del resto, sarebber panteiste o almeno aver-roiste) quelle ch'hanno sempre costretto la filosofia a ri-tornare dagli oggetti al soggetto e dalla natura allo spiri-to: fu anche e sopratutto l'impossibilità di definire teore-ticamente il soggetto spirituale senza ridurlo a naturaoggettiva, perdendone quindi il valore trascendentale. Ilragionamento che regge e preme tutto l'idealismo è, in

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fondo, questo: non potendo lo spirito, il pensiero, esseruna delle sue cose, è necessario, per non ripiegare sopraun illogico dualismo, che le cose in sè siano spirito,come sono infatti idee in noi.

Ora, io dico, questa tesi contiene una grande verità;ma bisogna aver il coraggio di portarla fin in fondo. IlKant ci aiuta molto più dello Hegel nella bisogna, ap-punto perchè è più conseguente alla critica della cono-scenza3.

La detta verità sta nella constatazione gnoseologica,essere il soggetto quello che definisce gli oggetti; che dàrealtà, oggettività, all'esperienza; che conosce i sensibilicome cose e fatti (sostanze e cause), li conosce cioè og-gettivamente, assolutamente; che strasforma in esserel'esistere delle sensazioni, alienandole da sè stesso; che,insomma, muta la sensazione (chiamata per ciò soggetti-va) in idea sempre più oggettiva e reale, quanto piùprossima all'unità in sè, postulata dal pensiero. Ma ap-punto per tutto ciò, il soggetto è indefinibile teoretica-mente, nessun oggetto potendolo a sua volta compren-dere.

Il soggetto non è dunque una realtà, se «reali» sono le

3 «Ritornare a Kant» è un precetto didattico prima d'esser unindirizzo filosofico. Del resto, la filosofia del Nord Italia trova inKant le maggiori affinità con la propria forma mentis, aliena cosìdal panteismo orientale e dalla metafisica dell'assolutamente as-soluto, come dall'empirismo occidentale e dal mero prammati-smo; sebbene accesa dalle aspirazioni dell'uno e rispettosa dellapositività dell'altro.

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fondo, questo: non potendo lo spirito, il pensiero, esseruna delle sue cose, è necessario, per non ripiegare sopraun illogico dualismo, che le cose in sè siano spirito,come sono infatti idee in noi.

Ora, io dico, questa tesi contiene una grande verità;ma bisogna aver il coraggio di portarla fin in fondo. IlKant ci aiuta molto più dello Hegel nella bisogna, ap-punto perchè è più conseguente alla critica della cono-scenza3.

La detta verità sta nella constatazione gnoseologica,essere il soggetto quello che definisce gli oggetti; che dàrealtà, oggettività, all'esperienza; che conosce i sensibilicome cose e fatti (sostanze e cause), li conosce cioè og-gettivamente, assolutamente; che strasforma in esserel'esistere delle sensazioni, alienandole da sè stesso; che,insomma, muta la sensazione (chiamata per ciò soggetti-va) in idea sempre più oggettiva e reale, quanto piùprossima all'unità in sè, postulata dal pensiero. Ma ap-punto per tutto ciò, il soggetto è indefinibile teoretica-mente, nessun oggetto potendolo a sua volta compren-dere.

Il soggetto non è dunque una realtà, se «reali» sono le

3 «Ritornare a Kant» è un precetto didattico prima d'esser unindirizzo filosofico. Del resto, la filosofia del Nord Italia trova inKant le maggiori affinità con la propria forma mentis, aliena cosìdal panteismo orientale e dalla metafisica dell'assolutamente as-soluto, come dall'empirismo occidentale e dal mero prammati-smo; sebbene accesa dalle aspirazioni dell'uno e rispettosa dellapositività dell'altro.

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sostanze e le cause – anche se le riduciamo a pure rela-zioni fra le differenze sensibili –, sempre idee dei sensi-bili. «Io» non posso oggettivarmi senza perdermi, nonposso rendermi assoluto da me stesso senza ridurmi alnon io: onde l'impossibilità della psicologia, sulla qualeritorneremo. E se «essere» significa, come infatti signi-fica, essere in sè di ciò che apparisce sensibilmente, lospirito, ripeto, non è niente, se non per grossolana analo-gia naturalistica. Mettersi alla ricerca della realtà dellospirito nello spazio e nel tempo, è un problema mal po-sto. Allorchè vogliamo realizzare lo spirito, a rigore nonpossiamo che realizzarlo negli oggetti, per es. nelle rela-zioni corporee, come quando dico: io vedo, io cammino(ma anche: io ricordo, io faccio, io penso). Perfino il Va-lore assoluto, Dio, non realizza il suo spirito che attuan-dosi in una Persona...

In altre parole, il soggetto in sè è irreale (è ideale, epoi diremo che è pratico invece che teoretico): la realtàteoretica del soggetto è sempre un oggetto. La realtà diquel verde sentito è quel verde conosciuto, per es. comeproprietà organolettica (e sol in tal senso organico chia-mata «soggettiva» dai filosofi). La realtà dell'anima è ilcorpo come individuo organico e centro attivo di rap-porti con l'ambiente. E la realtà dello spirito in universa-le è il divenire del mondo, si chiami poi idea o cosa è lostesso. Non ci posson essere due realtà, una oggettiva euna assolutamente soggettiva, ma una sola, comunque sivoglia chiamare, che però riguarda sempre l'essere in sèe non il mio attuale soggetto, che, appena lo conosco, è

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sostanze e le cause – anche se le riduciamo a pure rela-zioni fra le differenze sensibili –, sempre idee dei sensi-bili. «Io» non posso oggettivarmi senza perdermi, nonposso rendermi assoluto da me stesso senza ridurmi alnon io: onde l'impossibilità della psicologia, sulla qualeritorneremo. E se «essere» significa, come infatti signi-fica, essere in sè di ciò che apparisce sensibilmente, lospirito, ripeto, non è niente, se non per grossolana analo-gia naturalistica. Mettersi alla ricerca della realtà dellospirito nello spazio e nel tempo, è un problema mal po-sto. Allorchè vogliamo realizzare lo spirito, a rigore nonpossiamo che realizzarlo negli oggetti, per es. nelle rela-zioni corporee, come quando dico: io vedo, io cammino(ma anche: io ricordo, io faccio, io penso). Perfino il Va-lore assoluto, Dio, non realizza il suo spirito che attuan-dosi in una Persona...

In altre parole, il soggetto in sè è irreale (è ideale, epoi diremo che è pratico invece che teoretico): la realtàteoretica del soggetto è sempre un oggetto. La realtà diquel verde sentito è quel verde conosciuto, per es. comeproprietà organolettica (e sol in tal senso organico chia-mata «soggettiva» dai filosofi). La realtà dell'anima è ilcorpo come individuo organico e centro attivo di rap-porti con l'ambiente. E la realtà dello spirito in universa-le è il divenire del mondo, si chiami poi idea o cosa è lostesso. Non ci posson essere due realtà, una oggettiva euna assolutamente soggettiva, ma una sola, comunque sivoglia chiamare, che però riguarda sempre l'essere in sèe non il mio attuale soggetto, che, appena lo conosco, è

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già il passato, la storia, il fatto.Nessuno è mai riuscito a definire lo spirito puro se

non per negazione degli attributi reali, come quando èdetto inesteso, libero, formale, noumenico e simili; ap-pena si tenta di definirlo positivamente, si cade in unacontraddizione in termini, come quando lo si chiamauna sostanza, un «continuo» (di che?), oppure si credeche vegga, che senta, che voglia senza occhi nè nervi nèmuscoli. Nondimeno tutti seguitano a parlare di «distin-zione» (in senso strettamente teoretico!) dell'io dal nonio, con evidente preconcetto intellettualista.

Che cosa intendiamo col verbo «distinguere»? Sequesto termine riguarda la conoscenza teoretica, distin-guo due cose fra di loro, come quell'albero e quella casa,perchè diverse unità sensibili mi rappresentano oggettidiversi; oppure distinguo due qualità fra di loro, comeverde e sonoro. Ma in che senso distinguo quell'albero oquel verde da me? O distinguo quell'albero dal mio cor-po, quel verde dal mio occhio che lo vede – o magaridalla sensazione (senso interno) di riposo che n'è l'effet-to organico –, e si tratta ancora di distinzione fra oggetti.O voglio proprio parlare del soggetto di quell'oggetto,del sentito di quel sensibile o del conoscente di quel co-noscibile, e non si tratta più di oggetti e di proprietà og-gettive diverse, perchè il verde sentito è lo stesso verdesensibile, l'albero conosciuto è la stessa idea diquell'albero.

Si tratta di distinzione pratica, o meglio, di opposi-zione di soggetto a oggetto: quest'ultimo termine è infat-

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già il passato, la storia, il fatto.Nessuno è mai riuscito a definire lo spirito puro se

non per negazione degli attributi reali, come quando èdetto inesteso, libero, formale, noumenico e simili; ap-pena si tenta di definirlo positivamente, si cade in unacontraddizione in termini, come quando lo si chiamauna sostanza, un «continuo» (di che?), oppure si credeche vegga, che senta, che voglia senza occhi nè nervi nèmuscoli. Nondimeno tutti seguitano a parlare di «distin-zione» (in senso strettamente teoretico!) dell'io dal nonio, con evidente preconcetto intellettualista.

Che cosa intendiamo col verbo «distinguere»? Sequesto termine riguarda la conoscenza teoretica, distin-guo due cose fra di loro, come quell'albero e quella casa,perchè diverse unità sensibili mi rappresentano oggettidiversi; oppure distinguo due qualità fra di loro, comeverde e sonoro. Ma in che senso distinguo quell'albero oquel verde da me? O distinguo quell'albero dal mio cor-po, quel verde dal mio occhio che lo vede – o magaridalla sensazione (senso interno) di riposo che n'è l'effet-to organico –, e si tratta ancora di distinzione fra oggetti.O voglio proprio parlare del soggetto di quell'oggetto,del sentito di quel sensibile o del conoscente di quel co-noscibile, e non si tratta più di oggetti e di proprietà og-gettive diverse, perchè il verde sentito è lo stesso verdesensibile, l'albero conosciuto è la stessa idea diquell'albero.

Si tratta di distinzione pratica, o meglio, di opposi-zione di soggetto a oggetto: quest'ultimo termine è infat-

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ti volontario, soggettivo, e lo intendiamo per suggestio-ne, non per dimostrazione; anche quando lo applichiamoalla natura in sè, come quando parliamo di due forze che«si oppongono» – come, del resto, quando parliamod'idee opposte, ossia contraddittorie –, facciamo unametafora poetica, animando il mondo in sè (l'idea stessadi forza è soggettivante), oppure trasferiamo in un rap-porto oggettivo la negazione soggettiva che il soggettofa su l'accordo di due termini. In sè, due forze e la lororisultante, o due termini e la loro proposizione, si com-pongono e non s'oppongono. L'in sè non ha che un soloribelle, l'io; questi lo nega come esistere in sè del sensi-bile (e quindi anche di sè stesso), e in tal modo lo fa es-sere, teoreticamente, spingendolo al dover essere,all'idea; ma per ciò appunto sarebbe un errore (sempredal punto di vista teoretico) sperar di trovare in questadirezione il soggetto puro, negando l'oggetto in sè: ne-gando l'oggetto, si ritorna al soggetto indistinto comesensazione, al suo esistere attuale nel sensibile.Nell'ordine ideale, il soggetto è sol la legge, la forma, lanorma o praticità dell'oggetto.

Insomma, «io» non può mai significare «io sono» –se non nel senso della mia realtà individuale di uomocon le tali qualità obbiettivamente distinte –, ma signifi-ca «io voglio». Non è universale e oggettivo, ma vivesingolarmente, attualmente: la sua esistenza è sensazio-ne, anche se i suoi superbi fini si dirigono all'eterno deldover essere infinito e in sè. Per cui il solo modo di sal-vare il soggettivismo idealista sarebbe quello di affer-

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ti volontario, soggettivo, e lo intendiamo per suggestio-ne, non per dimostrazione; anche quando lo applichiamoalla natura in sè, come quando parliamo di due forze che«si oppongono» – come, del resto, quando parliamod'idee opposte, ossia contraddittorie –, facciamo unametafora poetica, animando il mondo in sè (l'idea stessadi forza è soggettivante), oppure trasferiamo in un rap-porto oggettivo la negazione soggettiva che il soggettofa su l'accordo di due termini. In sè, due forze e la lororisultante, o due termini e la loro proposizione, si com-pongono e non s'oppongono. L'in sè non ha che un soloribelle, l'io; questi lo nega come esistere in sè del sensi-bile (e quindi anche di sè stesso), e in tal modo lo fa es-sere, teoreticamente, spingendolo al dover essere,all'idea; ma per ciò appunto sarebbe un errore (sempredal punto di vista teoretico) sperar di trovare in questadirezione il soggetto puro, negando l'oggetto in sè: ne-gando l'oggetto, si ritorna al soggetto indistinto comesensazione, al suo esistere attuale nel sensibile.Nell'ordine ideale, il soggetto è sol la legge, la forma, lanorma o praticità dell'oggetto.

Insomma, «io» non può mai significare «io sono» –se non nel senso della mia realtà individuale di uomocon le tali qualità obbiettivamente distinte –, ma signifi-ca «io voglio». Non è universale e oggettivo, ma vivesingolarmente, attualmente: la sua esistenza è sensazio-ne, anche se i suoi superbi fini si dirigono all'eterno deldover essere infinito e in sè. Per cui il solo modo di sal-vare il soggettivismo idealista sarebbe quello di affer-

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mare assoluta la sensazione, e tutto il resto relativo adessa... Perchè no? Se non intendiamo parlare dell'assolu-tamente assoluto, di quell'assoluto cioè che dev'esseretotalmente indipendente da noi, e che perciò è un impos-sibile teoretico ed è solo conoscibile come un nostro po-stulato pratico; e se invece intendiamo per assoluto queltermine a cui tutti i valori della conoscenza si debbonorelativizzare, assoluta (gnoseologicamente) sarebbe pro-prio la sensazione, contenuto rappresentativo d'ogni co-noscenza teoretica ed esistenza attuale di quel soggettoche in essa vive praticamente e se ne serve rappresenta-tivamente. Convengo però che questa è una svolta peri-colosa, di quelle così frequenti in filosofia, dove a untratto si viene a invertire totalmente l'uso dei termini eper giuoco sofistico si passa da una tesi alla sua perfettaantitesi: infatti, l'idealismo attualista può passare in unradicale empirismo dichiarando assoluto e reale in sèl'attuale esistente, e inesistenti il passato e la storia eogni altro oggetto in quanto tale. Non è questa precisa-mente la nostra via.

5. – In un trafiletto della sua Rivista critica (maggio1930) Benedetto Croce molto spiritosamente canzonavail filosofo che passa tutta la vita a chiedersi, se il cala-maio che gli sta davanti è «io» o «non io». Eppure checos'altro ha sempre fatto la filosofia tutta quanta (e lostesso Croce filosofo), se non aggirarsi intorno al pro-blema del rapporto di soggetto a oggetto, ch'è il proble-ma essenziale e forse unico della riflessione critica? Ri-

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mare assoluta la sensazione, e tutto il resto relativo adessa... Perchè no? Se non intendiamo parlare dell'assolu-tamente assoluto, di quell'assoluto cioè che dev'esseretotalmente indipendente da noi, e che perciò è un impos-sibile teoretico ed è solo conoscibile come un nostro po-stulato pratico; e se invece intendiamo per assoluto queltermine a cui tutti i valori della conoscenza si debbonorelativizzare, assoluta (gnoseologicamente) sarebbe pro-prio la sensazione, contenuto rappresentativo d'ogni co-noscenza teoretica ed esistenza attuale di quel soggettoche in essa vive praticamente e se ne serve rappresenta-tivamente. Convengo però che questa è una svolta peri-colosa, di quelle così frequenti in filosofia, dove a untratto si viene a invertire totalmente l'uso dei termini eper giuoco sofistico si passa da una tesi alla sua perfettaantitesi: infatti, l'idealismo attualista può passare in unradicale empirismo dichiarando assoluto e reale in sèl'attuale esistente, e inesistenti il passato e la storia eogni altro oggetto in quanto tale. Non è questa precisa-mente la nostra via.

5. – In un trafiletto della sua Rivista critica (maggio1930) Benedetto Croce molto spiritosamente canzonavail filosofo che passa tutta la vita a chiedersi, se il cala-maio che gli sta davanti è «io» o «non io». Eppure checos'altro ha sempre fatto la filosofia tutta quanta (e lostesso Croce filosofo), se non aggirarsi intorno al pro-blema del rapporto di soggetto a oggetto, ch'è il proble-ma essenziale e forse unico della riflessione critica? Ri-

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mane del tutto fuori della filosofia chi ignora la posizio-ne così argutamente comicizzata nella scenetta del cala-maio; è filosofo chi tenta una qualunque via per tradurrein termini e giudizi oggettivi, ossia per razionalizzare,quel che ognuno sente come opposizione, o se preferite,come distinzione pratica (coscienza) di sè e del mondo.

Ora, le vie non son molte. Noi, partendo da questosentire pratico invece che da un supposto essere teoreti-co (anima o spirito) – partendo quindi dal rapporto vo-lontario invece che da una causalità oggettiva –, direiche scegliamo la via del senso comune, se non fosse an-cor più comune l'illusione per la quale, non potendo noiparlare d'alcunchè di oggettivo senza presupporre il sog-getto che conosce e parla, siamo portati, quando voglia-mo definir quest'ultimo, ad attribuirgli l'oggettività de'suoi oggetti e a trasferire in lui quei concetti di sostanzae causa che valgono per gli altri oggetti, per gli oggettiin sè, che per esser tali non debbon essere soggettivi. Citroviamo così presi fra il concetto volgare, che il sogget-to sia un oggetto, un'anima, e quello filosofico, chel'oggetto sia un soggetto, spirito. La concezione dialetti-ca, della realtà del solo rapporto di soggetto e oggetto incui l'uno è per l'altro e non assolutamente, non ha impe-dito ciò, perchè questo rapporto venne hegelianamenteinteso come mediazione teoretica d'idee distinte, mentr'èprima opposizione pratica di volere ed essere, antinomi-smo kantiano d'uso pratico e teoretico della ragione.

Ma, dicevo, per esser più semplici e più chiari, ragio-niamo partendo dal senso comune, col quale dai secoli

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mane del tutto fuori della filosofia chi ignora la posizio-ne così argutamente comicizzata nella scenetta del cala-maio; è filosofo chi tenta una qualunque via per tradurrein termini e giudizi oggettivi, ossia per razionalizzare,quel che ognuno sente come opposizione, o se preferite,come distinzione pratica (coscienza) di sè e del mondo.

Ora, le vie non son molte. Noi, partendo da questosentire pratico invece che da un supposto essere teoreti-co (anima o spirito) – partendo quindi dal rapporto vo-lontario invece che da una causalità oggettiva –, direiche scegliamo la via del senso comune, se non fosse an-cor più comune l'illusione per la quale, non potendo noiparlare d'alcunchè di oggettivo senza presupporre il sog-getto che conosce e parla, siamo portati, quando voglia-mo definir quest'ultimo, ad attribuirgli l'oggettività de'suoi oggetti e a trasferire in lui quei concetti di sostanzae causa che valgono per gli altri oggetti, per gli oggettiin sè, che per esser tali non debbon essere soggettivi. Citroviamo così presi fra il concetto volgare, che il sogget-to sia un oggetto, un'anima, e quello filosofico, chel'oggetto sia un soggetto, spirito. La concezione dialetti-ca, della realtà del solo rapporto di soggetto e oggetto incui l'uno è per l'altro e non assolutamente, non ha impe-dito ciò, perchè questo rapporto venne hegelianamenteinteso come mediazione teoretica d'idee distinte, mentr'èprima opposizione pratica di volere ed essere, antinomi-smo kantiano d'uso pratico e teoretico della ragione.

Ma, dicevo, per esser più semplici e più chiari, ragio-niamo partendo dal senso comune, col quale dai secoli

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dei secoli gli uomini soglion farsi le idee che loro servo-no nella vita di quaggiù. Non voglio nemmeno guardaresoltanto «dentro di me» – non credo alla «introspezio-ne», credo all'«esperienza», tout court –, e del resto lamia introspezione non sarebbe più tale per il lettore:guardo fuori della finestra. Ecco là un grosso signoreche corre dietro un tram già in moto e riesce, alla bell'emeglio, ad issarsi sul predellino con la grazia d'un plan-tigrado inseguito. È una di quelle azioni della vita, co-mune in cui l'uomo presenta il minino di quell'interioritàe personalità che distingue gli individui: qui pare che siesteriorizzi completamente in un automatismo, per cuivive la vita d'uno qualunque, purchè sia grasso e impac-ciato come lui. Forse, in questo istante, egli ha dimenti-cato totalmente sè stesso, tutto preso nello sforzod'arrampicarsi sul tram senza cadere.

Orbene, tutto ciò che fa questo signore, è eminente-mente psicologico, e parlandovene io vi faccio dellascienza morale e non della fisica. Vi farei della fisica secercassi di calcolare, per esempio, la velocità de' suoifrettolosi passetti in rapporto a quella del tram, o il rap-porto fra il suo peso e il suo sforzo muscolare per com-piere il salto sufficente a raggiungere il predellino, ecc.Ma io vi parlo della sua «premura», del suo sguardo an-sioso al tram fuggente, del suo decidersi impaurito e tut-tavia energico a raggiungerlo, non senza un'occhiata dirancore, appena su, a quel generico tram che non atten-de la gente grassa... È la differenza che passa fra l'inge-gnere che studia di che materiali è formato un ponte ro-

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dei secoli gli uomini soglion farsi le idee che loro servo-no nella vita di quaggiù. Non voglio nemmeno guardaresoltanto «dentro di me» – non credo alla «introspezio-ne», credo all'«esperienza», tout court –, e del resto lamia introspezione non sarebbe più tale per il lettore:guardo fuori della finestra. Ecco là un grosso signoreche corre dietro un tram già in moto e riesce, alla bell'emeglio, ad issarsi sul predellino con la grazia d'un plan-tigrado inseguito. È una di quelle azioni della vita, co-mune in cui l'uomo presenta il minino di quell'interioritàe personalità che distingue gli individui: qui pare che siesteriorizzi completamente in un automatismo, per cuivive la vita d'uno qualunque, purchè sia grasso e impac-ciato come lui. Forse, in questo istante, egli ha dimenti-cato totalmente sè stesso, tutto preso nello sforzod'arrampicarsi sul tram senza cadere.

Orbene, tutto ciò che fa questo signore, è eminente-mente psicologico, e parlandovene io vi faccio dellascienza morale e non della fisica. Vi farei della fisica secercassi di calcolare, per esempio, la velocità de' suoifrettolosi passetti in rapporto a quella del tram, o il rap-porto fra il suo peso e il suo sforzo muscolare per com-piere il salto sufficente a raggiungere il predellino, ecc.Ma io vi parlo della sua «premura», del suo sguardo an-sioso al tram fuggente, del suo decidersi impaurito e tut-tavia energico a raggiungerlo, non senza un'occhiata dirancore, appena su, a quel generico tram che non atten-de la gente grassa... È la differenza che passa fra l'inge-gnere che studia di che materiali è formato un ponte ro-

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mano, che sforzo può sopportare, a che leggi staticheobbedisce e quali problemi tecnici presuppone risolti, elo storico che risguarda il medesimo ponte rispetto aifini a cui era destinato, agli istituti ed atti politici che nedeterminaron la costruzione, e cosa via.

L'oggetto di cui parlo è lo stesso, come contenuto del-la mia conoscenza, quel signore che corre o questo pon-te che resiste fermo da secoli. Non parlo di due cose,l'anima, e il corpo di quel signore, la materia e lo spiritodi questo ponte; parlo del signore grasso e del ponte ar-cuato. Per me si tratta sempre di percezioni, per il lettored'immagini, nell'un caso come nell'altro, di gruppi dirappresentazioni oggettive, ossia reali, che ormai spon-taneamente si attuano nei sensibili (presenti in sensazio-ni e parole), e non son più quindi che semplici dati. Maparlandone ora psicologicamente o storicamente, noicolleghiamo questi dati in rapporto ai fini soggettivi, te-leologicamente: diciamo, per esempio, che quel signorecorre perchè vuol salire su quella vettura in moto; ch'èesitante perchè teme, ossia non vuol rompersi una gam-ba ecc,

Questi fini e queste volontà sono reali? Sì, ma semprenei loro mezzi ed atti, ne' quali attuano i loro valori pra-tici, di cui io partecipo per suggestione, rivivendoli, enon per rappresentazione obbiettiva. Se io voglio ob-biettivare il valore stesso, non ho altro modo che di rap-presentarmelo formalmente e non realmente: lo obbietti-vo in una norma, in una legge, in un dover esser insom-ma, corrispondente alla trascendentalità del desiderio di

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mano, che sforzo può sopportare, a che leggi staticheobbedisce e quali problemi tecnici presuppone risolti, elo storico che risguarda il medesimo ponte rispetto aifini a cui era destinato, agli istituti ed atti politici che nedeterminaron la costruzione, e cosa via.

L'oggetto di cui parlo è lo stesso, come contenuto del-la mia conoscenza, quel signore che corre o questo pon-te che resiste fermo da secoli. Non parlo di due cose,l'anima, e il corpo di quel signore, la materia e lo spiritodi questo ponte; parlo del signore grasso e del ponte ar-cuato. Per me si tratta sempre di percezioni, per il lettored'immagini, nell'un caso come nell'altro, di gruppi dirappresentazioni oggettive, ossia reali, che ormai spon-taneamente si attuano nei sensibili (presenti in sensazio-ni e parole), e non son più quindi che semplici dati. Maparlandone ora psicologicamente o storicamente, noicolleghiamo questi dati in rapporto ai fini soggettivi, te-leologicamente: diciamo, per esempio, che quel signorecorre perchè vuol salire su quella vettura in moto; ch'èesitante perchè teme, ossia non vuol rompersi una gam-ba ecc,

Questi fini e queste volontà sono reali? Sì, ma semprenei loro mezzi ed atti, ne' quali attuano i loro valori pra-tici, di cui io partecipo per suggestione, rivivendoli, enon per rappresentazione obbiettiva. Se io voglio ob-biettivare il valore stesso, non ho altro modo che di rap-presentarmelo formalmente e non realmente: lo obbietti-vo in una norma, in una legge, in un dover esser insom-ma, corrispondente alla trascendentalità del desiderio di

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fronte – cioè in opposizione pratica – all'essere dei con-tenuti percettivi e ideativi. La normatività è il carattereobbiettivato del volere in tutte le sue forme concrete, de-siderio, proposito, comando; tra la norma banalissima«Andar cauti nel salire sul tram!», in cui ci possiamorappresentare il soggetto che ora muove quel signore, ela legge morale, non c'è differenza che nel valore praticosempre più universale, dall'utilitarismo all'eticità, peres., del «Neminem laedere».

Ripeto: non mi posso figurare e non vi posso rappre-sentare teoreticamente il soggetto volontario di quel si-gnore, se non esprimendolo in una norma formale, chesarebbe il «principio» che règola la sua azione pratica equindi me la «spiega» teleologicamente. Però, il valorepratico è un valore (utilitario, giuridico, etico, religiosoecc.) e io tale lo giudico in giudizi di valore (p. es. utili-tari: «Ha saltato bene») non già nella pura forma vuota,ma nel suo applicarsi ai contenuti reali e nel suo farsi;ciò costituisce la «positività» della legge, il fatto deldritto, la volontà reale del principio ideale. Il valore, ildover essere, è valore reale nell'essere.

Se, ascendendo verso una legge etica sempre più uni-versale e pura, come fece il Kant, io finisco per spo-gliarla di tutti i contenuti reali, per emanciparla (formal-mente) da tutte le possibili condizioni, e mi rappresentola pura volontà come forma assoluta del dover esseremorale – «Agisci in modo che la tua volontà sia autono-ma!» –, ebbene, io non esprimo più che una tautologia,mettendo in forma razionale, come postulato, il carattere

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fronte – cioè in opposizione pratica – all'essere dei con-tenuti percettivi e ideativi. La normatività è il carattereobbiettivato del volere in tutte le sue forme concrete, de-siderio, proposito, comando; tra la norma banalissima«Andar cauti nel salire sul tram!», in cui ci possiamorappresentare il soggetto che ora muove quel signore, ela legge morale, non c'è differenza che nel valore praticosempre più universale, dall'utilitarismo all'eticità, peres., del «Neminem laedere».

Ripeto: non mi posso figurare e non vi posso rappre-sentare teoreticamente il soggetto volontario di quel si-gnore, se non esprimendolo in una norma formale, chesarebbe il «principio» che règola la sua azione pratica equindi me la «spiega» teleologicamente. Però, il valorepratico è un valore (utilitario, giuridico, etico, religiosoecc.) e io tale lo giudico in giudizi di valore (p. es. utili-tari: «Ha saltato bene») non già nella pura forma vuota,ma nel suo applicarsi ai contenuti reali e nel suo farsi;ciò costituisce la «positività» della legge, il fatto deldritto, la volontà reale del principio ideale. Il valore, ildover essere, è valore reale nell'essere.

Se, ascendendo verso una legge etica sempre più uni-versale e pura, come fece il Kant, io finisco per spo-gliarla di tutti i contenuti reali, per emanciparla (formal-mente) da tutte le possibili condizioni, e mi rappresentola pura volontà come forma assoluta del dover esseremorale – «Agisci in modo che la tua volontà sia autono-ma!» –, ebbene, io non esprimo più che una tautologia,mettendo in forma razionale, come postulato, il carattere

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trascendentale del volere, anzi, direi, del sentire. Il vole-re è volere in quanto è libertà, in quanto vuol liberarsidal dato di fatto per raggiunger qualcosa di più, che an-cora non è, e perciò lo sentiamo come spontaneità deldesiderio, negazione del dolore sentito e affermazionedella gioia che verrà. Ma la libertà, ipostatizzazione for-male di un'esigenza reale, è un reale in quanto realizza ilsuo principio, ossia lo attua in rapporto alle condizionidi fatto, alle quali s'oppone come sentimento e si relati-vizza come atto e rapporto di mezzo (oggetto) a fine(soggetto).

6. – Abbiamo preso un esempio qualunque per to-glierci dalle astrattezze, ma ognuno potrà poi generaliz-zare. Ci troviamo a quel nodo ch'è nel centro della filo-sofia, il rapporto di soggetto a oggetto: qual'è il criterio,quale il fondamento della lor distinzione e della lorounità?

Non c'è bisogno d'ascender, come Dante, fino al'empireo, per vedere «la forma universal di questonodo» e il legame fra «sustanzia et accidente», tra formae contenuto, tra pensiero pensante e sensazione pensata,che ne costituiscono i due capi. Rimaniàmo per ora nellasfera del mondo empirico e riflettiàmo sul modo in cuivi si possa intendere la distinzione e il rapporto di sog-getto a oggetto. Quel signore frettoloso è un esempiod'attività pratica, soggettiva, e ci aiuta a comprendereche cosa sia il soggetto e come si relativizzi a sè gli og-getti; noi che lo risguardiamo siamo invece esempio

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trascendentale del volere, anzi, direi, del sentire. Il vole-re è volere in quanto è libertà, in quanto vuol liberarsidal dato di fatto per raggiunger qualcosa di più, che an-cora non è, e perciò lo sentiamo come spontaneità deldesiderio, negazione del dolore sentito e affermazionedella gioia che verrà. Ma la libertà, ipostatizzazione for-male di un'esigenza reale, è un reale in quanto realizza ilsuo principio, ossia lo attua in rapporto alle condizionidi fatto, alle quali s'oppone come sentimento e si relati-vizza come atto e rapporto di mezzo (oggetto) a fine(soggetto).

6. – Abbiamo preso un esempio qualunque per to-glierci dalle astrattezze, ma ognuno potrà poi generaliz-zare. Ci troviamo a quel nodo ch'è nel centro della filo-sofia, il rapporto di soggetto a oggetto: qual'è il criterio,quale il fondamento della lor distinzione e della lorounità?

Non c'è bisogno d'ascender, come Dante, fino al'empireo, per vedere «la forma universal di questonodo» e il legame fra «sustanzia et accidente», tra formae contenuto, tra pensiero pensante e sensazione pensata,che ne costituiscono i due capi. Rimaniàmo per ora nellasfera del mondo empirico e riflettiàmo sul modo in cuivi si possa intendere la distinzione e il rapporto di sog-getto a oggetto. Quel signore frettoloso è un esempiod'attività pratica, soggettiva, e ci aiuta a comprendereche cosa sia il soggetto e come si relativizzi a sè gli og-getti; noi che lo risguardiamo siamo invece esempio

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d'attività teoretica, oggettiva, e ci relativizziamo aquell'oggetto. Nondimeno apparirà ben presto anchel'artificiosità di questa divisione puramente didattica esuperabilissima.

Noi diciamo che quel signore che corre ha un'anima,è un soggetto, non perchè corre (anche il fiume corre),ma perchè i suoi atti si presentano collegati in rapportodi mezzo a fine fra di loro e con l'ambiente. Non appenane sentiamo la finalità, inferiamo la soggettività d'unqualsiasi contenuto del nostro conoscere: anche il tram,che corre per trasportare i passeggeri, in ciò implica unsoggetto volente; attua un fine; realizza un valore (il va-lor d'utile). Riducendo a schema, possiamo dire che esi-ste una serie di sensazioni le quali, oltre che rappresen-tarci degli oggetti (quell'uomo che raggiunge il tram inmoto) ci rappresentan anche un soggetto, apparendo col-legate teleologicamente.

La stessa sensazione, che percepisco come un «qual-che cosa», come un oggetto, la percepisco, simpatetica-mente, come finalità e soggetto; come riconosco un pas-so agitato, così rivivo la fretta di quell'uomo. Si notiche, rispetto al modo di conoscere, ora io e lui non sia-mo diversi se non per differenze particolari: io, perce-pendo il mio uomo in corsa, valuto (penso) – per es.giudicando utile quell'atto – e posso esprimere il miogiudizio col verbo «è», che esplica appunto la realtà delvalore soggettivo in un suo contenuto oggettivo (su ciòritorneremo); ma il medesimo farà anche quell'uomo sepensa a ciò che fa: egli percepisce il tram, la strada, le

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d'attività teoretica, oggettiva, e ci relativizziamo aquell'oggetto. Nondimeno apparirà ben presto anchel'artificiosità di questa divisione puramente didattica esuperabilissima.

Noi diciamo che quel signore che corre ha un'anima,è un soggetto, non perchè corre (anche il fiume corre),ma perchè i suoi atti si presentano collegati in rapportodi mezzo a fine fra di loro e con l'ambiente. Non appenane sentiamo la finalità, inferiamo la soggettività d'unqualsiasi contenuto del nostro conoscere: anche il tram,che corre per trasportare i passeggeri, in ciò implica unsoggetto volente; attua un fine; realizza un valore (il va-lor d'utile). Riducendo a schema, possiamo dire che esi-ste una serie di sensazioni le quali, oltre che rappresen-tarci degli oggetti (quell'uomo che raggiunge il tram inmoto) ci rappresentan anche un soggetto, apparendo col-legate teleologicamente.

La stessa sensazione, che percepisco come un «qual-che cosa», come un oggetto, la percepisco, simpatetica-mente, come finalità e soggetto; come riconosco un pas-so agitato, così rivivo la fretta di quell'uomo. Si notiche, rispetto al modo di conoscere, ora io e lui non sia-mo diversi se non per differenze particolari: io, perce-pendo il mio uomo in corsa, valuto (penso) – per es.giudicando utile quell'atto – e posso esprimere il miogiudizio col verbo «è», che esplica appunto la realtà delvalore soggettivo in un suo contenuto oggettivo (su ciòritorneremo); ma il medesimo farà anche quell'uomo sepensa a ciò che fa: egli percepisce il tram, la strada, le

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proprie innervazioni motorie ecc. e via via sceglie que-sto o quell'atto mediante un giudizio d'utile. Non è qui ladifferenza fra il teoretico e il pratico e noi possiamo ri-ferirci al pensiero di costui come al nostro che lo rispec-chia.

Ora, se questo signore, per un ghiribizzo alla Piran-dello, sorprendendosi tutto affannoso e ridicolo dietro ilsuo tram, tutto esteriorizzato ne' suoi mezzi e fini prati-ci, si fermasse su due piedi e si chiedesse: «Ma chi sonio?», cercando d'isolare il suo soggetto dagli oggetti cheor ne divengono i mezzi e i fini, che cosa potrebbe ri-spondere? Il fine, scisso dal suo contenuto rappresentati-vo – si tratti di raggiungere una vettura o si tratti di qua-lunque altra più universale finalità – si riduce al volerla;il volere, scisso da' suoi mezzi oggettivi, si riduce al de-siderare; e il desiderio, scisso dall'oggetto desiderato, siriduce a sentimento. Ma che cos'è il sentimento?

Che cosa sia obbiettivamente, non lo possiamo direche facendone, di nuovo, un oggetto dell'attuale cono-scere – il quale include un nuovo sentimento, il dubbioconoscitivo, che i nostri antenati filosofi chiamavano«inquietudine» – e rimettendolo naturalisticamentenell'ordine delle cause naturali, come dimostreremoesaurientemente più tardi. Qui c'è tutta una psicologiadei sentimenti che, o è classificatoria e tautologica, e intal caso raggruppa i sentimenti in affetti, interessi, pas-sioni e simili, unificati a lor volta nel temperamento,nella personalità e nel carattere, che ci dànno un quadro,puramente descrittivo, della continuità del soggetto em-

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proprie innervazioni motorie ecc. e via via sceglie que-sto o quell'atto mediante un giudizio d'utile. Non è qui ladifferenza fra il teoretico e il pratico e noi possiamo ri-ferirci al pensiero di costui come al nostro che lo rispec-chia.

Ora, se questo signore, per un ghiribizzo alla Piran-dello, sorprendendosi tutto affannoso e ridicolo dietro ilsuo tram, tutto esteriorizzato ne' suoi mezzi e fini prati-ci, si fermasse su due piedi e si chiedesse: «Ma chi sonio?», cercando d'isolare il suo soggetto dagli oggetti cheor ne divengono i mezzi e i fini, che cosa potrebbe ri-spondere? Il fine, scisso dal suo contenuto rappresentati-vo – si tratti di raggiungere una vettura o si tratti di qua-lunque altra più universale finalità – si riduce al volerla;il volere, scisso da' suoi mezzi oggettivi, si riduce al de-siderare; e il desiderio, scisso dall'oggetto desiderato, siriduce a sentimento. Ma che cos'è il sentimento?

Che cosa sia obbiettivamente, non lo possiamo direche facendone, di nuovo, un oggetto dell'attuale cono-scere – il quale include un nuovo sentimento, il dubbioconoscitivo, che i nostri antenati filosofi chiamavano«inquietudine» – e rimettendolo naturalisticamentenell'ordine delle cause naturali, come dimostreremoesaurientemente più tardi. Qui c'è tutta una psicologiadei sentimenti che, o è classificatoria e tautologica, e intal caso raggruppa i sentimenti in affetti, interessi, pas-sioni e simili, unificati a lor volta nel temperamento,nella personalità e nel carattere, che ci dànno un quadro,puramente descrittivo, della continuità del soggetto em-

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pirico e del suo modo di comportarsi in occasione deglistimoli ambienti: ma il tutto rimane appoggiato alla no-stra soggettiva esperienza; questi affetti non sono che inpotenza, tendenze e impulsi soggettivamente appesi nelvuoto d'un vago spiritualismo. Oppure se ne cerca,scientificamente, la realtà obbiettiva, il come e il perchènaturale; e allora il sentimento diviene, ahimè! il coeffi-cente organolettico e corporeo d'una sensazione – tantose si tratti del dolore atroce d'un viscere dilaniato che,estrema passività, assorbe e annulla ogni altro valore eci riduce a belve urlanti, quanto se si tratti del benesseregioioso, della cenestesia armonica esuberante ed esul-tante d'un mattino di maggio che ci dispone a ogni piùnobile impresa –; l'affetto diviene istinto o bisogno, me-moria e adattamento biologico, tropismo verso certi sti-moli rappresentativi in un senso più che in un altro; iltemperamento diviene la specie antropologia e la perso-na ne divien l'individuo in azione e reazione conl'ambiente... Sol in tal direzione può, deve muoversi lascienza teorica: il soggetto deve ritornare ad essere un«essere» nel gran fiume dell'Essere.

Sotto tal aspetto, il mistero che vela ancora tanta partedelle manifestazioni fisio psichiche (e in cui si rifugianoil medianismo e le pseudo scienze affini), e il non poterancora spiegare nemmeno perchè un gattino appenanato già fa la gobba e rabbuffa il pelo al passaggio delprimo cane che vede, o perchè una prepotenza ci muovaa sdegno, è ignoranza (impotenza e disvalore teoretico)ma non è trascendentalità e valore pratico.

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pirico e del suo modo di comportarsi in occasione deglistimoli ambienti: ma il tutto rimane appoggiato alla no-stra soggettiva esperienza; questi affetti non sono che inpotenza, tendenze e impulsi soggettivamente appesi nelvuoto d'un vago spiritualismo. Oppure se ne cerca,scientificamente, la realtà obbiettiva, il come e il perchènaturale; e allora il sentimento diviene, ahimè! il coeffi-cente organolettico e corporeo d'una sensazione – tantose si tratti del dolore atroce d'un viscere dilaniato che,estrema passività, assorbe e annulla ogni altro valore eci riduce a belve urlanti, quanto se si tratti del benesseregioioso, della cenestesia armonica esuberante ed esul-tante d'un mattino di maggio che ci dispone a ogni piùnobile impresa –; l'affetto diviene istinto o bisogno, me-moria e adattamento biologico, tropismo verso certi sti-moli rappresentativi in un senso più che in un altro; iltemperamento diviene la specie antropologia e la perso-na ne divien l'individuo in azione e reazione conl'ambiente... Sol in tal direzione può, deve muoversi lascienza teorica: il soggetto deve ritornare ad essere un«essere» nel gran fiume dell'Essere.

Sotto tal aspetto, il mistero che vela ancora tanta partedelle manifestazioni fisio psichiche (e in cui si rifugianoil medianismo e le pseudo scienze affini), e il non poterancora spiegare nemmeno perchè un gattino appenanato già fa la gobba e rabbuffa il pelo al passaggio delprimo cane che vede, o perchè una prepotenza ci muovaa sdegno, è ignoranza (impotenza e disvalore teoretico)ma non è trascendentalità e valore pratico.

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Ma, salvo a cercar poi la conciliazione fra causalità efinalità, fra essere e dover essere, fra valore teoretico epratico, il nostro discorso qui è un altro. Nel soggettovogliamo rimanere. Se questo puro soggetto è un senti-mento, in che mai un sentimento – un mal di panciacome l'amore dell'umanità o la curiosità di sapere, il piùempirico come il più spirituale – è soggettivo e non èl'oggetto e il corpo? Era ben tale la nostra questione,questione critica e filosofica, non ricerca scientifica;quest'ultima dipenderà dalla prima e non viceversa.

Orbene: per una critica coerente, per una critica dun-que del tipo dell'Hume, il soggetto non è oggetto sol inquanto non vuol esserlo: desidera, e in questo caso esi-ge, di non esserlo – anche se sa d'essere un oggetto fragli altri, svilupperebbe il Kant –; sente che non lodev'essere, concluderemo noi. Questo sentimento di li-bertà e d'autonomia da tutti i contenuti oggettivi e per-tanto dalle stesse condizioni reali della propria esistenzacostituisce l'unico fondamento dell'io a credersi «io», ilsolo diritto a volere e ad agire come soggetto: esso fon-da e dirige tutti i valori e tutte le attività in quanto prati-che. È un'illusione? Sarebbe illusione se fosse una cono-scenza teoretica o se per tale la volessimo far passare,come esigeva appunto il razionalismo entro cui si muo-veva ancora la ricerca dello Hume; ma si tratta della co-noscenza pratica, si tratta, in una parola, della «coscien-za», che non è cosa ma valore della cosa.

7. – Abbiamo lasciato il nostro uomo in mezzo alla

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Ma, salvo a cercar poi la conciliazione fra causalità efinalità, fra essere e dover essere, fra valore teoretico epratico, il nostro discorso qui è un altro. Nel soggettovogliamo rimanere. Se questo puro soggetto è un senti-mento, in che mai un sentimento – un mal di panciacome l'amore dell'umanità o la curiosità di sapere, il piùempirico come il più spirituale – è soggettivo e non èl'oggetto e il corpo? Era ben tale la nostra questione,questione critica e filosofica, non ricerca scientifica;quest'ultima dipenderà dalla prima e non viceversa.

Orbene: per una critica coerente, per una critica dun-que del tipo dell'Hume, il soggetto non è oggetto sol inquanto non vuol esserlo: desidera, e in questo caso esi-ge, di non esserlo – anche se sa d'essere un oggetto fragli altri, svilupperebbe il Kant –; sente che non lodev'essere, concluderemo noi. Questo sentimento di li-bertà e d'autonomia da tutti i contenuti oggettivi e per-tanto dalle stesse condizioni reali della propria esistenzacostituisce l'unico fondamento dell'io a credersi «io», ilsolo diritto a volere e ad agire come soggetto: esso fon-da e dirige tutti i valori e tutte le attività in quanto prati-che. È un'illusione? Sarebbe illusione se fosse una cono-scenza teoretica o se per tale la volessimo far passare,come esigeva appunto il razionalismo entro cui si muo-veva ancora la ricerca dello Hume; ma si tratta della co-noscenza pratica, si tratta, in una parola, della «coscien-za», che non è cosa ma valore della cosa.

7. – Abbiamo lasciato il nostro uomo in mezzo alla

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Page 81: E-book campione Liber Liber · sul pensiero teoretico; al punto che l'idealismo, il quale logicamente si dovrebbe contentar d'affermare che l'empirico, il sensibile, la materia insomma,

via, che rifletteva su sè medesimo in quell'atteggiamentoche diciamo «critico» o filosofico. Egli è lì, centro delsuo piccolo mondo, che percepisce e appercepisce: per-cepisce in quanto prende le sensazioni attuali – le giudi-ca conoscitivamente, le adopera praticamente – comesegni e mezzi dei valori rappresentativi connèssivi nellapassata esperienza e reali nella memoria (ch'è della stes-sa natura sensibile): per es. prende quell'oggetto lucido emobile per un tram in corsa; appercepisce in quanto,reso attento da un interesse presente, con una nuovaanalisi e sintesi dei contenuti scopre nuovi rapporti e liunifica in nuove rappresentazioni di valori pratici e teo-retici.

Ma adesso egli vuole, supponevamo, percepire le pro-prie percezioni, appercepire sè stesso, nel suo attuale,immediato, esistenziale e presente rapporto di soggetto aoggetto, punto di partenza di tutti i valori. Perciò, in luo-go d'abbandonarsi al pensiero spontaneo, che conducesempre oltre l'esperienza attuale, oltre il pensiero pen-sante e la sensazione pensata, verso un oggetto e un finein sè – s'arresti poi al vicino salumaio o proceda finoall'Essere assoluto, qui non importa –, egli ha dovutofare il cammino a ritroso e riflettere, con pensiero indi-retto, sopra quel suo modo di conoscere. Ha così scoper-to che tutti gli oggetti, ivi compresi i suoi atti e il suocorpo, sebbene siano o debban essere «fuori di noi» nel-lo spazio e nel tempo infinito e in tutte le altre relazionientro cui li abbracciamo, esistono attualmente per noi esi presentano in sensazioni, che ce li rappresentano; e

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via, che rifletteva su sè medesimo in quell'atteggiamentoche diciamo «critico» o filosofico. Egli è lì, centro delsuo piccolo mondo, che percepisce e appercepisce: per-cepisce in quanto prende le sensazioni attuali – le giudi-ca conoscitivamente, le adopera praticamente – comesegni e mezzi dei valori rappresentativi connèssivi nellapassata esperienza e reali nella memoria (ch'è della stes-sa natura sensibile): per es. prende quell'oggetto lucido emobile per un tram in corsa; appercepisce in quanto,reso attento da un interesse presente, con una nuovaanalisi e sintesi dei contenuti scopre nuovi rapporti e liunifica in nuove rappresentazioni di valori pratici e teo-retici.

Ma adesso egli vuole, supponevamo, percepire le pro-prie percezioni, appercepire sè stesso, nel suo attuale,immediato, esistenziale e presente rapporto di soggetto aoggetto, punto di partenza di tutti i valori. Perciò, in luo-go d'abbandonarsi al pensiero spontaneo, che conducesempre oltre l'esperienza attuale, oltre il pensiero pen-sante e la sensazione pensata, verso un oggetto e un finein sè – s'arresti poi al vicino salumaio o proceda finoall'Essere assoluto, qui non importa –, egli ha dovutofare il cammino a ritroso e riflettere, con pensiero indi-retto, sopra quel suo modo di conoscere. Ha così scoper-to che tutti gli oggetti, ivi compresi i suoi atti e il suocorpo, sebbene siano o debban essere «fuori di noi» nel-lo spazio e nel tempo infinito e in tutte le altre relazionientro cui li abbracciamo, esistono attualmente per noi esi presentano in sensazioni, che ce li rappresentano; e

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scopre che questo «noi», a sua volta, quantunque sia edebba essere reale soltanto negli e per gli oggetti, comelor valore soggettivo e nostro fine obbiettivo, si realizzadi fatto come attuale sentimento di quella sensazione oimmagine.

Tutto ciò risulterebbe chiaro ed evidente per chiun-que, se, con un'ipotesi ancora più semplice, mettessimoil nostro uomo nella condizione della statua di Condil-lac, tale cioè che acquistasse a un tratto la prima sensa-zione del primo senso che le si desta, e non si potessepertanto riferire a null'altro: abbia, per es., la prima sen-sazione di dolce o d'amaro. Una è la sensazione in quan-to esiste, è presente; soggetto e oggetto coincidono; dol-ce o amaro sono, indifferentemente, soggetto od ogget-to, nel senso che, per la conoscenza, un dolce o un ama-ro può diventare il contenuto rappresentativo cosìdell'uno come dell'altro. Ma, prima di tutto, la conoscen-za è già un uscir fuori dal dolce o amaro immediato, ègià mediazione e pensiero; in secondo luogo, la cono-scenza è obbiettivante, costruzione dell'oggetto: comedunque parleremo d'un soggetto?

Quando ci accingiamo a rispondere alla domanda:che cos'è il soggetto, che cosa l'oggetto d'una sensazionedolce o amara? siamo facilmente vittime, ripeto, d'unequivoco che ne conduce diritti al dualismo e al paralle-lismo filosofico, perchè, per conoscere, vogliamo intro-durre una distinzione di cose o di proprietà obbiettive –una distinzione oggettiva perchè conoscitiva – fraquell'oggetto e quel soggetto che, in quanto esistono,

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scopre che questo «noi», a sua volta, quantunque sia edebba essere reale soltanto negli e per gli oggetti, comelor valore soggettivo e nostro fine obbiettivo, si realizzadi fatto come attuale sentimento di quella sensazione oimmagine.

Tutto ciò risulterebbe chiaro ed evidente per chiun-que, se, con un'ipotesi ancora più semplice, mettessimoil nostro uomo nella condizione della statua di Condil-lac, tale cioè che acquistasse a un tratto la prima sensa-zione del primo senso che le si desta, e non si potessepertanto riferire a null'altro: abbia, per es., la prima sen-sazione di dolce o d'amaro. Una è la sensazione in quan-to esiste, è presente; soggetto e oggetto coincidono; dol-ce o amaro sono, indifferentemente, soggetto od ogget-to, nel senso che, per la conoscenza, un dolce o un ama-ro può diventare il contenuto rappresentativo cosìdell'uno come dell'altro. Ma, prima di tutto, la conoscen-za è già un uscir fuori dal dolce o amaro immediato, ègià mediazione e pensiero; in secondo luogo, la cono-scenza è obbiettivante, costruzione dell'oggetto: comedunque parleremo d'un soggetto?

Quando ci accingiamo a rispondere alla domanda:che cos'è il soggetto, che cosa l'oggetto d'una sensazionedolce o amara? siamo facilmente vittime, ripeto, d'unequivoco che ne conduce diritti al dualismo e al paralle-lismo filosofico, perchè, per conoscere, vogliamo intro-durre una distinzione di cose o di proprietà obbiettive –una distinzione oggettiva perchè conoscitiva – fraquell'oggetto e quel soggetto che, in quanto esistono,

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esistono proprio come unità di soggetto oggetto e noncome due oggetti! A una domanda teoretica non si puòcoerentemente rispondere che con una risposta teoretica(che esclude il soggetto), riguardante l'oggettività, il va-lore di realtà di quel contenuto: per es., risponderò, cheuna sensazione dolce è, considerata in sè stessa, unaproprietà organolettica; riportata alle sue cause, è il pro-dotto di stimoli chimici esterni e di fattori organici inter-ni, e che i primi ci dànno il sensibile e i secondi il senti-mento spiacevole.

Ma il sentimento non è soggettivo perchè corporeo,perchè reale. Nella sensazione, sensibile e sentito sono,sì, realmente, la medesima unica cosa, l'incontro d'infi-nite cause naturali, che abbiam tutto il diritto di raggrup-pare in unità distinte ma sempre obbiettive e unificabiliin un'unità o rapporto ulteriore ed in sè, che ci spieghil'unità reale di soggetto e oggetto nella vita. Tuttavia,nella vita, esiste una dualità pratica, un'antinomia trasensibile e sentito, presente non come conoscenza, macome coscienza; ed è questa la posizione in cui ora cidobbiamo mettere se vogliamo comprendere anche ilfondamento del criterio per cui si può parlare conosciti-vamente d'un soggetto distinto dall'oggetto.

Io dico intanto che una sensazione, anche presa per sèstessa (cioè vissuta), e rifiutandone le suggestioni rap-presentative che ce la fanno diventare un oggetto (con-cettualmente), già si presenta dualizzata in contenuto eforma, in realtà (come esistenza) e valore (come co-scienza). Prima d'esser, conoscitivamente, rapporto – e

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esistono proprio come unità di soggetto oggetto e noncome due oggetti! A una domanda teoretica non si puòcoerentemente rispondere che con una risposta teoretica(che esclude il soggetto), riguardante l'oggettività, il va-lore di realtà di quel contenuto: per es., risponderò, cheuna sensazione dolce è, considerata in sè stessa, unaproprietà organolettica; riportata alle sue cause, è il pro-dotto di stimoli chimici esterni e di fattori organici inter-ni, e che i primi ci dànno il sensibile e i secondi il senti-mento spiacevole.

Ma il sentimento non è soggettivo perchè corporeo,perchè reale. Nella sensazione, sensibile e sentito sono,sì, realmente, la medesima unica cosa, l'incontro d'infi-nite cause naturali, che abbiam tutto il diritto di raggrup-pare in unità distinte ma sempre obbiettive e unificabiliin un'unità o rapporto ulteriore ed in sè, che ci spieghil'unità reale di soggetto e oggetto nella vita. Tuttavia,nella vita, esiste una dualità pratica, un'antinomia trasensibile e sentito, presente non come conoscenza, macome coscienza; ed è questa la posizione in cui ora cidobbiamo mettere se vogliamo comprendere anche ilfondamento del criterio per cui si può parlare conosciti-vamente d'un soggetto distinto dall'oggetto.

Io dico intanto che una sensazione, anche presa per sèstessa (cioè vissuta), e rifiutandone le suggestioni rap-presentative che ce la fanno diventare un oggetto (con-cettualmente), già si presenta dualizzata in contenuto eforma, in realtà (come esistenza) e valore (come co-scienza). Prima d'esser, conoscitivamente, rapporto – e

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cioè accordo teoretico – di soggetto e oggetto distinti, èantinomia pratica di sensibile e sentito realmente uniti.

Una sensazione, per ipotesi, prima ed unica di amaro,mentre è presente, mentre esiste – e, potremmo dire, siafferma (è necessaria, è in sè) – perchè è quel tal amarocosì dato, si nega e s'oppone a sè stessa perchè senti-mento spiacevole, spontaneità del desiderio che vuol li-berarsi, trascendentalità del volere su l'essere che pur n'èl'esistenza. In somma, la vita ha un fine – e lo deve quin-di avere tutto l'Essere che si attua nella nostra vita –: siacciechi questa finalità d'ogni sua rappresentazione, cioèd'ogni suo contenuto oggettivo e si denomini obbiettiva-mente, naturalisticamente, «istinto» o «impulso», ebbe-ne, l'impulso è soggettivamente il bisogno che sentiamodi trascendere la sensazione sentita, natura del volere.Vivendo una sensazione, sentiamo il sensibile con un di-slivello morale, che non è ancora una differenza reale,una conoscenza teoretica, ma già è una conoscenza pra-tica, un valore dell'esistenza che supera l'esistente, senti-to come coscienza. La coscienza – anche se, a questo li-vello, la si chiama «inconscio» perchè non ancora cono-scenza teoretica – è l'io che s'afferma negando il non io,si afferma come trascendentalità del valore su l'essere,libertà del volere sulla necessità del dato di fatto.

8. – Parole troppo grosse, adoperate a proposito d'unasemplice e povera sensazione d'amaro? La filosofia im-piegò il termine «trascendente» con significato ontologi-co trascendenti sono quei valori – e primo fra tutti il va-

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cioè accordo teoretico – di soggetto e oggetto distinti, èantinomia pratica di sensibile e sentito realmente uniti.

Una sensazione, per ipotesi, prima ed unica di amaro,mentre è presente, mentre esiste – e, potremmo dire, siafferma (è necessaria, è in sè) – perchè è quel tal amarocosì dato, si nega e s'oppone a sè stessa perchè senti-mento spiacevole, spontaneità del desiderio che vuol li-berarsi, trascendentalità del volere su l'essere che pur n'èl'esistenza. In somma, la vita ha un fine – e lo deve quin-di avere tutto l'Essere che si attua nella nostra vita –: siacciechi questa finalità d'ogni sua rappresentazione, cioèd'ogni suo contenuto oggettivo e si denomini obbiettiva-mente, naturalisticamente, «istinto» o «impulso», ebbe-ne, l'impulso è soggettivamente il bisogno che sentiamodi trascendere la sensazione sentita, natura del volere.Vivendo una sensazione, sentiamo il sensibile con un di-slivello morale, che non è ancora una differenza reale,una conoscenza teoretica, ma già è una conoscenza pra-tica, un valore dell'esistenza che supera l'esistente, senti-to come coscienza. La coscienza – anche se, a questo li-vello, la si chiama «inconscio» perchè non ancora cono-scenza teoretica – è l'io che s'afferma negando il non io,si afferma come trascendentalità del valore su l'essere,libertà del volere sulla necessità del dato di fatto.

8. – Parole troppo grosse, adoperate a proposito d'unasemplice e povera sensazione d'amaro? La filosofia im-piegò il termine «trascendente» con significato ontologi-co trascendenti sono quei valori – e primo fra tutti il va-

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lore di realtà – che affermiamo assoluti, indipendenti dalnostro io empirico e universali: l'essere in sè del mondo(la «cosa in sè») e il dover essere assoluto dei valorimorali (Dio). Tutta la nostra esperienza esterna e inter-na, tutto ciò che conosciamo e che vogliamo, perdereb-be ogni significato e ogni valore, se non fosse misuratoper mezzo di qualcosa d'assoluto da cui dipenda e percui sia conoscibile razionalmente e giustificabile ideal-mente. Non soltanto, in generale, non potremmo affer-mare vera una cosa o buono un atto se non vi fosseroverità e bene in sè, ma anche particolarmente, un feno-meno rinvia alla sua causa e questa ad altra fin a unacausa prima e assoluta, e una norma rinvia a un dovereassoluto che le fornisca il diritto d'impero.

Davanti a questa evidente necessità di dover spiegaree giustificare il relativo dell'esperienza con l'assolutotrascendente, il molteplice e vario dei fenomeni conl'une noumenico, che anche il nominalismo e l'empiri-smo hanno sempre dovuto riconoscere, o ci si rannic-chia nella comoda casetta dell'agnosticismo, definendol'assoluto sol per negazione di tutti gli attributi positivi odichiarandolo illusorio e soggettivo (ma non è questo unassoluto, sebbene scettico, relativismo?); ovvero si cer-ca per altra via il rapporto fra noi e il mondo trascenden-te, immanentizzandone i valori.

Tal via può essere quella della «reminiscenza» plato-nica, o della grazia, o della consunstanzialità dell'animaumana e di Dio, o della partecipazione occasionale ecc.;ma son sempre mezzi mitici d'esplicazione d'un fatto,

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lore di realtà – che affermiamo assoluti, indipendenti dalnostro io empirico e universali: l'essere in sè del mondo(la «cosa in sè») e il dover essere assoluto dei valorimorali (Dio). Tutta la nostra esperienza esterna e inter-na, tutto ciò che conosciamo e che vogliamo, perdereb-be ogni significato e ogni valore, se non fosse misuratoper mezzo di qualcosa d'assoluto da cui dipenda e percui sia conoscibile razionalmente e giustificabile ideal-mente. Non soltanto, in generale, non potremmo affer-mare vera una cosa o buono un atto se non vi fosseroverità e bene in sè, ma anche particolarmente, un feno-meno rinvia alla sua causa e questa ad altra fin a unacausa prima e assoluta, e una norma rinvia a un dovereassoluto che le fornisca il diritto d'impero.

Davanti a questa evidente necessità di dover spiegaree giustificare il relativo dell'esperienza con l'assolutotrascendente, il molteplice e vario dei fenomeni conl'une noumenico, che anche il nominalismo e l'empiri-smo hanno sempre dovuto riconoscere, o ci si rannic-chia nella comoda casetta dell'agnosticismo, definendol'assoluto sol per negazione di tutti gli attributi positivi odichiarandolo illusorio e soggettivo (ma non è questo unassoluto, sebbene scettico, relativismo?); ovvero si cer-ca per altra via il rapporto fra noi e il mondo trascenden-te, immanentizzandone i valori.

Tal via può essere quella della «reminiscenza» plato-nica, o della grazia, o della consunstanzialità dell'animaumana e di Dio, o della partecipazione occasionale ecc.;ma son sempre mezzi mitici d'esplicazione d'un fatto,

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presente anche nella più modesta conoscenza empirica,la quale implica vi sia qualcosa in sè da conoscere e uncorrispondente «principio» innato della conoscenza. Al-lora il Kant, come tutti sanno, rapì il trascendenteall'ontologismo dogmatico e lo trasformò nel «trascen-dentale» psicologico, che definisce la forma conoscitivae non più certi suoi contenuti, «inconoscibili» appuntoperchè trascendenti. Secondo Kant, la trascendentalità èdel pensiero e sta nel valore formale della conoscenza.Ma che cosa significa «forma» per un kantiano? Iol'interpreto così:

Il pensiero, astratto da' suoi oggetti – o meglio, oppo-sto (praticamente) a' suoi contenuti empirici –, ci appari-sce (io direi «lo sentiamo») come coscienza d'una liberae spontanea attività, a priori e formale: a priori perchèpura e indipendente (in quanto opposta ai contenuti og-gettivi); formale perchè capacità conoscitiva, ragione.Infatti, se ora volessimo esprimere questa purezza, sevolessimo attuare, in un giudizio, questa potenza, enun-ceremmo un di quei «principii di ragione», che vedremototalmente a priori poichè definiscono la categoria stes-sa nella sua universalità e necessità.

La cosa è ben evidente se noi, non avendo più da sba-ragliare un precedente razionalismo (realista o nominali-sta che fosse, cartesiano od humiano), invertiamo l'ordi-ne della critica kantiana, incominciando dal dedurre laforma pratica della ragione. Lasciàmo che la nostra vo-lontà, l'«io», si liberi totalmente, com'è sua natura,dall'esperienza empirica; lasciàmo che il pensiero, che

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presente anche nella più modesta conoscenza empirica,la quale implica vi sia qualcosa in sè da conoscere e uncorrispondente «principio» innato della conoscenza. Al-lora il Kant, come tutti sanno, rapì il trascendenteall'ontologismo dogmatico e lo trasformò nel «trascen-dentale» psicologico, che definisce la forma conoscitivae non più certi suoi contenuti, «inconoscibili» appuntoperchè trascendenti. Secondo Kant, la trascendentalità èdel pensiero e sta nel valore formale della conoscenza.Ma che cosa significa «forma» per un kantiano? Iol'interpreto così:

Il pensiero, astratto da' suoi oggetti – o meglio, oppo-sto (praticamente) a' suoi contenuti empirici –, ci appari-sce (io direi «lo sentiamo») come coscienza d'una liberae spontanea attività, a priori e formale: a priori perchèpura e indipendente (in quanto opposta ai contenuti og-gettivi); formale perchè capacità conoscitiva, ragione.Infatti, se ora volessimo esprimere questa purezza, sevolessimo attuare, in un giudizio, questa potenza, enun-ceremmo un di quei «principii di ragione», che vedremototalmente a priori poichè definiscono la categoria stes-sa nella sua universalità e necessità.

La cosa è ben evidente se noi, non avendo più da sba-ragliare un precedente razionalismo (realista o nominali-sta che fosse, cartesiano od humiano), invertiamo l'ordi-ne della critica kantiana, incominciando dal dedurre laforma pratica della ragione. Lasciàmo che la nostra vo-lontà, l'«io», si liberi totalmente, com'è sua natura,dall'esperienza empirica; lasciàmo che il pensiero, che

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n'è la coscienza, corra liberamente e spontaneamentealle sue ultime mete, che ne diverranno la conoscenzapuro pratica: avremo un pensiero soltanto formale, chenon ha bisogno (come la conoscenza teoretica) di relati-vizzarsi ai contenuti empirici e prende, per così dire, acontenuto la sua stessa forma, oggettivandola nella leg-ge morale. La forma del pensiero puro pratico è dunquela norma in universale, il «dover essere» assoluto, che ilvolere prescrive a sè stesso obbiettivandosi in una legge,per applicarla poi come criterio del giudizio morale aproposito di qualsiasi contenuto empirico, e come nor-ma di qualsiasi azione umana.

L'autonomia del volere, soggettiva come spontaneitàdel sentimento, cosciente come antinomia pratica fra ciòche il volere vuole e ciò che è il sentito, si oggettiva de-terminandosi conoscitivamente come legge, dovere. Il«dovere» non è dunque più una spiritualità trascendentee in sè (il Dio ontologico), ma una forma della ragionpura, una «idea trascendentale» immanente nello spiritoumano, anzi «nel cuore»! È a priori perchè da nessunaparticolare esperienza la potremmo dedurre come nessu-na la potrebbe esaurire; è formale perchè obbiettivata inun imperativo assoluto, unico modo col quale l'io, il vo-lere, si può oggettivare, si può conoscere, rimanendopuro volere, soggetto senza oggetto: la conoscenza pra-tica è normativa e non costitutiva dell'esperienza. Quan-do poi andiamo a cercare per via teoretica quale possaesser l'origine della norma etica, non troviamo di fattoche l'«esigenza» della libertà del volere: la volontà

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n'è la coscienza, corra liberamente e spontaneamentealle sue ultime mete, che ne diverranno la conoscenzapuro pratica: avremo un pensiero soltanto formale, chenon ha bisogno (come la conoscenza teoretica) di relati-vizzarsi ai contenuti empirici e prende, per così dire, acontenuto la sua stessa forma, oggettivandola nella leg-ge morale. La forma del pensiero puro pratico è dunquela norma in universale, il «dover essere» assoluto, che ilvolere prescrive a sè stesso obbiettivandosi in una legge,per applicarla poi come criterio del giudizio morale aproposito di qualsiasi contenuto empirico, e come nor-ma di qualsiasi azione umana.

L'autonomia del volere, soggettiva come spontaneitàdel sentimento, cosciente come antinomia pratica fra ciòche il volere vuole e ciò che è il sentito, si oggettiva de-terminandosi conoscitivamente come legge, dovere. Il«dovere» non è dunque più una spiritualità trascendentee in sè (il Dio ontologico), ma una forma della ragionpura, una «idea trascendentale» immanente nello spiritoumano, anzi «nel cuore»! È a priori perchè da nessunaparticolare esperienza la potremmo dedurre come nessu-na la potrebbe esaurire; è formale perchè obbiettivata inun imperativo assoluto, unico modo col quale l'io, il vo-lere, si può oggettivare, si può conoscere, rimanendopuro volere, soggetto senza oggetto: la conoscenza pra-tica è normativa e non costitutiva dell'esperienza. Quan-do poi andiamo a cercare per via teoretica quale possaesser l'origine della norma etica, non troviamo di fattoche l'«esigenza» della libertà del volere: la volontà

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dev'esser libera di dettarsi la sua propria norma perchèvuol esserlo.

Su questo punto, per ora, la critica può soltanto con-cludere, che il volere trascende sempre l'essere esistentenel dover essere, determinandosi in un rapporto teleolo-gico, che subordina i contenuti (come mezzi) al fine for-male, il quale ne costituisce il valore. Valore e fine,nell'uso pratico, coincidono. Essi non esprimono la real-tà d'una rappresentazione o d'un concetto, ma la trascen-dentalità del volere, l'idealità dell'idea. Voglio dire chenel rapporto pratico di soggetto a oggetto – rapportoche, ricordiàmolo, non è di due cose o di due proprietàoggettive, come i rapporti teoretici di sostanze e di cau-se, ma è d'antinomia implicita nella stessa attività prati-ca, ed esplicita nel pensiero o conoscenza di questa co-scienza l'oggetto (che poi diremo) reale, e il soggettostesso in quanto realmente esistente, sono adoperaticome mezzi e relativizzati come contenuti conoscitivi alfine soggettivo, il quale ne misura il valore.

Sia dato un sentimento, un affetto, un interesse qua-lunque: son date nel contempo altrettante finalità, impli-cite nella reazione pratica, concreta e diretta, esplicitenel pensiero pratico che valutando, scegliendo, delibe-rando, determinerà (nel proposito) i fini e i mezzidell'azione. Il pensiero pratico giudicherà i valori e i di-svalori degli oggetti secondo che questi (e quindi anchegli atti) sono in accordo o in antinomia col fine ideale.Naturalmente, si costituisce in tal modo una gerarchia difini, più o men coerente e consapevole, sentita come in-

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dev'esser libera di dettarsi la sua propria norma perchèvuol esserlo.

Su questo punto, per ora, la critica può soltanto con-cludere, che il volere trascende sempre l'essere esistentenel dover essere, determinandosi in un rapporto teleolo-gico, che subordina i contenuti (come mezzi) al fine for-male, il quale ne costituisce il valore. Valore e fine,nell'uso pratico, coincidono. Essi non esprimono la real-tà d'una rappresentazione o d'un concetto, ma la trascen-dentalità del volere, l'idealità dell'idea. Voglio dire chenel rapporto pratico di soggetto a oggetto – rapportoche, ricordiàmolo, non è di due cose o di due proprietàoggettive, come i rapporti teoretici di sostanze e di cau-se, ma è d'antinomia implicita nella stessa attività prati-ca, ed esplicita nel pensiero o conoscenza di questa co-scienza l'oggetto (che poi diremo) reale, e il soggettostesso in quanto realmente esistente, sono adoperaticome mezzi e relativizzati come contenuti conoscitivi alfine soggettivo, il quale ne misura il valore.

Sia dato un sentimento, un affetto, un interesse qua-lunque: son date nel contempo altrettante finalità, impli-cite nella reazione pratica, concreta e diretta, esplicitenel pensiero pratico che valutando, scegliendo, delibe-rando, determinerà (nel proposito) i fini e i mezzidell'azione. Il pensiero pratico giudicherà i valori e i di-svalori degli oggetti secondo che questi (e quindi anchegli atti) sono in accordo o in antinomia col fine ideale.Naturalmente, si costituisce in tal modo una gerarchia difini, più o men coerente e consapevole, sentita come in-

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dividualità (persona, in opposizione all'ambiente) e ca-rattere (in opposizione alle stesse volizioni propriespontanee), dove il fine superiore subordina e giudicaquello inferiore. Ma la scala dei valori è l'ascesa del vo-lere, del soggetto, a una posizione puramente formaledella ragion puro pratica definibile sol idealmente, oveil fine supremo diviene il valore noumenico e la perfettaautonomia coincide con l'obbligatorietà assoluta dellalegge universale.

La grande innovazione kantiana sta in questa posizio-ne pratica e romantica, alla quale deve risalire ogni «fi-losofia dei valori». Il valore d'un fenomeno qualunquenon è nel fenomeno, che li può rappresentare tutti: è nelnoumeno, nel pensabile di tal fenomeno, riducibile allaforma o idea pura in cui si attua conoscitivamente il finedel volere in antinomia col fenomeno dato. I valori sondunque dei puri pensabili di ragion soggettiva, ossiapratica, anche se oggettivati in idee trascendentali e innorme e leggi universali; del resto, ideale e formale nonè solamente il valore supremo (l'idea del bene e l'impe-rativo categorico), ma lo son ugualmente, quantunquesubordinatamente, le idee di utile, di giusto, di santoecc. Il soggetto, non come fenomeno tra i fenomeni, macome forma del volere e valore d'ogni fenomeno – cioècome spirito – è ormai al centro dell'essere. L'esserestesso è tale, ha il valore d'un essere, non in quanto ap-pare fenomenicamente, ma in quanto dev'essere qualco-sa d'assoluto, di noumenico, in antinomia col suo appa-rir fenomenico: la «cosa in sè».

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dividualità (persona, in opposizione all'ambiente) e ca-rattere (in opposizione alle stesse volizioni propriespontanee), dove il fine superiore subordina e giudicaquello inferiore. Ma la scala dei valori è l'ascesa del vo-lere, del soggetto, a una posizione puramente formaledella ragion puro pratica definibile sol idealmente, oveil fine supremo diviene il valore noumenico e la perfettaautonomia coincide con l'obbligatorietà assoluta dellalegge universale.

La grande innovazione kantiana sta in questa posizio-ne pratica e romantica, alla quale deve risalire ogni «fi-losofia dei valori». Il valore d'un fenomeno qualunquenon è nel fenomeno, che li può rappresentare tutti: è nelnoumeno, nel pensabile di tal fenomeno, riducibile allaforma o idea pura in cui si attua conoscitivamente il finedel volere in antinomia col fenomeno dato. I valori sondunque dei puri pensabili di ragion soggettiva, ossiapratica, anche se oggettivati in idee trascendentali e innorme e leggi universali; del resto, ideale e formale nonè solamente il valore supremo (l'idea del bene e l'impe-rativo categorico), ma lo son ugualmente, quantunquesubordinatamente, le idee di utile, di giusto, di santoecc. Il soggetto, non come fenomeno tra i fenomeni, macome forma del volere e valore d'ogni fenomeno – cioècome spirito – è ormai al centro dell'essere. L'esserestesso è tale, ha il valore d'un essere, non in quanto ap-pare fenomenicamente, ma in quanto dev'essere qualco-sa d'assoluto, di noumenico, in antinomia col suo appa-rir fenomenico: la «cosa in sè».

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9. – A questo punto l'attività e il pensiero pratico siconverton in attività e pensiero teoretico. A meglio con-siderare, non si tratta d'una conversione ma d'una reci-proca implicanza e corrispondenza de' due «usi» dellamedesima attività. Teoretica e pratica non costituisconodue attività ex aequo di un mitico spirito sottoposto: seora ne parliamo teoreticamente – se a nostra volta siamoteoretici perchè vogliamo conoscere la realtà oggettivadi tali «fatti» della nostra esperienza «interna» –, esse ciappariscono intanto una sola attività, dipendente dal vo-lere dell'individuo empirico, la quale, perchè attività vo-lontaria (determinazione teleologica), è sempre pratica,essenzialmente pratica. Dico che, empiricamente parlan-do, l'attività (e quindi la conoscenza) teoretica non cirappresenta altro che un caso dell'attività pratica: il casoin cui vogliamo appunto conoscere oggettivamente glioggetti reali – oggettivare l'oggetto – interpretando ilsensibile e ad esso relativizzando gli altri fini del nostrovolere. Proprio perchè il volere, per la sua natura senti-mentale è impulso a trascender l'esistenza attuale e quin-di a modificare l'essere reale (compreso il suo proprioessere empirico), è nel medesimo tempo costretto a co-noscere questo essere com'è, oggettivamente. Proprioperchè aspira al dover essere, deve, per attuarlo, fare iconti con l'esistenza e conoscerne la necessità e le leggi;deve, sia pur temporaneamente, adeguarsi al reale, permodificarlo e per servirsene ai fini pratici.

Naturalmente, come la valutazione pratica d'un ogget-to, per es. utile, è pensiero pratico che valuta e sceglie

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9. – A questo punto l'attività e il pensiero pratico siconverton in attività e pensiero teoretico. A meglio con-siderare, non si tratta d'una conversione ma d'una reci-proca implicanza e corrispondenza de' due «usi» dellamedesima attività. Teoretica e pratica non costituisconodue attività ex aequo di un mitico spirito sottoposto: seora ne parliamo teoreticamente – se a nostra volta siamoteoretici perchè vogliamo conoscere la realtà oggettivadi tali «fatti» della nostra esperienza «interna» –, esse ciappariscono intanto una sola attività, dipendente dal vo-lere dell'individuo empirico, la quale, perchè attività vo-lontaria (determinazione teleologica), è sempre pratica,essenzialmente pratica. Dico che, empiricamente parlan-do, l'attività (e quindi la conoscenza) teoretica non cirappresenta altro che un caso dell'attività pratica: il casoin cui vogliamo appunto conoscere oggettivamente glioggetti reali – oggettivare l'oggetto – interpretando ilsensibile e ad esso relativizzando gli altri fini del nostrovolere. Proprio perchè il volere, per la sua natura senti-mentale è impulso a trascender l'esistenza attuale e quin-di a modificare l'essere reale (compreso il suo proprioessere empirico), è nel medesimo tempo costretto a co-noscere questo essere com'è, oggettivamente. Proprioperchè aspira al dover essere, deve, per attuarlo, fare iconti con l'esistenza e conoscerne la necessità e le leggi;deve, sia pur temporaneamente, adeguarsi al reale, permodificarlo e per servirsene ai fini pratici.

Naturalmente, come la valutazione pratica d'un ogget-to, per es. utile, è pensiero pratico che valuta e sceglie

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tal oggetto come mezzo, conveniente o meno ai fini uti-litari e soggettivi, per cui il mezzo temporaneamente di-viene un fine pratico – legge della conversione dei mez-zi in fini, costante in ogni attività pratica e tanto più,quanto più ricca e complessa è la vita –, così la cono-scenza teoretica, nata dal bisogno di valutare oggettiva-mente l'oggetto perchè sia mezzo all'attuazione dei finipratici, diventa fine a sè stessa, diventa sapere oggettivoe scienza, da cui il soggetto volontario («emendato»come amore e desiderio di sapere) vuol eliminare quan-to vi sia di soggettivo e finalistico. Ma insomma, l'attivi-tà teoretica non cessa d'esser pratica, almeno in quantonon lo vuol essere! (Di qui l'errore del prammatismo fi-losofico: dalla constatazione di fatto, che la conoscenzateoretica ha origine, come esperienza e come scienza,nei fini pratici ai quali deve servire di strumento per laloro migliore attuazione utilitaria, inferisce che il vero,come valore reale costruito nella conoscenza, sia sog-gettivo e pratico in sè. Ma, proprio praticamente parlan-do, il vero non dev'esser soggettivo... Altrimenti, ancheil prammatismo sarebbe un concetto solo conveniente; ea che scopo?)

La critica pertanto conclude, che un valore è soggetti-vo in quanto è un fine del volere, in quanto è pratico.Nel contempo deve però riconoscere, che il valore d'unacosa o d'un atto qualunque, per quanto soggettivo – perquanto cioè relativizzi i contenuti (la cosa e l'atto valuta-ti e scelti) alla forma (alla norma e al fine soggettivo delvolere) – non sarebbe nè un valore nè un fine, se non si

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tal oggetto come mezzo, conveniente o meno ai fini uti-litari e soggettivi, per cui il mezzo temporaneamente di-viene un fine pratico – legge della conversione dei mez-zi in fini, costante in ogni attività pratica e tanto più,quanto più ricca e complessa è la vita –, così la cono-scenza teoretica, nata dal bisogno di valutare oggettiva-mente l'oggetto perchè sia mezzo all'attuazione dei finipratici, diventa fine a sè stessa, diventa sapere oggettivoe scienza, da cui il soggetto volontario («emendato»come amore e desiderio di sapere) vuol eliminare quan-to vi sia di soggettivo e finalistico. Ma insomma, l'attivi-tà teoretica non cessa d'esser pratica, almeno in quantonon lo vuol essere! (Di qui l'errore del prammatismo fi-losofico: dalla constatazione di fatto, che la conoscenzateoretica ha origine, come esperienza e come scienza,nei fini pratici ai quali deve servire di strumento per laloro migliore attuazione utilitaria, inferisce che il vero,come valore reale costruito nella conoscenza, sia sog-gettivo e pratico in sè. Ma, proprio praticamente parlan-do, il vero non dev'esser soggettivo... Altrimenti, ancheil prammatismo sarebbe un concetto solo conveniente; ea che scopo?)

La critica pertanto conclude, che un valore è soggetti-vo in quanto è un fine del volere, in quanto è pratico.Nel contempo deve però riconoscere, che il valore d'unacosa o d'un atto qualunque, per quanto soggettivo – perquanto cioè relativizzi i contenuti (la cosa e l'atto valuta-ti e scelti) alla forma (alla norma e al fine soggettivo delvolere) – non sarebbe nè un valore nè un fine, se non si

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riferisse e in qualche maniera non si relativizzasse a suavolta a tali contenuti; che l'attività e il pensiero praticidevon esser pratici di qualche cosa, «idee» di qualche«concetto»; che infine un valore, una forma, non son va-lore senza realtà, forma di niente. Per esempio, l'utilitàdi nessun (oggetto o atto) utile, il fine di nessun mezzo,non sono più nè utilità (valore) nè finalità: si riducono alpiacere, ch'è un sentimento, un semplice fatto psichico.E il giudizio pratico, quello che i logici chiamano «giu-dizio di valore» perchè appunto valuta la convenienza,giustizia, eticità, santità di qualcosa o di qualche azione,deve potersi esprimere col verbo «è» proprio al pari d'ungiudizio «esistenziale», o meglio, dev'essere anch'essoun giudizio esistenziale (del valore); se no, che giudiziosarebbe? la proposizione esprimerebbe unicamente ildesiderio o la preghiera o il comando e, in una parola, ilsoggetto, ma non sarebbe una sintesi conoscitiva.

Ritornando al Kant, egli non ha punto separato il teo-retico dal pratico, come si suol facilmente credere, masoltanto i lor usi e il loro dominio; e questi non li ha di-visi teoreticamente, oggettivamente, ma opposti per an-tinomia pratica.

Mi spiego. Se chiediamo all'etica kantiana, «che cosasia» il bene o il dovere, il Kant corregge subito l'erroredella nostra domanda (teoretica) rispondendoci che cosaessi debbono essere per valere come idea e come leggemorale. Ossia, egli, per fondare i valori pratici, si ponenella pratica, esigendo l'autonomia e l'incondizionalitàassoluta dell'imperativo morale, anche se teoreticamente

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riferisse e in qualche maniera non si relativizzasse a suavolta a tali contenuti; che l'attività e il pensiero praticidevon esser pratici di qualche cosa, «idee» di qualche«concetto»; che infine un valore, una forma, non son va-lore senza realtà, forma di niente. Per esempio, l'utilitàdi nessun (oggetto o atto) utile, il fine di nessun mezzo,non sono più nè utilità (valore) nè finalità: si riducono alpiacere, ch'è un sentimento, un semplice fatto psichico.E il giudizio pratico, quello che i logici chiamano «giu-dizio di valore» perchè appunto valuta la convenienza,giustizia, eticità, santità di qualcosa o di qualche azione,deve potersi esprimere col verbo «è» proprio al pari d'ungiudizio «esistenziale», o meglio, dev'essere anch'essoun giudizio esistenziale (del valore); se no, che giudiziosarebbe? la proposizione esprimerebbe unicamente ildesiderio o la preghiera o il comando e, in una parola, ilsoggetto, ma non sarebbe una sintesi conoscitiva.

Ritornando al Kant, egli non ha punto separato il teo-retico dal pratico, come si suol facilmente credere, masoltanto i lor usi e il loro dominio; e questi non li ha di-visi teoreticamente, oggettivamente, ma opposti per an-tinomia pratica.

Mi spiego. Se chiediamo all'etica kantiana, «che cosasia» il bene o il dovere, il Kant corregge subito l'erroredella nostra domanda (teoretica) rispondendoci che cosaessi debbono essere per valere come idea e come leggemorale. Ossia, egli, per fondare i valori pratici, si ponenella pratica, esigendo l'autonomia e l'incondizionalitàassoluta dell'imperativo morale, anche se teoreticamente

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riconosce che nessun'azione umana si può di fatto deter-minare secondo la pura ragion pratica. «Fa' il tuo dove-re, avvenga che può!» è una norma, una determinazionepratica, non è una conoscenza teoretica; se ci chiedeva-mo invece che cos'è il dovere teoreticamente, la rispostanon avrebbe più determinato il dovere, ma spiegato ilpotere, l'accordo del dovere con l'essere, e non sarebbestata questione morale, ma psicologica e storica.

Lo stesso si dica degli altri valori soggettivi, dei valo-ri che coincidono coi fini. Se si vuol parlare del sogget-to, bisogna rimanervi dentro: posso giudicare d'utilità edi politica, di diritto e di religione, sol restando uomoeconomico, politico, civile, religioso; se invece voglioconoscere la realtà d'uno di questi fatti, ne istituisco ladiagnosi e la storia ponendo fuori causa il mio soggetto,i miei interessi e le mie esigenze pratiche. Allora relati-vizzerò quel che prima avevo antinomizzato, unificheròciò che avevo diviso. La storia vuol e dev'essere sapereper eccellenza oggettivo e teoretico: pur constatandoche noi non «comprenderemmo» la storia se non rivi-vessimo soggettivamente i fini e i valori umani che vi sirealizzano – poi che il soggetto non si trasmette per rap-presentazioni come l'oggetto reale, ma rivive simpateti-camente –, la storia ricostruisce e valuta la loro realtà difatto; anzi, è il fatto, il contenuto quello a cui domandia-mo le suggestioni che ci consenton di rivivere lo spiritodei tempi.

Ma, in sede filosofica e critica – riflessione sui valoristessi e non sui lor contenuti sensibili – non possiamo

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riconosce che nessun'azione umana si può di fatto deter-minare secondo la pura ragion pratica. «Fa' il tuo dove-re, avvenga che può!» è una norma, una determinazionepratica, non è una conoscenza teoretica; se ci chiedeva-mo invece che cos'è il dovere teoreticamente, la rispostanon avrebbe più determinato il dovere, ma spiegato ilpotere, l'accordo del dovere con l'essere, e non sarebbestata questione morale, ma psicologica e storica.

Lo stesso si dica degli altri valori soggettivi, dei valo-ri che coincidono coi fini. Se si vuol parlare del sogget-to, bisogna rimanervi dentro: posso giudicare d'utilità edi politica, di diritto e di religione, sol restando uomoeconomico, politico, civile, religioso; se invece voglioconoscere la realtà d'uno di questi fatti, ne istituisco ladiagnosi e la storia ponendo fuori causa il mio soggetto,i miei interessi e le mie esigenze pratiche. Allora relati-vizzerò quel che prima avevo antinomizzato, unificheròciò che avevo diviso. La storia vuol e dev'essere sapereper eccellenza oggettivo e teoretico: pur constatandoche noi non «comprenderemmo» la storia se non rivi-vessimo soggettivamente i fini e i valori umani che vi sirealizzano – poi che il soggetto non si trasmette per rap-presentazioni come l'oggetto reale, ma rivive simpateti-camente –, la storia ricostruisce e valuta la loro realtà difatto; anzi, è il fatto, il contenuto quello a cui domandia-mo le suggestioni che ci consenton di rivivere lo spiritodei tempi.

Ma, in sede filosofica e critica – riflessione sui valoristessi e non sui lor contenuti sensibili – non possiamo

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certo divider più la pratica dalla teoretica, il mondo nou-menico dalla conoscenza fenomenica, il dover essere(pensabile) dall'essere (esistente), chè sarebbe un divi-der la forma dal contenuto: essi infatti s'oppongono perantinomia pratica, ma ritrovan nei contenuti e debbon ri-trovare nella forma l'unità reale dei valori. La ritrovano(o meglio, noi la formiamo) nei contenuti, perchè, comes'è ora detto, il fine si attua in un sensibile, il valore valedi qualche cosa, e il dovere stesso assoluto ha bisognodi essere e per essere di subordinarsi al poter essere, allaconoscenza teoretica causale: è un primo modo, empiri-co, con cui l'attività teoretica, sorgente come mezzo delvolere pratico e quindi subordinante i propri valori agliinteressi e ai fini pratici (relatività dell'oggetto al sogget-to), a sua volta relativizza e (almeno temporaneamente)subordina le finalità soggettive alla realtà oggettiva.

Ma ancor prima, per il Kant, l'unità dei valori si trova– e questa volta a priori – nella trascendentalità dellaforma, nell'idea pura. Schematizzando, è la medesima«ragion pura» quella che determina i valori etici comeidee noumeniche, mentre determina le categorie, i con-cetti formali per la conoscenza reale. La ragion pura nonè che il principio della conoscenza in genere, l'a prioriper mezzo del quale affermiamo le «idee» e costruiamoi «concetti», in antitesi pratica o in accordo teoreticocon l'esperienza. Tal principio, definibile come «doveressere» necessario e universale – che, applicato, divieneassolutezza e unità oggettiva –, come spinge il soggettoempirico al dover essere ideale, così dirige le esistenze

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certo divider più la pratica dalla teoretica, il mondo nou-menico dalla conoscenza fenomenica, il dover essere(pensabile) dall'essere (esistente), chè sarebbe un divi-der la forma dal contenuto: essi infatti s'oppongono perantinomia pratica, ma ritrovan nei contenuti e debbon ri-trovare nella forma l'unità reale dei valori. La ritrovano(o meglio, noi la formiamo) nei contenuti, perchè, comes'è ora detto, il fine si attua in un sensibile, il valore valedi qualche cosa, e il dovere stesso assoluto ha bisognodi essere e per essere di subordinarsi al poter essere, allaconoscenza teoretica causale: è un primo modo, empiri-co, con cui l'attività teoretica, sorgente come mezzo delvolere pratico e quindi subordinante i propri valori agliinteressi e ai fini pratici (relatività dell'oggetto al sogget-to), a sua volta relativizza e (almeno temporaneamente)subordina le finalità soggettive alla realtà oggettiva.

Ma ancor prima, per il Kant, l'unità dei valori si trova– e questa volta a priori – nella trascendentalità dellaforma, nell'idea pura. Schematizzando, è la medesima«ragion pura» quella che determina i valori etici comeidee noumeniche, mentre determina le categorie, i con-cetti formali per la conoscenza reale. La ragion pura nonè che il principio della conoscenza in genere, l'a prioriper mezzo del quale affermiamo le «idee» e costruiamoi «concetti», in antitesi pratica o in accordo teoreticocon l'esperienza. Tal principio, definibile come «doveressere» necessario e universale – che, applicato, divieneassolutezza e unità oggettiva –, come spinge il soggettoempirico al dover essere ideale, così dirige le esistenze

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sensibili alle unificazioni reali; è tuttavia evidente, che ilreale è sempre un dover essere (uno e assoluto) dell'esi-stenze empiriche – che il reale è ideale –, e che, d'altraparte, il dover essere dev'essere in sè, oggettivamente(necessario e universale), dev'esser cioè reale... Anche ilBene, soggettivo, per essere, come vogliamo che sia,«vero bene», deve conciliarsi alla fine con la leggedell'universo (stoicismo), e il fine soggettivo deve coin-cidere coi valori universali.

10. – È forse con ciò risolto il nostro problema, il pro-blema del rapporto di soggetto a oggetto, di forma acontenuto, di pensiero a sensazione, di valore della real-tà a realtà del valore? Sì, il Kant lo risolve, ma pratica-mente, unificandoli nel dover essere; teoreticamente,egli ne dichiara impossibile la soluzione, appunto per-chè la conoscenza teoretica non può nè vuole superarel'esperienza; appunto perchè il noumeno, il trascendente,lo si deve affermare praticamente ma non lo si può co-noscere teoreticamente, per concetti. Questa soluzioneromantica appaga la fede, non la «dottrina» religiosa; etanto meno la filosofia, la quale se, come accennammo,sente fortemente la spinta delle esigenze pratiche e deivalori umani, vuole però, appunto perchè umanesimo,razionalizzare gli stessi suoi sentimenti. Debbo però im-mediatamente soggiungere, che il Kant alla fine, nellasua estetica4, avviò il romanticismo (e specialmente lo

4 Cfr. particolarmente l'Introd, alla «Critica del Giudizio». Pernon ripetermi rinvio al mio saggio «Il pensiero come attività este-

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sensibili alle unificazioni reali; è tuttavia evidente, che ilreale è sempre un dover essere (uno e assoluto) dell'esi-stenze empiriche – che il reale è ideale –, e che, d'altraparte, il dover essere dev'essere in sè, oggettivamente(necessario e universale), dev'esser cioè reale... Anche ilBene, soggettivo, per essere, come vogliamo che sia,«vero bene», deve conciliarsi alla fine con la leggedell'universo (stoicismo), e il fine soggettivo deve coin-cidere coi valori universali.

10. – È forse con ciò risolto il nostro problema, il pro-blema del rapporto di soggetto a oggetto, di forma acontenuto, di pensiero a sensazione, di valore della real-tà a realtà del valore? Sì, il Kant lo risolve, ma pratica-mente, unificandoli nel dover essere; teoreticamente,egli ne dichiara impossibile la soluzione, appunto per-chè la conoscenza teoretica non può nè vuole superarel'esperienza; appunto perchè il noumeno, il trascendente,lo si deve affermare praticamente ma non lo si può co-noscere teoreticamente, per concetti. Questa soluzioneromantica appaga la fede, non la «dottrina» religiosa; etanto meno la filosofia, la quale se, come accennammo,sente fortemente la spinta delle esigenze pratiche e deivalori umani, vuole però, appunto perchè umanesimo,razionalizzare gli stessi suoi sentimenti. Debbo però im-mediatamente soggiungere, che il Kant alla fine, nellasua estetica4, avviò il romanticismo (e specialmente lo

4 Cfr. particolarmente l'Introd, alla «Critica del Giudizio». Pernon ripetermi rinvio al mio saggio «Il pensiero come attività este-

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Schelling) alla soluzione anche teoretica del problema, esarà questa la via che amplieremo nelle nostre conclu-sioni. Per intanto conviene sostare a ricapitolare le no-stre idee.

Allorchè riflettiamo sulla nostra esperienza e sullanostra scienza, dobbiam convenire (la necessità di que-sto «dobbiamo» è un sentimento di certezza obbiettivada mettersi in discussione con tutto il resto: prendiamoladunque provvisoriamente) che tutta quanta si può ricon-durre a un rapporto di soggetto a oggetto, implicito nellasensazione, esplicito nel pensiero in cui divien valore.Questo rapporto io lo chiamo «pratico» per definire cosìla natura o realtà esistenziale di tutti i valori che peresso si costituiscono; salvo l'obbligo che n'incombe poidi determinare lo stesso valore teoretico del concetto dinatura rispetto alla soggettività o praticità essenziale delpensiero.

Ma in una pura sensazione, come quella dell'ipotesi aparagrafo 7, soggettività e oggettività coincidono e, percosì dire (lo disse il nostro Galluppi), sono prova l'unadell'altra. Invero, una prima e unica sensazione d'amaro– e quindi ogni sensazione per sè stessa – non rappre-senta ancora nulla, nè una cosa amara fuori di noi, nèuna persona amareggiata da essa; non è una conoscenza(mediata). Se una statua acquistasse per prima quest'uni-ca sensazione e fin che permanga, «amaro» non sarebbe

tica e l'Introd. kantiana alla Cr. d. Giud.» nel volume «Filosofia inmargine», ed. Albrighi e Segati, 1929.

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Schelling) alla soluzione anche teoretica del problema, esarà questa la via che amplieremo nelle nostre conclu-sioni. Per intanto conviene sostare a ricapitolare le no-stre idee.

Allorchè riflettiamo sulla nostra esperienza e sullanostra scienza, dobbiam convenire (la necessità di que-sto «dobbiamo» è un sentimento di certezza obbiettivada mettersi in discussione con tutto il resto: prendiamoladunque provvisoriamente) che tutta quanta si può ricon-durre a un rapporto di soggetto a oggetto, implicito nellasensazione, esplicito nel pensiero in cui divien valore.Questo rapporto io lo chiamo «pratico» per definire cosìla natura o realtà esistenziale di tutti i valori che peresso si costituiscono; salvo l'obbligo che n'incombe poidi determinare lo stesso valore teoretico del concetto dinatura rispetto alla soggettività o praticità essenziale delpensiero.

Ma in una pura sensazione, come quella dell'ipotesi aparagrafo 7, soggettività e oggettività coincidono e, percosì dire (lo disse il nostro Galluppi), sono prova l'unadell'altra. Invero, una prima e unica sensazione d'amaro– e quindi ogni sensazione per sè stessa – non rappre-senta ancora nulla, nè una cosa amara fuori di noi, nèuna persona amareggiata da essa; non è una conoscenza(mediata). Se una statua acquistasse per prima quest'uni-ca sensazione e fin che permanga, «amaro» non sarebbe

tica e l'Introd. kantiana alla Cr. d. Giud.» nel volume «Filosofia inmargine», ed. Albrighi e Segati, 1929.

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altro che quello che è, ad «essere» qui non potrebbe si-gnificare altro che l'esser presente intuitivamente, l'esi-stere. «Sensazione», per esclusione di tutti gli altri valo-ri, significa per tutti i pensanti appunto ciò: esistenzapresente, esperienza intuitiva, esser noi l'oggetto stessoe viceversa (partecipazione al mondo).

L'esistenza sensibile, per es. questo amaro, bisognainfatti viverla (bisogna «esserla», direi!) perchè l'amarosia amaro. Se con questo esempio facciamo un'ipotesisemplice, essa non è però astratta; anzi, vogliamo defi-nire il concreto di tutti i valori, che per sè presi sono finiastratti e idee formali, Noi diciamo, è vero, che quellastatua esiste prima d'aver la sua prima sensazione ama-ra; essa esiste in sè e anch'essa è quello che è, molecolaper molecola, atomo per atomo: tuttavia questa esistenzain sè (oggetto) è presunta, ed è presunta da noi che ve-diamo e tocchiamo la pietra e, prescindendo dal nostrosoggetto (non dal vedere e dal toccare, prego!), la sti-miamo esistente fisicamente, la conosciamo come realtàfisica. In mancanza di qualunque soggetto, l'esistenza diquella pietra sarebbe come se non fosse, ossia non sa-rebbe un «valore», nemmeno reale. Perciò appunto sia-mo ricondotti a cercare la realtà di quell'esistenza nelcaso che la statua «si senta» esistere, e, prima che ilbianco il duro il liscio ecc. divengano contenuti dellaconoscenza d'un altro soggetto che li oggettiva nel con-cetto di pietra esistente in sè, sia essa questi contenuti,esista sensibilmente.

La sensazione non è (soltanto) oggetto – lo do-

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altro che quello che è, ad «essere» qui non potrebbe si-gnificare altro che l'esser presente intuitivamente, l'esi-stere. «Sensazione», per esclusione di tutti gli altri valo-ri, significa per tutti i pensanti appunto ciò: esistenzapresente, esperienza intuitiva, esser noi l'oggetto stessoe viceversa (partecipazione al mondo).

L'esistenza sensibile, per es. questo amaro, bisognainfatti viverla (bisogna «esserla», direi!) perchè l'amarosia amaro. Se con questo esempio facciamo un'ipotesisemplice, essa non è però astratta; anzi, vogliamo defi-nire il concreto di tutti i valori, che per sè presi sono finiastratti e idee formali, Noi diciamo, è vero, che quellastatua esiste prima d'aver la sua prima sensazione ama-ra; essa esiste in sè e anch'essa è quello che è, molecolaper molecola, atomo per atomo: tuttavia questa esistenzain sè (oggetto) è presunta, ed è presunta da noi che ve-diamo e tocchiamo la pietra e, prescindendo dal nostrosoggetto (non dal vedere e dal toccare, prego!), la sti-miamo esistente fisicamente, la conosciamo come realtàfisica. In mancanza di qualunque soggetto, l'esistenza diquella pietra sarebbe come se non fosse, ossia non sa-rebbe un «valore», nemmeno reale. Perciò appunto sia-mo ricondotti a cercare la realtà di quell'esistenza nelcaso che la statua «si senta» esistere, e, prima che ilbianco il duro il liscio ecc. divengano contenuti dellaconoscenza d'un altro soggetto che li oggettiva nel con-cetto di pietra esistente in sè, sia essa questi contenuti,esista sensibilmente.

La sensazione non è (soltanto) oggetto – lo do-

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vrebb'essere per un altro soggetto –, nè (soltanto) sog-getto – che non esisterebbe di nessun oggetto –; è il loroconcreto rapporto, la coscienza originale. Non si tratta(lo debbo ripetere?) d'un rapporto oggettivo, come somi-glianza e differenza, spazio e tempo, sostanza e causaecc.: si tratta dell'antinomia pratica di sensibile (e) senti-to, da cui dipenderanno poi anche quei rapporti teoretici,affermati o negati, necessariamente o condizionalmente,secondo la «modalità» con cui appariscono al soggetto,e resi così veri o falsi per mediazione conoscitiva. (Perprendere un esempio, la somiglianza è affermata comeidentità e negata come contraddizione nel giudizio og-gettivante).

Nemmeno si deve intendere il rapporto sensibile disoggetto oggetto, e lo stesso «Antinomismus» in cui lofacciamo consistere (o meglio, «valere»), come una me-diazione hegeliana de' due termini, che è già mediazioneconoscitiva fra le relative idee di soggetto e oggetto af-fermate da un'autocoscienza che n'è ormai fuori. La me-diazione dialettica è lo esplicarsi teoretico dell'antino-mia pratica, ma non è più l'opposizione attuale (assolu-ta) implicita nel dato stesso, alla quale vogliamo qui ri-salire.

Analizzando la pura sensazione – senza superarla inrappresentazioni di qualcos'altro (nel qual caso analizze-remmo invece la percezione, la conoscenza) –, il sensi-bile resta quello che è, l'esistenza o presenza per es. d'unsapore amaro, ed è un non senso duplicarlo in un secon-do amaro soggettivo, trasformazione altrettanto miste-

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vrebb'essere per un altro soggetto –, nè (soltanto) sog-getto – che non esisterebbe di nessun oggetto –; è il loroconcreto rapporto, la coscienza originale. Non si tratta(lo debbo ripetere?) d'un rapporto oggettivo, come somi-glianza e differenza, spazio e tempo, sostanza e causaecc.: si tratta dell'antinomia pratica di sensibile (e) senti-to, da cui dipenderanno poi anche quei rapporti teoretici,affermati o negati, necessariamente o condizionalmente,secondo la «modalità» con cui appariscono al soggetto,e resi così veri o falsi per mediazione conoscitiva. (Perprendere un esempio, la somiglianza è affermata comeidentità e negata come contraddizione nel giudizio og-gettivante).

Nemmeno si deve intendere il rapporto sensibile disoggetto oggetto, e lo stesso «Antinomismus» in cui lofacciamo consistere (o meglio, «valere»), come una me-diazione hegeliana de' due termini, che è già mediazioneconoscitiva fra le relative idee di soggetto e oggetto af-fermate da un'autocoscienza che n'è ormai fuori. La me-diazione dialettica è lo esplicarsi teoretico dell'antino-mia pratica, ma non è più l'opposizione attuale (assolu-ta) implicita nel dato stesso, alla quale vogliamo qui ri-salire.

Analizzando la pura sensazione – senza superarla inrappresentazioni di qualcos'altro (nel qual caso analizze-remmo invece la percezione, la conoscenza) –, il sensi-bile resta quello che è, l'esistenza o presenza per es. d'unsapore amaro, ed è un non senso duplicarlo in un secon-do amaro soggettivo, trasformazione altrettanto miste-

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riosa quanto assurda del primo, che nel caso non esiste-rebbe. La «coscienza» di quest'amaro sensibile è il di-sgusto di tal sapore; meglio ancora – poichè un senti-mento è la sensazione stessa (salvo a riferirla, in ciò,alla sua parte organica) –, la coscienza è l'antinomia delsentito nel sensibile, la praticità della sensazione difronte alla sua stessa esistenza intuibile, il «principio»sentimentale (naturale) del volere.

«Ci accorgiamo» d'una sensazione perchè in qualun-que modo la sentiamo, la soffriamo; sol per questol'avvertiamo arche come esistente, la intuiamo realmen-te. La reciprocità di pratico e teoretico c'è già implicitanella coscienza sensibile e diviene il principio della co-noscenza o pensiero esplicito. Che cos'è e che cosa valeuna sensazione d'amaro quando non v'è altro chequest'amaro? Evidentemente, essa vale in quanto è spia-cevole; il dolore è il valore pratico (soggettivo) dell'esi-stenza: valore, non perchè dolore, ma perchè questospinge l'esistente a uscire di sè – come volere – e a«fare», ossia a mutare e divenire, realmente (oggettiva-mente) in quanto trovi le condizioni adatte, idealmente(soggettivamente) in quanto rappresenti un fine che tra-scende la sensazione, sua stessa esistenza. Ma nel con-tempo, quel dolore è coscienza intuitiva del suo esistere,come dell'ostacolo, della necessità reale, per es.dell'esserci un amaro, che vuol superare: è affermazionereale di ciò che nega sentimentalmente.

Pertanto, considerando, naturalisticamente, il «fatto»d'una sensazione, dobbiamo tuttavia ammettere ch'essa

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riosa quanto assurda del primo, che nel caso non esiste-rebbe. La «coscienza» di quest'amaro sensibile è il di-sgusto di tal sapore; meglio ancora – poichè un senti-mento è la sensazione stessa (salvo a riferirla, in ciò,alla sua parte organica) –, la coscienza è l'antinomia delsentito nel sensibile, la praticità della sensazione difronte alla sua stessa esistenza intuibile, il «principio»sentimentale (naturale) del volere.

«Ci accorgiamo» d'una sensazione perchè in qualun-que modo la sentiamo, la soffriamo; sol per questol'avvertiamo arche come esistente, la intuiamo realmen-te. La reciprocità di pratico e teoretico c'è già implicitanella coscienza sensibile e diviene il principio della co-noscenza o pensiero esplicito. Che cos'è e che cosa valeuna sensazione d'amaro quando non v'è altro chequest'amaro? Evidentemente, essa vale in quanto è spia-cevole; il dolore è il valore pratico (soggettivo) dell'esi-stenza: valore, non perchè dolore, ma perchè questospinge l'esistente a uscire di sè – come volere – e a«fare», ossia a mutare e divenire, realmente (oggettiva-mente) in quanto trovi le condizioni adatte, idealmente(soggettivamente) in quanto rappresenti un fine che tra-scende la sensazione, sua stessa esistenza. Ma nel con-tempo, quel dolore è coscienza intuitiva del suo esistere,come dell'ostacolo, della necessità reale, per es.dell'esserci un amaro, che vuol superare: è affermazionereale di ciò che nega sentimentalmente.

Pertanto, considerando, naturalisticamente, il «fatto»d'una sensazione, dobbiamo tuttavia ammettere ch'essa

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non è, come un atomo o una monade astratta, chiusa efinita in sè stessa; mentre si afferma (si scopre, si accet-ta) come necessità presente, vale dunque realmente pernegarsi e trascendersi praticamente, come volontà easpirazione all'essere totale e perfetto. Trascendenza eimmanenza son termini psicologici e correlativi (nonson termini ontologici): il primo indica il valore sogget-tivo e pratico dell'esperienza, il secondo la natura di talvalore, la sua esistenza sensibile.

Difatti, una sensazione è spontanea, è attiva: «divie-ne». Per restare alla semplicità del nostro esempio, il sa-pore amaro, in cui per ipotesi consisteva tutto l'esseredella statua destata a vita, e con esso quindi l'essere uni-versale (non esistendo ancor niente altro), produce, per-chè spiacevole, un atto di difesa, ossia una seconda sen-sazione appagante. Come e perchè ciò avvenga di fatto– come la sensazione sia motoria – è problema biologi-co che a noi non interessa. Perchè il dolore della primasensazione la «spinga» a mutarsi in altra, e come, in ge-nerale, il volere introduca un finalismo nell'ordine dellecause naturali producendo degli atti e, in genere, adope-rando le forze naturali come mezzi a' suoi fini, è un pro-blema che sembra insolubile sol perchè qui è insussi-stente. Qui, quel dolore e quel volere psicologico nonsono una realtà esistente fuori della lor natura sentimen-tale e organica; scientificamente si tratta sol di chiarirele leggi biologiche dell'adattamento (memoria ed eredi-tà) per cui un impulso si attua in una certa direzione. Ilproblema della finalità non è il problema del suo realiz-

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non è, come un atomo o una monade astratta, chiusa efinita in sè stessa; mentre si afferma (si scopre, si accet-ta) come necessità presente, vale dunque realmente pernegarsi e trascendersi praticamente, come volontà easpirazione all'essere totale e perfetto. Trascendenza eimmanenza son termini psicologici e correlativi (nonson termini ontologici): il primo indica il valore sogget-tivo e pratico dell'esperienza, il secondo la natura di talvalore, la sua esistenza sensibile.

Difatti, una sensazione è spontanea, è attiva: «divie-ne». Per restare alla semplicità del nostro esempio, il sa-pore amaro, in cui per ipotesi consisteva tutto l'esseredella statua destata a vita, e con esso quindi l'essere uni-versale (non esistendo ancor niente altro), produce, per-chè spiacevole, un atto di difesa, ossia una seconda sen-sazione appagante. Come e perchè ciò avvenga di fatto– come la sensazione sia motoria – è problema biologi-co che a noi non interessa. Perchè il dolore della primasensazione la «spinga» a mutarsi in altra, e come, in ge-nerale, il volere introduca un finalismo nell'ordine dellecause naturali producendo degli atti e, in genere, adope-rando le forze naturali come mezzi a' suoi fini, è un pro-blema che sembra insolubile sol perchè qui è insussi-stente. Qui, quel dolore e quel volere psicologico nonsono una realtà esistente fuori della lor natura sentimen-tale e organica; scientificamente si tratta sol di chiarirele leggi biologiche dell'adattamento (memoria ed eredi-tà) per cui un impulso si attua in una certa direzione. Ilproblema della finalità non è il problema del suo realiz-

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zarsi, del suo essere, ma quello del suo valore, del doveressere in antinomia alle condizioni reali del suo attuarsi;è un problema metafisico.

11. – I valori impliciti nella sensazione – la presenzao esistenza sentita come necessità (intuizione reale) e latrascendentalità sentita come libertà (spontaneità del vo-lere) – si esplicano nel pensiero, che li costruisce cono-scitivamente in precetti e concetti oggettivi e in idee enorme soggettive. Il passo non è tanto difficile quanto lapsicologia delle facoltà occulte può far credere: bastache una sensazione non possa uscir di sè stessa e diveni-re una nuova sensazione appagante, basta che il volereincontri un limite – e la nostra esperienza, per quantoricca, è sempre limitata perchè sensibile –, ed ecco ches'accende la luce dell'intelligenza che ci aiuta a varcarquei confini, prima praticamente poi teoreticamente;ecco che il volere si attua in volontà e cosciente e o me-glio conoscente (mentre che l'atto pratico si muta in at-tenzione o atto teoretico) e si rappresenta il fine oggetti-vo come si rappresenta l'oggetto stesso.

La costruzione percettiva degli oggetti è così remota eabituale che, come osservò il Kant, noi non ce ne accor-giamo più, ossia non ne sentiamo lo sforzo attentivo e lasoddisfazione del risultato raggiunto; perciò, di solito, ilpensiero si fa cosciente di sè nel caso opposto, allor-quando è la ricchezza stessa dell'esperienza umana e ci-vile quella che c'induce a una valutazione e a una sceltafra i plurivoci oggetti o fra i plurivoci fini del nostro de-

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zarsi, del suo essere, ma quello del suo valore, del doveressere in antinomia alle condizioni reali del suo attuarsi;è un problema metafisico.

11. – I valori impliciti nella sensazione – la presenzao esistenza sentita come necessità (intuizione reale) e latrascendentalità sentita come libertà (spontaneità del vo-lere) – si esplicano nel pensiero, che li costruisce cono-scitivamente in precetti e concetti oggettivi e in idee enorme soggettive. Il passo non è tanto difficile quanto lapsicologia delle facoltà occulte può far credere: bastache una sensazione non possa uscir di sè stessa e diveni-re una nuova sensazione appagante, basta che il volereincontri un limite – e la nostra esperienza, per quantoricca, è sempre limitata perchè sensibile –, ed ecco ches'accende la luce dell'intelligenza che ci aiuta a varcarquei confini, prima praticamente poi teoreticamente;ecco che il volere si attua in volontà e cosciente e o me-glio conoscente (mentre che l'atto pratico si muta in at-tenzione o atto teoretico) e si rappresenta il fine oggetti-vo come si rappresenta l'oggetto stesso.

La costruzione percettiva degli oggetti è così remota eabituale che, come osservò il Kant, noi non ce ne accor-giamo più, ossia non ne sentiamo lo sforzo attentivo e lasoddisfazione del risultato raggiunto; perciò, di solito, ilpensiero si fa cosciente di sè nel caso opposto, allor-quando è la ricchezza stessa dell'esperienza umana e ci-vile quella che c'induce a una valutazione e a una sceltafra i plurivoci oggetti o fra i plurivoci fini del nostro de-

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siderio; ovvero quando, come nel caso della scienza edel sapere disinteressato, mettiamo in dubbio le nozionigià possedute, in quel «thaumàzein» aristotelico, in quelcontemplare e dubitare, a cui segue quale attività appa-gante l'«exetàzein» dell'investigazione oggettiva.

Ma, per il nostro discorso, che vuol essere schematicoper riuscir chiaro, basta che una sensazione esista e per-manga perchè si dualizzi e divenga pensiero, facendosi,per così dire, contenuto a sè stessa. Ora, che cosa dob-biamo intendere per forma e contenuto del pensiero?Questi termini, forma e contenuto, sono particolari dellalogica, ossia del pensiero teoretico, dove, come vedre-mo, vanno intesi come condizioni astratte del pensarepiuttosto che come realtà del pensiero esistente nella lorunità di fatto. Parlandone in concreto, è meglio parlaredi fini e valori, perchè questi termini riguardano appun-to la sua natura pratica e soggettiva.

Se una sensazione amara permane invece di trasfor-marsi automaticamente in altra di sollievo, il volere – ecioè il sentimento di questa sensazione in quanto è im-pulso ad uscirne –, non trovando un atto, ch'è poi unanuova sensazione (motoriale) appagante, la cercherà,rappresentandosela, almeno, come non amaro: negandol'amaro. E, in generale, il volere si rappresenterà il fine(la felicità soggettiva, il bene oggettivo) almeno negati-vamente, rifiutando l'esistenza presente; nel che già sicontiene un giudizio di valore, sia questo espressonell'urlo del ferito come nella protesta ascetica del misti-cismo filosofico attingente Dio per negazione di tutti gli

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siderio; ovvero quando, come nel caso della scienza edel sapere disinteressato, mettiamo in dubbio le nozionigià possedute, in quel «thaumàzein» aristotelico, in quelcontemplare e dubitare, a cui segue quale attività appa-gante l'«exetàzein» dell'investigazione oggettiva.

Ma, per il nostro discorso, che vuol essere schematicoper riuscir chiaro, basta che una sensazione esista e per-manga perchè si dualizzi e divenga pensiero, facendosi,per così dire, contenuto a sè stessa. Ora, che cosa dob-biamo intendere per forma e contenuto del pensiero?Questi termini, forma e contenuto, sono particolari dellalogica, ossia del pensiero teoretico, dove, come vedre-mo, vanno intesi come condizioni astratte del pensarepiuttosto che come realtà del pensiero esistente nella lorunità di fatto. Parlandone in concreto, è meglio parlaredi fini e valori, perchè questi termini riguardano appun-to la sua natura pratica e soggettiva.

Se una sensazione amara permane invece di trasfor-marsi automaticamente in altra di sollievo, il volere – ecioè il sentimento di questa sensazione in quanto è im-pulso ad uscirne –, non trovando un atto, ch'è poi unanuova sensazione (motoriale) appagante, la cercherà,rappresentandosela, almeno, come non amaro: negandol'amaro. E, in generale, il volere si rappresenterà il fine(la felicità soggettiva, il bene oggettivo) almeno negati-vamente, rifiutando l'esistenza presente; nel che già sicontiene un giudizio di valore, sia questo espressonell'urlo del ferito come nella protesta ascetica del misti-cismo filosofico attingente Dio per negazione di tutti gli

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attributi finiti.Negando (rifiutando, svalutando) la sensazione,

s'afferma la volontà, il soggetto, ma lo si afferma comefine e valore, i quali, praticamente, coincidono. La rap-presentazione, almen negativa, d'una finalità trascenden-te il sentito è fondamento del criterio per valutare e sce-gliere i mezzi, cioè a dire per valutare (conoscenza pra-tica) l'esperienza sensibile: nel caso più semplice, ne-gandola; nel caso abituale, che presuppone la precedenteesperienza, subordinandola a una norma in cui ci rap-presentiamo il volere, il soggetto. Intendo dire, che laconoscenza pratica relativizza l'oggetto – a sua volta re-lativo al sensibile – al soggetto; e in quanto anche la co-noscenza teoretica è volontaria e pratica, ponendo il suofine in un dover essere in sè del dato sensibile, si spiegaperchè chiami poi soggettivo il sensibile: soggettivo inrelazione all'oggetto assoluto, al dover essere trascen-dente che «noi» postuliamo. Le due relatività s'inverto-no dai due punti di vista della conoscenza, pratica e teo-retica.

Ma, per venire a quest'ultima, pur rimanendo alla no-stra semplificazione schematica, mentre che il volere ri-fiuta e nega praticamente la sensazione, affermando perantinomia il soggetto come fine e valore, afferma ancheteoreticamente l'oggetto come necessità esistente, allaquale la sua spontaneità non si vuole ma si deve adatta-re. Un sapore amaro apparisce necessità presente,«esterna» al volere (perchè non lo vorrebbe), «objec-tum» a quel suo stesso sentimento ch'è «subjectum» per

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attributi finiti.Negando (rifiutando, svalutando) la sensazione,

s'afferma la volontà, il soggetto, ma lo si afferma comefine e valore, i quali, praticamente, coincidono. La rap-presentazione, almen negativa, d'una finalità trascenden-te il sentito è fondamento del criterio per valutare e sce-gliere i mezzi, cioè a dire per valutare (conoscenza pra-tica) l'esperienza sensibile: nel caso più semplice, ne-gandola; nel caso abituale, che presuppone la precedenteesperienza, subordinandola a una norma in cui ci rap-presentiamo il volere, il soggetto. Intendo dire, che laconoscenza pratica relativizza l'oggetto – a sua volta re-lativo al sensibile – al soggetto; e in quanto anche la co-noscenza teoretica è volontaria e pratica, ponendo il suofine in un dover essere in sè del dato sensibile, si spiegaperchè chiami poi soggettivo il sensibile: soggettivo inrelazione all'oggetto assoluto, al dover essere trascen-dente che «noi» postuliamo. Le due relatività s'inverto-no dai due punti di vista della conoscenza, pratica e teo-retica.

Ma, per venire a quest'ultima, pur rimanendo alla no-stra semplificazione schematica, mentre che il volere ri-fiuta e nega praticamente la sensazione, affermando perantinomia il soggetto come fine e valore, afferma ancheteoreticamente l'oggetto come necessità esistente, allaquale la sua spontaneità non si vuole ma si deve adatta-re. Un sapore amaro apparisce necessità presente,«esterna» al volere (perchè non lo vorrebbe), «objec-tum» a quel suo stesso sentimento ch'è «subjectum» per

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il volere. Così sorge la conoscenza teoretica. Stringendole somme, questa non è che la conoscenza dei limiti del-la conoscenza in universale, ossia del voler conoscere(pratico), come ha visto la filosofia della «docta igno-rantia».

Infatti noi distinguiamo la conoscenza teoretica (l'«in-telligenza», come si diceva una volta) dal pensiero prati-co (la «volontà») proprio perchè nella prima il valoresembra non coincider più col fine, l'uno essendo oggetti-vo e reale (universale e necessario) in confrontodell'altro, che quindi appar soggettivo e ideale. Se perce-pisco l'amaro coma una cosa amara, o se lo concepiscocome p. es. la proprietà chimica d'una materia e simili,se cioè mi rappresento il sensibile in una unificazioneoggettiva nella quale esso acquista il valore di reale,questo valore non coincide più affatto col fine soggetti-vo, rappresentato negativamente dal non amaro e positi-vamente dal dolce o da altra simile idea del desiderabi-le; anzi c'è antitesi fra i valori pratici che amaro e dolceprendono nel giudizio di valor pratico – dove sono con-tenuti di una forma soggettiva (finale), che li accetta o lirifiuta secondo la loro convenienza e relatività al finedel volere e ciò che pur si deve chiamar valore (e lo di-viene per eccellenza), il valore di realtà, che come esi-stenza necessaria s'oppone alla libertà del fine desidera-to.

È questo un punto delicatissimo, che richiede tutta lanostra attenzione. Anche la realtà, l'oggettività d'un og-getto dato – per es., almeno, la necessità di questo ama-

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il volere. Così sorge la conoscenza teoretica. Stringendole somme, questa non è che la conoscenza dei limiti del-la conoscenza in universale, ossia del voler conoscere(pratico), come ha visto la filosofia della «docta igno-rantia».

Infatti noi distinguiamo la conoscenza teoretica (l'«in-telligenza», come si diceva una volta) dal pensiero prati-co (la «volontà») proprio perchè nella prima il valoresembra non coincider più col fine, l'uno essendo oggetti-vo e reale (universale e necessario) in confrontodell'altro, che quindi appar soggettivo e ideale. Se perce-pisco l'amaro coma una cosa amara, o se lo concepiscocome p. es. la proprietà chimica d'una materia e simili,se cioè mi rappresento il sensibile in una unificazioneoggettiva nella quale esso acquista il valore di reale,questo valore non coincide più affatto col fine soggetti-vo, rappresentato negativamente dal non amaro e positi-vamente dal dolce o da altra simile idea del desiderabi-le; anzi c'è antitesi fra i valori pratici che amaro e dolceprendono nel giudizio di valor pratico – dove sono con-tenuti di una forma soggettiva (finale), che li accetta o lirifiuta secondo la loro convenienza e relatività al finedel volere e ciò che pur si deve chiamar valore (e lo di-viene per eccellenza), il valore di realtà, che come esi-stenza necessaria s'oppone alla libertà del fine desidera-to.

È questo un punto delicatissimo, che richiede tutta lanostra attenzione. Anche la realtà, l'oggettività d'un og-getto dato – per es., almeno, la necessità di questo ama-

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ro –, quantunque non si concilii con l'attuale fine sog-gettivo, esplicitamente pratico, è tuttavia un valore inrapporto al soggetto volontario. Lo è implicitamente, difatto, perchè dolore di quel piacere ch'è fine del volereempirico; lo è esplicitamente, come «costruzione» cono-scitiva, che trascende il dato sensibile, come i fini prati-ci trascendono il dato sentito.

La prima realtà (teoretica) di quest'amaro è la sua ne-cessità o presenza, che immediatamente vale – per il vo-lere che la vuol trascendere «a parte subjecti» (dalla par-te del sentimento) – come una alterità, un dover essereindipendente dal sentimento stesso volente, e quindi unatrascendenza «a parte objecti». Il sensibile è esistente seesiste in sè; è esistente perchè deve esistere per esserpresente; la conoscenza del suo essere dipende dunqueda un postulato a priori, la «cosa in sè» kantiana, e talvalore a priori non è che la coscienza dell'assoluto, colquale il volere empirico si sente però connaturato e par-te limitata nella sensazione.

Inoltre, proprio per questa coscienza del dislivello fral'esistere e l'essere – fra l'essere esistente e la sua cono-scenza come dover essere in sè –, la conoscenza teoreti-ca si rappresenta le cose e i fatti nelle unificazioni per-cettive e concettuali, che postulano l'unità del dover es-sere, ciò che il Kant chiamava «appercezione trascen-dentale», valore a priori che sta a fondamento di tutte lecategorie. Ma postulato significa finalità: quella finalitàche trascende anche i fini pratici empirici e li compren-de, tanto che li limita nella conoscenza teoretica e li di-

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ro –, quantunque non si concilii con l'attuale fine sog-gettivo, esplicitamente pratico, è tuttavia un valore inrapporto al soggetto volontario. Lo è implicitamente, difatto, perchè dolore di quel piacere ch'è fine del volereempirico; lo è esplicitamente, come «costruzione» cono-scitiva, che trascende il dato sensibile, come i fini prati-ci trascendono il dato sentito.

La prima realtà (teoretica) di quest'amaro è la sua ne-cessità o presenza, che immediatamente vale – per il vo-lere che la vuol trascendere «a parte subjecti» (dalla par-te del sentimento) – come una alterità, un dover essereindipendente dal sentimento stesso volente, e quindi unatrascendenza «a parte objecti». Il sensibile è esistente seesiste in sè; è esistente perchè deve esistere per esserpresente; la conoscenza del suo essere dipende dunqueda un postulato a priori, la «cosa in sè» kantiana, e talvalore a priori non è che la coscienza dell'assoluto, colquale il volere empirico si sente però connaturato e par-te limitata nella sensazione.

Inoltre, proprio per questa coscienza del dislivello fral'esistere e l'essere – fra l'essere esistente e la sua cono-scenza come dover essere in sè –, la conoscenza teoreti-ca si rappresenta le cose e i fatti nelle unificazioni per-cettive e concettuali, che postulano l'unità del dover es-sere, ciò che il Kant chiamava «appercezione trascen-dentale», valore a priori che sta a fondamento di tutte lecategorie. Ma postulato significa finalità: quella finalitàche trascende anche i fini pratici empirici e li compren-de, tanto che li limita nella conoscenza teoretica e li di-

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rige come attività unitaria teoretico pratica. La questionedunque verte soltanto sul fatto, che i fini stessi (e le cor-rispondenti attività) si antinomizzano anche nel pensie-ro: l'uno, relativizzandosi all'esistenza, forma i percetti ei concetti dell'essere; l'altro, riguardo allo stesso esisten-te, ma in antitesi pratica, forma le idee del dover essere,alle quali il primo si relativizza. Anche i concetti realisono deontologici; ma il pensiero ritornando dalla prati-ca alla teoretica per conoscere, per comprendere anchesè stesso come parte dell'essere, per razionalizzare i suoistessi fini pratici – come già praticamente vi deve ritor-nare per «fare», per trasformare il reale per mezzo dellestesse sue leggi obbiettivamente conosciute –, trova cheil suo relativizzarsi al sensibile, l'esperienza, per quantolimitata e parziale, è tuttavia l'unico modo per realizzareil soggetto, per provare il valore di un fine, per «scopri-re» in natura quell'unità che garantisca l'unità del doveressere, che ognuno potrebbe «inventare» con una for-muletta qualunque, totalmente a priori, come in logica oin matematica. È questione di dar valore a una parola oad un segno (p. es. al segno =); ma anche questo è unsensibile: perchè, a che condizioni può acquistare un va-lore reale?

Le unificazioni reali nei concetti di natura, e in gene-rale la conoscenza teoretica, riducendo il soggetto a og-getto, e riportando le finalità soggettive alle leggi ogget-tive, non uccidono lo spirito, la trascendentalità del va-lore? E in tal caso, come potranno esse medesime esserevalide? Non sono prodotti di quel soggetto, di quel pen-

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rige come attività unitaria teoretico pratica. La questionedunque verte soltanto sul fatto, che i fini stessi (e le cor-rispondenti attività) si antinomizzano anche nel pensie-ro: l'uno, relativizzandosi all'esistenza, forma i percetti ei concetti dell'essere; l'altro, riguardo allo stesso esisten-te, ma in antitesi pratica, forma le idee del dover essere,alle quali il primo si relativizza. Anche i concetti realisono deontologici; ma il pensiero ritornando dalla prati-ca alla teoretica per conoscere, per comprendere anchesè stesso come parte dell'essere, per razionalizzare i suoistessi fini pratici – come già praticamente vi deve ritor-nare per «fare», per trasformare il reale per mezzo dellestesse sue leggi obbiettivamente conosciute –, trova cheil suo relativizzarsi al sensibile, l'esperienza, per quantolimitata e parziale, è tuttavia l'unico modo per realizzareil soggetto, per provare il valore di un fine, per «scopri-re» in natura quell'unità che garantisca l'unità del doveressere, che ognuno potrebbe «inventare» con una for-muletta qualunque, totalmente a priori, come in logica oin matematica. È questione di dar valore a una parola oad un segno (p. es. al segno =); ma anche questo è unsensibile: perchè, a che condizioni può acquistare un va-lore reale?

Le unificazioni reali nei concetti di natura, e in gene-rale la conoscenza teoretica, riducendo il soggetto a og-getto, e riportando le finalità soggettive alle leggi ogget-tive, non uccidono lo spirito, la trascendentalità del va-lore? E in tal caso, come potranno esse medesime esserevalide? Non sono prodotti di quel soggetto, di quel pen-

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siero, che unifica i sensibili appunto perchè li ha trasce-si, appunto perchè è pensiero e non sensazione? La filo-sofia, a queste eterne domande, non può rispondere cheripiegandosi sopra il pensiero stesso teoretico e diven-tando gnoseologia.

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siero, che unifica i sensibili appunto perchè li ha trasce-si, appunto perchè è pensiero e non sensazione? La filo-sofia, a queste eterne domande, non può rispondere cheripiegandosi sopra il pensiero stesso teoretico e diven-tando gnoseologia.

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III.L'INTELLIGIBILITÀ DEL SENSIBILE

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III.L'INTELLIGIBILITÀ DEL SENSIBILE

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1. – Per partire da qualcosa di universalmente noto,prenderò le mosse dalla soluzione kantiana del proble-ma su l'intelligibilità del mondo sensibile, della quale lamia non è che un approfondimento.

Secondo il Kant, i sensibili, in sè stessi, sono dati ara-zionali e ciechi, che divengono intelligibili solamente inquanto li facciamo contenuto delle forme del pensieroteoretico. Perciò, seguendo il Kant chiedersi che cosasia una sensazione in sè stessa – se, per esempio, siasoggetto od oggetto; e cioè chiedersi di che natura essasia –, è una domanda teoreticamente mal posta; giacchèi concetti di realtà soggettiva e oggettiva, di cosa e diatto, di natura e di spirito ecc., ce li formiamo noi sopral'esperienza empirica nelle sintesi conoscitive, e non lipossiamo predicare dei puri contenuti sensibili, da cuisono condizionati. Sarebbe come chiedere di che naturaè la natura al che non si risponde che ricominciando dacapo il processo stesso dell'unificazione dei sensibilinelle categorie logiche di sostanza e di causa, che imme-diatamente li trascendono. Posto ancor peggio sarebbe ilproblema, ove si ricercasse un rapporto di causa tra ilsoggetto conoscente e il sensibile conosciuto oggettiva-mente, quasi che il soggetto conoscesse il mondo sensi-

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1. – Per partire da qualcosa di universalmente noto,prenderò le mosse dalla soluzione kantiana del proble-ma su l'intelligibilità del mondo sensibile, della quale lamia non è che un approfondimento.

Secondo il Kant, i sensibili, in sè stessi, sono dati ara-zionali e ciechi, che divengono intelligibili solamente inquanto li facciamo contenuto delle forme del pensieroteoretico. Perciò, seguendo il Kant chiedersi che cosasia una sensazione in sè stessa – se, per esempio, siasoggetto od oggetto; e cioè chiedersi di che natura essasia –, è una domanda teoreticamente mal posta; giacchèi concetti di realtà soggettiva e oggettiva, di cosa e diatto, di natura e di spirito ecc., ce li formiamo noi sopral'esperienza empirica nelle sintesi conoscitive, e non lipossiamo predicare dei puri contenuti sensibili, da cuisono condizionati. Sarebbe come chiedere di che naturaè la natura al che non si risponde che ricominciando dacapo il processo stesso dell'unificazione dei sensibilinelle categorie logiche di sostanza e di causa, che imme-diatamente li trascendono. Posto ancor peggio sarebbe ilproblema, ove si ricercasse un rapporto di causa tra ilsoggetto conoscente e il sensibile conosciuto oggettiva-mente, quasi che il soggetto conoscesse il mondo sensi-

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bile attuandolo; laddove si deve contentar di scoprirlo, edi scoprirlo sol in minima parte, come fenomeno, di cuila necessità trascende all'infinito la nostra conoscenza.

Voglio dire che il Kant non intende la relatività cono-scitiva – il rapporto fra i dati sensibili e l'intelletto –come un rapporto fra enti o sostanze già tali in sè, qualil'estensione e il pensiero del dualismo cartesiano (la ma-teria e lo spirito, il corpo e l'anima del realismo metafi-sico): paralogismo evidente, che applica i concetti for-mati nella conoscenza, e cioè nell'unità di sensibile e in-telligibile, a questi due elementi astratti e presi in sè,prima e fuori della sintesi conoscitiva, rendendoli cosìdue enti assoluti e ormai irrelativizzabili, salvo l'inter-vento del buon orologiaio che li metta d'accordo. Maneppur si tratta di relatività fra due gradi o momenti del-la conoscenza, prima sensibile e poi intelligibile, relati-vità interna al soggetto già fatto coincidere col processoconoscitivo, come presso il posteriore hegelismo: nelqual caso sorge l'altra aporia del perchè il soggetto uni-versale si oggettivi come oggetto particolare sensibile; edel come la ragione, attività pura che per legge propriasi vuol oggettivare liberamente e universalmente, sia co-stretta a soggettivarsi nella sensazione di questo ciottoloche urto col piede.

Per il Kant, la relazione in questione è quella di formae contenuto, puramente gnoseologica – non, aristotelica-mente, metafisica –, ottenuta astraendo, per analisi delleidee, i due elementi, o meglio le due condizioni necessa-rie a formarle come idee reali in concreto (concetti).

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bile attuandolo; laddove si deve contentar di scoprirlo, edi scoprirlo sol in minima parte, come fenomeno, di cuila necessità trascende all'infinito la nostra conoscenza.

Voglio dire che il Kant non intende la relatività cono-scitiva – il rapporto fra i dati sensibili e l'intelletto –come un rapporto fra enti o sostanze già tali in sè, qualil'estensione e il pensiero del dualismo cartesiano (la ma-teria e lo spirito, il corpo e l'anima del realismo metafi-sico): paralogismo evidente, che applica i concetti for-mati nella conoscenza, e cioè nell'unità di sensibile e in-telligibile, a questi due elementi astratti e presi in sè,prima e fuori della sintesi conoscitiva, rendendoli cosìdue enti assoluti e ormai irrelativizzabili, salvo l'inter-vento del buon orologiaio che li metta d'accordo. Maneppur si tratta di relatività fra due gradi o momenti del-la conoscenza, prima sensibile e poi intelligibile, relati-vità interna al soggetto già fatto coincidere col processoconoscitivo, come presso il posteriore hegelismo: nelqual caso sorge l'altra aporia del perchè il soggetto uni-versale si oggettivi come oggetto particolare sensibile; edel come la ragione, attività pura che per legge propriasi vuol oggettivare liberamente e universalmente, sia co-stretta a soggettivarsi nella sensazione di questo ciottoloche urto col piede.

Per il Kant, la relazione in questione è quella di formae contenuto, puramente gnoseologica – non, aristotelica-mente, metafisica –, ottenuta astraendo, per analisi delleidee, i due elementi, o meglio le due condizioni necessa-rie a formarle come idee reali in concreto (concetti).

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Perchè due? Perchè, psicologicamente considerata, laconoscenza appar sempre dualistica, è conoscenza diqualche cosa, è soggetto di qualche oggetto: per cui,spogliando il primo degli oggetti conoscibili dall'attivitàconoscente (e togliendogli così il valore oggettivo chequesta gl'imprime) si ha la pura sensazione, il cieco aposteriori; e privando degli oggetti conosciuti l'ultimadelle categorie unificatrici, ossia conoscenti (annullandonel contempo anche la sua natura soggettiva, dovutaall'esser pur essa un concreto attuarsi) rimane la puraforma, l'assoluto a priori. Sotto un tal punto di vista,dire, col relativismo, che la sensazione è soggettiva, si-gnifica soltanto dire ch'essa, nel processo conoscitivo, sirelativizza al soggetto conoscente, il quale a sua volta èoggettivo, ossia la oggettiva nell'idea per es. di sostanza(di una cosa) o di causa (di un fatto): «soggettivo» e«oggettivo» indican qui soltanto il rapporto gnoseologi-co, il valore conoscitivo, non la natura della sensazionein sè e del pensiero in sè. Questa, per il Kant, è impossi-bile conoscerla, i due termini astratti uscendo fuori delpensiero concreto, che si costruisce i concetti di naturanella lor coerenza reale; la possiamo sol postulare, di-cendo che ci dev'esser una cosa in sè, la quale ci dà icontenuti sensibili che alla conoscenza s'impongono aposteriori fenomenicamente; come ci dev'essere una co-scienza generale assoluta, una ragion pura a priori, chesi attua come nostra empirica conoscenza; e aggiungen-do infine (nella Critica del Giudizio) che i due mondiassoluti del sensibile in sè e del sovrasensibile debbono

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Perchè due? Perchè, psicologicamente considerata, laconoscenza appar sempre dualistica, è conoscenza diqualche cosa, è soggetto di qualche oggetto: per cui,spogliando il primo degli oggetti conoscibili dall'attivitàconoscente (e togliendogli così il valore oggettivo chequesta gl'imprime) si ha la pura sensazione, il cieco aposteriori; e privando degli oggetti conosciuti l'ultimadelle categorie unificatrici, ossia conoscenti (annullandonel contempo anche la sua natura soggettiva, dovutaall'esser pur essa un concreto attuarsi) rimane la puraforma, l'assoluto a priori. Sotto un tal punto di vista,dire, col relativismo, che la sensazione è soggettiva, si-gnifica soltanto dire ch'essa, nel processo conoscitivo, sirelativizza al soggetto conoscente, il quale a sua volta èoggettivo, ossia la oggettiva nell'idea per es. di sostanza(di una cosa) o di causa (di un fatto): «soggettivo» e«oggettivo» indican qui soltanto il rapporto gnoseologi-co, il valore conoscitivo, non la natura della sensazionein sè e del pensiero in sè. Questa, per il Kant, è impossi-bile conoscerla, i due termini astratti uscendo fuori delpensiero concreto, che si costruisce i concetti di naturanella lor coerenza reale; la possiamo sol postulare, di-cendo che ci dev'esser una cosa in sè, la quale ci dà icontenuti sensibili che alla conoscenza s'impongono aposteriori fenomenicamente; come ci dev'essere una co-scienza generale assoluta, una ragion pura a priori, chesi attua come nostra empirica conoscenza; e aggiungen-do infine (nella Critica del Giudizio) che i due mondiassoluti del sensibile in sè e del sovrasensibile debbono

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coincidere. Ma per la critica della conoscenza basta averdeterminato i due termini, sensazione e intelletto, noncome sostanze o nature, trattandosi appunto di compren-dere in che modo questi ultimi concetti si formino; nècome momenti della medesima attività (la conoscenzasensitiva è già percezione, la conoscenza intellettiva ègiudizio); ma come condizioni del formarsi dei concettireali, ossia del valore conoscitivo d'una percezione ed'un giudizio.

Resta, si capisce, da metter in questione lo stesso rap-porto di forma e contenuto e della lor essenziale unità odualità; ma ciò riguarda ormai la metafisica, non la gno-seologia. Il Kant (s'è già detto) non ha reso «impossibi-le» ogni metafisica: sarebbe come dichiarare impossibi-le il pensiero e la filosofia stessa: egli ha dimostrata im-possibile una metafisica intesa come conoscenza teoreti-ca, ossia fenomenica (ossia contraddittoria), e perciò hasegnato i limiti e le condizioni di questa proprio in quel-le idee pure – l'idea di essere come pura esistenza neces-saria, a cui corrisponde la sensazione in sè; e l'idea deldover essere come potenza assoluta, che corrispondealla forma pura – le quali, non essendo più «concetti»,non sopportano le mediazioni delle categorie logichedell'esperienza, che anzi da esse dipendono; ma si rea-lizzano immediatamente (intuitivamente) come valoripuri. Questo firmamento scintillante sopra il mio capo,posso dire che deve esistere in sè – e quindi devo pen-sarlo assolutamente –, perchè la sua necessità è imme-diata e intuitiva (carattere, ossia valore dell'esistenza per

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coincidere. Ma per la critica della conoscenza basta averdeterminato i due termini, sensazione e intelletto, noncome sostanze o nature, trattandosi appunto di compren-dere in che modo questi ultimi concetti si formino; nècome momenti della medesima attività (la conoscenzasensitiva è già percezione, la conoscenza intellettiva ègiudizio); ma come condizioni del formarsi dei concettireali, ossia del valore conoscitivo d'una percezione ed'un giudizio.

Resta, si capisce, da metter in questione lo stesso rap-porto di forma e contenuto e della lor essenziale unità odualità; ma ciò riguarda ormai la metafisica, non la gno-seologia. Il Kant (s'è già detto) non ha reso «impossibi-le» ogni metafisica: sarebbe come dichiarare impossibi-le il pensiero e la filosofia stessa: egli ha dimostrata im-possibile una metafisica intesa come conoscenza teoreti-ca, ossia fenomenica (ossia contraddittoria), e perciò hasegnato i limiti e le condizioni di questa proprio in quel-le idee pure – l'idea di essere come pura esistenza neces-saria, a cui corrisponde la sensazione in sè; e l'idea deldover essere come potenza assoluta, che corrispondealla forma pura – le quali, non essendo più «concetti»,non sopportano le mediazioni delle categorie logichedell'esperienza, che anzi da esse dipendono; ma si rea-lizzano immediatamente (intuitivamente) come valoripuri. Questo firmamento scintillante sopra il mio capo,posso dire che deve esistere in sè – e quindi devo pen-sarlo assolutamente –, perchè la sua necessità è imme-diata e intuitiva (carattere, ossia valore dell'esistenza per

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sè stessa, cioè sensibile); invece teoreticamente parlan-do sussumo queste luci a rappresentazione di un partico-lare oggetto o soggetto, che vengo formando secondo lerelazioni dei sensibili fra di loro e col mio stesso cono-scerli. Si noti bene: le costruzioni teoretiche (e, infine, lascienza) servono appunto a razionalizzare l'esperienzaformando concetti dell'essere che salgano ad accordarsicol dover essere metafisico e intuitivo, che n'è l'a priori,la ragione estrema; ma non si risolveranno i problemi fi-losofici se prima si confondono i valori relativi del co-noscer teoretico con la loro ragione assoluta.

I problemi circa l'intelligibilità del mondo sensibilesono dunque due: il primo riguarda il sensibile comenatura; in quanto cioè ce ne formiamo questo concettonell'esperienza e nella scienza che prolunga e approfon-disce (ma anche particolarizza) l'esperienza: è pertantoun problema poetico, che parte già dal doverci essere unin sè del sensibile come esistenza assoluta, alla qualedunque tutto il nostro conoscere di essa si relativizza ein certo modo s'adegua, pur mentre riconosce relative asè e in tal senso soggettive tali adeguazioni concettuali.Il secondo problema riguarderà invece il valore stessodell'esistenza sensibile in sè ed è un problema metafisi-co. Da questo punto di vista la natura apparisce comeuno dei valori del pensiero, quello teoretico, come dalpunto di vista teoretico il pensiero è un modo della natu-ra. L'intelligibilità del sensibile va quindi criticata duevolte, prima nel fatto, come concetto di natura che si co-struisce sensibilmente (empiricamente) sui sensibili; poi

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sè stessa, cioè sensibile); invece teoreticamente parlan-do sussumo queste luci a rappresentazione di un partico-lare oggetto o soggetto, che vengo formando secondo lerelazioni dei sensibili fra di loro e col mio stesso cono-scerli. Si noti bene: le costruzioni teoretiche (e, infine, lascienza) servono appunto a razionalizzare l'esperienzaformando concetti dell'essere che salgano ad accordarsicol dover essere metafisico e intuitivo, che n'è l'a priori,la ragione estrema; ma non si risolveranno i problemi fi-losofici se prima si confondono i valori relativi del co-noscer teoretico con la loro ragione assoluta.

I problemi circa l'intelligibilità del mondo sensibilesono dunque due: il primo riguarda il sensibile comenatura; in quanto cioè ce ne formiamo questo concettonell'esperienza e nella scienza che prolunga e approfon-disce (ma anche particolarizza) l'esperienza: è pertantoun problema poetico, che parte già dal doverci essere unin sè del sensibile come esistenza assoluta, alla qualedunque tutto il nostro conoscere di essa si relativizza ein certo modo s'adegua, pur mentre riconosce relative asè e in tal senso soggettive tali adeguazioni concettuali.Il secondo problema riguarderà invece il valore stessodell'esistenza sensibile in sè ed è un problema metafisi-co. Da questo punto di vista la natura apparisce comeuno dei valori del pensiero, quello teoretico, come dalpunto di vista teoretico il pensiero è un modo della natu-ra. L'intelligibilità del sensibile va quindi criticata duevolte, prima nel fatto, come concetto di natura che si co-struisce sensibilmente (empiricamente) sui sensibili; poi

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nel dritto, come dover essere assoluto del mondo sensi-bile in accordo col pensiero che così l'afferma.

2. – Tutte le idee che noi ci veniamo via via formandointorno al mondo sensibile si unificano nel concetto dinatura: l'esistere sensibile si trasforma in essere reale,concettualmente, e cioè come valore (logico). Tal con-cetto, sia esso primitivo e ingenuo, qual è il concepire ilmondo la semplice contiguità dei sensibili raggruppatinello spazio e nel tempo, secondo che l'abitudine ce lipresenta; sia esso evoluto e approfondito, qual è il natu-ralismo scientifico e filosofico, possiede sempre il carat-tere gnoseologico (ossia il valore conoscitivo) d'un rea-lismo oggettivo. La natura è pensata oggettivamentereale, ossia esistente in sè, assolutamente, per quanto re-lative e limitate sian le conoscenze che ne possiamo ac-quistare. In altri termini, la natura ci apparisce natura acondizione che sia concepita come indipendente da noi,che pur siamo quelli che la giudichiamo tale; e che ilnostro signor Io si tolga di mezzo. Tutta la metodologiascientifica ha per intento null'altro che questo: eliminareil soggetto per adeguare la conoscenza all'oggetto in sè.

Adunque il naturalismo, e, in ultima analisi, tutta laconoscenza in quanto teoretica, accetta il relativismo co-noscitivo nel senso d'un principio – o almeno d'un càno-ne per la ricerca – del tutto opposto al relativismo psico-logico: è la conoscenza che si deve relativizzare al mon-do sensibile, unificando le sensazioni nel concetto di na-tura; ogni sapere oggettivo deve formarsi su l'analisi

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nel dritto, come dover essere assoluto del mondo sensi-bile in accordo col pensiero che così l'afferma.

2. – Tutte le idee che noi ci veniamo via via formandointorno al mondo sensibile si unificano nel concetto dinatura: l'esistere sensibile si trasforma in essere reale,concettualmente, e cioè come valore (logico). Tal con-cetto, sia esso primitivo e ingenuo, qual è il concepire ilmondo la semplice contiguità dei sensibili raggruppatinello spazio e nel tempo, secondo che l'abitudine ce lipresenta; sia esso evoluto e approfondito, qual è il natu-ralismo scientifico e filosofico, possiede sempre il carat-tere gnoseologico (ossia il valore conoscitivo) d'un rea-lismo oggettivo. La natura è pensata oggettivamentereale, ossia esistente in sè, assolutamente, per quanto re-lative e limitate sian le conoscenze che ne possiamo ac-quistare. In altri termini, la natura ci apparisce natura acondizione che sia concepita come indipendente da noi,che pur siamo quelli che la giudichiamo tale; e che ilnostro signor Io si tolga di mezzo. Tutta la metodologiascientifica ha per intento null'altro che questo: eliminareil soggetto per adeguare la conoscenza all'oggetto in sè.

Adunque il naturalismo, e, in ultima analisi, tutta laconoscenza in quanto teoretica, accetta il relativismo co-noscitivo nel senso d'un principio – o almeno d'un càno-ne per la ricerca – del tutto opposto al relativismo psico-logico: è la conoscenza che si deve relativizzare al mon-do sensibile, unificando le sensazioni nel concetto di na-tura; ogni sapere oggettivo deve formarsi su l'analisi

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dell'esperienza empirica, della quale la successiva sinte-si non è il soggettivarsi dei contenuti nella forma cono-scitiva, ma un oggettivarsi di questa nel concetto diquelli. Del resto, per il naturalismo, la stessa attività co-noscente e, in generale, il soggetto psichico devon essirientrare a far parte della natura e non viceversa. S'inten-de che non è il caso d'allucinarsi nello spavento del ma-terialismo: la natura intesa come materia è uno dei mo-menti in cui s'è affermato il naturalismo nel suo svilup-po, specialmente sotto l'influenza del progresso dellescienze fisiche, tranquillizzato del resto dal dualismo fi-losofico, o almeno dal parallelismo psico fisico; maoggi, come vedemmo, quasi del tutto oltrepassato anchenel pensiero occidentale. In ogni modo, l'opposizione dinatura e spirito è pratica e metafisica (è immediata,nell'atto del pensare); teoreticamente, la natura e lo spi-rito devon essere una sola realtà, e diviene indifferentechiamarle con l'uno e con l'altro nome.

Ogni conoscenza teoretica, empirica o scientifica chesia, costruisce il sapere oggettivo (i concetti di natura)su l'analisi dell'esperienza sensibile. L'esperienza sem-pre si presenta come un'unità già data, una sintesi con-creta sensibile. Il Kant giustamente chiama questa sinte-si «a posteriori», per distinguerla dalla sintesi «a priori»e dall'unità del pensiero, ch'è tutt'altro discorso, perchèriguarda il valore conoscitivo nell'atto del conoscere enon i contenuti dati alla conoscenza.

In qualunque istante io incomincio o ricomincio adesercitare la mia attività conoscitiva, io trovo un'unità

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dell'esperienza empirica, della quale la successiva sinte-si non è il soggettivarsi dei contenuti nella forma cono-scitiva, ma un oggettivarsi di questa nel concetto diquelli. Del resto, per il naturalismo, la stessa attività co-noscente e, in generale, il soggetto psichico devon essirientrare a far parte della natura e non viceversa. S'inten-de che non è il caso d'allucinarsi nello spavento del ma-terialismo: la natura intesa come materia è uno dei mo-menti in cui s'è affermato il naturalismo nel suo svilup-po, specialmente sotto l'influenza del progresso dellescienze fisiche, tranquillizzato del resto dal dualismo fi-losofico, o almeno dal parallelismo psico fisico; maoggi, come vedemmo, quasi del tutto oltrepassato anchenel pensiero occidentale. In ogni modo, l'opposizione dinatura e spirito è pratica e metafisica (è immediata,nell'atto del pensare); teoreticamente, la natura e lo spi-rito devon essere una sola realtà, e diviene indifferentechiamarle con l'uno e con l'altro nome.

Ogni conoscenza teoretica, empirica o scientifica chesia, costruisce il sapere oggettivo (i concetti di natura)su l'analisi dell'esperienza sensibile. L'esperienza sem-pre si presenta come un'unità già data, una sintesi con-creta sensibile. Il Kant giustamente chiama questa sinte-si «a posteriori», per distinguerla dalla sintesi «a priori»e dall'unità del pensiero, ch'è tutt'altro discorso, perchèriguarda il valore conoscitivo nell'atto del conoscere enon i contenuti dati alla conoscenza.

In qualunque istante io incomincio o ricomincio adesercitare la mia attività conoscitiva, io trovo un'unità

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già data e presente, sia essa la semplice contiguità diforme colori suoni..., ossia di quelli che poi diremo(analizzando questa unità) gli «elementi sensibili» osensazioni astrattamente prese – giacchè la distinzione eindividuazione del molteplice viene dopo e non primadella sintesi a posteriori, essendo effetto della stessa co-noscenza che distingue e individualizza per (meglio)unificare –, o sia già, quell'esperienza, un'unità raggiun-ta da precedenti atti conoscitivi, un'unità percettiva o in-tellettiva. Anche in questo secondo caso, il mondo qualeci si presenta (e noi stessi nel mondo) è attualmente aposteriori, un dato di fatto rispetto al pensiero che lovuol (meglio) conoscere, e ne resta fuori come pensieroattuale: un'unità concreta, ripeto, come esistenza o vita ocomunque si voglia poi criticamente giudicare, pur dinon confondere, anche qui, col concreto filosofico, e an-che se implica precedenti (e dunque passati) valori intel-ligibili, ormai esistenti come vita mondo senso.

Quando apro gli occhi al mattino, la mia stanza è lamia stanza, perfettamente una e assolutamente a poste-riori. Mi si conceda di poter chiamare sensazione, nonun elemento astratto (idea di sensazione, come un verde,un suono ecc.), ma l'assieme di tutto ciò ch'è presente,contiguo nello spazio e nel tempo: tutto, queste forme ecolori degli oggetti, questa voce che giunge dalla via, imoti de' miei occhi, gli «stati d'animo» che insieme pro-vo... Ciò è presente, esiste, intuitivamente: è l'esperien-za, non è la conoscenza; a meno di voler confondere dinuovo il discorso, e chiamar conoscere l'essere, perden-

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già data e presente, sia essa la semplice contiguità diforme colori suoni..., ossia di quelli che poi diremo(analizzando questa unità) gli «elementi sensibili» osensazioni astrattamente prese – giacchè la distinzione eindividuazione del molteplice viene dopo e non primadella sintesi a posteriori, essendo effetto della stessa co-noscenza che distingue e individualizza per (meglio)unificare –, o sia già, quell'esperienza, un'unità raggiun-ta da precedenti atti conoscitivi, un'unità percettiva o in-tellettiva. Anche in questo secondo caso, il mondo qualeci si presenta (e noi stessi nel mondo) è attualmente aposteriori, un dato di fatto rispetto al pensiero che lovuol (meglio) conoscere, e ne resta fuori come pensieroattuale: un'unità concreta, ripeto, come esistenza o vita ocomunque si voglia poi criticamente giudicare, pur dinon confondere, anche qui, col concreto filosofico, e an-che se implica precedenti (e dunque passati) valori intel-ligibili, ormai esistenti come vita mondo senso.

Quando apro gli occhi al mattino, la mia stanza è lamia stanza, perfettamente una e assolutamente a poste-riori. Mi si conceda di poter chiamare sensazione, nonun elemento astratto (idea di sensazione, come un verde,un suono ecc.), ma l'assieme di tutto ciò ch'è presente,contiguo nello spazio e nel tempo: tutto, queste forme ecolori degli oggetti, questa voce che giunge dalla via, imoti de' miei occhi, gli «stati d'animo» che insieme pro-vo... Ciò è presente, esiste, intuitivamente: è l'esperien-za, non è la conoscenza; a meno di voler confondere dinuovo il discorso, e chiamar conoscere l'essere, perden-

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do la ragione di distinguerne un conoscere propriamentedetto. Per me, il conoscere in senso proprio è un atto –che poi scientificamente (psicologicamente) sciogliere-mo in un rapporto – il quale fa parte dell'esperienza stes-sa, e perciò è intuito sensibilmente (non si può conosce-re senz'accorgersi di conoscere); ma è conoscere inquanto òpera su l'esperienza (e perciò anche sopra sèstesso, come stiamo facendo), superandola (trascenden-do il dato e sè stesso come esistenze empiriche). Peresempio, la lucentezza di quello specchio in sè medesi-ma non è il conoscere, come non è conoscere il mio atto(sentito) di fissarla, tutte sensazioni presenti intuibil-mente, direttamente: il conoscere consiste nell'adopera-re queste sensazioni come rappresentazioni, conoscendoo riconoscendo (se già lo sapevo) quella lucentezzacome la rappresentazione della luce riflessa e quell'attocome rappresentazione del mio conoscere.

Con un po' di pazienza riusciremo, spero, a chiarireperfettamente una materia resa così intricata da tanti se-coli di discussioni. Il più difficile è convenire sul puntodi vista della questione. Qui si tratta, ripeto, di analizza-re l'attività conoscitiva, allo scopo di vedere in che ma-niera essa renda intelligibile il mondo sensibile nei con-cetti teoretici di natura. Ora io desidero che risulti benevidente il fatto, che la conoscenza teoretica non cono-sce il sensibile in quanto sensibile, intuitivo o presenta-tivo che dir si voglia, ma lo conosce in quanto le rap-presenta un valore reale, l'idea concettuale, costruita so-pra la sua analisi. La filosofia contemporanea, avendo di

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do la ragione di distinguerne un conoscere propriamentedetto. Per me, il conoscere in senso proprio è un atto –che poi scientificamente (psicologicamente) sciogliere-mo in un rapporto – il quale fa parte dell'esperienza stes-sa, e perciò è intuito sensibilmente (non si può conosce-re senz'accorgersi di conoscere); ma è conoscere inquanto òpera su l'esperienza (e perciò anche sopra sèstesso, come stiamo facendo), superandola (trascenden-do il dato e sè stesso come esistenze empiriche). Peresempio, la lucentezza di quello specchio in sè medesi-ma non è il conoscere, come non è conoscere il mio atto(sentito) di fissarla, tutte sensazioni presenti intuibil-mente, direttamente: il conoscere consiste nell'adopera-re queste sensazioni come rappresentazioni, conoscendoo riconoscendo (se già lo sapevo) quella lucentezzacome la rappresentazione della luce riflessa e quell'attocome rappresentazione del mio conoscere.

Con un po' di pazienza riusciremo, spero, a chiarireperfettamente una materia resa così intricata da tanti se-coli di discussioni. Il più difficile è convenire sul puntodi vista della questione. Qui si tratta, ripeto, di analizza-re l'attività conoscitiva, allo scopo di vedere in che ma-niera essa renda intelligibile il mondo sensibile nei con-cetti teoretici di natura. Ora io desidero che risulti benevidente il fatto, che la conoscenza teoretica non cono-sce il sensibile in quanto sensibile, intuitivo o presenta-tivo che dir si voglia, ma lo conosce in quanto le rap-presenta un valore reale, l'idea concettuale, costruita so-pra la sua analisi. La filosofia contemporanea, avendo di

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nuovo identificato la intuizione sensibile, il presentarsi,«l'esserci» del reale, coi valori rappresentativi della co-noscenza, affermando che il primo è già un conoscere(soggettivo), ci costringe a questo lavoro di Sisifo; pres-so i più profondi filosofi precedenti la questione era de-cisa: per es. in Spinoza l'«intuitio» è tutt'altra cosa dallaconoscenza teoretica, dalla «ratio», essendo pensierometafisico, ossia unità immediata e assoluta del soggettoempirico con l'Essere sostanziale; nel Kant, l'intuizionesensibile è condizione e divien contenuto del conoscereteoretico, per il quale è assolutamente a posteriori, men-tre in sè, noumenicamente, dev'essere assolutamente apriori; presso Schopenhauer, il volere pone il mondocome rappresentazione (conoscenza), quel mondo cheessenzialmente, è volontà, sensibilità inconscia ecc.

Il primo attuarsi d'una conoscenza teoretica non è lasensazione, è la percezione; non è, in quanto conoscere,un'esistenza sensibile, ma la valutazione più ovvia deisensibili come cose e accadimenti, secondo la costanzaabituale delle lor contiguità spaziali e temporali conser-vata dalla memoria: vedo questa stanza come profonda eperciò m'avvio all'uscita; ossia giudico la sensazione at-tuale visiva – semplice «soggetto» del giudizio, sempli-ce «dato» dell'analisi – come rappresentativa della pro-fondità che le inerisce come la proprietà ch'or m'interes-sa. Questo, almeno questo, è il più semplice conoscere,comune agli animali se il giudizio resta implicito e pra-tico e non va oltre le rappresentazioni di mera contigui-tà; ma affermare che il sensibile come sensibile è già un

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nuovo identificato la intuizione sensibile, il presentarsi,«l'esserci» del reale, coi valori rappresentativi della co-noscenza, affermando che il primo è già un conoscere(soggettivo), ci costringe a questo lavoro di Sisifo; pres-so i più profondi filosofi precedenti la questione era de-cisa: per es. in Spinoza l'«intuitio» è tutt'altra cosa dallaconoscenza teoretica, dalla «ratio», essendo pensierometafisico, ossia unità immediata e assoluta del soggettoempirico con l'Essere sostanziale; nel Kant, l'intuizionesensibile è condizione e divien contenuto del conoscereteoretico, per il quale è assolutamente a posteriori, men-tre in sè, noumenicamente, dev'essere assolutamente apriori; presso Schopenhauer, il volere pone il mondocome rappresentazione (conoscenza), quel mondo cheessenzialmente, è volontà, sensibilità inconscia ecc.

Il primo attuarsi d'una conoscenza teoretica non è lasensazione, è la percezione; non è, in quanto conoscere,un'esistenza sensibile, ma la valutazione più ovvia deisensibili come cose e accadimenti, secondo la costanzaabituale delle lor contiguità spaziali e temporali conser-vata dalla memoria: vedo questa stanza come profonda eperciò m'avvio all'uscita; ossia giudico la sensazione at-tuale visiva – semplice «soggetto» del giudizio, sempli-ce «dato» dell'analisi – come rappresentativa della pro-fondità che le inerisce come la proprietà ch'or m'interes-sa. Questo, almeno questo, è il più semplice conoscere,comune agli animali se il giudizio resta implicito e pra-tico e non va oltre le rappresentazioni di mera contigui-tà; ma affermare che il sensibile come sensibile è già un

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conoscere, è un controsenso, riuscendo logico soltantol'opposto, la natura del conoscere esser sensibile, discor-so psicologico e non critica gnoseologica dei valori co-noscitivi. La gnoseologia riguarda l'attività conoscitivasempre nel rapporto di forma e contenuto, caso teoreticodel rapporto generale di soggetto e oggetto (volere). Lagnoseologia non può fare a meno della dualità dei termi-ni in cui si attua il conoscere perchè sia un conoscerereale: in questa dualità la sensazione è l'ultimo dei con-tenuti, l'a posteriori assoluto, e non può dunque esserconoscenza (salva la riduzione metafisica di tutto l'esse-re a idea); come l'attività conoscente pura è la supremadelle forme, la semplice potenza unificatrice dell'espe-rienza, l'assoluto a priori (salva la riduzione psicologicaa un particolare reale sensibile): la gnoseologia deve de-finire i valori conoscitivi in questa reciprocanza di for-ma e contenuto, e non ne può uscire senza risolversi inmetafisica o in psicologia.

La noètica considera dunque il conoscere, per dirlacol Locke, come un'«operazione» del soggetto cono-scente su l'oggetto conosciuto, lasciandoli ambedue in-determinati in sè stessi, per determinare il valore che intale operazione si realizza. La forma comune n'è il giu-dizio, posizione di valori – in che sta l'unità di pensieropratico e teoretico –; la logica (formale, essendo la noè-tica una logica reale) s'impadronisce di questa forma e,considerandola in sè medesima, la distingue nei varimodi e categorie di giudizi e ragionamenti. Ma, gnoseo-logicamente parlando, istituendo cioè una critica del

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conoscere, è un controsenso, riuscendo logico soltantol'opposto, la natura del conoscere esser sensibile, discor-so psicologico e non critica gnoseologica dei valori co-noscitivi. La gnoseologia riguarda l'attività conoscitivasempre nel rapporto di forma e contenuto, caso teoreticodel rapporto generale di soggetto e oggetto (volere). Lagnoseologia non può fare a meno della dualità dei termi-ni in cui si attua il conoscere perchè sia un conoscerereale: in questa dualità la sensazione è l'ultimo dei con-tenuti, l'a posteriori assoluto, e non può dunque esserconoscenza (salva la riduzione metafisica di tutto l'esse-re a idea); come l'attività conoscente pura è la supremadelle forme, la semplice potenza unificatrice dell'espe-rienza, l'assoluto a priori (salva la riduzione psicologicaa un particolare reale sensibile): la gnoseologia deve de-finire i valori conoscitivi in questa reciprocanza di for-ma e contenuto, e non ne può uscire senza risolversi inmetafisica o in psicologia.

La noètica considera dunque il conoscere, per dirlacol Locke, come un'«operazione» del soggetto cono-scente su l'oggetto conosciuto, lasciandoli ambedue in-determinati in sè stessi, per determinare il valore che intale operazione si realizza. La forma comune n'è il giu-dizio, posizione di valori – in che sta l'unità di pensieropratico e teoretico –; la logica (formale, essendo la noè-tica una logica reale) s'impadronisce di questa forma e,considerandola in sè medesima, la distingue nei varimodi e categorie di giudizi e ragionamenti. Ma, gnoseo-logicamente parlando, istituendo cioè una critica del

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giudizio, una sola rimane la forma dell'operazione cono-scitiva: essa è un'analisi del dato; come uno solo è il va-lore logico della conoscenza: la sintesi oggettiva (a prio-ri). Esse si posson ritrovare nel più spontaneo percettocome nel più elaborato concetto, ma non prima,nell'intuizione sensibile, nè dopo, nell'intuizione metafi-sica.

3. – Il Kant, come tutti ricordano, distingueva tre for-me del giudizio: sintetico a posteriori, analitico e sinteti-co a priori. La distinzione è didattica; in realtà, si trattasempre del medesimo giudizio veduto ora dalla parte deldato, ora da quella dell'operazione in sè, ora infine dallaparte del valore obbiettivo che il giudizio a posterioriacquista per opera della sintesi a priori, salva la maggiorimportanza che il primo assume nei giudizi empirici e laseconda nei giudizi astraenti. Dire che i reali empirici siuniscono in una sintesi a posteriori – e cioè senz'alcunanecessità logica, senza ragione e quindi senza obbiettivi-tà – che significa? O è una constatazione del fatto, deltrovare p. es. l'oro giallo pesante lucido ecc., unità dellesensazioni contigue che costituisce l'esistenza del dato ecome tale s'impone, punto di partenza e condizione aposteriori di quel conoscere, ch'è destinato proprio a og-gettivare queste contiguità sensibili in concetti universa-li e necessari, ossia, infine, a spiegarle e a razionalizzar-le: e in tal caso non si definisce una forma del giudizioancor inesistente ma s'afferma semplicemente l'unitàempirica del sensibile; oppure si vuol dire che la cono-

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giudizio, una sola rimane la forma dell'operazione cono-scitiva: essa è un'analisi del dato; come uno solo è il va-lore logico della conoscenza: la sintesi oggettiva (a prio-ri). Esse si posson ritrovare nel più spontaneo percettocome nel più elaborato concetto, ma non prima,nell'intuizione sensibile, nè dopo, nell'intuizione metafi-sica.

3. – Il Kant, come tutti ricordano, distingueva tre for-me del giudizio: sintetico a posteriori, analitico e sinteti-co a priori. La distinzione è didattica; in realtà, si trattasempre del medesimo giudizio veduto ora dalla parte deldato, ora da quella dell'operazione in sè, ora infine dallaparte del valore obbiettivo che il giudizio a posterioriacquista per opera della sintesi a priori, salva la maggiorimportanza che il primo assume nei giudizi empirici e laseconda nei giudizi astraenti. Dire che i reali empirici siuniscono in una sintesi a posteriori – e cioè senz'alcunanecessità logica, senza ragione e quindi senza obbiettivi-tà – che significa? O è una constatazione del fatto, deltrovare p. es. l'oro giallo pesante lucido ecc., unità dellesensazioni contigue che costituisce l'esistenza del dato ecome tale s'impone, punto di partenza e condizione aposteriori di quel conoscere, ch'è destinato proprio a og-gettivare queste contiguità sensibili in concetti universa-li e necessari, ossia, infine, a spiegarle e a razionalizzar-le: e in tal caso non si definisce una forma del giudizioancor inesistente ma s'afferma semplicemente l'unitàempirica del sensibile; oppure si vuol dire che la cono-

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scenza, la prima empirica conoscenza, percepisce, rico-nosce la costanza obbiettiva di quelle contiguità spazialie temporali, giudica cioè l'oro realmente giallo pesanteecc., o dal vederlo giallo inferisce che quel datodev'essere pesante essendo oro, e allora siamo già nelconoscere induttivo o deduttivo, ossia siamo già nel va-lore a priori del giudizio esistenziale. Un giudizio a po-steriori è una contraddizione in termini proprio per ef-fetto della critica kantiana.

Ma forse è meglio sviscerare completamente questa,per quanto arida, questione delle forme dei giudizi teo-retici, se ci vogliamo dar conto del solo modo con cui laragione può render intelligibile il mondo sensibile.

In noètica, allorquando diciamo «ragione», non allu-diamo a una misteriosa facoltà psichica, causa occultadel conoscere, e quindi... irrazionale; vogliamo soltantoaffermare in universale il valore conoscitivo, definendo-lo come un principio formale, una categoria, che condi-ziona la conoscenza o attività concreta del pensiero. Talprincipio è l'unità, l'«uno e tutto» degli antichi, che inlogica si esprime come principio d'identità: l'esperienzaempirica, l'esistenza, è il fiume eracliteo dei sensibili; laragione tende ad unificarli sempre più fino all'Essere,alla sostanza una e identica di Parmenide e di Spinoza.Questa è la sua funzione: non crea alcun contenuto sen-sibile, unifica i contenuti nelle idee in sintesi vie piùalte, ciò che può fare sol in quanto presuppone il princi-pio d'identità come dover essere in sè; principio dunquea priori, trascendentalità del pensiero anche conoscitivo.

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scenza, la prima empirica conoscenza, percepisce, rico-nosce la costanza obbiettiva di quelle contiguità spazialie temporali, giudica cioè l'oro realmente giallo pesanteecc., o dal vederlo giallo inferisce che quel datodev'essere pesante essendo oro, e allora siamo già nelconoscere induttivo o deduttivo, ossia siamo già nel va-lore a priori del giudizio esistenziale. Un giudizio a po-steriori è una contraddizione in termini proprio per ef-fetto della critica kantiana.

Ma forse è meglio sviscerare completamente questa,per quanto arida, questione delle forme dei giudizi teo-retici, se ci vogliamo dar conto del solo modo con cui laragione può render intelligibile il mondo sensibile.

In noètica, allorquando diciamo «ragione», non allu-diamo a una misteriosa facoltà psichica, causa occultadel conoscere, e quindi... irrazionale; vogliamo soltantoaffermare in universale il valore conoscitivo, definendo-lo come un principio formale, una categoria, che condi-ziona la conoscenza o attività concreta del pensiero. Talprincipio è l'unità, l'«uno e tutto» degli antichi, che inlogica si esprime come principio d'identità: l'esperienzaempirica, l'esistenza, è il fiume eracliteo dei sensibili; laragione tende ad unificarli sempre più fino all'Essere,alla sostanza una e identica di Parmenide e di Spinoza.Questa è la sua funzione: non crea alcun contenuto sen-sibile, unifica i contenuti nelle idee in sintesi vie piùalte, ciò che può fare sol in quanto presuppone il princi-pio d'identità come dover essere in sè; principio dunquea priori, trascendentalità del pensiero anche conoscitivo.

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Nell'esperienza temporale nulla v'ha d'identico e tem-po significa variazione. Ragione significa invece identi-ficazione, espressa col verbo è che nel giudizio trasfor-ma conoscitivamente l'esistere già dato del «soggetto»nell'essere pensato del «predicato». Obbediamo a un'esi-genza, a un dover essere, che psicologicamente non è al-tro che un fine, il fine teoretico del nostro volere, espri-mentesi come modalità del giudizio (infatti l'esser il giu-dizio problematico, assertorio o apodittico non significaaltro in fondo, che il nostro stato d'animo rispetto allapossibilità, o evidenza, o necessità morale d'una unifica-zione). Esso fine ci spinge ad affermare o negare (quali-tà puramente logica del giudizio), in particolare o in ge-nerale (quantità del giudizio secondo i contenuti, da nonconfondere con l'universalità della forma) la realtà d'unacosa, il suo esser identica a sè stessa in quell'attributo,oppure la causalità d'un evento, ossia l'identico rapportonel divenire.

I quattro principii della logica e le quattro categoriekantiane della gnoseologia si riducon pertanto a un solprincipio formale del conoscere, che conosce in quantounifica tutte le relazioni dell'esperienza, scoperte neicontenuti sensibili, ispirandosi per così dire a un'unità eidentità assoluta, ch'è un postulato a priori, un dover es-sere ideale, del tutto simile ai postulati della pratica.Esso è condizione della conoscenza, è la ragione del co-noscere: ragione in sè metafisica, e quindi soggetto acondizione che sia in sè anche oggetto, unità dell'essereche si rivela a sè stessa nell'unità di coscienza. La chia-

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Nell'esperienza temporale nulla v'ha d'identico e tem-po significa variazione. Ragione significa invece identi-ficazione, espressa col verbo è che nel giudizio trasfor-ma conoscitivamente l'esistere già dato del «soggetto»nell'essere pensato del «predicato». Obbediamo a un'esi-genza, a un dover essere, che psicologicamente non è al-tro che un fine, il fine teoretico del nostro volere, espri-mentesi come modalità del giudizio (infatti l'esser il giu-dizio problematico, assertorio o apodittico non significaaltro in fondo, che il nostro stato d'animo rispetto allapossibilità, o evidenza, o necessità morale d'una unifica-zione). Esso fine ci spinge ad affermare o negare (quali-tà puramente logica del giudizio), in particolare o in ge-nerale (quantità del giudizio secondo i contenuti, da nonconfondere con l'universalità della forma) la realtà d'unacosa, il suo esser identica a sè stessa in quell'attributo,oppure la causalità d'un evento, ossia l'identico rapportonel divenire.

I quattro principii della logica e le quattro categoriekantiane della gnoseologia si riducon pertanto a un solprincipio formale del conoscere, che conosce in quantounifica tutte le relazioni dell'esperienza, scoperte neicontenuti sensibili, ispirandosi per così dire a un'unità eidentità assoluta, ch'è un postulato a priori, un dover es-sere ideale, del tutto simile ai postulati della pratica.Esso è condizione della conoscenza, è la ragione del co-noscere: ragione in sè metafisica, e quindi soggetto acondizione che sia in sè anche oggetto, unità dell'essereche si rivela a sè stessa nell'unità di coscienza. La chia-

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miamo soggetto perchè si attua come esigenza soggetti-va e attività teoretica in particolari nostri giudizi, ma ciòè molto pericoloso, poi che c'induce facilmente a crede-re che sia soggettiva anche nel valore, ossia nel princi-pio formale, che dev'essere oggettivo e assoluto: tra-scendentale, appunto.

La ragione, il principio, si attua nell'intelletto, o fa-coltà del conoscere teoretico, capacità soggettiva di co-noscere oggettivamente. Il concreto di questa astrazione,l'atto di questa potenza, è il giudizio, posizione di valori,identificazione di termini in un rapporto, espresso ver-balmente in una proposizione, che diviene così il feno-meno del valore noumenico, l'atto sensibile della ragio-ne intelligente; oppure implicito e sottinteso in un qua-lunque altro atto pratico diretto dal pensiero. Il giudizioè atto conoscitivo perchè giudica il dato empirico comerappresentazione di un valore, teoretico o pratico, realeo ideale. Restiàmo al primo, al valore reale: il giudizioteoretico, in che modo, per dirla col Kant, è costitutivodell'esperienza? Esso non l'inventa, la trova, sensibil-mente, come dato esistente, e prende questa esistenza –di cui esso medesimo, in quanto atto volontario, fa parte– prima di tutto a rappresentazione della cosa in sè (cioèla prende come esistenza reale, oggettivamente).

La cosa in sè è un puro pensabile, un dover essere: cidev'essere una realtà in sè del sensibile, una sostanza ocausa assoluta in cui il fenomeno s'identifichi con l'esse-re in sè del mondo, la quale non è dunque confondibilecon la causalità naturale entro cui colleghiamo i feno-

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miamo soggetto perchè si attua come esigenza soggetti-va e attività teoretica in particolari nostri giudizi, ma ciòè molto pericoloso, poi che c'induce facilmente a crede-re che sia soggettiva anche nel valore, ossia nel princi-pio formale, che dev'essere oggettivo e assoluto: tra-scendentale, appunto.

La ragione, il principio, si attua nell'intelletto, o fa-coltà del conoscere teoretico, capacità soggettiva di co-noscere oggettivamente. Il concreto di questa astrazione,l'atto di questa potenza, è il giudizio, posizione di valori,identificazione di termini in un rapporto, espresso ver-balmente in una proposizione, che diviene così il feno-meno del valore noumenico, l'atto sensibile della ragio-ne intelligente; oppure implicito e sottinteso in un qua-lunque altro atto pratico diretto dal pensiero. Il giudizioè atto conoscitivo perchè giudica il dato empirico comerappresentazione di un valore, teoretico o pratico, realeo ideale. Restiàmo al primo, al valore reale: il giudizioteoretico, in che modo, per dirla col Kant, è costitutivodell'esperienza? Esso non l'inventa, la trova, sensibil-mente, come dato esistente, e prende questa esistenza –di cui esso medesimo, in quanto atto volontario, fa parte– prima di tutto a rappresentazione della cosa in sè (cioèla prende come esistenza reale, oggettivamente).

La cosa in sè è un puro pensabile, un dover essere: cidev'essere una realtà in sè del sensibile, una sostanza ocausa assoluta in cui il fenomeno s'identifichi con l'esse-re in sè del mondo, la quale non è dunque confondibilecon la causalità naturale entro cui colleghiamo i feno-

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meni, ma è il postulato, la ragione o, se preferite, la con-dizione per cui quei collegamenti hanno un senso, unvalore logico. Come si può esser morali soltanto a con-dizione che esista l'autonomia e libertà morale, benchèquesta, considerata in sè, non è un fatto ma un postulatodella ragion puro pratica, così, pensa giustamente ilKant, si può conoscere oggettivamente a condizione cheesista una cosa in sè, quantunque essa non sia un cono-scibile, ma un postulato necessario della conoscenza. Aquesta identità assoluta dell'essere con sè stesso, a que-sta «causa sui» spinoziana, a questo universal valore èrivolta tutta e sempre l'attività teoretica, sebbene mai lopossa adeguare: le unificazioni parziali, dalla percezioneal concetto, dal giudizio individuale e definitorio al giu-dizio indotto o dedotto, non son che gradi e passi suquel cammino, per mezzo di parziali identificazioni chepermettano sintesi vie più comprensive od estensive, mache ineluttabilmente rinviano all'unità trascendentale so-pra accennata.

L'atto teoretico, il giudizio, non è ora sintesi e oraanalisi: gnoseologicamente (ossia nel valore) è sintetico;logicamente (ossia nella forma dell'operazione conosci-tiva in sè) è analitico. Il giudizio teoretico è un'analisiche condiziona il passaggio da un'unità già data (sintesia posteriori) a una nuova unificazione conoscitiva (sin-tesi a priori). Dal percetto al concetto, che ne sono i ri-sultati, il sensibile – presente nella forma d'una sensa-zione o immagine del primo, e nella forma d'una parola(ch'è poi una sensazione simbolica) del secondo – cono-

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meni, ma è il postulato, la ragione o, se preferite, la con-dizione per cui quei collegamenti hanno un senso, unvalore logico. Come si può esser morali soltanto a con-dizione che esista l'autonomia e libertà morale, benchèquesta, considerata in sè, non è un fatto ma un postulatodella ragion puro pratica, così, pensa giustamente ilKant, si può conoscere oggettivamente a condizione cheesista una cosa in sè, quantunque essa non sia un cono-scibile, ma un postulato necessario della conoscenza. Aquesta identità assoluta dell'essere con sè stesso, a que-sta «causa sui» spinoziana, a questo universal valore èrivolta tutta e sempre l'attività teoretica, sebbene mai lopossa adeguare: le unificazioni parziali, dalla percezioneal concetto, dal giudizio individuale e definitorio al giu-dizio indotto o dedotto, non son che gradi e passi suquel cammino, per mezzo di parziali identificazioni chepermettano sintesi vie più comprensive od estensive, mache ineluttabilmente rinviano all'unità trascendentale so-pra accennata.

L'atto teoretico, il giudizio, non è ora sintesi e oraanalisi: gnoseologicamente (ossia nel valore) è sintetico;logicamente (ossia nella forma dell'operazione conosci-tiva in sè) è analitico. Il giudizio teoretico è un'analisiche condiziona il passaggio da un'unità già data (sintesia posteriori) a una nuova unificazione conoscitiva (sin-tesi a priori). Dal percetto al concetto, che ne sono i ri-sultati, il sensibile – presente nella forma d'una sensa-zione o immagine del primo, e nella forma d'una parola(ch'è poi una sensazione simbolica) del secondo – cono-

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scitivamente è sempre una rappresentazione diquell'unità raggiunta intelligibilmente, divenendo essomedesimo, sol in tal modo, intelligibile: mentre rimaneinconoscibile in sè, quantunque presente, il principiostesso razionale, l'unità e identità dell'essere, che rendepossibili le unificazioni nei percetti e nei concetti.

4. – «Tutti i corpi sono estesi» è, secondo il Kant deiProlegomeni, un giudizio analitico, perchè io, quandocosì affermo, «non ho punto arricchito il mio concetto dicorpo, ma l'ho solamente analizzato, in quanto l'esten-sione era già implicitamente pensata in quel concetto,sebbene non messa in rilievo». Adunque per il Kantsono analitici quei giudizi che, come aveva detto nellaprima edizione della R. P., «non ampliano il nostro co-noscere, ma scompongono e rendono a noi intelligibileil concetto già posseduto». Ma il concetto, la conoscen-za teoretica, non son essi l'intelligibile? E il giudizio«Ogni accadimento ha la sua causa», citato qui dal Kantad esempio d'un giudizio sintetico a priori, non è esso alpari del precedente ugualmente analitico e sintetico a se-conda dei punti di vista? In verità, questa distinzionenon riguarda differenti forme del giudizio, ma è una di-stinzione di gradi: il primo è un giudizio empirico,d'esperienza; il secondo, un giudizio puro, una proposi-zione generale di categoria astratta.

Vediamo meglio, restando quanto più è possibile fe-deli al Kant. L'intelletto non è specchio passivo e recet-tivo d'una verità già data; è attività formativa dell'espe-

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scitivamente è sempre una rappresentazione diquell'unità raggiunta intelligibilmente, divenendo essomedesimo, sol in tal modo, intelligibile: mentre rimaneinconoscibile in sè, quantunque presente, il principiostesso razionale, l'unità e identità dell'essere, che rendepossibili le unificazioni nei percetti e nei concetti.

4. – «Tutti i corpi sono estesi» è, secondo il Kant deiProlegomeni, un giudizio analitico, perchè io, quandocosì affermo, «non ho punto arricchito il mio concetto dicorpo, ma l'ho solamente analizzato, in quanto l'esten-sione era già implicitamente pensata in quel concetto,sebbene non messa in rilievo». Adunque per il Kantsono analitici quei giudizi che, come aveva detto nellaprima edizione della R. P., «non ampliano il nostro co-noscere, ma scompongono e rendono a noi intelligibileil concetto già posseduto». Ma il concetto, la conoscen-za teoretica, non son essi l'intelligibile? E il giudizio«Ogni accadimento ha la sua causa», citato qui dal Kantad esempio d'un giudizio sintetico a priori, non è esso alpari del precedente ugualmente analitico e sintetico a se-conda dei punti di vista? In verità, questa distinzionenon riguarda differenti forme del giudizio, ma è una di-stinzione di gradi: il primo è un giudizio empirico,d'esperienza; il secondo, un giudizio puro, una proposi-zione generale di categoria astratta.

Vediamo meglio, restando quanto più è possibile fe-deli al Kant. L'intelletto non è specchio passivo e recet-tivo d'una verità già data; è attività formativa dell'espe-

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rienza stessa come reale, e la realizza appunto ogni voltanell'atto teoretico, nel giudizio: questa, come tutti sanno,è la «rivoluzione» kantiana. Si tratta perciò di riflettere,in che maniera il giudizio sia costitutivo del vero comereale. Ciò avviene perchè il giudizio trasforma un conte-nuto, un dato esistente – esistente almeno e prima di tut-to come sensibilità e vita immediatamente intuita, og-getto gnoseologico (psicologicamente diviene un sog-getto) che ci dev'essere per conoscer qualcosa; come cidev'essere un soggetto gnoseologico, un principio unifi-catore formale (che metafisicamente divien l'oggetto as-soluto) –, lo trasforma, dico, in concetto, predicabile apriori di quei contenuti come lor attributo essenziale erazionale. Il più semplice giudizio esistenziale, per es.«Questo (bianco) è bianco», individuale e contingente,non meno del giudizio generale e categorico dell'esem-pio kantiano. «Ogni accadimento ha la sua causa», ci ri-vela il valore formale dell'atto conoscitivo, la sintesi apriori, per cui un concetto si costruisce e il sapere au-menta.

Evitiamo, prima di tutto, d'intendere l'arricchimentodel sapere, chiamato sintesi dal Kant, come aumento delnumero dei contenuti a posteriori, che riguarda l'ontolo-gia e non il valore gnoseologico (l'aumento di verità)che i contenuti acquistano nell'atto conoscitivo. «Questoè bianco» è una sintesi a priori perchè prende un datoempirico, che fa da soggetto della proposizione, e lo af-ferma oggettivamente reale, carattere reale (identico a sèstesso) della mia esperienza, attributo essenziale di que-

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rienza stessa come reale, e la realizza appunto ogni voltanell'atto teoretico, nel giudizio: questa, come tutti sanno,è la «rivoluzione» kantiana. Si tratta perciò di riflettere,in che maniera il giudizio sia costitutivo del vero comereale. Ciò avviene perchè il giudizio trasforma un conte-nuto, un dato esistente – esistente almeno e prima di tut-to come sensibilità e vita immediatamente intuita, og-getto gnoseologico (psicologicamente diviene un sog-getto) che ci dev'essere per conoscer qualcosa; come cidev'essere un soggetto gnoseologico, un principio unifi-catore formale (che metafisicamente divien l'oggetto as-soluto) –, lo trasforma, dico, in concetto, predicabile apriori di quei contenuti come lor attributo essenziale erazionale. Il più semplice giudizio esistenziale, per es.«Questo (bianco) è bianco», individuale e contingente,non meno del giudizio generale e categorico dell'esem-pio kantiano. «Ogni accadimento ha la sua causa», ci ri-vela il valore formale dell'atto conoscitivo, la sintesi apriori, per cui un concetto si costruisce e il sapere au-menta.

Evitiamo, prima di tutto, d'intendere l'arricchimentodel sapere, chiamato sintesi dal Kant, come aumento delnumero dei contenuti a posteriori, che riguarda l'ontolo-gia e non il valore gnoseologico (l'aumento di verità)che i contenuti acquistano nell'atto conoscitivo. «Questoè bianco» è una sintesi a priori perchè prende un datoempirico, che fa da soggetto della proposizione, e lo af-ferma oggettivamente reale, carattere reale (identico a sèstesso) della mia esperienza, attributo essenziale di que-

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sto esistere, che d'ora in poi ne diverrà l'idea, il vero, senuovi giudizi non la modificheranno in nuove sintesi. Èil modo del giudizio, universale e necessario – e cioèoggettivo – anche se prèdica un particolarissimo attribu-to d'un dato oggetto empirico, perchè questo particolarattributo, almeno per ora, ne costituisce l'essere, ideal-mente.

Ora, se consideriamo la proposizione in sè stessa, lo-gicamente, come operazione conoscitiva, e non in rap-porto ai contenuti, troviamo ch'essa è analitica: è un'ana-lisi del dato che ne fa da soggetto logico: nel mondo ame presente, distinguo un sensibile, il bianco, e lo assu-mo a definire il dato come suo carattere essenziale, incui cioè il soggetto è (dev'essere) identico a sè stesso.

Ma non diversamente avviene quando il soggetto del-la proposizione è un concetto già prima acquisito, comenell'esempio kantiano «Tutti i corpi sono estesi», doveanalizzo l'idea che già avevo di corpo e, come giusta-mente rileva il Kant, ne metto in evidenza un carattere,l'estensione, proprio per rendere (più) intelligibilequell'idea, alla quale attribuisco l'estensione come il ca-rattere costitutivo della sua universale e necessaria real-tà. Nell'uno come nell'altro caso, non ho arricchito il nu-mero dei contenuti del sapere, chè non si trattava di que-sto; ho costituito il sapere, il concetto: ragione significasoltanto questo.

Tutti i giudizi, considerati nella forma, sono analitici.Il predicato è un'analisi del soggetto, il quale vien cono-sciuto in quanto rappresenta l'idea predicata di esso,

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sto esistere, che d'ora in poi ne diverrà l'idea, il vero, senuovi giudizi non la modificheranno in nuove sintesi. Èil modo del giudizio, universale e necessario – e cioèoggettivo – anche se prèdica un particolarissimo attribu-to d'un dato oggetto empirico, perchè questo particolarattributo, almeno per ora, ne costituisce l'essere, ideal-mente.

Ora, se consideriamo la proposizione in sè stessa, lo-gicamente, come operazione conoscitiva, e non in rap-porto ai contenuti, troviamo ch'essa è analitica: è un'ana-lisi del dato che ne fa da soggetto logico: nel mondo ame presente, distinguo un sensibile, il bianco, e lo assu-mo a definire il dato come suo carattere essenziale, incui cioè il soggetto è (dev'essere) identico a sè stesso.

Ma non diversamente avviene quando il soggetto del-la proposizione è un concetto già prima acquisito, comenell'esempio kantiano «Tutti i corpi sono estesi», doveanalizzo l'idea che già avevo di corpo e, come giusta-mente rileva il Kant, ne metto in evidenza un carattere,l'estensione, proprio per rendere (più) intelligibilequell'idea, alla quale attribuisco l'estensione come il ca-rattere costitutivo della sua universale e necessaria real-tà. Nell'uno come nell'altro caso, non ho arricchito il nu-mero dei contenuti del sapere, chè non si trattava di que-sto; ho costituito il sapere, il concetto: ragione significasoltanto questo.

Tutti i giudizi, considerati nella forma, sono analitici.Il predicato è un'analisi del soggetto, il quale vien cono-sciuto in quanto rappresenta l'idea predicata di esso,

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astratta da esso ma potenziata nel valore. Nessun dub-bio, per me, che il giudizio sia sempre astraente: l'ideadi bianco è astratta da questo foglio e l'idea di esteso èastratta dai corpi in genere. Non si conoscerebbe senzaastrarre. Lo sforzo conoscitivo, l'intelligenza, consistenel distinguere, nello scoprire, nell'evidenziare, fragl'infiniti dati dell'esperienza immediata o acquisita,quel più profondo, quel più reale elemento, che ce larenda penetrabile e concepibile, che ce ne dia il concettopiù adeguato alla postulata unità e realtà universale, checi permetta unificazioni sempre più vaste: ma il concet-to, considerato in sè, è una idea astratta. Astratta è laforma logica (idea), concreto è il valore gnoseologico(concetto); come analitica è l'operazione conoscitiva,sintetici i valori di verità che ne risultano rispetto ai con-tenuti. L'esecrato errore d'astrattismo non consistenell'astrarre, chè non potremmo pensare senza astrarre,ma nel prendere l'idea, che vale per i contenuti esisten-ziali, come esistenza assoluta in sè, fuori della relativitàgnoseologica; e infine prender la categoria, il dover es-sere, come soggetto invece che predicato d'un giudiziodi realtà.

Il solo Kant ci ha messo in guardia da tal errore meta-fisico, spiegando appunto che le forme unificatricidell'esperienza non possono nè esistere in sè fuori diquesta (platonicamente), nè esser parti o caratteri deicontenuti, che dovremmo attendere a posteriori peraverne coscienza (Hegel): esse sono i modi di valutarel'esperienza unificandola per mezzo dei concetti, real-

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astratta da esso ma potenziata nel valore. Nessun dub-bio, per me, che il giudizio sia sempre astraente: l'ideadi bianco è astratta da questo foglio e l'idea di esteso èastratta dai corpi in genere. Non si conoscerebbe senzaastrarre. Lo sforzo conoscitivo, l'intelligenza, consistenel distinguere, nello scoprire, nell'evidenziare, fragl'infiniti dati dell'esperienza immediata o acquisita,quel più profondo, quel più reale elemento, che ce larenda penetrabile e concepibile, che ce ne dia il concettopiù adeguato alla postulata unità e realtà universale, checi permetta unificazioni sempre più vaste: ma il concet-to, considerato in sè, è una idea astratta. Astratta è laforma logica (idea), concreto è il valore gnoseologico(concetto); come analitica è l'operazione conoscitiva,sintetici i valori di verità che ne risultano rispetto ai con-tenuti. L'esecrato errore d'astrattismo non consistenell'astrarre, chè non potremmo pensare senza astrarre,ma nel prendere l'idea, che vale per i contenuti esisten-ziali, come esistenza assoluta in sè, fuori della relativitàgnoseologica; e infine prender la categoria, il dover es-sere, come soggetto invece che predicato d'un giudiziodi realtà.

Il solo Kant ci ha messo in guardia da tal errore meta-fisico, spiegando appunto che le forme unificatricidell'esperienza non possono nè esistere in sè fuori diquesta (platonicamente), nè esser parti o caratteri deicontenuti, che dovremmo attendere a posteriori peraverne coscienza (Hegel): esse sono i modi di valutarel'esperienza unificandola per mezzo dei concetti, real-

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mente veri soltanto in essa e per essa, trascendentali(perchè universali e necessari) ma non trascendenti (nonassoluti in sè). Perciò quando il Kant distingue una clas-se speciale di giudizi sintetici a priori, intende parlaredel valore conoscitivo che il predicato aggiunge al sog-getto d'una proposizione, riguardando il giudizio rispet-to a' suoi contenuti, riguardando cioè il rapporto fra atti-vità conoscente e oggetti conosciuti: in quanto appuntoil giudizio trasforma in concetto oggettivo di sostanza ocausa reale ciò ch'eragli dato come un elemento o unrapporto empirico, sceverato dall'analisi nell'unità a po-steriori dell'esperienza e assurto a unità di ragione.

In tal senso, giudizi sintetici puri sarebbero, o i giudi-zi propriamente metafisici, ossia impossibili come giu-dizi reali perchè appunto non han più contenuti d'espe-rienza sulla cui analisi si costruisca la realtà, e quindivalevoli soltanto formalmente; oppure le proposizioniche definiscon la categoria stessa, apoditticamente,come «A=A» (ogni cosa, per essere una cosa, dev'essereidentica a sè stessa), o «Ogni accadimento ha (deve ave-re) una causa», deve cioè esserci un costante rapportofra le cose e del loro variare. Ma se è vero che gli acca-dimenti, così come si presentano a posteriori, non sonnulla più che una contiguità di sensazioni o d'immagininel tempo e nello spazio, senza necessario legame fuorche l'abitudine soggettiva e mnemonica che ce li fa at-tendere così collegati (Hume), e che pertanto afferman-doli causati aggiungiamo all'esperienza un valore che cela rende intelligibile, resta però sempre anche vero che è

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mente veri soltanto in essa e per essa, trascendentali(perchè universali e necessari) ma non trascendenti (nonassoluti in sè). Perciò quando il Kant distingue una clas-se speciale di giudizi sintetici a priori, intende parlaredel valore conoscitivo che il predicato aggiunge al sog-getto d'una proposizione, riguardando il giudizio rispet-to a' suoi contenuti, riguardando cioè il rapporto fra atti-vità conoscente e oggetti conosciuti: in quanto appuntoil giudizio trasforma in concetto oggettivo di sostanza ocausa reale ciò ch'eragli dato come un elemento o unrapporto empirico, sceverato dall'analisi nell'unità a po-steriori dell'esperienza e assurto a unità di ragione.

In tal senso, giudizi sintetici puri sarebbero, o i giudi-zi propriamente metafisici, ossia impossibili come giu-dizi reali perchè appunto non han più contenuti d'espe-rienza sulla cui analisi si costruisca la realtà, e quindivalevoli soltanto formalmente; oppure le proposizioniche definiscon la categoria stessa, apoditticamente,come «A=A» (ogni cosa, per essere una cosa, dev'essereidentica a sè stessa), o «Ogni accadimento ha (deve ave-re) una causa», deve cioè esserci un costante rapportofra le cose e del loro variare. Ma se è vero che gli acca-dimenti, così come si presentano a posteriori, non sonnulla più che una contiguità di sensazioni o d'immagininel tempo e nello spazio, senza necessario legame fuorche l'abitudine soggettiva e mnemonica che ce li fa at-tendere così collegati (Hume), e che pertanto afferman-doli causati aggiungiamo all'esperienza un valore che cela rende intelligibile, resta però sempre anche vero che è

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di quell'esperienza soltanto che noi possiamo predicarela causalità, e che dall'analisi dei contenuti togliamoquei rapporti di più costante e profonda contiguità, cheeleviamo a ragione.

5. – Ma forse la critica dei giudizi viene spesso in-fluenzata da classificazioni meramente logiche, le qualiriguardano i rapporti fra idee già formate in qualsiasimodo e ora connesse fra loro nel ragionamento discorsi-vo o in quello dialettico. Il sapere non si forma unica-mente su l'esperienza sensibile; ben presto lavoriamoastrattamente sopra le idee e le adoperiamo come rap-presentazioni per raggiungere nuovi concetti. Un'idea èuna parola o altro segno sensibile (e quindi una cosaqualunque dell'esperienza serve da idea), ma è idea inquanto conserva, tesaurizzando l'esperienza nostra ed al-trui, i valori conoscitivi del giudizio in cui venne costi-tuita: essa dunque implica le note che l'analisi avevascoperte e la sintesi elevate a essenza reale degli oggetti(«comprensione dell'idea»), come implica la capacità dirappresentare tutto ciò di cui queste note si possono pre-dicare («estensione dell'idea»). Allora, mettendo in rap-porto le idee, si forman nuovi giudizi, nel senso dellacomprensione o dell'estensione di un'idea rispetto ad al-tre, per mezzo della nota comune messa in evidenza nel-le premesse. Queste premesse, considerate a parte, appa-riscono come giudizi soltanto analitici, perchè appuntoil predicato non fa che sviluppare una nota già contenutanell'idea che fa da soggetto della proposizione, come

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di quell'esperienza soltanto che noi possiamo predicarela causalità, e che dall'analisi dei contenuti togliamoquei rapporti di più costante e profonda contiguità, cheeleviamo a ragione.

5. – Ma forse la critica dei giudizi viene spesso in-fluenzata da classificazioni meramente logiche, le qualiriguardano i rapporti fra idee già formate in qualsiasimodo e ora connesse fra loro nel ragionamento discorsi-vo o in quello dialettico. Il sapere non si forma unica-mente su l'esperienza sensibile; ben presto lavoriamoastrattamente sopra le idee e le adoperiamo come rap-presentazioni per raggiungere nuovi concetti. Un'idea èuna parola o altro segno sensibile (e quindi una cosaqualunque dell'esperienza serve da idea), ma è idea inquanto conserva, tesaurizzando l'esperienza nostra ed al-trui, i valori conoscitivi del giudizio in cui venne costi-tuita: essa dunque implica le note che l'analisi avevascoperte e la sintesi elevate a essenza reale degli oggetti(«comprensione dell'idea»), come implica la capacità dirappresentare tutto ciò di cui queste note si possono pre-dicare («estensione dell'idea»). Allora, mettendo in rap-porto le idee, si forman nuovi giudizi, nel senso dellacomprensione o dell'estensione di un'idea rispetto ad al-tre, per mezzo della nota comune messa in evidenza nel-le premesse. Queste premesse, considerate a parte, appa-riscono come giudizi soltanto analitici, perchè appuntoil predicato non fa che sviluppare una nota già contenutanell'idea che fa da soggetto della proposizione, come

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«Tutti i corpi sono estesi» (se già lo sapevo),senz'aggiungere alcun nuovo valore sintetico: ma tuttivedono che qui le proposizioni non son che mezzi vale-voli non ciascuna per sè, ma nella conclusione. Quividunque è il giudizio costitutivo del nuovo sapere, e dinuovo qui troviamo la sintesi di quelle analisi, il risulta-to conoscitivo (rispetto ai contenuti) della più lunga emediata operazione conoscitiva per sè analitica.

Questo discorso, sul ragionamento per mediazioned'idee, nel campo gnoseologico ci porta invece a riflettermeglio su quell'altra vessata questione della conoscenzainduttiva o deduttiva. Nella logica formale, che non sipreoccupa del valore reale del processo conoscitivo teo-retico, questi termini stanno a indicare solamente il rap-porto di estensione fra le idee, sottintendendo la lor co-struzione per comprensione delle note che divenner con-cetto. Allora, «Se A conviene a B, e B conviene a C, Aconviene a C» è un sillogismo deduttivo, il tipico modocon cui ragioniamo per idee, ossia applichiamo le ideeche abbiamo, seguendo il principio d'identità e contrad-dizione (e, dialetticamente, del terzo escluso), secondoche l'analisi delle idee ce lo permetta. Il sillogismo de-duttivo, l'analisi, è l'unica forma di ragionamento logico.Difatti in esso, formalmente, rientra anche il ragiona-mento analogico, in cui quei termini sono particolari(«Se a e b convengono a c, convengono fra loro»), e in-fine anche il ragionamento epagogico o induttivo, percui se a', a", a"' ...convengono a B, tutti gli A convengo-no a B. La generalizzazione d'un concetto è, ripeto, que-

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«Tutti i corpi sono estesi» (se già lo sapevo),senz'aggiungere alcun nuovo valore sintetico: ma tuttivedono che qui le proposizioni non son che mezzi vale-voli non ciascuna per sè, ma nella conclusione. Quividunque è il giudizio costitutivo del nuovo sapere, e dinuovo qui troviamo la sintesi di quelle analisi, il risulta-to conoscitivo (rispetto ai contenuti) della più lunga emediata operazione conoscitiva per sè analitica.

Questo discorso, sul ragionamento per mediazioned'idee, nel campo gnoseologico ci porta invece a riflettermeglio su quell'altra vessata questione della conoscenzainduttiva o deduttiva. Nella logica formale, che non sipreoccupa del valore reale del processo conoscitivo teo-retico, questi termini stanno a indicare solamente il rap-porto di estensione fra le idee, sottintendendo la lor co-struzione per comprensione delle note che divenner con-cetto. Allora, «Se A conviene a B, e B conviene a C, Aconviene a C» è un sillogismo deduttivo, il tipico modocon cui ragioniamo per idee, ossia applichiamo le ideeche abbiamo, seguendo il principio d'identità e contrad-dizione (e, dialetticamente, del terzo escluso), secondoche l'analisi delle idee ce lo permetta. Il sillogismo de-duttivo, l'analisi, è l'unica forma di ragionamento logico.Difatti in esso, formalmente, rientra anche il ragiona-mento analogico, in cui quei termini sono particolari(«Se a e b convengono a c, convengono fra loro»), e in-fine anche il ragionamento epagogico o induttivo, percui se a', a", a"' ...convengono a B, tutti gli A convengo-no a B. La generalizzazione d'un concetto è, ripeto, que-

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stione d'estensibilità d'un concetto particolare a tutta laclasse degli oggetti o dei fatti in cui si trovin contenutele note o le condizioni reali di esso: se, come avviene inmatematica, la classe intiera A è già data come formatadi tutti gli a identici fra loro, l'induzione dai particolarial generale presenta la stessa forza logica della deduzio-ne dal generale ai particolari. Ma come generalizziamosu l'esperienza sensibile? come dalla sintesi a posteriori,dal mero rapporto di contiguità, saliamo alla sintesi apriori, concettuale, quella per cui è poi possibile esten-der il concetto dal noto all'ignoto, dal passato all'avveni-re, dall'astratto logico ritornando al concreto reale? Que-sto è il problema gnoseologico. Il sillogismo aristoteliconon vi ha che fare.

Il problema centrale della filosofia greca era essen-zialmente logico: alla sofistica interessava capire comel'uomo pensa e ragiona, problema umano e intellettuali-stico a un tempo, tipico del pensiero da Protagora adAristotele; essi volevano stabilire le forme astratte, imodelli del ragionamento, come in estetica volevan fis-sare i modelli del bello e dell'arte. Aristotele, nell'Orga-non come nella Poetica, è il risultato di questo lungosforzo sofistico. I greci, come non dubitavano che il bel-lo sia bello, poi che lo creavano in opere immortali, pre-occupandosi sol dei relativi problemi tecnici e dei rap-porti intellettualistici col vero per intellettualizzarlo (ciòche fecero in ogni campo), così non dubitavano dellaesistenza reale, o del valore delle leggi e degli dèi, limitiche il pensiero non può infrangere e si trattava solo

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stione d'estensibilità d'un concetto particolare a tutta laclasse degli oggetti o dei fatti in cui si trovin contenutele note o le condizioni reali di esso: se, come avviene inmatematica, la classe intiera A è già data come formatadi tutti gli a identici fra loro, l'induzione dai particolarial generale presenta la stessa forza logica della deduzio-ne dal generale ai particolari. Ma come generalizziamosu l'esperienza sensibile? come dalla sintesi a posteriori,dal mero rapporto di contiguità, saliamo alla sintesi apriori, concettuale, quella per cui è poi possibile esten-der il concetto dal noto all'ignoto, dal passato all'avveni-re, dall'astratto logico ritornando al concreto reale? Que-sto è il problema gnoseologico. Il sillogismo aristoteliconon vi ha che fare.

Il problema centrale della filosofia greca era essen-zialmente logico: alla sofistica interessava capire comel'uomo pensa e ragiona, problema umano e intellettuali-stico a un tempo, tipico del pensiero da Protagora adAristotele; essi volevano stabilire le forme astratte, imodelli del ragionamento, come in estetica volevan fis-sare i modelli del bello e dell'arte. Aristotele, nell'Orga-non come nella Poetica, è il risultato di questo lungosforzo sofistico. I greci, come non dubitavano che il bel-lo sia bello, poi che lo creavano in opere immortali, pre-occupandosi sol dei relativi problemi tecnici e dei rap-porti intellettualistici col vero per intellettualizzarlo (ciòche fecero in ogni campo), così non dubitavano dellaesistenza reale, o del valore delle leggi e degli dèi, limitiche il pensiero non può infrangere e si trattava solo

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d'insegnare il modo di pensare a queste cose. Per Aristo-tele niun dubbio che forma e materia, idea e contenutosiano una medesima realtà sostanziale, e per lui, inge-nuamente, un giudizio è vero o falso se afferma o negache le cose stiano come sono in realtà! Ciò che urgeva aquesti sofisti, era insegnare a discutere: il sillogismo.

Per noi il sillogismo non è più unicamente analisid'idee già fatte, è costruzione di nuovi concetti per sinte-si mediata da quell'analisi. Come giustamente vide ilKant, anche una scienza formale e astraente, come lematematiche, costruita cioè per ipotesi e prese questeipotesi come reali in sè formalmente, si sviluppa pur tut-tavia aumentando sinteticamente il suo sapere, costruen-do nuovi concetti, sia pure per determinazione totalmen-te a priori invece che per riflessione sui dati a posterioridei fenomeni. Il problema gnoseologico diventaquest'altro: Il ragionamento è deduttivo e conclude a ungiudizio determinante, per cui dato il generale – la nor-ma, il principio, la legge: non si tratta più di quantità nu-merica del genere rispetto alla specie, ma di universalitàdel valore rispetto ai contenuti dell'esperienza –, òperala sussunzione del particolare, ossia dell'esperienza, ren-dendola intelligibile, spiegandola. Ma giudizi assoluta-mente determinanti non sarebbero che i giudizi di puracategoria, quelli cioè che non fanno altro che applicarela categoria mentale al contenuto, come quando dicessi«Quest'oggetto è una cosa» o «Quest'accadimento hauna causa», impliciti in ogni percezione, forma sponta-nea della conoscenza reale. Essi invero non ci rappre-

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d'insegnare il modo di pensare a queste cose. Per Aristo-tele niun dubbio che forma e materia, idea e contenutosiano una medesima realtà sostanziale, e per lui, inge-nuamente, un giudizio è vero o falso se afferma o negache le cose stiano come sono in realtà! Ciò che urgeva aquesti sofisti, era insegnare a discutere: il sillogismo.

Per noi il sillogismo non è più unicamente analisid'idee già fatte, è costruzione di nuovi concetti per sinte-si mediata da quell'analisi. Come giustamente vide ilKant, anche una scienza formale e astraente, come lematematiche, costruita cioè per ipotesi e prese questeipotesi come reali in sè formalmente, si sviluppa pur tut-tavia aumentando sinteticamente il suo sapere, costruen-do nuovi concetti, sia pure per determinazione totalmen-te a priori invece che per riflessione sui dati a posterioridei fenomeni. Il problema gnoseologico diventaquest'altro: Il ragionamento è deduttivo e conclude a ungiudizio determinante, per cui dato il generale – la nor-ma, il principio, la legge: non si tratta più di quantità nu-merica del genere rispetto alla specie, ma di universalitàdel valore rispetto ai contenuti dell'esperienza –, òperala sussunzione del particolare, ossia dell'esperienza, ren-dendola intelligibile, spiegandola. Ma giudizi assoluta-mente determinanti non sarebbero che i giudizi di puracategoria, quelli cioè che non fanno altro che applicarela categoria mentale al contenuto, come quando dicessi«Quest'oggetto è una cosa» o «Quest'accadimento hauna causa», impliciti in ogni percezione, forma sponta-nea della conoscenza reale. Essi invero non ci rappre-

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sentan altro che la sintesi a priori conoscitiva, la condi-zione cioè di conoscere realmente secondo la sostanza ola causa, rapporto unitario presunto di ogni contenuto.

Se non avessimo che l'unità assoluta delle categorierazionali, dover essere universale e necessario del feno-meno, ed il fenomeno, il nostro ragionamento sarebbesoltanto determinante. Ma ciò non è possibile, perchè ionon conosco questo fenomeno sol perchè lo giudico unacosa o un effetto in universale, e debbo ancora sapereche cosa è e da qual causa è prodotto. In somma, è nelconcreto particolare che si deve realizzare la legge uni-versale; e fra l'unità tutta a posteriori dei contenuti pre-senti nella contiguità dello spazio e del tempo, e l'unitàtutta a priori delle categorie ci dev'essere tutta una seriedi unificazioni parziali, che colmino l'infinito abisso frasenso e ragione. Le categorie medesime, o leggi supre-me del conoscere reale, come la causa e la sostanza(nonchè lo spazio e il tempo che unificano i sensibilicome esistenti, ossia nella sintesi ancora a posteriori),come si sono formate, differenziandosi dall'ultima e in-distinta categoria dell'unità in sè, del dover essere iden-tico a sè stesso? E tutte le altre leggi, tutti i principii piùparticolari, dai quali deduciamo di continuo per spiegaree antivedere gli accadimenti, come si sono costruiti?

6. – Questi problemi condussero il Kant a distinguere,accanto al giudizio determinante, deduttivo in sensognoseologico (che sussume il particolare nel generalegià dato), il giudizio riflettente, induttivo in senso gno-

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sentan altro che la sintesi a priori conoscitiva, la condi-zione cioè di conoscere realmente secondo la sostanza ola causa, rapporto unitario presunto di ogni contenuto.

Se non avessimo che l'unità assoluta delle categorierazionali, dover essere universale e necessario del feno-meno, ed il fenomeno, il nostro ragionamento sarebbesoltanto determinante. Ma ciò non è possibile, perchè ionon conosco questo fenomeno sol perchè lo giudico unacosa o un effetto in universale, e debbo ancora sapereche cosa è e da qual causa è prodotto. In somma, è nelconcreto particolare che si deve realizzare la legge uni-versale; e fra l'unità tutta a posteriori dei contenuti pre-senti nella contiguità dello spazio e del tempo, e l'unitàtutta a priori delle categorie ci dev'essere tutta una seriedi unificazioni parziali, che colmino l'infinito abisso frasenso e ragione. Le categorie medesime, o leggi supre-me del conoscere reale, come la causa e la sostanza(nonchè lo spazio e il tempo che unificano i sensibilicome esistenti, ossia nella sintesi ancora a posteriori),come si sono formate, differenziandosi dall'ultima e in-distinta categoria dell'unità in sè, del dover essere iden-tico a sè stesso? E tutte le altre leggi, tutti i principii piùparticolari, dai quali deduciamo di continuo per spiegaree antivedere gli accadimenti, come si sono costruiti?

6. – Questi problemi condussero il Kant a distinguere,accanto al giudizio determinante, deduttivo in sensognoseologico (che sussume il particolare nel generalegià dato), il giudizio riflettente, induttivo in senso gno-

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seologico, che scopre i modi particolari delle determina-zioni oggettive, ossia determina in concreto le leggi em-piriche dei fatti, come per es. la causa speciale di tal ac-cadimento o gruppo di accadimenti. Esso giudizio riflet-tente, dice il Kant5, dato solo il particolare, la sintesi aposteriori dell'esperienza, vi trova il generale, il princi-pio e la legge. Ora, ogni giudizio d'esperienza si costrui-sce così: è una sintesi a posteriori che diviene sintesi apriori a traverso l'analisi, generalizzando, ossia obbietti-vando, ciò che l'analisi astrae. «Questo pezzo di ferroarrugginisce» è una prima obbiettivazione, che affermaun fatto universalmente, come vero in sè; «Il ferro ar-rugginisce», o pure «La ruggine è un ossido di ferro»sono nuove sintesi oggettive indotte allo stesso modo sul'analisi comparativa di più esperienze o degli elementimeglio approfonditi d'un'esperienza; ma identico è ilprocedimento razionale in cui questi giudizi si costitui-scono.

Nei ragionamenti su l'esperienza, nella conoscenzateoretica in senso proprio, deduzione e induziones'implican dunque a vicenda. Esse sono processi cono-scitivi attuali anche in un semplice giudizio immediato epercettivo, inclusi l'uno nell'altro, e le mediazioni delleidee non fanno che svilupparli. La più semplice afferma-zione di una sintesi a posteriori, il riflettere sulla conti-guità extra essenziale di oro e di giallo in esso distinto

5 Cfr. spec. l'Introduzione alla «Critica del Giudizio», paragr.4.

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seologico, che scopre i modi particolari delle determina-zioni oggettive, ossia determina in concreto le leggi em-piriche dei fatti, come per es. la causa speciale di tal ac-cadimento o gruppo di accadimenti. Esso giudizio riflet-tente, dice il Kant5, dato solo il particolare, la sintesi aposteriori dell'esperienza, vi trova il generale, il princi-pio e la legge. Ora, ogni giudizio d'esperienza si costrui-sce così: è una sintesi a posteriori che diviene sintesi apriori a traverso l'analisi, generalizzando, ossia obbietti-vando, ciò che l'analisi astrae. «Questo pezzo di ferroarrugginisce» è una prima obbiettivazione, che affermaun fatto universalmente, come vero in sè; «Il ferro ar-rugginisce», o pure «La ruggine è un ossido di ferro»sono nuove sintesi oggettive indotte allo stesso modo sul'analisi comparativa di più esperienze o degli elementimeglio approfonditi d'un'esperienza; ma identico è ilprocedimento razionale in cui questi giudizi si costitui-scono.

Nei ragionamenti su l'esperienza, nella conoscenzateoretica in senso proprio, deduzione e induziones'implican dunque a vicenda. Esse sono processi cono-scitivi attuali anche in un semplice giudizio immediato epercettivo, inclusi l'uno nell'altro, e le mediazioni delleidee non fanno che svilupparli. La più semplice afferma-zione di una sintesi a posteriori, il riflettere sulla conti-guità extra essenziale di oro e di giallo in esso distinto

5 Cfr. spec. l'Introduzione alla «Critica del Giudizio», paragr.4.

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per dire «L'oro è giallo», è sintesi conoscitiva in quantonon è più a posteriori, ma vien determinata dalla catego-ria di essere reale in cui il giallo si prèdica dell'oro;come dall'altra parte la più pura definizione per determi-nazione assoluta, per es. «Ciò che è, è», ottenuta peridentificazione del dato con sè stesso, implica tuttaviache qualcosa sia dato alla nostra riflessione, affinchè visi applichi la categoria.

Rivedendo (rivivendo!) ancor una volta la faticosa ri-cerca del filosofo di Koenisberg per salvare il valoregnoseologico – la verità come realtà – dallo scetticismopsicologico dello Hume, ossia per salvare la filosofiadallo scetticismo, e quindi dal relativismo, possiamo perora concludere: l°) Il giudizio è il fenomeno del pensie-ro, l'atto della ragione. Come atto è l'analisi del dato(psicologicamente, la distinzione e la scelta; logicamen-te, l'astrazione); come ragione, è l'unificazione nel con-cetto (dover esser metafisico).

2°) Possiamo chiamare, in un primo tempo, sintesi aposteriori l'unità esistenziale dei contenuti d'un giudizio,quell'unità che troviamo comunque già data, e che cono-sciamo come unità perchè appunto ne distinguiamo peranalisi il molteplice e il vario. Di guisa che è precipua-mente sintetico a posteriori quel giudizio che si contentadi affermare l'unità in sè del molteplice analizzato, come«Quest'oro è giallo»: dove però non manca la sintesi apriori, la sintesi nel valore logico, consistente nell'affer-mare reale e in sè quell'unità contingente, sia pure ba-sandosi sui sensi, e cioè arazionalmente.

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per dire «L'oro è giallo», è sintesi conoscitiva in quantonon è più a posteriori, ma vien determinata dalla catego-ria di essere reale in cui il giallo si prèdica dell'oro;come dall'altra parte la più pura definizione per determi-nazione assoluta, per es. «Ciò che è, è», ottenuta peridentificazione del dato con sè stesso, implica tuttaviache qualcosa sia dato alla nostra riflessione, affinchè visi applichi la categoria.

Rivedendo (rivivendo!) ancor una volta la faticosa ri-cerca del filosofo di Koenisberg per salvare il valoregnoseologico – la verità come realtà – dallo scetticismopsicologico dello Hume, ossia per salvare la filosofiadallo scetticismo, e quindi dal relativismo, possiamo perora concludere: l°) Il giudizio è il fenomeno del pensie-ro, l'atto della ragione. Come atto è l'analisi del dato(psicologicamente, la distinzione e la scelta; logicamen-te, l'astrazione); come ragione, è l'unificazione nel con-cetto (dover esser metafisico).

2°) Possiamo chiamare, in un primo tempo, sintesi aposteriori l'unità esistenziale dei contenuti d'un giudizio,quell'unità che troviamo comunque già data, e che cono-sciamo come unità perchè appunto ne distinguiamo peranalisi il molteplice e il vario. Di guisa che è precipua-mente sintetico a posteriori quel giudizio che si contentadi affermare l'unità in sè del molteplice analizzato, come«Quest'oro è giallo»: dove però non manca la sintesi apriori, la sintesi nel valore logico, consistente nell'affer-mare reale e in sè quell'unità contingente, sia pure ba-sandosi sui sensi, e cioè arazionalmente.

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3°) Dobbiamo chiamare sintesi a priori l'unificazionedell'esperienza secondo principii universali e necessari,che rinviano a un dover essere uno e identico a sè, comeil principio d'identità e quello di ragione, i quali, rispettoai contenuti, divengon il principio di sostanza e di cau-sa. Allora, per avere un giudizio che sia solamente sinte-tico a priori, bisogna contentarsi d'enunciare la categoriastessa in astratto (principii logici formali, come«A=A»); o il principio universalmente («Ogni evento hala sua causa»). È ben vero che si posson chiamare giudi-zi sintetici puri quelli matematici (o di altra scienza for-male, come scienza ipotetica e normativa, astraente daicontenuti reali; per es. l'etica stessa) e tanto più quellidella metafisica. Ma le proposizioni matematiche, comeognun sa, includon sempre intuizioni empiriche e postu-lati intuitivi, ossia elementi a posteriori, i soli che allafine garantiscano la loro applicabilità all'esperienza; difatti sono scienze astraenti e costruttive, ma non astrattee irreali. E quanto alle proposizioni metafisiche, o esseapplicano all'in sè, al trascendente i concetti realidell'esperienza (il tempo e lo spazio, la sostanza e lacausa) e, come ha dimostrato il Kant, sono false sintesi apriori, pseudoconcetti (come i concetti del materialismoo dell'idealismo ontologico); oppure enunciano postulatipuramente ideali, affermando il dover essere, e sono sin-tesi a priori puro pratiche e non più teoretiche.

4°) Giungiamo così ad una quarta conclusione, la piùimportante per il nostro obbietto. A parte tutto ciò ch'èsapere formale e astratto, operazione esclusivamente

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3°) Dobbiamo chiamare sintesi a priori l'unificazionedell'esperienza secondo principii universali e necessari,che rinviano a un dover essere uno e identico a sè, comeil principio d'identità e quello di ragione, i quali, rispettoai contenuti, divengon il principio di sostanza e di cau-sa. Allora, per avere un giudizio che sia solamente sinte-tico a priori, bisogna contentarsi d'enunciare la categoriastessa in astratto (principii logici formali, come«A=A»); o il principio universalmente («Ogni evento hala sua causa»). È ben vero che si posson chiamare giudi-zi sintetici puri quelli matematici (o di altra scienza for-male, come scienza ipotetica e normativa, astraente daicontenuti reali; per es. l'etica stessa) e tanto più quellidella metafisica. Ma le proposizioni matematiche, comeognun sa, includon sempre intuizioni empiriche e postu-lati intuitivi, ossia elementi a posteriori, i soli che allafine garantiscano la loro applicabilità all'esperienza; difatti sono scienze astraenti e costruttive, ma non astrattee irreali. E quanto alle proposizioni metafisiche, o esseapplicano all'in sè, al trascendente i concetti realidell'esperienza (il tempo e lo spazio, la sostanza e lacausa) e, come ha dimostrato il Kant, sono false sintesi apriori, pseudoconcetti (come i concetti del materialismoo dell'idealismo ontologico); oppure enunciano postulatipuramente ideali, affermando il dover essere, e sono sin-tesi a priori puro pratiche e non più teoretiche.

4°) Giungiamo così ad una quarta conclusione, la piùimportante per il nostro obbietto. A parte tutto ciò ch'èsapere formale e astratto, operazione esclusivamente

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analitica, la conoscenza si serve dell'analisi astraente percostruire (o ricostruire) le sue sintesi oggettive, moven-dosi fra i due opposti poli: quello della sintesi a poste-riori, percettiva, che prende la sensazione distinta (peres. «giallo») a rappresentazione della cosa («oro») allaquale l'unifica realmente, oggettivamente, benchè questaunità sia extraessenziale, sia l'unità dei dati contigui(«L'oro è giallo») affermata vera in sè; e il polo dellasintesi a priori, ideale, sovrasensibile, reale soltantocome pensabile, che afferma il dover essere morale, fracui il doverci essere un mondo assoluto e in sè, una«cosa in sè», che condizioni la realtà di quest'oro feno-menicamente giallo, e mi astringa a dichiarare che l'oroè giallo, quantunque io non possa conoscere il perchè ditale unità. All'approssimazione di questo perchè razio-nale si getta la conoscenza teoretica, costruendo una se-rie di leggi empiriche, ossia relative ai contenuti sensibi-li, ma al tempo stesso oggettivanti l'empirico in concettidi sempre più profonda identità, sempre più veri del rea-le, che chiamiamo natura. Questo è il processo del sape-re teoretico, la scienza.

Un giudizio puro, una sintesi tutta a priori, non è an-cora teoretica: teoreticamente parlando, è un giudizioformale; non ha dunque altra realtà, che d'esser sè stes-so, d'esistere soggettivamente come giudizio, se nonprova induttivamente sui contenuti dell'esperienza la suaverità reale. È ben vero – contro la tesi del nominalismo– che il valore dei giudizi puri, dei principii, è oggettivoe non soggettivo; altrimenti, che sintesi sarebbe la loro?

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analitica, la conoscenza si serve dell'analisi astraente percostruire (o ricostruire) le sue sintesi oggettive, moven-dosi fra i due opposti poli: quello della sintesi a poste-riori, percettiva, che prende la sensazione distinta (peres. «giallo») a rappresentazione della cosa («oro») allaquale l'unifica realmente, oggettivamente, benchè questaunità sia extraessenziale, sia l'unità dei dati contigui(«L'oro è giallo») affermata vera in sè; e il polo dellasintesi a priori, ideale, sovrasensibile, reale soltantocome pensabile, che afferma il dover essere morale, fracui il doverci essere un mondo assoluto e in sè, una«cosa in sè», che condizioni la realtà di quest'oro feno-menicamente giallo, e mi astringa a dichiarare che l'oroè giallo, quantunque io non possa conoscere il perchè ditale unità. All'approssimazione di questo perchè razio-nale si getta la conoscenza teoretica, costruendo una se-rie di leggi empiriche, ossia relative ai contenuti sensibi-li, ma al tempo stesso oggettivanti l'empirico in concettidi sempre più profonda identità, sempre più veri del rea-le, che chiamiamo natura. Questo è il processo del sape-re teoretico, la scienza.

Un giudizio puro, una sintesi tutta a priori, non è an-cora teoretica: teoreticamente parlando, è un giudizioformale; non ha dunque altra realtà, che d'esser sè stes-so, d'esistere soggettivamente come giudizio, se nonprova induttivamente sui contenuti dell'esperienza la suaverità reale. È ben vero – contro la tesi del nominalismo– che il valore dei giudizi puri, dei principii, è oggettivoe non soggettivo; altrimenti, che sintesi sarebbe la loro?

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Anzi, un giudizio è puro perchè esprime la trascendenta-lità della ragione sul soggetto empirico; obbiettìva, po-tremmo dire, l'esistere soggettivo in un dover essere as-soluto e necessario come legge e principio, com'è benvisibile nei principii morali; ma l'oggettività d'un con-cetto etico o religioso non è verità teoretica, realtà esi-stenziale: è vero pratico, dover essere ideale. È pertantoindiscutibile che la conoscenza teoretica sia condiziona-ta da principii puri, dalla ragione insomma, e che in ulti-ma istanza essa rinvii sempre il pensiero ad un dover es-sere trascendentale, al quale, per così dire, appoggia lesue sintesi a priori. È realmente vero che «I corpi sonopesanti», se c'è, come ci deve essere, un mondo assolutoche possa apparirmi anche pesante: verità fenomenicaparziale, ma pur sempre verità, se è posta quella condi-zione. In tal senso, è ben posto il relativismo del mondosensibile al soggetto come ragione; ma la ragione acqui-sta (conquista) valore teoretico, conoscenza reale, se edin quanto realizza le sue sintesi in quelle attuali esisten-ze fenomeniche, le sensazioni, che sole posson imporsicome testimoni d'un mondo in sè.

7. – Il problema dell'intelligibilità del mondo sensibi-le ha ora più spazio per muoversi. Nelle controversie frasensismo e intellettualismo pareva che si fosse al biviotra una conoscenza fatta di sensazioni e un'altra fattad'idee; parimenti, nella fiera lotta fra empirismo e ideali-smo, sembrava che si trattasse di scegliere tra il valoreoggettivo e quello soggettivo dei sensibili: alternative

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Anzi, un giudizio è puro perchè esprime la trascendenta-lità della ragione sul soggetto empirico; obbiettìva, po-tremmo dire, l'esistere soggettivo in un dover essere as-soluto e necessario come legge e principio, com'è benvisibile nei principii morali; ma l'oggettività d'un con-cetto etico o religioso non è verità teoretica, realtà esi-stenziale: è vero pratico, dover essere ideale. È pertantoindiscutibile che la conoscenza teoretica sia condiziona-ta da principii puri, dalla ragione insomma, e che in ulti-ma istanza essa rinvii sempre il pensiero ad un dover es-sere trascendentale, al quale, per così dire, appoggia lesue sintesi a priori. È realmente vero che «I corpi sonopesanti», se c'è, come ci deve essere, un mondo assolutoche possa apparirmi anche pesante: verità fenomenicaparziale, ma pur sempre verità, se è posta quella condi-zione. In tal senso, è ben posto il relativismo del mondosensibile al soggetto come ragione; ma la ragione acqui-sta (conquista) valore teoretico, conoscenza reale, se edin quanto realizza le sue sintesi in quelle attuali esisten-ze fenomeniche, le sensazioni, che sole posson imporsicome testimoni d'un mondo in sè.

7. – Il problema dell'intelligibilità del mondo sensibi-le ha ora più spazio per muoversi. Nelle controversie frasensismo e intellettualismo pareva che si fosse al biviotra una conoscenza fatta di sensazioni e un'altra fattad'idee; parimenti, nella fiera lotta fra empirismo e ideali-smo, sembrava che si trattasse di scegliere tra il valoreoggettivo e quello soggettivo dei sensibili: alternative

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così fuori posto che, per esempio, il sensismo del Lockesi risolve nel più genuino intellettualismo, e l'idealismodei Berkeley in un radicale empirismo6, In realtà, non cisono due conoscenze, una sensibile e l'altra intelligibile,nè quindi due sfere di verità teoretiche, fra le quali siagiocoforza prender partito.

Quando diciamo sensazione, che cosa indichiamo?L'idea d'un'idea. Di solito vien detta sensazione un'ideagià astratta in precedenti analisi dell'esperienza, come«bianco» e suono «do». In tal caso, la sensazione attualedi «bianco» e «do» sono queste parole che vedete fravirgolette: null'altro che nomi, segni già uniti per conti-guità, o, come dicon gli psicologi odierni, per «trasfer-to», ai sensibili, di cui prendon il posto agli effetti prati-ci (che oggi dicono «riflessi condizionali»). Ma il mede-simo sarebbe se un'altra qualunque sensazione attuale,per es. il bianco visivo di questo foglio o l'immagined'un suono significasser ora per noi bianco e do, perchèsi tratta sempre della presenza di elementi sensibili chefecer parte delle sintesi a posteriori dell'esperienza e cheperciò ce la possono rappresentare in concreto (perce-zione) o in astratto (idea). Restando al nostro esempio(la natura del conoscere l'esamineremo meglio più tar-di), bianco e «do» sono conoscenze? Sì, certo; ma nonmai per sè stessi, come sensibili dati a posteriori, condi-zioni del conoscere e non ancora conoscere; sempre

6 Per questi apprezzamenti storici rinvio al cit. vol. «Filosofiain margine».

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così fuori posto che, per esempio, il sensismo del Lockesi risolve nel più genuino intellettualismo, e l'idealismodei Berkeley in un radicale empirismo6, In realtà, non cisono due conoscenze, una sensibile e l'altra intelligibile,nè quindi due sfere di verità teoretiche, fra le quali siagiocoforza prender partito.

Quando diciamo sensazione, che cosa indichiamo?L'idea d'un'idea. Di solito vien detta sensazione un'ideagià astratta in precedenti analisi dell'esperienza, come«bianco» e suono «do». In tal caso, la sensazione attualedi «bianco» e «do» sono queste parole che vedete fravirgolette: null'altro che nomi, segni già uniti per conti-guità, o, come dicon gli psicologi odierni, per «trasfer-to», ai sensibili, di cui prendon il posto agli effetti prati-ci (che oggi dicono «riflessi condizionali»). Ma il mede-simo sarebbe se un'altra qualunque sensazione attuale,per es. il bianco visivo di questo foglio o l'immagined'un suono significasser ora per noi bianco e do, perchèsi tratta sempre della presenza di elementi sensibili chefecer parte delle sintesi a posteriori dell'esperienza e cheperciò ce la possono rappresentare in concreto (perce-zione) o in astratto (idea). Restando al nostro esempio(la natura del conoscere l'esamineremo meglio più tar-di), bianco e «do» sono conoscenze? Sì, certo; ma nonmai per sè stessi, come sensibili dati a posteriori, condi-zioni del conoscere e non ancora conoscere; sempre

6 Per questi apprezzamenti storici rinvio al cit. vol. «Filosofiain margine».

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come rappresentazioni per le quali la sensazione attualediventa formale e così diventa sapere, intelligenza. Co-noscere è un rappresentarsi, per mezzo di ciò che esistesensibilmente, quello che deve essere, per essere real-mente. Questo bianco mi rappresenta una cosa, la cartabianca: sintesi percettiva formata a priori su l'analisid'una qualità, il bianco, assunta a rappresentare una real-tà sostanziale (conoscenza concreta, percezione); la pa-rola «bianco» mi rappresenta l'idea astratta di bianco ingenere, di cui il valore sintetico sta appunto nella gene-ralità, onde posso applicare tal'idea a questo bianco qui,che così riconosco, determino.

Voglio dire che la conoscenza del sensibile non ha ca-rattere diverso da tutta quanta la conoscenza teoretica:esiste sempre nel sensibile e per il sensibile, ma va sem-pre al di là della sensazione, proprio al fine di conoscerequalcosa, fra cui, in ispecie, la sensazione stessa. Il no-minalismo empirico non consentirà in questo concettodel valore trascendentale di ogni atto conoscitivo. Alme-no il sensibile, egli ripeterà, si conosce in quanto sensi-bile. Non ho altro modo di farvi conoscere che cos'è unapietra, direbbe il Locke, che col darvela in mano, e laparola non fa che richiamare le sensazioni...Quest'osservazione, che sta alla base di tutto l'empiri-smo, è giusta sol in quanto constata, che la sensazione èsensazione, individualmente: esperienza intuitiva imme-diata e diretta, che nessuna conoscenza mediata e razio-nale potrebbe sostituire: verità lapalissiana sulla qualecavalca in eroicomica battaglia l'intuizionismo odierno.

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come rappresentazioni per le quali la sensazione attualediventa formale e così diventa sapere, intelligenza. Co-noscere è un rappresentarsi, per mezzo di ciò che esistesensibilmente, quello che deve essere, per essere real-mente. Questo bianco mi rappresenta una cosa, la cartabianca: sintesi percettiva formata a priori su l'analisid'una qualità, il bianco, assunta a rappresentare una real-tà sostanziale (conoscenza concreta, percezione); la pa-rola «bianco» mi rappresenta l'idea astratta di bianco ingenere, di cui il valore sintetico sta appunto nella gene-ralità, onde posso applicare tal'idea a questo bianco qui,che così riconosco, determino.

Voglio dire che la conoscenza del sensibile non ha ca-rattere diverso da tutta quanta la conoscenza teoretica:esiste sempre nel sensibile e per il sensibile, ma va sem-pre al di là della sensazione, proprio al fine di conoscerequalcosa, fra cui, in ispecie, la sensazione stessa. Il no-minalismo empirico non consentirà in questo concettodel valore trascendentale di ogni atto conoscitivo. Alme-no il sensibile, egli ripeterà, si conosce in quanto sensi-bile. Non ho altro modo di farvi conoscere che cos'è unapietra, direbbe il Locke, che col darvela in mano, e laparola non fa che richiamare le sensazioni...Quest'osservazione, che sta alla base di tutto l'empiri-smo, è giusta sol in quanto constata, che la sensazione èsensazione, individualmente: esperienza intuitiva imme-diata e diretta, che nessuna conoscenza mediata e razio-nale potrebbe sostituire: verità lapalissiana sulla qualecavalca in eroicomica battaglia l'intuizionismo odierno.

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Ma se l'intuizione sensibile è conoscenza perchè sensi-bile, tanto vale dire con l'idealismo che tutto il mondo insè è conoscenza, e ricominciare da capo a chiedersi checosa sia il valore conoscitivo di questo mondo di cosechiamate idee. Se il veder bianco questo foglio è un co-noscere, un'idea, diciam così, soggettiva, il problemagnoseologico comincia di qui, dal chiedersi che valoresia quello dell'idea di bianco (dell'idea dell'idea) in cuila prima si oggettiva, ossia conosce in senso proprio,realmente.

Il malinteso può derivare dall'uso della parola intui-zione, che viene presa come un atto teoretico; manell'intuizione, ciò che poi chiameremo soggetto, attivitàe simili, fa parte del dato; quando già distinguiamo e op-poniamo un soggetto e un oggetto, non è più intuizione,è conoscenza e intelligenza. La pura sensazione è pre-senza, esistenza unitaria di tutto ciò ch'è dato, cosìcom'è dato, a posteriori; essa non ha altro valore chequello dell'esistere: allorquando stringo fra le dita la pie-tra offertami dal Locke, lo scabro il duro il pesante ecc.di questa pietra, insieme col senso di sforzo muscolare espiacevole ecc., esistono empiricamente nell'unità indif-ferenziata (quanto a valore teoretico) del dato; incomin-cian ad essere qualcosa di reale o ideale, quando almenopenso: questo scabro è scabro, questo duro è duro (affer-mando la qualità), oppure penso che scabro duro ecc.sono una pietra (o viceversa, la pietra è scabra...) in sè(affermando la sostanza), oppure stringo la pietra ecc.(affermando la causa).

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Ma se l'intuizione sensibile è conoscenza perchè sensi-bile, tanto vale dire con l'idealismo che tutto il mondo insè è conoscenza, e ricominciare da capo a chiedersi checosa sia il valore conoscitivo di questo mondo di cosechiamate idee. Se il veder bianco questo foglio è un co-noscere, un'idea, diciam così, soggettiva, il problemagnoseologico comincia di qui, dal chiedersi che valoresia quello dell'idea di bianco (dell'idea dell'idea) in cuila prima si oggettiva, ossia conosce in senso proprio,realmente.

Il malinteso può derivare dall'uso della parola intui-zione, che viene presa come un atto teoretico; manell'intuizione, ciò che poi chiameremo soggetto, attivitàe simili, fa parte del dato; quando già distinguiamo e op-poniamo un soggetto e un oggetto, non è più intuizione,è conoscenza e intelligenza. La pura sensazione è pre-senza, esistenza unitaria di tutto ciò ch'è dato, cosìcom'è dato, a posteriori; essa non ha altro valore chequello dell'esistere: allorquando stringo fra le dita la pie-tra offertami dal Locke, lo scabro il duro il pesante ecc.di questa pietra, insieme col senso di sforzo muscolare espiacevole ecc., esistono empiricamente nell'unità indif-ferenziata (quanto a valore teoretico) del dato; incomin-cian ad essere qualcosa di reale o ideale, quando almenopenso: questo scabro è scabro, questo duro è duro (affer-mando la qualità), oppure penso che scabro duro ecc.sono una pietra (o viceversa, la pietra è scabra...) in sè(affermando la sostanza), oppure stringo la pietra ecc.(affermando la causa).

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Sembrano questioni di lana caprina, eppure qui c'è unnodo vitale per il pensiero filosofico. Bianco conosciti-vamente è sempre rappresentazione, sia pur semplicissi-mamente e unicamente di questo bianco visivo qui, ele-vato al valore d'un dover essere in sè, essere oggettivo, odi un essere per me, soggettivo e relativizzato a qualchealtro elemento astratto dall'unità a posteriori (per es. allosforzo d'attenzione) e preso come «io». La gnoseologiadeve arrestarsi qui, alla costatazione di un'esistenza sen-sibile sempre presente come contenuto del conoscere edi un valore trascendentale sempre in atto come formaconoscitiva, lasciando alla metafisica considerarne i va-lori assoluti (se l'esistenza sia un valore e se il valoreesista in sè): per la gnoseologia queste due astratte con-dizioni si relativizzano nell'atto conoscitivo, dove il con-tenuto diventa forma rappresentativa, oggetto intelligibi-le (concetto).

8. – Alla domanda, in cui si potrebbe compendiare ilfine della nostra discussione, «Che cos'è lasensazione?», la mente umana spontaneamente rispondecon l'analisi diretta del sensibile, che ineluttabilmente laconduce a concetti di sostanza e di causa (o almeno, diessere e di divenire, nello spazio e nel tempo, oggettiva-mente), costitutivi della «natura», sia essa fisica o psi-chica secondo l'orientarsi delle analisi e le distinzioni eraggruppamenti dei contenuti. Così si costruisce, nonsoltanto il sapere teoretico comune, ma anche la scien-za: il fisico, il fisiologo, lo psicologo guardano la stessa

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Sembrano questioni di lana caprina, eppure qui c'è unnodo vitale per il pensiero filosofico. Bianco conosciti-vamente è sempre rappresentazione, sia pur semplicissi-mamente e unicamente di questo bianco visivo qui, ele-vato al valore d'un dover essere in sè, essere oggettivo, odi un essere per me, soggettivo e relativizzato a qualchealtro elemento astratto dall'unità a posteriori (per es. allosforzo d'attenzione) e preso come «io». La gnoseologiadeve arrestarsi qui, alla costatazione di un'esistenza sen-sibile sempre presente come contenuto del conoscere edi un valore trascendentale sempre in atto come formaconoscitiva, lasciando alla metafisica considerarne i va-lori assoluti (se l'esistenza sia un valore e se il valoreesista in sè): per la gnoseologia queste due astratte con-dizioni si relativizzano nell'atto conoscitivo, dove il con-tenuto diventa forma rappresentativa, oggetto intelligibi-le (concetto).

8. – Alla domanda, in cui si potrebbe compendiare ilfine della nostra discussione, «Che cos'è lasensazione?», la mente umana spontaneamente rispondecon l'analisi diretta del sensibile, che ineluttabilmente laconduce a concetti di sostanza e di causa (o almeno, diessere e di divenire, nello spazio e nel tempo, oggettiva-mente), costitutivi della «natura», sia essa fisica o psi-chica secondo l'orientarsi delle analisi e le distinzioni eraggruppamenti dei contenuti. Così si costruisce, nonsoltanto il sapere teoretico comune, ma anche la scien-za: il fisico, il fisiologo, lo psicologo guardano la stessa

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esperienza, intuiscono la stessa esistenza sensibile, peres. questo bianco, e la realizzano in concetti naturali di-versi fra loro sol in quanto l'analisi che ne fanno astraepiuttosto questo o quel gruppo di elementi e permetteloro di concepire e di spiegar questo bianco, ora comeenergia fisica d'una materia (causa, d'una sostanza fisicochimica), ora come funzione visiva di un organo, oracome sensibilità reagente ecc.

Però, a questo punto, interviene la noètica a chiedersi,se i concetti di natura hanno risposto, e in che modo, aquella prima domanda; e cioè se essi hanno un valorereale, il quale renda teoreticamente intelligibile la sensa-zione, o se invece, come ci sta apparendo, i concetti dinatura – verità parziali e progressive, relative ai datisensibili ma orientate verso l'unificazione assoluta e apriori dell'essere in sè – spieghin sempre il sensibile ri-spetto a un dover essere ideale, di cui il primo non sa-rebbe che la rappresentazione fenomenica, che con lasua presenza garantisca della realtà o verità del secondo.In altre parole, la conoscenza teoretica del sensibile sa-rebbe sempre conoscenza intelligibile per mezzo delsensibile; ma il sensibile per sè, il sensibile in quantotale, resterebbe inconoscibile, sebbene presente, essendoassoluto a posteriori, a cui la conoscenza, sempre relati-va, si deve, pur trascendendolo formalmente, adeguare:ciò che il Kant esprimeva dicendo, che la conoscenzateoretica è trascendentale rispetto ai contenuti a poste-riori, ma non può essere trascendente e metafisica.

Questa scoperta kantiana ha influenzato, più o men

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esperienza, intuiscono la stessa esistenza sensibile, peres. questo bianco, e la realizzano in concetti naturali di-versi fra loro sol in quanto l'analisi che ne fanno astraepiuttosto questo o quel gruppo di elementi e permetteloro di concepire e di spiegar questo bianco, ora comeenergia fisica d'una materia (causa, d'una sostanza fisicochimica), ora come funzione visiva di un organo, oracome sensibilità reagente ecc.

Però, a questo punto, interviene la noètica a chiedersi,se i concetti di natura hanno risposto, e in che modo, aquella prima domanda; e cioè se essi hanno un valorereale, il quale renda teoreticamente intelligibile la sensa-zione, o se invece, come ci sta apparendo, i concetti dinatura – verità parziali e progressive, relative ai datisensibili ma orientate verso l'unificazione assoluta e apriori dell'essere in sè – spieghin sempre il sensibile ri-spetto a un dover essere ideale, di cui il primo non sa-rebbe che la rappresentazione fenomenica, che con lasua presenza garantisca della realtà o verità del secondo.In altre parole, la conoscenza teoretica del sensibile sa-rebbe sempre conoscenza intelligibile per mezzo delsensibile; ma il sensibile per sè, il sensibile in quantotale, resterebbe inconoscibile, sebbene presente, essendoassoluto a posteriori, a cui la conoscenza, sempre relati-va, si deve, pur trascendendolo formalmente, adeguare:ciò che il Kant esprimeva dicendo, che la conoscenzateoretica è trascendentale rispetto ai contenuti a poste-riori, ma non può essere trascendente e metafisica.

Questa scoperta kantiana ha influenzato, più o men

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consapevolmente, tutta la filosofia contemporanea, el'ha trascinata a considerar come reali i concetti consi-stenti nell'affermare necessariamente e universalmentele esistenze sensibili (e quindi nel ricostruire con pa-ziente analisi la lor obbiettiva presenza nel tempo), valea dire i concetti storici, svalutando le generalizzazioniastratte di elementi presi staticamente in sè dalle scienzeteoriche, pseudo concetti utili sol praticamente per for-mulare leggi che ci servano come ipotesi di comodo perintervenire in natura. Così si ammette implicitamente larelatività del conoscere ai sensibili e l'obbiettività delvalore conoscitivo in funzione delle intuizioni. Però,siccome la forma conoscitiva è a priori, ossia, diceva ilKant, soggettiva (alludendo a un soggetto in universale,o ragion pura), la storia vien intesa come divenire delsoggetto, in cui lo spirito si relativizza, specificandosinelle idee empiriche tutte interne ad esso.

Ma, avanti tutto, la storia non è che il primo e l'ultimocapitolo del sapere metodicamente perseguito: il primo,se per storia s'intende la definizione e ricostruzione ob-biettiva e disinteressata dei fatti – storia naturale e storiaumana –, descrizione e narrazione fenomenologica delleesistenze, che debbon essere come sono e furon sensi-bilmente, e perciò semplice introduzione alla lor spiega-zione e intelligenza razionale (a meno di adeguare la ra-gione all'esistenza, così come è!); l'ultimo capitolo, segli accadimenti concreti sono conosciuti nella lor unitàideale, se le scienze della natura e le scienze dello spiri-to da un lato, la metafisica dall'altro vengono ricondotte

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consapevolmente, tutta la filosofia contemporanea, el'ha trascinata a considerar come reali i concetti consi-stenti nell'affermare necessariamente e universalmentele esistenze sensibili (e quindi nel ricostruire con pa-ziente analisi la lor obbiettiva presenza nel tempo), valea dire i concetti storici, svalutando le generalizzazioniastratte di elementi presi staticamente in sè dalle scienzeteoriche, pseudo concetti utili sol praticamente per for-mulare leggi che ci servano come ipotesi di comodo perintervenire in natura. Così si ammette implicitamente larelatività del conoscere ai sensibili e l'obbiettività delvalore conoscitivo in funzione delle intuizioni. Però,siccome la forma conoscitiva è a priori, ossia, diceva ilKant, soggettiva (alludendo a un soggetto in universale,o ragion pura), la storia vien intesa come divenire delsoggetto, in cui lo spirito si relativizza, specificandosinelle idee empiriche tutte interne ad esso.

Ma, avanti tutto, la storia non è che il primo e l'ultimocapitolo del sapere metodicamente perseguito: il primo,se per storia s'intende la definizione e ricostruzione ob-biettiva e disinteressata dei fatti – storia naturale e storiaumana –, descrizione e narrazione fenomenologica delleesistenze, che debbon essere come sono e furon sensi-bilmente, e perciò semplice introduzione alla lor spiega-zione e intelligenza razionale (a meno di adeguare la ra-gione all'esistenza, così come è!); l'ultimo capitolo, segli accadimenti concreti sono conosciuti nella lor unitàideale, se le scienze della natura e le scienze dello spiri-to da un lato, la metafisica dall'altro vengono ricondotte

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a vivificare delle lor leggi e dei lor concetti logici edeontologici l'esperienza storica e ce la rendono intelli-gibile.

Questo vuol fare appunto la filosofia contemporaneaalitando nella storia il suo potente spirito idealista e in-terpretando i fatti quali momenti del divenire dello spiri-to, come soggetto che si riconosce nell'oggetto. Ma tuttociò serve a relativizzare il sapere all'attività conoscitiva,a ricordarci che il vero è una costruzione ideale in pe-renne aumento, un valore, come tutti gli altri valori, cor-rispondente a un fine di sua natura soggettivo; nonesclude tuttavia, anzi include la necessità del saperescientifico, in cui si attua l'oggettività di quel valore.Anche se consideriamo la fenomenologia come fenome-nologia dello spirito, la natura come concetto, la realtàd'una cosa o d'un fatto come valore teoretico, la scienzacome storia della scienza umana, ciò non toglie che siatuttora necessario unificare i fenomeni in concetti e leg-gi di natura, il sapere in sapere scientifico, che si pongatra la filosofia e la storia empirica per darci ragione delsensibile e per attuare il fine teoretico, nonchè per ser-virci nei rapporti pratici con ciò che esiste.

La questione, secondo lo spirito kantiano, va postacome abbiamo più volte prospettato, ormai in accordocoi risultati della noètica. Pensare significa valutare. Ivalori, psicologicamente, si riducono a finalità del vole-re empirico, fini pratici e fini teoretici, corrispondenti aibisogni, agli interessi, alle esigenze della persona umanain rapporto con l'essere delle esistenze, col mondo: è

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a vivificare delle lor leggi e dei lor concetti logici edeontologici l'esperienza storica e ce la rendono intelli-gibile.

Questo vuol fare appunto la filosofia contemporaneaalitando nella storia il suo potente spirito idealista e in-terpretando i fatti quali momenti del divenire dello spiri-to, come soggetto che si riconosce nell'oggetto. Ma tuttociò serve a relativizzare il sapere all'attività conoscitiva,a ricordarci che il vero è una costruzione ideale in pe-renne aumento, un valore, come tutti gli altri valori, cor-rispondente a un fine di sua natura soggettivo; nonesclude tuttavia, anzi include la necessità del saperescientifico, in cui si attua l'oggettività di quel valore.Anche se consideriamo la fenomenologia come fenome-nologia dello spirito, la natura come concetto, la realtàd'una cosa o d'un fatto come valore teoretico, la scienzacome storia della scienza umana, ciò non toglie che siatuttora necessario unificare i fenomeni in concetti e leg-gi di natura, il sapere in sapere scientifico, che si pongatra la filosofia e la storia empirica per darci ragione delsensibile e per attuare il fine teoretico, nonchè per ser-virci nei rapporti pratici con ciò che esiste.

La questione, secondo lo spirito kantiano, va postacome abbiamo più volte prospettato, ormai in accordocoi risultati della noètica. Pensare significa valutare. Ivalori, psicologicamente, si riducono a finalità del vole-re empirico, fini pratici e fini teoretici, corrispondenti aibisogni, agli interessi, alle esigenze della persona umanain rapporto con l'essere delle esistenze, col mondo: è

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Page 147: E-book campione Liber Liber · sul pensiero teoretico; al punto che l'idealismo, il quale logicamente si dovrebbe contentar d'affermare che l'empirico, il sensibile, la materia insomma,

proprio questo rapporto che condiziona il pensiero neidue «usi» (come diceva il Kant), pratico e teoretico, diesso. Ma i valori che si costituiscono in tale rapporto, ilvero teoretico (essere reale) e il bene pratico (dover es-sere ideale), trascendono così il soggetto empirico comele esistenze sensibili, il volere ponendo i suoi fini sem-pre al di là del dato e del raggiunto e liberamente affer-mando la legge del dover essere oltre l'essere reale.Però, mentre nell'uso teoretico del pensiero, nel cono-scere oggettivo, esso, pur trascendendo l'esistenza sensi-bile nei concetti reali di ciò che il sensibile dev'essere insè (assolutamente, necessariamente), si deve pur semprerelativizzare nel modo già detto alle esistenze, conten-tandosi di unificarle nei concetti di essenza e ragioneche valgono per esse, nell'uso pratico la trascende asso-lutamente, realizzando un mondo ideale, il mondo delleidee metafisiche, per il quale non valgono le categoriedel conoscere empirico.

Allora si spiega l'apparente contraddizione,dell'ammettere in noètica una relatività dell'attività co-noscente ai contenuti sensibili, mentre che in metafisicavige la relatività dell'oggetto (come essere) al soggetto(come dover essere). Sono due punti di vista corrispon-denti ai due usi, teoretico e pratico, del pensiero: il pri-mo è un discorso gnoseologico, il secondo metafisico.Nell'esperienza, conoscenza teoretica e pratica sono idue poli del medesimo pensiero, cioè del medesimo rap-porto fra il soggetto come ragione (soggetto assoluto,formale) e l'oggetto come dato a posteriori, esistenza

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proprio questo rapporto che condiziona il pensiero neidue «usi» (come diceva il Kant), pratico e teoretico, diesso. Ma i valori che si costituiscono in tale rapporto, ilvero teoretico (essere reale) e il bene pratico (dover es-sere ideale), trascendono così il soggetto empirico comele esistenze sensibili, il volere ponendo i suoi fini sem-pre al di là del dato e del raggiunto e liberamente affer-mando la legge del dover essere oltre l'essere reale.Però, mentre nell'uso teoretico del pensiero, nel cono-scere oggettivo, esso, pur trascendendo l'esistenza sensi-bile nei concetti reali di ciò che il sensibile dev'essere insè (assolutamente, necessariamente), si deve pur semprerelativizzare nel modo già detto alle esistenze, conten-tandosi di unificarle nei concetti di essenza e ragioneche valgono per esse, nell'uso pratico la trascende asso-lutamente, realizzando un mondo ideale, il mondo delleidee metafisiche, per il quale non valgono le categoriedel conoscere empirico.

Allora si spiega l'apparente contraddizione,dell'ammettere in noètica una relatività dell'attività co-noscente ai contenuti sensibili, mentre che in metafisicavige la relatività dell'oggetto (come essere) al soggetto(come dover essere). Sono due punti di vista corrispon-denti ai due usi, teoretico e pratico, del pensiero: il pri-mo è un discorso gnoseologico, il secondo metafisico.Nell'esperienza, conoscenza teoretica e pratica sono idue poli del medesimo pensiero, cioè del medesimo rap-porto fra il soggetto come ragione (soggetto assoluto,formale) e l'oggetto come dato a posteriori, esistenza

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sensibile, di cui fan parte il soggetto empirico e la stessaattività conoscitiva come finalità del volere. In quanto ilprimo si antinomizza (praticamente) al secondo e lovuol superare in un assoluto dover essere – fra cui il do-ver essere dell'oggetto, la cosa in sè –, possiamo direche il soggetto subordina gli oggetti (e quindi anche sèstesso) alle proprie leggi; ma in quanto poi vuol realiz-zare i fini, i valori, realmente e non idealmente, costi-tuendo le realtà dell'essere, o attuando sensibilmente ildovere, deve piegar la ragione nei concetti teoretici,deve conoscere il mondo come natura.

9. – Nel quadro della conoscenza, qual'è il posto dellafilosofia, e quale della scienza?

La filosofia è lo sforzo più consapevole inteso a con-ciliare le finalità soggettive con l'esperienza obbiettiva,e cioè a fondare la realtà dei valori, a razionalizzare ifini sentimentali. Chiamo filosofia, non una particolardottrina, ma un particolare atteggiamento del pensiero.Non metto la filosofia nelle nubi, fuori della vita edell'esperienza; essa ne partecipa, ne diviene il centro, lainterpretazione e la regola. In niuno più che nel vero fi-losofo si agitano e premono tutti gli interessi umani: in-dividuali, onde la sua originalità; sociali, onde la sua eti-cità; nazionali, onde la sua genialità; storici, ond'è che lafilosofia riassume lo spirito del tempo (come l'arte losimboleggia). Non son dunque i contenuti soggettivi eoggettivi quelli che distinguono la filosofia – o meglio,l'atteggiamento filosofico, la «philosophia perennis» –

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sensibile, di cui fan parte il soggetto empirico e la stessaattività conoscitiva come finalità del volere. In quanto ilprimo si antinomizza (praticamente) al secondo e lovuol superare in un assoluto dover essere – fra cui il do-ver essere dell'oggetto, la cosa in sè –, possiamo direche il soggetto subordina gli oggetti (e quindi anche sèstesso) alle proprie leggi; ma in quanto poi vuol realiz-zare i fini, i valori, realmente e non idealmente, costi-tuendo le realtà dell'essere, o attuando sensibilmente ildovere, deve piegar la ragione nei concetti teoretici,deve conoscere il mondo come natura.

9. – Nel quadro della conoscenza, qual'è il posto dellafilosofia, e quale della scienza?

La filosofia è lo sforzo più consapevole inteso a con-ciliare le finalità soggettive con l'esperienza obbiettiva,e cioè a fondare la realtà dei valori, a razionalizzare ifini sentimentali. Chiamo filosofia, non una particolardottrina, ma un particolare atteggiamento del pensiero.Non metto la filosofia nelle nubi, fuori della vita edell'esperienza; essa ne partecipa, ne diviene il centro, lainterpretazione e la regola. In niuno più che nel vero fi-losofo si agitano e premono tutti gli interessi umani: in-dividuali, onde la sua originalità; sociali, onde la sua eti-cità; nazionali, onde la sua genialità; storici, ond'è che lafilosofia riassume lo spirito del tempo (come l'arte losimboleggia). Non son dunque i contenuti soggettivi eoggettivi quelli che distinguono la filosofia – o meglio,l'atteggiamento filosofico, la «philosophia perennis» –

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dal pensiero pratico, dall'etica, dalla religione, dallescienze e dalle stesse dottrine filosofiche già positiva-mente esistenti; è la posizione mentale, libera e disinte-ressata, anche se indirettamente posta a servigio dellecredenze e dei fini attuali, ciò che rende inconfondibilil'esperienza e la filosofia che pur vi sta nel cuore, il pen-siero diretto e il pensiero riflesso, permettendo a questodi razionalizzare quello e di unificare l'esperienza.

In altre parole, una filosofia, rispetto a' suoi oggetti efini, non è, come oggi si tende a credere, soltanto teore-tica; è strettamente teoretica sol in quanto vuol determi-nare il principio della conoscenza oggettiva e il criteriodella verità. Ma l'etica, l'estetica, la filosofia religiosaecc., non sono soltanto filosofia della pratica, dell'arte,della religione; son anche pratiche, artistiche, religiose:voglio dire che questi valori, non essendo più oggetti,non essendo valori dell'essere ma del dover essere, nonpossono venir criticati che da chi ne partecipa (e n'ècompetente!), e il loro fondamento, e quindi il loro cri-terio normativo per la pratica, per l'arte, per la religione,non può venir posto soltanto come reale storico e di fat-to, ma come ideale della coscienza morale, artistica, re-ligiosa. Così si comprende la posizione nuova dell'eticakantiana di fronte al razionalismo dogmatico e scettico:essa è proprio una posizione pratica!

Non è nei contenuti e nei fini, che la filosofia si di-stingue dall'esperienza e dal pensiero diretto: è, dicevo,nella posizione mentale, nel metodo. Una filosofia può edev'essere anche pratica, etica, religiosa, come scientifi-

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dal pensiero pratico, dall'etica, dalla religione, dallescienze e dalle stesse dottrine filosofiche già positiva-mente esistenti; è la posizione mentale, libera e disinte-ressata, anche se indirettamente posta a servigio dellecredenze e dei fini attuali, ciò che rende inconfondibilil'esperienza e la filosofia che pur vi sta nel cuore, il pen-siero diretto e il pensiero riflesso, permettendo a questodi razionalizzare quello e di unificare l'esperienza.

In altre parole, una filosofia, rispetto a' suoi oggetti efini, non è, come oggi si tende a credere, soltanto teore-tica; è strettamente teoretica sol in quanto vuol determi-nare il principio della conoscenza oggettiva e il criteriodella verità. Ma l'etica, l'estetica, la filosofia religiosaecc., non sono soltanto filosofia della pratica, dell'arte,della religione; son anche pratiche, artistiche, religiose:voglio dire che questi valori, non essendo più oggetti,non essendo valori dell'essere ma del dover essere, nonpossono venir criticati che da chi ne partecipa (e n'ècompetente!), e il loro fondamento, e quindi il loro cri-terio normativo per la pratica, per l'arte, per la religione,non può venir posto soltanto come reale storico e di fat-to, ma come ideale della coscienza morale, artistica, re-ligiosa. Così si comprende la posizione nuova dell'eticakantiana di fronte al razionalismo dogmatico e scettico:essa è proprio una posizione pratica!

Non è nei contenuti e nei fini, che la filosofia si di-stingue dall'esperienza e dal pensiero diretto: è, dicevo,nella posizione mentale, nel metodo. Una filosofia può edev'essere anche pratica, etica, religiosa, come scientifi-

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ca ecc., e tuttavia non si deve confondere con la vitapratica etica religiosa ecc., come non si confonde con lastessa scienza in particolare; nè le può sostituire. Tutto ilpensiero rientra nella filosofia e con essa si muove, daessa parte e ad essa ritorna: ma la filosofia se ne distin-gue in quanto è pensiero di questo pensiero, riflessionecritica su questa pratica o teoretica, i contenuti dellequali, soggettivi od oggettivi che siano, sono per essa,sempre, dati provvisori da discutere ed unificare. La fi-losofia è critica, anche se ama e ardentemente cerca diraggiungere la positività e realtà d'un fine pratico o teo-retico; anzi, appunto per questo. Ciò basta a guardarsidall'opposto errore, d'intendere come filosofia una posi-zione semplicemente pratica del pensiero, per es, etica oreligiosa, come il moralismo e la teologia mistica: unamistica incomincerà a diventar filosofia solo nell'istantein cui, a costo di piombare nel dubbio straziante, riflettaliberamente sopra i suoi postulati per offrirne una provarazionale e un fondamento universale.

(Ma del pari, secondo me, non è più filosofia, nem-meno teoretica, quell'atteggiamento del pensiero che di-viene fine a sè stesso e pensa per pensare, uscendo affat-to dall'esperienza, qual è per es. il formalismo laicizzan-te, il compiacersi di lavorare sui termini in astratto, il bi-zantinismo che aduggia tanta parte della filosofia, dovein fondo tutti i problemi, moltiplicabili ad libitum, di-ventan questioni di parole: fenomeno comune a ogni ge-nere di attività quando divien fine a sè stessa, e si chia-ma dilettantismo o «giuoco»).

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ca ecc., e tuttavia non si deve confondere con la vitapratica etica religiosa ecc., come non si confonde con lastessa scienza in particolare; nè le può sostituire. Tutto ilpensiero rientra nella filosofia e con essa si muove, daessa parte e ad essa ritorna: ma la filosofia se ne distin-gue in quanto è pensiero di questo pensiero, riflessionecritica su questa pratica o teoretica, i contenuti dellequali, soggettivi od oggettivi che siano, sono per essa,sempre, dati provvisori da discutere ed unificare. La fi-losofia è critica, anche se ama e ardentemente cerca diraggiungere la positività e realtà d'un fine pratico o teo-retico; anzi, appunto per questo. Ciò basta a guardarsidall'opposto errore, d'intendere come filosofia una posi-zione semplicemente pratica del pensiero, per es, etica oreligiosa, come il moralismo e la teologia mistica: unamistica incomincerà a diventar filosofia solo nell'istantein cui, a costo di piombare nel dubbio straziante, riflettaliberamente sopra i suoi postulati per offrirne una provarazionale e un fondamento universale.

(Ma del pari, secondo me, non è più filosofia, nem-meno teoretica, quell'atteggiamento del pensiero che di-viene fine a sè stesso e pensa per pensare, uscendo affat-to dall'esperienza, qual è per es. il formalismo laicizzan-te, il compiacersi di lavorare sui termini in astratto, il bi-zantinismo che aduggia tanta parte della filosofia, dovein fondo tutti i problemi, moltiplicabili ad libitum, di-ventan questioni di parole: fenomeno comune a ogni ge-nere di attività quando divien fine a sè stessa, e si chia-ma dilettantismo o «giuoco»).

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Se dunque per un verso si potrebbe suddividere la fi-losofia in molti rami, in quanto essa accompagna tutte lealtre attività, pratiche e teoretiche, stando per così diredietro di esse come necessaria riflessione critica, allaquale di continuo esse chiedono le loro norme e i lorofini ultimi, e perciò si moltiplica con esse incentrandosidi volta in volta nei loro problemi, per l'altro verso c'èuna sola filosofia perchè questa sempre tende a unificarequei problemi in un tutto che dicesi «cultura», e il suoproblema peculiare resta sempre quello di colmarel'abisso aperto tra il finalismo del dover essere ideale ela necessità dell'essere reale unificando l'uso teoreticocon quello pratico del pensiero. In tal senso, non v'hapiù ragione di dividere nemmeno una filosofia teoretica,alla quale si attribuisce il còmpito di risolvere il proble-ma dei reali, da una filosofia pratica che riguarderebbe ilproblema dei valori: quasi che la realtà, criticamenteconsiderata, non fosse un valore, chiamato e verità, darimettersi in rapporto coi fini soggettivi, per stabilire ilimiti e le condizioni della conoscenza o teoreticità dellenostre attività; e quasi che i valori pratici restassero «va-lori» e non si riducessero a semplici fini soggettivi, anzia meri sentimenti, se non si cerca il lor fondamento rea-le e se non si riesce a giustificarli razionalmente.

Considerando bene, la filosofia non ha più che unproblema interno ad essa, dove gli oggetti esterni delpensiero diretto (siano oggetti esistenti o finalità sogget-tive), divengono interni, perchè valori del pensiero stes-so sul quale ora riflettiamo. Dopo Hegel si dice il mede-

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Se dunque per un verso si potrebbe suddividere la fi-losofia in molti rami, in quanto essa accompagna tutte lealtre attività, pratiche e teoretiche, stando per così diredietro di esse come necessaria riflessione critica, allaquale di continuo esse chiedono le loro norme e i lorofini ultimi, e perciò si moltiplica con esse incentrandosidi volta in volta nei loro problemi, per l'altro verso c'èuna sola filosofia perchè questa sempre tende a unificarequei problemi in un tutto che dicesi «cultura», e il suoproblema peculiare resta sempre quello di colmarel'abisso aperto tra il finalismo del dover essere ideale ela necessità dell'essere reale unificando l'uso teoreticocon quello pratico del pensiero. In tal senso, non v'hapiù ragione di dividere nemmeno una filosofia teoretica,alla quale si attribuisce il còmpito di risolvere il proble-ma dei reali, da una filosofia pratica che riguarderebbe ilproblema dei valori: quasi che la realtà, criticamenteconsiderata, non fosse un valore, chiamato e verità, darimettersi in rapporto coi fini soggettivi, per stabilire ilimiti e le condizioni della conoscenza o teoreticità dellenostre attività; e quasi che i valori pratici restassero «va-lori» e non si riducessero a semplici fini soggettivi, anzia meri sentimenti, se non si cerca il lor fondamento rea-le e se non si riesce a giustificarli razionalmente.

Considerando bene, la filosofia non ha più che unproblema interno ad essa, dove gli oggetti esterni delpensiero diretto (siano oggetti esistenti o finalità sogget-tive), divengono interni, perchè valori del pensiero stes-so sul quale ora riflettiamo. Dopo Hegel si dice il mede-

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simo asserendo, che la conoscenza (diretta) è coscienzae la filosofia autocoscienza. Coscienza è il modo in cuil'antinomia (pratica) di oggetto e soggetto si rivela cono-scitivamente: il soggetto pone l'oggetto come tale e vi sicontrappone quindi come finalità e trascendentalità; per-ciò nel rapporto conoscitivo diretto oggetto e soggetto sitrascendono a vicenda, si escludono l'un l'altro. Autoco-scienza è l'esigenza di riunirli nel loro stesso rapportoconoscitivo quando vi si riflette sopra, il che genera laconsapevolezza dell'oggetto come fine del soggetto pen-sante e della finalità come universalità e infine oggetti-vità dei valori.

Ora, si può chiamare praticità della filosofia, la spintache di continuo la incalza verso una unità assoluta – giu-stamente in ciò riavvicinata alla religione –, che la con-durrebbe alle idee metafisiche; ma si deve nel contempochiamare teoretico il suo metodo, la critica e la riflessio-ne, essenzialmente teoretico in quanto esclusivamenteconoscitivo. Pertanto, si potrebbe concludere, la filoso-fia è quel pensiero teoretico che critica la propria prati-cità. Se per questa ogni volta tende ad affermare la real-tà delle idee pure formali, attribuendo loro, con l'argo-mento ontologico, quell'esistenza ch'è dei sensibili, ognivolta, per la sua teoreticità, deve ricondurre le forme aicontenuti sensibili, alla realtà di natura, perchè il veroesista e sia vero.

Sì, il cammino della filosofia, sempre idealistica, ri-porta tutte le volte alla intelligibilità del sensibile, allanatura, preparando la nuova scienza. Per quella via, gli

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simo asserendo, che la conoscenza (diretta) è coscienzae la filosofia autocoscienza. Coscienza è il modo in cuil'antinomia (pratica) di oggetto e soggetto si rivela cono-scitivamente: il soggetto pone l'oggetto come tale e vi sicontrappone quindi come finalità e trascendentalità; per-ciò nel rapporto conoscitivo diretto oggetto e soggetto sitrascendono a vicenda, si escludono l'un l'altro. Autoco-scienza è l'esigenza di riunirli nel loro stesso rapportoconoscitivo quando vi si riflette sopra, il che genera laconsapevolezza dell'oggetto come fine del soggetto pen-sante e della finalità come universalità e infine oggetti-vità dei valori.

Ora, si può chiamare praticità della filosofia, la spintache di continuo la incalza verso una unità assoluta – giu-stamente in ciò riavvicinata alla religione –, che la con-durrebbe alle idee metafisiche; ma si deve nel contempochiamare teoretico il suo metodo, la critica e la riflessio-ne, essenzialmente teoretico in quanto esclusivamenteconoscitivo. Pertanto, si potrebbe concludere, la filoso-fia è quel pensiero teoretico che critica la propria prati-cità. Se per questa ogni volta tende ad affermare la real-tà delle idee pure formali, attribuendo loro, con l'argo-mento ontologico, quell'esistenza ch'è dei sensibili, ognivolta, per la sua teoreticità, deve ricondurre le forme aicontenuti sensibili, alla realtà di natura, perchè il veroesista e sia vero.

Sì, il cammino della filosofia, sempre idealistica, ri-porta tutte le volte alla intelligibilità del sensibile, allanatura, preparando la nuova scienza. Per quella via, gli

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allori vanno sempre a chi innalza lo spirito accarezzan-do le esigenze pratiche e metafisiche, e il disprezzo co-pre la scepsi ribelle, il relativismo all'esperienza, maquesto trionfa tra i roghi e s'illumina dei valori ideali:incenerita la natura come sostrato materiale, brucia an-che lo spirito come esistenza sostanziale e ritrova l'esse-re nel divenire del mondo. Poco importa che la natura sichiami «pneuma», Dio, Ragione; importa che sia la ra-gione, lo spirito della reale esperienza, la forma dei con-tenuti sensibili, l'unificazione di ciò che l'analisi ha se-parato e distinto. Così per esempio è accaduto della sco-lastica, che ha messo capo al naturalismo spiritualisticodel nostro Rinascimento; così poi al razionalismo, che lacritica kantiana delle antinomie della ragion pura hareso consapevole della sua relatività teoretica ai conte-nuti dell'esperienza.

10. – Nella soluzione kantiana della terza antinomiacosmologica – l'antinomia fra la necessità di natura e lalibertà dello spirito – il pensiero contemporaneo avevauna nuova strada aperta per conciliare le sue esigenzespiritualistiche con la conoscenza teoretica e con lascienza; ma non l'ha voluta seguire. Non s'è persuasodella impossibilità di determinare realisticamente (teore-ticamente, oggettivamente) il soggetto, lo spirito; e così,dopo aver ampiamente riconosciuto che i concetti dicausalità e di natura sono il modo col quale «noi» ob-biettiviamo e spieghiamo l'esperienza, ha preso questonoi come natura, realtà esistenziale, sostituibile alla

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allori vanno sempre a chi innalza lo spirito accarezzan-do le esigenze pratiche e metafisiche, e il disprezzo co-pre la scepsi ribelle, il relativismo all'esperienza, maquesto trionfa tra i roghi e s'illumina dei valori ideali:incenerita la natura come sostrato materiale, brucia an-che lo spirito come esistenza sostanziale e ritrova l'esse-re nel divenire del mondo. Poco importa che la natura sichiami «pneuma», Dio, Ragione; importa che sia la ra-gione, lo spirito della reale esperienza, la forma dei con-tenuti sensibili, l'unificazione di ciò che l'analisi ha se-parato e distinto. Così per esempio è accaduto della sco-lastica, che ha messo capo al naturalismo spiritualisticodel nostro Rinascimento; così poi al razionalismo, che lacritica kantiana delle antinomie della ragion pura hareso consapevole della sua relatività teoretica ai conte-nuti dell'esperienza.

10. – Nella soluzione kantiana della terza antinomiacosmologica – l'antinomia fra la necessità di natura e lalibertà dello spirito – il pensiero contemporaneo avevauna nuova strada aperta per conciliare le sue esigenzespiritualistiche con la conoscenza teoretica e con lascienza; ma non l'ha voluta seguire. Non s'è persuasodella impossibilità di determinare realisticamente (teore-ticamente, oggettivamente) il soggetto, lo spirito; e così,dopo aver ampiamente riconosciuto che i concetti dicausalità e di natura sono il modo col quale «noi» ob-biettiviamo e spieghiamo l'esperienza, ha preso questonoi come natura, realtà esistenziale, sostituibile alla

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realtà oggettiva; dopo aver svalutato la scienza, perchèsapere nostro, soggettivo sempre e prammatistico (prati-co), ha preso la praticità come verità e universalità, in-tendendo la filosofia come scienza, la sola scienza. Al-lora, reale diviene lo spirito; ma poichè questo si attuarealmente ne' suoi oggetti, la realtà dello spirito è quelladelle conoscenze oggettive, è l'esperienza, e si perdeogni trascendentalità, e quindi ogni criterio di giudiziocome di progresso. Lo spirito è di volta in volta quelloch'è l'esperienza nel suo divenire e farsi reale e non èpiù che un nome comune dato a questo divenire empiri-co e di fatto, che non v'ha più modo di rendere intelligi-bile e realmente valutabile.

Conseguente era il platonismo, per il quale reale è lospirito, l'idea pura in cui esistono tutti i valori; e irreale èl'esperienza, che l'anima intellettiva può valutare e giu-dicare perchè partecipe di quei valori: e infatti, filosofi-camente, la giudica un'ombra, un'illusione. Ma tolta latrascendenza dell'antico realismo, la sintesi hegeliana dioggetto e soggetto nel Soggetto reale non può che ridur-re questo a' suoi oggetti, al reale divenire dell'esperienzacosì come diviene empiricamente; come la sintesi dipensiero soggettivante (arte) e di pensiero oggettivante(religione) non può che ridurre la filosofia, in cui essaconsiste, a religione senza trascendenza, vale a dire, ascienza teoretica.

Ora, prima di tutto, scienza e filosofia hanno finalitàdiversa, ossia diversa teoreticità: diversa non di grado,ma di valore. Sono come due circonferenze limitanti i

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realtà oggettiva; dopo aver svalutato la scienza, perchèsapere nostro, soggettivo sempre e prammatistico (prati-co), ha preso la praticità come verità e universalità, in-tendendo la filosofia come scienza, la sola scienza. Al-lora, reale diviene lo spirito; ma poichè questo si attuarealmente ne' suoi oggetti, la realtà dello spirito è quelladelle conoscenze oggettive, è l'esperienza, e si perdeogni trascendentalità, e quindi ogni criterio di giudiziocome di progresso. Lo spirito è di volta in volta quelloch'è l'esperienza nel suo divenire e farsi reale e non èpiù che un nome comune dato a questo divenire empiri-co e di fatto, che non v'ha più modo di rendere intelligi-bile e realmente valutabile.

Conseguente era il platonismo, per il quale reale è lospirito, l'idea pura in cui esistono tutti i valori; e irreale èl'esperienza, che l'anima intellettiva può valutare e giu-dicare perchè partecipe di quei valori: e infatti, filosofi-camente, la giudica un'ombra, un'illusione. Ma tolta latrascendenza dell'antico realismo, la sintesi hegeliana dioggetto e soggetto nel Soggetto reale non può che ridur-re questo a' suoi oggetti, al reale divenire dell'esperienzacosì come diviene empiricamente; come la sintesi dipensiero soggettivante (arte) e di pensiero oggettivante(religione) non può che ridurre la filosofia, in cui essaconsiste, a religione senza trascendenza, vale a dire, ascienza teoretica.

Ora, prima di tutto, scienza e filosofia hanno finalitàdiversa, ossia diversa teoreticità: diversa non di grado,ma di valore. Sono come due circonferenze limitanti i

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loro dominii, che, come già dicemmo, s'intersecano ehan dunque un territorio comune, ma non coincidono, sìche l'una non può sostituire l'altra. La scienza, idest, laconoscenza in quanto teoretica, ha per suo dominiol'esperienza e, in ultima analisi, le esistenze sensibili,ch'essa oggettiva nei concetti di natura, unificandoli nel-la legge causale, ossia determinandoli oggettivamenteper esclusione d'ogni soggettività attuale. Il suo metodoè l'analisi. Essa si forma i concetti reali sui contenutisensibili riportandoli al loro ideal dover essere, alla cosain sè, e ottiene così il loro essere reale. Questo è la natu-ra, ripeto, e non lo spirito; e, pur sapendo che il concettodi natura è un valore, è un fine nostro a cui tendiamo,non c'è altro modo di raggiungerlo che questo, di realiz-zarlo in rapporto ai sensibili che ne provino l'esistenza ene limitino il fine soggettivo e trascendentale. Nessundubbio dunque che la scienza conosce il sensibile tra-scendendolo nel concetto di natura, di esistenza in sè –anche quando fosse soltanto una determinazione storicae di fatto, l'oggettività non è che l'in sè del fatto stesso –;e nessun dubbio che l'«in sè» è un postulato, un doveressere soggettivo, per cui la scienza implica lo scienzia-to; ma essa è oggettiva, è vera come reale, in quantocerca l'in sè esistente, l'in sè del sensibile, e non l'in sèpuro e assoluto ch'è la categoria stessa formale, riducen-tesi a un fine e a una norma, e non a un'esistenza.

La filosofia invece è riflessione critica sui valori, chetrova presenti alla coscienza come finalità; ch'essa criti-camente mette in rapporto coi loro oggetti per stabilire il

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loro dominii, che, come già dicemmo, s'intersecano ehan dunque un territorio comune, ma non coincidono, sìche l'una non può sostituire l'altra. La scienza, idest, laconoscenza in quanto teoretica, ha per suo dominiol'esperienza e, in ultima analisi, le esistenze sensibili,ch'essa oggettiva nei concetti di natura, unificandoli nel-la legge causale, ossia determinandoli oggettivamenteper esclusione d'ogni soggettività attuale. Il suo metodoè l'analisi. Essa si forma i concetti reali sui contenutisensibili riportandoli al loro ideal dover essere, alla cosain sè, e ottiene così il loro essere reale. Questo è la natu-ra, ripeto, e non lo spirito; e, pur sapendo che il concettodi natura è un valore, è un fine nostro a cui tendiamo,non c'è altro modo di raggiungerlo che questo, di realiz-zarlo in rapporto ai sensibili che ne provino l'esistenza ene limitino il fine soggettivo e trascendentale. Nessundubbio dunque che la scienza conosce il sensibile tra-scendendolo nel concetto di natura, di esistenza in sè –anche quando fosse soltanto una determinazione storicae di fatto, l'oggettività non è che l'in sè del fatto stesso –;e nessun dubbio che l'«in sè» è un postulato, un doveressere soggettivo, per cui la scienza implica lo scienzia-to; ma essa è oggettiva, è vera come reale, in quantocerca l'in sè esistente, l'in sè del sensibile, e non l'in sèpuro e assoluto ch'è la categoria stessa formale, riducen-tesi a un fine e a una norma, e non a un'esistenza.

La filosofia invece è riflessione critica sui valori, chetrova presenti alla coscienza come finalità; ch'essa criti-camente mette in rapporto coi loro oggetti per stabilire il

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criterio di giudicare questi come valori e di subordinarliin una scala axiologica che li razionalizzi unificandolinello spirito. Lo spirito è il valore formale, l'a priori, chela filosofia deve contentarsi di conoscere, ossia d'obbiet-tivare, non come un reale oggetto, ma come un doveressere, idea pura, norma oggettiva e fine soggettivo deicontenuti a cui si applica come valutazione e giudizio,non oggetto e soggetto esso stesso, che diverrebber su-bito suoi contenuti empirici.

Pertanto, il dominio della filosofia è il pensiero stessoin cui direttamente si formano i valori: essa è la criticadel pensiero e non la conoscenza de' suoi contenuti. Na-turalmente, la filosofia interseca il dominio della scien-za, prima di tutto in quanto è critica della conoscenza,ossia dei valori e del pensiero teoretico: e in tal sensomette capo alla noètica che fonda il criterio di verità, ealla epistemologia che dètta le norme e i limiti della co-noscenza reale. In secondo luogo, la filosofia che si so-vrappone alla scienza per renderla consapevole che an-che la natura è un valore – che l'«essere», io direi, è ildover essere dell'esistere sensibile –, le si sottopone inquanto chiede di che natura sia il valore come fine sog-gettivo, e come si possa concepire l'essere del soggetto.E così la filosofia si vuol far scienza, diventa psicologia.Ma è possibile, e in che modo, una scienza psicologica,una conoscenza oggettiva del soggetto?

È quello che vedremo nel prossimo capitolo. Per in-tanto mi preme stabilire che, se chiamiamo spirito il va-lore formale, l'idea pura – per esempio, la categoria teo-

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criterio di giudicare questi come valori e di subordinarliin una scala axiologica che li razionalizzi unificandolinello spirito. Lo spirito è il valore formale, l'a priori, chela filosofia deve contentarsi di conoscere, ossia d'obbiet-tivare, non come un reale oggetto, ma come un doveressere, idea pura, norma oggettiva e fine soggettivo deicontenuti a cui si applica come valutazione e giudizio,non oggetto e soggetto esso stesso, che diverrebber su-bito suoi contenuti empirici.

Pertanto, il dominio della filosofia è il pensiero stessoin cui direttamente si formano i valori: essa è la criticadel pensiero e non la conoscenza de' suoi contenuti. Na-turalmente, la filosofia interseca il dominio della scien-za, prima di tutto in quanto è critica della conoscenza,ossia dei valori e del pensiero teoretico: e in tal sensomette capo alla noètica che fonda il criterio di verità, ealla epistemologia che dètta le norme e i limiti della co-noscenza reale. In secondo luogo, la filosofia che si so-vrappone alla scienza per renderla consapevole che an-che la natura è un valore – che l'«essere», io direi, è ildover essere dell'esistere sensibile –, le si sottopone inquanto chiede di che natura sia il valore come fine sog-gettivo, e come si possa concepire l'essere del soggetto.E così la filosofia si vuol far scienza, diventa psicologia.Ma è possibile, e in che modo, una scienza psicologica,una conoscenza oggettiva del soggetto?

È quello che vedremo nel prossimo capitolo. Per in-tanto mi preme stabilire che, se chiamiamo spirito il va-lore formale, l'idea pura – per esempio, la categoria teo-

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retica di causalità reale o l'imperativo categorico puropratico –, siamo padronissimi di chiamar Soggetto l'ideaformale, proprio perchè pura idea, finalità trascendenta-le del volere; ma non possiamo chiamare reale questoSoggetto, perchè appunto ideale. Assurdo quindi dedur-re che lo Spirito è il Soggetto puro che diviene realmen-te, perchè quello non è un essere (a meno di ritornareall'argomento ontologico dando un frego su tutto il con-tingentismo e lo storicismo contemporaneo). L'essereincomincia qui, nel divenire.

Ma non troveremo almeno il Soggetto puro immanen-te nel soggetto empirico? La trascendentalità dei valorinon è presente alla coscienza come finalità del volere?Non si realizza come attività conoscente e agente? Lostesso Kant non parla d'un intelletto che forma i concet-ti, d'una ragione che dirige gli atti; e non son questi rea-li, anzi l'unica realtà, di cui si possa parlare?

11. – Evitiamo i facili giuochi di parole. Discutendol'antinomia della necessità causale e della libertà morale,il Kant finisce col dirci: Nella coscienza troviamoun'irriducibile antinomia fra l'esigenza razionale di ciòche dev'essere assolutamente e quindi liberamente el'esigenza ugualmente razionale di ciò che è realmente ecausalmente: anzi, la coscienza non è che quest'antino-mia, questa opposizione pratica, presente come senti-mento dell'antitesi fra lo esistere, riducibile ai contenutiintuibili, e il dover essere, riducibile alle forme pure. Daquesta antinomia nasce il pensiero. Questo pensiero

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retica di causalità reale o l'imperativo categorico puropratico –, siamo padronissimi di chiamar Soggetto l'ideaformale, proprio perchè pura idea, finalità trascendenta-le del volere; ma non possiamo chiamare reale questoSoggetto, perchè appunto ideale. Assurdo quindi dedur-re che lo Spirito è il Soggetto puro che diviene realmen-te, perchè quello non è un essere (a meno di ritornareall'argomento ontologico dando un frego su tutto il con-tingentismo e lo storicismo contemporaneo). L'essereincomincia qui, nel divenire.

Ma non troveremo almeno il Soggetto puro immanen-te nel soggetto empirico? La trascendentalità dei valorinon è presente alla coscienza come finalità del volere?Non si realizza come attività conoscente e agente? Lostesso Kant non parla d'un intelletto che forma i concet-ti, d'una ragione che dirige gli atti; e non son questi rea-li, anzi l'unica realtà, di cui si possa parlare?

11. – Evitiamo i facili giuochi di parole. Discutendol'antinomia della necessità causale e della libertà morale,il Kant finisce col dirci: Nella coscienza troviamoun'irriducibile antinomia fra l'esigenza razionale di ciòche dev'essere assolutamente e quindi liberamente el'esigenza ugualmente razionale di ciò che è realmente ecausalmente: anzi, la coscienza non è che quest'antino-mia, questa opposizione pratica, presente come senti-mento dell'antitesi fra lo esistere, riducibile ai contenutiintuibili, e il dover essere, riducibile alle forme pure. Daquesta antinomia nasce il pensiero. Questo pensiero

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chiamiàmolo pure Soggetto; ma il Soggetto è qualcosa efa qualcosa in quanto si obbiettiva, esce di sè per diveni-re mondo: non è questo l'ideale stoico, unificare il sog-getto al mondo, disperdere, per mezzo del pensiero, l'ioin Dio, facendo combaciare il soggetto con l'oggetto?

Il pensiero, in quanto vuol obbiettivarsi nei valori as-soluti, forma le idee pure, come l'idea di libertà: è ilpuro fine obbiettivato, la praticità resa pura in una for-ma, che dunque non è reale, e perciò la chiamiamo idea.La libertà può esser reale in un mondo noumenico, ossiaè pensabile, ma non è pensabile come realtà conoscibile,come oggetto. Obbiettivamente diviene una norma dellacondotta; ma non si attua, questa norma, che nel solomodo possibile realmente, ossia nella concatenazionecausale, la sola razionale nel mondo dell'esperienza...Rimane dunque un semplice «come se»? Nulla è piùlontano dal Kant di questa illazione.

La stessa ragione, lo stesso valore a priori, che si at-tua praticamente in un dover essere puramente ideale equindi in una norma, si realizza teoreticamente nei con-cetti riguardanti i contenuti delle esperienze. Qui il Sog-getto si oggettiva di fatto, limitando i suoi fini trascen-dentali alle condizioni esistenziali, adattando la libertàdel valore alla necessità della natura. Le categorie cono-scitive sono le forme in cui il Soggetto, senza perdere ilsuo valore a priori, lo attua a posteriori, come dover es-sere di ciò che esiste sensibilmente. La volontà si fa in-telletto e l'intelletto si fa oggetto. Di nuovo il soggettosparisce come tale, come esigenza e finalità, per realiz-

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chiamiàmolo pure Soggetto; ma il Soggetto è qualcosa efa qualcosa in quanto si obbiettiva, esce di sè per diveni-re mondo: non è questo l'ideale stoico, unificare il sog-getto al mondo, disperdere, per mezzo del pensiero, l'ioin Dio, facendo combaciare il soggetto con l'oggetto?

Il pensiero, in quanto vuol obbiettivarsi nei valori as-soluti, forma le idee pure, come l'idea di libertà: è ilpuro fine obbiettivato, la praticità resa pura in una for-ma, che dunque non è reale, e perciò la chiamiamo idea.La libertà può esser reale in un mondo noumenico, ossiaè pensabile, ma non è pensabile come realtà conoscibile,come oggetto. Obbiettivamente diviene una norma dellacondotta; ma non si attua, questa norma, che nel solomodo possibile realmente, ossia nella concatenazionecausale, la sola razionale nel mondo dell'esperienza...Rimane dunque un semplice «come se»? Nulla è piùlontano dal Kant di questa illazione.

La stessa ragione, lo stesso valore a priori, che si at-tua praticamente in un dover essere puramente ideale equindi in una norma, si realizza teoreticamente nei con-cetti riguardanti i contenuti delle esperienze. Qui il Sog-getto si oggettiva di fatto, limitando i suoi fini trascen-dentali alle condizioni esistenziali, adattando la libertàdel valore alla necessità della natura. Le categorie cono-scitive sono le forme in cui il Soggetto, senza perdere ilsuo valore a priori, lo attua a posteriori, come dover es-sere di ciò che esiste sensibilmente. La volontà si fa in-telletto e l'intelletto si fa oggetto. Di nuovo il soggettosparisce come tale, come esigenza e finalità, per realiz-

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zarsi come fatto e causalità. Questa è la sola categoria, ilsolo modo della ragione, che renda intelligibili i sensibi-li, e quindi possibili i fini del volere, fra cui il fine stessoteoretico.

Allora, se chiamiamo finalità la soggettività del pen-siero (il pensiero in quanto volere), la finalità soggettivasi oppone alla causalità oggettiva sol in quanto deve op-porsi, praticamente, per essere finalità e volontà: ma nonè un'opposizione teoretica, una contraddizione di fatto:nel fatto, ossia nel farsi, quel soggetto che idealmente sipone come dover essere, si realizza oggettivamentecome essere fra gli esseri, si realizza come oggetto enon come puro Soggetto.

Se riusciamo ad uscire dall'intellettualismo e a conce-pire, kantianamente, il soggetto come praticitàdell'oggetto (e, in ultima analisi, della sensazione), enon come un reale oggetto teoretico, sarà più facile su-perare anche i residui dello psicologismo che ritroviamoin Kant, quando riconduce il pensiero a una particolareattività che starebbe dietro i pensieri stessi, anzi primadelle stesse intuizioni. Le «facoltà» psicologiche kantia-ne, basta soffiarvi sopra, scompariscono con le ultimeorme del precedente sostanzialismo. L'intelletto e la ra-gione sono i termini astratti che indicano in che modo siattua in concreto il volere in quanto raggiunge i suoi fininelle forme pure e ideali, ossia nelle norme per giudica-re e valutare, ovvero nei concetti (l'autocoscienza e lacoscienza): ma il volere si fa pratico realmente nei realiatti come si fa realmente teoretico nel discorso e nelle

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zarsi come fatto e causalità. Questa è la sola categoria, ilsolo modo della ragione, che renda intelligibili i sensibi-li, e quindi possibili i fini del volere, fra cui il fine stessoteoretico.

Allora, se chiamiamo finalità la soggettività del pen-siero (il pensiero in quanto volere), la finalità soggettivasi oppone alla causalità oggettiva sol in quanto deve op-porsi, praticamente, per essere finalità e volontà: ma nonè un'opposizione teoretica, una contraddizione di fatto:nel fatto, ossia nel farsi, quel soggetto che idealmente sipone come dover essere, si realizza oggettivamentecome essere fra gli esseri, si realizza come oggetto enon come puro Soggetto.

Se riusciamo ad uscire dall'intellettualismo e a conce-pire, kantianamente, il soggetto come praticitàdell'oggetto (e, in ultima analisi, della sensazione), enon come un reale oggetto teoretico, sarà più facile su-perare anche i residui dello psicologismo che ritroviamoin Kant, quando riconduce il pensiero a una particolareattività che starebbe dietro i pensieri stessi, anzi primadelle stesse intuizioni. Le «facoltà» psicologiche kantia-ne, basta soffiarvi sopra, scompariscono con le ultimeorme del precedente sostanzialismo. L'intelletto e la ra-gione sono i termini astratti che indicano in che modo siattua in concreto il volere in quanto raggiunge i suoi fininelle forme pure e ideali, ossia nelle norme per giudica-re e valutare, ovvero nei concetti (l'autocoscienza e lacoscienza): ma il volere si fa pratico realmente nei realiatti come si fa realmente teoretico nel discorso e nelle

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rappresentazioni percettive. Preso in sè, come soggettoempirico che starebbe in potenza dietro i suoi atti, il vo-lere non è che il desiderare e l'appetire; e questi altronon son più che il sentire. L'esistere del soggetto, ossiala praticità e finalità, astratta da tutti i suoi oggetti, nonla possiamo far consistere, come già vedemmo e megliovedremo, che nel sentimento, sia questo l'immediatacertezza dell'esistenza, sia il dubbio filosofico o l’esi-genza etica o religiosa; lo stesso Hegel dovette ridurre ilpuro soggetto a sentimento.

Ma il sentimento, o è praticità, valore del sensibile, ein tal senso coscienza; o è a sua volta conosciuto, presocome oggetto, realtà esistente, e allora diviene parte del-la sensazione, da ricondursi a cause che ne determininol'essere fenomenico: e saranno infatti le condizioni percui la sensazione, come è per certi aspetti dell'analisi fi-sica, così è per altri organica. La«natura» del valore, ilsentimento o soggetto empirico, non può esser cercatache nella natura restante, pur essendo questa a sua voltacondizionata dal valore teoretico, ossia dalla forma cheprende la finalità soggettiva e sentimentale allorquandovuol realizzare i suoi fini oggettivamente, e conoscere ilvero per meglio attuarli.

La sensazione, unica esistenza e presenza dell'iocome sentimento e del non io come sensibile, è intelligi-bile soltanto come natura, che la trascende ma vi si rela-tivizza e condiziona. Che prova abbiamo allora più d'unincondizionato, d'un valore assoluto, d'un assoluto Og-getto – che sarebbe insieme Soggetto assoluto –, e che

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rappresentazioni percettive. Preso in sè, come soggettoempirico che starebbe in potenza dietro i suoi atti, il vo-lere non è che il desiderare e l'appetire; e questi altronon son più che il sentire. L'esistere del soggetto, ossiala praticità e finalità, astratta da tutti i suoi oggetti, nonla possiamo far consistere, come già vedemmo e megliovedremo, che nel sentimento, sia questo l'immediatacertezza dell'esistenza, sia il dubbio filosofico o l’esi-genza etica o religiosa; lo stesso Hegel dovette ridurre ilpuro soggetto a sentimento.

Ma il sentimento, o è praticità, valore del sensibile, ein tal senso coscienza; o è a sua volta conosciuto, presocome oggetto, realtà esistente, e allora diviene parte del-la sensazione, da ricondursi a cause che ne determininol'essere fenomenico: e saranno infatti le condizioni percui la sensazione, come è per certi aspetti dell'analisi fi-sica, così è per altri organica. La«natura» del valore, ilsentimento o soggetto empirico, non può esser cercatache nella natura restante, pur essendo questa a sua voltacondizionata dal valore teoretico, ossia dalla forma cheprende la finalità soggettiva e sentimentale allorquandovuol realizzare i suoi fini oggettivamente, e conoscere ilvero per meglio attuarli.

La sensazione, unica esistenza e presenza dell'iocome sentimento e del non io come sensibile, è intelligi-bile soltanto come natura, che la trascende ma vi si rela-tivizza e condiziona. Che prova abbiamo allora più d'unincondizionato, d'un valore assoluto, d'un assoluto Og-getto – che sarebbe insieme Soggetto assoluto –, e che

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pur sempre appare necessario come esigenza soggettivae a sua volta condiziona a priori, sebbene praticamente,qualunque nostro giudizio? A questa domanda non puòrispondere la conoscenza teoretica; risponde l'intuizionemetafisica. Ma questa, o è intuizione del sovrasensibile,e allora è religione; oppure è intuizione del sensibile,dell'oggetto in quanto, proprio, forma sensibile (sintesi aposteriori) e del soggetto in quanto sentimento di questaforma (genitivo soggettivo!), sentimento estetico; e allo-ra è arte.

Le influenze religiose sul pensiero scientifico e filo-sofico posson indurre a credere che la religione sia co-noscenza; come gli stretti legami con l'etica e la vitapratica han radicato l'opinione che la religione sia di na-tura pratica e perfino utilitaria: ma essa è una categoria asè, una forma autonoma proprio in quanto forma, aventeper contenuto (come ogni forma e reciprocamente) tuttigli altri valori e su tutti reagendo. Questa forma è l'aspi-razione a un dover essere posto oltre l'essere, è la volon-tà del sovrasensibile, e i suoi valori si chiamano santitàe sovrannaturale, inconfondibili coi valori propriamenteetici (umani) e teoretici, della conoscenza possibile, os-sia del sensibile (genitivo oggettivo!). Quando la reli-gione si applica alla conoscenza diviene idea metafisica,filosofia trascendente; ma non può chieder le prove auna conoscenza teoretica, alla esperienza, ma soltantoall'intuizione della praticità e finalità soggettiva nella

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pur sempre appare necessario come esigenza soggettivae a sua volta condiziona a priori, sebbene praticamente,qualunque nostro giudizio? A questa domanda non puòrispondere la conoscenza teoretica; risponde l'intuizionemetafisica. Ma questa, o è intuizione del sovrasensibile,e allora è religione; oppure è intuizione del sensibile,dell'oggetto in quanto, proprio, forma sensibile (sintesi aposteriori) e del soggetto in quanto sentimento di questaforma (genitivo soggettivo!), sentimento estetico; e allo-ra è arte.

Le influenze religiose sul pensiero scientifico e filo-sofico posson indurre a credere che la religione sia co-noscenza; come gli stretti legami con l'etica e la vitapratica han radicato l'opinione che la religione sia di na-tura pratica e perfino utilitaria: ma essa è una categoria asè, una forma autonoma proprio in quanto forma, aventeper contenuto (come ogni forma e reciprocamente) tuttigli altri valori e su tutti reagendo. Questa forma è l'aspi-razione a un dover essere posto oltre l'essere, è la volon-tà del sovrasensibile, e i suoi valori si chiamano santitàe sovrannaturale, inconfondibili coi valori propriamenteetici (umani) e teoretici, della conoscenza possibile, os-sia del sensibile (genitivo oggettivo!). Quando la reli-gione si applica alla conoscenza diviene idea metafisica,filosofia trascendente; ma non può chieder le prove auna conoscenza teoretica, alla esperienza, ma soltantoall'intuizione della praticità e finalità soggettiva nella

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sua purezza fuori d'ogni contenuto7.L'intuizione religiosa, portata in filosofia, o è deonto-

logica, filosofia pratica, come quella dell'etica kantiana;o è metafisica ontologica, giudizio esistenziale tutto apriori, nel qual caso non ha più alcuna prova della suarealtà fuori del sentimento che l'ispira. La sola prova che

7 Perciò mi sembra errato il concetto hegeliano, che la religio-ne si risolva nella filosofia; per cui la filosofia religiosa non sa-rebbe che il passaggio dalla religione obbiettivante il soggetto inDio alla filosofia che ritorna al soggetto, all'autocoscienza, sintesidell'antitesi fra arte soggettivante e religione obbiettivante. Vorreipersuadermene anch'io ma non ci riesco. Veggo il passaggio perautodistinzione dalla filosofia religiosa alla filosofia pura (per es.dalla scolastica al razionalismo e da questo all'idealismo); ma nonriesco a scorgere nell'ultima il superamento, la sintesi anche reli-giosa, che invece se mai resterebbe nel termine medio, nella filo-sofia religiosa. Questa non è un passaggio dalla religione alla fi-losofia: è la filosofia di una data religione, che quindi deduce daiprincipii religiosi e li applica alla sistemazione etico religiosa delsapere; e della quale la critica filosofica rimane «ancella» o allea-ta fin che non si urtino. Di conseguenza, la lotta così frequente edaspra fra religione e filosofia non è, come tanti pensano, un disac-cordo fra scuole o correnti filosofiche, dove la filosofia dovrebbealla fine vincere e includere in sè la filosofia religiosa, prima mi-tologica e irrazionale. Io rovescerei questa posizione hegeliana: èla filosofia che, in quanto aspira a superarsi, a negare e a trascen-dere la conoscenza empirica, si fa religiosa, metafisica (o soltantoteosofica). In tal caso, l'urto fra religione e filosofia è, sì, un diva-rio di scuole in quanto è un divario di metodi, l'uno dommatico efideistico, l'altro critico e razionale: ma in quanto anche la filoso-fia afferma un Assoluto, intuitivamente, e fonda una metafisicatrascendente, diventa il contrasto fra due religioni (per es. fra mo-

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sua purezza fuori d'ogni contenuto7.L'intuizione religiosa, portata in filosofia, o è deonto-

logica, filosofia pratica, come quella dell'etica kantiana;o è metafisica ontologica, giudizio esistenziale tutto apriori, nel qual caso non ha più alcuna prova della suarealtà fuori del sentimento che l'ispira. La sola prova che

7 Perciò mi sembra errato il concetto hegeliano, che la religio-ne si risolva nella filosofia; per cui la filosofia religiosa non sa-rebbe che il passaggio dalla religione obbiettivante il soggetto inDio alla filosofia che ritorna al soggetto, all'autocoscienza, sintesidell'antitesi fra arte soggettivante e religione obbiettivante. Vorreipersuadermene anch'io ma non ci riesco. Veggo il passaggio perautodistinzione dalla filosofia religiosa alla filosofia pura (per es.dalla scolastica al razionalismo e da questo all'idealismo); ma nonriesco a scorgere nell'ultima il superamento, la sintesi anche reli-giosa, che invece se mai resterebbe nel termine medio, nella filo-sofia religiosa. Questa non è un passaggio dalla religione alla fi-losofia: è la filosofia di una data religione, che quindi deduce daiprincipii religiosi e li applica alla sistemazione etico religiosa delsapere; e della quale la critica filosofica rimane «ancella» o allea-ta fin che non si urtino. Di conseguenza, la lotta così frequente edaspra fra religione e filosofia non è, come tanti pensano, un disac-cordo fra scuole o correnti filosofiche, dove la filosofia dovrebbealla fine vincere e includere in sè la filosofia religiosa, prima mi-tologica e irrazionale. Io rovescerei questa posizione hegeliana: èla filosofia che, in quanto aspira a superarsi, a negare e a trascen-dere la conoscenza empirica, si fa religiosa, metafisica (o soltantoteosofica). In tal caso, l'urto fra religione e filosofia è, sì, un diva-rio di scuole in quanto è un divario di metodi, l'uno dommatico efideistico, l'altro critico e razionale: ma in quanto anche la filoso-fia afferma un Assoluto, intuitivamente, e fonda una metafisicatrascendente, diventa il contrasto fra due religioni (per es. fra mo-

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il Valore esista realmente non la possiamo cercare cheinterrogando le esistenze reali. E poi che non può stare,come s'è detto, nelle categorie teoretiche, che come pen-siero superano il dato e dunque vogliono anch'esse lagiustificazione di tal superamento, e che d'altra parte li-mitano il Valore alla sua relatività col contenuto inquanto oggettivo, dobbiamo interrogare la sensazionestessa per vedere se non ha un suo proprio valore, primadi acquistarne uno (oggettivo) nelle sintesi conoscitive.

Però, se è facile depurare l'intuizione sensibile dei va-lori teoretici obbiettivi – in altre parole, se è facile di-stinguere tra sensazione e concetto –, più difficile è libe-rarla dai valori ugualmente teoretici, ma subiettivi, ossiadai concetti psicologici che per lunga tradizione le sonoconnessi. Chi non pensa, quando pensa alla sensazione,ch'essa non sia «soggettiva»? soggettiva, non soltantonel valore conoscitivo (ossia, paragonata alla cosa in sè,all'oggettività assoluta), ma soggettiva anche come natu-ra, come essere reale – con evidente petizione di princi-pio –, facendone un ente psicologico? È dunque per menecessario passare a traverso l'analisi della sensazione esbarazzarla dello psicologismo che se n'è impossessato.

Questo ci obbliga a un lungo intermezzo su questioninaturalistiche, le quali per la filosofia hanno soltantouna importanza epistemologica. Il capitolo che segue èdedicato ai fisiologi e agli psicologi che ancora cercas-sero un legame causale tra il finalismo subiettivo e la

noteismo e panteismo), che ce ne spiega storicamente la violenza.

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il Valore esista realmente non la possiamo cercare cheinterrogando le esistenze reali. E poi che non può stare,come s'è detto, nelle categorie teoretiche, che come pen-siero superano il dato e dunque vogliono anch'esse lagiustificazione di tal superamento, e che d'altra parte li-mitano il Valore alla sua relatività col contenuto inquanto oggettivo, dobbiamo interrogare la sensazionestessa per vedere se non ha un suo proprio valore, primadi acquistarne uno (oggettivo) nelle sintesi conoscitive.

Però, se è facile depurare l'intuizione sensibile dei va-lori teoretici obbiettivi – in altre parole, se è facile di-stinguere tra sensazione e concetto –, più difficile è libe-rarla dai valori ugualmente teoretici, ma subiettivi, ossiadai concetti psicologici che per lunga tradizione le sonoconnessi. Chi non pensa, quando pensa alla sensazione,ch'essa non sia «soggettiva»? soggettiva, non soltantonel valore conoscitivo (ossia, paragonata alla cosa in sè,all'oggettività assoluta), ma soggettiva anche come natu-ra, come essere reale – con evidente petizione di princi-pio –, facendone un ente psicologico? È dunque per menecessario passare a traverso l'analisi della sensazione esbarazzarla dello psicologismo che se n'è impossessato.

Questo ci obbliga a un lungo intermezzo su questioninaturalistiche, le quali per la filosofia hanno soltantouna importanza epistemologica. Il capitolo che segue èdedicato ai fisiologi e agli psicologi che ancora cercas-sero un legame causale tra il finalismo subiettivo e la

noteismo e panteismo), che ce ne spiega storicamente la violenza.

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causalità naturale ch'è di lor competenza. L'argomentonostro, sulla intelligibilità dei sensibili, verrà ripreso alcapitolo V, e concluso.

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causalità naturale ch'è di lor competenza. L'argomentonostro, sulla intelligibilità dei sensibili, verrà ripreso alcapitolo V, e concluso.

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IV.IL SENSO

COME PROBLEMA PSICOLOGICO

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IV.IL SENSO

COME PROBLEMA PSICOLOGICO

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1. – La psicologia tradizionale s'arrogava il diritto dicompier essa, ed essa soltanto, l'analisi della sensazione,con la quale hanno invece ugual principio tutte le scien-ze, anzi tutte le conoscenze in quanto conoscenze teore-tiche, ognuna poi trascendendola nei concetti di natura.La psicologia fondava quella pretesa sul principio, esserla sensazione, tutta la sensazione, un fatto psichico, un«fatto di coscienza». È un principio che attrae poetica-mente le nostre menti, non v'ha dubbio: ma per la psico-logia è un brutto incominciare, perchè una volta ammes-sa l'identità di sensazione e psiche postulata dal sogget-tivismo e l'identità di psiche e coscienza postulatadall'intellettualismo, si rende impossibile e contradditto-ria la stessa ricerca psicologica. Se le sensazioni, per es.questo rettangolo bianco, sono già fatti essenzialmentepsichici – e tanto più lo sarebbero le idee che ce ne for-miamo, come l'idea di rettangolo e di bianco (o di que-sto rettangolo bianco qui) –, tutto il mondo è psiche, ègià dato come tale; ma non v'è più modo d'istituire unapsicologia dove non si può più distinguere il soggettopsicologico dagli oggetti, e soltanto si tratterà di critica-re (filosoficamente) i valori soggettivi e oggettivi che lesensazioni prendono secondo le nostre costruzioni ideo-

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1. – La psicologia tradizionale s'arrogava il diritto dicompier essa, ed essa soltanto, l'analisi della sensazione,con la quale hanno invece ugual principio tutte le scien-ze, anzi tutte le conoscenze in quanto conoscenze teore-tiche, ognuna poi trascendendola nei concetti di natura.La psicologia fondava quella pretesa sul principio, esserla sensazione, tutta la sensazione, un fatto psichico, un«fatto di coscienza». È un principio che attrae poetica-mente le nostre menti, non v'ha dubbio: ma per la psico-logia è un brutto incominciare, perchè una volta ammes-sa l'identità di sensazione e psiche postulata dal sogget-tivismo e l'identità di psiche e coscienza postulatadall'intellettualismo, si rende impossibile e contradditto-ria la stessa ricerca psicologica. Se le sensazioni, per es.questo rettangolo bianco, sono già fatti essenzialmentepsichici – e tanto più lo sarebbero le idee che ce ne for-miamo, come l'idea di rettangolo e di bianco (o di que-sto rettangolo bianco qui) –, tutto il mondo è psiche, ègià dato come tale; ma non v'è più modo d'istituire unapsicologia dove non si può più distinguere il soggettopsicologico dagli oggetti, e soltanto si tratterà di critica-re (filosoficamente) i valori soggettivi e oggettivi che lesensazioni prendono secondo le nostre costruzioni ideo-

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logiche.Riprova: non appena la psicologia s'accingeva ad ana-

lizzare una sensazione, distingueva il sensibile, lo «sti-molo», oggetto della fisica, dalla sensibilità organica,oggetto della fisiologia, e l'uno e l'altra dalla coscienza,suo preteso oggetto; come distingueva il metododell'osservazione esterna delle altre scienze dal propriometodo dell'introspezione. Ora, se quella sensazionefosse già prima un fatto psichico, e se dire psiche fosselo stesso che dire coscienza, non diviene un assurdo am-mettere che uno stimolo fisico e fisiologico si faccia co-sciente? Esso lo era già! E non è un secondo assurdoammettere un'osservazione esterna e una interna dovetutto è già dato come psichico, e cioè interno?

Lo psicologo, quando asserisce che la sensazione è unfatto psichico, ragiona nel modo seguente: Questo ret-tangolo bianco non sarebbe nè rettangolo nè bianco seio così non l'avvertissi, e l'avvertire sensibile sarà dun-que la prima forma di conoscenza; la coscienza senso-riale è la conoscenza soggettiva di quest'oggetto, il pri-mo modo con cui un oggetto si presenta allo spirito equindi lo spirito se lo rappresenta, per es. bianco e ret-tangolare. Ma ognun vede che il nostro psicologo ha giàdovuto duplicare l'esistere sensibile in oggetto (chechiama anche stimolo) e soggetto (che chiama spirito),come se già ci fosser, nientemeno, queste due sostanzeprima della sensazione, nella quale viceversa incomin-cia ad esserci, data la premessa, un fatto reale. C'è qual-cosa – ma dove? quando? – che diviene cosciente perchè

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logiche.Riprova: non appena la psicologia s'accingeva ad ana-

lizzare una sensazione, distingueva il sensibile, lo «sti-molo», oggetto della fisica, dalla sensibilità organica,oggetto della fisiologia, e l'uno e l'altra dalla coscienza,suo preteso oggetto; come distingueva il metododell'osservazione esterna delle altre scienze dal propriometodo dell'introspezione. Ora, se quella sensazionefosse già prima un fatto psichico, e se dire psiche fosselo stesso che dire coscienza, non diviene un assurdo am-mettere che uno stimolo fisico e fisiologico si faccia co-sciente? Esso lo era già! E non è un secondo assurdoammettere un'osservazione esterna e una interna dovetutto è già dato come psichico, e cioè interno?

Lo psicologo, quando asserisce che la sensazione è unfatto psichico, ragiona nel modo seguente: Questo ret-tangolo bianco non sarebbe nè rettangolo nè bianco seio così non l'avvertissi, e l'avvertire sensibile sarà dun-que la prima forma di conoscenza; la coscienza senso-riale è la conoscenza soggettiva di quest'oggetto, il pri-mo modo con cui un oggetto si presenta allo spirito equindi lo spirito se lo rappresenta, per es. bianco e ret-tangolare. Ma ognun vede che il nostro psicologo ha giàdovuto duplicare l'esistere sensibile in oggetto (chechiama anche stimolo) e soggetto (che chiama spirito),come se già ci fosser, nientemeno, queste due sostanzeprima della sensazione, nella quale viceversa incomin-cia ad esserci, data la premessa, un fatto reale. C'è qual-cosa – ma dove? quando? – che diviene cosciente perchè

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viene avvertito. Converrà dunque, ripeto, ammettere pri-ma questo qualcosa (la materia?) e questo soggetto(l'anima?), il che è come cadere nel più primitivo mate-rialismo, o in quella forma di larvato materialismo ch'èil parallelismo de' due aspetti, fisico e psichico, dellastessa sostanza (organica?).

«Avvertire uno stimolo», «accorgersi di qualcosa» esimili espressioni, indican già un fatto conoscitivo, unapercezione bell'e buona, ma non riguardano la sensazio-ne in sè. «Avverto questo rettangolo bianco» significal'esistere nell'unità attuale dell'esperienza questo biancoe il sentimento dell'avvertire, o senso del conoscere,come sensazione che io ho già sdoppiato in rappresenta-zione di due valori, l'uno concepito fra le cose (fuori dime), l'altro nel soggetto (in me), per cui relativizzo co-noscitivamente i due valori della stessa e unica esperien-za, e mi rappresento il conoscere stesso, la mia attività,in tal rapporto dualistico. Ma che c'entra la psicologiadella sensazione? questa è, se mai, la psicologia del co-noscere.

Lo psicologo risponde, alla Berkeley, che, proprioperchè, questo bianco, io lo trovo prima di tutto nellacoscienza, esso è un fatto psichico: la coscienza poi lo«proietterebbe» fuori di sè, localizzandolo nello spazioecc. «Nella coscienza»! Dove sarà mai questo luogo incui si fabbricano e da cui si proiettan fuori (dove?) glioggetti, che dunque non son più tali?

«Coscienza» significa consapevolezza, riferimento diqualcosa – contenuto di una nostra attività; un oggetto

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viene avvertito. Converrà dunque, ripeto, ammettere pri-ma questo qualcosa (la materia?) e questo soggetto(l'anima?), il che è come cadere nel più primitivo mate-rialismo, o in quella forma di larvato materialismo ch'èil parallelismo de' due aspetti, fisico e psichico, dellastessa sostanza (organica?).

«Avvertire uno stimolo», «accorgersi di qualcosa» esimili espressioni, indican già un fatto conoscitivo, unapercezione bell'e buona, ma non riguardano la sensazio-ne in sè. «Avverto questo rettangolo bianco» significal'esistere nell'unità attuale dell'esperienza questo biancoe il sentimento dell'avvertire, o senso del conoscere,come sensazione che io ho già sdoppiato in rappresenta-zione di due valori, l'uno concepito fra le cose (fuori dime), l'altro nel soggetto (in me), per cui relativizzo co-noscitivamente i due valori della stessa e unica esperien-za, e mi rappresento il conoscere stesso, la mia attività,in tal rapporto dualistico. Ma che c'entra la psicologiadella sensazione? questa è, se mai, la psicologia del co-noscere.

Lo psicologo risponde, alla Berkeley, che, proprioperchè, questo bianco, io lo trovo prima di tutto nellacoscienza, esso è un fatto psichico: la coscienza poi lo«proietterebbe» fuori di sè, localizzandolo nello spazioecc. «Nella coscienza»! Dove sarà mai questo luogo incui si fabbricano e da cui si proiettan fuori (dove?) glioggetti, che dunque non son più tali?

«Coscienza» significa consapevolezza, riferimento diqualcosa – contenuto di una nostra attività; un oggetto

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conosciuto, un sentimento sofferto, un atto compiuto – anoi, o meglio, all'attività stessa (forma) che conosce sen-te vuole.

Coscienza non è dunque l'esser presente di qualcosa –questo bianco che vedo, questo piacere che vivo, questomovimento che faccio –, ma l'accorgersi di questa pre-senza: saper di sapere, di sentire, di volere; ciò che av-viene in quanto oppongo e al tempo stesso metto in rap-porto me col mondo, rapporto che si dice di soggetto aoggetto, perchè ognuno dei due termini conferisceall'altro il valore opposto (antinomia pratica che, teoreti-camente, si converte in mediazione conoscitiva).

In altre parole, la coscienza è la stessa attività cono-scitiva in senso generale e nel suo attuarsi – non comefatto, ma come atto –, ch'è un conoscere l'oggetto e sèstessa, graduandosi in questo sviluppo fino alla filoso-fia, che n'è la forma più pura.

Questo modo d'intendere la coscienza, non come unqualche cosa, soggetto (psichico) od oggetto già dato,sostanza spirituale o materiale assoluta, ma come rap-porto conoscitivo, pensiero, in cui si formano tanto i va-lori della realtà oggettiva (coscienza) quanto i valorisoggettivi di quella realtà (autocoscienza), reciproca-mente ed implicitamente; vale a dire, d'intenderla comeposizione di valori e non come realtà in sè, natura delvalore, ch'è sempre un suo concetto (psicologico, ap-punto), è proprio della filosofia contemporanea, dalKant in poi, ed è perfettamente in accordo con la testi-monianza dell'esperienza pura, mentre evita le aporie e

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conosciuto, un sentimento sofferto, un atto compiuto – anoi, o meglio, all'attività stessa (forma) che conosce sen-te vuole.

Coscienza non è dunque l'esser presente di qualcosa –questo bianco che vedo, questo piacere che vivo, questomovimento che faccio –, ma l'accorgersi di questa pre-senza: saper di sapere, di sentire, di volere; ciò che av-viene in quanto oppongo e al tempo stesso metto in rap-porto me col mondo, rapporto che si dice di soggetto aoggetto, perchè ognuno dei due termini conferisceall'altro il valore opposto (antinomia pratica che, teoreti-camente, si converte in mediazione conoscitiva).

In altre parole, la coscienza è la stessa attività cono-scitiva in senso generale e nel suo attuarsi – non comefatto, ma come atto –, ch'è un conoscere l'oggetto e sèstessa, graduandosi in questo sviluppo fino alla filoso-fia, che n'è la forma più pura.

Questo modo d'intendere la coscienza, non come unqualche cosa, soggetto (psichico) od oggetto già dato,sostanza spirituale o materiale assoluta, ma come rap-porto conoscitivo, pensiero, in cui si formano tanto i va-lori della realtà oggettiva (coscienza) quanto i valorisoggettivi di quella realtà (autocoscienza), reciproca-mente ed implicitamente; vale a dire, d'intenderla comeposizione di valori e non come realtà in sè, natura delvalore, ch'è sempre un suo concetto (psicologico, ap-punto), è proprio della filosofia contemporanea, dalKant in poi, ed è perfettamente in accordo con la testi-monianza dell'esperienza pura, mentre evita le aporie e

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gli assurdi della precedente speculazione. Giustamenteoggi la filosofia identifica la coscienza col pensiero, e ladichiara indefinibile per sè stessa, essendo il prius – lo-gico – di tutte le definizioni, la corrente stessa del pen-siero pensante. La sola sua legge è l'unità di coscienza:il dover essere, rapporto in cui s'unifica tutta la esperien-za in ogni suo momento, realizzando i valori oggettivi esoggettivi nella sintesi conoscitiva, teoretica e pratica;ma la opposizione di soggetto a oggetto il pensiero ladeve mediare, non la può creare, trovandola già nel suoesistere sensibile; e la media infatti nei concetti valutati-vi che regolano la conoscenza come ragione. La filoso-fia può, sì, parlare d'introspezione; ma l'introspezione fi-losofica è la riflessione, ossia, come vedemmo, l'atteg-giamento critico del nostro spirito, destinato, non a for-mulare leggi scientifiche, ma a riflettere, fra l'altro e peresempio, sul loro valore e sui lor limiti e risultati (teoriadella conoscenza ed epistemologia): filosofia che nonprecede o segue la scienza, ma sta dietro ad essa, comesta dietro a ogni altra forma d'attività.

2. – La psicologia, proponendosi di studiare i «fatti dicoscienza», ha seguìto le varie sorti di questo concettoin filosofia, aggrovigliandosi in difficoltà senza uscita, eoscillando dal materialismo allo spiritualismo, di cui ilparallelismo psico fisico non è che un compromessoprovvisorio. Ma in realtà, la psicologia è riuscita a con-quistare un posto utile fra le scienze rinunciando a stu-diare il soggetto come coscienza, come posizione di va-

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gli assurdi della precedente speculazione. Giustamenteoggi la filosofia identifica la coscienza col pensiero, e ladichiara indefinibile per sè stessa, essendo il prius – lo-gico – di tutte le definizioni, la corrente stessa del pen-siero pensante. La sola sua legge è l'unità di coscienza:il dover essere, rapporto in cui s'unifica tutta la esperien-za in ogni suo momento, realizzando i valori oggettivi esoggettivi nella sintesi conoscitiva, teoretica e pratica;ma la opposizione di soggetto a oggetto il pensiero ladeve mediare, non la può creare, trovandola già nel suoesistere sensibile; e la media infatti nei concetti valutati-vi che regolano la conoscenza come ragione. La filoso-fia può, sì, parlare d'introspezione; ma l'introspezione fi-losofica è la riflessione, ossia, come vedemmo, l'atteg-giamento critico del nostro spirito, destinato, non a for-mulare leggi scientifiche, ma a riflettere, fra l'altro e peresempio, sul loro valore e sui lor limiti e risultati (teoriadella conoscenza ed epistemologia): filosofia che nonprecede o segue la scienza, ma sta dietro ad essa, comesta dietro a ogni altra forma d'attività.

2. – La psicologia, proponendosi di studiare i «fatti dicoscienza», ha seguìto le varie sorti di questo concettoin filosofia, aggrovigliandosi in difficoltà senza uscita, eoscillando dal materialismo allo spiritualismo, di cui ilparallelismo psico fisico non è che un compromessoprovvisorio. Ma in realtà, la psicologia è riuscita a con-quistare un posto utile fra le scienze rinunciando a stu-diare il soggetto come coscienza, come posizione di va-

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lori oggettivi e soggettivi, e lasciando ciò alla noèticaper considerare soltanto le condizioni empiriche e misu-rabili di quell'attività (volontaria), che si attua come co-scienza alla luce della testimonianza introspettiva.

Allora, il soggetto psicologico non è più la coscienza,ma quei sentimenti e impulsi che forman l'«inconscio»della psicologia più recente (come del resto vide già ilLeibniz), e che la coscienza chiama soggetti (empirici)quando appunto li ha già superati e mediati in una cono-scenza oggettiva, in un sistema di rappresentazioni, ch'èdel soggetto attuale che vi riflette.

Perciò, a mio modesto parere, quando si tratta di psi-cologia come scienza psicologica, hanno tutte le ragionicoloro che si battono per l'uso più largo dei metodi spe-rimentali anche in questo campo, da sostituire alla fa-mosa introspezione della psicologia classica: si trattasoltanto d'aver ben chiaro il fine della ricerca. Infatti, seil fine è scientifico, nel senso odierno del termine – os-sia nella direzione verso cui s'è oggi formata e orientatauna coscienza scientifica della civiltà occidentale, condeterminati scopi teoretico pratici –, l'introspezione inpsicologia non ha più alcuna importanza, non trattandosipiù di definire i concetti, come nei trattatisti aristotelici,ma di fissare delle costanti in determinate funzioni. Intal caso, a che si riduce l'introspezione? Alla sempliceesperienza nostra, ossia all'esperienza necessaria perparlare d'una cosa, punto di partenza d'ogni ricerca? Maquesta esperienza è la stessa comune a tutte le scienze,perchè, se non posso parlare di dolore o di volontà

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lori oggettivi e soggettivi, e lasciando ciò alla noèticaper considerare soltanto le condizioni empiriche e misu-rabili di quell'attività (volontaria), che si attua come co-scienza alla luce della testimonianza introspettiva.

Allora, il soggetto psicologico non è più la coscienza,ma quei sentimenti e impulsi che forman l'«inconscio»della psicologia più recente (come del resto vide già ilLeibniz), e che la coscienza chiama soggetti (empirici)quando appunto li ha già superati e mediati in una cono-scenza oggettiva, in un sistema di rappresentazioni, ch'èdel soggetto attuale che vi riflette.

Perciò, a mio modesto parere, quando si tratta di psi-cologia come scienza psicologica, hanno tutte le ragionicoloro che si battono per l'uso più largo dei metodi spe-rimentali anche in questo campo, da sostituire alla fa-mosa introspezione della psicologia classica: si trattasoltanto d'aver ben chiaro il fine della ricerca. Infatti, seil fine è scientifico, nel senso odierno del termine – os-sia nella direzione verso cui s'è oggi formata e orientatauna coscienza scientifica della civiltà occidentale, condeterminati scopi teoretico pratici –, l'introspezione inpsicologia non ha più alcuna importanza, non trattandosipiù di definire i concetti, come nei trattatisti aristotelici,ma di fissare delle costanti in determinate funzioni. Intal caso, a che si riduce l'introspezione? Alla sempliceesperienza nostra, ossia all'esperienza necessaria perparlare d'una cosa, punto di partenza d'ogni ricerca? Maquesta esperienza è la stessa comune a tutte le scienze,perchè, se non posso parlare di dolore o di volontà

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senz'averli provati, non posso nemmen parlare di luce edi calore senz'averli percepiti: vuol dire che il fisico ob-biettiva la sua esperienza di luce in una rappresentazio-ne di onde luminose, e così la rende «esterna», e lo psi-cologo obbiettiva la corrispondente impressione piacen-te o spiacente e il corrispondente impulso a cercare o afuggire quella luce in una rappresentazione d'attività,che chiama interna soltanto per opposizione alla prima,ma che deve studiare dove e come si studia la prima8.

8 Sopra un altro piano e in tutt'altro senso, che qui dunque nonc'interessa direttamente (e ne parliamo sol per evitare confusioni),si potrebbe ammettere una introspezione come metodo di ricercascientifica vera e propria, per analisi e sintesi delle nostre proprieesperienze; quando cioè si tratti delle parti descrittive delle scien-ze psicologiche e morali, come sarebbe un'autobiografia o unapsicologia individuale. È chiaro che qui il metodo introspettivo sicontrappone all'estrospezione non come metodo soggettivo oppo-sto a quello (unico) oggettivo, ma come osservazione personalecontrapposta a quella storica obbiettivamente documentata; delresto, anche in psicologia individuale e descrittiva, l'autoosserva-zione resta il metodo più fallace appunto per gli interessi soggetti-vi che ci dominano nella considerazione di noi stessi, per la mute-volezza e complessità di tali esperienze, rispetto alle quali il mi-glior psicologo è il romanziere perchè non ha bisogno d'oggetti-varsi e d'astrarre, ossia d'uccidere la vita soggettiva per esaminar-la (quando pur è possibile farlo, data la ignoranza di tanta parte,quella detta inconscia e subconscia, di essa vita e dei nessi fra glistati d'animo). Tanto più in psicologia generale l'estrospezionedeve intervenire per rendere «scientifici» i risultati dell'indagine,contentandosi dell'esperienza interna come riferimento necessa-rio, ma vie più riducibile e convertibile nelle formule obbiettive,

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senz'averli provati, non posso nemmen parlare di luce edi calore senz'averli percepiti: vuol dire che il fisico ob-biettiva la sua esperienza di luce in una rappresentazio-ne di onde luminose, e così la rende «esterna», e lo psi-cologo obbiettiva la corrispondente impressione piacen-te o spiacente e il corrispondente impulso a cercare o afuggire quella luce in una rappresentazione d'attività,che chiama interna soltanto per opposizione alla prima,ma che deve studiare dove e come si studia la prima8.

8 Sopra un altro piano e in tutt'altro senso, che qui dunque nonc'interessa direttamente (e ne parliamo sol per evitare confusioni),si potrebbe ammettere una introspezione come metodo di ricercascientifica vera e propria, per analisi e sintesi delle nostre proprieesperienze; quando cioè si tratti delle parti descrittive delle scien-ze psicologiche e morali, come sarebbe un'autobiografia o unapsicologia individuale. È chiaro che qui il metodo introspettivo sicontrappone all'estrospezione non come metodo soggettivo oppo-sto a quello (unico) oggettivo, ma come osservazione personalecontrapposta a quella storica obbiettivamente documentata; delresto, anche in psicologia individuale e descrittiva, l'autoosserva-zione resta il metodo più fallace appunto per gli interessi soggetti-vi che ci dominano nella considerazione di noi stessi, per la mute-volezza e complessità di tali esperienze, rispetto alle quali il mi-glior psicologo è il romanziere perchè non ha bisogno d'oggetti-varsi e d'astrarre, ossia d'uccidere la vita soggettiva per esaminar-la (quando pur è possibile farlo, data la ignoranza di tanta parte,quella detta inconscia e subconscia, di essa vita e dei nessi fra glistati d'animo). Tanto più in psicologia generale l'estrospezionedeve intervenire per rendere «scientifici» i risultati dell'indagine,contentandosi dell'esperienza interna come riferimento necessa-rio, ma vie più riducibile e convertibile nelle formule obbiettive,

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Lo psicologo, per trovare un soggetto psicologico,non può far a meno d'analizzare la sensazione e di di-stinguervi un gruppo d'elementi astratti, che definiràsoggettivi, da un altro, che chiamerà stimoli oggettivi; esol per influenza filosofica attribuirà poi una natura sog-gettiva anche a quei sensibili, che per lui sono oggettidati alla conoscenza, all'avvertimento soggettivo di quelprimo momento. Così, avendo invertito le parti frascienza e filosofia, giungerebbe all'opposto risultato, didefinire la natura soggettiva o valore che il sensibileprende nella conoscenza (ciò che spetta alla critica dellaconoscenza) invece di formarsi i concetti oggettivi (rea-li) del soggetto, ossia di quella natura che ha già presocome un dato. A questo punto, lo psicologo ha implici-tamente dichiarate assurde ed inutili tutte le scienze e lapropria con esse: assurde, perchè una fisica diviene im-possibile e vana dove non c'è più nulla di fisico, e così

che ci dian degli schemi teoricamente sufficienti per prevenire ifatti e per fondarvi le applicazioni pratiche (per es. in psicometria,in psicopatologia, in pedagogia ecc.). Insomma, l'autoosservazio-ne in psicologia come l'osservazione in ogni scienza, è sol il pri-mo piano, descrittivo e narrativo, dell'edificio che culmina nellescienze generali, ossia nei concetti di natura, ai quali ogni scienzavuol arrivare. Il problema verte dunque sulla natura del «sogget-to»; la psicologia sarebbe introspettiva in senso proprio solo nelcaso che la natura sia soggetto; ma in questo caso tutte le scienzesarebbero ugualmente introspettive, e si chiamerebbe lo stessoestrospettivo (oggettivo) il loro metodo comune di ricerca, di co-noscenza teoretica universale, che in ciò si distinguerebbe ancoradalla esperienza come vita individuale.

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Lo psicologo, per trovare un soggetto psicologico,non può far a meno d'analizzare la sensazione e di di-stinguervi un gruppo d'elementi astratti, che definiràsoggettivi, da un altro, che chiamerà stimoli oggettivi; esol per influenza filosofica attribuirà poi una natura sog-gettiva anche a quei sensibili, che per lui sono oggettidati alla conoscenza, all'avvertimento soggettivo di quelprimo momento. Così, avendo invertito le parti frascienza e filosofia, giungerebbe all'opposto risultato, didefinire la natura soggettiva o valore che il sensibileprende nella conoscenza (ciò che spetta alla critica dellaconoscenza) invece di formarsi i concetti oggettivi (rea-li) del soggetto, ossia di quella natura che ha già presocome un dato. A questo punto, lo psicologo ha implici-tamente dichiarate assurde ed inutili tutte le scienze e lapropria con esse: assurde, perchè una fisica diviene im-possibile e vana dove non c'è più nulla di fisico, e così

che ci dian degli schemi teoricamente sufficienti per prevenire ifatti e per fondarvi le applicazioni pratiche (per es. in psicometria,in psicopatologia, in pedagogia ecc.). Insomma, l'autoosservazio-ne in psicologia come l'osservazione in ogni scienza, è sol il pri-mo piano, descrittivo e narrativo, dell'edificio che culmina nellescienze generali, ossia nei concetti di natura, ai quali ogni scienzavuol arrivare. Il problema verte dunque sulla natura del «sogget-to»; la psicologia sarebbe introspettiva in senso proprio solo nelcaso che la natura sia soggetto; ma in questo caso tutte le scienzesarebbero ugualmente introspettive, e si chiamerebbe lo stessoestrospettivo (oggettivo) il loro metodo comune di ricerca, di co-noscenza teoretica universale, che in ciò si distinguerebbe ancoradalla esperienza come vita individuale.

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ogni scienza della natura, compresa una psicologia checerchi un soggetto dove tutto è soggetto; inutili, perchèsostituibili con la noètica, la quale sarebbe sola compe-tente a dirci come il mondo oggettivo si formi e si svol-ga in seno alla conoscenza medesima. È per questo cheil criticismo, a sua volta, dal Kant in poi, ha dichiaratola incapacità della psicologia a darci il concetto di sog-getto, anzi la impossibilità d'una scienza psicologica di-stinta dalla filosofia. Onde il curioso paradosso di filo-sofi che, incominciando dal Kant, fanno o presuppongo-no in ogni pagina quella psicologia, che pure hanno ne-gato.

La legittimità d'una psicologia – e quindi di tutte le«scienze morali» in quanto scienze – dipende dalla solu-zione di questo problema: come e in che senso il sogget-to, «oggetto» della psicologia generale in astratto e dellescienze morali più in concreto, può divenire, appunto,un oggetto, vale a dire un concetto reale?

La psiche dello psicologo non può esser diversadall'«io» empirico della coscienza comune. Ma, comedicemmo, «io», o sono la coscienza in atto, e in tal sen-so l'io è pratico, è soltanto sentito, e in tal modo oppo-sto agli oggetti (opposizione pratica da non confonderecon la «distinzione» teoretica degli oggetti fra loro),creando così una relazione di valore che chiamiamo vo-lontà, dove l'oggetto diviene il mezzo e il fine del senti-mento. In tal senso, non posso fare della psicologia chevivendo il soggetto e, per così dire, standoci dentro;però tal soggetto non è un conoscibile, non è una rap-

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ogni scienza della natura, compresa una psicologia checerchi un soggetto dove tutto è soggetto; inutili, perchèsostituibili con la noètica, la quale sarebbe sola compe-tente a dirci come il mondo oggettivo si formi e si svol-ga in seno alla conoscenza medesima. È per questo cheil criticismo, a sua volta, dal Kant in poi, ha dichiaratola incapacità della psicologia a darci il concetto di sog-getto, anzi la impossibilità d'una scienza psicologica di-stinta dalla filosofia. Onde il curioso paradosso di filo-sofi che, incominciando dal Kant, fanno o presuppongo-no in ogni pagina quella psicologia, che pure hanno ne-gato.

La legittimità d'una psicologia – e quindi di tutte le«scienze morali» in quanto scienze – dipende dalla solu-zione di questo problema: come e in che senso il sogget-to, «oggetto» della psicologia generale in astratto e dellescienze morali più in concreto, può divenire, appunto,un oggetto, vale a dire un concetto reale?

La psiche dello psicologo non può esser diversadall'«io» empirico della coscienza comune. Ma, comedicemmo, «io», o sono la coscienza in atto, e in tal sen-so l'io è pratico, è soltanto sentito, e in tal modo oppo-sto agli oggetti (opposizione pratica da non confonderecon la «distinzione» teoretica degli oggetti fra loro),creando così una relazione di valore che chiamiamo vo-lontà, dove l'oggetto diviene il mezzo e il fine del senti-mento. In tal senso, non posso fare della psicologia chevivendo il soggetto e, per così dire, standoci dentro;però tal soggetto non è un conoscibile, non è una rap-

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presentazione di qualcosa. Oppure noi diciamo «io» in-dicando qualcosa, una natura oggettiva, come quandodico «io parlo, io veggo», e questa realtà naturale nonpuò esser che il corpo, il senso fisiologico, rispetto a cuil'oggetto veduto o la parola detta, sono il sensibile fisi-co, qualunque altro valore acquisti poi come mezzo ofine del volere.

Penetrando ancor meglio il problema psicologico, sidovrebbe, coerentemente, giungere all'opinione di A.Comte, ch'era tutt'altro che superficiale: la psicologia, oè scienza della natura, scienza oggettiva, e in tal caso èbiologia; o è scienza morale – egli diceva «sociologia»per designare la storia in universale –, e allora è cono-scenza valutativa, riguardante non un «fatto» come na-tura, ma i fini e i valori esprimentisi in quel fatto (filoso-fia e storia), che noi affermiamo per partecipazione. Lapsicologia pura, come scienza oggettiva, è impossibile,proprio perchè l'«io» non è «in sè» universalmente: unatale oggettivazione è soltanto pratica o religiosa, ma teo-reticamente l'essere di un soggetto è un dover essere,una finalità ideale, non la sua causalità ed essenza reale.

Avrebbe dunque ragione la filosofia contemporaneadi abbandonare la psicologia come una pseudo scienzanaturale sostituendola con la storia che rivive i fini e ivalori soggettivi nel pensiero attuale che li pensa? Sì,avrebbe ragione, se potessimo rinunciare a pensare ob-biettivamente, a uscir di noi stessi, a realizzare i concet-ti, a sostituire la religione di Dio alla religione dell'io.Non potendo limitarci un solo istante al nostro io attua-

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presentazione di qualcosa. Oppure noi diciamo «io» in-dicando qualcosa, una natura oggettiva, come quandodico «io parlo, io veggo», e questa realtà naturale nonpuò esser che il corpo, il senso fisiologico, rispetto a cuil'oggetto veduto o la parola detta, sono il sensibile fisi-co, qualunque altro valore acquisti poi come mezzo ofine del volere.

Penetrando ancor meglio il problema psicologico, sidovrebbe, coerentemente, giungere all'opinione di A.Comte, ch'era tutt'altro che superficiale: la psicologia, oè scienza della natura, scienza oggettiva, e in tal caso èbiologia; o è scienza morale – egli diceva «sociologia»per designare la storia in universale –, e allora è cono-scenza valutativa, riguardante non un «fatto» come na-tura, ma i fini e i valori esprimentisi in quel fatto (filoso-fia e storia), che noi affermiamo per partecipazione. Lapsicologia pura, come scienza oggettiva, è impossibile,proprio perchè l'«io» non è «in sè» universalmente: unatale oggettivazione è soltanto pratica o religiosa, ma teo-reticamente l'essere di un soggetto è un dover essere,una finalità ideale, non la sua causalità ed essenza reale.

Avrebbe dunque ragione la filosofia contemporaneadi abbandonare la psicologia come una pseudo scienzanaturale sostituendola con la storia che rivive i fini e ivalori soggettivi nel pensiero attuale che li pensa? Sì,avrebbe ragione, se potessimo rinunciare a pensare ob-biettivamente, a uscir di noi stessi, a realizzare i concet-ti, a sostituire la religione di Dio alla religione dell'io.Non potendo limitarci un solo istante al nostro io attua-

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le, non potendo conoscere e pensare senza trascenderci,la filosofia ha riportato anche la natura allo spirito – lanatura è un modo dell'io perchè è un concetto –, e hapreso lo spirito come natura, come realtà conoscibileobbiettivamente. Difatti ha messo capo a un naturalismospiritualistico ch'è l'antico spiritualismo naturalistico ro-vesciato – come già avvenne per ragioni analoghe nellafilosofia del nostro Rinascimento di fronte alla scolasti-ca –: invero, la filosofia contemporanea, così arditamen-te contingentista e attualista per quanto riguarda il pro-blema cosmologico, pensa ancora l'anima come qualco-sa di reale, anzi l'unica cosa reale; sia poi che l'intenda,col contingentismo francese, come personalità, indivi-dualità del «continuo» psichico, che permetterebbe unmonoteismo metafisico; sia che l'intenda panteistica-mente, con l'hegelismo, come soggetto universale o spi-rito assoluto che si attua nel pensiero. Comunque, tuttoil conoscere allora si riduce a psicologia; questa è alloral'unica scienza possibile! Come cavare i piedi da questocontrosenso?

3. – La questione va ripresa da capo, fermandoci que-sta volta nel punto in cui lo psicologismo s'è infiltratonella filosofia contemporanea a sua insaputa e n'ha pre-giudicato la soluzione idealistica, facendola diventaresoltanto spiritualista.

La filosofia dopo Kant pàrte dall'esperienza; ed espe-rienza significa, in ultima analisi, presenza, esistenza,sensazione, comunque poi la si vàluti intèrpreti e cono-

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le, non potendo conoscere e pensare senza trascenderci,la filosofia ha riportato anche la natura allo spirito – lanatura è un modo dell'io perchè è un concetto –, e hapreso lo spirito come natura, come realtà conoscibileobbiettivamente. Difatti ha messo capo a un naturalismospiritualistico ch'è l'antico spiritualismo naturalistico ro-vesciato – come già avvenne per ragioni analoghe nellafilosofia del nostro Rinascimento di fronte alla scolasti-ca –: invero, la filosofia contemporanea, così arditamen-te contingentista e attualista per quanto riguarda il pro-blema cosmologico, pensa ancora l'anima come qualco-sa di reale, anzi l'unica cosa reale; sia poi che l'intenda,col contingentismo francese, come personalità, indivi-dualità del «continuo» psichico, che permetterebbe unmonoteismo metafisico; sia che l'intenda panteistica-mente, con l'hegelismo, come soggetto universale o spi-rito assoluto che si attua nel pensiero. Comunque, tuttoil conoscere allora si riduce a psicologia; questa è alloral'unica scienza possibile! Come cavare i piedi da questocontrosenso?

3. – La questione va ripresa da capo, fermandoci que-sta volta nel punto in cui lo psicologismo s'è infiltratonella filosofia contemporanea a sua insaputa e n'ha pre-giudicato la soluzione idealistica, facendola diventaresoltanto spiritualista.

La filosofia dopo Kant pàrte dall'esperienza; ed espe-rienza significa, in ultima analisi, presenza, esistenza,sensazione, comunque poi la si vàluti intèrpreti e cono-

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sca. L'esister della sensazione, e cioè la sensazione persè stessa, non è piuttosto un oggetto che un soggetto:codesti, anche per il Kant, sono concetti oppure idee chenoi formiamo sopra di lei, impliciti nelle percezioni,espliciti nella ragione: sono l'«essere» oppure il «doveressere» di quell'esistere; e, poeticamente parlando, sonola forma, logica oppure pratica, di quel sensibile, che nediventa il contenuto.

Ma, prima di tutto, c'è dunque un «noi» che forma iconcetti e le idee (compresa questa attuale del «noi»),che percepisce e ragiona? C'è un «io» prima o fuori delsensibile, necessario affinchè ci sia conoscenza, ossiarapporto di forma e contenuto: di forma, che allora di-venta il soggetto puro, e di contenuto, che per essa, nellasintesi conoscitiva, diventa oggetto? Eccoci in pienonella soluzione spiritualistica riaffacciatasi dopo Kant,la quale pone di fronte due esistenze, l'io e il sensibile; eper render possibile il loro rapporto, il loro divenirecome pensiero, le considera già della stessa natura, l'unacome «io puro», l'altra come «io empirico». Ma, o pren-diamo l'io puro come un trascendente, anteriore e in sèrispetto all'io empirico, alle esistenze sensibili, e cadia-mo nella contraddizione dell'affermare oggettivamentequalcosa ch'è toto coelo fuori dal nostro io empirico,dall'esperienza; o intendiamo l'io puro come immanentenell'empirico, e allora non può esistere realmente altroio che questo.

Difatti il Kant aveva lucidamente risolto la questionedell'impossibilità teoretica della dimostrazione dell'ani-

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sca. L'esister della sensazione, e cioè la sensazione persè stessa, non è piuttosto un oggetto che un soggetto:codesti, anche per il Kant, sono concetti oppure idee chenoi formiamo sopra di lei, impliciti nelle percezioni,espliciti nella ragione: sono l'«essere» oppure il «doveressere» di quell'esistere; e, poeticamente parlando, sonola forma, logica oppure pratica, di quel sensibile, che nediventa il contenuto.

Ma, prima di tutto, c'è dunque un «noi» che forma iconcetti e le idee (compresa questa attuale del «noi»),che percepisce e ragiona? C'è un «io» prima o fuori delsensibile, necessario affinchè ci sia conoscenza, ossiarapporto di forma e contenuto: di forma, che allora di-venta il soggetto puro, e di contenuto, che per essa, nellasintesi conoscitiva, diventa oggetto? Eccoci in pienonella soluzione spiritualistica riaffacciatasi dopo Kant,la quale pone di fronte due esistenze, l'io e il sensibile; eper render possibile il loro rapporto, il loro divenirecome pensiero, le considera già della stessa natura, l'unacome «io puro», l'altra come «io empirico». Ma, o pren-diamo l'io puro come un trascendente, anteriore e in sèrispetto all'io empirico, alle esistenze sensibili, e cadia-mo nella contraddizione dell'affermare oggettivamentequalcosa ch'è toto coelo fuori dal nostro io empirico,dall'esperienza; o intendiamo l'io puro come immanentenell'empirico, e allora non può esistere realmente altroio che questo.

Difatti il Kant aveva lucidamente risolto la questionedell'impossibilità teoretica della dimostrazione dell'ani-

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ma in sè, del puro soggetto come realmente esistente.Purtroppo nelle sue pagine si trova anche spesso il con-cetto teosofico di uno spirito che con le sue facoltà pre-sieda e gèneri le particolari attività soggettive, costituen-done la causa occulta, arbitraria reduplicazione dell'attoreale obbiettivato e preso in sè come un essere perma-nente sotto le sue manifestazioni fenomeniche: e sonqueste le infiltrazioni dello psicologismo nella filosofiacontemporanea alle quali alludevo. Ma restandoall'essenza della profonda innovazione kantiana, l'iopuro, la forma conoscitiva dei contenuti sensibili, non èche l'a priori, la loro trascendentalità – il loro valore – enon un altro io trascendente.

Kantianamente, esistono le intuizioni, il dato di fatto,le sintesi a posteriori; esistono cioè dei contenuti per sèarazionali, senza valore, nè oggettivo nè soggettivo; e iltermine «esistere» indica qui la presenza immediata, in-dipendente da «me», o almeno dall'io empirico, dal miovolere, e quindi anche da quel modo di volere ch'è il co-noscere teoretico. Pertanto l'intuizione kantiana, la pre-senza d'un sensibile dato, per sè non implica un soggettoche intuisce più un oggetto intuìto dal primo: quando ein quanto il soggetto intuisce l'oggetto intuito, non sia-mo più nel dato e fatto della sensazione in sè, ma siamosaliti alla sintesi spazio temporale, al farsi rappresentati-vo e formale dei contenuti, al loro primo oggettivarsireale per opera del soggetto formale.

Il soggetto formale kantiano non è un'esistenza (unasensazione, un'immagine, una parola), ma il dover esse-

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ma in sè, del puro soggetto come realmente esistente.Purtroppo nelle sue pagine si trova anche spesso il con-cetto teosofico di uno spirito che con le sue facoltà pre-sieda e gèneri le particolari attività soggettive, costituen-done la causa occulta, arbitraria reduplicazione dell'attoreale obbiettivato e preso in sè come un essere perma-nente sotto le sue manifestazioni fenomeniche: e sonqueste le infiltrazioni dello psicologismo nella filosofiacontemporanea alle quali alludevo. Ma restandoall'essenza della profonda innovazione kantiana, l'iopuro, la forma conoscitiva dei contenuti sensibili, non èche l'a priori, la loro trascendentalità – il loro valore – enon un altro io trascendente.

Kantianamente, esistono le intuizioni, il dato di fatto,le sintesi a posteriori; esistono cioè dei contenuti per sèarazionali, senza valore, nè oggettivo nè soggettivo; e iltermine «esistere» indica qui la presenza immediata, in-dipendente da «me», o almeno dall'io empirico, dal miovolere, e quindi anche da quel modo di volere ch'è il co-noscere teoretico. Pertanto l'intuizione kantiana, la pre-senza d'un sensibile dato, per sè non implica un soggettoche intuisce più un oggetto intuìto dal primo: quando ein quanto il soggetto intuisce l'oggetto intuito, non sia-mo più nel dato e fatto della sensazione in sè, ma siamosaliti alla sintesi spazio temporale, al farsi rappresentati-vo e formale dei contenuti, al loro primo oggettivarsireale per opera del soggetto formale.

Il soggetto formale kantiano non è un'esistenza (unasensazione, un'immagine, una parola), ma il dover esse-

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re o valore di questa esistenza, ciò che essa deve e quin-di può rappresentare. La sensazione, la sintesi a poste-riori, l'unità contingente e casuale di dati intuitivi, rinviaa una «cosa in sè», a una obbiettività assoluta ch'è la sua«ragione» immanente. Lo spazio, il tempo e le categoriesono le forme soggettive delle unificazioni obbiettivetendenti a raggiungere il valore reale, la cosa in sè; sonosoggettive non per un loro proprio carattere psicologicodiverso dalla oggettività, ma per la loro limitatezza, per-chè sono esperienza sempre particolare benchè rivoltaall'universale. Se l'intuizione sensibile, l'esistere, potesseraggiunger di colpo il suo dover essere, la cosa in sè, laragione, sparirebbe il soggetto formale, la conoscenza, eci sarebbe l'oggetto reale, l'assoluto (ciò che aspira araggiunger l'intuizione religiosa). Infatti dalla filosofiakantiana si deduce a rigore che il soggetto (formale, os-sia conoscitivo) si attua negli oggetti, è reale quandonon è più soggetto puro ma un suo oggetto; l'esistenzaappartiene solo a questo.

Ma non v'è anche, come già ci chiedemmo, presso ilKant, un soggetto reale? Il soggetto formale, il dover es-sere, non si realizza nell'essere, e questo non è dunquetutto e soltanto soggetto (idealismo)? Non sarebbe quin-di più logico chiamare Oggetto il puro dover essere as-soluto, l'obbiettività pura in sè, e chiamar soggetto il di-venire reale, l'esperienza?

Ripetiàmoci prima che cosa possa significare per ilcriticismo il termine «reale». Reali sono i concetti teore-tici, i concetti in quanto «veri»; alias, i concetti che val-

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re o valore di questa esistenza, ciò che essa deve e quin-di può rappresentare. La sensazione, la sintesi a poste-riori, l'unità contingente e casuale di dati intuitivi, rinviaa una «cosa in sè», a una obbiettività assoluta ch'è la sua«ragione» immanente. Lo spazio, il tempo e le categoriesono le forme soggettive delle unificazioni obbiettivetendenti a raggiungere il valore reale, la cosa in sè; sonosoggettive non per un loro proprio carattere psicologicodiverso dalla oggettività, ma per la loro limitatezza, per-chè sono esperienza sempre particolare benchè rivoltaall'universale. Se l'intuizione sensibile, l'esistere, potesseraggiunger di colpo il suo dover essere, la cosa in sè, laragione, sparirebbe il soggetto formale, la conoscenza, eci sarebbe l'oggetto reale, l'assoluto (ciò che aspira araggiunger l'intuizione religiosa). Infatti dalla filosofiakantiana si deduce a rigore che il soggetto (formale, os-sia conoscitivo) si attua negli oggetti, è reale quandonon è più soggetto puro ma un suo oggetto; l'esistenzaappartiene solo a questo.

Ma non v'è anche, come già ci chiedemmo, presso ilKant, un soggetto reale? Il soggetto formale, il dover es-sere, non si realizza nell'essere, e questo non è dunquetutto e soltanto soggetto (idealismo)? Non sarebbe quin-di più logico chiamare Oggetto il puro dover essere as-soluto, l'obbiettività pura in sè, e chiamar soggetto il di-venire reale, l'esperienza?

Ripetiàmoci prima che cosa possa significare per ilcriticismo il termine «reale». Reali sono i concetti teore-tici, i concetti in quanto «veri»; alias, i concetti che val-

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gono per le esistenze. Reale è l'essere; e l'essere, critica-mente risolto, è il dover essere dell'esistere, implicitonella percezione, esplicito nel pensiero. I concetti reali,nell'accezione comune della parola, sono i concetti veripossibili, le sintesi dell'esperienza; quei concetti chepossono esser rappresentati dalle esistenze sensibili, in-tuitivamente. È la certezza intuitiva, la presenza deldato, che li rende obbiettivamente veri, per quanto tra-scendentali. Non posso dire che una cosa è quella cosase prima di tutto non esiste in qualche modo riducibileall'esperienza.

In tali limiti, reali sono i concetti empirici (i giudiziriflettenti l'esperienza): il concetto storico, che determi-na un fatto come quel fatto, singolarmente (concettoperchè universale nel valore); e il concetto di natura, chelo determina generalmente, anche per l'avvenire, risalen-do alla ragione, reale come causa (necessità di natura).

Arrestiàmoci per ora a questo punto. Sono possibilidei concetti psicologici, dei concetti reali, obbiettivi delsoggetto come natura (soggetto empirico)? È possibilela psicologia, sia essa descrittiva e individuale, sia essascientifica e generale? Per avere dei concetti psicologicibisogna che ci sia un'esperienza soggettiva, che un talcarattere si presenti sensibilmente, distinto e unito comeparte della realtà obbiettiva che diciamo natura e possapertanto divenire il contenuto del pensiero teoretico. Inquesta ricerca del proprio contenuto la psicologia hasempre smarrito la strada, ora trovandosi su quella dellafilosofia col parlare del soggetto come valore, dover es-

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gono per le esistenze. Reale è l'essere; e l'essere, critica-mente risolto, è il dover essere dell'esistere, implicitonella percezione, esplicito nel pensiero. I concetti reali,nell'accezione comune della parola, sono i concetti veripossibili, le sintesi dell'esperienza; quei concetti chepossono esser rappresentati dalle esistenze sensibili, in-tuitivamente. È la certezza intuitiva, la presenza deldato, che li rende obbiettivamente veri, per quanto tra-scendentali. Non posso dire che una cosa è quella cosase prima di tutto non esiste in qualche modo riducibileall'esperienza.

In tali limiti, reali sono i concetti empirici (i giudiziriflettenti l'esperienza): il concetto storico, che determi-na un fatto come quel fatto, singolarmente (concettoperchè universale nel valore); e il concetto di natura, chelo determina generalmente, anche per l'avvenire, risalen-do alla ragione, reale come causa (necessità di natura).

Arrestiàmoci per ora a questo punto. Sono possibilidei concetti psicologici, dei concetti reali, obbiettivi delsoggetto come natura (soggetto empirico)? È possibilela psicologia, sia essa descrittiva e individuale, sia essascientifica e generale? Per avere dei concetti psicologicibisogna che ci sia un'esperienza soggettiva, che un talcarattere si presenti sensibilmente, distinto e unito comeparte della realtà obbiettiva che diciamo natura e possapertanto divenire il contenuto del pensiero teoretico. Inquesta ricerca del proprio contenuto la psicologia hasempre smarrito la strada, ora trovandosi su quella dellafilosofia col parlare del soggetto come valore, dover es-

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sere e forma di tutti gli oggetti e prendendo questo po-stulato come una causa naturale; ora infilando la via del-le scienze naturali col distinguere obbiettivamente, fa-voleggiando di «percezioni interne ed esterne», deglioggetti soggettivi e oggettivi; come se tutte le percezioninon fossero ugualmente tali, e cioè soggettive in quantosoggettivanti e obbiettive in quanto obbiettivanti il lorounico contenuto, la sensazione. A sua volta la filosofia,credendo che la psicologia abbia dimostrato l'esistenzad'una causa psichica dell'esperienza, ha preso da lei que-sta mai data prova dell'essenza soggettiva di ogni altroessere.

In tal modo, la psicologia divenne la scienza delle«facoltà»; la psiche, il soggetto, sarebbe l'attività nota diignote facoltà del sentire, del conoscere e del volere, cheprodurrebbero gli oggetti, prima come sensazioni, poicome immagini e idee: sostanzialismo che lascia le coseal punto di prima, come il materialismo naturalistico cheparlasse di ignote forze già esistenti che producono leforze vive, le reali forme dei rapporti dinamici. Il Kantsi trovava ancora in questa atmosfera riguardo al proble-ma della scienza; ma non è oggi compatibile che si ap-plichino al soggetto quei concetti, – come il concetto dicausa causante e di sostrato materiale – che le scienze,sotto l'influenza appunto del criticismo, hanno abbando-nato anche rispetto alla forza e alla materia. Le scienze,ripetiàmolo ancora, cercano l'essere del divenire feno-menico nei costanti rapporti fra i sensibili analizzati eunificati in concetti, simboli di un'unità razionale, di un

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sere e forma di tutti gli oggetti e prendendo questo po-stulato come una causa naturale; ora infilando la via del-le scienze naturali col distinguere obbiettivamente, fa-voleggiando di «percezioni interne ed esterne», deglioggetti soggettivi e oggettivi; come se tutte le percezioninon fossero ugualmente tali, e cioè soggettive in quantosoggettivanti e obbiettive in quanto obbiettivanti il lorounico contenuto, la sensazione. A sua volta la filosofia,credendo che la psicologia abbia dimostrato l'esistenzad'una causa psichica dell'esperienza, ha preso da lei que-sta mai data prova dell'essenza soggettiva di ogni altroessere.

In tal modo, la psicologia divenne la scienza delle«facoltà»; la psiche, il soggetto, sarebbe l'attività nota diignote facoltà del sentire, del conoscere e del volere, cheprodurrebbero gli oggetti, prima come sensazioni, poicome immagini e idee: sostanzialismo che lascia le coseal punto di prima, come il materialismo naturalistico cheparlasse di ignote forze già esistenti che producono leforze vive, le reali forme dei rapporti dinamici. Il Kantsi trovava ancora in questa atmosfera riguardo al proble-ma della scienza; ma non è oggi compatibile che si ap-plichino al soggetto quei concetti, – come il concetto dicausa causante e di sostrato materiale – che le scienze,sotto l'influenza appunto del criticismo, hanno abbando-nato anche rispetto alla forza e alla materia. Le scienze,ripetiàmolo ancora, cercano l'essere del divenire feno-menico nei costanti rapporti fra i sensibili analizzati eunificati in concetti, simboli di un'unità razionale, di un

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dover essere assoluto, che però esiste qual semplice fineo esigenza soggettiva teoretica: se mai, è di questa sog-gettività che ci dovrebbe parlare la psicologia. Come nepuò parlare oggettivamente, concettualmente? Questo èil problema psicologico.

4. – Secondo me, il problema psicologico non è dun-que che un problema di metodo. Il primo errore di meto-do s'incontra fin dall'inizio d'ogni psicologia sedicenteobbiettiva e scientifica in ciò che notammo in principiodi questo capitolo, nel presumere cioè che le stesse esi-stenze sensibili siano già di natura psichica, prima di de-terminare questa natura come concetto per analisi e sin-tesi sopra i sensibili. Ciò vizia tutto il processo, assu-mendo come proprio oggetto l'oggetto medesimo di tut-te le altre scienze, anzi di tutte le conoscenze, rendendo-le vane e soggettive. Ma siccome diventa vana ancheuna psicologia in un mondo tutto psichico, per distin-guere e connettere obbiettivamente ciò ch'è psichico conciò ch'è fisico e fisiologico si cade in un secondo errore,di considerare il soggetto come un reale oggettivo in re-lazione di causa effetto con gli altri (o almeno di paral-lelismo): il che finisce con l'abolire la stessa soggettivitàe finalità, trasportandola come causa occulta e miracolo-sa nel campo delle altre scienze, e specialmente di quel-le biologiche (vitalismo) e fisiologiche, alcune dellequali portan già impresso nel loro nome (per es. di «psi-cofisiologia» o «psicopatologia») l'equivoco iniziale.

Incomincio dunque col correggere alcune di queste

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dover essere assoluto, che però esiste qual semplice fineo esigenza soggettiva teoretica: se mai, è di questa sog-gettività che ci dovrebbe parlare la psicologia. Come nepuò parlare oggettivamente, concettualmente? Questo èil problema psicologico.

4. – Secondo me, il problema psicologico non è dun-que che un problema di metodo. Il primo errore di meto-do s'incontra fin dall'inizio d'ogni psicologia sedicenteobbiettiva e scientifica in ciò che notammo in principiodi questo capitolo, nel presumere cioè che le stesse esi-stenze sensibili siano già di natura psichica, prima di de-terminare questa natura come concetto per analisi e sin-tesi sopra i sensibili. Ciò vizia tutto il processo, assu-mendo come proprio oggetto l'oggetto medesimo di tut-te le altre scienze, anzi di tutte le conoscenze, rendendo-le vane e soggettive. Ma siccome diventa vana ancheuna psicologia in un mondo tutto psichico, per distin-guere e connettere obbiettivamente ciò ch'è psichico conciò ch'è fisico e fisiologico si cade in un secondo errore,di considerare il soggetto come un reale oggettivo in re-lazione di causa effetto con gli altri (o almeno di paral-lelismo): il che finisce con l'abolire la stessa soggettivitàe finalità, trasportandola come causa occulta e miracolo-sa nel campo delle altre scienze, e specialmente di quel-le biologiche (vitalismo) e fisiologiche, alcune dellequali portan già impresso nel loro nome (per es. di «psi-cofisiologia» o «psicopatologia») l'equivoco iniziale.

Incomincio dunque col correggere alcune di queste

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storture metodologiche, discutendone in concreto, nelcampo delle relative scienze naturali. L'esempio delBergson mi conforta specialmente alla revisione delpunto di vista fisiologico: ma il lettore filosofo non cre-da che sia senza importanza filosofica liberare dallo psi-cologismo il concetto scientifico, p. es., di «senso» e di«memoria»! Chi sa quanto influisca nascostamente so-pra il soggettivismo filosofico l'aver appreso fin da ra-gazzi che ci sarebbero dei centri psichici che «ricevono»la sensazione e «producono» il movimento; oppure cheun'immagine sarebbe di natura psicologica? Non siamomolto distanti dalla «ghiandola pineale» di Cartesio...

In verità, quando dico: «io» veggo questo bianco escrivo questo nero, non parlo di un io che riceva o facciaqualcosa di altro e di fuori da lui – di una natura che di-venti spirito e viceversa –, parlo proprio di questa sensa-zione già data e presente come bianco movimento neroecc. Di qui incomincia così la mia coscienza come lamia conoscenza: la mia coscienza è il sentire l'esistenzadi bianco o di sforzo motorio come presenza e necessitàdi fatto (certezza) alla quale il sentimento stesso s'oppo-ne praticamente, aspirando a qualcos'altro che non è(per es. al nero) ma dev'essere – in filosofia si dice, chel'io afferma sè stesso (trascendentalmente) negandosicome non io –; la mia conoscenza è, al contrario, il ri-torno all'esistenze, l'adeguare la praticità o finalità sog-gettiva alla necessità delle esistenze obbiettive; il «por-re», come dicon i filosofi, l'oggetto per negazione (omeglio, limitazione) del soggetto. Allora, o rinunciamo

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storture metodologiche, discutendone in concreto, nelcampo delle relative scienze naturali. L'esempio delBergson mi conforta specialmente alla revisione delpunto di vista fisiologico: ma il lettore filosofo non cre-da che sia senza importanza filosofica liberare dallo psi-cologismo il concetto scientifico, p. es., di «senso» e di«memoria»! Chi sa quanto influisca nascostamente so-pra il soggettivismo filosofico l'aver appreso fin da ra-gazzi che ci sarebbero dei centri psichici che «ricevono»la sensazione e «producono» il movimento; oppure cheun'immagine sarebbe di natura psicologica? Non siamomolto distanti dalla «ghiandola pineale» di Cartesio...

In verità, quando dico: «io» veggo questo bianco escrivo questo nero, non parlo di un io che riceva o facciaqualcosa di altro e di fuori da lui – di una natura che di-venti spirito e viceversa –, parlo proprio di questa sensa-zione già data e presente come bianco movimento neroecc. Di qui incomincia così la mia coscienza come lamia conoscenza: la mia coscienza è il sentire l'esistenzadi bianco o di sforzo motorio come presenza e necessitàdi fatto (certezza) alla quale il sentimento stesso s'oppo-ne praticamente, aspirando a qualcos'altro che non è(per es. al nero) ma dev'essere – in filosofia si dice, chel'io afferma sè stesso (trascendentalmente) negandosicome non io –; la mia conoscenza è, al contrario, il ri-torno all'esistenze, l'adeguare la praticità o finalità sog-gettiva alla necessità delle esistenze obbiettive; il «por-re», come dicon i filosofi, l'oggetto per negazione (omeglio, limitazione) del soggetto. Allora, o rinunciamo

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alla conoscenza teoretica (al nostro dover essere reale)per vivere praticamente la vita soggettiva, e neghiamo lanatura; o vogliamo conoscere la natura, la necessità rea-le, le esistenti condizioni di fatto, gli esistenti rapporticausali per cui avviene qualcosa che soggettivamentevale d'un valore teoretico oltre che pratico, e dobbiamocercare tutto ciò nei contenuti sensibili e non nelle pureforme ideali. La natura dello spirito non può esser chenatura; la natura dell'anima non può esser che il corpo;la natura dei sensibili non può esser che quel loro rap-porto tutto oggettivo, che si chiama il senso.

Lo studio del senso è di esclusiva competenza del fi-siologo, non dello psicologo, perchè non si tratta di sta-bilire che cosa è la psiche in quanto soggettività e co-scienza, ma che cos'è la sensazione in quanto rapportooggettivo, in quanto condizione organica dell'esistere diuna sensazione. Il fisiologo si trova di fronte a un «fat-to», l'eccitazione nervosa, misterioso ancora circa la suapropria natura fisico chimica, ma ben chiaro in ciò chequi importa, ossia ne' suoi rapporti funzionali con gli sti-moli esterni e col restante organismo. Questa funzione siriduce al rapporto sensorio-motorio, di cui l'arco riflessoè il tipo. Lo schema istologico d'un sistema nervoso èanzi una cellula, che co' suoi prolungamenti protopla-smatici sia esposta all'azione di stimoli esterni o interniall'organismo (organo sensorio periferico) e col suo ci-lindrasse raggiunga i prolungamenti protoplasmaticid'un'altra cellula, di cui il cilindrasse metta capo a un or-gano motorio o secretivo.

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alla conoscenza teoretica (al nostro dover essere reale)per vivere praticamente la vita soggettiva, e neghiamo lanatura; o vogliamo conoscere la natura, la necessità rea-le, le esistenti condizioni di fatto, gli esistenti rapporticausali per cui avviene qualcosa che soggettivamentevale d'un valore teoretico oltre che pratico, e dobbiamocercare tutto ciò nei contenuti sensibili e non nelle pureforme ideali. La natura dello spirito non può esser chenatura; la natura dell'anima non può esser che il corpo;la natura dei sensibili non può esser che quel loro rap-porto tutto oggettivo, che si chiama il senso.

Lo studio del senso è di esclusiva competenza del fi-siologo, non dello psicologo, perchè non si tratta di sta-bilire che cosa è la psiche in quanto soggettività e co-scienza, ma che cos'è la sensazione in quanto rapportooggettivo, in quanto condizione organica dell'esistere diuna sensazione. Il fisiologo si trova di fronte a un «fat-to», l'eccitazione nervosa, misterioso ancora circa la suapropria natura fisico chimica, ma ben chiaro in ciò chequi importa, ossia ne' suoi rapporti funzionali con gli sti-moli esterni e col restante organismo. Questa funzione siriduce al rapporto sensorio-motorio, di cui l'arco riflessoè il tipo. Lo schema istologico d'un sistema nervoso èanzi una cellula, che co' suoi prolungamenti protopla-smatici sia esposta all'azione di stimoli esterni o interniall'organismo (organo sensorio periferico) e col suo ci-lindrasse raggiunga i prolungamenti protoplasmaticid'un'altra cellula, di cui il cilindrasse metta capo a un or-gano motorio o secretivo.

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Tutto ciò si complica, non soltanto con l'unirsi dellecellule in gangli (gangli sensori periferici e motori estra-midollari) e delle fibre in nervi (sensori e motori), masopratutto per l'interporsi di centri cellulari – diretti (mi-dollo, bulbo, gangli della base), o indiretti (cervello su-periore e cervelletto) –, collegati, quelli diretti o inferio-ri, ciascuno da una parte all'organo sensorio e dall'altra aquello motorio, e quelli indiretti o superiori collegati aiprimi, nonchè sempre collegati fra loro, per mezzo di fa-sci fibrosi, che uniscono a ciascun livello il centro sen-sorio con quello motorio, e, per le vie lunghe, i centrisensori e motori, diretti e indiretti, fra di loro.

Ma per quanto molteplice e complesso, l'unità morfo-logica del sistema è evidente, com'è evidente la gerar-chia dei centri, quelli inferiori a cui giungono e da cuipartono le vie nervose periferiche, sotto quelli cerebraliconnessi con loro; e, nel cervello stesso, dei centri sen-sorio motoriali, perchè connessi coi nuclei grigi dellabase e del bulbo, rispetto a quelli frontali, connessi sol-tanto coi detti centri corticali del cervello medio e poste-riore.

La ricerca fisiologica dovrebb'essere pertanto orienta-ta secondo una concezione unitaria della funzionalitànervosa, così riguardo alla coesistenza delle eccitazioni(la sintesi a posteriori dei sensibili), come alla legge delloro riprodursi nel tempo (la memoria). Ciò non toglienulla alla specificità, reale o presunta, dei centri nervosi,che se mai spiegherà in subordine le specifiche differen-ze sensoriali e motoriali. Ma, insomma, esistono due

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Tutto ciò si complica, non soltanto con l'unirsi dellecellule in gangli (gangli sensori periferici e motori estra-midollari) e delle fibre in nervi (sensori e motori), masopratutto per l'interporsi di centri cellulari – diretti (mi-dollo, bulbo, gangli della base), o indiretti (cervello su-periore e cervelletto) –, collegati, quelli diretti o inferio-ri, ciascuno da una parte all'organo sensorio e dall'altra aquello motorio, e quelli indiretti o superiori collegati aiprimi, nonchè sempre collegati fra loro, per mezzo di fa-sci fibrosi, che uniscono a ciascun livello il centro sen-sorio con quello motorio, e, per le vie lunghe, i centrisensori e motori, diretti e indiretti, fra di loro.

Ma per quanto molteplice e complesso, l'unità morfo-logica del sistema è evidente, com'è evidente la gerar-chia dei centri, quelli inferiori a cui giungono e da cuipartono le vie nervose periferiche, sotto quelli cerebraliconnessi con loro; e, nel cervello stesso, dei centri sen-sorio motoriali, perchè connessi coi nuclei grigi dellabase e del bulbo, rispetto a quelli frontali, connessi sol-tanto coi detti centri corticali del cervello medio e poste-riore.

La ricerca fisiologica dovrebb'essere pertanto orienta-ta secondo una concezione unitaria della funzionalitànervosa, così riguardo alla coesistenza delle eccitazioni(la sintesi a posteriori dei sensibili), come alla legge delloro riprodursi nel tempo (la memoria). Ciò non toglienulla alla specificità, reale o presunta, dei centri nervosi,che se mai spiegherà in subordine le specifiche differen-ze sensoriali e motoriali. Ma, insomma, esistono due

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grandi leggi che dominano (o dovrebber dominare) tuttala fisiologia nervosa: l'unità funzionale; deducibile an-che dalla concatenazione morfologica e istologica, diret-ta e indiretta; e la coordinazione o adattabilità funziona-le nei tempo (memoria organica). Esse bastano a spiega-re scientificamente e naturalisticamente perchè – vale adire, in quali condizioni di fatto – i sensibili, che l'anali-si poi divide, si presentano contigui e successivi nellospazio e nel tempo, formando l'unità a posteriori dellasensazione, senza intervento d'un misterioso soggettopuro che prima crea i sensibili e poi li riunisce. La sinte-si conoscitiva, come s'è visto, è tutt'altra cosa: è una sin-tesi nel valore logico; e l'operazione conoscitiva nondeve creare nè riunire quello che già esiste, ma valutarloe analizzarlo.

5. – L'unità funzionale nervosa ci si presenta comerapporto sensorio motorio di cui l'arco riflesso, diceva-mo, è il tipo; ma è chiaro che, fin quando rimangono in-tatte le vie lunghe, l'eccitazione d'una parte si ripercuo-te, o tende a ripercuotersi (come «innervazione») sullealtre, ognuna delle quali reagirà nei modi determinatidalle sue peculiari relazioni anatomo fisiologiche. Ciòvien riprovato con l'osservare le risonanze, per così dire,di organi anche lontani e non direttamente interessatiallo stimolo e all'atto dell'organo eccitato; o meglio an-cora si può dire, che tutto l'organismo partecipa semprepiù o meno a ciascuna sua funzione. In particolareesempio, che ci servirà più sotto, le costanti perturbazio-

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grandi leggi che dominano (o dovrebber dominare) tuttala fisiologia nervosa: l'unità funzionale; deducibile an-che dalla concatenazione morfologica e istologica, diret-ta e indiretta; e la coordinazione o adattabilità funziona-le nei tempo (memoria organica). Esse bastano a spiega-re scientificamente e naturalisticamente perchè – vale adire, in quali condizioni di fatto – i sensibili, che l'anali-si poi divide, si presentano contigui e successivi nellospazio e nel tempo, formando l'unità a posteriori dellasensazione, senza intervento d'un misterioso soggettopuro che prima crea i sensibili e poi li riunisce. La sinte-si conoscitiva, come s'è visto, è tutt'altra cosa: è una sin-tesi nel valore logico; e l'operazione conoscitiva nondeve creare nè riunire quello che già esiste, ma valutarloe analizzarlo.

5. – L'unità funzionale nervosa ci si presenta comerapporto sensorio motorio di cui l'arco riflesso, diceva-mo, è il tipo; ma è chiaro che, fin quando rimangono in-tatte le vie lunghe, l'eccitazione d'una parte si ripercuo-te, o tende a ripercuotersi (come «innervazione») sullealtre, ognuna delle quali reagirà nei modi determinatidalle sue peculiari relazioni anatomo fisiologiche. Ciòvien riprovato con l'osservare le risonanze, per così dire,di organi anche lontani e non direttamente interessatiallo stimolo e all'atto dell'organo eccitato; o meglio an-cora si può dire, che tutto l'organismo partecipa semprepiù o meno a ciascuna sua funzione. In particolareesempio, che ci servirà più sotto, le costanti perturbazio-

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ni della circolazione e della respirazione in occasione diqualunque eccitazione – i cosiddetti «concomitanti orga-nici» dell'emozione (cuore polso respirazione acceleratio ritardati, intensificati o indeboliti), onde derivano inparte le reazioni «espressive» (come pallore e rossore,sospiro e grido) – si spiegano con la legge, deducibiledalla precedente, che allorquando un centro è già in fun-zione (come questi della circolazione e respirazione), èil primo a risentire l'entrare in funzione d'un altro cen-tro, che v'influisce sovreccitando o inibendo la funzionein atto del primo a preferenza di quella d'un altro centroin riposo.

Ma v'ha di più. Se paragoniamo l'eccitazione nervosa,in sè medesima, a una «corrente» (ciò che si suol fareusando di un'immagine comoda per la sua intuitività),non la si deve pensare centripeta – come induce a crede-re un vieto preconcetto di un'anima centrale che attendalà gli stimoli –, ma centrifuga, proprio come si concepi-sce la scarica d'un potenziale elettrico al contatto d'unapunta metallica. Intendo dire, che scientificamente con-viene meglio immaginare che la corrente nervosa, in oc-casione d'uno stimolo – fisico (tattile, termico), chimico(olfattivo, gustativo), fotochimico (visivo), meccanico(uditivo), organico (cinetico, dolorifico, viscerale, cene-stetico) o altro che sia, designando con questi aggettivila natura dello stimolo –, gli vada, per così dire, incon-tro, dal centro all'organo periferico, e non viceversa:l'idea che un color rosso o un suono «do» debban diven-tare rosso e «do» arrivando ad un centro cosciente, per

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ni della circolazione e della respirazione in occasione diqualunque eccitazione – i cosiddetti «concomitanti orga-nici» dell'emozione (cuore polso respirazione acceleratio ritardati, intensificati o indeboliti), onde derivano inparte le reazioni «espressive» (come pallore e rossore,sospiro e grido) – si spiegano con la legge, deducibiledalla precedente, che allorquando un centro è già in fun-zione (come questi della circolazione e respirazione), èil primo a risentire l'entrare in funzione d'un altro cen-tro, che v'influisce sovreccitando o inibendo la funzionein atto del primo a preferenza di quella d'un altro centroin riposo.

Ma v'ha di più. Se paragoniamo l'eccitazione nervosa,in sè medesima, a una «corrente» (ciò che si suol fareusando di un'immagine comoda per la sua intuitività),non la si deve pensare centripeta – come induce a crede-re un vieto preconcetto di un'anima centrale che attendalà gli stimoli –, ma centrifuga, proprio come si concepi-sce la scarica d'un potenziale elettrico al contatto d'unapunta metallica. Intendo dire, che scientificamente con-viene meglio immaginare che la corrente nervosa, in oc-casione d'uno stimolo – fisico (tattile, termico), chimico(olfattivo, gustativo), fotochimico (visivo), meccanico(uditivo), organico (cinetico, dolorifico, viscerale, cene-stetico) o altro che sia, designando con questi aggettivila natura dello stimolo –, gli vada, per così dire, incon-tro, dal centro all'organo periferico, e non viceversa:l'idea che un color rosso o un suono «do» debban diven-tare rosso e «do» arrivando ad un centro cosciente, per

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arcana materialistica o teosofica virtù di elementi nervo-si specifici della luce o del suono, ha fatto perdere de-cenni di lavoro, dal Gall in poi, faticosamente correg-gendosi l'irragionevolezza di quella veduta nelle più re-centi ricerche avviate a considerare i centri piuttostocome risonatori e coordinatori, per sè generici e vica-rianti, delle specifiche eccitazioni periferiche.

I centri nervosi sono i nuclei cellulari più direttamen-te connessi a questo o quell'organo periferico; giustoquindi pensare, come l'esperimentazione conferma, chepresiedano alla funzione sensoria e motoria del corri-spondente organo periferico; e nessuna meraviglia che,asportando o ledendo un centro, s'abolisca o si turbi lafunzionalità di quegli organi che gli son connessi e su-bordinati. Ciò non soltanto perchè i centri sono troficied energetici – come la cellula in genere rispetto alla fi-bra – ma anche perchè sono gli organi di coordinazionesimultanea e successiva, motoriale e sensorio motoria,nonchè. quelli più indiretti di controllo (sovreccitazionee inibizione) dei primi. Ma se un dato centro forniscel'energia necessaria alla delicata funzione d'un dato or-gano (per es. uditivo) a lui connesso; se ne unifica le ec-citazioni condizionando in tal modo la forma sensibile(per es. il timbro dì quel «do», la sua durata e il suo tonoin relazione agli altri suoni), e inoltre unifica, ossiacoordina questa eccitazione a possibili eccitazioni moto-rie (come volgere la testa) e ad altre possibili sensorie(per es. visive), tutto ciò non va confuso con la funzionepropria dell'organo periferico (per es. della coclea

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arcana materialistica o teosofica virtù di elementi nervo-si specifici della luce o del suono, ha fatto perdere de-cenni di lavoro, dal Gall in poi, faticosamente correg-gendosi l'irragionevolezza di quella veduta nelle più re-centi ricerche avviate a considerare i centri piuttostocome risonatori e coordinatori, per sè generici e vica-rianti, delle specifiche eccitazioni periferiche.

I centri nervosi sono i nuclei cellulari più direttamen-te connessi a questo o quell'organo periferico; giustoquindi pensare, come l'esperimentazione conferma, chepresiedano alla funzione sensoria e motoria del corri-spondente organo periferico; e nessuna meraviglia che,asportando o ledendo un centro, s'abolisca o si turbi lafunzionalità di quegli organi che gli son connessi e su-bordinati. Ciò non soltanto perchè i centri sono troficied energetici – come la cellula in genere rispetto alla fi-bra – ma anche perchè sono gli organi di coordinazionesimultanea e successiva, motoriale e sensorio motoria,nonchè. quelli più indiretti di controllo (sovreccitazionee inibizione) dei primi. Ma se un dato centro forniscel'energia necessaria alla delicata funzione d'un dato or-gano (per es. uditivo) a lui connesso; se ne unifica le ec-citazioni condizionando in tal modo la forma sensibile(per es. il timbro dì quel «do», la sua durata e il suo tonoin relazione agli altri suoni), e inoltre unifica, ossiacoordina questa eccitazione a possibili eccitazioni moto-rie (come volgere la testa) e ad altre possibili sensorie(per es. visive), tutto ciò non va confuso con la funzionepropria dell'organo periferico (per es. della coclea

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dell'apparato uditivo): qui soltanto esistono le condizio-ni affinchè, per es., la vibrazione meccanica trasmessadall'aria all'endolinfa per le vibrazioni delle membraneuditive, entri in rapporto, meccanico appunto, con l'ecci-tabilità nervosa.

Insomma, io dico, uno stimolo è quello che dev'essereper essere il tale stimolo. È meccanico, come il suono;fotochimico, come la luce; chimico, come il sapore el'odore; fisico come la temperatura o la pressione; orga-nico come lo sforzo d'un muscolo o il lacerarsi d'un tes-suto? Non lo può diventare, nè importa che lo diventi,unicamente in un centro di natura fisiologica, perchè al-lora diviene incomprensibile e assurdo che una funzionefisiologica crei una natura meccanica fisica chimica ecc.O si negano tutte le scienze della natura, o si cercanonell'organo periferico le condizioni per cui il sistemanervoso possa entrare in quel rapporto con l'ambiente,ossia col cosmo, che si attua come la tal sensazione disuono «do» o di rosso o d'amaro o di movimento; e cheil fisico chimico, analizzandola, può definire meccanicao fotochimica ecc. per certe sue qualità di tal natura, e ilfisiologo definirà organica, o meglio nervosa in quanto èun'eccitazione che diviene motoriale. L'unità nervosa in-fatti consente che la corrente, che dai centri corre incon-tro a quello stimolo, coordinatamente innervi quei mu-scoli che agiscono per riflesso, percorrendo cioè le viedelle connessioni più pervie. Ogni scienza deve rimane-re nel suo particolare dominio.

La scienza della natura non è la metafisica, e nemme-

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dell'apparato uditivo): qui soltanto esistono le condizio-ni affinchè, per es., la vibrazione meccanica trasmessadall'aria all'endolinfa per le vibrazioni delle membraneuditive, entri in rapporto, meccanico appunto, con l'ecci-tabilità nervosa.

Insomma, io dico, uno stimolo è quello che dev'essereper essere il tale stimolo. È meccanico, come il suono;fotochimico, come la luce; chimico, come il sapore el'odore; fisico come la temperatura o la pressione; orga-nico come lo sforzo d'un muscolo o il lacerarsi d'un tes-suto? Non lo può diventare, nè importa che lo diventi,unicamente in un centro di natura fisiologica, perchè al-lora diviene incomprensibile e assurdo che una funzionefisiologica crei una natura meccanica fisica chimica ecc.O si negano tutte le scienze della natura, o si cercanonell'organo periferico le condizioni per cui il sistemanervoso possa entrare in quel rapporto con l'ambiente,ossia col cosmo, che si attua come la tal sensazione disuono «do» o di rosso o d'amaro o di movimento; e cheil fisico chimico, analizzandola, può definire meccanicao fotochimica ecc. per certe sue qualità di tal natura, e ilfisiologo definirà organica, o meglio nervosa in quanto èun'eccitazione che diviene motoriale. L'unità nervosa in-fatti consente che la corrente, che dai centri corre incon-tro a quello stimolo, coordinatamente innervi quei mu-scoli che agiscono per riflesso, percorrendo cioè le viedelle connessioni più pervie. Ogni scienza deve rimane-re nel suo particolare dominio.

La scienza della natura non è la metafisica, e nemme-

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no la critica. La natura è il concetto dell'essere e del di-venire dei sensibili, delle esistenze reali, non è l'ideadell'Essere assoluto o del valore oggettivo o soggettivodi ciò che pensa. Per ogni scienza, la sensazione, l'espe-rienza, è il dato primo e comune, l'esistere, ch'essa deveindagare, astraendone per analisi i distinti aspetti pergiungere alla legge di questo accadere distinto e contin-gente. Ora, quando il fisiologo cerca in un centro fisio-logico la causa efficente di un suono «do» o di un rosso,obbedisce senza saperlo al preconcetto del fenomenismofilosofico e realistico d'un tempo; crede cioè che la sen-sazione di suono e di rosso sia l'apparire all'anima di unassoluto esistente in sè, sia la soggettività di un oggetto;per cui cerca la sede di quell'anima che trasformerebbe,chi sa perchè, in rosso e suono qualcos'altro che le giun-ga da un di fuori, da qualità prime di natura diversa dal-le qualità seconde...

Ma ogni sensazione è quella sensazione lì presente.Un rosso già vi si presenta distinto e contiguo a un gial-lo, a un suono ecc. Il rosso è rosso ed è là dove si trova:se il fisiologo (e tanto più lo psicologo) si persuadesserodi ciò, che il dato è il dato – se fosser cioè conseguential loro positivismo scientifico –, non cercherebbero ilrosso e il suono nel cervello (e tanto meno nell'anima; semai, l'anima sarebbe nel rosso, sarebbe il rosso).Nell'organo periferico ci sono invece tutte le condizionidelle distinzioni delle qualità sensoriali: un occhio è unapparecchio fotografico, un orecchio è uno strumentomusicale, un calice gustativo è il solo luogo in cui il fi-

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no la critica. La natura è il concetto dell'essere e del di-venire dei sensibili, delle esistenze reali, non è l'ideadell'Essere assoluto o del valore oggettivo o soggettivodi ciò che pensa. Per ogni scienza, la sensazione, l'espe-rienza, è il dato primo e comune, l'esistere, ch'essa deveindagare, astraendone per analisi i distinti aspetti pergiungere alla legge di questo accadere distinto e contin-gente. Ora, quando il fisiologo cerca in un centro fisio-logico la causa efficente di un suono «do» o di un rosso,obbedisce senza saperlo al preconcetto del fenomenismofilosofico e realistico d'un tempo; crede cioè che la sen-sazione di suono e di rosso sia l'apparire all'anima di unassoluto esistente in sè, sia la soggettività di un oggetto;per cui cerca la sede di quell'anima che trasformerebbe,chi sa perchè, in rosso e suono qualcos'altro che le giun-ga da un di fuori, da qualità prime di natura diversa dal-le qualità seconde...

Ma ogni sensazione è quella sensazione lì presente.Un rosso già vi si presenta distinto e contiguo a un gial-lo, a un suono ecc. Il rosso è rosso ed è là dove si trova:se il fisiologo (e tanto più lo psicologo) si persuadesserodi ciò, che il dato è il dato – se fosser cioè conseguential loro positivismo scientifico –, non cercherebbero ilrosso e il suono nel cervello (e tanto meno nell'anima; semai, l'anima sarebbe nel rosso, sarebbe il rosso).Nell'organo periferico ci sono invece tutte le condizionidelle distinzioni delle qualità sensoriali: un occhio è unapparecchio fotografico, un orecchio è uno strumentomusicale, un calice gustativo è il solo luogo in cui il fi-

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lamento nervoso è in reale contatto con la materia solu-bile, ecc. Ossia, l'organo sensorio è la condizione per cuiil sistema nervoso partecipa della natura fisica o chimicaod organica, che le altre scienze hanno, così, il diritto diconoscere realmente e non simbolicamente. Ciò che viha di esclusivamente nervoso, e che compete al solo fi-siologo studiare e ridurre a legge di natura, è l'eccitabili-tà; ma, se le togliamo ciò per cui si eccita, ossia lo sti-molo in quanto fisico chimico ecc. (e non in quanto ner-voso), la funzione nervosa apparirà, meno misteriosa-mente, come la condizione per cui le eccitazioni, purmantenendo il loro distinto carattere dovuto ai rapportisopradetti, si possono unificare e coordinare, data l'unitàdel sistema e la gerarchia dei centri. Meglio ancora, a unfisiologo spregiudicato, dovrebbe apparir evidente chela funzione nervosa è nervosa, non in quanto crei ilmondo, le esistenze reali, ma in quanto le metta in rap-porto con gli organi di moto, permetta la reazione moto-ria, vera effettuale e attiva funzione del sistema. Il mon-do rimane là dov'è.

6. – Ma, si dirà, l'«immagine», non è almeno essaprodotta dal centro, non essendo reale? Non è almenoessa psichica, e non fisica? Un'immagine di suono o dicolore, o non è niente, o è qualcosa di simile al suono eal colore immaginato. Allora, o anche il suono e coloresono immagini psichiche di qualcosa di reale esistentein sè e trascendente, e ritorniamo ai soliti assurdi scien-tifici; o per le immagini in quanto sensazioni riprodotte

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lamento nervoso è in reale contatto con la materia solu-bile, ecc. Ossia, l'organo sensorio è la condizione per cuiil sistema nervoso partecipa della natura fisica o chimicaod organica, che le altre scienze hanno, così, il diritto diconoscere realmente e non simbolicamente. Ciò che viha di esclusivamente nervoso, e che compete al solo fi-siologo studiare e ridurre a legge di natura, è l'eccitabili-tà; ma, se le togliamo ciò per cui si eccita, ossia lo sti-molo in quanto fisico chimico ecc. (e non in quanto ner-voso), la funzione nervosa apparirà, meno misteriosa-mente, come la condizione per cui le eccitazioni, purmantenendo il loro distinto carattere dovuto ai rapportisopradetti, si possono unificare e coordinare, data l'unitàdel sistema e la gerarchia dei centri. Meglio ancora, a unfisiologo spregiudicato, dovrebbe apparir evidente chela funzione nervosa è nervosa, non in quanto crei ilmondo, le esistenze reali, ma in quanto le metta in rap-porto con gli organi di moto, permetta la reazione moto-ria, vera effettuale e attiva funzione del sistema. Il mon-do rimane là dov'è.

6. – Ma, si dirà, l'«immagine», non è almeno essaprodotta dal centro, non essendo reale? Non è almenoessa psichica, e non fisica? Un'immagine di suono o dicolore, o non è niente, o è qualcosa di simile al suono eal colore immaginato. Allora, o anche il suono e coloresono immagini psichiche di qualcosa di reale esistentein sè e trascendente, e ritorniamo ai soliti assurdi scien-tifici; o per le immagini in quanto sensazioni riprodotte

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si deve cercare nella funzione nervosa, non la causa percui siano piuttosto rosso che suono, ma la condizioneorganica che ciò permetta, che si dice «memoria» in ge-nere, e questa non è una natura psichica che nel senso incui è psichico il mondo intiero.

Qui entra in giuoco il secondo grande principio dellafisiologia nervosa, a cui alludemmo; ed è quello che cideve sciogliere, scientificamente, l'enimma: la memoria,naturalisticamente parlando, non è che la leggedell'adattabilità funzionale, propria del resto di tutto ilcampo biologico.

L'adattabilità funzionale nervosa è concetto acquisitoalla fisiologia corrente sotto il nome di memoria organi-ca. Questa legge si può enunciare così: L'eccitazione,non soltanto provoca (in modo ancor ignoto) i movi-menti, ma li coordina in «atti» – unità dei movimenticontigui, ossia contemporanei e successivi –; e questacoordinazione, in ragione del suo ripetersi (o anchecome tendenza ereditata) si traduce in una disposizionemnemonica (similare) a riprodurre con più rapidità faci-lità ed efficacia pratica gli atti già eseguiti, e a rinnovaretutti i movimenti contigui, a preferenza di altri nuovi,ogni volta che per un'identica a analoga eccitazione sirinnova il primo fra essi al quale sono coordinati. Da ciògli automatismi.

In altre parole, la corrente dell'eccitazione motoria,cui questa legge unicamente si vuol riferire, si scarica dipreferenza per le vie già battute, nelle coordinazionimotoriali più pervie, sì che il riprodursi d'un'eccitazione

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si deve cercare nella funzione nervosa, non la causa percui siano piuttosto rosso che suono, ma la condizioneorganica che ciò permetta, che si dice «memoria» in ge-nere, e questa non è una natura psichica che nel senso incui è psichico il mondo intiero.

Qui entra in giuoco il secondo grande principio dellafisiologia nervosa, a cui alludemmo; ed è quello che cideve sciogliere, scientificamente, l'enimma: la memoria,naturalisticamente parlando, non è che la leggedell'adattabilità funzionale, propria del resto di tutto ilcampo biologico.

L'adattabilità funzionale nervosa è concetto acquisitoalla fisiologia corrente sotto il nome di memoria organi-ca. Questa legge si può enunciare così: L'eccitazione,non soltanto provoca (in modo ancor ignoto) i movi-menti, ma li coordina in «atti» – unità dei movimenticontigui, ossia contemporanei e successivi –; e questacoordinazione, in ragione del suo ripetersi (o anchecome tendenza ereditata) si traduce in una disposizionemnemonica (similare) a riprodurre con più rapidità faci-lità ed efficacia pratica gli atti già eseguiti, e a rinnovaretutti i movimenti contigui, a preferenza di altri nuovi,ogni volta che per un'identica a analoga eccitazione sirinnova il primo fra essi al quale sono coordinati. Da ciògli automatismi.

In altre parole, la corrente dell'eccitazione motoria,cui questa legge unicamente si vuol riferire, si scarica dipreferenza per le vie già battute, nelle coordinazionimotoriali più pervie, sì che il riprodursi d'un'eccitazione

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motoria in un certo senso – memoria di somiglianza,ch'è una proprietà biologica della vita – provoca auto-maticamente la tendenza o «innervazione» a riprodurrel'atto o la serie degli atti che vi son connessi per le pas-sate esperienze: memoria di contiguità. Ciò basta a spie-gare anche perchè, se nuove circostanze in parte induco-no allo stesso atto (per es. avanzare un passo per cam-minare), ma in parte eccitano riflessi in altro senso (peres. se qualcosa ci arresta), si produce una innervazionemotoria, un inizio di movimento che resta in potenza, edè, per così dire, l'immagine non realizzata del primo, cheuno strumento delicato può metter in evidenza. Di fatti,l'immagine sensoria d'un atto, per es. l'immagine foneti-ca d'una parola pronunciata «mentalmente», un ergogra-fo applicato al laringe la rileva come un'innervazionemotoria dell'organo periferico! (Inutile avvertire, che imovimenti non esistono che come una categoria di sen-sazioni articolari e muscolari, dette cinetiche e di sforzo,facenti parte della sensibilità organica o «senso in-terno»).

Purtroppo l'associazionismo psicologico, affidandoinvece la memoria sensoriale a un'occulta facoltà sog-gettiva d'associare e «richiamare» sensazioni e immagi-ni – confuse coi lor valori rappresentativi e ideativi –,impedisce alla fisiologia di scorgere, che si tratta d'unadattamento funzionale agli stimoli del tutto simileall'automatismo motoriale; anzi, che, fisiologicamenteparlando, è la stessa identica funzione. L'associazioni-smo è la legge del conoscere per mezzo della memoria,

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motoria in un certo senso – memoria di somiglianza,ch'è una proprietà biologica della vita – provoca auto-maticamente la tendenza o «innervazione» a riprodurrel'atto o la serie degli atti che vi son connessi per le pas-sate esperienze: memoria di contiguità. Ciò basta a spie-gare anche perchè, se nuove circostanze in parte induco-no allo stesso atto (per es. avanzare un passo per cam-minare), ma in parte eccitano riflessi in altro senso (peres. se qualcosa ci arresta), si produce una innervazionemotoria, un inizio di movimento che resta in potenza, edè, per così dire, l'immagine non realizzata del primo, cheuno strumento delicato può metter in evidenza. Di fatti,l'immagine sensoria d'un atto, per es. l'immagine foneti-ca d'una parola pronunciata «mentalmente», un ergogra-fo applicato al laringe la rileva come un'innervazionemotoria dell'organo periferico! (Inutile avvertire, che imovimenti non esistono che come una categoria di sen-sazioni articolari e muscolari, dette cinetiche e di sforzo,facenti parte della sensibilità organica o «senso in-terno»).

Purtroppo l'associazionismo psicologico, affidandoinvece la memoria sensoriale a un'occulta facoltà sog-gettiva d'associare e «richiamare» sensazioni e immagi-ni – confuse coi lor valori rappresentativi e ideativi –,impedisce alla fisiologia di scorgere, che si tratta d'unadattamento funzionale agli stimoli del tutto simileall'automatismo motoriale; anzi, che, fisiologicamenteparlando, è la stessa identica funzione. L'associazioni-smo è la legge del conoscere per mezzo della memoria,

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non dell'essere di questa; «contiguità » e «somiglianza»sono i nomi del rapporto a cui riduciamo l'unità e conti-nuità di fatto dell'esperienza quando l'abbiamo primaastrattamente divisa. Analizzando questo bianco io loposso dividere all'infinito in una quantità di punti bian-chi e di momenti della loro durata, e riunir poi questiminimi astratti nel concetto di spazio e di tempo; ma lecondizioni oggettive di tal concetto si devono trovare inuna esistente continuità sensibile, chè altrimenti non sa-prei di che grandezza o durata parlare. Ora, l'unità (a po-steriori) e continuità dell'esperienza ha le sue condizionifisiologiche reali nell'unità organica e nella plasticitàfunzionale dei sensi, come le differenze e le discontinui-tà sono condizionate dalle diverse relazioni sensorie coidiversi stimoli della restante natura. La tanto vantatacontinuità del soggetto personale non esiste obbiettiva-mente che come memoria organica: tagliate una fibra escompare. Direte dunque che il corpo è la causa dell'ani-ma?!

Del pari, le «rappresentazioni» di cui parla lo psicolo-go, ma che soggettivamente sono valori conoscitivi,realmente sono o sensazioni o immagini capaci di rap-presentare qualcos'altro di contiguo o di simile, a cui sirivolge il nostro volere, valutandolo appunto come reale(nella percezione) o irreale (nell'immaginazione), possi-bile o impossibile, ecc.: però, quella capacità o memorianon è che il contenuto dell'attività conoscente. Sequest'ultima, ora, se la vuole spiegare in sè stessa, non lapuò riferire che a condizioni naturali, fisiologiche ap-

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non dell'essere di questa; «contiguità » e «somiglianza»sono i nomi del rapporto a cui riduciamo l'unità e conti-nuità di fatto dell'esperienza quando l'abbiamo primaastrattamente divisa. Analizzando questo bianco io loposso dividere all'infinito in una quantità di punti bian-chi e di momenti della loro durata, e riunir poi questiminimi astratti nel concetto di spazio e di tempo; ma lecondizioni oggettive di tal concetto si devono trovare inuna esistente continuità sensibile, chè altrimenti non sa-prei di che grandezza o durata parlare. Ora, l'unità (a po-steriori) e continuità dell'esperienza ha le sue condizionifisiologiche reali nell'unità organica e nella plasticitàfunzionale dei sensi, come le differenze e le discontinui-tà sono condizionate dalle diverse relazioni sensorie coidiversi stimoli della restante natura. La tanto vantatacontinuità del soggetto personale non esiste obbiettiva-mente che come memoria organica: tagliate una fibra escompare. Direte dunque che il corpo è la causa dell'ani-ma?!

Del pari, le «rappresentazioni» di cui parla lo psicolo-go, ma che soggettivamente sono valori conoscitivi,realmente sono o sensazioni o immagini capaci di rap-presentare qualcos'altro di contiguo o di simile, a cui sirivolge il nostro volere, valutandolo appunto come reale(nella percezione) o irreale (nell'immaginazione), possi-bile o impossibile, ecc.: però, quella capacità o memorianon è che il contenuto dell'attività conoscente. Sequest'ultima, ora, se la vuole spiegare in sè stessa, non lapuò riferire che a condizioni naturali, fisiologiche ap-

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punto. Qui la memoria, anche sensoria e immaginativa,non è che la tendenza o polarità propria dell'eccitabilitànervosa, a rieccitarsi complessivamente e in tutte le di-rezioni nelle quali s'è già effettuata; tendenza che fisio-logicamente condiziona così la percezione come l'imma-ginazione (fantasia e ricordo). Vediamola meglio.

7. – Sia data una sensazione, per esempio la serie del-le note d'una frase musicale, che, avendole poi fisica-mente divise, diciamo sucessive (contigue nel tempo) econtemporanee (contigue nello spazio) al loro relativoaccordo basso: sensazione sempre data come qualificata(sonora), molteplice (quelle note distinte) e una (quellafrase). Tale unità, ripeto, trova le sue condizioni indivi-duali nella continuità nervosa, per cui le eccitazioni del-lo stesso organo, o anche di organi diversi contempora-neamente o successivamente interessati allo stesso og-getto stimolo (per es. vista e udito), s'unificano in unasola eccitazione coordinatrice delle differenze sensibili,a lor volta condizionate dalle diverse relazioni periferi-che con l'ambiente.

Io non dubito, che gli organi di coordinazione di que-sta «associazione di contiguità» sensoriale, comedell'associazione motoriale prima descritta, siano i cen-tri inferiori, sensori e motori, a lor volta collegati e for-manti così l'arco sensorio motorio; come non dubito,che gli organi dell'adattamento a tali complessi, ossiadella memoria sensoria e motoria, siano i corrispondenticentri superiori del cervello medio e posteriore; mentre icentri frontali, ancor più indirettamente interessati, gio-

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punto. Qui la memoria, anche sensoria e immaginativa,non è che la tendenza o polarità propria dell'eccitabilitànervosa, a rieccitarsi complessivamente e in tutte le di-rezioni nelle quali s'è già effettuata; tendenza che fisio-logicamente condiziona così la percezione come l'imma-ginazione (fantasia e ricordo). Vediamola meglio.

7. – Sia data una sensazione, per esempio la serie del-le note d'una frase musicale, che, avendole poi fisica-mente divise, diciamo sucessive (contigue nel tempo) econtemporanee (contigue nello spazio) al loro relativoaccordo basso: sensazione sempre data come qualificata(sonora), molteplice (quelle note distinte) e una (quellafrase). Tale unità, ripeto, trova le sue condizioni indivi-duali nella continuità nervosa, per cui le eccitazioni del-lo stesso organo, o anche di organi diversi contempora-neamente o successivamente interessati allo stesso og-getto stimolo (per es. vista e udito), s'unificano in unasola eccitazione coordinatrice delle differenze sensibili,a lor volta condizionate dalle diverse relazioni periferi-che con l'ambiente.

Io non dubito, che gli organi di coordinazione di que-sta «associazione di contiguità» sensoriale, comedell'associazione motoriale prima descritta, siano i cen-tri inferiori, sensori e motori, a lor volta collegati e for-manti così l'arco sensorio motorio; come non dubito,che gli organi dell'adattamento a tali complessi, ossiadella memoria sensoria e motoria, siano i corrispondenticentri superiori del cervello medio e posteriore; mentre icentri frontali, ancor più indirettamente interessati, gio-

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verebbero a un controllo in secondo grado, di sovrecci-tazione o d'inibizione sui precedenti, allorchè questisono già in funzione, come «attenzione» conoscitiva evolontaria. Ma lascio ciò ai competenti.

Costituitasi l'unità sensoriale fra le eccitazioni senso-rie – comprese, s'intende, quelle da stimoli organici e ci-netici – contigue nello spazio e nel tempo, essa più omeno rimane e si fissa, non come qualcosa di reale,come immagine in sè esistente in qualche misteriosapiega del pallio cerebrale, ma come tendenza funziona-le, del tutto identica alla motoriale che n'è un caso; ten-denza cioè a riprodurre più facilmente quella prima uni-ficazione a preferenza di altre nuove (imparare), come ameglio distinguere gli stimoli abituali (chiarezza); einoltre, a rinnovare insieme le eccitazioni che s'ebberoinsieme allorchè una o parte di esse si rinnovi. La me-moria di contiguità non è un fatto diverso dalla memoriadi somiglianza: l'una implica l'altra, la somiglianza edifferenza essendo dovuta all'azione periferica degli sti-moli e la contiguità alla lor connessione condizionatanei centri.

Pertanto, se una seconda e terza volta ascolto la stessafrase, l'apprendo; ossia, è la stessa proprio in quanto lasento con più facilità e chiarezza nelle sue distinzionicome nella sua unità, ed è anche un'altra (un'altra volta)perchè qualcosa è invece diverso (nuovo) nelle nuovecontiguità interne o esterne al mio corpo (oggi c'è qual-cosa diverso da ieri). Se poi oggi odo soltanto le primenote, oppure leggo le note senza eseguirle, o comunque

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verebbero a un controllo in secondo grado, di sovrecci-tazione o d'inibizione sui precedenti, allorchè questisono già in funzione, come «attenzione» conoscitiva evolontaria. Ma lascio ciò ai competenti.

Costituitasi l'unità sensoriale fra le eccitazioni senso-rie – comprese, s'intende, quelle da stimoli organici e ci-netici – contigue nello spazio e nel tempo, essa più omeno rimane e si fissa, non come qualcosa di reale,come immagine in sè esistente in qualche misteriosapiega del pallio cerebrale, ma come tendenza funziona-le, del tutto identica alla motoriale che n'è un caso; ten-denza cioè a riprodurre più facilmente quella prima uni-ficazione a preferenza di altre nuove (imparare), come ameglio distinguere gli stimoli abituali (chiarezza); einoltre, a rinnovare insieme le eccitazioni che s'ebberoinsieme allorchè una o parte di esse si rinnovi. La me-moria di contiguità non è un fatto diverso dalla memoriadi somiglianza: l'una implica l'altra, la somiglianza edifferenza essendo dovuta all'azione periferica degli sti-moli e la contiguità alla lor connessione condizionatanei centri.

Pertanto, se una seconda e terza volta ascolto la stessafrase, l'apprendo; ossia, è la stessa proprio in quanto lasento con più facilità e chiarezza nelle sue distinzionicome nella sua unità, ed è anche un'altra (un'altra volta)perchè qualcosa è invece diverso (nuovo) nelle nuovecontiguità interne o esterne al mio corpo (oggi c'è qual-cosa diverso da ieri). Se poi oggi odo soltanto le primenote, oppure leggo le note senza eseguirle, o comunque

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mi rièccito d'una parte soltanto di quel complesso, lenote riudite «richiamano» quelle che le seguivano neltempo, o le note lette richiamano quelle udite in lorocontiguità ecc. Ma che significa qui «richiamare»?

Come un suono reale non lo può creare nè il cervello,nè tanto meno uno «spirito» eterogeneo, ma esso è quel-lo che è – una natura realmente fisica contingente inparticolari rapporti, che si attuano laddove ne esistono lecondizioni (nell'organo periferico, col concorso dei cen-tri) –, così l'«immagine» d'un suono «richiamata» daquello che lo precede abitualmente, e cioè indotta dallatendenza coordinatrice dei centri a rieccitarsi nella dire-zione contigua alle eccitazione riprodotte, non può esse-re di natura diversa dal sensibile. Voglio dire, chel'immagine è immagine in quanto tende a realizzarsisensibilmente, e quindi perifericamente. Infatti, di soli-to, l'immagine indotta per contiguità da uno stimolo si-milare, si realizza proprio a spese dello stimolo senso-rio: per es. vedo solido questo tavolo anche senza toc-carlo, avendolo tante volte toccato e visto insieme. Lasolidità non è mica un'immaginetta di solido chiamatada qualche parte del cervello: appartiene all'oggetto, allasua unità sensibile, con la stessa realtà degli stimoli at-tuali che la suscitano; sul che si fonda, in quanto al con-tenuto reale, la percezione (se la realtà esterna corri-sponde all'adattamento mnemonico), e, nel caso contra-rio, l'illusione.

Quando invece i nuovi sensibili contigui a quelli ri-prodotti, per così dire si oppongono all'attuazione delle

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mi rièccito d'una parte soltanto di quel complesso, lenote riudite «richiamano» quelle che le seguivano neltempo, o le note lette richiamano quelle udite in lorocontiguità ecc. Ma che significa qui «richiamare»?

Come un suono reale non lo può creare nè il cervello,nè tanto meno uno «spirito» eterogeneo, ma esso è quel-lo che è – una natura realmente fisica contingente inparticolari rapporti, che si attuano laddove ne esistono lecondizioni (nell'organo periferico, col concorso dei cen-tri) –, così l'«immagine» d'un suono «richiamata» daquello che lo precede abitualmente, e cioè indotta dallatendenza coordinatrice dei centri a rieccitarsi nella dire-zione contigua alle eccitazione riprodotte, non può esse-re di natura diversa dal sensibile. Voglio dire, chel'immagine è immagine in quanto tende a realizzarsisensibilmente, e quindi perifericamente. Infatti, di soli-to, l'immagine indotta per contiguità da uno stimolo si-milare, si realizza proprio a spese dello stimolo senso-rio: per es. vedo solido questo tavolo anche senza toc-carlo, avendolo tante volte toccato e visto insieme. Lasolidità non è mica un'immaginetta di solido chiamatada qualche parte del cervello: appartiene all'oggetto, allasua unità sensibile, con la stessa realtà degli stimoli at-tuali che la suscitano; sul che si fonda, in quanto al con-tenuto reale, la percezione (se la realtà esterna corri-sponde all'adattamento mnemonico), e, nel caso contra-rio, l'illusione.

Quando invece i nuovi sensibili contigui a quelli ri-prodotti, per così dire si oppongono all'attuazione delle

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tendenze mnemoniche, perchè in contrasto con le prece-denti contiguità – com'è il caso, mettiamo, dell'udire ilnome o del vedere un oggetto appartenente a una perso-na nota, i quali, pur richiamandone i caratteri (la figura,la voce ecc.) per essere stati percepiti insieme, non cipermettono di realizzarveli dove altri e troppo diversioggetti sono presenti, come il foglio su cui leggo quelnome, il muro a cui vedo appeso quel cappello o appog-giato quel bastone –, l'immagine riman nella forma ab-breviata di un'innervazione sensoriale, la quale appare«interna» (al corpo) sol per contrasto con le sensazioniattuali che diciamo fuori di noi: ma non appena o vienea mancare l'opposizione della realtà fisica esterna, comenel sogno, o l'innervazione è intensa al punto da vincer-la, come nella allucinazione, la tendenza mnemonica ri-torna a realizzarsi in modo del tutto simile alla sensazio-ne9.

9 Gli esperimenti ormai classici sulle immagini suggerite neldormiveglia o a soggetti allucinabili dimostrano che l'immagineesiste in quanto si attua in un sensibile, «interpretato» secondo lamemoria. Anche l'allucinazione si attua in elementi sensibili (unchiodo può apparire un topo sul muro, un suono una voce malva-gia, un cartoncino a superfice granulosa permette la visione d'unritratto di persona suggerita; ma un cartoncino liscio, no nel nullasensorio non c'è nulla immaginabile); essa non è che un'illusioneesagerata. Ma chiunque ricompone meglio un'immagine se si puòservire di elementi d'una realtà vaga e indistinta che vi si prestino,come il rumore del treno per fantasticarvi sopra dei suoni (o an-che il rombo della circolazione del sangue nel silenzio perfetto),le nuvole (o anche le luci entottiche nell'oscurità) per le immagini

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tendenze mnemoniche, perchè in contrasto con le prece-denti contiguità – com'è il caso, mettiamo, dell'udire ilnome o del vedere un oggetto appartenente a una perso-na nota, i quali, pur richiamandone i caratteri (la figura,la voce ecc.) per essere stati percepiti insieme, non cipermettono di realizzarveli dove altri e troppo diversioggetti sono presenti, come il foglio su cui leggo quelnome, il muro a cui vedo appeso quel cappello o appog-giato quel bastone –, l'immagine riman nella forma ab-breviata di un'innervazione sensoriale, la quale appare«interna» (al corpo) sol per contrasto con le sensazioniattuali che diciamo fuori di noi: ma non appena o vienea mancare l'opposizione della realtà fisica esterna, comenel sogno, o l'innervazione è intensa al punto da vincer-la, come nella allucinazione, la tendenza mnemonica ri-torna a realizzarsi in modo del tutto simile alla sensazio-ne9.

9 Gli esperimenti ormai classici sulle immagini suggerite neldormiveglia o a soggetti allucinabili dimostrano che l'immagineesiste in quanto si attua in un sensibile, «interpretato» secondo lamemoria. Anche l'allucinazione si attua in elementi sensibili (unchiodo può apparire un topo sul muro, un suono una voce malva-gia, un cartoncino a superfice granulosa permette la visione d'unritratto di persona suggerita; ma un cartoncino liscio, no nel nullasensorio non c'è nulla immaginabile); essa non è che un'illusioneesagerata. Ma chiunque ricompone meglio un'immagine se si puòservire di elementi d'una realtà vaga e indistinta che vi si prestino,come il rumore del treno per fantasticarvi sopra dei suoni (o an-che il rombo della circolazione del sangue nel silenzio perfetto),le nuvole (o anche le luci entottiche nell'oscurità) per le immagini

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8. – Ciò premesso, passiàmo a rivedere anche la partedello psicologo e domandiamoci che cosa può esser sog-getto in una sensazione. Se si risponde che il soggetto èil sensibile da essa astratto, come questo bianco, inquanto io lo vedo, o si confonde con le condizioni orga-niche della sensibilità, oggettive come tutto il resto(come quelle fisiche), o si confonde col valore conosci-tivo che questo bianco prende, coscienza di questo bian-co, laddove la psicologia empirica doveva proprio defi-nire la natura di tal coscienza e valore, distinguendoladal sensibile e dai valori (in questo caso oggettivi)ch'essa al sensibile attribuisce in opposizione appuntoalla propria soggettività. È proprio questa opposizionevissuta nell'esperienza che deve esser ridotta a una di-stinzione concettuale dalla scienza, se vuol esser scienzanaturale; e questo è possibile sol in quanto sia possibileridurre la soggettività ad oggetto fra gli altri (e non vice-versa, la oggettività a soggetto, còmpito della filosofia).Ma, ripeto, è ciò possibile?

visive, ecc. Normalmente, più che con immagini, noi pensiamo ocon le percezioni, a cui diamo un valore generico (adopero questaseggiola come una seggiola in genere, deduttivamente), o con pa-role, che sono immagini come innervazioni motorie (debolmentevisive e uditive), e si prestan meglio al fenomeno del «trasferto»,ossia a portare in sè, sensibilmente, i valori degli oggetti che rap-presentano. Ma di ciò più sotto. Qui bastava fondare positivamen-te il concetto, che ogni oggetto, reale o irreale secondo le poste-riori valutazioni del pensiero, esiste sensibilmente, è rappresenta-to sempre da un'esistenza, che non implica una causalità spiritua-le, ossia creativa e miracolosa.

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8. – Ciò premesso, passiàmo a rivedere anche la partedello psicologo e domandiamoci che cosa può esser sog-getto in una sensazione. Se si risponde che il soggetto èil sensibile da essa astratto, come questo bianco, inquanto io lo vedo, o si confonde con le condizioni orga-niche della sensibilità, oggettive come tutto il resto(come quelle fisiche), o si confonde col valore conosci-tivo che questo bianco prende, coscienza di questo bian-co, laddove la psicologia empirica doveva proprio defi-nire la natura di tal coscienza e valore, distinguendoladal sensibile e dai valori (in questo caso oggettivi)ch'essa al sensibile attribuisce in opposizione appuntoalla propria soggettività. È proprio questa opposizionevissuta nell'esperienza che deve esser ridotta a una di-stinzione concettuale dalla scienza, se vuol esser scienzanaturale; e questo è possibile sol in quanto sia possibileridurre la soggettività ad oggetto fra gli altri (e non vice-versa, la oggettività a soggetto, còmpito della filosofia).Ma, ripeto, è ciò possibile?

visive, ecc. Normalmente, più che con immagini, noi pensiamo ocon le percezioni, a cui diamo un valore generico (adopero questaseggiola come una seggiola in genere, deduttivamente), o con pa-role, che sono immagini come innervazioni motorie (debolmentevisive e uditive), e si prestan meglio al fenomeno del «trasferto»,ossia a portare in sè, sensibilmente, i valori degli oggetti che rap-presentano. Ma di ciò più sotto. Qui bastava fondare positivamen-te il concetto, che ogni oggetto, reale o irreale secondo le poste-riori valutazioni del pensiero, esiste sensibilmente, è rappresenta-to sempre da un'esistenza, che non implica una causalità spiritua-le, ossia creativa e miracolosa.

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La psicologia empirica è una scienza possibile solo inquanto riesca a rappresentarsi un soggetto distintamenteda tutti i suoi oggetti e tuttavia in rapporto naturale conessi. Ora, ciò che nell'esperienza ci può rappresentare ilsoggetto è la soggettività dell'esperienza stessa, sempresoggetto e mai oggetto: è il sentimento e niente altro. Ilsentimento in quanto sentito, vissuto (o meglio, viven-te), o rivissuto. Difatti, ripeto ancora, nella coscienzacomune, l'io, inconfondibile col mondo restante, è ilsentimento o l'emozione – fra cui il piacere o dispiacereconoscitivo (certezza o dubbio) – che sempre, come sisuol impropriamente dire, «accompagna» le esperienze,dalle quali lo psicologo l'astrae, incominciando dal«tono di sentimento» d'ogni e qualsiasi sensazione. Laserie di questi elementi doppiamente astratti si chiamapoi affetto, interesse, persona ecc., forme soggettivedell'istinto o del bisogno biologico oppure individuale;ma nell'attuale esperienza, come ciò che diciamo ogget-to esiste sempre in un reale sensibile, fosse pure un sem-plice segno o una parola rappresentativa d'un ben piùvasto dover essere ideale, così ciò che diciamo soggettoesiste sempre e soltanto come sentire (piacere e dolore):dai sentimenti pratici – sentimenti semplici (detti «fisi-ci») ed emozioni – a quelli detti morali e intellettuali,dal sentimento di sforzo e d'attenzione al sentimento delconoscere e del riconoscere, dal breve e momentaneointeresse alla passione. La vita del soggetto è la vita deisentimenti: dunque, però, in quanto vivono, in quantosono attualmente sentiti o risentiti!

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La psicologia empirica è una scienza possibile solo inquanto riesca a rappresentarsi un soggetto distintamenteda tutti i suoi oggetti e tuttavia in rapporto naturale conessi. Ora, ciò che nell'esperienza ci può rappresentare ilsoggetto è la soggettività dell'esperienza stessa, sempresoggetto e mai oggetto: è il sentimento e niente altro. Ilsentimento in quanto sentito, vissuto (o meglio, viven-te), o rivissuto. Difatti, ripeto ancora, nella coscienzacomune, l'io, inconfondibile col mondo restante, è ilsentimento o l'emozione – fra cui il piacere o dispiacereconoscitivo (certezza o dubbio) – che sempre, come sisuol impropriamente dire, «accompagna» le esperienze,dalle quali lo psicologo l'astrae, incominciando dal«tono di sentimento» d'ogni e qualsiasi sensazione. Laserie di questi elementi doppiamente astratti si chiamapoi affetto, interesse, persona ecc., forme soggettivedell'istinto o del bisogno biologico oppure individuale;ma nell'attuale esperienza, come ciò che diciamo ogget-to esiste sempre in un reale sensibile, fosse pure un sem-plice segno o una parola rappresentativa d'un ben piùvasto dover essere ideale, così ciò che diciamo soggettoesiste sempre e soltanto come sentire (piacere e dolore):dai sentimenti pratici – sentimenti semplici (detti «fisi-ci») ed emozioni – a quelli detti morali e intellettuali,dal sentimento di sforzo e d'attenzione al sentimento delconoscere e del riconoscere, dal breve e momentaneointeresse alla passione. La vita del soggetto è la vita deisentimenti: dunque, però, in quanto vivono, in quantosono attualmente sentiti o risentiti!

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La sensazione è sentita; in ciò, e in ciò solamente, èsoggettiva, individuale e spontanea. Nelle analisi e sin-tesi conoscitive che ne facciamo, i sensibili divengonole rappresentazioni delle cose e dei fatti, degli oggetti dinatura; e le lor qualità (come bianco e pesante) perquanto relative al conoscere, son sempre oggettive, do-vendo essere in sè; i sentimenti invece ci rappresente-ranno, o meglio ripresenteranno la natura soggettiva deivalori che queste cose e questi fatti hanno per noi e deb-bono avere in sè.

La sensazione è sentita. Un sensibile astratto (comeun bianco e un pesante) è anche un astratto piacevole ospiacevole; lo stesso si dica se isoliamo una sensazionerappresentativa di qualcosa, per es. la parola «sangue»,con la rispettiva emozione spiacevole. In tal arbitrarioisolamento d'un istante nel corso dell'esperienza, il sen-timento – la parola lo dice – ci apparisce conoscitiva-mente come passività del soggetto di fronte all'oggetto«esterno», e cioè come un subire («passio») l'oggettoreale. Ma chi sarà mai, allora, il soggetto reale?

Però se, invece d'arrestarci ad una sensazione astratta,lasciamo che l'esperienza si svolga, nella sua unità a po-steriori, come un sèguito di sensazioni in parte simili ein parte diverse, o meglio come un variare di sensibililegati dalla memoria, il sentimento che li «accompagna»apparisce tosto in un rapporto inverso alla «passio» so-pra detta: non è un soffrire, ma un volere; non «passio»ma «actio». Infatti, piacere e dolore non son momentiassoluti d'un assoluto soggetto; quei termini indicano

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La sensazione è sentita; in ciò, e in ciò solamente, èsoggettiva, individuale e spontanea. Nelle analisi e sin-tesi conoscitive che ne facciamo, i sensibili divengonole rappresentazioni delle cose e dei fatti, degli oggetti dinatura; e le lor qualità (come bianco e pesante) perquanto relative al conoscere, son sempre oggettive, do-vendo essere in sè; i sentimenti invece ci rappresente-ranno, o meglio ripresenteranno la natura soggettiva deivalori che queste cose e questi fatti hanno per noi e deb-bono avere in sè.

La sensazione è sentita. Un sensibile astratto (comeun bianco e un pesante) è anche un astratto piacevole ospiacevole; lo stesso si dica se isoliamo una sensazionerappresentativa di qualcosa, per es. la parola «sangue»,con la rispettiva emozione spiacevole. In tal arbitrarioisolamento d'un istante nel corso dell'esperienza, il sen-timento – la parola lo dice – ci apparisce conoscitiva-mente come passività del soggetto di fronte all'oggetto«esterno», e cioè come un subire («passio») l'oggettoreale. Ma chi sarà mai, allora, il soggetto reale?

Però se, invece d'arrestarci ad una sensazione astratta,lasciamo che l'esperienza si svolga, nella sua unità a po-steriori, come un sèguito di sensazioni in parte simili ein parte diverse, o meglio come un variare di sensibililegati dalla memoria, il sentimento che li «accompagna»apparisce tosto in un rapporto inverso alla «passio» so-pra detta: non è un soffrire, ma un volere; non «passio»ma «actio». Infatti, piacere e dolore non son momentiassoluti d'un assoluto soggetto; quei termini indicano

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piuttosto i due poli d'un decorso emotivo che procede, indefinitiva, dal dolore al piacere. Non v'ha dolore, perquanto intenso ed acuto – questo vocabolario psicologi-co («passivo», o «attivo», «decorso», «acuto» ecc.) èper forza analogico e materialistico in quanto vuol esse-re obbiettìvo –, che, se non è morte, non s'avvii a un sol-lievo, che non s'apra uno spiraglio di consolazione e divita; non v'ha piacere, per quanto pieno e gioioso, che,se non si calma nell'appagamento, non aspiri a un mag-gior piacere, a una più reale conquista.

Si tratta dunque sempre d'un decorso emotivo da unmaggiore a un minor dolore, da un minore a un maggiorpiacere. Breve o duraturo, debole o intenso, graduale oscoppiante, semplice o misto, univoco o alterno, ecci-tante o deprimente, fecondo o sterile, il sentimento si di-rige al piacere; o meglio, siccome il piacere non è nien-te, all'oggetto che dev'essere (più) piacevole, mentre chel'oggetto dato, il reale sensibile, che rappresenta l'ogget-to ideale, è, per sè, più doloroso o men piacevole. Eccodunque che il sentire apparisce come impulso e appetito,amore e odio (affetto), e, insomma, attività volontaria.Basta riconnettere l'astratta serie soggettiva dei senti-menti come appetiti con l'astratta serie oggettiva deisensibili come sensazioni rappresentative d'oggetti pia-cevoli e dolorosi, e basta, pensare che fra le sensazionison anche quelle organiche rappresentative di possibilimovimenti e atti, per comprendere che il soggetto, ripor-tato nel suo real concreto, è volere.

Il soggetto psicologico, il soggetto empirico – per in-

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piuttosto i due poli d'un decorso emotivo che procede, indefinitiva, dal dolore al piacere. Non v'ha dolore, perquanto intenso ed acuto – questo vocabolario psicologi-co («passivo», o «attivo», «decorso», «acuto» ecc.) èper forza analogico e materialistico in quanto vuol esse-re obbiettìvo –, che, se non è morte, non s'avvii a un sol-lievo, che non s'apra uno spiraglio di consolazione e divita; non v'ha piacere, per quanto pieno e gioioso, che,se non si calma nell'appagamento, non aspiri a un mag-gior piacere, a una più reale conquista.

Si tratta dunque sempre d'un decorso emotivo da unmaggiore a un minor dolore, da un minore a un maggiorpiacere. Breve o duraturo, debole o intenso, graduale oscoppiante, semplice o misto, univoco o alterno, ecci-tante o deprimente, fecondo o sterile, il sentimento si di-rige al piacere; o meglio, siccome il piacere non è nien-te, all'oggetto che dev'essere (più) piacevole, mentre chel'oggetto dato, il reale sensibile, che rappresenta l'ogget-to ideale, è, per sè, più doloroso o men piacevole. Eccodunque che il sentire apparisce come impulso e appetito,amore e odio (affetto), e, insomma, attività volontaria.Basta riconnettere l'astratta serie soggettiva dei senti-menti come appetiti con l'astratta serie oggettiva deisensibili come sensazioni rappresentative d'oggetti pia-cevoli e dolorosi, e basta, pensare che fra le sensazionison anche quelle organiche rappresentative di possibilimovimenti e atti, per comprendere che il soggetto, ripor-tato nel suo real concreto, è volere.

Il soggetto psicologico, il soggetto empirico – per in-

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tenderci, quello che niuno può negare anche al suo canee al suo gatto – evidentemente non è, non può nèdev'essere una cosa, una realtà teoretica, una naturachiamata anima. Naturalisticamente parlando, l'anima èil senso: il senso, vale a dire quel complesso di partico-lari condizioni organiche per cui il sensibile è sentito, eche pertiene al fisiologo studiare, sebbene il biologo an-cor chiami questi rapporti «psicofisici», «psicofisiologi-ci» o «fisiopsicologici», invece di chiamarli semplice-mente «nervosi», per antichissimi preconcetti animistici(oppure per facilità didattica): sì che non sa più in chefar consistere la natura dell'eccitazione nervosa, scam-biandola con la psichicità, ossia col valore soggettivodei sensibili.

Se invece intendiamo per soggetto psicologico la vo-lontà – la quale altro non è che la finalità riferita a un in-dividuo concreto –, non importa più pensarla come unacosa nè come una causa: la volontà è un rapporto, e unrapporto pratico e non teoretico (come sarebbe inveceuna legge scientifica), fra il sentimento o natura sogget-tiva dei fini – soggettivo in quanto dolore verso piacere,appetito – e l'oggetto, che, in rapporto alla finalità, di-viene valore. In altri termini, la volontà è il nome chediamo al rapporto di soggetto a oggetto in quanto è pra-tico; il solo sentimento ce la può rappresentare comesoggettiva finalità, come appetito: ma non appena vo-gliamo intendere come si attui e realizzi il volere – lovogliamo cioè intendere come reale «attività» –, nulla dipiù nefasto che il concepire la volontà come una forza

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tenderci, quello che niuno può negare anche al suo canee al suo gatto – evidentemente non è, non può nèdev'essere una cosa, una realtà teoretica, una naturachiamata anima. Naturalisticamente parlando, l'anima èil senso: il senso, vale a dire quel complesso di partico-lari condizioni organiche per cui il sensibile è sentito, eche pertiene al fisiologo studiare, sebbene il biologo an-cor chiami questi rapporti «psicofisici», «psicofisiologi-ci» o «fisiopsicologici», invece di chiamarli semplice-mente «nervosi», per antichissimi preconcetti animistici(oppure per facilità didattica): sì che non sa più in chefar consistere la natura dell'eccitazione nervosa, scam-biandola con la psichicità, ossia col valore soggettivodei sensibili.

Se invece intendiamo per soggetto psicologico la vo-lontà – la quale altro non è che la finalità riferita a un in-dividuo concreto –, non importa più pensarla come unacosa nè come una causa: la volontà è un rapporto, e unrapporto pratico e non teoretico (come sarebbe inveceuna legge scientifica), fra il sentimento o natura sogget-tiva dei fini – soggettivo in quanto dolore verso piacere,appetito – e l'oggetto, che, in rapporto alla finalità, di-viene valore. In altri termini, la volontà è il nome chediamo al rapporto di soggetto a oggetto in quanto è pra-tico; il solo sentimento ce la può rappresentare comesoggettiva finalità, come appetito: ma non appena vo-gliamo intendere come si attui e realizzi il volere – lovogliamo cioè intendere come reale «attività» –, nulla dipiù nefasto che il concepire la volontà come una forza

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occulta o miracolosa che stia sotto i suoi reali atti sensi-bili, residuo di vedute spiritualistiche, ossia di credenzein fondo materialiste, mezza scienza degli scienziatimezzo filosofi (nè scienziati nè filosofi). La volontàmessa sotto la serie delle cause reali, come la conoscen-za presa come causa della causalità conosciuta, divengo-no, viceversa, dei semplici inutili epifenomeni di ciò cheaccade e che si conosce come accaduto. La finalità sog-gettiva si realizza come causalità oggettiva: è la stessacosa, nel senso che la finalità diviene valore teoretico inquanto apparisce realmente nella concatenazione causa-le.

Lo psicologismo crede, al contrario, che un sentimen-to soggettivo sia come tale l'effetto di stimoli oggettivi;e, come appetito e volere, produca a sua volta gli attireali. E pretende che ciò sia provato dallo studio psicofi-sico, parlando perfino di un tempo di reazione intesocome il tempo che impiegherebbe uno stimolo fisico adiventare psichico, ossia ad essere sentito, e il tempoche impiegherebbe il sentimento, come impulso volon-tario, a «trasmettere» (sic!) il comando ai movimenti...Non varrebbe la pena di discutere questa opinione, chia-mata «positiva», se non fosse tanto inveterata, da farnesospettare che sia un'ipotesi necessaria per poter parlaredei rapporti fra anima e corpo in modo oggettivamentecomprensibile e comunicabile. Però già in seno allostesso positivismo scientifico s'è fatta strada un'opinioneche lascia minor campo alle ambiguità di questo genere.Ritorniàmo ancor una volta sul terreno delle scienze po-

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occulta o miracolosa che stia sotto i suoi reali atti sensi-bili, residuo di vedute spiritualistiche, ossia di credenzein fondo materialiste, mezza scienza degli scienziatimezzo filosofi (nè scienziati nè filosofi). La volontàmessa sotto la serie delle cause reali, come la conoscen-za presa come causa della causalità conosciuta, divengo-no, viceversa, dei semplici inutili epifenomeni di ciò cheaccade e che si conosce come accaduto. La finalità sog-gettiva si realizza come causalità oggettiva: è la stessacosa, nel senso che la finalità diviene valore teoretico inquanto apparisce realmente nella concatenazione causa-le.

Lo psicologismo crede, al contrario, che un sentimen-to soggettivo sia come tale l'effetto di stimoli oggettivi;e, come appetito e volere, produca a sua volta gli attireali. E pretende che ciò sia provato dallo studio psicofi-sico, parlando perfino di un tempo di reazione intesocome il tempo che impiegherebbe uno stimolo fisico adiventare psichico, ossia ad essere sentito, e il tempoche impiegherebbe il sentimento, come impulso volon-tario, a «trasmettere» (sic!) il comando ai movimenti...Non varrebbe la pena di discutere questa opinione, chia-mata «positiva», se non fosse tanto inveterata, da farnesospettare che sia un'ipotesi necessaria per poter parlaredei rapporti fra anima e corpo in modo oggettivamentecomprensibile e comunicabile. Però già in seno allostesso positivismo scientifico s'è fatta strada un'opinioneche lascia minor campo alle ambiguità di questo genere.Ritorniàmo ancor una volta sul terreno delle scienze po-

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sitive.

9. – Tutti ricordano la vecchia ma per i suoi tempi au-dacissima teoria Lange-James sulle emozioni: lo stimoloemotivo (per es. la vista del sangue) provoca per via di-retta i riflessi organici che accompagnano ogni emozio-ne; la quale, però, non sarebbe che il sentimento com-plessivo della perturbazione organica: per es., non tre-miamo e palpitiamo perchè abbiamo paura, ma, essi dis-sero, abbiamo paura in quanto palpitiamo e tremiamo.Questa teoria ebbe molta notorietà e poca fortuna, per-chè feriva alcuni modi inveterati d'intendere il rapportopsico fisiologico in base a distinzioni e causalizzazionipseudofilosofiche fra organismo e psiche. Ma io non co-nosco una critica seria di essa, e il riprenderne la discus-sione gioverà a chiarire il nostro problema.

Vediamo dunque prima che cosa consta dal lato stret-tamente fisiologico. L'odierna psicofisiologia ha confer-mato sperimentalmente il fatto, che tutte le emozioni,anche più lievi (p. es. musicali), quelle altresì che si di-rebber di semplice «interesse», fosse pur soltanto «intel-lettuale» (p. es. sorpresa, curiosità, dubbio teoreticoecc.), sono «accompagnate» da concomitanti organici informa di riflessi rilevabili con gli strumenti (pletismo-grafo, cardiogr., sfigmogr., pneumogr. ecc.); fra cui piùcostanti e prime ad apparire le perturbazioni dei ritmiinterni della circolazione e respirazione, che vengon ac-celerati o ritardati e nel contempo attenuati o intensifica-ti. Questi e gli altri riflessi organici meno studiati

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sitive.

9. – Tutti ricordano la vecchia ma per i suoi tempi au-dacissima teoria Lange-James sulle emozioni: lo stimoloemotivo (per es. la vista del sangue) provoca per via di-retta i riflessi organici che accompagnano ogni emozio-ne; la quale, però, non sarebbe che il sentimento com-plessivo della perturbazione organica: per es., non tre-miamo e palpitiamo perchè abbiamo paura, ma, essi dis-sero, abbiamo paura in quanto palpitiamo e tremiamo.Questa teoria ebbe molta notorietà e poca fortuna, per-chè feriva alcuni modi inveterati d'intendere il rapportopsico fisiologico in base a distinzioni e causalizzazionipseudofilosofiche fra organismo e psiche. Ma io non co-nosco una critica seria di essa, e il riprenderne la discus-sione gioverà a chiarire il nostro problema.

Vediamo dunque prima che cosa consta dal lato stret-tamente fisiologico. L'odierna psicofisiologia ha confer-mato sperimentalmente il fatto, che tutte le emozioni,anche più lievi (p. es. musicali), quelle altresì che si di-rebber di semplice «interesse», fosse pur soltanto «intel-lettuale» (p. es. sorpresa, curiosità, dubbio teoreticoecc.), sono «accompagnate» da concomitanti organici informa di riflessi rilevabili con gli strumenti (pletismo-grafo, cardiogr., sfigmogr., pneumogr. ecc.); fra cui piùcostanti e prime ad apparire le perturbazioni dei ritmiinterni della circolazione e respirazione, che vengon ac-celerati o ritardati e nel contempo attenuati o intensifica-ti. Questi e gli altri riflessi organici meno studiati

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dell'emozione (per es. le influenze sul tono d'innervazio-ne dei muscoli, la sovra o sottoeccitazione ghiandolareecc.), e le conseguenti modificazioni della normale fun-zionalità di organi e tessuti, si rivelano come sensazioniorganiche (p. es. di tachicardia, d'affanno, di tensioneecc.) e cenestetiche; ed entrano a lor volta nel decorsoemotivo come nuovi stimoli che s'aggiungono al primo.Gli stessi concomitanti organici hanno anche un effettoperiferico, generando una parte dei movimenti d'espres-sione (p. es. rossore o pallore dalla vasodilatazione o co-strizione dei capillari; tremito dall'astenia muscolare;grido sospiro riso ecc. dalle modificazioni respiratorie,ecc.), divenendo fonti d'emozione simpatetica anche inaltri.

Ma il quadro delle reazioni motorie spontaneedell'emozione non è qui terminato. Bisogna aggiunger-vi: prima di tutti, i movimenti automatici o abitudinariutili, ossia coordinati in atti che modificano il nostrorapporto con lo stimolo emotivo (p. es. fuggire, afferrareecc.), i quali pure influiscono come nuovi stimoli sul de-corso emotivo (per es. fuggendo aumenta la paura) op-pure lo risolvono. Inoltre, quella parte di movimentiespressivi che son chiamati gesti (p. es. stringere i pu-gni, coprirsi gli occhi, agitarsi ecc.), che già il Darwindefinì come moti e atti altra volta utili (per assalire, perdifendersi, per fuggire ecc) ed ora ripetuti – abbreviata-mente – per automatismo ereditato o acquistato. Infine, imovimenti dell'attenzione, che son movimenti d'adatta-mento degli organi sensoriali (fissar lo sguardo, aiutar la

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dell'emozione (per es. le influenze sul tono d'innervazio-ne dei muscoli, la sovra o sottoeccitazione ghiandolareecc.), e le conseguenti modificazioni della normale fun-zionalità di organi e tessuti, si rivelano come sensazioniorganiche (p. es. di tachicardia, d'affanno, di tensioneecc.) e cenestetiche; ed entrano a lor volta nel decorsoemotivo come nuovi stimoli che s'aggiungono al primo.Gli stessi concomitanti organici hanno anche un effettoperiferico, generando una parte dei movimenti d'espres-sione (p. es. rossore o pallore dalla vasodilatazione o co-strizione dei capillari; tremito dall'astenia muscolare;grido sospiro riso ecc. dalle modificazioni respiratorie,ecc.), divenendo fonti d'emozione simpatetica anche inaltri.

Ma il quadro delle reazioni motorie spontaneedell'emozione non è qui terminato. Bisogna aggiunger-vi: prima di tutti, i movimenti automatici o abitudinariutili, ossia coordinati in atti che modificano il nostrorapporto con lo stimolo emotivo (p. es. fuggire, afferrareecc.), i quali pure influiscono come nuovi stimoli sul de-corso emotivo (per es. fuggendo aumenta la paura) op-pure lo risolvono. Inoltre, quella parte di movimentiespressivi che son chiamati gesti (p. es. stringere i pu-gni, coprirsi gli occhi, agitarsi ecc.), che già il Darwindefinì come moti e atti altra volta utili (per assalire, perdifendersi, per fuggire ecc) ed ora ripetuti – abbreviata-mente – per automatismo ereditato o acquistato. Infine, imovimenti dell'attenzione, che son movimenti d'adatta-mento degli organi sensoriali (fissar lo sguardo, aiutar la

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visione coi moti delle palpebre, della fronte, della testa;star in orecchi, tastare, annusare, gustare ecc.) e di coor-dinazione simpatetica degli atti sensoriali (aiutare con lavista la sensazione uditiva o tattile, imitare con gesti ilmovimento guardato, il ritmo udito ecc.); e inoltre ini-bendo le sensazioni e i movimenti distraenti (ripararsidai rumori, chiuder gli occhi, concentrarsi per megliofissare una rappresentazione endofasica ecc.).Quest'ultima categoria di riflessi (dell'attenzione) ac-compagna soltanto le emozioni da stimoli non decisivi –che non provocano, così come son dati, un'azione prati-ca –, ossia stimoli vaghi, non chiari, che destare per es.il dubbio, la curiosità ecc., e sono l'inizio dell'attività co-noscitiva in quanto appunto è attività reale (attenzione).Anch'essi s'aggiungono alla serie degli stimoli d'un datodecorso emotivo come sensazioni di sforzo e tensionesensoriale.

Il lettore vede dunque, che tutto ciò che obbiettiva-mente denominiamo l'aspetto organico dell'emozionenon è che l'insieme di sensazioni organiche che seguonla prima, dell'oggetto stimolo. Si tratta di comprenderese, definita l'emozione come un decorso sentimentale,questo sia da considerarsi come un fatto psichico in sè,effetto dello stimolo emotivo e causa a sua volta dei fattiorganici di reazione sopra elencati – ossia come un fattosoggettivo interposto fra due oggetti in modo mitico,come vuol la teoria tradizionale –, ovvero l'emozionenon sia che la serie delle sensazioni, oggettivamenteconcatenate fra loro in modo diretto, valutate soggetti-

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visione coi moti delle palpebre, della fronte, della testa;star in orecchi, tastare, annusare, gustare ecc.) e di coor-dinazione simpatetica degli atti sensoriali (aiutare con lavista la sensazione uditiva o tattile, imitare con gesti ilmovimento guardato, il ritmo udito ecc.); e inoltre ini-bendo le sensazioni e i movimenti distraenti (ripararsidai rumori, chiuder gli occhi, concentrarsi per megliofissare una rappresentazione endofasica ecc.).Quest'ultima categoria di riflessi (dell'attenzione) ac-compagna soltanto le emozioni da stimoli non decisivi –che non provocano, così come son dati, un'azione prati-ca –, ossia stimoli vaghi, non chiari, che destare per es.il dubbio, la curiosità ecc., e sono l'inizio dell'attività co-noscitiva in quanto appunto è attività reale (attenzione).Anch'essi s'aggiungono alla serie degli stimoli d'un datodecorso emotivo come sensazioni di sforzo e tensionesensoriale.

Il lettore vede dunque, che tutto ciò che obbiettiva-mente denominiamo l'aspetto organico dell'emozionenon è che l'insieme di sensazioni organiche che seguonla prima, dell'oggetto stimolo. Si tratta di comprenderese, definita l'emozione come un decorso sentimentale,questo sia da considerarsi come un fatto psichico in sè,effetto dello stimolo emotivo e causa a sua volta dei fattiorganici di reazione sopra elencati – ossia come un fattosoggettivo interposto fra due oggetti in modo mitico,come vuol la teoria tradizionale –, ovvero l'emozionenon sia che la serie delle sensazioni, oggettivamenteconcatenate fra loro in modo diretto, valutate soggetti-

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vamente: ch'è l'interpretazione logica della teoria Lange-James (sebbene non precisamente la loro).

S'accèttì almeno provvisoriamente, come regola me-todologica, il piano d'indagine obbiettiva proposto dalBetcherew e dal Paulsen sulle tracce del James: ricercadel rapporto obbiettivo stimolo-reazioni organiche(comportamento); e poi vedremo se la soggettivitàdell'emozione esista come realtà di fatto fuori di esso.All'esame obbiettivo, fra l'arco riflesso più elementare ediretto, come batter le ciglia all'avvicinarsi d'un corpoall'occhio, e il rapporto stimolo emotivo-reazioni orga-niche, non c'è che una differenza di grado e di comples-sità: lo stimolo è emotivo (p. es. la vista del sangue o lalettura d'un telegramma) in quanto non eccita più soltan-to per la sua efficienza sensoria (il rosso, le parole scrit-te), ma in quanto, per effetto della memoria, è stimolo-segno – o, come si dice, «trasferto» – di sensazioni simi-li e contigue.

Tuttavia, già a prima vista, il rapporto fra lo stimolo ela reazione appare analogo a quello d'un semplice rifles-so: veggo spremere un limone e avverto immediatamen-te la secrezione salivare, benchè questa sia coordinatanon alle qualità visive attuali dello stimolo ma al conti-guo sapore. Il trasferto agisce proprio come lo stimoloper sè efficace, perchè è nel trasferto che intuiamol'oggetto del nostro piacere o dispiacere, senza bisognodi frapporre un'operazione conoscitiva che lo analizzi, edistingua le rappresentazioni dai sensibili. Prima di «co-noscere» (in senso stretto) si sente, e il conoscere attivo

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vamente: ch'è l'interpretazione logica della teoria Lange-James (sebbene non precisamente la loro).

S'accèttì almeno provvisoriamente, come regola me-todologica, il piano d'indagine obbiettiva proposto dalBetcherew e dal Paulsen sulle tracce del James: ricercadel rapporto obbiettivo stimolo-reazioni organiche(comportamento); e poi vedremo se la soggettivitàdell'emozione esista come realtà di fatto fuori di esso.All'esame obbiettivo, fra l'arco riflesso più elementare ediretto, come batter le ciglia all'avvicinarsi d'un corpoall'occhio, e il rapporto stimolo emotivo-reazioni orga-niche, non c'è che una differenza di grado e di comples-sità: lo stimolo è emotivo (p. es. la vista del sangue o lalettura d'un telegramma) in quanto non eccita più soltan-to per la sua efficienza sensoria (il rosso, le parole scrit-te), ma in quanto, per effetto della memoria, è stimolo-segno – o, come si dice, «trasferto» – di sensazioni simi-li e contigue.

Tuttavia, già a prima vista, il rapporto fra lo stimolo ela reazione appare analogo a quello d'un semplice rifles-so: veggo spremere un limone e avverto immediatamen-te la secrezione salivare, benchè questa sia coordinatanon alle qualità visive attuali dello stimolo ma al conti-guo sapore. Il trasferto agisce proprio come lo stimoloper sè efficace, perchè è nel trasferto che intuiamol'oggetto del nostro piacere o dispiacere, senza bisognodi frapporre un'operazione conoscitiva che lo analizzi, edistingua le rappresentazioni dai sensibili. Prima di «co-noscere» (in senso stretto) si sente, e il conoscere attivo

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è un modo di sentire, ossia di valutare, come oggettiva-mente è un modo di reagire, ossia di fare.

10. – Restiàmo ancor un istante all'emozione, alla na-tura del soggetto empirico, non ancor cosciente (nel si-gnificato di conoscente); l'emotività è la sfera dell'«in-conscio» psichico, espressione che diverrebbe contrad-dittoria se psiche significasse coscienza in quanto cono-scitiva; emotività comune, com'è presumibile, a tutti gliesseri senzienti.

Ma la natura del soggetto è «natura» come realtà ob-biettiva, concetto biologico. Che cosa consta al biologo?Uno stimolo rieccita tutto il complesso delle coordina-zioni sensorio motoriali secondo la memoria (organica)e per le vie più pervie (più rapide, più facili, più adatte),riducibili a tendenze funzionali, ereditate o acquisite. Laparte nuova dello stimolo attuale, appunto perchè agiscesu altre e magari opposte tendenze, può modificare lereazioni, avviando a nuove coordinazioni, nel che sisuol far consistere la differenza fra un atto «involonta-rio» e uno «volontario». Se presentiamo a un cane unamiscela d'acqua e calce nella scodella in cui sogliamooffrirgli del latte, egli vi si precipiterà sopra e l'esame ri-scontra i soliti riflessi organici (come la secrezione sali-vare); deluso, dopo due o tre prove, rifiuterà l'offerta ela vista del candido liquido non gli provocherà quei ri-flessi, che un'opposta corrente ha inibito. La volontà, fi-siologicamente, non è che il giuoco di più impulsività(come, psicologicamente, di affetti e sentimenti in con-

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è un modo di sentire, ossia di valutare, come oggettiva-mente è un modo di reagire, ossia di fare.

10. – Restiàmo ancor un istante all'emozione, alla na-tura del soggetto empirico, non ancor cosciente (nel si-gnificato di conoscente); l'emotività è la sfera dell'«in-conscio» psichico, espressione che diverrebbe contrad-dittoria se psiche significasse coscienza in quanto cono-scitiva; emotività comune, com'è presumibile, a tutti gliesseri senzienti.

Ma la natura del soggetto è «natura» come realtà ob-biettiva, concetto biologico. Che cosa consta al biologo?Uno stimolo rieccita tutto il complesso delle coordina-zioni sensorio motoriali secondo la memoria (organica)e per le vie più pervie (più rapide, più facili, più adatte),riducibili a tendenze funzionali, ereditate o acquisite. Laparte nuova dello stimolo attuale, appunto perchè agiscesu altre e magari opposte tendenze, può modificare lereazioni, avviando a nuove coordinazioni, nel che sisuol far consistere la differenza fra un atto «involonta-rio» e uno «volontario». Se presentiamo a un cane unamiscela d'acqua e calce nella scodella in cui sogliamooffrirgli del latte, egli vi si precipiterà sopra e l'esame ri-scontra i soliti riflessi organici (come la secrezione sali-vare); deluso, dopo due o tre prove, rifiuterà l'offerta ela vista del candido liquido non gli provocherà quei ri-flessi, che un'opposta corrente ha inibito. La volontà, fi-siologicamente, non è che il giuoco di più impulsività(come, psicologicamente, di affetti e sentimenti in con-

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trasto). Per il fisiologo, volontà e coscienza non si di-stinguono dalla impulsività e dal senso se non in questo:che, in presenza di stimoli non decisivi – dubbi, plurivo-ci, freddi o antagonistici fra di loro, come tendenze areagire in direzioni multiple od opposte – interviene unafase di sospensione e inibizione dell'attività spontanea,dovuta al controllo dei centri indiretti, che si traduce inattuazione, che ci serve a chiarire, distinguere, valutare,scegliere e deliberare, vale a dire a «pensare».

Ma si vuole e si pensa perchè si sente e si appetisce.Orbene: in quella realtà fisica e fisiologica, ch'è il com-plesso (emotivo) stimolo-reazioni organiche sopra de-scritto, estesa nello spazio e nel tempo e pertanto quanti-tativamente misurabile, lo psicologo ha il più modestocòmpito di astrarre l'elemento o qualità, ch'egli chiamasoggetto psichico, l'emozione; purchè, s'intende, nonconfonda di nuovo identificandoli come soggetto i sen-sibili, che ha già chiamati oggetto, con la lor soggettivi-tà attuale, il sentimento. Ogni sensazione, analizzandola,divien oggettiva in quanto sensibile (visiva uditiva ecc.)e soggettiva in quanto sentita (piacere e dolore). La piùelementare delle sensazioni, come per es. certe sensa-zioni interne, credute specifiche, di dolore, presenta al-meno la sua oggettività come localizzazione corporea(«segno locale», anche se impreciso); e la più chiara ecomplessa, come la sensazione percettiva, ha il suo«tono di sentimento», chè l'assoluta freddezza e indiffe-renza sarebbe anche, per «noi», inesistenza.

A meglio considerare, la distinzione che si suol porre,

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trasto). Per il fisiologo, volontà e coscienza non si di-stinguono dalla impulsività e dal senso se non in questo:che, in presenza di stimoli non decisivi – dubbi, plurivo-ci, freddi o antagonistici fra di loro, come tendenze areagire in direzioni multiple od opposte – interviene unafase di sospensione e inibizione dell'attività spontanea,dovuta al controllo dei centri indiretti, che si traduce inattuazione, che ci serve a chiarire, distinguere, valutare,scegliere e deliberare, vale a dire a «pensare».

Ma si vuole e si pensa perchè si sente e si appetisce.Orbene: in quella realtà fisica e fisiologica, ch'è il com-plesso (emotivo) stimolo-reazioni organiche sopra de-scritto, estesa nello spazio e nel tempo e pertanto quanti-tativamente misurabile, lo psicologo ha il più modestocòmpito di astrarre l'elemento o qualità, ch'egli chiamasoggetto psichico, l'emozione; purchè, s'intende, nonconfonda di nuovo identificandoli come soggetto i sen-sibili, che ha già chiamati oggetto, con la lor soggettivi-tà attuale, il sentimento. Ogni sensazione, analizzandola,divien oggettiva in quanto sensibile (visiva uditiva ecc.)e soggettiva in quanto sentita (piacere e dolore). La piùelementare delle sensazioni, come per es. certe sensa-zioni interne, credute specifiche, di dolore, presenta al-meno la sua oggettività come localizzazione corporea(«segno locale», anche se impreciso); e la più chiara ecomplessa, come la sensazione percettiva, ha il suo«tono di sentimento», chè l'assoluta freddezza e indiffe-renza sarebbe anche, per «noi», inesistenza.

A meglio considerare, la distinzione che si suol porre,

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quando si dice che le eccitazioni da stimoli lontani (visi-ve, uditive e sopra tutto ideative, ossia fonetico rappre-sentative) son più fredde di quelle da stimoli a contattocon l'organismo (olfattive, gustative, tattili, termiche), equeste meno calde delle sensazioni organiche (cinetiche,cenestetiche, dei visceri e dei tessuti, quest'ultime comu-nemente dette «dolorifiche» perchè le più dolorose), èuna semplice approssimazione al concetto più esatto,che tutte le eccitazioni sono piacevoli, spiacevoli o do-lorose in quanto, proprio, sono eccitazioni, ossia inquanto la sensazione è organica. Anche i sentimenti piùspirituali, per il biologo sono modificazioni della cene-stesi. In altri termini, piacere e dolore sono il soggettodella eccitazione – loro reale natura, se natura significaessere spazio temporale d'un'esistenza –, come senti-mento rispetto alla semplice sensazione attuale, e decor-so sentimentale più o men complesso, ossia emozione,rispetto a un'eccitazione molteplice e complessa.

È dunque vano andar a cercar i sentimenti fuoridell'eccitazione, e tanto più far dipendere questa daquelli. Astratti i due termini, che in natura son la stessa«cosa», si voglion separati e causalmente connessi an-che nella realtà. La posizione Lange-James era pertantoscientificamente più rigorosa di quella della psicologiacorrente, perchè considerava l'emozione come l'aspettopsichico di tutto il quadro dell'eccitazione sensorio mo-toria, senza interporla causalmente fra lo stimolo e gliatti, come un soggetto che riceve qualcosa e fa qual-cos'altro; e implicava il giusto concetto, che il sentire è

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quando si dice che le eccitazioni da stimoli lontani (visi-ve, uditive e sopra tutto ideative, ossia fonetico rappre-sentative) son più fredde di quelle da stimoli a contattocon l'organismo (olfattive, gustative, tattili, termiche), equeste meno calde delle sensazioni organiche (cinetiche,cenestetiche, dei visceri e dei tessuti, quest'ultime comu-nemente dette «dolorifiche» perchè le più dolorose), èuna semplice approssimazione al concetto più esatto,che tutte le eccitazioni sono piacevoli, spiacevoli o do-lorose in quanto, proprio, sono eccitazioni, ossia inquanto la sensazione è organica. Anche i sentimenti piùspirituali, per il biologo sono modificazioni della cene-stesi. In altri termini, piacere e dolore sono il soggettodella eccitazione – loro reale natura, se natura significaessere spazio temporale d'un'esistenza –, come senti-mento rispetto alla semplice sensazione attuale, e decor-so sentimentale più o men complesso, ossia emozione,rispetto a un'eccitazione molteplice e complessa.

È dunque vano andar a cercar i sentimenti fuoridell'eccitazione, e tanto più far dipendere questa daquelli. Astratti i due termini, che in natura son la stessa«cosa», si voglion separati e causalmente connessi an-che nella realtà. La posizione Lange-James era pertantoscientificamente più rigorosa di quella della psicologiacorrente, perchè considerava l'emozione come l'aspettopsichico di tutto il quadro dell'eccitazione sensorio mo-toria, senza interporla causalmente fra lo stimolo e gliatti, come un soggetto che riceve qualcosa e fa qual-cos'altro; e implicava il giusto concetto, che il sentire è

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una risultante di tutto il complesso della vita come at-tualità e memoria, in rapporto con tutto l'Essere.

Piuttosto, nel concetto del James, si cela un altro erro-re: il parallelismo psicofisico. L'emozione-sentimentonon sarebbe che l'equivalente soggettivo dell'eccitazioneemotiva. Di conseguenza il fatto psichico sarebbe unmero «epifenomeno» di quello organico: tutto ciò cheaccade, accadrebbe per le cause meccaniche, e la psichestarebbe lì a rendercene inutile testimonianza, quasivano piacere o dolore. Determinismo stoico.

Ma no. Prima di tutto, non si tratta di due parallele,ma di due valori della stessa linea, che a me può piaceree a te dispiacere mentre è diritta o curva per tutt'e due(universalmente). Il profumo della rosa mi piace: rosaprofumata e piacere non sono però due realtà; nell'espe-rienza diretta (per es. d'un bambino) sono un «fatto»solo; in noi, per comodo d'analisi scientifica, diventanotre concetti: uno fisico, uno fisiologico e uno psicologi-co. I primi due hanno un valore oggettivo, in quantoconstano ugualmente a tutti quelli che hanno i sensi10; ilterzo ha un valore soggettivo – o meglio, è soggettivo –in quanto il piacere è soltanto mio, è vita vissuta, prati-

10 Non si confonda più la soggettività pratica del sentire collapresunta soggettività teoretica, per es. d'un errore conoscitivo(come quando si apprezza storto un bastone immerso nell'acqua,che al tatto è diritto), perchè qui «soggettivo» riguarda soltanto ilrapporto sensitivo e le particolari contingenze fra sensibili, non ifini soggettivi e i valori che per quel rapporto se ne posson deri-vare.

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una risultante di tutto il complesso della vita come at-tualità e memoria, in rapporto con tutto l'Essere.

Piuttosto, nel concetto del James, si cela un altro erro-re: il parallelismo psicofisico. L'emozione-sentimentonon sarebbe che l'equivalente soggettivo dell'eccitazioneemotiva. Di conseguenza il fatto psichico sarebbe unmero «epifenomeno» di quello organico: tutto ciò cheaccade, accadrebbe per le cause meccaniche, e la psichestarebbe lì a rendercene inutile testimonianza, quasivano piacere o dolore. Determinismo stoico.

Ma no. Prima di tutto, non si tratta di due parallele,ma di due valori della stessa linea, che a me può piaceree a te dispiacere mentre è diritta o curva per tutt'e due(universalmente). Il profumo della rosa mi piace: rosaprofumata e piacere non sono però due realtà; nell'espe-rienza diretta (per es. d'un bambino) sono un «fatto»solo; in noi, per comodo d'analisi scientifica, diventanotre concetti: uno fisico, uno fisiologico e uno psicologi-co. I primi due hanno un valore oggettivo, in quantoconstano ugualmente a tutti quelli che hanno i sensi10; ilterzo ha un valore soggettivo – o meglio, è soggettivo –in quanto il piacere è soltanto mio, è vita vissuta, prati-

10 Non si confonda più la soggettività pratica del sentire collapresunta soggettività teoretica, per es. d'un errore conoscitivo(come quando si apprezza storto un bastone immerso nell'acqua,che al tatto è diritto), perchè qui «soggettivo» riguarda soltanto ilrapporto sensitivo e le particolari contingenze fra sensibili, non ifini soggettivi e i valori che per quel rapporto se ne posson deri-vare.

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cità di quella sensazione, non è un altro aspetto (oggetti-vo) di essa11. Pertanto, se si parla di realtà naturale, tuttoè oggettivo, perchè tutto è riducibile a rapporti in sè,compreso il sentimento come vita in funzione degli sti-moli fisici; se si parla dei valori, compreso il valore rea-le, tutto è soggettivo in quanto è sentito e quindi apprez-zato e giudicato, anche se si deve giudicar oggettiva-mente. In somma, il parallelismo non è che la dualità diteoretico e pratico, che dunque è pratica e non teoretica,e perciò filosofica e non scientifica.

In secondo luogo, «sentimento» è un'astrazione psico-logica che, appena ottenuta per analisi, dev'esser riporta-ta all'unità dei fatti come un lor elemento arbitrariamen-te avulso dalla vita concreta. Preso per sè, un dolore oun piacere, ripeto, non è nulla, e rimane indefinibile.Nell'esperienza c'è piacere perchè c'è dolore: essi, comedicevo, sono i due poli del decorso della vita animata, ilquale procede sempre dal dolore al piacere, dalla man-canza al possesso, dalla passività (soffrire) all'attività(volere), dalla morte alla vita. Allora, quel sentire, primaastrattamente isolato e obbiettivato, ci si presenta come

11 Dire, con lo Herbart, che il sentimento non è che un'ideaconfusa, precosciente, organica insomma, ossia che non è che lasensazione sentita, include un errore intellettualistico, del credereche un'idea esista in sè e non sia invece la possibilità teoretica epratica d'una sensazione, il suo potere rappresentativo; ma è giu-sto nel senso che tutti i sentimenti, in fondo, sono come tali dicontenuto corporeo, sono il corpo che sente, anche se sente i va-lori detti spirituali.

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cità di quella sensazione, non è un altro aspetto (oggetti-vo) di essa11. Pertanto, se si parla di realtà naturale, tuttoè oggettivo, perchè tutto è riducibile a rapporti in sè,compreso il sentimento come vita in funzione degli sti-moli fisici; se si parla dei valori, compreso il valore rea-le, tutto è soggettivo in quanto è sentito e quindi apprez-zato e giudicato, anche se si deve giudicar oggettiva-mente. In somma, il parallelismo non è che la dualità diteoretico e pratico, che dunque è pratica e non teoretica,e perciò filosofica e non scientifica.

In secondo luogo, «sentimento» è un'astrazione psico-logica che, appena ottenuta per analisi, dev'esser riporta-ta all'unità dei fatti come un lor elemento arbitrariamen-te avulso dalla vita concreta. Preso per sè, un dolore oun piacere, ripeto, non è nulla, e rimane indefinibile.Nell'esperienza c'è piacere perchè c'è dolore: essi, comedicevo, sono i due poli del decorso della vita animata, ilquale procede sempre dal dolore al piacere, dalla man-canza al possesso, dalla passività (soffrire) all'attività(volere), dalla morte alla vita. Allora, quel sentire, primaastrattamente isolato e obbiettivato, ci si presenta come

11 Dire, con lo Herbart, che il sentimento non è che un'ideaconfusa, precosciente, organica insomma, ossia che non è che lasensazione sentita, include un errore intellettualistico, del credereche un'idea esista in sè e non sia invece la possibilità teoretica epratica d'una sensazione, il suo potere rappresentativo; ma è giu-sto nel senso che tutti i sentimenti, in fondo, sono come tali dicontenuto corporeo, sono il corpo che sente, anche se sente i va-lori detti spirituali.

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tendenza, che gli psicologici chiamano appetire, e alcunichiamano il subconscio (perchè organico) della coscien-za chiara, ossia del pensiero. Quanti equivoci! ci vorreb-be un volume a dipanarli. Tendenza, dicevo: ossia spin-ta, spontaneità dell'essere concreto della persona, attivitàpratica e teoretica. Ecco che il parallelismo si chiudenell'unità di soggetto e mondo come volere, e il soggettosupera sè stesso come pensiero.

Ma intendiàmoci, la volontà, spinta dal sentimento ediretta dallo stimolo, non è mica una «causa psichica»inserita fra l'eccitazione e la reazione, chè torneremmocosì al punto di prima. La volontà, cioè a dire il senti-mento, in concreto, è l'attività reale che, perchè senti-mentale, valuta gli oggetti (stimoli e atti), e così appun-to determina i fini e i mezzi, fra gl'infiniti possibilidell'esperienza. La serie delle cause naturali e quelladelle cause teleologiche nè si escludono (se non pratica-mente opponendosi), nè sono il parallelo l'una dell'altra:se muovo la mano per coglier quella rosa, chi muove èl'innervazione motoria, che si realizza di preferenza inquell'atto perchè la rosa mi piace. Ritorneremo su ciò;ma non su l'assurda opposizione d'una rosa soggetto co-sciente ad una rosa stimolo reale: «ordo et connexioidearum idem est ac ordo et connexio rerum».

11. – Lo schema psicologico più semplice – l'ipotesiscientifica più aderente all'esperienza, che non la redu-plica in forze occulte, come son le «facoltà» della psico-logia sostanzialista – è il seguente:

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tendenza, che gli psicologici chiamano appetire, e alcunichiamano il subconscio (perchè organico) della coscien-za chiara, ossia del pensiero. Quanti equivoci! ci vorreb-be un volume a dipanarli. Tendenza, dicevo: ossia spin-ta, spontaneità dell'essere concreto della persona, attivitàpratica e teoretica. Ecco che il parallelismo si chiudenell'unità di soggetto e mondo come volere, e il soggettosupera sè stesso come pensiero.

Ma intendiàmoci, la volontà, spinta dal sentimento ediretta dallo stimolo, non è mica una «causa psichica»inserita fra l'eccitazione e la reazione, chè torneremmocosì al punto di prima. La volontà, cioè a dire il senti-mento, in concreto, è l'attività reale che, perchè senti-mentale, valuta gli oggetti (stimoli e atti), e così appun-to determina i fini e i mezzi, fra gl'infiniti possibilidell'esperienza. La serie delle cause naturali e quelladelle cause teleologiche nè si escludono (se non pratica-mente opponendosi), nè sono il parallelo l'una dell'altra:se muovo la mano per coglier quella rosa, chi muove èl'innervazione motoria, che si realizza di preferenza inquell'atto perchè la rosa mi piace. Ritorneremo su ciò;ma non su l'assurda opposizione d'una rosa soggetto co-sciente ad una rosa stimolo reale: «ordo et connexioidearum idem est ac ordo et connexio rerum».

11. – Lo schema psicologico più semplice – l'ipotesiscientifica più aderente all'esperienza, che non la redu-plica in forze occulte, come son le «facoltà» della psico-logia sostanzialista – è il seguente:

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Parlare di soggetto significa semplicemente sentire,ossia mettersi nel sentimento – per cui il soggetto è inef-fabile –: punto di vista pratico, a cui si riduce la famosa«introspezione» (teoreticamente, ripeto, tutto è ugual-mente intro o estrospettivo). Nell'esperienza sensoriale,la psicologia non può intender per soggetto la sensazio-ne stessa, ma la distinzione in essa del sentire dalla cosasentita. Allora, non si tratta di una distinzione d'oggetti,d'una differenza di nature: la natura del dolore e piacereè ciò che piace o dispiace, vale a dire, in posteriore ana-lisi e sintesi conoscitiva, il corpo nel rapporto con glistimoli secondo la causalità naturale e il processo d'adat-tamento funzionale a questo rapporto (memoria). Si trat-ta d'una distinzione pratica (per opposizione invece cheper identità e contraddizione teoretica), perchè il senti-mento non è che il valore empirico soggettivo, e pertan-to psicologico, della sensazione oggetto. Il sentimento èfinalità, impulso, volere – dolore verso piacere in tuttele infinite forme e gradazioni de' suoi sempre nuovi eoriginali coloriti –, che noi (in quanto vogliamo) oppo-niamo alla causalità naturale, rovesciandola in un finali-smo pratico. Ma questo «noi» non è che l'opposizionestessa volontaria che si realizza obbiettivamente, cono-scitivamente, come valore teoretico, causalità di natura,attività concreta.

Il «fatto psichico» non è dunque concepibile comeun'esistenza reale, ma come un rapporto di valore, im-plicito fin ch'è natura, che si chiama volere – il rapportofra l'astratto sentimento e l'astratta sensazione, che in

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Parlare di soggetto significa semplicemente sentire,ossia mettersi nel sentimento – per cui il soggetto è inef-fabile –: punto di vista pratico, a cui si riduce la famosa«introspezione» (teoreticamente, ripeto, tutto è ugual-mente intro o estrospettivo). Nell'esperienza sensoriale,la psicologia non può intender per soggetto la sensazio-ne stessa, ma la distinzione in essa del sentire dalla cosasentita. Allora, non si tratta di una distinzione d'oggetti,d'una differenza di nature: la natura del dolore e piacereè ciò che piace o dispiace, vale a dire, in posteriore ana-lisi e sintesi conoscitiva, il corpo nel rapporto con glistimoli secondo la causalità naturale e il processo d'adat-tamento funzionale a questo rapporto (memoria). Si trat-ta d'una distinzione pratica (per opposizione invece cheper identità e contraddizione teoretica), perchè il senti-mento non è che il valore empirico soggettivo, e pertan-to psicologico, della sensazione oggetto. Il sentimento èfinalità, impulso, volere – dolore verso piacere in tuttele infinite forme e gradazioni de' suoi sempre nuovi eoriginali coloriti –, che noi (in quanto vogliamo) oppo-niamo alla causalità naturale, rovesciandola in un finali-smo pratico. Ma questo «noi» non è che l'opposizionestessa volontaria che si realizza obbiettivamente, cono-scitivamente, come valore teoretico, causalità di natura,attività concreta.

Il «fatto psichico» non è dunque concepibile comeun'esistenza reale, ma come un rapporto di valore, im-plicito fin ch'è natura, che si chiama volere – il rapportofra l'astratto sentimento e l'astratta sensazione, che in

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concreto è l'atto –, di cui il conoscere e il pensare son leforme più evolute, per le quali il valore, da implicito edempirico (inconscio) diviene esplicito e formale. Mal'analisi della sensazione non vi trova nè l'«in me» – cheapparisce nel pensarla rappresentativamente nei rapportiorganici –, nè il «fuori di me» che dipende dai legamidei sensibili che ci rappresentiamo come stimoli esternial corpo.

La volontà empiricamente è il dualizzarsi della sensa-zione in esistenza e sentimento di questa esistenza: nonè un duplicarsi della cosa (sostanzialismo) nè un diffe-renziarsi di due aspetti o caratteri della cosa (paralleli-smo); è il suo trascendersi, il suo divenire, la sua vita.Una sensazione tende, in quanto sentita, ad altro da sè(di più piacevole, di meno spiacevole), ossia a una nuo-va sensazione possibile (fine), attualmente irreale, di cuila prima è stimolo o rappresentazione. Questo processoreale, di cui l'astratto soggetto è, direi, l'incontentabilitàdell'oggetto, costituisce ciò che la scienza chiama vole-re. Essa ancor lo intende come un soggetto che stia frauno stimolo verso cui è passivo (sentire) – il che inducea crederlo, materialisticamente, un effetto – e un attoverso cui è attivo (appetire) – il che induce a crederlouna causa –, atto che gli serve di mezzo per convertire ilprimo stimolo in altro più piacevole o men doloroso, perrealizzare i valori rappresentativi del primo stimolo rea-le. Ma la scienza non può nè deve far altro che ridurre ilprocesso al rapporto, interno alla serie delle sensazionistesse, per cui queste, come stimoli sentiti, appariscono

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concreto è l'atto –, di cui il conoscere e il pensare son leforme più evolute, per le quali il valore, da implicito edempirico (inconscio) diviene esplicito e formale. Mal'analisi della sensazione non vi trova nè l'«in me» – cheapparisce nel pensarla rappresentativamente nei rapportiorganici –, nè il «fuori di me» che dipende dai legamidei sensibili che ci rappresentiamo come stimoli esternial corpo.

La volontà empiricamente è il dualizzarsi della sensa-zione in esistenza e sentimento di questa esistenza: nonè un duplicarsi della cosa (sostanzialismo) nè un diffe-renziarsi di due aspetti o caratteri della cosa (paralleli-smo); è il suo trascendersi, il suo divenire, la sua vita.Una sensazione tende, in quanto sentita, ad altro da sè(di più piacevole, di meno spiacevole), ossia a una nuo-va sensazione possibile (fine), attualmente irreale, di cuila prima è stimolo o rappresentazione. Questo processoreale, di cui l'astratto soggetto è, direi, l'incontentabilitàdell'oggetto, costituisce ciò che la scienza chiama vole-re. Essa ancor lo intende come un soggetto che stia frauno stimolo verso cui è passivo (sentire) – il che inducea crederlo, materialisticamente, un effetto – e un attoverso cui è attivo (appetire) – il che induce a crederlouna causa –, atto che gli serve di mezzo per convertire ilprimo stimolo in altro più piacevole o men doloroso, perrealizzare i valori rappresentativi del primo stimolo rea-le. Ma la scienza non può nè deve far altro che ridurre ilprocesso al rapporto, interno alla serie delle sensazionistesse, per cui queste, come stimoli sentiti, appariscono

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condizione del sentimento, e, come oggetti dati o rap-presentati (fra cui gli atti), appariscon mezzi e fini teleo-logici. Da nessuna parte s'impone un rapporto causale,di produzione dello psichico dal fisico o viceversa, cheautorizzi al tempo stesso il dualismo ontologico di mate-ria e spirito e la produzione dell'uno dall'altro: problemimal posti, quando son posti in natura.

Non essenzialmente diversa è la natura del «pensie-ro» o attività conoscitiva in generale. Pensare significaancora, soggettivamente, sentire, e quindi appetire; sidice desiderare in quanto l'appetire è rivolto a oggettiideali, ma non cessa d'esistere sensibilmente, d'esser ilsentimento d'una sensazione (per es. d'una parola) rap-presentativa di qualcos'altro; ossia d'una sensazione chevale soggettivamente per quel qualcos'altro che rappre-senta. Qui l'appetire, invece d'attuarsi in un atto pratico– in un atto che modifichi realmente l'oggetto, trasfor-mando la prima sensazione (stimolo) in una nuova –, siattua in un atto conoscitivo, l'attenzione, della stessaidentica natura degli atti pratici (è un adattamento fun-zionale allo stimolo), ma che condiziona una valutazio-ne del sensibile, percezione e giudizio: la percezione,come noi sappiamo, è un rapporto di valore implicito,una conoscenza in concreto, dove l'atto conoscitivo ana-lizza l'esperienza per metter in valore gli elementi e i ca-ratteri capaci di rappresentare ciò che l'oggetto dev'esse-re per essere realmente e praticamente; il giudizio espli-ca la valutazione, la esprime realmente. Anche qui l'esi-stenza del soggetto non è in sè, non è una sostanza: egli

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condizione del sentimento, e, come oggetti dati o rap-presentati (fra cui gli atti), appariscon mezzi e fini teleo-logici. Da nessuna parte s'impone un rapporto causale,di produzione dello psichico dal fisico o viceversa, cheautorizzi al tempo stesso il dualismo ontologico di mate-ria e spirito e la produzione dell'uno dall'altro: problemimal posti, quando son posti in natura.

Non essenzialmente diversa è la natura del «pensie-ro» o attività conoscitiva in generale. Pensare significaancora, soggettivamente, sentire, e quindi appetire; sidice desiderare in quanto l'appetire è rivolto a oggettiideali, ma non cessa d'esistere sensibilmente, d'esser ilsentimento d'una sensazione (per es. d'una parola) rap-presentativa di qualcos'altro; ossia d'una sensazione chevale soggettivamente per quel qualcos'altro che rappre-senta. Qui l'appetire, invece d'attuarsi in un atto pratico– in un atto che modifichi realmente l'oggetto, trasfor-mando la prima sensazione (stimolo) in una nuova –, siattua in un atto conoscitivo, l'attenzione, della stessaidentica natura degli atti pratici (è un adattamento fun-zionale allo stimolo), ma che condiziona una valutazio-ne del sensibile, percezione e giudizio: la percezione,come noi sappiamo, è un rapporto di valore implicito,una conoscenza in concreto, dove l'atto conoscitivo ana-lizza l'esperienza per metter in valore gli elementi e i ca-ratteri capaci di rappresentare ciò che l'oggetto dev'esse-re per essere realmente e praticamente; il giudizio espli-ca la valutazione, la esprime realmente. Anche qui l'esi-stenza del soggetto non è in sè, non è una sostanza: egli

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è il valore della cosa, che nel giudizio si esplica concet-tualizzando il rapporto fra sentire e sentito, nella co-scienza. Quando un sensibile, analiticamente emerso perl'attenzione, vien scelto a rappresentare il fine del vole-re, il dover essere, esso diviene idea, valore esplicito.

Il termine «conoscenza» va preso in generale, comepensiero, e non soltanto in particolare, come conoscenzateoretica. Conosciamo prima di tutto noi stessi, e cioè:poniamo in qualcosa (oggetto pratico) i fini del nostroappetire, e questo rapporto si può chiamare coscienza,valore (pratico) d'un oggetto, suo dover essere, ch'èsempre un'oggettivazione del sensibile, il fine posto inqualcosa d'ideale e opposto all'esistenza reale sensibile(che pur ce lo rappresenta), l'a priori dell'esperienza.Perciò, l'antinomia di soggetto (come fine) a oggetto(come sensazione) è la legge stessa del pensiero: ma ilfine è oggettivato, è valore (dover essere) dell'oggetto.L'antinomia, ripeto, non è dualità di due cose, ma tra-scendentalità del valore sulla sensazione data (presentecome sentimento).

Il pensiero pratico, che realmente consiste nella deli-berazione – attenzione comparativa fra le molteplicisensazioni (oggetti dati) per i molteplici appetiti (sog-getto dato) di cui è ricca l'esperienza umana; e quindiscelta o emergenza dell'uno su l'altro secondo tal valuta-zione o giudizio pratico – così facendo traduce il sog-getto empirico in fine, perchè lo mette in rapporto aglioggetti; mentre traduce l'oggetto empirico in valore, per-chè preso in rapporto al soggetto; ond'è che il pensiero

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è il valore della cosa, che nel giudizio si esplica concet-tualizzando il rapporto fra sentire e sentito, nella co-scienza. Quando un sensibile, analiticamente emerso perl'attenzione, vien scelto a rappresentare il fine del vole-re, il dover essere, esso diviene idea, valore esplicito.

Il termine «conoscenza» va preso in generale, comepensiero, e non soltanto in particolare, come conoscenzateoretica. Conosciamo prima di tutto noi stessi, e cioè:poniamo in qualcosa (oggetto pratico) i fini del nostroappetire, e questo rapporto si può chiamare coscienza,valore (pratico) d'un oggetto, suo dover essere, ch'èsempre un'oggettivazione del sensibile, il fine posto inqualcosa d'ideale e opposto all'esistenza reale sensibile(che pur ce lo rappresenta), l'a priori dell'esperienza.Perciò, l'antinomia di soggetto (come fine) a oggetto(come sensazione) è la legge stessa del pensiero: ma ilfine è oggettivato, è valore (dover essere) dell'oggetto.L'antinomia, ripeto, non è dualità di due cose, ma tra-scendentalità del valore sulla sensazione data (presentecome sentimento).

Il pensiero pratico, che realmente consiste nella deli-berazione – attenzione comparativa fra le molteplicisensazioni (oggetti dati) per i molteplici appetiti (sog-getto dato) di cui è ricca l'esperienza umana; e quindiscelta o emergenza dell'uno su l'altro secondo tal valuta-zione o giudizio pratico – così facendo traduce il sog-getto empirico in fine, perchè lo mette in rapporto aglioggetti; mentre traduce l'oggetto empirico in valore, per-chè preso in rapporto al soggetto; ond'è che il pensiero

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oggettivizza il soggetto stesso, superandone l'essere at-tuale e determinandone il divenire. Ma si noti che anchela sensazione, che nel caso contemplato (d'una delibera-zione pratico-utilitaria del tipo più empirico) verrebbemessa in valore (giudicata migliore) e scelta sulle altre,non vale più solamente per ciò che realmente è, ma valein confronto con la reale esistenza dell'esperienza re-stante: come modello, come «bene» opposto ad essa nelrapporto pratico. È già un'idea (ideale teoricamente,idea-forza praticamente), una rappresentazione del valo-re (fine oggettivato, «bene») realizzata nel sensibile. Unsimbolo. Perciò anche la nostra azione è diretta a tra-scender l'esperienza attuale, e a trasformarla.

Da questo caso, al porre razionalmente il valore prati-co in un concetto etico di bene assoluto, ossia necessarioe universale, non c'è differenza che di grado. L'opporsiassolutamente al sensibile, come soggetto assoluto (libe-ro) all'esperienza empirica – e quindi come volontà au-tonoma e fine universale opposto a tutte le sue condizio-ni e cause naturali è tuttavia l'oggettivarsi del soggettoempirico, del sentimento, in una legge, che ne diviene ilfine necessario, perchè il solo che appaghi l'infinita esi-genza soggettiva; e valore assoluto, perchè deve valerein sè, oggettivamente, come legge morale. Inutile avver-tire che tale legge esiste pur sempre, almeno, in un giu-dizio, in una espressione fenomenica che rappresenta inparole il valore. Il volere, in quanto attività pratica delpensiero, non è che una posizione di valore, un giudizio,per il quale il soggetto si costituisce oggettivamente

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oggettivizza il soggetto stesso, superandone l'essere at-tuale e determinandone il divenire. Ma si noti che anchela sensazione, che nel caso contemplato (d'una delibera-zione pratico-utilitaria del tipo più empirico) verrebbemessa in valore (giudicata migliore) e scelta sulle altre,non vale più solamente per ciò che realmente è, ma valein confronto con la reale esistenza dell'esperienza re-stante: come modello, come «bene» opposto ad essa nelrapporto pratico. È già un'idea (ideale teoricamente,idea-forza praticamente), una rappresentazione del valo-re (fine oggettivato, «bene») realizzata nel sensibile. Unsimbolo. Perciò anche la nostra azione è diretta a tra-scender l'esperienza attuale, e a trasformarla.

Da questo caso, al porre razionalmente il valore prati-co in un concetto etico di bene assoluto, ossia necessarioe universale, non c'è differenza che di grado. L'opporsiassolutamente al sensibile, come soggetto assoluto (libe-ro) all'esperienza empirica – e quindi come volontà au-tonoma e fine universale opposto a tutte le sue condizio-ni e cause naturali è tuttavia l'oggettivarsi del soggettoempirico, del sentimento, in una legge, che ne diviene ilfine necessario, perchè il solo che appaghi l'infinita esi-genza soggettiva; e valore assoluto, perchè deve valerein sè, oggettivamente, come legge morale. Inutile avver-tire che tale legge esiste pur sempre, almeno, in un giu-dizio, in una espressione fenomenica che rappresenta inparole il valore. Il volere, in quanto attività pratica delpensiero, non è che una posizione di valore, un giudizio,per il quale il soggetto si costituisce oggettivamente

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come un dover essere in sè (assoluto) dell'oggetto sensi-bile, che perciò gli apparisce soggettivo, relativoall'esperienza.

12. – Ma il pensiero, se è volontà pratica e posizionedeontologica in rapporto ai fini soggettivi e, in ultimaanalisi, al sentimento, è anche conoscenza e posizionelogica in rapporto all'esistenze sensibili e, in ultima ana-lisi, alla sensazione; e questo secondo rapporto non defi-nisce un'attività diversa da quella che costituisce il pri-mo. Nell'uso pratico dell'attività del pensiero, il cono-scere è il mezzo del volere: è quel volere che, valutandol'esperienza secondo i fini soggettivi, per trascenderel'essere nel dover essere, la conosce per trasformarla, equindi adopera l'oggetto come mezzo. Ma, per ciò fare,deve valutare l'oggetto in sè, deve oggettivare l'oggetto,trasformandosi in attività teoretica, in volontà di cono-scere. Attività pratica e teoretica sono i due «usi» dellostesso volere in quanto pensiero; e l'antinomia di sogget-to a oggetto, che n'è la legge, si attua fra l'aspirazionedel soggetto a oggettivarsi in un oggetto universale e as-soluto (valore morale) trascendente ogni sensibile, equindi reale sol come esigenza e legge formale, e il suobisogno d'adeguarsi all'esistenza reale per poterla tra-sformare, ch'è la necessità di determinare il valore direaltà per imprimervi la propria legge spirituale (i valoripratici).

Allora, l'esperienza reale, di mezzo che sempre era aifini pratici, si traduce in fine conoscitivo (teoretico) del

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come un dover essere in sè (assoluto) dell'oggetto sensi-bile, che perciò gli apparisce soggettivo, relativoall'esperienza.

12. – Ma il pensiero, se è volontà pratica e posizionedeontologica in rapporto ai fini soggettivi e, in ultimaanalisi, al sentimento, è anche conoscenza e posizionelogica in rapporto all'esistenze sensibili e, in ultima ana-lisi, alla sensazione; e questo secondo rapporto non defi-nisce un'attività diversa da quella che costituisce il pri-mo. Nell'uso pratico dell'attività del pensiero, il cono-scere è il mezzo del volere: è quel volere che, valutandol'esperienza secondo i fini soggettivi, per trascenderel'essere nel dover essere, la conosce per trasformarla, equindi adopera l'oggetto come mezzo. Ma, per ciò fare,deve valutare l'oggetto in sè, deve oggettivare l'oggetto,trasformandosi in attività teoretica, in volontà di cono-scere. Attività pratica e teoretica sono i due «usi» dellostesso volere in quanto pensiero; e l'antinomia di sogget-to a oggetto, che n'è la legge, si attua fra l'aspirazionedel soggetto a oggettivarsi in un oggetto universale e as-soluto (valore morale) trascendente ogni sensibile, equindi reale sol come esigenza e legge formale, e il suobisogno d'adeguarsi all'esistenza reale per poterla tra-sformare, ch'è la necessità di determinare il valore direaltà per imprimervi la propria legge spirituale (i valoripratici).

Allora, l'esperienza reale, di mezzo che sempre era aifini pratici, si traduce in fine conoscitivo (teoretico) del

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volere; e il valore, che praticamente tende a obbiettivar-si in un dover essere, si relativizza invece, come vedem-mo, all'esistenze reali, nelle categorie della conoscenza.Queste sono trascendentali, ossia a priori, rispetto aicontenuti sensibili, perchè appunto sono valori, fini co-noscitivi del volere, regole della conoscenza teoretica;ma, ripetiàmolo per l'ultima volta, non sono (non debbo-no essere per essere logiche) trascendenti, essendo il tra-scendente non l'essere ma il puro dover essere. Meglioancora, il dover essere oggettivo dell'oggetto (la veritàteoretica) non è che l'assoluto, l'in sè dell'esistenza sen-sibile, alla quale ultima ogni legge e costruzione logicasi deve adeguare. Per cui, ai due poli della stessa attivitàdel pensiero si trovano i due valori assoluti antinomici:il soggetto assoluto, come dover essere morale (libertà)e l'assoluto oggetto, come realtà ontologica, dover esse-re della sensazione (necessità).

A questo punto, anche il filosofo deve scegliere la suavia. Vuol egli affermare lo Spirito, determinare i finisoggettivi come valori in sè? Si ponga, come fece ilKant della Ragion Pratica, dal punto di vista pratico. Al-lora, il mondo sensibile, il mondo delle condizioni em-piriche, il mondo degli stessi nostri sentimenti, dellostesso nostro empirico volere, l'io reale come il reale og-getto, non contano più niente; ciò che importa è la nor-ma etica: il dovere. La pratica, per esser pratica, non habisogno d'una giustificazione teoretica, perchè è fine asè stessa. Le basta l'intuizione del dovere, l'intuizionemetafisica, ch'è la trascendentalità stessa d'ogni senti-

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volere; e il valore, che praticamente tende a obbiettivar-si in un dover essere, si relativizza invece, come vedem-mo, all'esistenze reali, nelle categorie della conoscenza.Queste sono trascendentali, ossia a priori, rispetto aicontenuti sensibili, perchè appunto sono valori, fini co-noscitivi del volere, regole della conoscenza teoretica;ma, ripetiàmolo per l'ultima volta, non sono (non debbo-no essere per essere logiche) trascendenti, essendo il tra-scendente non l'essere ma il puro dover essere. Meglioancora, il dover essere oggettivo dell'oggetto (la veritàteoretica) non è che l'assoluto, l'in sè dell'esistenza sen-sibile, alla quale ultima ogni legge e costruzione logicasi deve adeguare. Per cui, ai due poli della stessa attivitàdel pensiero si trovano i due valori assoluti antinomici:il soggetto assoluto, come dover essere morale (libertà)e l'assoluto oggetto, come realtà ontologica, dover esse-re della sensazione (necessità).

A questo punto, anche il filosofo deve scegliere la suavia. Vuol egli affermare lo Spirito, determinare i finisoggettivi come valori in sè? Si ponga, come fece ilKant della Ragion Pratica, dal punto di vista pratico. Al-lora, il mondo sensibile, il mondo delle condizioni em-piriche, il mondo degli stessi nostri sentimenti, dellostesso nostro empirico volere, l'io reale come il reale og-getto, non contano più niente; ciò che importa è la nor-ma etica: il dovere. La pratica, per esser pratica, non habisogno d'una giustificazione teoretica, perchè è fine asè stessa. Le basta l'intuizione del dovere, l'intuizionemetafisica, ch'è la trascendentalità stessa d'ogni senti-

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mento in quanto sentito. A Dio, pensava lo Spinoza, sigiunge per tutte le vie, da qualunque particolarissimo esoggettivissimo punto si prendano le mosse: basta amar-lo, volerlo praticamente, ossia sentirlo. La vita del senti-mento è tutta la nostra vita: «io» sono i miei sentimenti,i miei amori e i miei odii, i miei affetti e le mie passioni;nulla più. Ho dunque il diritto di affermarmi, di essereme stesso, affermando le mie finalità come tali, determi-nando come tali i valori pratici, assoluti. Qui non c'ènulla da relativizzare.

Ma il filosofo non è solo uomo pratico o religioso;vuol criticare la sua praticità e religiosità, come vuol cri-ticare la sua conoscenza ed esistenza di fatto. Meglioancora, il nostro vero ed ultimo scopo è quello di conci-liare, a traverso tal critica, l'antinomia fra il pratico ed ilteoretico, fra il soggetto e l'oggetto, fra l'assolutezza delvalore come fine e la sua relatività oggettiva e conosciti-va. Questa è la peculiare teoreticità del filosofo, che an-siosamente si domanda: il dover essere, come può real-mente esistere e attuarsi?

L'idea pura, la sintesi tutta a priori – risponderebbe ilKant della Ragion pura, il Kant criticista –, sia che rap-presenti (esprima in parole) l'assoluto oggetto (Dio), siache si rappresenti il soggetto assoluto (Io), non se li puòrappresentare che praticamente, come postulati. Essiposson esistere in un mondo noumenico, sono dei pen-sabili, anzi sono le condizioni necessarie per pensare –inteso il pensare come valutare praticamente o giudicareteoreticamente (spiegare) il fenomeno –; ma ciò che

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mento in quanto sentito. A Dio, pensava lo Spinoza, sigiunge per tutte le vie, da qualunque particolarissimo esoggettivissimo punto si prendano le mosse: basta amar-lo, volerlo praticamente, ossia sentirlo. La vita del senti-mento è tutta la nostra vita: «io» sono i miei sentimenti,i miei amori e i miei odii, i miei affetti e le mie passioni;nulla più. Ho dunque il diritto di affermarmi, di essereme stesso, affermando le mie finalità come tali, determi-nando come tali i valori pratici, assoluti. Qui non c'ènulla da relativizzare.

Ma il filosofo non è solo uomo pratico o religioso;vuol criticare la sua praticità e religiosità, come vuol cri-ticare la sua conoscenza ed esistenza di fatto. Meglioancora, il nostro vero ed ultimo scopo è quello di conci-liare, a traverso tal critica, l'antinomia fra il pratico ed ilteoretico, fra il soggetto e l'oggetto, fra l'assolutezza delvalore come fine e la sua relatività oggettiva e conosciti-va. Questa è la peculiare teoreticità del filosofo, che an-siosamente si domanda: il dover essere, come può real-mente esistere e attuarsi?

L'idea pura, la sintesi tutta a priori – risponderebbe ilKant della Ragion pura, il Kant criticista –, sia che rap-presenti (esprima in parole) l'assoluto oggetto (Dio), siache si rappresenti il soggetto assoluto (Io), non se li puòrappresentare che praticamente, come postulati. Essiposson esistere in un mondo noumenico, sono dei pen-sabili, anzi sono le condizioni necessarie per pensare –inteso il pensare come valutare praticamente o giudicareteoreticamente (spiegare) il fenomeno –; ma ciò che

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realmente esiste, ciò che il pensiero, pur trascendendolo,giudica esistente, nel tale o tal altro modo concettuale, èil fenomeno: «il cielo stellato sopra la testa», ossia unconcetto spaziale relativo ai sensibili, «il sentimento deldovere nel cuore», ossia un concetto dell'io come fattodi natura. Allorchè vado a cercare che cosa sia questanatura del sentimento, non trovo che un fascio di nerviin eccitazione; allorchè mi chiedo che cosa realmentesia la continuità del soggetto, non trovo che memoria eadattamento organico; allorchè voglio capire che cosasia il pensiero stesso che ora pensa, debbo farlo consi-stere in uno sforzo d'attenzione che si attua in parole. Larealtà è la natura.

La critica dopo Kant è andata ancora più in là, fino aun radicale empirismo, fino a un assoluto nominalismo.Di reale non c'è che l'esperienza nel suo divenire, nelsuo farsi attuale; i valori son tutti qui, nell'esistere di ciòche esiste individualmente, nelle qualità contingentisempre nuove e molteplici del farsi attuale. Il pensierostesso è reale in quanto si attua ne' suoi contenuti; inquanto forma, idea, non si tratta che di schemi astratti,traduzione schematica dell'esperienza che, anche per loHegel, segue il farsi reale, è reale per il già fatto. In fon-do, la «realtà» stessa è una parola: esiste la sola esisten-za, e l'unico vero modo di conoscerla, se non è la mede-sima coscienza intuitiva che ne rimanga al livello, ètutt'al più la conoscenza storica, che rivive attualmenteil fatto così come si fece, nella sua individualità e parti-colarità. Anche qui, contingentismo e attualismo hege-

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realmente esiste, ciò che il pensiero, pur trascendendolo,giudica esistente, nel tale o tal altro modo concettuale, èil fenomeno: «il cielo stellato sopra la testa», ossia unconcetto spaziale relativo ai sensibili, «il sentimento deldovere nel cuore», ossia un concetto dell'io come fattodi natura. Allorchè vado a cercare che cosa sia questanatura del sentimento, non trovo che un fascio di nerviin eccitazione; allorchè mi chiedo che cosa realmentesia la continuità del soggetto, non trovo che memoria eadattamento organico; allorchè voglio capire che cosasia il pensiero stesso che ora pensa, debbo farlo consi-stere in uno sforzo d'attenzione che si attua in parole. Larealtà è la natura.

La critica dopo Kant è andata ancora più in là, fino aun radicale empirismo, fino a un assoluto nominalismo.Di reale non c'è che l'esperienza nel suo divenire, nelsuo farsi attuale; i valori son tutti qui, nell'esistere di ciòche esiste individualmente, nelle qualità contingentisempre nuove e molteplici del farsi attuale. Il pensierostesso è reale in quanto si attua ne' suoi contenuti; inquanto forma, idea, non si tratta che di schemi astratti,traduzione schematica dell'esperienza che, anche per loHegel, segue il farsi reale, è reale per il già fatto. In fon-do, la «realtà» stessa è una parola: esiste la sola esisten-za, e l'unico vero modo di conoscerla, se non è la mede-sima coscienza intuitiva che ne rimanga al livello, ètutt'al più la conoscenza storica, che rivive attualmenteil fatto così come si fece, nella sua individualità e parti-colarità. Anche qui, contingentismo e attualismo hege-

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liano si possono dar la mano l'esperienza non si trascen-de; anzi, la trascendentalità (anche etica e religiosa) nonè che esperienza.

Ma, pur rimanendo nella nostra posizione, più vicinaa quella kantiana (perchè facile è combattere l'araziona-lismo di coloro che ragionano!); e riconoscendo la tra-scendentalità dei valori non come un reale teoretico, cheappunto si dovrebbe ridurre al mero fatto, ma come pra-ticità e dover essere assoluto – la «cosa in sè» oggettiva,l'«Io» soggettivo, irriducibili al reale dell'esperienza,che per quella diviene reale nel pensiero come per que-sto diviene ideale –, è ormai evidente che la filosofianon può fornire una prova teoretica della loro realtà,non può dimostrare che i valori sono reali (che la prati-cità è teoretica), dal momento che il teoretico, il reale, ciapparisce ormai come un caso del pratico, del dover es-sere, relativizzato all'esperienza. Ritornare da questa aun Io puro come reale in sè è una petizione di principio,alla quale si deve l'insoddisfazione che lascia in tuttil'idealismo filosofico, la cui bellezza pur ci attrae cosìfortemente. Perciò già appariscono i ritorni al realismoontologico, o i tuffi nel misticismo.

Ma, dopo un secolo e mezzo di criticismo, non pos-siamo ritornare alla filosofia trascendente senza rinun-ciare ad esser filosofi. La prova dell'esistere in sè dei va-lori, che per noi sono soltanto fini pratici e sentimento,ce la può dare soltanto l'esistenza, ossia la sensazione;ma ce la deve dare prima che il sensibile venga superatoin un particolar valore teoretico, prima che si realizzi in

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liano si possono dar la mano l'esperienza non si trascen-de; anzi, la trascendentalità (anche etica e religiosa) nonè che esperienza.

Ma, pur rimanendo nella nostra posizione, più vicinaa quella kantiana (perchè facile è combattere l'araziona-lismo di coloro che ragionano!); e riconoscendo la tra-scendentalità dei valori non come un reale teoretico, cheappunto si dovrebbe ridurre al mero fatto, ma come pra-ticità e dover essere assoluto – la «cosa in sè» oggettiva,l'«Io» soggettivo, irriducibili al reale dell'esperienza,che per quella diviene reale nel pensiero come per que-sto diviene ideale –, è ormai evidente che la filosofianon può fornire una prova teoretica della loro realtà,non può dimostrare che i valori sono reali (che la prati-cità è teoretica), dal momento che il teoretico, il reale, ciapparisce ormai come un caso del pratico, del dover es-sere, relativizzato all'esperienza. Ritornare da questa aun Io puro come reale in sè è una petizione di principio,alla quale si deve l'insoddisfazione che lascia in tuttil'idealismo filosofico, la cui bellezza pur ci attrae cosìfortemente. Perciò già appariscono i ritorni al realismoontologico, o i tuffi nel misticismo.

Ma, dopo un secolo e mezzo di criticismo, non pos-siamo ritornare alla filosofia trascendente senza rinun-ciare ad esser filosofi. La prova dell'esistere in sè dei va-lori, che per noi sono soltanto fini pratici e sentimento,ce la può dare soltanto l'esistenza, ossia la sensazione;ma ce la deve dare prima che il sensibile venga superatoin un particolar valore teoretico, prima che si realizzi in

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un concetto o in un'idea che lo trascende. Non è unaprova teoretica, è una prova metafisica. Nell'intuizionestessa sensibile, prima di salire alle idee, la trascenden-talità del valore è immediatamente presente come formasensibile, come forma «estetica». Non soltanto il bello èrivelatore dei valori in sè, ma n'è anche l'unica provapossibile, perchè soltanto nelle esistenze sensibili noiormai possiamo dire che qualcosa è in sè e per noi altempo stesso...

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un concetto o in un'idea che lo trascende. Non è unaprova teoretica, è una prova metafisica. Nell'intuizionestessa sensibile, prima di salire alle idee, la trascenden-talità del valore è immediatamente presente come formasensibile, come forma «estetica». Non soltanto il bello èrivelatore dei valori in sè, ma n'è anche l'unica provapossibile, perchè soltanto nelle esistenze sensibili noiormai possiamo dire che qualcosa è in sè e per noi altempo stesso...

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V.LA REALTÀ

E IL VALORE SENSIBILE

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V.LA REALTÀ

E IL VALORE SENSIBILE

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1. Il soggetto, per sè stesso, è sempre pratico. Pratici-tà e finalità sono i caratteri coi quali denotiamo la purasoggettività: il primo termine allude a ciò che possiamochiamare la natura soggettiva dell'esperienza (il soggettopsicologico), ma è sinonimo del secondo che indica ilrapporto di mezzo a fine costituente i valori, in quantosoggettivi, della medesima. Non appena scorgiamo degliinfusori natanti in una provetta i quali s'affollano versoil raggio di luce che vi facciamo cader sopra, siamo in-dotti a parlare di esseri «animati», pur sapendo che que-sto elementare tropismo si riduce a leggi di necessità na-turale, e che in essi manca la consapevolezza così delfine come del mezzo. Del pari, all'estremo opposto,l'azione umana, per quanto sia naturalmente condiziona-ta, la chiamiamo spirituale in quanto diretta a un fine li-bero.

Perciò quando consideriamo la vita animata – quandocioè essa è già un «dato», un contenuto della nostra at-tuale conoscenza –, la dobbiamo sempre pensare comeuna relazione di soggetto a oggetto: obbiettivamente,azione e reazione (causale) dell'uno su l'altro, ma intesoanche il soggetto nella sua organica concretezza realeossia in natura (unico modo possibile di conoscere real-

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1. Il soggetto, per sè stesso, è sempre pratico. Pratici-tà e finalità sono i caratteri coi quali denotiamo la purasoggettività: il primo termine allude a ciò che possiamochiamare la natura soggettiva dell'esperienza (il soggettopsicologico), ma è sinonimo del secondo che indica ilrapporto di mezzo a fine costituente i valori, in quantosoggettivi, della medesima. Non appena scorgiamo degliinfusori natanti in una provetta i quali s'affollano versoil raggio di luce che vi facciamo cader sopra, siamo in-dotti a parlare di esseri «animati», pur sapendo che que-sto elementare tropismo si riduce a leggi di necessità na-turale, e che in essi manca la consapevolezza così delfine come del mezzo. Del pari, all'estremo opposto,l'azione umana, per quanto sia naturalmente condiziona-ta, la chiamiamo spirituale in quanto diretta a un fine li-bero.

Perciò quando consideriamo la vita animata – quandocioè essa è già un «dato», un contenuto della nostra at-tuale conoscenza –, la dobbiamo sempre pensare comeuna relazione di soggetto a oggetto: obbiettivamente,azione e reazione (causale) dell'uno su l'altro, ma intesoanche il soggetto nella sua organica concretezza realeossia in natura (unico modo possibile di conoscere real-

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mente il soggetto, di realizzarlo in un oggetto); subietti-vamente, antinomia od accordo sentiti come coscienza,ossia valutazione e conoscenza.

Il rapporto cosciente fra un soggetto, presente (esi-stente) come sentimento rappresentativo della finalitàpuramente soggettiva (pratica), e un oggetto, dato comesensibile rappresentativo di altro fuori di sè (e quindifuori del me attuale)12, lo chiamiamo volere: una parola,giusto per indicare il rapporto di valore, il dislivello trail fine sentito (o il dover essere rappresentato) e l'esiste-re dato attualmente. Questo dislivello sentito, quest'anti-nomia o coscienza pratica è la ragione del pensiero, de-stinato a colmarlo. Come ciò avviene? Il «come» è unaquestione di fatto, e perciò psicologica e obbiettiva (na-turalistica, correggendo il sovrannaturalismo della psi-cologia corrente); la «ragione» è una questione filosofi-ca, che poi vedremo meglio.

Per la psicologia, come dissi, il pensiero non è un'atti-vità diversa dal volere. Questo si riduce a un rapporto fi-nalistico, che l'osservatore pone per partecipazione (rivi-vendolo) fra una sensazione, ch'è uno stimolo sentitocome spiacevole o men piacevole, e una nuova sensa-zione appagante, ch'è poi l'atto pratico e la modificazio-ne che ne consegue del rapporto di soggetto a oggetto inquanto qualcosa muta di fatto, sensibilmente (l'atto pra-tico trasforma il mondo, produce qualcosa). La volontà

12 Gli stessi sentimenti sono dei sensibili in quanto organici,rappresentativi dell'io concreto, della realtà naturale dell'io.

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mente il soggetto, di realizzarlo in un oggetto); subietti-vamente, antinomia od accordo sentiti come coscienza,ossia valutazione e conoscenza.

Il rapporto cosciente fra un soggetto, presente (esi-stente) come sentimento rappresentativo della finalitàpuramente soggettiva (pratica), e un oggetto, dato comesensibile rappresentativo di altro fuori di sè (e quindifuori del me attuale)12, lo chiamiamo volere: una parola,giusto per indicare il rapporto di valore, il dislivello trail fine sentito (o il dover essere rappresentato) e l'esiste-re dato attualmente. Questo dislivello sentito, quest'anti-nomia o coscienza pratica è la ragione del pensiero, de-stinato a colmarlo. Come ciò avviene? Il «come» è unaquestione di fatto, e perciò psicologica e obbiettiva (na-turalistica, correggendo il sovrannaturalismo della psi-cologia corrente); la «ragione» è una questione filosofi-ca, che poi vedremo meglio.

Per la psicologia, come dissi, il pensiero non è un'atti-vità diversa dal volere. Questo si riduce a un rapporto fi-nalistico, che l'osservatore pone per partecipazione (rivi-vendolo) fra una sensazione, ch'è uno stimolo sentitocome spiacevole o men piacevole, e una nuova sensa-zione appagante, ch'è poi l'atto pratico e la modificazio-ne che ne consegue del rapporto di soggetto a oggetto inquanto qualcosa muta di fatto, sensibilmente (l'atto pra-tico trasforma il mondo, produce qualcosa). La volontà

12 Gli stessi sentimenti sono dei sensibili in quanto organici,rappresentativi dell'io concreto, della realtà naturale dell'io.

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diretta e immediata («pratica» in senso più stretto) è det-ta spontanea e impulsiva; ma essa implicitamente giàpossiede un valore teoretico, la percezione, e un valorepratico (in senso largo), la valutazione del percetto comemezzo o fine piacevole. Risale anche oltre il Tainel'osservazione, che una percezione non è che un ragio-namento abbreviato (o meglio, automatizzato); e delpari un sentimento implica la valutazione pratica di tuttala sensazione onde emerge, anche se non pongo in evi-denza il mio fine come dover essere e il rapporto di que-sto con l'essere reale, col percetto.

Il pensiero è quel volere per cui si esplicano ed evi-denziano i valori impliciti (si scopre) e se ne produconodei nuovi (s'inventa). Lo psicologo non trova, non puòtrovare, una realtà, una natura diversa da quella del vo-lere in genere: trova soltanto condizioni più complessenell'unità degli elementi contingenti (per es. lo stimolodubbio, che può esser diversamente percepito; o unaambiguità o pluralità di fini possibili, ossia una plurivo-cità di sentimento ecc.), per cui l'atto pratico, quello chemodifica il reale dato, viene sostituito da un atto cono-scitivo (per es. la parola). Il pensare, come il volere ingenere, lo diciamo un'attività proprio e soltanto nel si-gnificato naturalistico del termine: per indicare la causa-lità che lega due dati dell'esperienza (per es. la sensazio-ne di sforzo dell'attenzione e la sensazione dell'atto, del-la parola che lo attua). Il pensiero è attivo in quanto di-viene realmente, in quanto fa qualcosa; non è una miste-riosa potenza che stia sotto il suo atto, è un modo di agi-

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diretta e immediata («pratica» in senso più stretto) è det-ta spontanea e impulsiva; ma essa implicitamente giàpossiede un valore teoretico, la percezione, e un valorepratico (in senso largo), la valutazione del percetto comemezzo o fine piacevole. Risale anche oltre il Tainel'osservazione, che una percezione non è che un ragio-namento abbreviato (o meglio, automatizzato); e delpari un sentimento implica la valutazione pratica di tuttala sensazione onde emerge, anche se non pongo in evi-denza il mio fine come dover essere e il rapporto di que-sto con l'essere reale, col percetto.

Il pensiero è quel volere per cui si esplicano ed evi-denziano i valori impliciti (si scopre) e se ne produconodei nuovi (s'inventa). Lo psicologo non trova, non puòtrovare, una realtà, una natura diversa da quella del vo-lere in genere: trova soltanto condizioni più complessenell'unità degli elementi contingenti (per es. lo stimolodubbio, che può esser diversamente percepito; o unaambiguità o pluralità di fini possibili, ossia una plurivo-cità di sentimento ecc.), per cui l'atto pratico, quello chemodifica il reale dato, viene sostituito da un atto cono-scitivo (per es. la parola). Il pensare, come il volere ingenere, lo diciamo un'attività proprio e soltanto nel si-gnificato naturalistico del termine: per indicare la causa-lità che lega due dati dell'esperienza (per es. la sensazio-ne di sforzo dell'attenzione e la sensazione dell'atto, del-la parola che lo attua). Il pensiero è attivo in quanto di-viene realmente, in quanto fa qualcosa; non è una miste-riosa potenza che stia sotto il suo atto, è un modo di agi-

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re di quella concreta esistenza obbiettiva, ch'è l'essereindividuale dato in una sensazione.

L'atto del pensiero, il suo esistere, si chiama «idea»;ma non è una «cosa» diversa dal dato sensibile: la diffe-renza sta unicamente in ciò, che un atto (il percepire at-tento come il fare di proposito, l'agire come il parlare) èun'idea in quanto rappresenta un fine e un valore che lotrascende (che non si realizza tutto nel sensibile). Si po-trebbe anche dire, che un'idea è quel sensibile che è co-sciente del sovrasensibile: è cosciente dei valori ch'essorappresenta ma non esaudisce e per i quali esso «vale»;e questa coscienza è almeno il sentimento del dislivellofra l'esistere attuale e il fine soggettivamente sentito. Al-lora l'attività pratica, il volere, si serve dell'atto (e spe-cialmente della parola) per rappresentare il valore, il do-ver essere: l'essere di un atto (qual'è per es, la parola)non conta più niente per sè.

La coscienza che, non paga dell'esistenze sensibili, lenega o se ne serve sol per affermare (per produrre ideal-mente) i valori (soggettivi e oggettivi) che le trascendo-no, è il conoscere: un modo del fare (ossia del divenire);però, un fare per valutare, un giudizio. Ma evidentemen-te la conoscenza, l'idea, non è che un mezzo, una tappadell'essere, che mette in evidenza i suoi valori impliciti eli prende come idee del dover essere per realizzarlicome esistenze. Anzi, il parlare medesimo, il costruire ivalori in linguaggio, è già un attuarli realmente; e in ge-nerale, il fare pensatamente, la volontà cosciente, è unattuare nella contingenza (ossia, come «si può», real-

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re di quella concreta esistenza obbiettiva, ch'è l'essereindividuale dato in una sensazione.

L'atto del pensiero, il suo esistere, si chiama «idea»;ma non è una «cosa» diversa dal dato sensibile: la diffe-renza sta unicamente in ciò, che un atto (il percepire at-tento come il fare di proposito, l'agire come il parlare) èun'idea in quanto rappresenta un fine e un valore che lotrascende (che non si realizza tutto nel sensibile). Si po-trebbe anche dire, che un'idea è quel sensibile che è co-sciente del sovrasensibile: è cosciente dei valori ch'essorappresenta ma non esaudisce e per i quali esso «vale»;e questa coscienza è almeno il sentimento del dislivellofra l'esistere attuale e il fine soggettivamente sentito. Al-lora l'attività pratica, il volere, si serve dell'atto (e spe-cialmente della parola) per rappresentare il valore, il do-ver essere: l'essere di un atto (qual'è per es, la parola)non conta più niente per sè.

La coscienza che, non paga dell'esistenze sensibili, lenega o se ne serve sol per affermare (per produrre ideal-mente) i valori (soggettivi e oggettivi) che le trascendo-no, è il conoscere: un modo del fare (ossia del divenire);però, un fare per valutare, un giudizio. Ma evidentemen-te la conoscenza, l'idea, non è che un mezzo, una tappadell'essere, che mette in evidenza i suoi valori impliciti eli prende come idee del dover essere per realizzarlicome esistenze. Anzi, il parlare medesimo, il costruire ivalori in linguaggio, è già un attuarli realmente; e in ge-nerale, il fare pensatamente, la volontà cosciente, è unattuare nella contingenza (ossia, come «si può», real-

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mente) i valori trascendentali. Nessuno mai riconosceràpiù di me, sensista, il valore di un'idea!

2. – Ciò ricordato, mettiamoci ancor una volta nellaposizione galileiana, di chi, data un'esperienza qualun-que, per es, un pezzetto di ferro attratto da una calamita,in assenza o astraendo da ogni altro interesse o fine sog-gettivo, si pone a fine l'oggetto stesso, la pura conoscen-za teoretica: conoscere per conoscere. Conoscere peridee significa semplificare ancor più quella sempliceesperienza; impoverire l'esperienza di tutte le sue con-tingenze per ridurla a immagini generiche o astratte disostanza e causa – per es. di corpo e moto, materia edenergia, e simili (mettiamo, «ferro» e «attrazione») –;poi, se vi riusciamo, a semplicissimi rapporti d'identitàesplicati in parole di valore astraente, come il linguag-gio matematico, che non conservano nulla di sensibile,nè quindi d'immaginativo (fuor che sè stesse!), e posso-no pertanto rappresentare l'identità logica senza residuidi molteplicità empirica, fuori del tempo storico e per-ciò, valevole anche per l'avvenire.

Il nominalismo contemporaneo non ci obbliga puntoa dispregiare la conoscenza oggettivante e la scienza: neinduce soltanto a sapere ciò che vogliamo. Vogliamocontentarci di vedere, di toccare, di conservare in tuttala sua contingente realtà questo singolo ricco originalespontaneo farsi attuale della nostra esperienza? Ne isti-tuiremo la storia; ossia, per quanto è possibile, lo rivi-vremo e lo faremo rivivere nella sua individualità quali-

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mente) i valori trascendentali. Nessuno mai riconosceràpiù di me, sensista, il valore di un'idea!

2. – Ciò ricordato, mettiamoci ancor una volta nellaposizione galileiana, di chi, data un'esperienza qualun-que, per es, un pezzetto di ferro attratto da una calamita,in assenza o astraendo da ogni altro interesse o fine sog-gettivo, si pone a fine l'oggetto stesso, la pura conoscen-za teoretica: conoscere per conoscere. Conoscere peridee significa semplificare ancor più quella sempliceesperienza; impoverire l'esperienza di tutte le sue con-tingenze per ridurla a immagini generiche o astratte disostanza e causa – per es. di corpo e moto, materia edenergia, e simili (mettiamo, «ferro» e «attrazione») –;poi, se vi riusciamo, a semplicissimi rapporti d'identitàesplicati in parole di valore astraente, come il linguag-gio matematico, che non conservano nulla di sensibile,nè quindi d'immaginativo (fuor che sè stesse!), e posso-no pertanto rappresentare l'identità logica senza residuidi molteplicità empirica, fuori del tempo storico e per-ciò, valevole anche per l'avvenire.

Il nominalismo contemporaneo non ci obbliga puntoa dispregiare la conoscenza oggettivante e la scienza: neinduce soltanto a sapere ciò che vogliamo. Vogliamocontentarci di vedere, di toccare, di conservare in tuttala sua contingente realtà questo singolo ricco originalespontaneo farsi attuale della nostra esperienza? Ne isti-tuiremo la storia; ossia, per quanto è possibile, lo rivi-vremo e lo faremo rivivere nella sua individualità quali-

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tativa. Vogliamo invece conoscer per concetti, ossia«spiegare» il fenomeno, trascender l'esperienza partico-lare per fissarne le «ragioni» universali? Allora, ripeto,prima parleremo di ferro e d'attrazione, e poi via via dicampo magnetico immaginato come uno spazio in cuiun imponderabile mezzo elastico agisca per spostamen-ti; fin che giungeremo a pensare il fatto in una formula,in una legge: la natura. Sol che questa natura o dover es-sere in sè del fenomeno, non è più un qualcosa trascen-dente – poi che è un'ipotesi da noi stessi inventata –, maè il valore trascendentale, razionale (nel nostro caso,scientifico) dell'esperienza.

Nessuno dunque sarà oggi così dogmatico da credereche, anche nel caso della conoscenza più obbiettiva escientifica, si sia eliminato il soggetto, nè dall'oggettoconosciuto come reale, nè tanto meno dalla conoscenza.Tutti sanno che conoscere non è riflettere passivamentequalcosa che stia fuori di noi, ma un costruire la realtàcome verità oggettiva; e mai quanto nel citato esempiodel conoscere strettamente teoretico, il soggetto è altret-tanto attivo, la volontà attenta e disciplinata, il pensieroformativo e concettuale. Il metodo galileiano non elimi-na il soggetto pensante dall'oggetto pensato: vuol soloevitare che la praticità soggettiva e gli «idola» che nederivano limitino la teoreticità del fine oggettivo puro.

Ma qui bisogna approfondire. Risolvere il problemadella scienza è come risolvere il problema della cono-scenza in genere, in quanto è conoscenza teoretica: lascienza non è che la forma più squisita e controllata del

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tativa. Vogliamo invece conoscer per concetti, ossia«spiegare» il fenomeno, trascender l'esperienza partico-lare per fissarne le «ragioni» universali? Allora, ripeto,prima parleremo di ferro e d'attrazione, e poi via via dicampo magnetico immaginato come uno spazio in cuiun imponderabile mezzo elastico agisca per spostamen-ti; fin che giungeremo a pensare il fatto in una formula,in una legge: la natura. Sol che questa natura o dover es-sere in sè del fenomeno, non è più un qualcosa trascen-dente – poi che è un'ipotesi da noi stessi inventata –, maè il valore trascendentale, razionale (nel nostro caso,scientifico) dell'esperienza.

Nessuno dunque sarà oggi così dogmatico da credereche, anche nel caso della conoscenza più obbiettiva escientifica, si sia eliminato il soggetto, nè dall'oggettoconosciuto come reale, nè tanto meno dalla conoscenza.Tutti sanno che conoscere non è riflettere passivamentequalcosa che stia fuori di noi, ma un costruire la realtàcome verità oggettiva; e mai quanto nel citato esempiodel conoscere strettamente teoretico, il soggetto è altret-tanto attivo, la volontà attenta e disciplinata, il pensieroformativo e concettuale. Il metodo galileiano non elimi-na il soggetto pensante dall'oggetto pensato: vuol soloevitare che la praticità soggettiva e gli «idola» che nederivano limitino la teoreticità del fine oggettivo puro.

Ma qui bisogna approfondire. Risolvere il problemadella scienza è come risolvere il problema della cono-scenza in genere, in quanto è conoscenza teoretica: lascienza non è che la forma più squisita e controllata del

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modo comune di pensare per concetti; l'osservazionescientifica non è che una percezione metodica, l'analisi ela sintesi delle scienze non fanno che perfezionare la co-mune astrazione e generalizzazione; la «natura» delloscienziato non è che il «mondo reale» dell'uomo comu-ne, reso del tutto obbiettivo. Se si dubita del valore diquesta obbiettività, ossia del valore di realtà della «natu-ra» – perchè si pone in altro la realtà del valore (nel so-vrannaturale, come un tempo; nella soggettività, oggi) –,si dubita inclusivamente del «mondo» affermato dalsenso comune.

Alla parte più superficiale dell'odierno prammati-smo13 è facile rispondere. È vero che i concetti dell'intel-letto, e tanto più le leggi scientifiche, sono strumentieconomici della vita e obbediscono a esigenze praticheo affatto utilitarie. Sì, anche una qualunque idea genera-le, per es. «seggiola», io l'applico deduttivamente, quan-do n'ho bisogno, a un nuovo percetto cui si possa esten-dere. Ma ciò non implica che sia soggettivo e pratico (insenso stretto) il processo induttivo con cui quell'idea s'èformata; anzi, l'applicabilità dei concetti ai fini pratici èin ragione della lor oggettività teoretica. Affinchè unalegge scientifica sia fonte di applicazioni utilitarie, è ne-cessario che sia reale e vera in sè. Perciò la volontà pra-

13 Prendo dunque questo nome, non nel senso d'una particola-re corrente, ma per alludere a tutto l'atteggiamento della filosofiacontemporanea, dai prammatisti americani alla «filosofia dei va-lori» germanica, in quanto afferma che il conoscere teoretico nonè che un modo e un mezzo dell'attività e, infine, del volere.

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modo comune di pensare per concetti; l'osservazionescientifica non è che una percezione metodica, l'analisi ela sintesi delle scienze non fanno che perfezionare la co-mune astrazione e generalizzazione; la «natura» delloscienziato non è che il «mondo reale» dell'uomo comu-ne, reso del tutto obbiettivo. Se si dubita del valore diquesta obbiettività, ossia del valore di realtà della «natu-ra» – perchè si pone in altro la realtà del valore (nel so-vrannaturale, come un tempo; nella soggettività, oggi) –,si dubita inclusivamente del «mondo» affermato dalsenso comune.

Alla parte più superficiale dell'odierno prammati-smo13 è facile rispondere. È vero che i concetti dell'intel-letto, e tanto più le leggi scientifiche, sono strumentieconomici della vita e obbediscono a esigenze praticheo affatto utilitarie. Sì, anche una qualunque idea genera-le, per es. «seggiola», io l'applico deduttivamente, quan-do n'ho bisogno, a un nuovo percetto cui si possa esten-dere. Ma ciò non implica che sia soggettivo e pratico (insenso stretto) il processo induttivo con cui quell'idea s'èformata; anzi, l'applicabilità dei concetti ai fini pratici èin ragione della lor oggettività teoretica. Affinchè unalegge scientifica sia fonte di applicazioni utilitarie, è ne-cessario che sia reale e vera in sè. Perciò la volontà pra-

13 Prendo dunque questo nome, non nel senso d'una particola-re corrente, ma per alludere a tutto l'atteggiamento della filosofiacontemporanea, dai prammatisti americani alla «filosofia dei va-lori» germanica, in quanto afferma che il conoscere teoretico nonè che un modo e un mezzo dell'attività e, infine, del volere.

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tica, pur agendo da stimolo della ricerca oggettiva, do-vrebbe pur sempre, per così dire, restarne fuori: l'uomoha ben appreso che, per dominare la natura, bisogna co-noscerla così com'è indipendentemente da lui.

Inoltre, pur convenendo che il conoscere è una co-struzione del soggetto, è un fare, e quindi soggettiva-mente è un volere; che pertanto è un modo e un mezzodell'attività pratica, si deve subito aggiungere che il co-noscer teoretico, e tanto più la scienza, sono un volerconoscere, e realizzeranno il volere in quanto vogliono eraggiungono una realtà obbiettiva, costruiscono qualco-sa che non è più «io» ma «mondo» e «natura» qualidebbon essere in sè. Il prammatismo stesso, che valoreavrebbe, se non fosse e volesse essere una verità ogget-tiva, un concetto reale? Allora il problema si converte inquest'altro: la praticità soggettiva in che modo divieneteoreticità? Il che è come chiedere: in che modo il sog-getto si oggettiva? Basta forse volerlo, basta convertirein teoretico il fine pratico? Ma, data la praticità e sog-gettività di tutti i valori, non è la loro verità e realtàun'illusione?

3. – Qui il prammatismo epistemologico affonda lesue radici nel soggettivismo dell'odierna filosofia, ben-chè questo spesso ripudii quel suo figliuolo troppo ame-ricano. L'unica realtà di cui si possa parlare è la «no-stra» realtà. Il soggetto è già reale in sè, perchè è il soloessere già dato quando incominciamo a conoscere, ilsolo di cui non si possa dubitare e da cui non si possa

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tica, pur agendo da stimolo della ricerca oggettiva, do-vrebbe pur sempre, per così dire, restarne fuori: l'uomoha ben appreso che, per dominare la natura, bisogna co-noscerla così com'è indipendentemente da lui.

Inoltre, pur convenendo che il conoscere è una co-struzione del soggetto, è un fare, e quindi soggettiva-mente è un volere; che pertanto è un modo e un mezzodell'attività pratica, si deve subito aggiungere che il co-noscer teoretico, e tanto più la scienza, sono un volerconoscere, e realizzeranno il volere in quanto vogliono eraggiungono una realtà obbiettiva, costruiscono qualco-sa che non è più «io» ma «mondo» e «natura» qualidebbon essere in sè. Il prammatismo stesso, che valoreavrebbe, se non fosse e volesse essere una verità ogget-tiva, un concetto reale? Allora il problema si converte inquest'altro: la praticità soggettiva in che modo divieneteoreticità? Il che è come chiedere: in che modo il sog-getto si oggettiva? Basta forse volerlo, basta convertirein teoretico il fine pratico? Ma, data la praticità e sog-gettività di tutti i valori, non è la loro verità e realtàun'illusione?

3. – Qui il prammatismo epistemologico affonda lesue radici nel soggettivismo dell'odierna filosofia, ben-chè questo spesso ripudii quel suo figliuolo troppo ame-ricano. L'unica realtà di cui si possa parlare è la «no-stra» realtà. Il soggetto è già reale in sè, perchè è il soloessere già dato quando incominciamo a conoscere, ilsolo di cui non si possa dubitare e da cui non si possa

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prescindere. Gli «oggetti» sono «momenti» del suo realdivenire: le idee (ossia le conoscenze) sono le coseistesse, reali perchè attuazioni dell'io, non perchè miti-camente corrispondenti a una inammissibile cosa in sè.

La posizione dell'antico realismo viene così doppia-mente capovolta: in noetica, parlando del pensiero comerapporto conoscitivo (dialettico) di soggetto a oggetto,traduzione logica dell'antinomia di pratico e teoretico; inmetafisica, considerando il reale divenire come l'attuarsidello spirito nella natura. La natura è un'idea astratta delpensiero, ma che non possiamo astrarre dal pensiero. Ilpensiero se la costruisce per antitesi all'io pensante, maessa vale soltanto per lui, come momento oggettivo delpensiero stesso. Infatti l'idea di natura è un modo di uni-ficare l'esperienza mediante le categorie di sostanza ecausa, le quali non son degli enti esistenti in sè, ma stru-menti puramente formali del pensiero per attingere quel-la necessità e universalità che deve valere obiettivamen-te, appunto come realtà dell'essere e del divenire. Ora,questa necessità e universalità obiettiva raggiunta coiconcetti di natura unificanti l'esperienza, non potendocivenire dai particolari contenuti di questa, è a priori, è ilpensiero che ce la mette: è il soggetto in quanto Spiritouniversale e assoluto. Più rigorosamente, dopo Kant, sidice che i valori del pensiero sono immanenti ne' suoioggetti.

Teoreticamente, la realtà dello Spirito dà valore realealla natura obbiettivandosi per conoscere: questo, se siparla del pensiero in astratto; ma in concreto poi, il pen-

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prescindere. Gli «oggetti» sono «momenti» del suo realdivenire: le idee (ossia le conoscenze) sono le coseistesse, reali perchè attuazioni dell'io, non perchè miti-camente corrispondenti a una inammissibile cosa in sè.

La posizione dell'antico realismo viene così doppia-mente capovolta: in noetica, parlando del pensiero comerapporto conoscitivo (dialettico) di soggetto a oggetto,traduzione logica dell'antinomia di pratico e teoretico; inmetafisica, considerando il reale divenire come l'attuarsidello spirito nella natura. La natura è un'idea astratta delpensiero, ma che non possiamo astrarre dal pensiero. Ilpensiero se la costruisce per antitesi all'io pensante, maessa vale soltanto per lui, come momento oggettivo delpensiero stesso. Infatti l'idea di natura è un modo di uni-ficare l'esperienza mediante le categorie di sostanza ecausa, le quali non son degli enti esistenti in sè, ma stru-menti puramente formali del pensiero per attingere quel-la necessità e universalità che deve valere obiettivamen-te, appunto come realtà dell'essere e del divenire. Ora,questa necessità e universalità obiettiva raggiunta coiconcetti di natura unificanti l'esperienza, non potendocivenire dai particolari contenuti di questa, è a priori, è ilpensiero che ce la mette: è il soggetto in quanto Spiritouniversale e assoluto. Più rigorosamente, dopo Kant, sidice che i valori del pensiero sono immanenti ne' suoioggetti.

Teoreticamente, la realtà dello Spirito dà valore realealla natura obbiettivandosi per conoscere: questo, se siparla del pensiero in astratto; ma in concreto poi, il pen-

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siero si attua, il soggetto diviene e si realizza nell'espe-rienza, per la quale esso vale. La realtà immediata e me-tafisica del soggetto pensante (universale) è il suo at-tuarsi nell'oggetto contingente, nell'esperienza concreta.Perciò anche la conoscenza, che come astratta idea è na-tura (scienza), come idea reale è storia, è il divenirestesso reale così come diviene.

Tal contingentismo riaccosta gli hegeliani alla corren-te intuizionista (proveniente, in fondo, dal positivismo),e per questa via, come già dissi, facilmente si giunge aconvertire l'idealismo in un radicale empirismo: se larealtà dello spirito non è che il divenire storico e di fatto– e anzi questo «fatto» non è che astratto contenuto co-noscitivo dell'atto reale, ond'è che la storia stessa vale,come sapere, in quanto è sempre attualità soggettiva –,quella famosa trascendentalità dei valori, quel dover es-sere dello Spirito, pratico (l'eticità) e teoretico (la veri-tà), che costituisce il carattere di universalità e necessitàdel suo essere assoluto, dove mai andrà a finire? Su checi fonderemo più per giudicare buono un atto, vero unoggetto? Immanentizzato del tutto nell'atto e nei conte-nuti, anzi in essi realizzato, il valore non li può più su-perare se non in quanto un atto (e quindi un oggetto) sirelativizza col suo precedente, che diviene un disvalore,il male e l'errore del bene e del vero attuale.

Di ciò approfitta il prammatismo per svalutare l'intel-letto e prenderne i concetti come mezzi strumentali aiservigi della soggettiva empirica esperienza. Ma questosoggetto empirico di cui ora parliamo, non è anch'esso

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siero si attua, il soggetto diviene e si realizza nell'espe-rienza, per la quale esso vale. La realtà immediata e me-tafisica del soggetto pensante (universale) è il suo at-tuarsi nell'oggetto contingente, nell'esperienza concreta.Perciò anche la conoscenza, che come astratta idea è na-tura (scienza), come idea reale è storia, è il divenirestesso reale così come diviene.

Tal contingentismo riaccosta gli hegeliani alla corren-te intuizionista (proveniente, in fondo, dal positivismo),e per questa via, come già dissi, facilmente si giunge aconvertire l'idealismo in un radicale empirismo: se larealtà dello spirito non è che il divenire storico e di fatto– e anzi questo «fatto» non è che astratto contenuto co-noscitivo dell'atto reale, ond'è che la storia stessa vale,come sapere, in quanto è sempre attualità soggettiva –,quella famosa trascendentalità dei valori, quel dover es-sere dello Spirito, pratico (l'eticità) e teoretico (la veri-tà), che costituisce il carattere di universalità e necessitàdel suo essere assoluto, dove mai andrà a finire? Su checi fonderemo più per giudicare buono un atto, vero unoggetto? Immanentizzato del tutto nell'atto e nei conte-nuti, anzi in essi realizzato, il valore non li può più su-perare se non in quanto un atto (e quindi un oggetto) sirelativizza col suo precedente, che diviene un disvalore,il male e l'errore del bene e del vero attuale.

Di ciò approfitta il prammatismo per svalutare l'intel-letto e prenderne i concetti come mezzi strumentali aiservigi della soggettiva empirica esperienza. Ma questosoggetto empirico di cui ora parliamo, non è anch'esso

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un particolar contenuto, un oggetto astratto (se preso insè) di quella vera, di quella necessaria e universale real-tà, ch'è propria soltanto del pensiero in atto, ossia che ègià data, per l'idealismo, come assolutamente a priori? IlSoggetto assoluto, lo Spirito, preso come realtà di tutti ivalori, non è l'oggettività stessa?

Piuttosto chiediamo: questo Oggetto assoluto, che sichiama Soggetto perchè si attua in quelle idee, ossia inquegli oggetti che sono i miei particolari oggetti, è unprincipio, oppure è proprio il farsi, il divenire reale?Evidentemente è un principio, è un postulato o idea for-male, reale come idea della oggettività: principio dellarealtà, ma non real divenire se non in quanto si attuaparticolarmente. È negli oggetti particolari che noi lotroviamo come coscienza conoscitiva; e ad esso, come aun postulato, rinviamo la certezza reale. La realtà comeoggettività universale e necessaria rimane un dato apriori, di «natura» soggettiva perchè postulato del sog-getto, ma unica «ragione», misticamente addotta, delsuo farsi oggettivo come particolare atto ed oggetto. Ilproblema resta al punto preciso in cui lo aveva lasciatoil Kant.

L'idealismo non ha risolto che il problema internodella filosofia, dando a questa il compito strettamenteteoretico che la distingue dalla religione come dalla co-noscenza empirica, le quali rimangono nell'antinomia disoggetto e oggetto escludendo l'uno dall'altro (pensanoper antitesi pratica invece che per sintesi teoretica pura).L'antinomia pratica di soggetto a oggetto – l'incontenta-

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un particolar contenuto, un oggetto astratto (se preso insè) di quella vera, di quella necessaria e universale real-tà, ch'è propria soltanto del pensiero in atto, ossia che ègià data, per l'idealismo, come assolutamente a priori? IlSoggetto assoluto, lo Spirito, preso come realtà di tutti ivalori, non è l'oggettività stessa?

Piuttosto chiediamo: questo Oggetto assoluto, che sichiama Soggetto perchè si attua in quelle idee, ossia inquegli oggetti che sono i miei particolari oggetti, è unprincipio, oppure è proprio il farsi, il divenire reale?Evidentemente è un principio, è un postulato o idea for-male, reale come idea della oggettività: principio dellarealtà, ma non real divenire se non in quanto si attuaparticolarmente. È negli oggetti particolari che noi lotroviamo come coscienza conoscitiva; e ad esso, come aun postulato, rinviamo la certezza reale. La realtà comeoggettività universale e necessaria rimane un dato apriori, di «natura» soggettiva perchè postulato del sog-getto, ma unica «ragione», misticamente addotta, delsuo farsi oggettivo come particolare atto ed oggetto. Ilproblema resta al punto preciso in cui lo aveva lasciatoil Kant.

L'idealismo non ha risolto che il problema internodella filosofia, dando a questa il compito strettamenteteoretico che la distingue dalla religione come dalla co-noscenza empirica, le quali rimangono nell'antinomia disoggetto e oggetto escludendo l'uno dall'altro (pensanoper antitesi pratica invece che per sintesi teoretica pura).L'antinomia pratica di soggetto a oggetto – l'incontenta-

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bilità morale, ma anche il dubbio conoscitivo –, vissutacome sentimento e volere (conoscenza pratica), si espli-ca come dialettica del pensiero mediato, il quale traducequell'antitesi assoluta in un'opposizione relativa, presup-ponente l'identità essenziale dei due termini (l'unità dicoscienza). Questo fu il passo compiuto dallo Hegel so-pra il Kant, il quale già aveva trasportato il dualismodelle sostanze cartesiane nell'interno del pensiero, ma neaveva rinviato l'unificazione ai regni dell'inconoscibilenoumenico. Perciò, come vedemmo, anche la filosofiakantiana rimane una posizione pratica e deontologica: larealtà dei valori è un dover essere.

La posizione dialettica invece è, o vuol essere, teore-tica (anche riguardo ai valori pratici): dal punto di vistalogico, il soggetto pone l'oggetto e lo distingue per ne-gazione della sua propria soggettività, ma l'oggetto noncessa, d'esser tale per un soggetto, d'esser un'idea (e nonuna realtà in sè); dal punto di vista metafisico, il sogget-to si attua di volta in volta in quel reale oggetto ch'è lasua propria (e unica!) realtà. Allora non c'è più una ma-teria separata dallo spirito, un corpo separato dall'anima,una cosa separata dal suo valore; e nemmeno cidev'essere una conoscenza oggettiva teoretica separatakantiananiente da una conoscenza puro pratica. La for-ma vale sempre ne' suoi contenuti, l'essere si realizzanel divenire; esistenza e trascendenza si concilianonell'immanenza del trascendentale nell'attuale esistere(soggettivo), il quale diviene così l'essere teoretico deldover essere kantiano.

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bilità morale, ma anche il dubbio conoscitivo –, vissutacome sentimento e volere (conoscenza pratica), si espli-ca come dialettica del pensiero mediato, il quale traducequell'antitesi assoluta in un'opposizione relativa, presup-ponente l'identità essenziale dei due termini (l'unità dicoscienza). Questo fu il passo compiuto dallo Hegel so-pra il Kant, il quale già aveva trasportato il dualismodelle sostanze cartesiane nell'interno del pensiero, ma neaveva rinviato l'unificazione ai regni dell'inconoscibilenoumenico. Perciò, come vedemmo, anche la filosofiakantiana rimane una posizione pratica e deontologica: larealtà dei valori è un dover essere.

La posizione dialettica invece è, o vuol essere, teore-tica (anche riguardo ai valori pratici): dal punto di vistalogico, il soggetto pone l'oggetto e lo distingue per ne-gazione della sua propria soggettività, ma l'oggetto noncessa, d'esser tale per un soggetto, d'esser un'idea (e nonuna realtà in sè); dal punto di vista metafisico, il sogget-to si attua di volta in volta in quel reale oggetto ch'è lasua propria (e unica!) realtà. Allora non c'è più una ma-teria separata dallo spirito, un corpo separato dall'anima,una cosa separata dal suo valore; e nemmeno cidev'essere una conoscenza oggettiva teoretica separatakantiananiente da una conoscenza puro pratica. La for-ma vale sempre ne' suoi contenuti, l'essere si realizzanel divenire; esistenza e trascendenza si concilianonell'immanenza del trascendentale nell'attuale esistere(soggettivo), il quale diviene così l'essere teoretico deldover essere kantiano.

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4. – Di questo sviluppo dal Kant dobbiam esser gratiallo hegelismo. È come se una mano potente ci obbli-gasse a piegare il collo e lo sguardo, dal cielo delle ideeplatoniche al concreto «sinolo» aristotelico, escludendo-ne ogni residuo di realismo, perchè l'atto del pensiero,quand'è giunto all'autocoscienza della filosofia (teoreti-ca pura), non presuppone altro che sè stesso: non v'è piùun oggetto dato a posteriori; una materia esistente comefenomeno, che si riduce a un'idea già pensata, o meglioa un pensiero ripensantesi; come non v'è un'intelligenzaesistente fuori di noi e identica a sè stessa che faccia damotore immobile del divenire, perchè la ragione esistenel real divenire, è l'esperienza stessa che si fa ragione.

Se ne dovrebbe dedurre, come criterio filosofico, ilbisogno di riportare tutti i problemi in termini di puraesperienza criticando ogni realismo (idealista) che cer-casse ancora il fondamento reale fuori dell'attuale espe-rienza per obbedire a esigenze religiose oppure pratiche;e infatti perfino la teologia, sotto quell'impulso, ha ten-tato di diventare una filosofia della «esperienza religio-sa» e della «azione». Quanto alla scienza, la critica cheil nuovo idealismo (realista) muove al naturalismo, nonè dunque di esser oggettivo, ma d'esserlo astrattamente,di prender l'idea di natura come un reale oggetto. La na-tura non ha dunque realtà? Sì, come ogni idea, anchel'idea di natura è reale; ma questa (parziale) realtà delsapere obbiettivante consiste nel suo stesso farsi, comestoria del pensiero scientifico: non in una realtà di natu-ra fuori dello scienziato. Del resto gli scienziati, queste

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4. – Di questo sviluppo dal Kant dobbiam esser gratiallo hegelismo. È come se una mano potente ci obbli-gasse a piegare il collo e lo sguardo, dal cielo delle ideeplatoniche al concreto «sinolo» aristotelico, escludendo-ne ogni residuo di realismo, perchè l'atto del pensiero,quand'è giunto all'autocoscienza della filosofia (teoreti-ca pura), non presuppone altro che sè stesso: non v'è piùun oggetto dato a posteriori; una materia esistente comefenomeno, che si riduce a un'idea già pensata, o meglioa un pensiero ripensantesi; come non v'è un'intelligenzaesistente fuori di noi e identica a sè stessa che faccia damotore immobile del divenire, perchè la ragione esistenel real divenire, è l'esperienza stessa che si fa ragione.

Se ne dovrebbe dedurre, come criterio filosofico, ilbisogno di riportare tutti i problemi in termini di puraesperienza criticando ogni realismo (idealista) che cer-casse ancora il fondamento reale fuori dell'attuale espe-rienza per obbedire a esigenze religiose oppure pratiche;e infatti perfino la teologia, sotto quell'impulso, ha ten-tato di diventare una filosofia della «esperienza religio-sa» e della «azione». Quanto alla scienza, la critica cheil nuovo idealismo (realista) muove al naturalismo, nonè dunque di esser oggettivo, ma d'esserlo astrattamente,di prender l'idea di natura come un reale oggetto. La na-tura non ha dunque realtà? Sì, come ogni idea, anchel'idea di natura è reale; ma questa (parziale) realtà delsapere obbiettivante consiste nel suo stesso farsi, comestoria del pensiero scientifico: non in una realtà di natu-ra fuori dello scienziato. Del resto gli scienziati, queste

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cose ormai le sanno fin troppo; e di qui appunto rinasceil problema del sapere oggettivo come l'abbiamo di so-pra impostato. Ma, pregiudizialmente, rinasce in filoso-fia il problema della realtà!

Osserviamo intanto, che lo stesso criterio che non la-scia sussistere un oggetto in sè fuori dell'esperienza, nondovrebbe più lasciar credere a un Io puro fuori del parti-colare empirico io, o anzi del suo attuale oggettivarsi nelnon-io contingente: in quell'idea e in quell'atto, cioè, dicui l'Io puro non sarebbe che il principio trascendentale,la forma – soggettiva in quanto pratica e deontologica,non in quanto realmente esistente – dei contenuti, esi-stenti in quanto sensibili. Tale a rigore dev'esser, secon-do me, la posizione consequenziale del criticismo, cheun larvato misticismo risospinge allo «Spirito» a traver-so l'ambiguità dei termini.

«Esperienza», è vero, significa ormai «coscienza»; eperciò l'idealismo sembra metter capo al soggettivismo,anzi al solipsismo. Ma «coscienza» non è più un terminepsicologico (ne abbiam visto l'assurdo); non indica unqualcosa, una natura del soggetto (il soggetto empirico),che sarà uno de' suoi oggetti, quando lo pensiamo in ac-cordo con gli altri. La coscienza in quanto pratica è il di-slivello, l'antinomia del sentimento con le sue condizio-ni di fatto (è il volere); in quanto teoretica, è la media-zione fra gli opposti, la conoscenza del fine e del mezzooggettivo, la costruzione dell'oggetto reale e ideale, e,insomma, tutto il mondo conoscibile: esperienza, appun-to. Tale mediazione conoscitiva è pensiero? Benissimo;

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cose ormai le sanno fin troppo; e di qui appunto rinasceil problema del sapere oggettivo come l'abbiamo di so-pra impostato. Ma, pregiudizialmente, rinasce in filoso-fia il problema della realtà!

Osserviamo intanto, che lo stesso criterio che non la-scia sussistere un oggetto in sè fuori dell'esperienza, nondovrebbe più lasciar credere a un Io puro fuori del parti-colare empirico io, o anzi del suo attuale oggettivarsi nelnon-io contingente: in quell'idea e in quell'atto, cioè, dicui l'Io puro non sarebbe che il principio trascendentale,la forma – soggettiva in quanto pratica e deontologica,non in quanto realmente esistente – dei contenuti, esi-stenti in quanto sensibili. Tale a rigore dev'esser, secon-do me, la posizione consequenziale del criticismo, cheun larvato misticismo risospinge allo «Spirito» a traver-so l'ambiguità dei termini.

«Esperienza», è vero, significa ormai «coscienza»; eperciò l'idealismo sembra metter capo al soggettivismo,anzi al solipsismo. Ma «coscienza» non è più un terminepsicologico (ne abbiam visto l'assurdo); non indica unqualcosa, una natura del soggetto (il soggetto empirico),che sarà uno de' suoi oggetti, quando lo pensiamo in ac-cordo con gli altri. La coscienza in quanto pratica è il di-slivello, l'antinomia del sentimento con le sue condizio-ni di fatto (è il volere); in quanto teoretica, è la media-zione fra gli opposti, la conoscenza del fine e del mezzooggettivo, la costruzione dell'oggetto reale e ideale, e,insomma, tutto il mondo conoscibile: esperienza, appun-to. Tale mediazione conoscitiva è pensiero? Benissimo;

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ma il pensiero, in questo caso, non esiste in sè dietrol'esperienza: n'è il nome teoretico, come praticamente èun atto, un fare, un esistere sensibile del rapporto finali-stico fra i due astratti termini di forma e contenuto delpensiero.

Se dunque postuliamo un «pensiero pensante», unacausa causante di tutto il pensiero pensato, ossia oltre ilmondo definito «reale», non si tratta più di uno Spiritoreale e universale al tempo stesso, che sarebbe un'ipo-stasi di vecchio stampo: si tratta del principio stesso diuniversalità e necessità immanente nel conoscere teore-tico; la «regola», per dirla kantianamente, del farsi reale.Ancor più esattamente, si tratta della praticità del teore-tico, perchè la finalità teoretica si pone per sua regola ildover essere in sè, la sostanza e la causa assoluta.

Concludendo, il criticismo non risolve il problema delreale, ma lo pone in termini di esperienza e di coscienza.Noi ora dobbiamo con l'esperienza dimostrare il trascen-dente: dobbiamo cioè cercarne l'immanenza nel sensibi-le, senza ritornare ad affermare il sovrasensibile in sè,opposto all'esistere, quale apparisce alla coscienza prati-ca. Questo superamento dell'eticismo filosofico era laconsapevole missione dell'hegelismo. Dopo l'accennatarevisione, noi non abbiamo alcuna difficoltà a mettercida questo punto di vista, che spinge a cercare i valorireali nelle contingenti esistenze, e in ultima analisi, neisensibili, negando esistenza reale ai valori puri.

Storicamente parlando, possiamo enunciare il proble-ma così: dimostrata dal Kant «impossibile» la prova on-

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ma il pensiero, in questo caso, non esiste in sè dietrol'esperienza: n'è il nome teoretico, come praticamente èun atto, un fare, un esistere sensibile del rapporto finali-stico fra i due astratti termini di forma e contenuto delpensiero.

Se dunque postuliamo un «pensiero pensante», unacausa causante di tutto il pensiero pensato, ossia oltre ilmondo definito «reale», non si tratta più di uno Spiritoreale e universale al tempo stesso, che sarebbe un'ipo-stasi di vecchio stampo: si tratta del principio stesso diuniversalità e necessità immanente nel conoscere teore-tico; la «regola», per dirla kantianamente, del farsi reale.Ancor più esattamente, si tratta della praticità del teore-tico, perchè la finalità teoretica si pone per sua regola ildover essere in sè, la sostanza e la causa assoluta.

Concludendo, il criticismo non risolve il problema delreale, ma lo pone in termini di esperienza e di coscienza.Noi ora dobbiamo con l'esperienza dimostrare il trascen-dente: dobbiamo cioè cercarne l'immanenza nel sensibi-le, senza ritornare ad affermare il sovrasensibile in sè,opposto all'esistere, quale apparisce alla coscienza prati-ca. Questo superamento dell'eticismo filosofico era laconsapevole missione dell'hegelismo. Dopo l'accennatarevisione, noi non abbiamo alcuna difficoltà a mettercida questo punto di vista, che spinge a cercare i valorireali nelle contingenti esistenze, e in ultima analisi, neisensibili, negando esistenza reale ai valori puri.

Storicamente parlando, possiamo enunciare il proble-ma così: dimostrata dal Kant «impossibile» la prova on-

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tologica di S. Anselmo e di Cartesio, perchè di astrattalogica formale, la filosofia contemporanea vorrebbe so-stituirvi la prova di fatto, la prova dell'immanenza deivalori nel concreto farsi attuale. La logica reale pàrtedall'identità dell'idea e della cosa nell'esistere attuale:nulla dimostra meglio la realtà che la presenza di fattovero come quel fatto. La scienza più reale è la storia; lafilosofia più teoretica è quella che riconosce che ognicosa dev'essere quello che è... Naturalmente, una simileconstatazione non ha più alcuna praticità e lascia, ossiaritrova al punto di prima tutte le cose, si chiamin pureidee; e quindi anche i problemi filosofici in quanto pro-blemi, aspirazione a sapere e a fare, risorgono per supe-rarla: il «concetto puro» vuol superare il concetto-cosa(l'oggetto), l'autocoscienza vuol superare la coscienza.Dovrebbe tuttavia restar fermo il criterio. che quei pro-blemi non si posson risolvere trascendentalmente (senon praticamente).

5. – E invero, che cosa saran mai il pensiero «puro» ei concetti «puri» dell'odierno idealismo, se non sono laragion pura e l'«idea» kantiana? Un concetto è puro inquanto si spoglia di tutti i contenuti dell'esperienza –che abbiamo ormai chiamata conoscenza (teoretica)reale (storia) –, per diventare formale, per rappresentarel'universalità del valore. In questa pura forma, che ilKant chiamava sintesi a priori, il pensiero, come ben ve-demmo, esprime soltanto una regola o una legge in sè, enon ha più altro contenuto che, il pensabile stesso, che

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tologica di S. Anselmo e di Cartesio, perchè di astrattalogica formale, la filosofia contemporanea vorrebbe so-stituirvi la prova di fatto, la prova dell'immanenza deivalori nel concreto farsi attuale. La logica reale pàrtedall'identità dell'idea e della cosa nell'esistere attuale:nulla dimostra meglio la realtà che la presenza di fattovero come quel fatto. La scienza più reale è la storia; lafilosofia più teoretica è quella che riconosce che ognicosa dev'essere quello che è... Naturalmente, una simileconstatazione non ha più alcuna praticità e lascia, ossiaritrova al punto di prima tutte le cose, si chiamin pureidee; e quindi anche i problemi filosofici in quanto pro-blemi, aspirazione a sapere e a fare, risorgono per supe-rarla: il «concetto puro» vuol superare il concetto-cosa(l'oggetto), l'autocoscienza vuol superare la coscienza.Dovrebbe tuttavia restar fermo il criterio. che quei pro-blemi non si posson risolvere trascendentalmente (senon praticamente).

5. – E invero, che cosa saran mai il pensiero «puro» ei concetti «puri» dell'odierno idealismo, se non sono laragion pura e l'«idea» kantiana? Un concetto è puro inquanto si spoglia di tutti i contenuti dell'esperienza –che abbiamo ormai chiamata conoscenza (teoretica)reale (storia) –, per diventare formale, per rappresentarel'universalità del valore. In questa pura forma, che ilKant chiamava sintesi a priori, il pensiero, come ben ve-demmo, esprime soltanto una regola o una legge in sè, enon ha più altro contenuto che, il pensabile stesso, che

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pertanto si può dir noumenico.La storia della filosofia e la psicologia del pensiero

umano son lì a dimostrare, che è sempre esistito ed esi-ste, fiore estremo d'ogni civiltà, questo pensiero purocome attività separata e anzi antitetica a quell'esperienzae a quel fare, che pure abbiam detto pensiero (reale). Intal caso, il pensiero «puro» trovasi come una realtà sto-rica e psicologica accanto, e sia pure al di sopra del di-venire reale empirico, e, se si vuol distinguere da que-sto, non si può al tempo stesso confonderlo nella famosaformula hegeliana dell'identità di realtà e pensiero. Ilpensiero puro, la filosofia in senso largo, sarà una realtà(storica), un momento del divenire, come psicologica-mente è un'attività, un fare: ma esso fa, produce delleidee, rappresentate dalle parole, che sono inconfondibilicon le cose e i fatti dell'essere e del divenire esistenti(esistono come parole).

Proprio perchè prescinde dalla «realtà», il pensieropuò farsi puro, e formare i valori in sè, o, come si suoldire, «creare»: io direi «inventare», termine che indicala essenziale praticità del pensare. Tal'è, squisitamente,il pensiero etico; etico non soltanto perchè posizionepratica, pensiero rivolto al dover essere; ma anche per-chè questo dovere non è pensato come condizionato daalcun essere esistente, risolvendosi in una regola di con-dotta che vale per tutti anche se nessuno l'ha mai seguitao la potrà mai seguire. L'imperativo categorico è «vero»anche se non esige realtà fuori di quella della sua enun-ciazione. Aveva ragione il Locke di osservare (giudice

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pertanto si può dir noumenico.La storia della filosofia e la psicologia del pensiero

umano son lì a dimostrare, che è sempre esistito ed esi-ste, fiore estremo d'ogni civiltà, questo pensiero purocome attività separata e anzi antitetica a quell'esperienzae a quel fare, che pure abbiam detto pensiero (reale). Intal caso, il pensiero «puro» trovasi come una realtà sto-rica e psicologica accanto, e sia pure al di sopra del di-venire reale empirico, e, se si vuol distinguere da que-sto, non si può al tempo stesso confonderlo nella famosaformula hegeliana dell'identità di realtà e pensiero. Ilpensiero puro, la filosofia in senso largo, sarà una realtà(storica), un momento del divenire, come psicologica-mente è un'attività, un fare: ma esso fa, produce delleidee, rappresentate dalle parole, che sono inconfondibilicon le cose e i fatti dell'essere e del divenire esistenti(esistono come parole).

Proprio perchè prescinde dalla «realtà», il pensieropuò farsi puro, e formare i valori in sè, o, come si suoldire, «creare»: io direi «inventare», termine che indicala essenziale praticità del pensare. Tal'è, squisitamente,il pensiero etico; etico non soltanto perchè posizionepratica, pensiero rivolto al dover essere; ma anche per-chè questo dovere non è pensato come condizionato daalcun essere esistente, risolvendosi in una regola di con-dotta che vale per tutti anche se nessuno l'ha mai seguitao la potrà mai seguire. L'imperativo categorico è «vero»anche se non esige realtà fuori di quella della sua enun-ciazione. Aveva ragione il Locke di osservare (giudice

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non sospetto) che il pensiero etico, proprio perchè co-struisce liberamente le sue idee come idee «morali» e lesue regole conformi al suo volere, è la forma di ragionepiù vera, nel senso ch'è la più certa e probante, potendoformare i suoi concetti in perfetta coerenza col fineideale e non attendendone prova che dal proprio assenso(pratico).

Ma lo stesso si può dire di tutto il pensiero puro, pro-prio perchè, in fondo, il pensiero è puro (o si purifica) inquanto è pratico, è trascendentale, è rivolto al dover es-sere. Tali sono tutte le idee metafisiche. Il principio me-tafisico di una sostanza assoluta e di una causa prima èvero, verissimo come principio necessario al pensiero enon esige altra esistenza che il suo esser pensabile (esi-stenza noumenica); falso sarebbe solo il pensare che losi possa incontrare domani per la strada, come un realeteoretico. Tutte le scienze pure, del resto, partecipanodel vantaggio d'esser «vere» assolutamente in propor-zione del loro grado di formalismo, ciò che le resel'ideale del sapere per tutto il razionalismo. Una scienzaformale (come le matematiche, la logica formale, la lo-gistica o logica matematica), o una scienza in quantoformale (come la meccanica «razionale»), è pensieroche, almeno temporaneamente, prescinde dai contenutidell'esperienza per cercare rapporti universali e leggi insè. Esso costruisce e inventa col sostituire tipi, simboli,modelli ai contenuti reali, e col partire da ipotesi o po-stulati ideali invece che dai dati dell'esperienza. Ne ri-sulta una dottrina certa come dover essere, vale a dire

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non sospetto) che il pensiero etico, proprio perchè co-struisce liberamente le sue idee come idee «morali» e lesue regole conformi al suo volere, è la forma di ragionepiù vera, nel senso ch'è la più certa e probante, potendoformare i suoi concetti in perfetta coerenza col fineideale e non attendendone prova che dal proprio assenso(pratico).

Ma lo stesso si può dire di tutto il pensiero puro, pro-prio perchè, in fondo, il pensiero è puro (o si purifica) inquanto è pratico, è trascendentale, è rivolto al dover es-sere. Tali sono tutte le idee metafisiche. Il principio me-tafisico di una sostanza assoluta e di una causa prima èvero, verissimo come principio necessario al pensiero enon esige altra esistenza che il suo esser pensabile (esi-stenza noumenica); falso sarebbe solo il pensare che losi possa incontrare domani per la strada, come un realeteoretico. Tutte le scienze pure, del resto, partecipanodel vantaggio d'esser «vere» assolutamente in propor-zione del loro grado di formalismo, ciò che le resel'ideale del sapere per tutto il razionalismo. Una scienzaformale (come le matematiche, la logica formale, la lo-gistica o logica matematica), o una scienza in quantoformale (come la meccanica «razionale»), è pensieroche, almeno temporaneamente, prescinde dai contenutidell'esperienza per cercare rapporti universali e leggi insè. Esso costruisce e inventa col sostituire tipi, simboli,modelli ai contenuti reali, e col partire da ipotesi o po-stulati ideali invece che dai dati dell'esperienza. Ne ri-sulta una dottrina certa come dover essere, vale a dire

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una verità certa come pensiero, ma distinta, e anzi anti-nomica (in quanto, in fondo, pratica, ossia dogmatica)alla verità semplicemente «probabile» del concreto pen-siero «reale».

La filosofia dallo Hume in poi non è uno di questipensieri puri e formali, perchè è la loro critica. È «auto-coscienza» solo nel senso ch'è riflessione sulla coscien-za (su l'esperienza), e quindi critica della conoscenza.La critica, non avendo un contenuto proprio da realizza-re, ma dovendo soltanto riflettere sul valore delle altreattività, è disinteressata scepsi, ossia diviene puro meto-do teoretico; e questa è la sola purezza della filosofiaodierna. Allora, tutta la critica si aggira intorno a queidue problemi di cui parlammo fin da principio: l'unosulla realtà dei valori, problema pratico e definizione delsoggetto (o meglio, della soggettività del reale); l'altrosul valore di realtà, che definisca l'oggetto come real-mente oggettivo, problema teoretico (critica della cono-scenza). Ma ambedue questi problemi si debbon incon-trare e mediare nella ricerca del fondamento del reale utsic, senza di che il valore sarebbe sempre un «come se»e un'illusione dei metafisici, e il reale sarebbe soggettiva«impressione» e illusione dei fisici. Lo scetticismo di-verrebbe allora l'unica conclusione «possibile» d'unacritica puramente teoretica.

Restando nel criticismo, che riflette la coscienza intutta la sua infinita estensione (l'infinito diveniredell'esperienza), ma nulla «fuori» di essa (e come lo po-trebbe?), pareva assodato che la coscienza sia relazione

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una verità certa come pensiero, ma distinta, e anzi anti-nomica (in quanto, in fondo, pratica, ossia dogmatica)alla verità semplicemente «probabile» del concreto pen-siero «reale».

La filosofia dallo Hume in poi non è uno di questipensieri puri e formali, perchè è la loro critica. È «auto-coscienza» solo nel senso ch'è riflessione sulla coscien-za (su l'esperienza), e quindi critica della conoscenza.La critica, non avendo un contenuto proprio da realizza-re, ma dovendo soltanto riflettere sul valore delle altreattività, è disinteressata scepsi, ossia diviene puro meto-do teoretico; e questa è la sola purezza della filosofiaodierna. Allora, tutta la critica si aggira intorno a queidue problemi di cui parlammo fin da principio: l'unosulla realtà dei valori, problema pratico e definizione delsoggetto (o meglio, della soggettività del reale); l'altrosul valore di realtà, che definisca l'oggetto come real-mente oggettivo, problema teoretico (critica della cono-scenza). Ma ambedue questi problemi si debbon incon-trare e mediare nella ricerca del fondamento del reale utsic, senza di che il valore sarebbe sempre un «come se»e un'illusione dei metafisici, e il reale sarebbe soggettiva«impressione» e illusione dei fisici. Lo scetticismo di-verrebbe allora l'unica conclusione «possibile» d'unacritica puramente teoretica.

Restando nel criticismo, che riflette la coscienza intutta la sua infinita estensione (l'infinito diveniredell'esperienza), ma nulla «fuori» di essa (e come lo po-trebbe?), pareva assodato che la coscienza sia relazione

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di soggetto e oggetto, i quali non esistano l'uno esternoall'altro, ma siano, cioè valgano e si facciano, in questarelazione o sintesi della lor pratica antinomia e quindianalitica e astratta antitesi teoretica. Questa relazionedunque costituisce il «valore»: valore soggettivodell'oggetto, che per lo meno è la sensazione sentita (lacoscienza pratica), e anche quando col pensiero raggiun-ge la sua massima chiarezza teoretica resta sempreun'idea implicante la finalità; e valore oggettivo del sog-getto, che per lo meno è reale come un atto, e anchequando afferma la pura soggettività (il libero volere) sirealizza obbiettivamente nella necessità di una legge chece lo rappresenti. Allora, quali le conclusioni di un criti-cismo che voglia restar coerente, e non voglia (per finipratici) nuovamente uscire dalla coscienza, vale a diredall'esperienza?

6. – Ritorniamo per l'ultima volta alla posizione kan-tiana, ch'è il punto di partenza più chiaro. Il pensiero èsoltanto pensiero in quanto produce ad libitum delle for-me, delle idee pure, in giudizi sintetici a priori. La real-tà, di queste forme è la lor esistenza storica e di fatto,che la storia e la psicologia conosceranno teoreticamen-te come un qualsiasi altro contenuto. Il loro valore èpratico (sono invenzioni): infatti esprimono – e «rappre-sentano» per una conoscenza pratica – il soggetto, la tra-scendentalità del volere su l'esistere; determinano unaregola per il fare (e per il pensare stesso), ma non ne de-terminano la realtà. Purificando il pensiero da ogni con-

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di soggetto e oggetto, i quali non esistano l'uno esternoall'altro, ma siano, cioè valgano e si facciano, in questarelazione o sintesi della lor pratica antinomia e quindianalitica e astratta antitesi teoretica. Questa relazionedunque costituisce il «valore»: valore soggettivodell'oggetto, che per lo meno è la sensazione sentita (lacoscienza pratica), e anche quando col pensiero raggiun-ge la sua massima chiarezza teoretica resta sempreun'idea implicante la finalità; e valore oggettivo del sog-getto, che per lo meno è reale come un atto, e anchequando afferma la pura soggettività (il libero volere) sirealizza obbiettivamente nella necessità di una legge chece lo rappresenti. Allora, quali le conclusioni di un criti-cismo che voglia restar coerente, e non voglia (per finipratici) nuovamente uscire dalla coscienza, vale a diredall'esperienza?

6. – Ritorniamo per l'ultima volta alla posizione kan-tiana, ch'è il punto di partenza più chiaro. Il pensiero èsoltanto pensiero in quanto produce ad libitum delle for-me, delle idee pure, in giudizi sintetici a priori. La real-tà, di queste forme è la lor esistenza storica e di fatto,che la storia e la psicologia conosceranno teoreticamen-te come un qualsiasi altro contenuto. Il loro valore èpratico (sono invenzioni): infatti esprimono – e «rappre-sentano» per una conoscenza pratica – il soggetto, la tra-scendentalità del volere su l'esistere; determinano unaregola per il fare (e per il pensare stesso), ma non ne de-terminano la realtà. Purificando il pensiero da ogni con-

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tenuto e riferimento empirico (non restando di empiricoche quel pensare medesimo), e purificando il giudizioda ogni particolar soggetto e quindi da ogni fine partico-laristico (non restando di finalistico che il volere libero,il soggetto trascendentale), l'idea non rappresenteràl'essere oggettivo, il reale, ma il dover essere soggettivo,l'etico: la pura esigenza che il valore sia valore.

Questa è, criticamente, la realtà del valore, il vero eti-co: un'esigenza, un postulato di ragion puro pratica, chediviene il fondamento trascendentale del criterio di tuttii nostri giudizi morali. Infatti, applicando quel principioai soggetti e fini particolari – secondo i sentimenti che laesperienza suscita come empirici motivi all'azione –giudichiamo praticamente del bene e del male in parti-colare, con giudizi di contenuto utilitario, economico,giuridico, politico, morale, e relativizziamo anche fraloro questi valori.

Essi però non hanno ancora che un fondamento sog-gettivo. La posizione etica non è che il primo momento,il primo atto del dramma dell'umano pensiero: è l'affer-mazione dell'io come soggetto volontario, come pratici-tà che, in quanto diventa pensiero e conoscenza, non èconoscenza reale, ma consapevolezza di un'esigenzaideale, che condiziona il giudizio di valore a un princi-pio trascendentale. Ma dallo stesso antinomismo praticofra il volere e l'esistere, fra il dovere e il fare, e tra la-forma pura (il principio) e i contenuti empirici del dive-nire, sorge la posizione teoretica, condizionata da questi.Il fine cerca i suoi mezzi, il dovere si deve attuare se-

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tenuto e riferimento empirico (non restando di empiricoche quel pensare medesimo), e purificando il giudizioda ogni particolar soggetto e quindi da ogni fine partico-laristico (non restando di finalistico che il volere libero,il soggetto trascendentale), l'idea non rappresenteràl'essere oggettivo, il reale, ma il dover essere soggettivo,l'etico: la pura esigenza che il valore sia valore.

Questa è, criticamente, la realtà del valore, il vero eti-co: un'esigenza, un postulato di ragion puro pratica, chediviene il fondamento trascendentale del criterio di tuttii nostri giudizi morali. Infatti, applicando quel principioai soggetti e fini particolari – secondo i sentimenti che laesperienza suscita come empirici motivi all'azione –giudichiamo praticamente del bene e del male in parti-colare, con giudizi di contenuto utilitario, economico,giuridico, politico, morale, e relativizziamo anche fraloro questi valori.

Essi però non hanno ancora che un fondamento sog-gettivo. La posizione etica non è che il primo momento,il primo atto del dramma dell'umano pensiero: è l'affer-mazione dell'io come soggetto volontario, come pratici-tà che, in quanto diventa pensiero e conoscenza, non èconoscenza reale, ma consapevolezza di un'esigenzaideale, che condiziona il giudizio di valore a un princi-pio trascendentale. Ma dallo stesso antinomismo praticofra il volere e l'esistere, fra il dovere e il fare, e tra la-forma pura (il principio) e i contenuti empirici del dive-nire, sorge la posizione teoretica, condizionata da questi.Il fine cerca i suoi mezzi, il dovere si deve attuare se-

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condo che può. Il pensiero, se è un volere, non vuol sol-tanto giudicare e negare, vuol anche fare e affermare: at-tuare i fini. Il prammatismo e il volontarismo in generehan dunque ragione quando dicono che il pensiero teo-retico è un modo e mezzo del pensiero pratico; ma laconoscenza si fa reale, non per un arbitrio del volere nèper un particolare interesse; al contrario, il volere non siattua, il dovere non può essere, che teoreticamente. Ilvalore deve valere realmente, universalmente.

Allora (secondo momento) il pensiero – e si dica pureil soggetto come volere – afferma e definisce l'oggetto,il non io. La forma pura, esprimente la pura trascenden-talità, diviene (e si limita come) a priori teoretico, cate-goria (per es. la libertà diviene causalità): vale a direch'è forma per i contenuti dell'esperienza, «ragione» diquesti. Infatti, l'essere reale noi lo conosciamo come undover essere (sostanza e causa) di ciò ch'esiste (sensibil-mente). Nell'analisi kantiana dell'intelletto, la conoscen-za è certa come reale quando è sintesi formale dei conte-nuti intuitivi: ciechi questi senza la forma (nè veri nèfalsi), ma vuota la forma (irreale) senza di quelli.

Proprio perchè quella kantiana è analisi della coscien-za comune e della scienza, i contenuti son presi comegià dati (esistenti) con qualità (sensibili) indipendenticosì dal soggetto in genere (come volere), come dal pen-siero in ispecie (dalle forme intelligibili); «noi» regole-remo questi contenuti nelle forme spaziotemporali e lispiegheremo nelle unificazioni concettuali, senza poteraggiungere o toglier nulla alle qualità che sono così

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condo che può. Il pensiero, se è un volere, non vuol sol-tanto giudicare e negare, vuol anche fare e affermare: at-tuare i fini. Il prammatismo e il volontarismo in generehan dunque ragione quando dicono che il pensiero teo-retico è un modo e mezzo del pensiero pratico; ma laconoscenza si fa reale, non per un arbitrio del volere nèper un particolare interesse; al contrario, il volere non siattua, il dovere non può essere, che teoreticamente. Ilvalore deve valere realmente, universalmente.

Allora (secondo momento) il pensiero – e si dica pureil soggetto come volere – afferma e definisce l'oggetto,il non io. La forma pura, esprimente la pura trascenden-talità, diviene (e si limita come) a priori teoretico, cate-goria (per es. la libertà diviene causalità): vale a direch'è forma per i contenuti dell'esperienza, «ragione» diquesti. Infatti, l'essere reale noi lo conosciamo come undover essere (sostanza e causa) di ciò ch'esiste (sensibil-mente). Nell'analisi kantiana dell'intelletto, la conoscen-za è certa come reale quando è sintesi formale dei conte-nuti intuitivi: ciechi questi senza la forma (nè veri nèfalsi), ma vuota la forma (irreale) senza di quelli.

Proprio perchè quella kantiana è analisi della coscien-za comune e della scienza, i contenuti son presi comegià dati (esistenti) con qualità (sensibili) indipendenticosì dal soggetto in genere (come volere), come dal pen-siero in ispecie (dalle forme intelligibili); «noi» regole-remo questi contenuti nelle forme spaziotemporali e lispiegheremo nelle unificazioni concettuali, senza poteraggiungere o toglier nulla alle qualità che sono così

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come esistono. La conoscenza, il pensiero, si fa cono-scenza teoretica e scienza (l'idea pura si fa concetto) inquanto prende contenuti empirici, di cui rimane formaunificatrice a priori.

Qui bisogna camminare con estrema prudenza, e nonanteporre la soluzione metafisica del problema a quellagnoseologica, che, secondo il Kant, deve precedere, do-vendo dirci se i giudizi metafisici sono «possibili» comegiudizi reali. Ora, dalla critica gnoseologica kantiananon si deduce ancora che il pensiero crei, produca il suooggetto – o che il soggetto divenga quell'oggetto –: nelqual caso il soggetto perderebbe la sua trascendentalità,e quindi anche l'oggetto perderebbe la sua vera realtà, eambedue si ridurrebbero all'esistere come si esiste, sen-za valore. Altro è dire che il pensiero è sintesi formaledei contenuti dati – che conoscere significa porre deirapporti fra i contenuti esistenti – conclusione kantianadella critica del conoscere; e altro è dire che il pensieroè sintesi di forma e contenuto, unità essenziale dei due,problema metafisico che per il Kant è insolubile teoreti-camente: allora sì tratterebbe del terzo momento delpensiero, la riflessione, mentre dobbiamo ancora con-cludere sul secondo, della conoscenza reale, per deter-minare che cos'è un oggetto reale per la coscienza.

È un concetto (per es. «calamita» o «attrazione»); os-sia un'idea condizionata dai contenuti sensibili, unificatisecondo le categorie o funzioni formali del pensiero chece li rendono intelligibili. Un concetto è dunque una co-struzione del pensiero, ma non una «creazione», doven-

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come esistono. La conoscenza, il pensiero, si fa cono-scenza teoretica e scienza (l'idea pura si fa concetto) inquanto prende contenuti empirici, di cui rimane formaunificatrice a priori.

Qui bisogna camminare con estrema prudenza, e nonanteporre la soluzione metafisica del problema a quellagnoseologica, che, secondo il Kant, deve precedere, do-vendo dirci se i giudizi metafisici sono «possibili» comegiudizi reali. Ora, dalla critica gnoseologica kantiananon si deduce ancora che il pensiero crei, produca il suooggetto – o che il soggetto divenga quell'oggetto –: nelqual caso il soggetto perderebbe la sua trascendentalità,e quindi anche l'oggetto perderebbe la sua vera realtà, eambedue si ridurrebbero all'esistere come si esiste, sen-za valore. Altro è dire che il pensiero è sintesi formaledei contenuti dati – che conoscere significa porre deirapporti fra i contenuti esistenti – conclusione kantianadella critica del conoscere; e altro è dire che il pensieroè sintesi di forma e contenuto, unità essenziale dei due,problema metafisico che per il Kant è insolubile teoreti-camente: allora sì tratterebbe del terzo momento delpensiero, la riflessione, mentre dobbiamo ancora con-cludere sul secondo, della conoscenza reale, per deter-minare che cos'è un oggetto reale per la coscienza.

È un concetto (per es. «calamita» o «attrazione»); os-sia un'idea condizionata dai contenuti sensibili, unificatisecondo le categorie o funzioni formali del pensiero chece li rendono intelligibili. Un concetto è dunque una co-struzione del pensiero, ma non una «creazione», doven-

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do, per valere realmente, convenire ai contenuti fra iquali viene «scoperto» il rapporto. Un giudizio sinteticoa priori (per es. «Ogni accadimento ha la sua causa») è,sì, un'invenzione formale, di valore universale in quantoè una «legge» – e in tal senso, in fondo, è pratica («Ogniaccadimento deve avere una causa») – ma la realtà diuna tal conoscenza teoretica sta nelle deducibilità deiparticolari giudizi su soggetti esistenti ai quali essa fa dapredicato, il che dipende dal processo induttivo che l'hacondizionata.

S'intende che il pensiero può lavorare, per così dire, avuoto: sia perchè la conoscenza teoretica diviene fine asè stessa – è teoretica in quanto disinteressata e in talsenso obiettiva –, e si può pensare per pensare (fare ungiuoco di pensiero), come accade nelle parti puramenteformali delle scienze (per es. in matematica); sia perchèsi spera di raggiungere un vero più universale, come inmetafisica, volando oltre la resistenza dei contenutidell'esperienza. In questi casi, il pensiero prende a con-tenuto concetti già formati e ne deduce dei nuovi per viapuramente e astrattamente logica, ma senza prova; però,così facendo, ritorna pensiero formale essenzialmentepratico, sebbene guardato teoreticamente. Per es., seogni accadimento ha la sua causa, è pensabile una causaprima (libera) di tutta la serie; ma quest'idea non è piùun concetto reale, pur rimanendo formalmente teoretica:infatti io non la «posso» formulare che in un giudizioapodittico («Ci dev'essere una causa libera!»), ch'è ungiudizio teoretico della ragion pratica ma di valore prati-

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do, per valere realmente, convenire ai contenuti fra iquali viene «scoperto» il rapporto. Un giudizio sinteticoa priori (per es. «Ogni accadimento ha la sua causa») è,sì, un'invenzione formale, di valore universale in quantoè una «legge» – e in tal senso, in fondo, è pratica («Ogniaccadimento deve avere una causa») – ma la realtà diuna tal conoscenza teoretica sta nelle deducibilità deiparticolari giudizi su soggetti esistenti ai quali essa fa dapredicato, il che dipende dal processo induttivo che l'hacondizionata.

S'intende che il pensiero può lavorare, per così dire, avuoto: sia perchè la conoscenza teoretica diviene fine asè stessa – è teoretica in quanto disinteressata e in talsenso obiettiva –, e si può pensare per pensare (fare ungiuoco di pensiero), come accade nelle parti puramenteformali delle scienze (per es. in matematica); sia perchèsi spera di raggiungere un vero più universale, come inmetafisica, volando oltre la resistenza dei contenutidell'esperienza. In questi casi, il pensiero prende a con-tenuto concetti già formati e ne deduce dei nuovi per viapuramente e astrattamente logica, ma senza prova; però,così facendo, ritorna pensiero formale essenzialmentepratico, sebbene guardato teoreticamente. Per es., seogni accadimento ha la sua causa, è pensabile una causaprima (libera) di tutta la serie; ma quest'idea non è piùun concetto reale, pur rimanendo formalmente teoretica:infatti io non la «posso» formulare che in un giudizioapodittico («Ci dev'essere una causa libera!»), ch'è ungiudizio teoretico della ragion pratica ma di valore prati-

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co; oppure in un giudizio ipotetico («Se la libertà è pen-sabile, essa può esistere in un mondo noumenico, vale adire ch'è reale come noumeno»), che è la soluzione criti-ca: conoscenza riflessa e non più diretta del reale14.

7. – Soltanto in questi limiti e condizioni è possibilela scienza come conoscenza reale, che approfondisce eperfeziona la conoscenza empirica e il «senso comune»,di cui è la forma metodica e disinteressata. Metodo si-gnifica consapevolezza e controllo dell'operazione stes-sa conoscitiva, che diviene una tecnica volontaria (ossiauna pratica della teoretica); il disinteresse ne fa parte inquanto si elimina la soggettività dei fini particolari e, al-meno temporaneamente, si sospende la spinta praticadel nostro volere. In altri termini, il conoscere teoreticocostruisce l'oggettività del reale (il valore di realtà) manon le esistenze che lo condizionano; è contemplazione,pensiero «riflettente», e quindi pensiero dell'oggetto, manon ancora pensiero che sia o divenga il suo oggetto.

Il sapere scientifico si costruisce dunque fra quei duepresupposti antinomici, l'a priori della ragione (il valore)e l’a posteriori dei sensibili (l'esistenza), che non spettaad esso unificare: per la scienza son due condizioni ge-

14 Analogamente, la geometria euclidea è vera in sè (logica) eanche reale, perchè costruisce delle sintesi a priori su l'analisi in-tuitiva; la geometria non euclidea può esser vera in sè, come pen-sabile, ma è irreale, almeno fin che non se ne possa dedurre unrapporto che sia valido per le contiguità spaziotemporali dei sen-sibili.

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co; oppure in un giudizio ipotetico («Se la libertà è pen-sabile, essa può esistere in un mondo noumenico, vale adire ch'è reale come noumeno»), che è la soluzione criti-ca: conoscenza riflessa e non più diretta del reale14.

7. – Soltanto in questi limiti e condizioni è possibilela scienza come conoscenza reale, che approfondisce eperfeziona la conoscenza empirica e il «senso comune»,di cui è la forma metodica e disinteressata. Metodo si-gnifica consapevolezza e controllo dell'operazione stes-sa conoscitiva, che diviene una tecnica volontaria (ossiauna pratica della teoretica); il disinteresse ne fa parte inquanto si elimina la soggettività dei fini particolari e, al-meno temporaneamente, si sospende la spinta praticadel nostro volere. In altri termini, il conoscere teoreticocostruisce l'oggettività del reale (il valore di realtà) manon le esistenze che lo condizionano; è contemplazione,pensiero «riflettente», e quindi pensiero dell'oggetto, manon ancora pensiero che sia o divenga il suo oggetto.

Il sapere scientifico si costruisce dunque fra quei duepresupposti antinomici, l'a priori della ragione (il valore)e l’a posteriori dei sensibili (l'esistenza), che non spettaad esso unificare: per la scienza son due condizioni ge-

14 Analogamente, la geometria euclidea è vera in sè (logica) eanche reale, perchè costruisce delle sintesi a priori su l'analisi in-tuitiva; la geometria non euclidea può esser vera in sè, come pen-sabile, ma è irreale, almeno fin che non se ne possa dedurre unrapporto che sia valido per le contiguità spaziotemporali dei sen-sibili.

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nerali del sapere, e cioè due esigenze soggettive e, og-gettivamente, due dati dogmatici, ai quali corrispondonoi due atteggiamenti della ricerca, parimenti orientataverso l'osservazione e l'esperimento nelle parti descritti-ve e analitiche, come verso la ipotesi e la legge nelleparti razionali o matematiche. Di qui le opposte critichealla scienza. Il contingentismo l'accusa di intellettuali-smo e nega realtà al concetto scientifico, che gli sembrauna semplice ipotesi di comodo; l'idealismo le rimpro-vera il suo empirismo e il suo astratto realismo. Tutti poisono scontenti – gli scienziati per i primi – dei ristrettis-simi limiti d'estensione dei concetti scientifici, e sonoinsoddisfatti di una conoscenza che non può nè sa cono-scere e ridurre a nozione esatta proprio quello che più cista a cuore, ossia il mondo dello spirito, i valori morali,il soggetto (il che è come dire, che non sa ridurre il sog-getto a un reale oggetto!).

Nondimeno il metodo galileiano è l'unico modo diconoscere oggettivamente gli oggetti percepiti: di co-struire un valore in sè delle esistenze. «In sè» non vuoldire «fuori di me» che per il realismo filosofico; per ilrelativismo scientifico, basta che significhi «universal-mente», ossia, subiettivamente, per tutti gli esseri razio-nali, e obiettivamente per tutte le possibili esperienze.Su l'analisi di questo pezzetto di ferro che si sposta ver-so la calamita – e cioè, infine, su l'analisi dei sensibiligià spontaneamente obbiettivati nella percezione – for-mare dei concetti con parole e simboli che possono rap-presentare in astratto l'universalità del rapporto, la sua

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nerali del sapere, e cioè due esigenze soggettive e, og-gettivamente, due dati dogmatici, ai quali corrispondonoi due atteggiamenti della ricerca, parimenti orientataverso l'osservazione e l'esperimento nelle parti descritti-ve e analitiche, come verso la ipotesi e la legge nelleparti razionali o matematiche. Di qui le opposte critichealla scienza. Il contingentismo l'accusa di intellettuali-smo e nega realtà al concetto scientifico, che gli sembrauna semplice ipotesi di comodo; l'idealismo le rimpro-vera il suo empirismo e il suo astratto realismo. Tutti poisono scontenti – gli scienziati per i primi – dei ristrettis-simi limiti d'estensione dei concetti scientifici, e sonoinsoddisfatti di una conoscenza che non può nè sa cono-scere e ridurre a nozione esatta proprio quello che più cista a cuore, ossia il mondo dello spirito, i valori morali,il soggetto (il che è come dire, che non sa ridurre il sog-getto a un reale oggetto!).

Nondimeno il metodo galileiano è l'unico modo diconoscere oggettivamente gli oggetti percepiti: di co-struire un valore in sè delle esistenze. «In sè» non vuoldire «fuori di me» che per il realismo filosofico; per ilrelativismo scientifico, basta che significhi «universal-mente», ossia, subiettivamente, per tutti gli esseri razio-nali, e obiettivamente per tutte le possibili esperienze.Su l'analisi di questo pezzetto di ferro che si sposta ver-so la calamita – e cioè, infine, su l'analisi dei sensibiligià spontaneamente obbiettivati nella percezione – for-mare dei concetti con parole e simboli che possono rap-presentare in astratto l'universalità del rapporto, la sua

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razionalità (la sua trascendentalità) e nel contempo lasua convenienza e applicabilità alle esistenze empiriche.

Questa è la scienza, sempre relativa perchè sempre li-mitata nell'accordo fra il soggetto come pensiero el'oggetto come esperienza – laddove il pensiero puropratico è assoluto perchè in antinomismo pratico conl'esperienza –; e vie più specializzata e particolarizzatasecondo i molteplici rapporti che l'analisi le suggerisce,data la molteplicità delle qualità sensibili o immaginabi-li per analogia. Ma, pur fra tali condizioni di relatività,la scienza è illimitata, perchè può sempre scoprire nuo-ve note di comprensione de' suoi concetti e nuovi ogget-ti a cui estenderli. Non ci stupiremo ch'essa ancor si tro-vi alla sua infanzia se ricordiamo che cosa sia la storiadel sapere scientifico e della ricerca obbiettiva. La mag-gior parte delle stirpi umane preferirono vivere la vitadel sentimento contentandosi di conoscenze mitiche, os-sia di tipo pratico, e di restar passivi di fronte alla natu-ra, a cui antepongono il sovrannaturale. A parte la breveparentesi del pensiero cosmologico greco, bisogna veni-re all'utilitarismo dei popoli occidentali dell'epoca mo-derna per trovare il terreno adatto, nella specializzazionedel lavoro, alla ricerca obbiettiva e disinteressata.

L'apparente paradosso si spiega facilmente. L'utilita-rismo è un edonismo, ma è un edonismo razionale, cheha appreso a servirsi della conoscenza teoretica per me-glio attuare i fini soggettivi. L'utilitarismo appartiene alrazionalismo perchè è la risoluzione teoretica dell'anti-nomia pratica: il volere è potere a traverso il sapere.

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razionalità (la sua trascendentalità) e nel contempo lasua convenienza e applicabilità alle esistenze empiriche.

Questa è la scienza, sempre relativa perchè sempre li-mitata nell'accordo fra il soggetto come pensiero el'oggetto come esperienza – laddove il pensiero puropratico è assoluto perchè in antinomismo pratico conl'esperienza –; e vie più specializzata e particolarizzatasecondo i molteplici rapporti che l'analisi le suggerisce,data la molteplicità delle qualità sensibili o immaginabi-li per analogia. Ma, pur fra tali condizioni di relatività,la scienza è illimitata, perchè può sempre scoprire nuo-ve note di comprensione de' suoi concetti e nuovi ogget-ti a cui estenderli. Non ci stupiremo ch'essa ancor si tro-vi alla sua infanzia se ricordiamo che cosa sia la storiadel sapere scientifico e della ricerca obbiettiva. La mag-gior parte delle stirpi umane preferirono vivere la vitadel sentimento contentandosi di conoscenze mitiche, os-sia di tipo pratico, e di restar passivi di fronte alla natu-ra, a cui antepongono il sovrannaturale. A parte la breveparentesi del pensiero cosmologico greco, bisogna veni-re all'utilitarismo dei popoli occidentali dell'epoca mo-derna per trovare il terreno adatto, nella specializzazionedel lavoro, alla ricerca obbiettiva e disinteressata.

L'apparente paradosso si spiega facilmente. L'utilita-rismo è un edonismo, ma è un edonismo razionale, cheha appreso a servirsi della conoscenza teoretica per me-glio attuare i fini soggettivi. L'utilitarismo appartiene alrazionalismo perchè è la risoluzione teoretica dell'anti-nomia pratica: il volere è potere a traverso il sapere.

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Perciò lo spirito realizzatore dei popoli europei promul-gò fin dal nostro Rinascimento quel «Sàpere aude», quelcoraggio della verità, ch'è la volontà di sapere per fare(ma anche per amare)...

Allora Dio e la Ragione diventan natura e conoscenzareale. La «natura» però è un concetto in continuo svilup-po; esso oggi non implica più un sostanzialismo nè ma-terialista nè spiritualista, e combatterlo in ciò è un com-battere una scienza, o meglio una filosofia oltrepassata,chè la scienza, come dicemmo, segue la filosofia delproprio tempo. Le stesse categorie di sostanza e causa,funzioni necessarie in quanto spontanee nella percezio-ne comune, e ancor utili alla scienza odierna nelle unifi-cazioni fenomeniche particolari più concrete, son oggiintese come pure forme logiche, il fondamento dellequali si lascia alla filosofia, com'è suo còmpito, di ricer-care. Ciò è ben visibile in tutt'e due le direzioni del pen-siero scientifico, sia che si guardi verso l'esperienza, siache si guardi verso la ragione e l'esplicazione di quella.

Si capisce che una scienza «concreta», come la geolo-gia o l'astronomia, dovendo studiare un oggetto o grup-po di oggetti in tutte le loro proprietà, deve dare a questiattributi un sostantivo comune («terra», «astri»); e deveintendere le cause che determinano il divenire di questioggetti come cause «genetiche», come il prodotto della«cosa». Ma le proprietà di un particolare oggetto vengo-no poi ridotte a proprietà fondamentali comuni, comemateria ed energia fisica, affinità chimica, vita ecc., stu-diate dalle scienze fondamentali in astratto; e le leggi

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Perciò lo spirito realizzatore dei popoli europei promul-gò fin dal nostro Rinascimento quel «Sàpere aude», quelcoraggio della verità, ch'è la volontà di sapere per fare(ma anche per amare)...

Allora Dio e la Ragione diventan natura e conoscenzareale. La «natura» però è un concetto in continuo svilup-po; esso oggi non implica più un sostanzialismo nè ma-terialista nè spiritualista, e combatterlo in ciò è un com-battere una scienza, o meglio una filosofia oltrepassata,chè la scienza, come dicemmo, segue la filosofia delproprio tempo. Le stesse categorie di sostanza e causa,funzioni necessarie in quanto spontanee nella percezio-ne comune, e ancor utili alla scienza odierna nelle unifi-cazioni fenomeniche particolari più concrete, son oggiintese come pure forme logiche, il fondamento dellequali si lascia alla filosofia, com'è suo còmpito, di ricer-care. Ciò è ben visibile in tutt'e due le direzioni del pen-siero scientifico, sia che si guardi verso l'esperienza, siache si guardi verso la ragione e l'esplicazione di quella.

Si capisce che una scienza «concreta», come la geolo-gia o l'astronomia, dovendo studiare un oggetto o grup-po di oggetti in tutte le loro proprietà, deve dare a questiattributi un sostantivo comune («terra», «astri»); e deveintendere le cause che determinano il divenire di questioggetti come cause «genetiche», come il prodotto della«cosa». Ma le proprietà di un particolare oggetto vengo-no poi ridotte a proprietà fondamentali comuni, comemateria ed energia fisica, affinità chimica, vita ecc., stu-diate dalle scienze fondamentali in astratto; e le leggi

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particolari vengon dedotte da quelle generali (per es.l'astronomia dedurrà i suoi principii da quelli della mec-canica e della fisico chimica). Ora, queste scienze fon-damentali, che il Comte chiamava «astratte» e lo Spen-cer «astratto concrete» (meccanica, fisica, chimica, bio-logia, psicologia), non soltanto considerate ciascuna persè come un corpo scientifico formato di tante parti, daquelle descrittive e analitiche a quelle generali e sinteti-che, ma considerate anche nella lor serie di complessitàcrescente e generalità decrescente, s'incatenano e forma-no un sistema, che in un senso rinvia dal concretoall'astratto, dal complesso al semplice, dalle cose allecause e da queste alle ragioni ultime e più generali ditutti i fenomeni; e per l'altro verso ritorna alla qualifica-zione dei fatti, dal necessario e universale al contingentee particolare. Questa sistemazione e coordinazione è incontinuo incremento, sebbene non tutti gli anelli dellacatena siano oggi saldati (per es. la chimica s'è già unifi-cata alla fisica, ma la biologia non riesce ancora a de-durre i suoi principii da quelli fisico-chimici).

8. – Ebbene: considerando il sapere scientifico, nonnelle sue specializzazioni tecniche, ma nella sua unitàfilosofica: si può scorger molto bene come il valore direaltà venga affannosamente e progressivamente cercatonelle stesse direzioni in cui lo pone l'odierna filosofia,che per la scienza divengon soltanto due concetti limite,due condizioni del sapere ch'essa obbiettiva in quantocontrolla nelle esistenze per realizzare le forme logiche

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particolari vengon dedotte da quelle generali (per es.l'astronomia dedurrà i suoi principii da quelli della mec-canica e della fisico chimica). Ora, queste scienze fon-damentali, che il Comte chiamava «astratte» e lo Spen-cer «astratto concrete» (meccanica, fisica, chimica, bio-logia, psicologia), non soltanto considerate ciascuna persè come un corpo scientifico formato di tante parti, daquelle descrittive e analitiche a quelle generali e sinteti-che, ma considerate anche nella lor serie di complessitàcrescente e generalità decrescente, s'incatenano e forma-no un sistema, che in un senso rinvia dal concretoall'astratto, dal complesso al semplice, dalle cose allecause e da queste alle ragioni ultime e più generali ditutti i fenomeni; e per l'altro verso ritorna alla qualifica-zione dei fatti, dal necessario e universale al contingentee particolare. Questa sistemazione e coordinazione è incontinuo incremento, sebbene non tutti gli anelli dellacatena siano oggi saldati (per es. la chimica s'è già unifi-cata alla fisica, ma la biologia non riesce ancora a de-durre i suoi principii da quelli fisico-chimici).

8. – Ebbene: considerando il sapere scientifico, nonnelle sue specializzazioni tecniche, ma nella sua unitàfilosofica: si può scorger molto bene come il valore direaltà venga affannosamente e progressivamente cercatonelle stesse direzioni in cui lo pone l'odierna filosofia,che per la scienza divengon soltanto due concetti limite,due condizioni del sapere ch'essa obbiettiva in quantocontrolla nelle esistenze per realizzare le forme logiche

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nei contenuti.Infatti, nel senso della causalizzazione e spiegazione

razionale dei fenomeni, la scienza risolve o tende a ri-solvere tutte le sostanze in cause, e queste in rapporticostanti del variabile divenire, riducendo l'essere dellanatura (l'essere reale) a rapporti spazio temporali, ossiaa movimenti – sogno di tutta la scienza da Democrito ainostri giorni –, cosicchè, nelle scienze e nelle parti loropiù costruttive e matematiche, la causalità è retta dai soliprincipii logici d'identità e contraddizione. Per questoverso, ogni scienza o parte delle scienze più concreta esperimentale rinvia alla unificazione di quelle astratte erazionali; nè si considera più come assolutamente insu-perabile il limite segnato dalla presenza d'una proprietàche ci sembri nuova perchè ancora indeducibile da altregià note.

Ma nel senso opposto, ogni accadimento apparisce«nuovo» in concreto, e la contingenza d'un fatto o l'indi-vidualità d'un oggetto si presentano ogni volta con carat-teri specifici o individuali indeducibili anche dalle lorocause. Non soltanto, per es., la vita è irreducibile all'affi-nità chimica, benchè prodotto di fatti chimici; ma (vec-chio esempio!) la ruggine è irreducibile al ferro eall'ossigeno che l'hanno prodotta, avendo peculiari pro-prietà che non son quelle del ferro e dell'ossigeno; eogni cosa, poi, come quella cosa, ogni accadimentocome quell'accadimento è originale e quindi indipenden-te dalle sue cause e condizioni – irriducibile all'identicodel «tutto e uno» –, in quanto esiste contingentemente

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nei contenuti.Infatti, nel senso della causalizzazione e spiegazione

razionale dei fenomeni, la scienza risolve o tende a ri-solvere tutte le sostanze in cause, e queste in rapporticostanti del variabile divenire, riducendo l'essere dellanatura (l'essere reale) a rapporti spazio temporali, ossiaa movimenti – sogno di tutta la scienza da Democrito ainostri giorni –, cosicchè, nelle scienze e nelle parti loropiù costruttive e matematiche, la causalità è retta dai soliprincipii logici d'identità e contraddizione. Per questoverso, ogni scienza o parte delle scienze più concreta esperimentale rinvia alla unificazione di quelle astratte erazionali; nè si considera più come assolutamente insu-perabile il limite segnato dalla presenza d'una proprietàche ci sembri nuova perchè ancora indeducibile da altregià note.

Ma nel senso opposto, ogni accadimento apparisce«nuovo» in concreto, e la contingenza d'un fatto o l'indi-vidualità d'un oggetto si presentano ogni volta con carat-teri specifici o individuali indeducibili anche dalle lorocause. Non soltanto, per es., la vita è irreducibile all'affi-nità chimica, benchè prodotto di fatti chimici; ma (vec-chio esempio!) la ruggine è irreducibile al ferro eall'ossigeno che l'hanno prodotta, avendo peculiari pro-prietà che non son quelle del ferro e dell'ossigeno; eogni cosa, poi, come quella cosa, ogni accadimentocome quell'accadimento è originale e quindi indipenden-te dalle sue cause e condizioni – irriducibile all'identicodel «tutto e uno» –, in quanto esiste contingentemente

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con le proprie note di distinzione! Per questo verso, lacorrente del pensiero oggettivo rifluisce verso l'espe-rienza, che vuol definire per sè stessa o adoperare inatto, e tanto più, quanto più ciò che interessa sapere efare riguarda la singolarità del divenire (come nei fattiumani) e non la sua unificazione nell'essere. Cosìdall'astrazione e generalizzazione si ridiscende di conti-nuo, sia verso le scienze tassinomiche e storiche, che at-tuano conoscitivamente i principii nella definizione de-gli oggetti e dei fatti, cioè nella conoscenza in particola-re; sia verso le scienze applicate, che li attuano pratica-mente adattandoli alle circostanze.

È fuor di posto chiedere alla scienza se sian più realile leggi dell'elettrodinamica, o la teoria quantica (piùcontingentista), o la singolarità di questo pezzetto di fer-ro. Bisogna chiederlo al filosofo. Per la scienza, il valo-re di realtà è la convenienza delle due condizioni limite,l'unità nell'identità a cui aspira la nostra ragione comeragion pura teoretica (l'«appercezione trascendentale» diKant), e l'esistenza del fenomeno come già data nellamolteplicità empirica. Ma se lo scienziato intendesse in-vece come reale l'idea trascendentale per sè (platonica-mente), o il contenuto dell'esperienza (empiristicamen-te), allora davvero la scienza sarebbe senza progresso –che cosa più si dovrebbe cercare? –, ed anche senza pra-ticità. Infatti nel primo caso avremmo un ascetismo teo-retico a cui non può corrispondere che una pratica misti-ca; nel secondo, un cinismo teoretico a cui non può cor-risponder che una pratica cirenaica (se tutto è così come

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con le proprie note di distinzione! Per questo verso, lacorrente del pensiero oggettivo rifluisce verso l'espe-rienza, che vuol definire per sè stessa o adoperare inatto, e tanto più, quanto più ciò che interessa sapere efare riguarda la singolarità del divenire (come nei fattiumani) e non la sua unificazione nell'essere. Cosìdall'astrazione e generalizzazione si ridiscende di conti-nuo, sia verso le scienze tassinomiche e storiche, che at-tuano conoscitivamente i principii nella definizione de-gli oggetti e dei fatti, cioè nella conoscenza in particola-re; sia verso le scienze applicate, che li attuano pratica-mente adattandoli alle circostanze.

È fuor di posto chiedere alla scienza se sian più realile leggi dell'elettrodinamica, o la teoria quantica (piùcontingentista), o la singolarità di questo pezzetto di fer-ro. Bisogna chiederlo al filosofo. Per la scienza, il valo-re di realtà è la convenienza delle due condizioni limite,l'unità nell'identità a cui aspira la nostra ragione comeragion pura teoretica (l'«appercezione trascendentale» diKant), e l'esistenza del fenomeno come già data nellamolteplicità empirica. Ma se lo scienziato intendesse in-vece come reale l'idea trascendentale per sè (platonica-mente), o il contenuto dell'esperienza (empiristicamen-te), allora davvero la scienza sarebbe senza progresso –che cosa più si dovrebbe cercare? –, ed anche senza pra-ticità. Infatti nel primo caso avremmo un ascetismo teo-retico a cui non può corrispondere che una pratica misti-ca; nel secondo, un cinismo teoretico a cui non può cor-risponder che una pratica cirenaica (se tutto è così come

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esiste e l'intelletto non è che astrattezza convenzionale,non resta che vivere come si vive, non essendovi altrovalore che la sua attualità sensibile, il piacere).

La critica della conoscenza teoretica e della scienzaintroduce alla metafisica, terzo momento del pensieroche vuol superare i suoi limiti conoscitivi per ritornareassoluto; ma nel tempo stesso gl'impedisce ormai di far-lo nella direzione del soggetto puro – della posizionepuro pratica – attribuendo a un'idea morale le categoriedella realtà che abbiamo appreso esser valide in rappor-to all'esperienza. Perciò vi si dovrebbe giungere teoreti-camente, sulla stessa via dell'esperienza come conoscen-za reale, cercando di afferrare l'assoluta realtà per mezzod'un'idea che senza antinomia unificasse le due condi-zioni limite della conoscenza reale, l'a priori razionalerappresentato dalla pura forma, e l'a posteriori dei conte-nuti per i quali il valore – la finalità e il dover esseresoggettivo – diviene concetto reale, essere oggettivodelle esistenze che ce ne rappresentan la realtà. Non sitratta più, ripeto, d'una sintesi formale dei contenuti,come nella conoscenza diretta e nella scienza: si trattadella sintesi metafisica di forma e contenuti, di valore edesistenza e, infine, di soggetto e oggetto.

Però (si noti bene!), affinchè questa sintesi sia reale –affinchè l'idea metafisica rappresenti la realtà ut sic enon sia un ritorno a una posizione puramente soggettiva–, dev'essere cercata a parte rei, in accordo con l'espe-rienza, e non in antinomia con i contenuti sensibili; chealtrimenti si finisce col dare un frego su tutta la critica

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esiste e l'intelletto non è che astrattezza convenzionale,non resta che vivere come si vive, non essendovi altrovalore che la sua attualità sensibile, il piacere).

La critica della conoscenza teoretica e della scienzaintroduce alla metafisica, terzo momento del pensieroche vuol superare i suoi limiti conoscitivi per ritornareassoluto; ma nel tempo stesso gl'impedisce ormai di far-lo nella direzione del soggetto puro – della posizionepuro pratica – attribuendo a un'idea morale le categoriedella realtà che abbiamo appreso esser valide in rappor-to all'esperienza. Perciò vi si dovrebbe giungere teoreti-camente, sulla stessa via dell'esperienza come conoscen-za reale, cercando di afferrare l'assoluta realtà per mezzod'un'idea che senza antinomia unificasse le due condi-zioni limite della conoscenza reale, l'a priori razionalerappresentato dalla pura forma, e l'a posteriori dei conte-nuti per i quali il valore – la finalità e il dover esseresoggettivo – diviene concetto reale, essere oggettivodelle esistenze che ce ne rappresentan la realtà. Non sitratta più, ripeto, d'una sintesi formale dei contenuti,come nella conoscenza diretta e nella scienza: si trattadella sintesi metafisica di forma e contenuti, di valore edesistenza e, infine, di soggetto e oggetto.

Però (si noti bene!), affinchè questa sintesi sia reale –affinchè l'idea metafisica rappresenti la realtà ut sic enon sia un ritorno a una posizione puramente soggettiva–, dev'essere cercata a parte rei, in accordo con l'espe-rienza, e non in antinomia con i contenuti sensibili; chealtrimenti si finisce col dare un frego su tutta la critica

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della conoscenza, la quale ha definito il reale come con-cetto unificante i contenuti, ossia come lo concepisce lacoscienza, per chiamar invece reale il soggetto puro, in-vertendo il segno a tutti i termini senz'altro risultato cheil divorzio tra filosofia e senso comune.

Un'idea metafisica a parte rei, e quindi strettamentecritica e teoretica, è invece la «cosa in sè» kantiana. Fudetta contraddittoria, perchè oggettiva e realistica in unmondo tutto costruito dal pensiero; e perchè causa in sèdei fenomeni in un mondo in cui la causalità riguarda ifenomeni e non l'in sè. Invero, essa è soltanto provviso-ria: la «Estetica trascendentale», che introduce all'analisidella conoscenza, dopo di questa si deve risolvere nellasintesi estetica – nella sintesi di sensibile e intelligibile –nel senso accennato dal Kant nell'Introduzione alla«Critica del Giudizio»15. Ma procediàmo con ordine.

9. – Dapprima, per il criticismo, la «cosa in sè» èpiuttosto un punto di partenza che un punto d'arrivo,perchè è l'idea metafisica presupposta da tutta la cono-scenza in quanto teoretica e non un'idea costruita persintesi dal pensiero filosofico. Questo si contenta dimetterla in evidenza analiticamente allorchè critica unaqualunque conoscenza «reale»; gli appare dunque comeun postulato teoretico, allo stesso modo che, nel critica-re il pensiero pratico, trova che la libertà n'è il postulatopratico che poi conosciamo come idea senza concetto

15 Cfr. lo studio citato «Il pensiero come attività estetica el'Introduzione kantiana alla Cr. d. Giud.».

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della conoscenza, la quale ha definito il reale come con-cetto unificante i contenuti, ossia come lo concepisce lacoscienza, per chiamar invece reale il soggetto puro, in-vertendo il segno a tutti i termini senz'altro risultato cheil divorzio tra filosofia e senso comune.

Un'idea metafisica a parte rei, e quindi strettamentecritica e teoretica, è invece la «cosa in sè» kantiana. Fudetta contraddittoria, perchè oggettiva e realistica in unmondo tutto costruito dal pensiero; e perchè causa in sèdei fenomeni in un mondo in cui la causalità riguarda ifenomeni e non l'in sè. Invero, essa è soltanto provviso-ria: la «Estetica trascendentale», che introduce all'analisidella conoscenza, dopo di questa si deve risolvere nellasintesi estetica – nella sintesi di sensibile e intelligibile –nel senso accennato dal Kant nell'Introduzione alla«Critica del Giudizio»15. Ma procediàmo con ordine.

9. – Dapprima, per il criticismo, la «cosa in sè» èpiuttosto un punto di partenza che un punto d'arrivo,perchè è l'idea metafisica presupposta da tutta la cono-scenza in quanto teoretica e non un'idea costruita persintesi dal pensiero filosofico. Questo si contenta dimetterla in evidenza analiticamente allorchè critica unaqualunque conoscenza «reale»; gli appare dunque comeun postulato teoretico, allo stesso modo che, nel critica-re il pensiero pratico, trova che la libertà n'è il postulatopratico che poi conosciamo come idea senza concetto

15 Cfr. lo studio citato «Il pensiero come attività estetica el'Introduzione kantiana alla Cr. d. Giud.».

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(senza realtà se non analogica).16

In altri termini, parlando della «cosa in sè», non sitratta di un'invenzione e di un valore prodotto dal pen-siero, quali sono le idee metafisiche della precedente fi-losofia, teoreticamente «impossibili» appunto perchènon si può, per esempio, predicare degli oggetti realiquell'infinito e incondizionato che vale per i fini sogget-tivi nè si può predicare del valore spirituale quella «co-salità» che règola le conoscenze reali. La «cosa in sè»vien semplicemente scoperta dalla critica della cono-scenza: in ogni pensiero reale, anzi in ogni percezione,anzi in ogni intuizione dei contenuti sensibili vi ha co-scienza del soggetto come volere (e quindi valore) anti-nomico all'esistere, e vi ha nel contempo coscienzadell'oggetto come necessità (e quindi essere in sè) diquelle esistenze, che divengono il contenuto (lo stimoloe l'atto) del volere subiettivo, e perciò delle forme che leriducono a un qualche cosa per noi. Piuttosto che del«fuori di noi» si tratta, del «più di noi». Io non possoguardare quella casa senza implicare che esiste qualcosain sè che per me è quella casa lì.

La filosofia ha poi rifiutato la metafisica della cosa insè, dicendo che si tratta d'un «realismo ingenuo». Però,

16 È per analogia, ossia per poterne parlare obiettivamente,che noi attribuiamo la libertà a un'«anima»; e analogico è tutto lospiritualismo, che si riduce a un materialismo rovesciato. Su que-sta contraddizione nei valori si fonda la critica alla metafisica pre-kantiana. Eppure vi si ritorna ogni giorno, come se Kant non fos-se stato!

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(senza realtà se non analogica).16

In altri termini, parlando della «cosa in sè», non sitratta di un'invenzione e di un valore prodotto dal pen-siero, quali sono le idee metafisiche della precedente fi-losofia, teoreticamente «impossibili» appunto perchènon si può, per esempio, predicare degli oggetti realiquell'infinito e incondizionato che vale per i fini sogget-tivi nè si può predicare del valore spirituale quella «co-salità» che règola le conoscenze reali. La «cosa in sè»vien semplicemente scoperta dalla critica della cono-scenza: in ogni pensiero reale, anzi in ogni percezione,anzi in ogni intuizione dei contenuti sensibili vi ha co-scienza del soggetto come volere (e quindi valore) anti-nomico all'esistere, e vi ha nel contempo coscienzadell'oggetto come necessità (e quindi essere in sè) diquelle esistenze, che divengono il contenuto (lo stimoloe l'atto) del volere subiettivo, e perciò delle forme che leriducono a un qualche cosa per noi. Piuttosto che del«fuori di noi» si tratta, del «più di noi». Io non possoguardare quella casa senza implicare che esiste qualcosain sè che per me è quella casa lì.

La filosofia ha poi rifiutato la metafisica della cosa insè, dicendo che si tratta d'un «realismo ingenuo». Però,

16 È per analogia, ossia per poterne parlare obiettivamente,che noi attribuiamo la libertà a un'«anima»; e analogico è tutto lospiritualismo, che si riduce a un materialismo rovesciato. Su que-sta contraddizione nei valori si fonda la critica alla metafisica pre-kantiana. Eppure vi si ritorna ogni giorno, come se Kant non fos-se stato!

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intanto, come filosofia critica deve convenire chequell'idea è presupposta in tutti i concetti reali che si re-lativizzano ai contenuti dell'esperienza. La critica delpensiero – il quale le apparisce come un'attività sui ge-neris attuantesi in giudizi espliciti nelle forme pured'idee e concetti espressi in parole e simboli (nel qualcaso preferisce chiamarlo «ragione») – rinvia all'analisidella coscienza, cioè della conoscenza implicita in qua-lunque percezione e atto pratico. Per il criticismo, è lacoscienza che deve giustificar la ragione e non vicever-sa. Allora, criticamente, la conoscenza certa come reale– per questo appunto noi la diremo «ipotetica», ossiamen certa dell'apodittica certezza morale – non potrebbetrovar altra giustificazione del suo trascendere il sensibi-le, del suo unificare i contenuti in concetti razionali, delsuo farsi scienza e metafisica, che nel bisogno di rag-giungere in un'approssimazione (all'infinito!) quella«cosa in sè», ch'era il primo presupposto del primo co-noscere e divien ora l'ultima mèta della conoscenza teo-retica.

Solamente a questo punto la «cosa in sè», scopertadalla critica della conoscenza come un postulato dellaconoscenza teoretica – ormai identificabile con la condi-zione limite a parte rei o esistenza dei contenuti –, po-trebbe diventare l'idea metafisica d'un realismo filosofi-co, ossia la conclusione teoretica del criticismo (comeavvenne nel positivismo). Il Kant, come si sa, fu assaititubante a tal proposito. Però, le conclusioni metafisi-che del criticismo secondo lo spirito kantiano sono coe-

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intanto, come filosofia critica deve convenire chequell'idea è presupposta in tutti i concetti reali che si re-lativizzano ai contenuti dell'esperienza. La critica delpensiero – il quale le apparisce come un'attività sui ge-neris attuantesi in giudizi espliciti nelle forme pured'idee e concetti espressi in parole e simboli (nel qualcaso preferisce chiamarlo «ragione») – rinvia all'analisidella coscienza, cioè della conoscenza implicita in qua-lunque percezione e atto pratico. Per il criticismo, è lacoscienza che deve giustificar la ragione e non vicever-sa. Allora, criticamente, la conoscenza certa come reale– per questo appunto noi la diremo «ipotetica», ossiamen certa dell'apodittica certezza morale – non potrebbetrovar altra giustificazione del suo trascendere il sensibi-le, del suo unificare i contenuti in concetti razionali, delsuo farsi scienza e metafisica, che nel bisogno di rag-giungere in un'approssimazione (all'infinito!) quella«cosa in sè», ch'era il primo presupposto del primo co-noscere e divien ora l'ultima mèta della conoscenza teo-retica.

Solamente a questo punto la «cosa in sè», scopertadalla critica della conoscenza come un postulato dellaconoscenza teoretica – ormai identificabile con la condi-zione limite a parte rei o esistenza dei contenuti –, po-trebbe diventare l'idea metafisica d'un realismo filosofi-co, ossia la conclusione teoretica del criticismo (comeavvenne nel positivismo). Il Kant, come si sa, fu assaititubante a tal proposito. Però, le conclusioni metafisi-che del criticismo secondo lo spirito kantiano sono coe-

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renti alla sua posizione essenzialmente pratica, chè datutte le parti ormai le condizioni e quindi i fondamentidel valore di realtà come della realtà dei valori sonoideali, sono postulati puro pratici enunciabili come rego-le e leggi del volere e del conoscere. Essi rinviano quin-di l'unificazione reale e l'unità stessa di soggetto e og-getto a un mondo noumenico teoreticamente inconosci-bile. Proprio perchè ci dev'essere unità di soggetto e og-getto, noi siamo spinti a unificare l'esperienza in parti-colari leggi dirette dall'«appercezione trascendentale»verso una unità reale in sè.

Pertanto non è affatto contraddittorio che il Kant ab-bia concluso esser la «cosa in sè» un «inconoscibile»,anzi la «causa» inconoscibile (dell'intelligibilità) dei fe-nomeni. La «cosa in sè», per la filosofia, non è, ripeto,che un postulato trascendentale – come a dire la ragionpura della teoretica –; è il principio di oggettività (nonun oggetto) che troviamo nella coscienza e ritroviamopoi nell'intelletto come a priori; causalità dei fenomeni,appunto: «ragione». In questa ragione ci dev'essere, nonsoltanto l'unità oggettiva, l'unità del molteplice fenome-nico nella realtà teoretica (l'unità dei modi, secondo Spi-noza, nella sostanza e quindi il principio della loro de-terminazione); ma anche l'unità dei valori, come finisoggettivi, col loro esistere e col loro attuarsi oggettivo(l'unità degli attributi, l'unità di coscienza e cosa).

Ma per sapere se e come ciò possa avvenire, non pos-siamo che rivolgerci all'esperienza in quell'approssima-zione concettuale, che sarà sempre parziale e provviso-

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renti alla sua posizione essenzialmente pratica, chè datutte le parti ormai le condizioni e quindi i fondamentidel valore di realtà come della realtà dei valori sonoideali, sono postulati puro pratici enunciabili come rego-le e leggi del volere e del conoscere. Essi rinviano quin-di l'unificazione reale e l'unità stessa di soggetto e og-getto a un mondo noumenico teoreticamente inconosci-bile. Proprio perchè ci dev'essere unità di soggetto e og-getto, noi siamo spinti a unificare l'esperienza in parti-colari leggi dirette dall'«appercezione trascendentale»verso una unità reale in sè.

Pertanto non è affatto contraddittorio che il Kant ab-bia concluso esser la «cosa in sè» un «inconoscibile»,anzi la «causa» inconoscibile (dell'intelligibilità) dei fe-nomeni. La «cosa in sè», per la filosofia, non è, ripeto,che un postulato trascendentale – come a dire la ragionpura della teoretica –; è il principio di oggettività (nonun oggetto) che troviamo nella coscienza e ritroviamopoi nell'intelletto come a priori; causalità dei fenomeni,appunto: «ragione». In questa ragione ci dev'essere, nonsoltanto l'unità oggettiva, l'unità del molteplice fenome-nico nella realtà teoretica (l'unità dei modi, secondo Spi-noza, nella sostanza e quindi il principio della loro de-terminazione); ma anche l'unità dei valori, come finisoggettivi, col loro esistere e col loro attuarsi oggettivo(l'unità degli attributi, l'unità di coscienza e cosa).

Ma per sapere se e come ciò possa avvenire, non pos-siamo che rivolgerci all'esperienza in quell'approssima-zione concettuale, che sarà sempre parziale e provviso-

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ria, pur non essendo falsa e illusoria. Mentre il raziona-lismo prima di Kant fu una continua ascesa dall'espe-rienza alla ragione, una volta che questa è apparsa unprincipio deontologico ma teoreticamente inconoscibile,non c'era che rinunciare a conoscer la «cosa in sè», ilperchè dei fenomeni, e ridiscender dalla ragioneall'esperienza, contentandosi di determinarne il come, larelazione. È una rinuncia alla metafisica per un'approssi-mazione soggettiva ma relativa al principio di oggettivi-tà, già implicito nel realismo scientifico.

Sotto questo aspetto, il positivismo della scienza è ilpiù fedele interprete del Kant teoretico17. Soltanto chinon la conosce può asserire ch'essa sia ritornata a un so-stanzialismo materialista o a un causalismo determini-sta, oggi che perfino la fisica non è che la determinazio-ne relativistica di una semplice probabilità! Piuttosto:avendo la scienza, come s'è detto, i suoi limiti, ch'essarispetta; ma avendo il pensiero, kantianamente parlando,tutti i diritti, ossia la libertà, di varcarli in una conoscen-za, sebbene non più teoretica; quale sarà la nuova meta-fisica, la metafisica che prolunga il fenomenismo scien-tifico? Oggi la troveremo al polo opposto all'antico ra-zionalismo naturalista di Galilei, Newton e Cartesio: èla filosofia della contingenza.

Se la domanda «Perchè» è mal posta, non essendoviun perchè conoscibile come sostanza e causa assoluta

17 Come il volontarismo, da Schopenhauer a Nietzche, inter-preta il Kant pratico. Lo smembramento è la conseguenza deldualismo ancora insito nella filosofia kantiana.

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ria, pur non essendo falsa e illusoria. Mentre il raziona-lismo prima di Kant fu una continua ascesa dall'espe-rienza alla ragione, una volta che questa è apparsa unprincipio deontologico ma teoreticamente inconoscibile,non c'era che rinunciare a conoscer la «cosa in sè», ilperchè dei fenomeni, e ridiscender dalla ragioneall'esperienza, contentandosi di determinarne il come, larelazione. È una rinuncia alla metafisica per un'approssi-mazione soggettiva ma relativa al principio di oggettivi-tà, già implicito nel realismo scientifico.

Sotto questo aspetto, il positivismo della scienza è ilpiù fedele interprete del Kant teoretico17. Soltanto chinon la conosce può asserire ch'essa sia ritornata a un so-stanzialismo materialista o a un causalismo determini-sta, oggi che perfino la fisica non è che la determinazio-ne relativistica di una semplice probabilità! Piuttosto:avendo la scienza, come s'è detto, i suoi limiti, ch'essarispetta; ma avendo il pensiero, kantianamente parlando,tutti i diritti, ossia la libertà, di varcarli in una conoscen-za, sebbene non più teoretica; quale sarà la nuova meta-fisica, la metafisica che prolunga il fenomenismo scien-tifico? Oggi la troveremo al polo opposto all'antico ra-zionalismo naturalista di Galilei, Newton e Cartesio: èla filosofia della contingenza.

Se la domanda «Perchè» è mal posta, non essendoviun perchè conoscibile come sostanza e causa assoluta

17 Come il volontarismo, da Schopenhauer a Nietzche, inter-preta il Kant pratico. Lo smembramento è la conseguenza deldualismo ancora insito nella filosofia kantiana.

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fuori dei fenomeni, ma solamente un quia, una categoriao a priori teoretico riguardante il divenire fenomenico,alla nuova metafisica non resta che adeguare la ragioneal fenomeno, l'universalità e necessità del valore allasingolarità e originalità delle esistenze. E siccome la co-noscenza intellettiva e la scienza non riusciran mai anon trascendere il fenomeno – a relativizzarsi alle esi-stenze (come storia) senza relativizzarle al valore razio-nale (come teoria) –, ecco che il contingentismo, critica-ta la scienza col prammatismo; diviene intuizionista pertuffarsi nella «corrente della vita» e per sorprenderne lo«slancio» originale onde sorge il fenomeno come queldato fenomeno. Però, com'era prevedibile, questo non èpiù fenomeno d'alcun noumeno, salvo la mistica affer-mazione d'un Essere consustanziale con la vita: il feno-meno non è più che l'attuale esistenza d'un «io» irrazio-nale che si sente vivere. È la metafisica dell'«ecceità»,lo sbocco storico del nominalismo contemporaneo.

10. – Già vedemmo infatti come l'identica esigenzaabbia trascinato anche il criticismo idealista verso unanalogo attualismo; e qui come là, l'attualità è quella delsoggetto. Dal naturalismo scientifico si ritorna a unospiritualismo in re; dall'essere reale al divenire delloSpirito.

Perchè il criticismo idealista respinge con disprezzo ilrealismo della «cosa in sè»? Perchè non la può giustifi-care criticamente in un sistema divenuto tutto relativista.Il mondo è il mondo della nostra conoscenza; la oggetti-

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fuori dei fenomeni, ma solamente un quia, una categoriao a priori teoretico riguardante il divenire fenomenico,alla nuova metafisica non resta che adeguare la ragioneal fenomeno, l'universalità e necessità del valore allasingolarità e originalità delle esistenze. E siccome la co-noscenza intellettiva e la scienza non riusciran mai anon trascendere il fenomeno – a relativizzarsi alle esi-stenze (come storia) senza relativizzarle al valore razio-nale (come teoria) –, ecco che il contingentismo, critica-ta la scienza col prammatismo; diviene intuizionista pertuffarsi nella «corrente della vita» e per sorprenderne lo«slancio» originale onde sorge il fenomeno come queldato fenomeno. Però, com'era prevedibile, questo non èpiù fenomeno d'alcun noumeno, salvo la mistica affer-mazione d'un Essere consustanziale con la vita: il feno-meno non è più che l'attuale esistenza d'un «io» irrazio-nale che si sente vivere. È la metafisica dell'«ecceità»,lo sbocco storico del nominalismo contemporaneo.

10. – Già vedemmo infatti come l'identica esigenzaabbia trascinato anche il criticismo idealista verso unanalogo attualismo; e qui come là, l'attualità è quella delsoggetto. Dal naturalismo scientifico si ritorna a unospiritualismo in re; dall'essere reale al divenire delloSpirito.

Perchè il criticismo idealista respinge con disprezzo ilrealismo della «cosa in sè»? Perchè non la può giustifi-care criticamente in un sistema divenuto tutto relativista.Il mondo è il mondo della nostra conoscenza; la oggetti-

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vità dell'oggetto è dunque soggettiva, psicologica (senti-mentale, io direi): il pensiero ingenuo pone come «nonio», perchè lo crede in sè, quell'oggetto ch'egli medesi-mo costruisce; ma, criticamente, esso è una conoscenza,un'idea; e la «cosa in sè», l'idea di un'idea. Il mondo è ilmondo delle idee, non più assolute e trascendenti (senon in quanto ce ne furono storicamente di tali), ma re-lativizzate l'una all'altra nella forma dialettica, ch'è logi-ca del pensiero e non delle cose in sè; e, come valorispirituali, immanenti in quel divenire attuale, ch'è il di-venire e l'attuarsi del pensiero: la sola realtà di cui sipossa parlare.

Sembra che questo ragionamento non contraddica ilkantismo, dal momento che per il Kant la «cosa in sè» ènoumenica e dunque è un pensiero; ma soltanto lo rendacoerente. Una volta negata la possibilità d'affermare teo-reticamente la realtà del trascendente dalla parte delleforme razionali, perchè richiamarlo dalla parte dei con-tenuti, come esistenza d'una lor causa, in sè, da noiignorata? Per giustificare le forme stesse della cono-scenza? Ma in tal caso, ritorniamo all'«armonia prestabi-lita»! Il pensiero contemporaneo preferisce ritornare, semai, alla posizione humiana: che sarebbe una posizionesoggettivista e scettica, se alla realtà in sè della cosa nonsi sostituisse, quasi di soppiatto, la realtà dello spirito.

Infatti, già nel precriticismo inglese, dopo i vani ten-tativi del Locke, che ancor intendeva la «cosa in sè»come il coesistere di qualità prime comuni all'oggetto insè e alla sensazione nostra; e del Berkeley, che riferiva a

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vità dell'oggetto è dunque soggettiva, psicologica (senti-mentale, io direi): il pensiero ingenuo pone come «nonio», perchè lo crede in sè, quell'oggetto ch'egli medesi-mo costruisce; ma, criticamente, esso è una conoscenza,un'idea; e la «cosa in sè», l'idea di un'idea. Il mondo è ilmondo delle idee, non più assolute e trascendenti (senon in quanto ce ne furono storicamente di tali), ma re-lativizzate l'una all'altra nella forma dialettica, ch'è logi-ca del pensiero e non delle cose in sè; e, come valorispirituali, immanenti in quel divenire attuale, ch'è il di-venire e l'attuarsi del pensiero: la sola realtà di cui sipossa parlare.

Sembra che questo ragionamento non contraddica ilkantismo, dal momento che per il Kant la «cosa in sè» ènoumenica e dunque è un pensiero; ma soltanto lo rendacoerente. Una volta negata la possibilità d'affermare teo-reticamente la realtà del trascendente dalla parte delleforme razionali, perchè richiamarlo dalla parte dei con-tenuti, come esistenza d'una lor causa, in sè, da noiignorata? Per giustificare le forme stesse della cono-scenza? Ma in tal caso, ritorniamo all'«armonia prestabi-lita»! Il pensiero contemporaneo preferisce ritornare, semai, alla posizione humiana: che sarebbe una posizionesoggettivista e scettica, se alla realtà in sè della cosa nonsi sostituisse, quasi di soppiatto, la realtà dello spirito.

Infatti, già nel precriticismo inglese, dopo i vani ten-tativi del Locke, che ancor intendeva la «cosa in sè»come il coesistere di qualità prime comuni all'oggetto insè e alla sensazione nostra; e del Berkeley, che riferiva a

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Dio l'essenza delle percezioni in quanto esse, pur for-mando tutto il nostro mondo, non dipendon dal nostrovolere; con lo Hume l'impresa era apparsa disperata.Dove tutta la conoscenza è relativa e soggettiva, impos-sibile ammettere una realtà dell'oggetto. L'oggetto èun'illusione; ed in suo luogo non resta che chi s'illude, ilsoggetto...

Qui comincia l'istoria del soggetto puro, dello spiritoreale che prende il posto dell'oggetto in sè. La filosofiacritica dopo Kant introdurrà a una metafisica dello Spi-rito, sia questo un'assoluta realtà morale a cui il pensierorinvia di continuo e da ogni parte ne riconduce, qual'èl'Io puro di Fichte; o sia invece lo stesso Logos, il Pen-siero come soggetto unico di tutti quegli oggetti, che cri-ticamente appariscon come idee e teoreticamente comedivenire storico.

L'hegelismo, dapprima muta l'oggettività in pensiero:tutto ciò ch'è reale, è idea (e quindi ragione); poi, realiz-za il pensiero ne' suoi oggetti, i quali più non sarebberoche i suoi prodotti, o meglio atti: tutto ciò ch'è razionale,è reale. Il primo passaggio è ancora criticista, ma il se-condo è metafisico in direzione che sembra perfetta-mente opposta a quella della «cosa in sè». Prima di ac-cettare Hegel bisogna conciliarlo col criticismo, se ciriesce.

Intanto, nel confronto, ci troviamo davanti a un belparadosso! Se noi prendiamo il real divenire delle ideenel senso hegeliano, e cioè teoreticamente, sembra chese ne debban escludere, proprio, tutte quante le «idee»

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Dio l'essenza delle percezioni in quanto esse, pur for-mando tutto il nostro mondo, non dipendon dal nostrovolere; con lo Hume l'impresa era apparsa disperata.Dove tutta la conoscenza è relativa e soggettiva, impos-sibile ammettere una realtà dell'oggetto. L'oggetto èun'illusione; ed in suo luogo non resta che chi s'illude, ilsoggetto...

Qui comincia l'istoria del soggetto puro, dello spiritoreale che prende il posto dell'oggetto in sè. La filosofiacritica dopo Kant introdurrà a una metafisica dello Spi-rito, sia questo un'assoluta realtà morale a cui il pensierorinvia di continuo e da ogni parte ne riconduce, qual'èl'Io puro di Fichte; o sia invece lo stesso Logos, il Pen-siero come soggetto unico di tutti quegli oggetti, che cri-ticamente appariscon come idee e teoreticamente comedivenire storico.

L'hegelismo, dapprima muta l'oggettività in pensiero:tutto ciò ch'è reale, è idea (e quindi ragione); poi, realiz-za il pensiero ne' suoi oggetti, i quali più non sarebberoche i suoi prodotti, o meglio atti: tutto ciò ch'è razionale,è reale. Il primo passaggio è ancora criticista, ma il se-condo è metafisico in direzione che sembra perfetta-mente opposta a quella della «cosa in sè». Prima di ac-cettare Hegel bisogna conciliarlo col criticismo, se ciriesce.

Intanto, nel confronto, ci troviamo davanti a un belparadosso! Se noi prendiamo il real divenire delle ideenel senso hegeliano, e cioè teoreticamente, sembra chese ne debban escludere, proprio, tutte quante le «idee»

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nel senso kantiano, le idee pure, di cui non rimarrebbeche il fil di ferro che le regge, il pensiero come attivitàpsicologica e accadimento storico nel tempo. Per esem-pio, un'idea morale – sia questa un postulato o un impe-rativo, come la libertà o il dovere; oppur sia magari larappresentazione corrispondente di un dover essere,come il Bene, la Giustizia ecc. – non è certo una cono-scenza reale, ma un valore ideale; perciò non si attua neltempo e nel divenire storico che come quel particolareatto del pensiero. Allora, dell'idea pura e universale, chediremo noi? che il valore di un'idea pura è reale perchèc'è realmente quell'idea? In tal caso, tutti gli universaliasono reali; e se no, son reali soltanto le parole, flatus vo-cis perduti nel tempo...

Il Kant poteva parlare di «realtà morale», che avreb-be per soggetto la «persona morale» e per oggetto il«mondo morale». Questi vocaboli, che usiamo parallela-mente per il soggetto e l'oggetto conoscibile (ossia sen-sibile), vengono presi analogicamente – tutto il linguag-gio soggettivo è analogico – per dare un sostrato a deipredicati morali, i quali però, non essendo mai analiticima sempre sintetici, non presuppongono alcuna loro esi-stenza in quel soggetto od oggetto. Fin che restiamo colKant in una posizione pratica, non c'è pericolo di con-fonder la «realtà» morale con quella teoretica, che sonoperfettamente antinomiche. La posizione pratica è affer-mazione volontaria del dover essere, non dimostrazionedell'essere: crolli il mondo (reale), fa' il tuo dovere! (an-che se tu sei un pugno di cenere di fronte al Valore asso-

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nel senso kantiano, le idee pure, di cui non rimarrebbeche il fil di ferro che le regge, il pensiero come attivitàpsicologica e accadimento storico nel tempo. Per esem-pio, un'idea morale – sia questa un postulato o un impe-rativo, come la libertà o il dovere; oppur sia magari larappresentazione corrispondente di un dover essere,come il Bene, la Giustizia ecc. – non è certo una cono-scenza reale, ma un valore ideale; perciò non si attua neltempo e nel divenire storico che come quel particolareatto del pensiero. Allora, dell'idea pura e universale, chediremo noi? che il valore di un'idea pura è reale perchèc'è realmente quell'idea? In tal caso, tutti gli universaliasono reali; e se no, son reali soltanto le parole, flatus vo-cis perduti nel tempo...

Il Kant poteva parlare di «realtà morale», che avreb-be per soggetto la «persona morale» e per oggetto il«mondo morale». Questi vocaboli, che usiamo parallela-mente per il soggetto e l'oggetto conoscibile (ossia sen-sibile), vengono presi analogicamente – tutto il linguag-gio soggettivo è analogico – per dare un sostrato a deipredicati morali, i quali però, non essendo mai analiticima sempre sintetici, non presuppongono alcuna loro esi-stenza in quel soggetto od oggetto. Fin che restiamo colKant in una posizione pratica, non c'è pericolo di con-fonder la «realtà» morale con quella teoretica, che sonoperfettamente antinomiche. La posizione pratica è affer-mazione volontaria del dover essere, non dimostrazionedell'essere: crolli il mondo (reale), fa' il tuo dovere! (an-che se tu sei un pugno di cenere di fronte al Valore asso-

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luto). Ma, una volta abbandonata la posizione antinomi-ca e pratica, come dimostrammo assurdo e impossibileprendere quel soggetto morale, ch'è volontà e finalità,come un oggetto o essere reale, così sarebbe assurdo eimpossibile andar cercando la libertà o il Bene per lestrade come un fatto o una cosa.

Nel panlogismo hegeliano, la «realtà morale» kantia-na non può esser più che l'idea del signor EmmanueleKant in quel tempo e luogo; anzi, la mia attuale idea diquell'idea. E non manca un certo atteggiamento sardoni-co dello Hegel riguardo a tali idee pure: anche etica-mente, a che servono le idee morali? a tenersele in sac-coccia? Di solito, la cosiddetta «coscienza morale»giunge a cose fatte e segue la storia; ciò che conta è ilfare, l'esser moralmente (il volere) ciò che si è realmen-te. Il divenire è il divenire reale, e i valori sono i valoriesistenti storicamente, quelli che si fanno, e non soltantosi pensano18.

11. – Resterebbe allora che intendessimo come realdivenire delle idee, soltanto il prodursi di quelle idee«reali», che eran le idee teoretiche kantiane, i concetti.Ma anche qui ci accorgiamo subito d'esser fuori strada:

18 Perciò l'individualismo etico e politico kantiano si rovescianello storicismo e nello statualismo hegeliano; il valore etico siuniversalizza (e quindi si attua come «spirito oggettivo»), non inquanto è utopia individuale od opinione di un libero pensiero, main quanto si realizza nella coscienza sociale e si attua in istitutipositivi che superano l'individuo, dalla famiglia allo Stato etico.

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luto). Ma, una volta abbandonata la posizione antinomi-ca e pratica, come dimostrammo assurdo e impossibileprendere quel soggetto morale, ch'è volontà e finalità,come un oggetto o essere reale, così sarebbe assurdo eimpossibile andar cercando la libertà o il Bene per lestrade come un fatto o una cosa.

Nel panlogismo hegeliano, la «realtà morale» kantia-na non può esser più che l'idea del signor EmmanueleKant in quel tempo e luogo; anzi, la mia attuale idea diquell'idea. E non manca un certo atteggiamento sardoni-co dello Hegel riguardo a tali idee pure: anche etica-mente, a che servono le idee morali? a tenersele in sac-coccia? Di solito, la cosiddetta «coscienza morale»giunge a cose fatte e segue la storia; ciò che conta è ilfare, l'esser moralmente (il volere) ciò che si è realmen-te. Il divenire è il divenire reale, e i valori sono i valoriesistenti storicamente, quelli che si fanno, e non soltantosi pensano18.

11. – Resterebbe allora che intendessimo come realdivenire delle idee, soltanto il prodursi di quelle idee«reali», che eran le idee teoretiche kantiane, i concetti.Ma anche qui ci accorgiamo subito d'esser fuori strada:

18 Perciò l'individualismo etico e politico kantiano si rovescianello storicismo e nello statualismo hegeliano; il valore etico siuniversalizza (e quindi si attua come «spirito oggettivo»), non inquanto è utopia individuale od opinione di un libero pensiero, main quanto si realizza nella coscienza sociale e si attua in istitutipositivi che superano l'individuo, dalla famiglia allo Stato etico.

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o mutiamo il significato del vocabolo «idea» prenden-dolo come contenuto del concetto, o eliminiamo dal cri-terio di realtà proprio le... idee, il pensiero in quanto for-mativo, le costruzioni teoretiche in quanto sintetiche apriori e, insomma, il trascendentale kantiano, per ade-guarci alle esistenze storiche di fatto. Non solamentedovremo negar valore reale a quelle costruzioni ottenuteper sintesi di pensiero, che sono le generalizzazioni, leinduzioni e la parte razionale delle scienze – l'hegelismole tratta da pseudo concetti, e rispetto al vero reale (sto-rico) la scienza non gli par meno vana della moralitàaprioristica –; ma anche la «sostanza» e la «causa», etutte le idee pure del pensiero teoretico, in che modo lepotremo considerare ancora «reali»?

Unicamente al modo stesso di Kant; chè altrimenti lecategorie sarebber dei reali in sè, metafisicamente. Manoi sappiamo che la sostanza e la causa non sono realiin sè, perchè si tratta di principii formali per conoscereil reale e non di questo reale; esse sono categorie riduci-bili a idee pure che otteniamo per sintesi tutta a priori.E, si badi bene, le idee pure non son realtà nemmeno «innoi», dove non troveremo mai la sostanza e la causacome reali esistenze: troveremo sempre, psicologica-mente, una particolare attività sensibile, un contenuto, eper conoscerlo dovremo ricorrere ai detti principii di so-stanza e causa con cui definire le relazioni obbiettive diquell'attività con gli altri oggetti. In breve: il valore dellecategorie conoscitive è a priori, trascendentale; il pen-siero, anche come pensare teoretico, in quanto è valore

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o mutiamo il significato del vocabolo «idea» prenden-dolo come contenuto del concetto, o eliminiamo dal cri-terio di realtà proprio le... idee, il pensiero in quanto for-mativo, le costruzioni teoretiche in quanto sintetiche apriori e, insomma, il trascendentale kantiano, per ade-guarci alle esistenze storiche di fatto. Non solamentedovremo negar valore reale a quelle costruzioni ottenuteper sintesi di pensiero, che sono le generalizzazioni, leinduzioni e la parte razionale delle scienze – l'hegelismole tratta da pseudo concetti, e rispetto al vero reale (sto-rico) la scienza non gli par meno vana della moralitàaprioristica –; ma anche la «sostanza» e la «causa», etutte le idee pure del pensiero teoretico, in che modo lepotremo considerare ancora «reali»?

Unicamente al modo stesso di Kant; chè altrimenti lecategorie sarebber dei reali in sè, metafisicamente. Manoi sappiamo che la sostanza e la causa non sono realiin sè, perchè si tratta di principii formali per conoscereil reale e non di questo reale; esse sono categorie riduci-bili a idee pure che otteniamo per sintesi tutta a priori.E, si badi bene, le idee pure non son realtà nemmeno «innoi», dove non troveremo mai la sostanza e la causacome reali esistenze: troveremo sempre, psicologica-mente, una particolare attività sensibile, un contenuto, eper conoscerlo dovremo ricorrere ai detti principii di so-stanza e causa con cui definire le relazioni obbiettive diquell'attività con gli altri oggetti. In breve: il valore dellecategorie conoscitive è a priori, trascendentale; il pen-siero, anche come pensare teoretico, in quanto è valore

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puro, è formale, ossia normativo ma non costitutivodell'oggetto reale. Non si può identificare con questo.

Non potendo ammettere una realtà in sè del valore (senon che come pensiero formale), resta che il valore siaimmanente, e cioè che valga «nelle» esistenze. Qui (enon prima) è il punto di passaggio dal kantismoall'hegelismo, nodo di tutte le nostre controversie, biviodella filosofia con fanale rosso ancor acceso. Rallentare!e, intanto, corregger subito quel locativo appiccicatoall'immanentismo come un indirizzo sbagliato. Dire cheun valore, per sè trascendentale, è immanente «in»un'esistenza contingente, sarebbe come ripeter ancora,per esempio, che l'anima è «dentro» il corpo, dopo avercompreso che l'anima non è una cosa, ma volere e fina-lità di quella cosa, ch'essa medesima conosce come cor-po. Sarebbe un non senso in Kant come in Hegel.

La differenza fra loro è piuttosto questa: presso ilKant, il valore (noumenico) vale per le esistenze; divie-ne pensiero «reale» in quanto si applica ai contenuti fe-nomenici. Perciò il pensiero, anche se teoretico, giudicama non crea l'oggetto reale; questo si costituisce comeconcetto in quanto i fenomeni vi si accordano, vi trova-no il «loro» principio di unificazione. Ecco perchè «cidev'essere» una causa in sè del fenomeno, un reale asso-luto, in metafisico accordo con il fondamento trascen-dentale del nostro pensiero verace. Allora, l'immanenzad'un valore sarebbe l’incontro, nel tempo e nello spaziofenomenico, di un Io trascendentale con un Non-iougualmente noumenico?

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puro, è formale, ossia normativo ma non costitutivodell'oggetto reale. Non si può identificare con questo.

Non potendo ammettere una realtà in sè del valore (senon che come pensiero formale), resta che il valore siaimmanente, e cioè che valga «nelle» esistenze. Qui (enon prima) è il punto di passaggio dal kantismoall'hegelismo, nodo di tutte le nostre controversie, biviodella filosofia con fanale rosso ancor acceso. Rallentare!e, intanto, corregger subito quel locativo appiccicatoall'immanentismo come un indirizzo sbagliato. Dire cheun valore, per sè trascendentale, è immanente «in»un'esistenza contingente, sarebbe come ripeter ancora,per esempio, che l'anima è «dentro» il corpo, dopo avercompreso che l'anima non è una cosa, ma volere e fina-lità di quella cosa, ch'essa medesima conosce come cor-po. Sarebbe un non senso in Kant come in Hegel.

La differenza fra loro è piuttosto questa: presso ilKant, il valore (noumenico) vale per le esistenze; divie-ne pensiero «reale» in quanto si applica ai contenuti fe-nomenici. Perciò il pensiero, anche se teoretico, giudicama non crea l'oggetto reale; questo si costituisce comeconcetto in quanto i fenomeni vi si accordano, vi trova-no il «loro» principio di unificazione. Ecco perchè «cidev'essere» una causa in sè del fenomeno, un reale asso-luto, in metafisico accordo con il fondamento trascen-dentale del nostro pensiero verace. Allora, l'immanenzad'un valore sarebbe l’incontro, nel tempo e nello spaziofenomenico, di un Io trascendentale con un Non-iougualmente noumenico?

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Per lo Hegel invece i valori valgono in quanto reali, esono reali in quanto valori del divenire fenomenico, chedunque non è più fenomeno d'alcun sottoposto o sovrap-posto noumeno. Coraggioso passaggio, da un criticismotrascendentale, deontologico (romantico) e, infine, prati-co (anche del teoretico), a un immanentismo tutto teore-tico (anche se animato da un profondo spiritualismo), ilquale vuol realizzare la Ragione nel divenire dei contin-genti. Per la prima volta, il nominalismo eracliteo, cheper secoli aveva sostenuto soltanto la parte ereticale difronte alla ortodossia realista, incrociatosi con essa atraverso Kant, sàle al di sopra e in primo piano trasci-nando la filosofia a un idealismo in perfetta antitesi conquello che vi aveva trionfato fin che gli uomini le chie-sero sol la ragione per credere e il conforto a sperare.Perciò, anche all'interno della filosofia hegeliana, il pun-to per noi più importante è il passaggio dallo spirito sog-gettivo a quello oggettivo: dal primo al secondo mo-mento della sua stessa dialettica.

Infatti la prima posizione hegeliana è soggettivista erelativista: tutto ciò ch'è reale è razionale. Qui non si fache applicar il criticismo kantiano allo stesso Kant: se ilreale è conoscenza (idea), non c'è più alcun reale assolu-to, e la realtà è il farsi delle idee nelle lor reciproche re-lazioni, dove non soltanto l'assoluto sta per il relativo elo implica, e così la causa per l'effetto ecc., ma anchel'oggetto è per il soggetto, e il Valore (il dover essere)per il pensiero che lo pone. Sotto tale aspetto logico, unfenomeno kantiano è già un'idea, e il noumeno è ancora

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Per lo Hegel invece i valori valgono in quanto reali, esono reali in quanto valori del divenire fenomenico, chedunque non è più fenomeno d'alcun sottoposto o sovrap-posto noumeno. Coraggioso passaggio, da un criticismotrascendentale, deontologico (romantico) e, infine, prati-co (anche del teoretico), a un immanentismo tutto teore-tico (anche se animato da un profondo spiritualismo), ilquale vuol realizzare la Ragione nel divenire dei contin-genti. Per la prima volta, il nominalismo eracliteo, cheper secoli aveva sostenuto soltanto la parte ereticale difronte alla ortodossia realista, incrociatosi con essa atraverso Kant, sàle al di sopra e in primo piano trasci-nando la filosofia a un idealismo in perfetta antitesi conquello che vi aveva trionfato fin che gli uomini le chie-sero sol la ragione per credere e il conforto a sperare.Perciò, anche all'interno della filosofia hegeliana, il pun-to per noi più importante è il passaggio dallo spirito sog-gettivo a quello oggettivo: dal primo al secondo mo-mento della sua stessa dialettica.

Infatti la prima posizione hegeliana è soggettivista erelativista: tutto ciò ch'è reale è razionale. Qui non si fache applicar il criticismo kantiano allo stesso Kant: se ilreale è conoscenza (idea), non c'è più alcun reale assolu-to, e la realtà è il farsi delle idee nelle lor reciproche re-lazioni, dove non soltanto l'assoluto sta per il relativo elo implica, e così la causa per l'effetto ecc., ma anchel'oggetto è per il soggetto, e il Valore (il dover essere)per il pensiero che lo pone. Sotto tale aspetto logico, unfenomeno kantiano è già un'idea, e il noumeno è ancora

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un'idea sviluppatasi storicamente in opposizione dialet-tica alla prima e con essa mediata: ecco il posto delleidee kantiane nel sistema hegeliano.

Ma la seconda proposizione hegeliana – tutto ciò ch'èrazionale, è reale! – non è una semplice conversionedella precedente: è una nuova posizione, quelladell'immanentismo, in senso inverso alla posizione tra-scendentale; l'attualismo assoluto del Gentile ne sarà ilpiù vigoroso e coerente sviluppo. I valori, che le ideekantiane postulano e rappresentano in forme pure – lichiameremo ancora lo Spirito e l'Io puro per negazionedella negazione, ossia per non adeguarli a un particolareoggetto o soggetto, ma, in sè, non son altro che degli in-conoscibili alogici e quindi inesistenti –, si determinanorealmente, ossia teoreticamente, come atti del pensiero,che non rimane più in un mondo noumenico, ma divieneconcreto oggetto, mondo attuale, un esistere come unfare, teoreticità e praticità insieme. Il pensiero è realeperchè si attua, oggettivandosi, facendosi idea teoretica,cosa: non la «cosa» astratta e per sè stante, immobile eidentica a sè, ma la sua attualità storica e di fatto. LoSpirito si realizza ne' suoi «oggetti», come l'anima (ospirito individuale) si realizza nel corpo; come la filoso-fia (o pensiero puro) si fa scienza concreta nella storia.

Ma come giustificare il passaggio dal primo al secon-do momento della filosofia hegeliana, dalla sintesi criti-cista nel soggetto formale (nell'idea) alla sintesi metafi-sica nelle esistenze reali (nei contenuti) e, in ultima ana-lisi, nei sensibili? Se non vogliamo interpretare l'hegeli-

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un'idea sviluppatasi storicamente in opposizione dialet-tica alla prima e con essa mediata: ecco il posto delleidee kantiane nel sistema hegeliano.

Ma la seconda proposizione hegeliana – tutto ciò ch'èrazionale, è reale! – non è una semplice conversionedella precedente: è una nuova posizione, quelladell'immanentismo, in senso inverso alla posizione tra-scendentale; l'attualismo assoluto del Gentile ne sarà ilpiù vigoroso e coerente sviluppo. I valori, che le ideekantiane postulano e rappresentano in forme pure – lichiameremo ancora lo Spirito e l'Io puro per negazionedella negazione, ossia per non adeguarli a un particolareoggetto o soggetto, ma, in sè, non son altro che degli in-conoscibili alogici e quindi inesistenti –, si determinanorealmente, ossia teoreticamente, come atti del pensiero,che non rimane più in un mondo noumenico, ma divieneconcreto oggetto, mondo attuale, un esistere come unfare, teoreticità e praticità insieme. Il pensiero è realeperchè si attua, oggettivandosi, facendosi idea teoretica,cosa: non la «cosa» astratta e per sè stante, immobile eidentica a sè, ma la sua attualità storica e di fatto. LoSpirito si realizza ne' suoi «oggetti», come l'anima (ospirito individuale) si realizza nel corpo; come la filoso-fia (o pensiero puro) si fa scienza concreta nella storia.

Ma come giustificare il passaggio dal primo al secon-do momento della filosofia hegeliana, dalla sintesi criti-cista nel soggetto formale (nell'idea) alla sintesi metafi-sica nelle esistenze reali (nei contenuti) e, in ultima ana-lisi, nei sensibili? Se non vogliamo interpretare l'hegeli-

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smo miticamente, quasi un neo platonismo per cui loSpirito si attui oscurandosi e autolimitandosi nei contin-genti (da lui stesso «creati» o almeno «posti»), per risa-lire, in perenne ciclo, verso la propria luminosa libertàassoluta il che riconduce la destra hegeliana a un tra-scendentalismo, dove lo Spirito, come dissi, prende ilposto della «cosa in sè» è soltanto nella critica del valo-re estetico, ossia d'un valore immanente alla sensazionecome tale, che si può cercare la prova esistenziale dellaspiritualità dei contenuti stessi, prima che essi divenga-no contenuti d'idee logiche ed etiche che li trascendono:la prova cioè che il valore esista e si attui in una realeunità di forma e contenuto.

12. – L'importanza e la portata metafisica di una criti-ca dei valori sensibili, che cerchi il fondamento dei«giudizi sensibili puri», come il Kant chiama i giudiziestetici, e delle rispettive «idee sensibili» (o «rappresen-tazioni dell'immaginazione»), affiora già in Kant e intro-duce a quell'estetica filosofica che nella filosofia con-temporanea acquista un così grande sviluppo, accanto aquello dell'epistemologia e della critica della scienza, in-sieme con le quali ne costituisce anche l'aspetto più ori-ginale.

Il filosofo di Koenisberg, che nell'«Estetica trascen-dentale», dovendo cercare il fondamento della cono-scenza, tratta i sensibili come dei meri dati fenomenici,che non hanno in sè alcun valore obbiettivo, ma sonounicamente i contenuti intuitivi di forme a priori che li

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smo miticamente, quasi un neo platonismo per cui loSpirito si attui oscurandosi e autolimitandosi nei contin-genti (da lui stesso «creati» o almeno «posti»), per risa-lire, in perenne ciclo, verso la propria luminosa libertàassoluta il che riconduce la destra hegeliana a un tra-scendentalismo, dove lo Spirito, come dissi, prende ilposto della «cosa in sè» è soltanto nella critica del valo-re estetico, ossia d'un valore immanente alla sensazionecome tale, che si può cercare la prova esistenziale dellaspiritualità dei contenuti stessi, prima che essi divenga-no contenuti d'idee logiche ed etiche che li trascendono:la prova cioè che il valore esista e si attui in una realeunità di forma e contenuto.

12. – L'importanza e la portata metafisica di una criti-ca dei valori sensibili, che cerchi il fondamento dei«giudizi sensibili puri», come il Kant chiama i giudiziestetici, e delle rispettive «idee sensibili» (o «rappresen-tazioni dell'immaginazione»), affiora già in Kant e intro-duce a quell'estetica filosofica che nella filosofia con-temporanea acquista un così grande sviluppo, accanto aquello dell'epistemologia e della critica della scienza, in-sieme con le quali ne costituisce anche l'aspetto più ori-ginale.

Il filosofo di Koenisberg, che nell'«Estetica trascen-dentale», dovendo cercare il fondamento della cono-scenza, tratta i sensibili come dei meri dati fenomenici,che non hanno in sè alcun valore obbiettivo, ma sonounicamente i contenuti intuitivi di forme a priori che li

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trascendono per unificarli nelle rappresentazioni di og-getti; nella «Critica del Giudizio» riconosce invece, chei sensibili stessi – prima di divenir «materia» di formeconoscitive (concetti di natura), ed oltre ad essere «sti-moli» di sentimenti gradevoli o sgradevoli, e quindimezzi per rappresentarci i fini e interessi teoretici e pra-tici – già posseggono un proprio valore e si presentanoin una propria forma, detta «immagine» (attuale o ripro-dotta, o anche creata dall'arte), che può esser piacevoleper sè stessa, disinteressatamente, ossia indipendente-mente dai valori e dai fini logici e pratici. Allora, il giu-dizio su questo accordo fra l'immagine sensibile e il sen-timento che le è immanente, prescindendo da ogni co-sciente finalità che l'oltrepassi, è un giudizio estetico,che dunque si fonda sul solo sentimento della formasensibile (è soggettivo); ma ciò nondimeno è universale,in quanto afferma un valore, il bello, che tale deve esse-re per ogni persona «di gusto», ovvero capace di sensi-bilità estetica.

Adunque il «bello», trovato in natura o cercatonell'arte (quando a sua volta esso diviene un finedell'attività umana), non è che il detto «accordo» tra laforma sensibile o immagine dell'oggetto – Kant intendedire, quella «forma» che diviene un oggetto quando di-vien «contenuto» dei concetti di natura – e il sentimentoch'essa forma contiene, che diverrà soggetto, finalità de-terminante le forme trascendentali del pensiero, quandola sensazione non ne sarà più che un contenuto e unostimolo empirico. Nel valore estetico (il bello), e

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trascendono per unificarli nelle rappresentazioni di og-getti; nella «Critica del Giudizio» riconosce invece, chei sensibili stessi – prima di divenir «materia» di formeconoscitive (concetti di natura), ed oltre ad essere «sti-moli» di sentimenti gradevoli o sgradevoli, e quindimezzi per rappresentarci i fini e interessi teoretici e pra-tici – già posseggono un proprio valore e si presentanoin una propria forma, detta «immagine» (attuale o ripro-dotta, o anche creata dall'arte), che può esser piacevoleper sè stessa, disinteressatamente, ossia indipendente-mente dai valori e dai fini logici e pratici. Allora, il giu-dizio su questo accordo fra l'immagine sensibile e il sen-timento che le è immanente, prescindendo da ogni co-sciente finalità che l'oltrepassi, è un giudizio estetico,che dunque si fonda sul solo sentimento della formasensibile (è soggettivo); ma ciò nondimeno è universale,in quanto afferma un valore, il bello, che tale deve esse-re per ogni persona «di gusto», ovvero capace di sensi-bilità estetica.

Adunque il «bello», trovato in natura o cercatonell'arte (quando a sua volta esso diviene un finedell'attività umana), non è che il detto «accordo» tra laforma sensibile o immagine dell'oggetto – Kant intendedire, quella «forma» che diviene un oggetto quando di-vien «contenuto» dei concetti di natura – e il sentimentoch'essa forma contiene, che diverrà soggetto, finalità de-terminante le forme trascendentali del pensiero, quandola sensazione non ne sarà più che un contenuto e unostimolo empirico. Nel valore estetico (il bello), e

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nell'attività artistica che vi corrisponde (l'immaginazio-ne, «facoltà» media fra l'intuizione sensibile e l'intellet-to, come il sentimento sta in mezzo fra il conoscere e ilvolere), si sente (come piacere disinteressato), benchènon si possa obbiettivamente (razionalmente) dimostra-re e rimanga pertanto «inesplicabile», che v'è accordo, equindi essenziale unità e identità, fra il mondo sensibilee l'intelligibile, fra ciò che concettualmente si costituiscecome natura e ciò che razionalmente s'impone come fi-nalità e dover essere. Perciò da una parte il giudizioestetico avvia il pensiero a riflettere sui sensibili perunificarli secondo fini e valori, che nulla, se non fossequell'accordo, autorizzerebbe a cercare in essi; edall'altra parte, la contemplazione della bellezza sensibi-le, e tanto più la commozione del sublime (che traducein piacere estetico lo sgomento del dislivello fra l'intuiree il comprendere) preannunciano l'esistere nel mondo diquei valori etici e religiosi, che l'arte poi simboleggianelle sue immagini poetiche.

Di qui ad intendere la bellezza e l'arte come rivelatricidei valori assoluti, e anzi, poi, come assoluta e immedia-ta realtà contrapposta alle artificiose e pratiche astrazio-ni dell'intelletto, non è lungo il passo, sebbene la vigi-lante prudenza del Kant se ne fosse cautamente astenu-ta. Già il romanticismo, da Schelling a Schopenhauer,da Schiller a Novalis e a Nietzche, si era gettato perquesta via, quasi istintivamente cercando nell'esteticol'unità di soggetto e oggetto prima o dopo le opposizionipratiche e le distinzioni teoretiche; ma del resto, tutto

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nell'attività artistica che vi corrisponde (l'immaginazio-ne, «facoltà» media fra l'intuizione sensibile e l'intellet-to, come il sentimento sta in mezzo fra il conoscere e ilvolere), si sente (come piacere disinteressato), benchènon si possa obbiettivamente (razionalmente) dimostra-re e rimanga pertanto «inesplicabile», che v'è accordo, equindi essenziale unità e identità, fra il mondo sensibilee l'intelligibile, fra ciò che concettualmente si costituiscecome natura e ciò che razionalmente s'impone come fi-nalità e dover essere. Perciò da una parte il giudizioestetico avvia il pensiero a riflettere sui sensibili perunificarli secondo fini e valori, che nulla, se non fossequell'accordo, autorizzerebbe a cercare in essi; edall'altra parte, la contemplazione della bellezza sensibi-le, e tanto più la commozione del sublime (che traducein piacere estetico lo sgomento del dislivello fra l'intuiree il comprendere) preannunciano l'esistere nel mondo diquei valori etici e religiosi, che l'arte poi simboleggianelle sue immagini poetiche.

Di qui ad intendere la bellezza e l'arte come rivelatricidei valori assoluti, e anzi, poi, come assoluta e immedia-ta realtà contrapposta alle artificiose e pratiche astrazio-ni dell'intelletto, non è lungo il passo, sebbene la vigi-lante prudenza del Kant se ne fosse cautamente astenu-ta. Già il romanticismo, da Schelling a Schopenhauer,da Schiller a Novalis e a Nietzche, si era gettato perquesta via, quasi istintivamente cercando nell'esteticol'unità di soggetto e oggetto prima o dopo le opposizionipratiche e le distinzioni teoretiche; ma del resto, tutto

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Page 276: E-book campione Liber Liber · sul pensiero teoretico; al punto che l'idealismo, il quale logicamente si dovrebbe contentar d'affermare che l'empirico, il sensibile, la materia insomma,

l'intuizionismo contemporaneo, fino al Bergson, alBaldwin, al Fawcett, al De Gaultier, che altro vuole, senon tentare di sostituire alla metafisica razionale e illu-minista una metafisica estetica, che intenda l'assolutocome immediatezza dell'Essere, presente nell'intuizioneestetica?

Ma per non perdere il filo del nostro discorso, ritor-niamo all'hegelismo, che presenta il vantaggio d'una po-sizione rigorosamente teoretica, avversa a ogni irrazio-nalismo e quindi a ogni misticizzante pancalismo. Essoc'interessa particolarmente anche perchè vi si inserisce ilmaggiore dei nostri estetisti, B. Croce, la teoria del qua-le non ha punto bisogno d'esser qui riferita perchè ormainotissima e largamente applicata dalla critica artistica efilologica italiana, ma che sarà ogni momento sottintesanella discussione del problema estetico, cui verran dedi-cati i capitoli seguenti.

In questo, invece, la dobbiamo saltare, in quanto ilCroce tratta del valore estetico per distinzione dagli al-tri, ai quali lo ricongiunge sol come grado della cono-scenza e momento del divenire dello Spirito; laddove sitratta qui di vedere se nel sensibile sia già data quell'uni-tà reale, che la dialettica del pensiero smembra poi nelleopposizioni pratiche e nelle relazioni teoretiche di sog-getto e oggetto. Infatti, come dicemmo, il problemaestetico si presenta prima di tutto come un problemametafisico che si potrebbe enunciare così: se la criticadella conoscenza ci ha dimostrato che una cosa è giàun'idea, e che nell'idea il soggetto supera l'oggetto, il va-

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l'intuizionismo contemporaneo, fino al Bergson, alBaldwin, al Fawcett, al De Gaultier, che altro vuole, senon tentare di sostituire alla metafisica razionale e illu-minista una metafisica estetica, che intenda l'assolutocome immediatezza dell'Essere, presente nell'intuizioneestetica?

Ma per non perdere il filo del nostro discorso, ritor-niamo all'hegelismo, che presenta il vantaggio d'una po-sizione rigorosamente teoretica, avversa a ogni irrazio-nalismo e quindi a ogni misticizzante pancalismo. Essoc'interessa particolarmente anche perchè vi si inserisce ilmaggiore dei nostri estetisti, B. Croce, la teoria del qua-le non ha punto bisogno d'esser qui riferita perchè ormainotissima e largamente applicata dalla critica artistica efilologica italiana, ma che sarà ogni momento sottintesanella discussione del problema estetico, cui verran dedi-cati i capitoli seguenti.

In questo, invece, la dobbiamo saltare, in quanto ilCroce tratta del valore estetico per distinzione dagli al-tri, ai quali lo ricongiunge sol come grado della cono-scenza e momento del divenire dello Spirito; laddove sitratta qui di vedere se nel sensibile sia già data quell'uni-tà reale, che la dialettica del pensiero smembra poi nelleopposizioni pratiche e nelle relazioni teoretiche di sog-getto e oggetto. Infatti, come dicemmo, il problemaestetico si presenta prima di tutto come un problemametafisico che si potrebbe enunciare così: se la criticadella conoscenza ci ha dimostrato che una cosa è giàun'idea, e che nell'idea il soggetto supera l'oggetto, il va-

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lore supera le esistenze e, infine, il pensiero supera lasensazione (Kant), spetterà alla estetica filosofica dimo-strare la plausibilità dell'opposta posizione, che cioè ilvalore si attui nei sensibili, che il pensiero sia immanen-te ne' suoi contenuti e che, insomma, l'idea si manifestiin forme intuitive.

Invero, storicamente parlando, allo Hegel interessavameno che a tutti questa dimostrazione, perchè l'identitàdi razionale e reale è per lui un concetto filosofico (sin-tetico) che non ha alcun bisogno di una prova analitica,ottenuta con un ritorno alla tesi estetica, già superata eimplicita, insieme con l'antitesi religiosa, nel momentodella sintesi filosofica. L'autocoscienza gli dice che an-che una sensazione è un atto del divenire dello spirito, enon gl'importerebbe di cercarvi un valore distinto, senon per definirlo come un momento soggettivo di ciòche in un secondo momento diverrà l'oggetto e il nonio19. Tuttavia, come si sa, la soluzione hegeliana si riac-costa ai romantici e allo Schiller: nel bello intuiamol'identità assoluta d'idea e fenomeno, che filosoficamen-te non è che un'esigenza. Ma in che consiste poi questa«intuizione» dello spirito assoluto? Se fosse un atto rea-

19 Basta invece innestare l'hegelismo sul vecchio tronco delrealismo ontologico per vederne sbocciare l'esigenza della provaestetica. – Alludo, per es., al discorso sul Bello del Gioberti:l'idea produce il divenire (e così, ciò ch'è razionale è reale); per-tanto, cosmicamente, Dio produce il mondo sensibile; ma, nellanostra esperienza, il fare umano prende l'aspetto dell'arte, realiz-zando sensibilmente l'idea.

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lore supera le esistenze e, infine, il pensiero supera lasensazione (Kant), spetterà alla estetica filosofica dimo-strare la plausibilità dell'opposta posizione, che cioè ilvalore si attui nei sensibili, che il pensiero sia immanen-te ne' suoi contenuti e che, insomma, l'idea si manifestiin forme intuitive.

Invero, storicamente parlando, allo Hegel interessavameno che a tutti questa dimostrazione, perchè l'identitàdi razionale e reale è per lui un concetto filosofico (sin-tetico) che non ha alcun bisogno di una prova analitica,ottenuta con un ritorno alla tesi estetica, già superata eimplicita, insieme con l'antitesi religiosa, nel momentodella sintesi filosofica. L'autocoscienza gli dice che an-che una sensazione è un atto del divenire dello spirito, enon gl'importerebbe di cercarvi un valore distinto, senon per definirlo come un momento soggettivo di ciòche in un secondo momento diverrà l'oggetto e il nonio19. Tuttavia, come si sa, la soluzione hegeliana si riac-costa ai romantici e allo Schiller: nel bello intuiamol'identità assoluta d'idea e fenomeno, che filosoficamen-te non è che un'esigenza. Ma in che consiste poi questa«intuizione» dello spirito assoluto? Se fosse un atto rea-

19 Basta invece innestare l'hegelismo sul vecchio tronco delrealismo ontologico per vederne sbocciare l'esigenza della provaestetica. – Alludo, per es., al discorso sul Bello del Gioberti:l'idea produce il divenire (e così, ciò ch'è razionale è reale); per-tanto, cosmicamente, Dio produce il mondo sensibile; ma, nellanostra esperienza, il fare umano prende l'aspetto dell'arte, realiz-zando sensibilmente l'idea.

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le (una conoscenza), sarebbe un'idea, una «rappresenta-zione» oggettiva. Se fosse un concetto puro, sarebbe fi-losofia e non arte. Se invece è la semplice posizionesoggettiva dello spirito (sentimento), non ha più quellarealtà che andiamo cercando...

13. – Domandiamo maggiori lumi, e più moderni, alla«Filosofia dell'Arte» di Gio. Gentile (1931), che si ricol-lega al più puro Hegel, rifiutandone l'interpretazionecrociana, che al Gentile sembra troppo intellettualista epoco filosofica.

La «Filosofia dell'Arte», com'era prevedibile, è dinuovo tutta la filosofia del Gentile, ripresa dal punto divista del problema estetico, che le fa muovere un altropasso, molto interessante (per chi s'interessa di questagrande e bella cosa ch'è l'uman pensiero); ma, natural-mente, il lettore vi cercherebbe invano un'«estetica», siapur generale: per es. un criterio per giudicare delle variearti e, dei vari artisti e, infine, per distinguere e valutareuniversalmente il bello. Egli troverà qui soltanto il prin-cipio filosofico dell'arte, inteso come un momento delpensiero comune a tutto il pensiero (implicante anche lavolontà e l'azione) e per cui tutto rientra nell'arte e tuttisiamo artisti.

Infatti, dice il Gentile, l'estetica si suol contentare dichiedersi che cos'è l'arte, presumendo che ci sia, maignorando il perchè, il suo farsi nello spirito, al quale lafilosofia deve ricondurre ciò che l'esperienza empiricaprende come un esistente in sè, un «fatto». Ma il cosid-

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le (una conoscenza), sarebbe un'idea, una «rappresenta-zione» oggettiva. Se fosse un concetto puro, sarebbe fi-losofia e non arte. Se invece è la semplice posizionesoggettiva dello spirito (sentimento), non ha più quellarealtà che andiamo cercando...

13. – Domandiamo maggiori lumi, e più moderni, alla«Filosofia dell'Arte» di Gio. Gentile (1931), che si ricol-lega al più puro Hegel, rifiutandone l'interpretazionecrociana, che al Gentile sembra troppo intellettualista epoco filosofica.

La «Filosofia dell'Arte», com'era prevedibile, è dinuovo tutta la filosofia del Gentile, ripresa dal punto divista del problema estetico, che le fa muovere un altropasso, molto interessante (per chi s'interessa di questagrande e bella cosa ch'è l'uman pensiero); ma, natural-mente, il lettore vi cercherebbe invano un'«estetica», siapur generale: per es. un criterio per giudicare delle variearti e, dei vari artisti e, infine, per distinguere e valutareuniversalmente il bello. Egli troverà qui soltanto il prin-cipio filosofico dell'arte, inteso come un momento delpensiero comune a tutto il pensiero (implicante anche lavolontà e l'azione) e per cui tutto rientra nell'arte e tuttisiamo artisti.

Infatti, dice il Gentile, l'estetica si suol contentare dichiedersi che cos'è l'arte, presumendo che ci sia, maignorando il perchè, il suo farsi nello spirito, al quale lafilosofia deve ricondurre ciò che l'esperienza empiricaprende come un esistente in sè, un «fatto». Ma il cosid-

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detto fatto artistico è immanente al pensiero che vive orivive artisticamente i suoi contenuti: lo stesso pensieroche nella sua obbiettività (logica) dà loro la forma stori-ca e li giudica oggettivamente, come da svegli giudi-chiamo d'aver sognato, mentre che il sogno è sogno finche non ce n'accorgiamo.

Così l'arte è Dura arte fin che è sentimento. Intendia-moci bene. Il sentimento non va preso come uno «statopsicologico», un particolar contenuto sul quale attual-mente pensiamo, e, infine, un oggetto fra gli oggetti.No, il sentimento è il principio soggettivo, l'io, che an-che in questo istante ci fa pensare: l'anima del pensieroche si realizza attuandosi volta per volta negli oggetticonosciuti e negli atti compiuti, ma li informa di sè e asè di continuo li riconduce, richiamandoli dalla lor ne-cessità obbiettiva alla propria libertà e infinitezza.

Per il Gentile, tutto il mondo è il mondo dello spirito,del soggetto; ma questo non è qualcosa di già dato, cheesista in sè: esiste in quanto si attua, e si attua dialettica-mente, ossia pensando l'oggetto opposto a sè e infine ri-conoscendosi soggetto di quell'oggetto (autocoscienza).Perciò la posizione soggettiva, il sentimento, e quindil'arte, non si trova realmente che nel divenire oggettivo,nel pensiero, nei contenuti insomma, che sono le formeche l'arte prende a traverso la mediazione del pensiero.L'arte pura è «inattuale»; per affermarla bisogna pre-scindere dalla forma attuale (idea) e raggiunger il princi-pio immediato, l'io, Immediato per modo di dire, perchèc'è l'io in quanto si esplica e s'attua facendo, nel pensie-

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detto fatto artistico è immanente al pensiero che vive orivive artisticamente i suoi contenuti: lo stesso pensieroche nella sua obbiettività (logica) dà loro la forma stori-ca e li giudica oggettivamente, come da svegli giudi-chiamo d'aver sognato, mentre che il sogno è sogno finche non ce n'accorgiamo.

Così l'arte è Dura arte fin che è sentimento. Intendia-moci bene. Il sentimento non va preso come uno «statopsicologico», un particolar contenuto sul quale attual-mente pensiamo, e, infine, un oggetto fra gli oggetti.No, il sentimento è il principio soggettivo, l'io, che an-che in questo istante ci fa pensare: l'anima del pensieroche si realizza attuandosi volta per volta negli oggetticonosciuti e negli atti compiuti, ma li informa di sè e asè di continuo li riconduce, richiamandoli dalla lor ne-cessità obbiettiva alla propria libertà e infinitezza.

Per il Gentile, tutto il mondo è il mondo dello spirito,del soggetto; ma questo non è qualcosa di già dato, cheesista in sè: esiste in quanto si attua, e si attua dialettica-mente, ossia pensando l'oggetto opposto a sè e infine ri-conoscendosi soggetto di quell'oggetto (autocoscienza).Perciò la posizione soggettiva, il sentimento, e quindil'arte, non si trova realmente che nel divenire oggettivo,nel pensiero, nei contenuti insomma, che sono le formeche l'arte prende a traverso la mediazione del pensiero.L'arte pura è «inattuale»; per affermarla bisogna pre-scindere dalla forma attuale (idea) e raggiunger il princi-pio immediato, l'io, Immediato per modo di dire, perchèc'è l'io in quanto si esplica e s'attua facendo, nel pensie-

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ro logico e pratico. Si potrebbe dire, e il Gentile dice,che «c'è arte in quanto non c'è», in quanto cioè il senti-mento esiste nei contenuti oggettivi che ne son l'antitesi– è la tesi, l'io, infanzia dello spirito, che vive nell'antite-si, nel non io, del pensiero da lei maturantesi –; ma poi-chè il sentire annulla i contenuti come oggetti in sè (fuo-ri di noi), trasformandoli in forma artistica, è meglioconcludere che tutto è arte in quanto tutto è sentimento esoggettività.

Allora, la questione più difficile dell'estetica, il rap-porto tra forma e contenuto dell'arte, rimane agevolmen-te risolta. Lingua, suoni, colori ecc., materia della tecni-ca artistica, così come gli argomenti e gli oggetti rappre-sentati, possono sembrare degli antecedenti estraneiall'arte perchè questa li trova «di fuori», nell'astrattopensiero, e tutto il pensiero si può dire il «contenuto»dell'arte; ma questi antecedenti e contenuti precipitanonel sentimento e in concreto ne diventano i conseguenti,creazioni, forme soggettive dell'essere. Contrariamenteal Croce, la tecnica (il fare) non è estrinseca, se è mezzoper l'attuarsi reale del sentimento; però, contrariamenteanche allo storicismo individualistico del Croce, moltesono le tecniche, le opere e gli artisti, una è l'arte, senti-mento in tutto. Sentimento che non si esaurisce nel pen-siero, essendo il divenire della stessa coscienza di sè; ecosì il pensiero è processo, non risultato: realtà che ilsentimento regge, riportandola all'io da cui è partita.Onde l'arte, che si esclude dal momento oggettivo e reli-gioso del pensiero (antitetico), diviene ispiratrice del

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ro logico e pratico. Si potrebbe dire, e il Gentile dice,che «c'è arte in quanto non c'è», in quanto cioè il senti-mento esiste nei contenuti oggettivi che ne son l'antitesi– è la tesi, l'io, infanzia dello spirito, che vive nell'antite-si, nel non io, del pensiero da lei maturantesi –; ma poi-chè il sentire annulla i contenuti come oggetti in sè (fuo-ri di noi), trasformandoli in forma artistica, è meglioconcludere che tutto è arte in quanto tutto è sentimento esoggettività.

Allora, la questione più difficile dell'estetica, il rap-porto tra forma e contenuto dell'arte, rimane agevolmen-te risolta. Lingua, suoni, colori ecc., materia della tecni-ca artistica, così come gli argomenti e gli oggetti rappre-sentati, possono sembrare degli antecedenti estraneiall'arte perchè questa li trova «di fuori», nell'astrattopensiero, e tutto il pensiero si può dire il «contenuto»dell'arte; ma questi antecedenti e contenuti precipitanonel sentimento e in concreto ne diventano i conseguenti,creazioni, forme soggettive dell'essere. Contrariamenteal Croce, la tecnica (il fare) non è estrinseca, se è mezzoper l'attuarsi reale del sentimento; però, contrariamenteanche allo storicismo individualistico del Croce, moltesono le tecniche, le opere e gli artisti, una è l'arte, senti-mento in tutto. Sentimento che non si esaurisce nel pen-siero, essendo il divenire della stessa coscienza di sè; ecosì il pensiero è processo, non risultato: realtà che ilsentimento regge, riportandola all'io da cui è partita.Onde l'arte, che si esclude dal momento oggettivo e reli-gioso del pensiero (antitetico), diviene ispiratrice del

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momento filosofico (sintetico); e infatti circola in questepagine calde d'un possente afflato umano ed etico.

Il Gentile oppone dunque (in termini spesso polemici)questo umanismo e sentimentalismo – che riconducel'arte a un momento perenne dello spirito, a un sempliceprincipio attivo, alla immediatezza spontanea del geniocreatore ch'è in tutti in quanto tutti sono uomini attivi,spiriti liberi – all'estetica crociana, che distingue il belloe l'arte dalle altre attività dello spirito, come intuizionedell'immagine ed espressione in forma fantastica di unostato d'animo (lirismo), che rende l'arte autonoma rispet-to alla conoscenza logica e all'attività pratica. In realtà,stando al Gentile, l'arte va a identificarsi col pensiero lo-gico, astrazion fatta dalla sua oggettività, e col pensieromorale, astrazione fatta dalla sua praticità: come questidue valori son fra loro unificati nella filosofia dell'unicoSpirito che diviene «altro», ma non è che sè stesso e a sèstesso ritorna. Pertanto, ripeto, invano chiederemmo alGentile un criterio per distinguere il fine e il pensieroestetico dai fini e dai valori conoscitivi e pratici. Il bellonon è più un real valore che si attui per sè (pur implican-do gli altri): è un semplice principio, l'ineffabile sogget-tività d'ogni nostro atto, l'«amore».

Però, in tal caso, non se ne potrebbe nemmeno parla-re, perchè l'io di cui parliamo è già mediato nel pensie-ro. E infatti il Gentile, per parlarci del bello, è pur co-stretto a farlo esistere in qualche modo, prima del pen-siero (oggettivo) che ne sgorga e pur avendo detto che ilmodo d'esistere del soggetto è l'oggetto. L'io puro è un

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momento filosofico (sintetico); e infatti circola in questepagine calde d'un possente afflato umano ed etico.

Il Gentile oppone dunque (in termini spesso polemici)questo umanismo e sentimentalismo – che riconducel'arte a un momento perenne dello spirito, a un sempliceprincipio attivo, alla immediatezza spontanea del geniocreatore ch'è in tutti in quanto tutti sono uomini attivi,spiriti liberi – all'estetica crociana, che distingue il belloe l'arte dalle altre attività dello spirito, come intuizionedell'immagine ed espressione in forma fantastica di unostato d'animo (lirismo), che rende l'arte autonoma rispet-to alla conoscenza logica e all'attività pratica. In realtà,stando al Gentile, l'arte va a identificarsi col pensiero lo-gico, astrazion fatta dalla sua oggettività, e col pensieromorale, astrazione fatta dalla sua praticità: come questidue valori son fra loro unificati nella filosofia dell'unicoSpirito che diviene «altro», ma non è che sè stesso e a sèstesso ritorna. Pertanto, ripeto, invano chiederemmo alGentile un criterio per distinguere il fine e il pensieroestetico dai fini e dai valori conoscitivi e pratici. Il bellonon è più un real valore che si attui per sè (pur implican-do gli altri): è un semplice principio, l'ineffabile sogget-tività d'ogni nostro atto, l'«amore».

Però, in tal caso, non se ne potrebbe nemmeno parla-re, perchè l'io di cui parliamo è già mediato nel pensie-ro. E infatti il Gentile, per parlarci del bello, è pur co-stretto a farlo esistere in qualche modo, prima del pen-siero (oggettivo) che ne sgorga e pur avendo detto che ilmodo d'esistere del soggetto è l'oggetto. L'io puro è un

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dato a priori; ma siccome questo dato si presenta comesentimento, la sua concreta immediatezza non può esserche... il corpo, la «natura»! Sì, il corpo come natura, incui l'anima s'incarna, è il sentimento, vis interna natu-rae: e «lo spirito è spirito della natura, per chi benl'intenda».

Ben intendere questo naturalismo, in cui, forse conmeraviglia di chi non aveva penetrato l'attualismo hege-liano, esso ora viene a metter capo, significa, secondo ilGentile, distinguere fra la natura del naturalista e dellascienza, ch'è natura morta, analizzata obbiettivamentecome se fosse esterna a noi, necessaria e assoluta nellasua molteplicità e limitazione, e perciò «irreale»; e lanatura (e quindi il corpo, e poi l'universo intiero)dell'idealista, che invece «è la più salda realtà che ci sia,opposta al pensiero ma nel pensiero, soggetto che il pen-siero trova in sè come essere di cui è il divenire... vitadel sentimento... essa stessa bellezza».

14. – In verità, nessuno ha mai negato, dopo Kant,che la natura sia un concetto, e che sia il pensiero quelloche gli attribuisce valore reale, affermandolo vero relati-vamente ai sensibili, ossia nei limiti dell'esperienza,dove il corpo non è che il modo di «sentire» lo spirito edi rappresentarselo oggettivamente. La sola differenza è,che qui chiamiamo «natura» il sensibile stesso, la condi-zione (ossia il contenuto) dei concetti scientifici di natu-ra: «dal sensibile ch'è dentro di noi traggono origine evita tutte le cose». Allorchè consideriamo il sensibile,

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dato a priori; ma siccome questo dato si presenta comesentimento, la sua concreta immediatezza non può esserche... il corpo, la «natura»! Sì, il corpo come natura, incui l'anima s'incarna, è il sentimento, vis interna natu-rae: e «lo spirito è spirito della natura, per chi benl'intenda».

Ben intendere questo naturalismo, in cui, forse conmeraviglia di chi non aveva penetrato l'attualismo hege-liano, esso ora viene a metter capo, significa, secondo ilGentile, distinguere fra la natura del naturalista e dellascienza, ch'è natura morta, analizzata obbiettivamentecome se fosse esterna a noi, necessaria e assoluta nellasua molteplicità e limitazione, e perciò «irreale»; e lanatura (e quindi il corpo, e poi l'universo intiero)dell'idealista, che invece «è la più salda realtà che ci sia,opposta al pensiero ma nel pensiero, soggetto che il pen-siero trova in sè come essere di cui è il divenire... vitadel sentimento... essa stessa bellezza».

14. – In verità, nessuno ha mai negato, dopo Kant,che la natura sia un concetto, e che sia il pensiero quelloche gli attribuisce valore reale, affermandolo vero relati-vamente ai sensibili, ossia nei limiti dell'esperienza,dove il corpo non è che il modo di «sentire» lo spirito edi rappresentarselo oggettivamente. La sola differenza è,che qui chiamiamo «natura» il sensibile stesso, la condi-zione (ossia il contenuto) dei concetti scientifici di natu-ra: «dal sensibile ch'è dentro di noi traggono origine evita tutte le cose». Allorchè consideriamo il sensibile,

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non come astratto contenuto dei concetti di corpo e dinatura, reali sol relativamente, ma come forma e princi-pio esistenziale del pensiero stesso, originarietà del sen-tire fondamentale, intuita come «corporeità dell'io», lasensazione, da «materia» esterna ai nostri concetti divie-ne forza interna, spirito e principio del valore. Questovalore, individuale e universale a un tempo, sarà reale inquanto diviene pensiero (di quei sensibili), ma è sogget-to puro in quanto è sentimento, soggettività della sensa-zione; sotto quest'aspetto, «il corpo è corpo in quanto sisente, non si sente perchè è già corpo».

Adunque il reale non è l'immediato dell'intuizioneestetica (come vuole l'intuizionismo francese); l'imme-diato, soggettivamente estetico come sentimento, si rea-lizza teoreticamente nelle idee che come tali neganol'estetico, il sentimento, e si attua praticamente come unfare (che dunque s'ispira al sentire e di nuovo implical'arte). Qui è l'incontro di tutti i valori: l'esserci, l'esiste-re del'io è il sentire, che cerca il suo piacere (la sua fina-lità in universale) nel divenire. Questo piacere, principiovivente, amore che tutto fa, è il carattere trascendentaledel pensiero, la condizione a priori di tutti i valori, ossialo Spirito; ma lo Spirito è quello che si fa: il logo astrat-to (oggettivo) n'è un momento, il logo concreto (reale insè) è sapere in quanto è fare (unità d'intelletto e volere);e il soggetto, facendosi pensiero concreto, diventa azio-ne, praticità e, perchè trascendentale, eticità.

Mai l'hegelismo, a mio avviso, ha raggiunto una piùcompatta profondità metafisica. Ma siccome l'arte, così

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non come astratto contenuto dei concetti di corpo e dinatura, reali sol relativamente, ma come forma e princi-pio esistenziale del pensiero stesso, originarietà del sen-tire fondamentale, intuita come «corporeità dell'io», lasensazione, da «materia» esterna ai nostri concetti divie-ne forza interna, spirito e principio del valore. Questovalore, individuale e universale a un tempo, sarà reale inquanto diviene pensiero (di quei sensibili), ma è sogget-to puro in quanto è sentimento, soggettività della sensa-zione; sotto quest'aspetto, «il corpo è corpo in quanto sisente, non si sente perchè è già corpo».

Adunque il reale non è l'immediato dell'intuizioneestetica (come vuole l'intuizionismo francese); l'imme-diato, soggettivamente estetico come sentimento, si rea-lizza teoreticamente nelle idee che come tali neganol'estetico, il sentimento, e si attua praticamente come unfare (che dunque s'ispira al sentire e di nuovo implical'arte). Qui è l'incontro di tutti i valori: l'esserci, l'esiste-re del'io è il sentire, che cerca il suo piacere (la sua fina-lità in universale) nel divenire. Questo piacere, principiovivente, amore che tutto fa, è il carattere trascendentaledel pensiero, la condizione a priori di tutti i valori, ossialo Spirito; ma lo Spirito è quello che si fa: il logo astrat-to (oggettivo) n'è un momento, il logo concreto (reale insè) è sapere in quanto è fare (unità d'intelletto e volere);e il soggetto, facendosi pensiero concreto, diventa azio-ne, praticità e, perchè trascendentale, eticità.

Mai l'hegelismo, a mio avviso, ha raggiunto una piùcompatta profondità metafisica. Ma siccome l'arte, così

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intesa, manca dell'elemento dell'oggettività essenziale alfare e all'azione, come essa arte manca al momento og-gettivo, il metodo dialettico ci giuoca il solito scherzo,d'intendere un valore come tutto e come niente, vanifi-cando il valore stesso in quanto tale nella sua negazionee nella negazione della negazione. Infatti l'arte, o non ènulla (di artistico) perchè non fa nulla (di artistico) nè sipone oggettivamente se non alienandosi per divenirerealtà ed utile; o è troppo, perchè è soggettività, senti-mento comune ad ogni attività teoretica e pratica, percui tutto è espressione di sentimenti.

L'unico punto in cui, nell'estetica del Gentile, il senti-mento può dirsi estetico e quindi provare esteticamentel'identità essenziale di soggetto e oggetto – cioè, senzache l'oggetto trascenda il soggetto negandolo (comenell'idea teoretica), nè il soggetto a sua volta trascenda ildato oggettivo facendo (come nell'azione etica) –; l'uni-co punto, voglio dire, in cui l'estetico, come soggettività,apparisce immanente ed è prova reale dell'immanenzadei valori ch'esso implica e riflette, è l'identificazionesopra ricordata di sentimento e sensibile, di anima e cor-po, o natura sensibile del soggetto. Ma di qui si giunge aun'estetica del tutto romantica: quella cioè che ha domi-nato tutto il nostro secolo, e che fa consistere il bellonell'arte e l'arte nell'espressione della vita stessa, comespontaneità del sentimento, che diviene «sincerità»dell'arte «creatrice».

Naturalismo romantico da una parte, e idealismodall'altra vengono a fondersi nell'unico romanticismo

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intesa, manca dell'elemento dell'oggettività essenziale alfare e all'azione, come essa arte manca al momento og-gettivo, il metodo dialettico ci giuoca il solito scherzo,d'intendere un valore come tutto e come niente, vanifi-cando il valore stesso in quanto tale nella sua negazionee nella negazione della negazione. Infatti l'arte, o non ènulla (di artistico) perchè non fa nulla (di artistico) nè sipone oggettivamente se non alienandosi per divenirerealtà ed utile; o è troppo, perchè è soggettività, senti-mento comune ad ogni attività teoretica e pratica, percui tutto è espressione di sentimenti.

L'unico punto in cui, nell'estetica del Gentile, il senti-mento può dirsi estetico e quindi provare esteticamentel'identità essenziale di soggetto e oggetto – cioè, senzache l'oggetto trascenda il soggetto negandolo (comenell'idea teoretica), nè il soggetto a sua volta trascenda ildato oggettivo facendo (come nell'azione etica) –; l'uni-co punto, voglio dire, in cui l'estetico, come soggettività,apparisce immanente ed è prova reale dell'immanenzadei valori ch'esso implica e riflette, è l'identificazionesopra ricordata di sentimento e sensibile, di anima e cor-po, o natura sensibile del soggetto. Ma di qui si giunge aun'estetica del tutto romantica: quella cioè che ha domi-nato tutto il nostro secolo, e che fa consistere il bellonell'arte e l'arte nell'espressione della vita stessa, comespontaneità del sentimento, che diviene «sincerità»dell'arte «creatrice».

Naturalismo romantico da una parte, e idealismodall'altra vengono a fondersi nell'unico romanticismo

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estetico, per il quale, ripeto, l'arte è vita vissuta, espres-sione di sentimenti reali nella forma più spontanea, iquali illuminano di sè i mezzi oggettivi di cui ella si ser-ve, liricizzandoli nella fantasia, esprimendosi e comuni-candosi per simpatia umana. Dante fu il primo a inten-der così la poesia nuova, sciogliendo il « nodo» di Bo-naggiunta da Lucca («I' mi son un che quando...»): el'ultimo fu il Pascoli, che raffigurava l'anima del poetanell'ingenua espressività del «fanciullino». Ma anchetutta l'estetica contemporanea s'aggira nel circolo delpensiero romantico: l'arte è soggettività pura, visionesoggettiva e animazione del mondo, espressione in fan-tasmi dei sentimenti che non si realizzano in oggetti verie negli scopi pratici dei nostri interessi; e pertanto è li-berazione dai fini pratici e gioia disinteressata.

Da noi, il genio del Vico precorse il romanticismogermanico, e l'intelligenza di Francesco De Sanctisl'applicò poi alla critica letteraria: perciò il Croce e ilGentile non ebber che a interpretare idealisticamente ilnaturalismo di quei due, per riconoscersi loro prosecuto-ri. E difatti, affermare col Croce che il bello è il piaceredatoci da un'immagine ispirata dal sentimento, o dire colGentile, che dunque il principio del bello sta nella sog-gettività di quell'immagine, nella vita stessa che circolacome puro sentimento informando di sè i suoi oggetti emezzi, è sempre un atteggiamento romantico, ora dalpunto di vista conoscitivo, del fissare nel fantasma,creato dall'intuito artistico, l'espressione del sentimento;ora da quello subiettivo del rifarsi alla natura morale

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estetico, per il quale, ripeto, l'arte è vita vissuta, espres-sione di sentimenti reali nella forma più spontanea, iquali illuminano di sè i mezzi oggettivi di cui ella si ser-ve, liricizzandoli nella fantasia, esprimendosi e comuni-candosi per simpatia umana. Dante fu il primo a inten-der così la poesia nuova, sciogliendo il « nodo» di Bo-naggiunta da Lucca («I' mi son un che quando...»): el'ultimo fu il Pascoli, che raffigurava l'anima del poetanell'ingenua espressività del «fanciullino». Ma anchetutta l'estetica contemporanea s'aggira nel circolo delpensiero romantico: l'arte è soggettività pura, visionesoggettiva e animazione del mondo, espressione in fan-tasmi dei sentimenti che non si realizzano in oggetti verie negli scopi pratici dei nostri interessi; e pertanto è li-berazione dai fini pratici e gioia disinteressata.

Da noi, il genio del Vico precorse il romanticismogermanico, e l'intelligenza di Francesco De Sanctisl'applicò poi alla critica letteraria: perciò il Croce e ilGentile non ebber che a interpretare idealisticamente ilnaturalismo di quei due, per riconoscersi loro prosecuto-ri. E difatti, affermare col Croce che il bello è il piaceredatoci da un'immagine ispirata dal sentimento, o dire colGentile, che dunque il principio del bello sta nella sog-gettività di quell'immagine, nella vita stessa che circolacome puro sentimento informando di sè i suoi oggetti emezzi, è sempre un atteggiamento romantico, ora dalpunto di vista conoscitivo, del fissare nel fantasma,creato dall'intuito artistico, l'espressione del sentimento;ora da quello subiettivo del rifarsi alla natura morale

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dell'attività estetica. Il divario fra i due filosofi idealistiè assai minore di quanto il Gentile mostra di credere20.

Essi sono poi d'accordo nel pensare (il Croce nellaparte storica della sua «Estetica», il Gentile nella con-clusione di questa «Filos. dell'Arte»), che il Kant siapassato accanto all'arte senz'accorgersene. Ma,

20 Mi sembra doveroso accennare, almeno in nota, all'unicoautore italiano che si propone un'estetica antiromantica, tanto piùche le sue critiche al romanticismo spesso coincidono con le mie.Adriano Tilgher, nella sua «Estetica», quasi contemporanea alla«Filosofia dell'Arte» del Gentile, come già da tempo, gli acutipsicologi francesi che si occupano dell'arte, porta dei formidabiliargomenti di fatto contro le tesi romantiche. L'arte non è vita; nèha bisogno di nascere dalla vita vissuta, nè questa, finchè è vitavissuta, genera l'arte. Non solo l'analisi psicologica, ma la testi-monianza di artisti e letterati, dal Flaubert al Valéry, è lì a dimo-strare quanto fosse giusto il paradosso di Diderot, che l'artista nonha punto bisogno di provare i sentimenti che rappresenta, e cheanzi la realtà di questi nuocerebbe all'opera d'arte. La forma, arti-stica non è spontanea e immediata espressione d'un sentimento,ma è ricerca spesso lenta e faticosa in cui è impegnato tutto ilpensiero. «Si pensa con la penna in mano», diceva Fichte; maquesto vale anche per il letterato, come per ogni arte se alla pennasostituiamo il pennello o lo scalpello.

La vita vissuta è sentimento rivolto ai fini pratici, che perciòcerca il piacere in qualcosa che ancora non è, in qualcosa che lotrascende (giustissimo!). L'esperienza estetica è invece sufficientea sè stessa, si appaga in quello che è, anche se ha per contenuto ildolore. Anzi, aggiunge il Tilgher, tutta la vita può passarenell'arte, divenendo contenuto artistico, proprio a condizione chel'arte non sia vita. E, aveva detto prima, tutto può divenir arte,perfino l'utilità d'un oggetto (nelle cosiddette arti applicate), se di-

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dell'attività estetica. Il divario fra i due filosofi idealistiè assai minore di quanto il Gentile mostra di credere20.

Essi sono poi d'accordo nel pensare (il Croce nellaparte storica della sua «Estetica», il Gentile nella con-clusione di questa «Filos. dell'Arte»), che il Kant siapassato accanto all'arte senz'accorgersene. Ma,

20 Mi sembra doveroso accennare, almeno in nota, all'unicoautore italiano che si propone un'estetica antiromantica, tanto piùche le sue critiche al romanticismo spesso coincidono con le mie.Adriano Tilgher, nella sua «Estetica», quasi contemporanea alla«Filosofia dell'Arte» del Gentile, come già da tempo, gli acutipsicologi francesi che si occupano dell'arte, porta dei formidabiliargomenti di fatto contro le tesi romantiche. L'arte non è vita; nèha bisogno di nascere dalla vita vissuta, nè questa, finchè è vitavissuta, genera l'arte. Non solo l'analisi psicologica, ma la testi-monianza di artisti e letterati, dal Flaubert al Valéry, è lì a dimo-strare quanto fosse giusto il paradosso di Diderot, che l'artista nonha punto bisogno di provare i sentimenti che rappresenta, e cheanzi la realtà di questi nuocerebbe all'opera d'arte. La forma, arti-stica non è spontanea e immediata espressione d'un sentimento,ma è ricerca spesso lenta e faticosa in cui è impegnato tutto ilpensiero. «Si pensa con la penna in mano», diceva Fichte; maquesto vale anche per il letterato, come per ogni arte se alla pennasostituiamo il pennello o lo scalpello.

La vita vissuta è sentimento rivolto ai fini pratici, che perciòcerca il piacere in qualcosa che ancora non è, in qualcosa che lotrascende (giustissimo!). L'esperienza estetica è invece sufficientea sè stessa, si appaga in quello che è, anche se ha per contenuto ildolore. Anzi, aggiunge il Tilgher, tutta la vita può passarenell'arte, divenendo contenuto artistico, proprio a condizione chel'arte non sia vita. E, aveva detto prima, tutto può divenir arte,perfino l'utilità d'un oggetto (nelle cosiddette arti applicate), se di-

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nell'«Estetica trascendentale», il Kant non se ne dovevaaccorgere, perchè la conoscenza è trascendentale pro-prio in quanto supera i contenuti sensibili, che rimangonsolo a rappresentare, per accordo o per antinomia, ilconcetto o l'idea. È nella «Critica del Giudizio», ossia alsuo giusto posto, che la definizione del valore estetico è

viene motivo ispiratore. Un'interna autocritica guida sempre lamano dell'artista in quest'opera di costruzione e di pensiero, ai li-miti estremi della quale troviamo, da una parte l'arte «spontanea»fanciullesca e popolare, ancor inconscia; dall'altra, «l'arte perl'arte», l'estetismo decadente nell'artificio tecnico. In una parola,dice giustamente il Tilgher, l'arte non è solo romanticismo e spon-taneità, è anche, e anch'oggi tende a ritornare, classicismo e co-struzione. Questi ed altri incisivi rilievi conducono il Tilgher asciogliere il «nodo» dantesco del rapporto fra arte e vita, ossia fraarte e sentimento, in quest'altra formula: l'arte è «amore dellavita». Quando una vibrazione di vita fa di sè l'oggetto del suoamore, diviene arte. Non è necessario che un artista provi un datosentimento, che Shakespeare soffra l'avidità di Schylock o il dub-bio d'Amleto; un dolore piace esteticamente quando non ne parte-cipiamo il fine esterno e lo penetriamo in sè, semplicemente, va-gheggiandolo, per così dire, come quel dolore. Il canto di Saffonon esprime l'amore di Saffo (come intenderebbe il romantici-smo): «è» questo amore amato come sentimento (e morto comevita pratica).

Però, la soluzione del Tilgher, per quanto abbiamo cercato direnderla evidente con gli esempi, o rimane nel vago di un «amorvitae» mille volte affermato e non mai ben definito. o non s'allon-tana da quel soggettivismo dell'estetica romantica ch'egli volevasuperare. Se l'«amor vitae» è amore nel senso di desiderio che sipone un fine, che va ad un oggetto, l'arte sarà quella vita, quelsentimento, quel desiderio che desidera esser quello che è, ossia

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nell'«Estetica trascendentale», il Kant non se ne dovevaaccorgere, perchè la conoscenza è trascendentale pro-prio in quanto supera i contenuti sensibili, che rimangonsolo a rappresentare, per accordo o per antinomia, ilconcetto o l'idea. È nella «Critica del Giudizio», ossia alsuo giusto posto, che la definizione del valore estetico è

viene motivo ispiratore. Un'interna autocritica guida sempre lamano dell'artista in quest'opera di costruzione e di pensiero, ai li-miti estremi della quale troviamo, da una parte l'arte «spontanea»fanciullesca e popolare, ancor inconscia; dall'altra, «l'arte perl'arte», l'estetismo decadente nell'artificio tecnico. In una parola,dice giustamente il Tilgher, l'arte non è solo romanticismo e spon-taneità, è anche, e anch'oggi tende a ritornare, classicismo e co-struzione. Questi ed altri incisivi rilievi conducono il Tilgher asciogliere il «nodo» dantesco del rapporto fra arte e vita, ossia fraarte e sentimento, in quest'altra formula: l'arte è «amore dellavita». Quando una vibrazione di vita fa di sè l'oggetto del suoamore, diviene arte. Non è necessario che un artista provi un datosentimento, che Shakespeare soffra l'avidità di Schylock o il dub-bio d'Amleto; un dolore piace esteticamente quando non ne parte-cipiamo il fine esterno e lo penetriamo in sè, semplicemente, va-gheggiandolo, per così dire, come quel dolore. Il canto di Saffonon esprime l'amore di Saffo (come intenderebbe il romantici-smo): «è» questo amore amato come sentimento (e morto comevita pratica).

Però, la soluzione del Tilgher, per quanto abbiamo cercato direnderla evidente con gli esempi, o rimane nel vago di un «amorvitae» mille volte affermato e non mai ben definito. o non s'allon-tana da quel soggettivismo dell'estetica romantica ch'egli volevasuperare. Se l'«amor vitae» è amore nel senso di desiderio che sipone un fine, che va ad un oggetto, l'arte sarà quella vita, quelsentimento, quel desiderio che desidera esser quello che è, ossia

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data dal Kant in forma così limpida e persuasiva, che adessa giova rifarsi, non soltanto per impostar bene il pro-blema dell'arte, annebbiato dal soggettivismo romantico,ma per ben comprendere, nell'interesse stessodell'immanentismo idealista, come sia possibile l'esiste-re del sovrasensibile nel sensibile.

vita: ma in che cosa questa vita dell'arte è arte e non è solo vita esentimento? Se poi amare significa, come altre volte sembra, og-gettivare un sentimento, una «vibrazione di vita», o magari, giu-stamente, tutta la vita nostra ed altrui, reale o immaginaria, noi eil mondo, allora si tratta appunto di quella «contemplazione» se-rena in cui tanta parte del romanticismo fa consister l'estetico,perciò appunto destinato a liberarci dalla vita pratica. Nel primocaso l'«amor vitae» del Tilgher non è che lo stesso «amore», lostesso soggetto puro di cui parla il Gentile: nel secondo caso sia-mo più vicini a Schopenhauer, ma non ci allontaniamo dal roman-ticismo.

E tant'è vero che il Tilgher non s'allontana dalla corrente dipensiero a cui intendeva opporsi, che egli asserisce l'identità per-fetta della personalità morale dell'artista col valore della sua arte;su questa corrispondenza crede anzi di poter stabilire la gerarchiadelle opere d'arte: il grande artista coincide con l'uomo grande,che ha molta esperienza di vita, e la bellezza non è che moralità.Se il Tilgher, come il Gentile, riguarda l'amore come principio,indipendente dai fini pratici, ciò non toglie che questo sia l'unicoprincipio tanto della vita morale quanto di quella artistica. E an-che per il Tilgher l'espressione, in quanto espressione estetica, èspontaneità e immediatezza, pur se tutto lo spirito sia impegnato araggiunger tale sincerità, ad aiutarla a penetrare la vera vita delsentimento.

Del resto, nessuno aveva mai detto che uno che gema d'unqualche dolore faccia dell'arte: anche la spontaneità romantica, è

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data dal Kant in forma così limpida e persuasiva, che adessa giova rifarsi, non soltanto per impostar bene il pro-blema dell'arte, annebbiato dal soggettivismo romantico,ma per ben comprendere, nell'interesse stessodell'immanentismo idealista, come sia possibile l'esiste-re del sovrasensibile nel sensibile.

vita: ma in che cosa questa vita dell'arte è arte e non è solo vita esentimento? Se poi amare significa, come altre volte sembra, og-gettivare un sentimento, una «vibrazione di vita», o magari, giu-stamente, tutta la vita nostra ed altrui, reale o immaginaria, noi eil mondo, allora si tratta appunto di quella «contemplazione» se-rena in cui tanta parte del romanticismo fa consister l'estetico,perciò appunto destinato a liberarci dalla vita pratica. Nel primocaso l'«amor vitae» del Tilgher non è che lo stesso «amore», lostesso soggetto puro di cui parla il Gentile: nel secondo caso sia-mo più vicini a Schopenhauer, ma non ci allontaniamo dal roman-ticismo.

E tant'è vero che il Tilgher non s'allontana dalla corrente dipensiero a cui intendeva opporsi, che egli asserisce l'identità per-fetta della personalità morale dell'artista col valore della sua arte;su questa corrispondenza crede anzi di poter stabilire la gerarchiadelle opere d'arte: il grande artista coincide con l'uomo grande,che ha molta esperienza di vita, e la bellezza non è che moralità.Se il Tilgher, come il Gentile, riguarda l'amore come principio,indipendente dai fini pratici, ciò non toglie che questo sia l'unicoprincipio tanto della vita morale quanto di quella artistica. E an-che per il Tilgher l'espressione, in quanto espressione estetica, èspontaneità e immediatezza, pur se tutto lo spirito sia impegnato araggiunger tale sincerità, ad aiutarla a penetrare la vera vita delsentimento.

Del resto, nessuno aveva mai detto che uno che gema d'unqualche dolore faccia dell'arte: anche la spontaneità romantica, è

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Per il Kant, ricordiamolo ancor una volta, il belloconsiste nel valore della forma sensibile in quanto tale,mentre che gli altri valori si realizzano, sì, sopra, i sensi-bili, ma li trascendono nei concetti oggettivi dell'esseree nelle idee soggettive del dover essere. Per cui l'arte,qualunque siano la sua ispirazione e i suoi contenuti,

sempre la spontaneità dell'arte, non quella della vita. Anche per iromantici, l'artista possiede il suo dolore, non n'è posseduto. Ilproblema da risolvere non stava dunque nella psicologia dell'arti-sta di fronte all'uomo comune, ma proprio nel criterio artistico,per cui un'opera, d'arte, per quanto prodotto della vita, non siavita ma arte. Questo problema, a mio avviso, non si risolve con lapsicologia, ma, come tutti i problemi del valore, con una criticafatta stando dentro il valore, senza perderlo per correr dietro a'suoi contenuti. Fin che indagheremo quali sian i contenutidell'arte – l'ispirazione o contenuto soggettivo (sentimento, liri-smo romantico), e il «motivo» oppure il «tema», contenuti ogget-tivi del classicismo – invece di fermare l'attenzione sulla formasensibile ch'è l'essenza dell'arte in quanto arte, resteremo semprealla soglia dell'estetica.

Non è il rapporto fra vita e arte che importi all'estetica: è ilrapporto tra forma e contenuto. Tra i contenuti ci può essere onon essere la vita, proprio perchè tutto può ispirare e fornire rap-presentazioni all'artista, lo spirito come la natura, il reale logicocome l'ideale morale; e l'arte tutto simboleggia e potenzia magi-camente. Ma in che sta questa «magia» se non nella forma sensi-bile? Di un poeta, poco m'importa la poeticità o eticità, m'importala poesia. Il problema estetico riguarda dunque la tecnica: qui è lavera opposizione al romanticismo ancor in auge, che nell'arteignora ciò ch'è proprio quell'arte: il modo di sensibilizzare l'ideanella realtà sensibile. Può darsi benissimo che il soggetto artisticosia l'«amor vitae» del Tilgher: questo amor di vita non diverrà

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Per il Kant, ricordiamolo ancor una volta, il belloconsiste nel valore della forma sensibile in quanto tale,mentre che gli altri valori si realizzano, sì, sopra, i sensi-bili, ma li trascendono nei concetti oggettivi dell'esseree nelle idee soggettive del dover essere. Per cui l'arte,qualunque siano la sua ispirazione e i suoi contenuti,

sempre la spontaneità dell'arte, non quella della vita. Anche per iromantici, l'artista possiede il suo dolore, non n'è posseduto. Ilproblema da risolvere non stava dunque nella psicologia dell'arti-sta di fronte all'uomo comune, ma proprio nel criterio artistico,per cui un'opera, d'arte, per quanto prodotto della vita, non siavita ma arte. Questo problema, a mio avviso, non si risolve con lapsicologia, ma, come tutti i problemi del valore, con una criticafatta stando dentro il valore, senza perderlo per correr dietro a'suoi contenuti. Fin che indagheremo quali sian i contenutidell'arte – l'ispirazione o contenuto soggettivo (sentimento, liri-smo romantico), e il «motivo» oppure il «tema», contenuti ogget-tivi del classicismo – invece di fermare l'attenzione sulla formasensibile ch'è l'essenza dell'arte in quanto arte, resteremo semprealla soglia dell'estetica.

Non è il rapporto fra vita e arte che importi all'estetica: è ilrapporto tra forma e contenuto. Tra i contenuti ci può essere onon essere la vita, proprio perchè tutto può ispirare e fornire rap-presentazioni all'artista, lo spirito come la natura, il reale logicocome l'ideale morale; e l'arte tutto simboleggia e potenzia magi-camente. Ma in che sta questa «magia» se non nella forma sensi-bile? Di un poeta, poco m'importa la poeticità o eticità, m'importala poesia. Il problema estetico riguarda dunque la tecnica: qui è lavera opposizione al romanticismo ancor in auge, che nell'arteignora ciò ch'è proprio quell'arte: il modo di sensibilizzare l'ideanella realtà sensibile. Può darsi benissimo che il soggetto artisticosia l'«amor vitae» del Tilgher: questo amor di vita non diverrà

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sarà ricerca della forma sensibile che tale rimanga,come «linea» o «stile»; e il sentimento estetico sarà quelsentimento dato proprio nel rapporto degli elementi sen-sibili, che come sensazioni e stimoli sono enti astratti,ma concreti si presentano (prima di «rappresentare»qualcos'altro) nella sintesi estetica, nella unità caratteri-stica dello stile. E pertanto l'arte è arte e non «natura»,anche se vuol imitare la natura o «fare come la natura».

Lo sdegno dell'idealismo per il mondo sensibile, perla «vile materia», gli ha impedito di scorgere come que-sta materia s'illumini senza bisogno, di trascenderla nelsoggetto puro, e quindi come il soggetto, lo spirito si at-tui, anzi già si presenti in atto, prima di rappresentareun'idea. L'argomento merita dunque d'esser ancora trat-tato anche ai fini della filosofia dell'essere; ma la suaconclusione metafisica deve passare per un difficilecammino: quello in cui si dimostri errato il soggettivi-smo estetico, vale a dire il fondamento di quasi tuttal'estetica contemporanea. Per me, infatti, il bello esiste;e, piuttosto che un valore del sensibile, è proprio esso ilvalore sensibile...

mai arte se non giunga l'istante in cui si traduca, per artificio tec-nico, in realtà sensibile, fatta di suoni luci colori parole ecc., e inquesto, solamente in questo, apprezzabile come bella o brutta.Proprio perchè l'arte si attua sensibilmente, l'arte supera la naturae l'opera d'arte supera l'artista!

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sarà ricerca della forma sensibile che tale rimanga,come «linea» o «stile»; e il sentimento estetico sarà quelsentimento dato proprio nel rapporto degli elementi sen-sibili, che come sensazioni e stimoli sono enti astratti,ma concreti si presentano (prima di «rappresentare»qualcos'altro) nella sintesi estetica, nella unità caratteri-stica dello stile. E pertanto l'arte è arte e non «natura»,anche se vuol imitare la natura o «fare come la natura».

Lo sdegno dell'idealismo per il mondo sensibile, perla «vile materia», gli ha impedito di scorgere come que-sta materia s'illumini senza bisogno, di trascenderla nelsoggetto puro, e quindi come il soggetto, lo spirito si at-tui, anzi già si presenti in atto, prima di rappresentareun'idea. L'argomento merita dunque d'esser ancora trat-tato anche ai fini della filosofia dell'essere; ma la suaconclusione metafisica deve passare per un difficilecammino: quello in cui si dimostri errato il soggettivi-smo estetico, vale a dire il fondamento di quasi tuttal'estetica contemporanea. Per me, infatti, il bello esiste;e, piuttosto che un valore del sensibile, è proprio esso ilvalore sensibile...

mai arte se non giunga l'istante in cui si traduca, per artificio tec-nico, in realtà sensibile, fatta di suoni luci colori parole ecc., e inquesto, solamente in questo, apprezzabile come bella o brutta.Proprio perchè l'arte si attua sensibilmente, l'arte supera la naturae l'opera d'arte supera l'artista!

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VI.IL BELLO

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1. – Oggi c'è un bel sole; sole di marzo, dopo la piog-gia, con l'aria limpida e fresca. Gli alberi sono ancoraspogli, ma c'è una vibrazione di vita anche nelle cosemorte. Qui davanti, una gran piazza; oltre la piazza, infondo, case su case, rosse e gialline, arrampicate per ilcolle; da quest'altra parte, il viale che conduce a quellastriscia di mare blù cupo, sotto il cielo chiarissimo. Odoun ronzar di veicoli, e gli appelli rauchi delle automobi-li, or vicini ora lontani. Mi sento vivere; sento tutti imiei movimenti, tutte le mie facoltà sveglie.

Questo è il mio piccolo mondo, limitato e contingen-te. Ma ancor più limitato, ancora più contingente è ciòche di esso esiste intuitivamente, ciò ch'è attualmentepresente, la semplice contiguità de' molteplici (quel ros-so, quel blù, questo suono...), la semplice continuità deidiversi (quel bruno che muta di posto passando davantia quel rosso...), sintesi tutta a posteriori dei sensibili nel-la sensazione data. Ad essa io però non m'arresto unsolo istante; interpreto il dato e lo supero; analizzo egiudico teoreticamente, scelgo e valuto praticamente:quella striscia blù è il mare, voglio andare al mare.Quando di proposito mi fermo al dato e mi ripiego aconsiderare la sintesi sensibile in sè stessa, si discioglie

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1. – Oggi c'è un bel sole; sole di marzo, dopo la piog-gia, con l'aria limpida e fresca. Gli alberi sono ancoraspogli, ma c'è una vibrazione di vita anche nelle cosemorte. Qui davanti, una gran piazza; oltre la piazza, infondo, case su case, rosse e gialline, arrampicate per ilcolle; da quest'altra parte, il viale che conduce a quellastriscia di mare blù cupo, sotto il cielo chiarissimo. Odoun ronzar di veicoli, e gli appelli rauchi delle automobi-li, or vicini ora lontani. Mi sento vivere; sento tutti imiei movimenti, tutte le mie facoltà sveglie.

Questo è il mio piccolo mondo, limitato e contingen-te. Ma ancor più limitato, ancora più contingente è ciòche di esso esiste intuitivamente, ciò ch'è attualmentepresente, la semplice contiguità de' molteplici (quel ros-so, quel blù, questo suono...), la semplice continuità deidiversi (quel bruno che muta di posto passando davantia quel rosso...), sintesi tutta a posteriori dei sensibili nel-la sensazione data. Ad essa io però non m'arresto unsolo istante; interpreto il dato e lo supero; analizzo egiudico teoreticamente, scelgo e valuto praticamente:quella striscia blù è il mare, voglio andare al mare.Quando di proposito mi fermo al dato e mi ripiego aconsiderare la sintesi sensibile in sè stessa, si discioglie

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in un pulviscolo d'impressioni effimere alle quali, loveggo bene, la sola conoscenza può dare un costrutto,una realtà, un valore, che immediatamente le trascende:già percepivo quel cubo rosso come una casa (una cosa),questo movimento come un fatto (un effetto). E sem'intestardisco a fissare qualcuna di quelle impressioniper definirla, ossia per conoscerla in sè, mi trovo in pos-sesso di un'idea astrattissima e generalissima, come«rosso» e «moto».

I sensibili altro valore non avrebber dunque oltrequello ch'essi posson rappresentare, obbiettivamentecome fenomeni di sostanze e cause che noi dobbiamoporre al di là della sensazione, subiettivamente come sti-moli pratici che valgono per dei fini, che parimenti met-tiamo fuori di essi. Però, intanto, è innegabile anche ilreciproco: non c'è valore, reale o ideale, oggettivo osoggettivo, che sia rappresentabile (conoscibile), se nonper mezzo del sensibile. Qualunque cosa sia per me o insè il mare, non posso percepire nè pensare al mare, senon lo percepisco e penso in quella striscia blù chevedo, in questa parola che scrivo o dico, o in un'immagi-ne, sempre sensoria, dell'una o dell'altra, che me lo rap-presentano o ricordano. Nè posso conoscer me stesso, senon mi rappresento la mia personalità in un'impressionecome questa, in un sentire interessarmi e commuovermipiuttosto per questo che per altro stimolo; e il mio vole-re e pensare medesimo, in un esser attento e attivo, inuno sforzo più in un senso che nell'altro, sia questo ilfare o l'inibire un atto pratico, oppur sia un atto teoreti-

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in un pulviscolo d'impressioni effimere alle quali, loveggo bene, la sola conoscenza può dare un costrutto,una realtà, un valore, che immediatamente le trascende:già percepivo quel cubo rosso come una casa (una cosa),questo movimento come un fatto (un effetto). E sem'intestardisco a fissare qualcuna di quelle impressioniper definirla, ossia per conoscerla in sè, mi trovo in pos-sesso di un'idea astrattissima e generalissima, come«rosso» e «moto».

I sensibili altro valore non avrebber dunque oltrequello ch'essi posson rappresentare, obbiettivamentecome fenomeni di sostanze e cause che noi dobbiamoporre al di là della sensazione, subiettivamente come sti-moli pratici che valgono per dei fini, che parimenti met-tiamo fuori di essi. Però, intanto, è innegabile anche ilreciproco: non c'è valore, reale o ideale, oggettivo osoggettivo, che sia rappresentabile (conoscibile), se nonper mezzo del sensibile. Qualunque cosa sia per me o insè il mare, non posso percepire nè pensare al mare, senon lo percepisco e penso in quella striscia blù chevedo, in questa parola che scrivo o dico, o in un'immagi-ne, sempre sensoria, dell'una o dell'altra, che me lo rap-presentano o ricordano. Nè posso conoscer me stesso, senon mi rappresento la mia personalità in un'impressionecome questa, in un sentire interessarmi e commuovermipiuttosto per questo che per altro stimolo; e il mio vole-re e pensare medesimo, in un esser attento e attivo, inuno sforzo più in un senso che nell'altro, sia questo ilfare o l'inibire un atto pratico, oppur sia un atto teoreti-

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co, un giudizio in parole segni e simboli.Ma c'è di più. Questa capacità del sensibile di rappre-

sentare, pur limitandolo, l'intelligibile, e la reciproca ne-cessità dello intelligibile d'attuarsi sensibilmente, non ri-guardano un carattere estraneo ai valori rappresentati,anche se questi valori, per voler essere universali e asso-luti, praticamente negano la particolarità e contingenzasensibile: essi sono «valori» – per es. il vero teoretico, ilbene pratico – in quanto possono o debbon esistere.L'esistenza è ciò che aggiunge realtà a un concetto o aun'idea, ciò che li rende validi per sè (assoluti e univer-sali) e non soltanto per noi, nel qual caso resterebberodei meri desideri e fini soggettivi, delle finzioni e ipotesisenza probabilità nè apoditticità.

Ora, il carattere di esistenza probabile o necessaria –o tanto più quello di esistenza certa e «storica» –, è ilsensibile che lo fornisce al mondo intelligibile dei con-cetti e delle idee. Solamente in quanto i loro contenutiesistono sensibilmente e la loro forma sensibilmente siattua o si può attuare, i concetti sono reali oltre che logi-ci e le idee sono etiche oltre che morali... Insomma, perquanto si cerchi, non abbiamo altra prova della realtàd'un contenuto conoscitivo che la sua convenienza orappresentabilità col sensibile, e non abbiamo altra pro-va del valore d'una forma in sè, ossia della verità ideale,che la sua presenza in quanto sentita: la realtà di quellacasa è provata da questo cubo rosso che vedo, ma anchela mia idea di Bene e di Dio trova la testimonianza perla sua certezza solo in quanto è sentita.

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co, un giudizio in parole segni e simboli.Ma c'è di più. Questa capacità del sensibile di rappre-

sentare, pur limitandolo, l'intelligibile, e la reciproca ne-cessità dello intelligibile d'attuarsi sensibilmente, non ri-guardano un carattere estraneo ai valori rappresentati,anche se questi valori, per voler essere universali e asso-luti, praticamente negano la particolarità e contingenzasensibile: essi sono «valori» – per es. il vero teoretico, ilbene pratico – in quanto possono o debbon esistere.L'esistenza è ciò che aggiunge realtà a un concetto o aun'idea, ciò che li rende validi per sè (assoluti e univer-sali) e non soltanto per noi, nel qual caso resterebberodei meri desideri e fini soggettivi, delle finzioni e ipotesisenza probabilità nè apoditticità.

Ora, il carattere di esistenza probabile o necessaria –o tanto più quello di esistenza certa e «storica» –, è ilsensibile che lo fornisce al mondo intelligibile dei con-cetti e delle idee. Solamente in quanto i loro contenutiesistono sensibilmente e la loro forma sensibilmente siattua o si può attuare, i concetti sono reali oltre che logi-ci e le idee sono etiche oltre che morali... Insomma, perquanto si cerchi, non abbiamo altra prova della realtàd'un contenuto conoscitivo che la sua convenienza orappresentabilità col sensibile, e non abbiamo altra pro-va del valore d'una forma in sè, ossia della verità ideale,che la sua presenza in quanto sentita: la realtà di quellacasa è provata da questo cubo rosso che vedo, ma anchela mia idea di Bene e di Dio trova la testimonianza perla sua certezza solo in quanto è sentita.

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Ma un sensibile è «soggettivo» perchè «illusorio», fe-nomenico? È illusorio solo quando crediamo realel'oggetto in sè. Quando invece riconosciamo che un og-getto in sè (il trascendente del realismo ontologico) è undover essere ossia una conoscenza formale e pratica,mentre che «reale» è la sua convenienza ai contenutidell'esperienza, ai sensibili, questi diventano il dato pre-sente e immediato, l'assoluto a cui si relativizza il sape-re, la prova teoretica della sua verità trascendentale, del-la sua realtà o illusione. Con ciò non si cade nell'empiri-smo: un dover essere, un'idea formale (un valore tra-scendentale), è pur reale in quanto ha un'esistenza (e cene possiamo formare un concetto di natura), che ci pro-va il suo valore, ce lo fa almeno sentire (e ce lo fa attua-re come volere).

Un sentimento è illusorio perchè soggettivo? E unasensazione in genere, non prova nulla della realtà d'unvalore perchè lo rappresenta soltanto soggettivamente?Al contrario: proprio perchè la sensazione è la natura, larealtà del soggetto – è l'esistenza, l'unica esistenza delsoggetto come oggetto, intesi questi non come due con-cetti praticamente opposti, l'uno del dover essere el'altro dell'essere, ma come intuizione o presenzadell'unico «io» (anima e corpo!) –, proprio perciò la solasensazione prova l'oggettività di qualcosa, il «non io»dell'«io».

Questo fluire sempre nuovo di sensazioni che si com-pongono e si scompongono nell'esperienza diretta e in-tuitiva, è l'unico modo in cui l'Essere, qualunque esso

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Ma un sensibile è «soggettivo» perchè «illusorio», fe-nomenico? È illusorio solo quando crediamo realel'oggetto in sè. Quando invece riconosciamo che un og-getto in sè (il trascendente del realismo ontologico) è undover essere ossia una conoscenza formale e pratica,mentre che «reale» è la sua convenienza ai contenutidell'esperienza, ai sensibili, questi diventano il dato pre-sente e immediato, l'assoluto a cui si relativizza il sape-re, la prova teoretica della sua verità trascendentale, del-la sua realtà o illusione. Con ciò non si cade nell'empiri-smo: un dover essere, un'idea formale (un valore tra-scendentale), è pur reale in quanto ha un'esistenza (e cene possiamo formare un concetto di natura), che ci pro-va il suo valore, ce lo fa almeno sentire (e ce lo fa attua-re come volere).

Un sentimento è illusorio perchè soggettivo? E unasensazione in genere, non prova nulla della realtà d'unvalore perchè lo rappresenta soltanto soggettivamente?Al contrario: proprio perchè la sensazione è la natura, larealtà del soggetto – è l'esistenza, l'unica esistenza delsoggetto come oggetto, intesi questi non come due con-cetti praticamente opposti, l'uno del dover essere el'altro dell'essere, ma come intuizione o presenzadell'unico «io» (anima e corpo!) –, proprio perciò la solasensazione prova l'oggettività di qualcosa, il «non io»dell'«io».

Questo fluire sempre nuovo di sensazioni che si com-pongono e si scompongono nell'esperienza diretta e in-tuitiva, è l'unico modo in cui l'Essere, qualunque esso

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sia, è presente a noi, o meglio, ripeto, è l'esistenza stessadell'io in quante parte e partecipe del mondo. Chi, perreligioso timore, o per isterico ribrezzo del mondo sen-sibile, lo nega totalmente per gettarsi in braccio al purointelligibile; chi per conquistare l'in sè del valore rifiutai valori sensibili, è il solo che alla fine dovrà logicamen-te concludere che l'assoluto è illusorio e che nulla esiste.

2. – La nostra piccola constatazione, della realtà esi-stenziale dell'io sol in quanto sensibile, può avviare ilpensiero teoretico a una soluzione del suo problema ulti-mo, allor che non si consideri più il sensibile qual conte-nuto conoscitivo – come faceva il sensismo ricercandola genesi della conoscenza: e si capisce che in quel casoi contenuti sensibili divengono illusori relativizzandolialle idee razionali (che pur debbon valere per essi per-chè sono da essi rappresentate) –, ma si consideri inquanto esso medesimo è sintesi formale e valore in sè,che qui (e qui solamente) significa anche «in me».

Il problema è questo: la forma (il valore), teoretica epratica, trascende ogni volta i suoi contenuti sensibili,proprio perchè li prende a contenuti, mentre pure sonessi che le dànno realtà esistenziale e quindi rappresen-tabilità teoretica. Ma se il valore puro o formale è tra-scendentale rispetto ai contenuti dell'esperienza, questanon lo potrebbe mai nè rappresentare nè provare, nè mi-nimamente suggerire o provocare, se a sua volta non sipresentasse in una forma, con un valore proprio ed in sè(o almeno, per sè), che intuitivamente ce lo faccia senti-

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sia, è presente a noi, o meglio, ripeto, è l'esistenza stessadell'io in quante parte e partecipe del mondo. Chi, perreligioso timore, o per isterico ribrezzo del mondo sen-sibile, lo nega totalmente per gettarsi in braccio al purointelligibile; chi per conquistare l'in sè del valore rifiutai valori sensibili, è il solo che alla fine dovrà logicamen-te concludere che l'assoluto è illusorio e che nulla esiste.

2. – La nostra piccola constatazione, della realtà esi-stenziale dell'io sol in quanto sensibile, può avviare ilpensiero teoretico a una soluzione del suo problema ulti-mo, allor che non si consideri più il sensibile qual conte-nuto conoscitivo – come faceva il sensismo ricercandola genesi della conoscenza: e si capisce che in quel casoi contenuti sensibili divengono illusori relativizzandolialle idee razionali (che pur debbon valere per essi per-chè sono da essi rappresentate) –, ma si consideri inquanto esso medesimo è sintesi formale e valore in sè,che qui (e qui solamente) significa anche «in me».

Il problema è questo: la forma (il valore), teoretica epratica, trascende ogni volta i suoi contenuti sensibili,proprio perchè li prende a contenuti, mentre pure sonessi che le dànno realtà esistenziale e quindi rappresen-tabilità teoretica. Ma se il valore puro o formale è tra-scendentale rispetto ai contenuti dell'esperienza, questanon lo potrebbe mai nè rappresentare nè provare, nè mi-nimamente suggerire o provocare, se a sua volta non sipresentasse in una forma, con un valore proprio ed in sè(o almeno, per sè), che intuitivamente ce lo faccia senti-

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re. «Esiste» questa forma, non più (o non ancora) delsensibile, ma, proprio, forma sensibile?

Ebbene: teoreticamente parlando – idest, giudicandoal modo indicativo tempo presente – non esiste altro chela forma, e non esiste altra forma che quella sensibile!Poi, per trasferto psicologico e per dialetticismo logico,il predicato dell'esistenza passa dalla forma, in quantorappresentazione, al valore rappresentato. Perciò dico:esiste quella casa rossa, passa quest'automobile, trasfe-rendo l'esistenza dal sensibile alla cosa e al fatto perce-piti e pensati nelle sintesi conoscitive. Allora il filosofofacilmente conclude, che dunque altro invece non esisteche la percezione e l'idea, dimenticando che il percettosi realizza nel sensibile, e l'idea si attua nei percetti, oalmeno nelle immagini e nelle parole, senza le quali sa-rebbe impossibile il pensare. Difatti, le idee pure lechiamiamo valori formali proprio perchè non si possonrappresentare che in pure forme, in parole.

Io dico: prima di tutto esiste il sensibile, come tuttiammettono, anche se lo credono un'apparenza (esiste-ranno le apparenze) e se contemporaneamente ammetto-no l'esistenza in sè d'un Valore assoluto (pur figurando-selo, i più, sensibilmente, ossia miticamente). Esistenzae sensazione sono i nomi astratti, uno logico e l'altropsicologico, dell'intuizione o presenza immediata; salvoa trasferire poi l'esistenza ai valori mediati, che l'intui-zione «mi rappresenta», e che in tal modo divengono«reali». Pertanto, ogni valore (trascendentale) esiste, sipresenta, in una forma sensibile (almeno la parola e

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re. «Esiste» questa forma, non più (o non ancora) delsensibile, ma, proprio, forma sensibile?

Ebbene: teoreticamente parlando – idest, giudicandoal modo indicativo tempo presente – non esiste altro chela forma, e non esiste altra forma che quella sensibile!Poi, per trasferto psicologico e per dialetticismo logico,il predicato dell'esistenza passa dalla forma, in quantorappresentazione, al valore rappresentato. Perciò dico:esiste quella casa rossa, passa quest'automobile, trasfe-rendo l'esistenza dal sensibile alla cosa e al fatto perce-piti e pensati nelle sintesi conoscitive. Allora il filosofofacilmente conclude, che dunque altro invece non esisteche la percezione e l'idea, dimenticando che il percettosi realizza nel sensibile, e l'idea si attua nei percetti, oalmeno nelle immagini e nelle parole, senza le quali sa-rebbe impossibile il pensare. Difatti, le idee pure lechiamiamo valori formali proprio perchè non si possonrappresentare che in pure forme, in parole.

Io dico: prima di tutto esiste il sensibile, come tuttiammettono, anche se lo credono un'apparenza (esiste-ranno le apparenze) e se contemporaneamente ammetto-no l'esistenza in sè d'un Valore assoluto (pur figurando-selo, i più, sensibilmente, ossia miticamente). Esistenzae sensazione sono i nomi astratti, uno logico e l'altropsicologico, dell'intuizione o presenza immediata; salvoa trasferire poi l'esistenza ai valori mediati, che l'intui-zione «mi rappresenta», e che in tal modo divengono«reali». Pertanto, ogni valore (trascendentale) esiste, sipresenta, in una forma sensibile (almeno la parola e

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l'immagine fonetica), di cui apparirà contenuto dal pun-to di vista estetico; mentre dal punto di vista logico laforma sensibile diviene essa contenuto, che diremo reale(in quanto esistenziale) dei nostri concetti. Da ciò di-scende assai chiaro il fondamento critico dell'estetica:ogni forma, e quindi anche la forma in quanto unica-mente sensibile, ha il suo valore immanente; o meglio,quel valore ch'è trascendentale come rappresentazionelogica ed etica di ciò che dev'essere realmente e ideal-mente, è immanente in quanto è valore sensibile, valoreestetico, valore che «si presenta» sensibilmente.

La filosofia prima e dopo Kant, degradando il sensi-bile ad apparenza fenomenica e subiettiva, sperò di va-nificarlo in tutto: quello che esiste, perchè deve esistere(in sè), è la cosa (o l'idea). Purtroppo questo realismoperdura anche in Kant. Dal criticismo si dovrebbe con-cludere, che il molteplice e vario dell'esperienza, la sen-sazione, è l'esistere del soggetto (del sentimento), il suoempirico attuale realizzarsi, e quindi l'essere (o il dive-nire) dell'io in quei rapporti obbiettivi, detti natura,ch'egli stesso pone quando accorda e unifica i sensibilinelle sintesi delle categorie che ne «debbono» costituirel'essenza (nel mentre che gli si oppone come soggetto espirito assoluto, che per mezzo del volere si determinaper antinomia pratica): il Kant invece continua a pensa-re, con una contraddizione in termini dovuta all'anticoanimismo, che i sensibili sian di natura soggettiva, no-stra rappresentazione o immagine di un'identica esisten-za fuori di noi. I termini «rappresentazione» ed «esisten-

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l'immagine fonetica), di cui apparirà contenuto dal pun-to di vista estetico; mentre dal punto di vista logico laforma sensibile diviene essa contenuto, che diremo reale(in quanto esistenziale) dei nostri concetti. Da ciò di-scende assai chiaro il fondamento critico dell'estetica:ogni forma, e quindi anche la forma in quanto unica-mente sensibile, ha il suo valore immanente; o meglio,quel valore ch'è trascendentale come rappresentazionelogica ed etica di ciò che dev'essere realmente e ideal-mente, è immanente in quanto è valore sensibile, valoreestetico, valore che «si presenta» sensibilmente.

La filosofia prima e dopo Kant, degradando il sensi-bile ad apparenza fenomenica e subiettiva, sperò di va-nificarlo in tutto: quello che esiste, perchè deve esistere(in sè), è la cosa (o l'idea). Purtroppo questo realismoperdura anche in Kant. Dal criticismo si dovrebbe con-cludere, che il molteplice e vario dell'esperienza, la sen-sazione, è l'esistere del soggetto (del sentimento), il suoempirico attuale realizzarsi, e quindi l'essere (o il dive-nire) dell'io in quei rapporti obbiettivi, detti natura,ch'egli stesso pone quando accorda e unifica i sensibilinelle sintesi delle categorie che ne «debbono» costituirel'essenza (nel mentre che gli si oppone come soggetto espirito assoluto, che per mezzo del volere si determinaper antinomia pratica): il Kant invece continua a pensa-re, con una contraddizione in termini dovuta all'anticoanimismo, che i sensibili sian di natura soggettiva, no-stra rappresentazione o immagine di un'identica esisten-za fuori di noi. I termini «rappresentazione» ed «esisten-

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za», in quel sopravvivente realismo, vengon sempreusati con significato inverso a quello che avrebbero inun criticismo coerente.

Si rilegga, per esempio, questo periodo che scelgo diproposito dalla «Critica del Giudizio» («Analitica delBello», paragr. 2°): «Per dire che un oggetto è bello...bisogna considerare ciò che la sua rappresentazioneproduce in me e non ciò in cui io possa dipenderedall'esistenza dell'oggetto»21. Il Kant voleva distinguere

21 Per una migliore comprensione della nostra critica, eccol'intera pagina, chiave di vòlta di tutta l'estetica kantiana, e chedel resto segna il più gran passo oltre l'intellettualismo del Baum-garten, il quale intendeva l'estetico come una conoscenza inferio-re, una ragione indistinta. «Quando si tratta di giudicare se un og-getto è bello, non si domanda se a me o ad altri interessi o solopossa interessare la sua esistenza, ma come lo giudichiamo alsolo guardarlo, per intuizione o contemplazione. Se mi chiedetese trovo bello quel palazzone là davanti, potrei anche rispondereche non mi piacciono queste cose fatte sol per meravigliare, ocome quel capo irocchese a Parigi che preferiva le gargotte a tut-to; oppur anche potrei, alla maniera di Rousseau, prender l'occa-sione per inveire contro il fasto dei grandi che spendono il sudoredei popoli in cose tanto inutili; concludendo infine che, se mi tro-vassi in un'isola deserta fuori d'ogni umana convivenza e potessicol mio solo desiderio far sorgere per incanto un palazzo consimi-le, non me ne darei la pena, bastandomi una comoda capanna: evoi forse mi concedereste tutto ciò e m'approvereste. Ma non diquesto si trattava! Si voleva invece sapere se, per quanto io restiindifferente a ciò che quel palazzo è, la semplice sua rappresenta-zione sia accompagnata in me dal piacere. Si comprende subitoche, per dire che un oggetto è bello e per provare che io ho del

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za», in quel sopravvivente realismo, vengon sempreusati con significato inverso a quello che avrebbero inun criticismo coerente.

Si rilegga, per esempio, questo periodo che scelgo diproposito dalla «Critica del Giudizio» («Analitica delBello», paragr. 2°): «Per dire che un oggetto è bello...bisogna considerare ciò che la sua rappresentazioneproduce in me e non ciò in cui io possa dipenderedall'esistenza dell'oggetto»21. Il Kant voleva distinguere

21 Per una migliore comprensione della nostra critica, eccol'intera pagina, chiave di vòlta di tutta l'estetica kantiana, e chedel resto segna il più gran passo oltre l'intellettualismo del Baum-garten, il quale intendeva l'estetico come una conoscenza inferio-re, una ragione indistinta. «Quando si tratta di giudicare se un og-getto è bello, non si domanda se a me o ad altri interessi o solopossa interessare la sua esistenza, ma come lo giudichiamo alsolo guardarlo, per intuizione o contemplazione. Se mi chiedetese trovo bello quel palazzone là davanti, potrei anche rispondereche non mi piacciono queste cose fatte sol per meravigliare, ocome quel capo irocchese a Parigi che preferiva le gargotte a tut-to; oppur anche potrei, alla maniera di Rousseau, prender l'occa-sione per inveire contro il fasto dei grandi che spendono il sudoredei popoli in cose tanto inutili; concludendo infine che, se mi tro-vassi in un'isola deserta fuori d'ogni umana convivenza e potessicol mio solo desiderio far sorgere per incanto un palazzo consimi-le, non me ne darei la pena, bastandomi una comoda capanna: evoi forse mi concedereste tutto ciò e m'approvereste. Ma non diquesto si trattava! Si voleva invece sapere se, per quanto io restiindifferente a ciò che quel palazzo è, la semplice sua rappresenta-zione sia accompagnata in me dal piacere. Si comprende subitoche, per dire che un oggetto è bello e per provare che io ho del

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il giudizio estetico («Quel palazzo è bello») dagli altrigiudizi di valore, per es. economici («Esso è ben inuti-le») o morali («Ed è una vana pompa»), per giungere adefinire analiticamente il fondamento del gusto (il valo-re del bello), come piacere disinteressato.

«Quel palazzo» fa da contenuto comune di tutti questigiudizi; ma – argomenta il Kant – in quanto esso esisterealmente, diviene una condizione dalla quale dipendeche siano o no appagati i miei fini e interessi, e in talcaso il mio giudizio su quell'oggetto è pratico, definen-do l'accordo o il disaccordo tra le finalità (l'utile, ilbene) e la realtà dell'oggetto (implicante a sua volta unatto conoscitivo, almeno la percezione). Il giudizio este-tico invece è indifferente all'esistenza di quel palazzoperchè non si fonda su concetti, nè pratici nè teoretici(non è una conoscenza); esso giudica unicamente la rap-presentazione («Vorstellung»), intesa dal Kant come im-magine subiettiva del reale sensibile: ciò che «io» vedoe contemplo (fosse pure un fenomeno, una finzione,un'allucinazione), al solo intuirlo e «rifletterlo».

Subiettivato, quasi inconsapevolmente, l'oggetto este-tico – la forma sensibile –, bisognava obiettivare, ossiauniversalizzare, il soggetto estetico, il sentimento pro-

gusto, bisogna considerare ciò che la sua rappresentazione produ-ce in me, e non ciò in cui io possa dipendere dall'esistenzadell'oggetto. Quel giudizio sul bello a cui si mescoli un altro inte-resse non è un giudizio estetico, ma un giudizio parziale: per giu-dicare in fatto di gusto bisogna, nonchè esser minimamente inte-ressato all'esistenza d'un oggetto, restarvi al tutto indifferente».

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il giudizio estetico («Quel palazzo è bello») dagli altrigiudizi di valore, per es. economici («Esso è ben inuti-le») o morali («Ed è una vana pompa»), per giungere adefinire analiticamente il fondamento del gusto (il valo-re del bello), come piacere disinteressato.

«Quel palazzo» fa da contenuto comune di tutti questigiudizi; ma – argomenta il Kant – in quanto esso esisterealmente, diviene una condizione dalla quale dipendeche siano o no appagati i miei fini e interessi, e in talcaso il mio giudizio su quell'oggetto è pratico, definen-do l'accordo o il disaccordo tra le finalità (l'utile, ilbene) e la realtà dell'oggetto (implicante a sua volta unatto conoscitivo, almeno la percezione). Il giudizio este-tico invece è indifferente all'esistenza di quel palazzoperchè non si fonda su concetti, nè pratici nè teoretici(non è una conoscenza); esso giudica unicamente la rap-presentazione («Vorstellung»), intesa dal Kant come im-magine subiettiva del reale sensibile: ciò che «io» vedoe contemplo (fosse pure un fenomeno, una finzione,un'allucinazione), al solo intuirlo e «rifletterlo».

Subiettivato, quasi inconsapevolmente, l'oggetto este-tico – la forma sensibile –, bisognava obiettivare, ossiauniversalizzare, il soggetto estetico, il sentimento pro-

gusto, bisogna considerare ciò che la sua rappresentazione produ-ce in me, e non ciò in cui io possa dipendere dall'esistenzadell'oggetto. Quel giudizio sul bello a cui si mescoli un altro inte-resse non è un giudizio estetico, ma un giudizio parziale: per giu-dicare in fatto di gusto bisogna, nonchè esser minimamente inte-ressato all'esistenza d'un oggetto, restarvi al tutto indifferente».

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dotto dall'immagine, affinchè questo divenisse il fonda-mento soggettivo, sì, ma anche universale dei giudizi digusto. Il Kant deduce allora l'universalità del giudizioestetico «è bello» dal carattere disinteressato del piaceresu cui si fonda, disinteresse che rende il giudizio presu-mibilmente valido per ogni persona di gusto: quasi un apriori del sentimento. In tal guisa si apriva la via a tuttoil soggettivismo dell'estetica contemporanea; ma la sichiudeva a ogni possibilità di comprendere l'unità meta-fisica di sensibile e sovrasensibile, intravista dal Kantma rimasta un arcano e «inesplicabile» accordo.

3. – Rettifichiàmo avanti tutto l'uso del vocabolo«rappresentazione». Per ognuno esso indicherà qualcosache «ci» rappresenta qualcos'altro (il tale attore rappre-senta un personaggio, un quadro rappresenta una fore-sta, ecc.). Ma in psicologia, «rappresentazione» suol de-notare la reviviscenza d'una sensazione o immagine pre-cedente, e rappresentarsi allora indica il ripresentarsi diqualcosa alla memoria, sia un vago fantasma, sia un pre-ciso ricordo; o sia nelle cosiddette associazioni percetti-ve o immaginative. Noi sappiamo già che pensare di taleadattamento funzionale chiamato memoria, che interpre-tammo naturalisticamente. Sappiamo che una immagineriprodotta si realizza o tende a realizzarsi nel sensibileattuale, o che almeno si rinnova come innervazione si-milare: comunque, la immagine detta «mentale» è dellastessa natura della sensazione; se non è che una sensa-zione riprodotta e più organicamente condizionata, è pur

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dotto dall'immagine, affinchè questo divenisse il fonda-mento soggettivo, sì, ma anche universale dei giudizi digusto. Il Kant deduce allora l'universalità del giudizioestetico «è bello» dal carattere disinteressato del piaceresu cui si fonda, disinteresse che rende il giudizio presu-mibilmente valido per ogni persona di gusto: quasi un apriori del sentimento. In tal guisa si apriva la via a tuttoil soggettivismo dell'estetica contemporanea; ma la sichiudeva a ogni possibilità di comprendere l'unità meta-fisica di sensibile e sovrasensibile, intravista dal Kantma rimasta un arcano e «inesplicabile» accordo.

3. – Rettifichiàmo avanti tutto l'uso del vocabolo«rappresentazione». Per ognuno esso indicherà qualcosache «ci» rappresenta qualcos'altro (il tale attore rappre-senta un personaggio, un quadro rappresenta una fore-sta, ecc.). Ma in psicologia, «rappresentazione» suol de-notare la reviviscenza d'una sensazione o immagine pre-cedente, e rappresentarsi allora indica il ripresentarsi diqualcosa alla memoria, sia un vago fantasma, sia un pre-ciso ricordo; o sia nelle cosiddette associazioni percetti-ve o immaginative. Noi sappiamo già che pensare di taleadattamento funzionale chiamato memoria, che interpre-tammo naturalisticamente. Sappiamo che una immagineriprodotta si realizza o tende a realizzarsi nel sensibileattuale, o che almeno si rinnova come innervazione si-milare: comunque, la immagine detta «mentale» è dellastessa natura della sensazione; se non è che una sensa-zione riprodotta e più organicamente condizionata, è pur

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Page 302: E-book campione Liber Liber · sul pensiero teoretico; al punto che l'idealismo, il quale logicamente si dovrebbe contentar d'affermare che l'empirico, il sensibile, la materia insomma,

sempre oggettiva come qualsiasi altro dato sensibile. Èvero che, nel confronto che il pensiero istituisce fra isuoi oggetti per fondarne il valore di verità, diremo poiche un'immagine mnemonica è illusoria rispetto allacorrispondente sensazione, come diciamo che nella me-desima percezione (per es. del solito bastone immersonell'acqua) il tatto è più vero della vista. Ma criticamen-te, ciò che attualmente esiste ed è presente (e quindi rea-le) è la rappresentazione e non l'oggetto rappresentato:se la rappresentazione è mnemonica (per es. se immagi-no un mio amico lontano), è ben questa immagine ripro-dotta che, appunto perchè presente, anche se più debolee men chiara perchè ridotta a un'innervazione visiva, mirappresenta ciò ch'è inattuale (anche se deve esistere insè).

Il giusto senso del termine «rappresentazione» – quel-lo in cui l'abbiam sempre adoperato noi – è dunque logi-co, non psicologico: indica il valore conoscitivo d'unesistente, non la sua natura, Quel cubo rosso che veggo(oppure la sua immagine riprodotta, oppure la parola«casa», oppure l'immagine della parola ecc.) rappresentaquella casa (oppure una casa in genere, oppure un og-getto, una sostanza ecc.). Ciò ch'è presente mi rappre-senta il suo valore conoscitivo, il suo dover essere, il «dipiù» di quello ch'è attualmente. Tal di più si può ridurreall'unità percettiva (il «reale» del senso comune) per cuinella sensazione data si realizzano le immagini chel'hanno sempre accompagnata (quel cubo m'apparisceanche solido ecc.) nel qual caso il conoscere è piuttosto

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sempre oggettiva come qualsiasi altro dato sensibile. Èvero che, nel confronto che il pensiero istituisce fra isuoi oggetti per fondarne il valore di verità, diremo poiche un'immagine mnemonica è illusoria rispetto allacorrispondente sensazione, come diciamo che nella me-desima percezione (per es. del solito bastone immersonell'acqua) il tatto è più vero della vista. Ma criticamen-te, ciò che attualmente esiste ed è presente (e quindi rea-le) è la rappresentazione e non l'oggetto rappresentato:se la rappresentazione è mnemonica (per es. se immagi-no un mio amico lontano), è ben questa immagine ripro-dotta che, appunto perchè presente, anche se più debolee men chiara perchè ridotta a un'innervazione visiva, mirappresenta ciò ch'è inattuale (anche se deve esistere insè).

Il giusto senso del termine «rappresentazione» – quel-lo in cui l'abbiam sempre adoperato noi – è dunque logi-co, non psicologico: indica il valore conoscitivo d'unesistente, non la sua natura, Quel cubo rosso che veggo(oppure la sua immagine riprodotta, oppure la parola«casa», oppure l'immagine della parola ecc.) rappresentaquella casa (oppure una casa in genere, oppure un og-getto, una sostanza ecc.). Ciò ch'è presente mi rappre-senta il suo valore conoscitivo, il suo dover essere, il «dipiù» di quello ch'è attualmente. Tal di più si può ridurreall'unità percettiva (il «reale» del senso comune) per cuinella sensazione data si realizzano le immagini chel'hanno sempre accompagnata (quel cubo m'apparisceanche solido ecc.) nel qual caso il conoscere è piuttosto

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un riconoscere; o invece il di più può riguardare l'idea, ilvalore in sè: ma conoscenza e rappresentazione sono lastessa sintesi logica nel suo farsi attuale, percettivo eideativo.

Ora, se il Kant per «rappresentazione» avesse intesoil valore logico dei sensibili, avrebbe dovuto invertirel'uso dei termini nel periodo sopra citato: i sensibili (lelinee, i colori, etc. di quel palazzo), in quanto esistenzepresenti e attuali – quello che sono – formanti un’imma-gine, presentano un proprio valore estetico, distinto daquelli pratici e teoretici che otteniamo per concetti; inquanto invece rappresentano un oggetto, un reale chedeve esistere in sè e che perciò ci può esser utile ecc.,non sono più estetici, ma reali e pratici. Il che (si notibene) non contrasta nemmeno col fenomenismo kantia-no, se inteso criticamente (e non realisticamente). Pro-prio perchè quelle linee e quei colori esteticamente sen-sibili ci rappresentano nel contempo un dover essere insè (una cosa in sè), che nelle costruzioni concettuali(nelle sintesi rappresentative) diviene un essere per me(un mio concetto), nel valore estetico si ritrova al tempostesso la prova dell'unità e della distinzione fra sensibilee intelligibile!

Purtroppo, per il Kant, come per l'idealismo in gene-re, rappresentazione («Vorstellung») significa invece,nuovamente, il duplicato, di natura soggettiva, del sensi-bile stesso: l'impressione psichica d'un imprimente sti-molo fisico: grossolana analogia materialistica, comequella del sigillo e della cera usata nel parallelismo ari-

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un riconoscere; o invece il di più può riguardare l'idea, ilvalore in sè: ma conoscenza e rappresentazione sono lastessa sintesi logica nel suo farsi attuale, percettivo eideativo.

Ora, se il Kant per «rappresentazione» avesse intesoil valore logico dei sensibili, avrebbe dovuto invertirel'uso dei termini nel periodo sopra citato: i sensibili (lelinee, i colori, etc. di quel palazzo), in quanto esistenzepresenti e attuali – quello che sono – formanti un’imma-gine, presentano un proprio valore estetico, distinto daquelli pratici e teoretici che otteniamo per concetti; inquanto invece rappresentano un oggetto, un reale chedeve esistere in sè e che perciò ci può esser utile ecc.,non sono più estetici, ma reali e pratici. Il che (si notibene) non contrasta nemmeno col fenomenismo kantia-no, se inteso criticamente (e non realisticamente). Pro-prio perchè quelle linee e quei colori esteticamente sen-sibili ci rappresentano nel contempo un dover essere insè (una cosa in sè), che nelle costruzioni concettuali(nelle sintesi rappresentative) diviene un essere per me(un mio concetto), nel valore estetico si ritrova al tempostesso la prova dell'unità e della distinzione fra sensibilee intelligibile!

Purtroppo, per il Kant, come per l'idealismo in gene-re, rappresentazione («Vorstellung») significa invece,nuovamente, il duplicato, di natura soggettiva, del sensi-bile stesso: l'impressione psichica d'un imprimente sti-molo fisico: grossolana analogia materialistica, comequella del sigillo e della cera usata nel parallelismo ari-

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stotelico fra reale e conoscenza del reale, a cui questaconcezione rimonta. Come l'immagine «mentale», perl'ipotesi dell'anima centrale e cerebrale, sarebbe il dop-pio psichico d'una sensazione là depositata conservata ea tempo opportuno richiamata dalla miracolosa facoltàdella memoria psichica, così poi anche la sensazioneprimordiale viene a sua volta reduplicata da questo psi-cologismo, che teme di perdere l'anima se non consideraquel rosso e quel suono traduzioni soggettive d'un rossoe d'un suono esistenti fuori di noi.

Ma non è difficile raddrizzare un tal concetto. Se unorealisticamente ammettesse che esistono un rosso otticoe un suono acustico i quali poi diventino, mutando natu-ra, un rosso e un suono «nella coscienza», dovrebb'esserproprio il criticismo ad avvertirlo dell'equivoco, dovutoal confondere la subiettività o relatività logica dei sensi-bili (perchè qualità contingenti di fronte alla obbiettivitàdei concetti che ci formiamo sulla loro analisi); con unasupposta natura psicologica di quei sensibili che nelcontempo definiamo fisici... Se questo suono è un'ecci-tazione acustica per mezzo dell'aria, la causa e l'effettosono la stessa cosa, la stessa natura, e ve lo dimostro fa-cendovi vedere e udire l'esperimento della campagnapneumatica; e se questi contenuti non fossero fisici, tan-to meno lo sarebbe la loro spiegazione concettuale!

Per cavarsi d'impaccio restando fedeli al kantismo,ossia restando «nella coscienza», l'empiriocriticismo te-desco (per es. Mach e Avenarius) trovò quell'acuta solu-zione, a cui s'accosta una veduta del positivismo critici-

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stotelico fra reale e conoscenza del reale, a cui questaconcezione rimonta. Come l'immagine «mentale», perl'ipotesi dell'anima centrale e cerebrale, sarebbe il dop-pio psichico d'una sensazione là depositata conservata ea tempo opportuno richiamata dalla miracolosa facoltàdella memoria psichica, così poi anche la sensazioneprimordiale viene a sua volta reduplicata da questo psi-cologismo, che teme di perdere l'anima se non consideraquel rosso e quel suono traduzioni soggettive d'un rossoe d'un suono esistenti fuori di noi.

Ma non è difficile raddrizzare un tal concetto. Se unorealisticamente ammettesse che esistono un rosso otticoe un suono acustico i quali poi diventino, mutando natu-ra, un rosso e un suono «nella coscienza», dovrebb'esserproprio il criticismo ad avvertirlo dell'equivoco, dovutoal confondere la subiettività o relatività logica dei sensi-bili (perchè qualità contingenti di fronte alla obbiettivitàdei concetti che ci formiamo sulla loro analisi); con unasupposta natura psicologica di quei sensibili che nelcontempo definiamo fisici... Se questo suono è un'ecci-tazione acustica per mezzo dell'aria, la causa e l'effettosono la stessa cosa, la stessa natura, e ve lo dimostro fa-cendovi vedere e udire l'esperimento della campagnapneumatica; e se questi contenuti non fossero fisici, tan-to meno lo sarebbe la loro spiegazione concettuale!

Per cavarsi d'impaccio restando fedeli al kantismo,ossia restando «nella coscienza», l'empiriocriticismo te-desco (per es. Mach e Avenarius) trovò quell'acuta solu-zione, a cui s'accosta una veduta del positivismo critici-

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sta (per es. Ardigò): i sensibili per sè non sono ancoranè fisici ne psichici, nè oggetti nè soggetti, perchè tuttiquesti sono concetti che vi si costruiscono sopra nellesintesi conoscitive; il soggetto sì costituisce per «auto-sintesi» e l'oggetto per «eterosintesi» di quegli stessielementi, secondo che si unificano sui due piani paralle-li di rapporti esterni o interni a noi (?!). Ma, se sintesivuol dire unificazione e rapporto esistente tra i contenutisensibili, non possiamo parlare che di eterosintesi: an-che se riguardiamo i sensibili in rapporto a noi (questo«noi» è dunque già dato?), conosceremo l'io obbiettiva-mente, come corpo e natura empirica, e non l'io soggettounificante; e se sintesi indica il valore a priori della cate-goria unificante, come norma che informa della sua fi-nalità soggettiva quelle oggettive unificazioni, tutto èautosintesi, e la stessa sintesi a posteriori era già, comevuole l'idealismo assoluto, autosintetica, dovendo conte-nere in sè il principio del suo divenire conoscenza eidea.

Per noi, la coscienza non è una cosa, dentro e fuoridella quale accada qualcos'altro; e tanto meno una cabi-na di trasformazione del mondo fisico in mondo psichi-co o viceversa: quel termine esprime soltanto un rap-porto di valore. La coscienza sensibile è il rapporto frala praticità del sentire e la sensibile presenza o esistenza,intuita come esistenza del sentito; rapporto che diverràcoscienza conoscitiva (pensiero): pensiero teoretico(esplicativo) in accordo all'esistere sensibile; pensieropratico (normativo), come volere e dovere, in antinomia

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sta (per es. Ardigò): i sensibili per sè non sono ancoranè fisici ne psichici, nè oggetti nè soggetti, perchè tuttiquesti sono concetti che vi si costruiscono sopra nellesintesi conoscitive; il soggetto sì costituisce per «auto-sintesi» e l'oggetto per «eterosintesi» di quegli stessielementi, secondo che si unificano sui due piani paralle-li di rapporti esterni o interni a noi (?!). Ma, se sintesivuol dire unificazione e rapporto esistente tra i contenutisensibili, non possiamo parlare che di eterosintesi: an-che se riguardiamo i sensibili in rapporto a noi (questo«noi» è dunque già dato?), conosceremo l'io obbiettiva-mente, come corpo e natura empirica, e non l'io soggettounificante; e se sintesi indica il valore a priori della cate-goria unificante, come norma che informa della sua fi-nalità soggettiva quelle oggettive unificazioni, tutto èautosintesi, e la stessa sintesi a posteriori era già, comevuole l'idealismo assoluto, autosintetica, dovendo conte-nere in sè il principio del suo divenire conoscenza eidea.

Per noi, la coscienza non è una cosa, dentro e fuoridella quale accada qualcos'altro; e tanto meno una cabi-na di trasformazione del mondo fisico in mondo psichi-co o viceversa: quel termine esprime soltanto un rap-porto di valore. La coscienza sensibile è il rapporto frala praticità del sentire e la sensibile presenza o esistenza,intuita come esistenza del sentito; rapporto che diverràcoscienza conoscitiva (pensiero): pensiero teoretico(esplicativo) in accordo all'esistere sensibile; pensieropratico (normativo), come volere e dovere, in antinomia

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con esso. Perciò il dato sensibile, valendo come la solaesistenza obbiettiva – ossia (individualmente) reale –dell'io, nonchè esser «neutro» (come vuole l'empiriocri-ticismo), è proprio l'attualità o immanenza (l'esteticità opresenza) del «valore», definibile nel rapporto tra finali-tà soggettiva e realtà oggettiva (rapporto di coscienza); erimane poi sempre a rappresentarlo nel pensiero, dove ilsentimento testimonia della finalità e l'intuizione sensi-bile della realtà.

4. – Ed ora rettifichiamo anche l'altra premessadell'estetica kantiana, quella che fa consistere il valoreestetico nel sentimento di piacere disinteressato, che innoi desta la sola presenza sensibile (egli dice la rappre-sentazione, ma abbiam corretto), indipendentementedalla cosa rappresentata (egli dice esistenza) e dai ri-spettivi sentimenti e interessi pratici. Così l'esteticità delsensibile viene ad interiorizzarsi ancor di più ed a rifu-giarsi nella mera soggettività d'un sentimento, in base alquale noi giudicheremmo universalmente del bello. Macome un sentimento può costituire un valore universale?

Il Kant, come tutti ricorderanno, introduce una sottiledistinzione fra i tre giudizi: «è buono», «mi piace» (os-sia «è gradevole»), ed «è bello». Il primo è un giudiziomorale di valore universale, perchè si fonda sopra unprincipio (il dover essere morale) assoluto ed (eticamen-te) necessario. Quando invece io dico che la tal cosa mipiace o mi dispiace, il valore di un siffatto giudizio ri-mane, secondo il Kant, individuale (qualunque sia poi la

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con esso. Perciò il dato sensibile, valendo come la solaesistenza obbiettiva – ossia (individualmente) reale –dell'io, nonchè esser «neutro» (come vuole l'empiriocri-ticismo), è proprio l'attualità o immanenza (l'esteticità opresenza) del «valore», definibile nel rapporto tra finali-tà soggettiva e realtà oggettiva (rapporto di coscienza); erimane poi sempre a rappresentarlo nel pensiero, dove ilsentimento testimonia della finalità e l'intuizione sensi-bile della realtà.

4. – Ed ora rettifichiamo anche l'altra premessadell'estetica kantiana, quella che fa consistere il valoreestetico nel sentimento di piacere disinteressato, che innoi desta la sola presenza sensibile (egli dice la rappre-sentazione, ma abbiam corretto), indipendentementedalla cosa rappresentata (egli dice esistenza) e dai ri-spettivi sentimenti e interessi pratici. Così l'esteticità delsensibile viene ad interiorizzarsi ancor di più ed a rifu-giarsi nella mera soggettività d'un sentimento, in base alquale noi giudicheremmo universalmente del bello. Macome un sentimento può costituire un valore universale?

Il Kant, come tutti ricorderanno, introduce una sottiledistinzione fra i tre giudizi: «è buono», «mi piace» (os-sia «è gradevole»), ed «è bello». Il primo è un giudiziomorale di valore universale, perchè si fonda sopra unprincipio (il dover essere morale) assoluto ed (eticamen-te) necessario. Quando invece io dico che la tal cosa mipiace o mi dispiace, il valore di un siffatto giudizio ri-mane, secondo il Kant, individuale (qualunque sia poi la

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quantità degli oggetti che piacciono e dei soggetti a cuipiacciono o no), nel senso che il giudizio resta subietti-vo, fondato su l'interesse mio o altrui (ma ciascuno persè) per quegli oggetti: chi dice «mi piace», non preten-derà mai che il suo criterio valga universalmente (anchese, di fatto, quella cosa piacesse a tutti). Ora, anche ilgiudizio estetico è fondato sul piacere, è un giudizio su-biettivo; tuttavia erra, conclude il Kant, chi sostiene cheil bello sia ciò che piace. Il piacere estetico essendo di-sinteressato, l'estetico non è il gradevole: il giudizio «èbello», benchè fondato sul mio piacere come il giudizio«mi piace», vale però universalmente come il giudizio«è buono». Perchè?

Qui, intanto, c'è una piccola confusione, nella quale ilKant s'aggira per molte pagine. «Mi piace il vino delleCanarie» (prendo il suo esempio), non è un giudizio divalore, è un giudizio reale, non diverso, per es., da:«Questo è vino delle Canarie», se non nel contenuto psi-cologico invece che geografico o altro di simile. Tutt'edue questi giudizi, particolari nella quantità dei contenu-ti, sono però universali, universalissimi, come qualun-que altro giudizio storico, nel valore formale: se sonoveri, debbon essere veri in sè (categoricamente). D'altraparte, tutti i giudizi, anche etici ed estetici, si possonpresentare nella forma logica del «mi piace» o «è grade-vole» – quel palazzo mi piace esteticamente, mi dispia-ce moralmente –, quando appunto riguardano la realtàdella cosa e del fatto, e non la norma dell'azione direttaa un fine: infatti, io dico «è buono» di un atto ed «è gra-

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quantità degli oggetti che piacciono e dei soggetti a cuipiacciono o no), nel senso che il giudizio resta subietti-vo, fondato su l'interesse mio o altrui (ma ciascuno persè) per quegli oggetti: chi dice «mi piace», non preten-derà mai che il suo criterio valga universalmente (anchese, di fatto, quella cosa piacesse a tutti). Ora, anche ilgiudizio estetico è fondato sul piacere, è un giudizio su-biettivo; tuttavia erra, conclude il Kant, chi sostiene cheil bello sia ciò che piace. Il piacere estetico essendo di-sinteressato, l'estetico non è il gradevole: il giudizio «èbello», benchè fondato sul mio piacere come il giudizio«mi piace», vale però universalmente come il giudizio«è buono». Perchè?

Qui, intanto, c'è una piccola confusione, nella quale ilKant s'aggira per molte pagine. «Mi piace il vino delleCanarie» (prendo il suo esempio), non è un giudizio divalore, è un giudizio reale, non diverso, per es., da:«Questo è vino delle Canarie», se non nel contenuto psi-cologico invece che geografico o altro di simile. Tutt'edue questi giudizi, particolari nella quantità dei contenu-ti, sono però universali, universalissimi, come qualun-que altro giudizio storico, nel valore formale: se sonoveri, debbon essere veri in sè (categoricamente). D'altraparte, tutti i giudizi, anche etici ed estetici, si possonpresentare nella forma logica del «mi piace» o «è grade-vole» – quel palazzo mi piace esteticamente, mi dispia-ce moralmente –, quando appunto riguardano la realtàdella cosa e del fatto, e non la norma dell'azione direttaa un fine: infatti, io dico «è buono» di un atto ed «è gra-

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devole» di un oggetto (posso giudicar buona anche unacosa ma sol in quanto la penso fatta per uno scopo,come «Quel palazzo è un insulto alla miseria»).

Inoltre, un giudizio che soltanto « esprimesse » il sen-timento subiettivo di piacere o dispiacere, kantianamen-te non sarebbe mai nemmeno un giudizio (un pensiero,una conoscenza, sempre fondati su l'a priori); sarebbeun'esclamazione («Che buon vino questo...»), pari a ungesto, a un atto pratico, a un contenuto. Per divenire ungiudizio di valore, è d'uopo che il piacere sia presocome finalità, riducibile a una regola della condotta –nel qual caso avremo un giudizio edonistico –, del tuttosimile al giudizio morale (apodittico), con la differenzache il fine pratico si relativizza al piacere (condizional-mente) come il fine teoretico all'esistere sensibile (ondeil rapporto prammatistico, il valore utilitario come prati-cità del teoretico).

Subordinatamente alla prima, anche l'altra distinzionekantiana fra piaceri interessati e piacere estetico disinte-ressato non è senza confusione. Non potrei sentire unpiacere estetico se non avessi un interesse estetico, chia-mato appunto il «gusto». Essere o no interessato è un at-tributo, non dei sentimenti – de' quali dire che sono inte-ressati è pleonastico e dire che sono disinteressati è im-proprio – ma dell'attività, e riguarda quindi i fini del vo-lere: è interessata l'attività che si pone per fine il miopiacere e non può dunque presumere (per le ragioniesposte dal Kant sul «mi piace») che la norma della suacondotta divenga norma universale; è disinteressato il

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devole» di un oggetto (posso giudicar buona anche unacosa ma sol in quanto la penso fatta per uno scopo,come «Quel palazzo è un insulto alla miseria»).

Inoltre, un giudizio che soltanto « esprimesse » il sen-timento subiettivo di piacere o dispiacere, kantianamen-te non sarebbe mai nemmeno un giudizio (un pensiero,una conoscenza, sempre fondati su l'a priori); sarebbeun'esclamazione («Che buon vino questo...»), pari a ungesto, a un atto pratico, a un contenuto. Per divenire ungiudizio di valore, è d'uopo che il piacere sia presocome finalità, riducibile a una regola della condotta –nel qual caso avremo un giudizio edonistico –, del tuttosimile al giudizio morale (apodittico), con la differenzache il fine pratico si relativizza al piacere (condizional-mente) come il fine teoretico all'esistere sensibile (ondeil rapporto prammatistico, il valore utilitario come prati-cità del teoretico).

Subordinatamente alla prima, anche l'altra distinzionekantiana fra piaceri interessati e piacere estetico disinte-ressato non è senza confusione. Non potrei sentire unpiacere estetico se non avessi un interesse estetico, chia-mato appunto il «gusto». Essere o no interessato è un at-tributo, non dei sentimenti – de' quali dire che sono inte-ressati è pleonastico e dire che sono disinteressati è im-proprio – ma dell'attività, e riguarda quindi i fini del vo-lere: è interessata l'attività che si pone per fine il miopiacere e non può dunque presumere (per le ragioniesposte dal Kant sul «mi piace») che la norma della suacondotta divenga norma universale; è disinteressato il

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volere che si propone un fine indipendente, ossia tra-scendente il piacere – il soggetto empirico come l'ogget-to empirico –, anche se accompagnata dal piacere com'èper eccellenza il caso del pensiero puro. Ma se un giudi-zio puro è disinteressato perchè universale, non se nededuce che un giudizio estetico sia universale perchè di-sinteressato. La definizione soggettivistica kantiana delbello lo escluderebbe: se quel palazzo è bello perchè mipiace disinteressatamente – se la bellezza è un «dono»che gli uomini fanno al mondo –, posso sperare chepiaccia anche agli altri, non trattandosi d'un mio partico-lare egoismo; ma che importa questa totalità numerica?un intero teatro applaudirà a un'opera d'arte mentre cheun comizio finirà a bastonate; tuttavia, qui si combatto-no degli imperativi morali, là si combina un consenso disentimenti individuali.

D'altra parte, la contemplazione estetica, essendo pia-cere già raggiunto, pago di sè, che non si trascende, èsenza finalità: se non la possiamo chiamare interessata,perchè non ha un fine subiettivo, non la dovremmo nep-pur chiamare disinteressata non avendo fine obbiettivo.Resta che disinteressato sia, proprio, il piacere... Ma unpiacere disinteressato non è più nemmeno piacere; e in-fatti il Kant esclude dall'estetico, non soltanto il piacereche ci vien dall'utilità d'una cosa o dalla praticità in ge-nere, ma anche il piacere sensibile, il piacere che unasensazione produce come tale, per es, il sapore d'un frut-to, e perfino il colore; quasi che ogni qualità sensibilenon potesse entrare in un rapporto estetico per un uomo

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volere che si propone un fine indipendente, ossia tra-scendente il piacere – il soggetto empirico come l'ogget-to empirico –, anche se accompagnata dal piacere com'èper eccellenza il caso del pensiero puro. Ma se un giudi-zio puro è disinteressato perchè universale, non se nededuce che un giudizio estetico sia universale perchè di-sinteressato. La definizione soggettivistica kantiana delbello lo escluderebbe: se quel palazzo è bello perchè mipiace disinteressatamente – se la bellezza è un «dono»che gli uomini fanno al mondo –, posso sperare chepiaccia anche agli altri, non trattandosi d'un mio partico-lare egoismo; ma che importa questa totalità numerica?un intero teatro applaudirà a un'opera d'arte mentre cheun comizio finirà a bastonate; tuttavia, qui si combatto-no degli imperativi morali, là si combina un consenso disentimenti individuali.

D'altra parte, la contemplazione estetica, essendo pia-cere già raggiunto, pago di sè, che non si trascende, èsenza finalità: se non la possiamo chiamare interessata,perchè non ha un fine subiettivo, non la dovremmo nep-pur chiamare disinteressata non avendo fine obbiettivo.Resta che disinteressato sia, proprio, il piacere... Ma unpiacere disinteressato non è più nemmeno piacere; e in-fatti il Kant esclude dall'estetico, non soltanto il piacereche ci vien dall'utilità d'una cosa o dalla praticità in ge-nere, ma anche il piacere sensibile, il piacere che unasensazione produce come tale, per es, il sapore d'un frut-to, e perfino il colore; quasi che ogni qualità sensibilenon potesse entrare in un rapporto estetico per un uomo

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di gusto. Ciò conduce il Kant a intendere la bellezzacome un piacere, non del senso (come «Mi piace il vinodelle Canarie») ma della pura intuizione visiva (come ildisegno) e uditiva (come la figura musicale), escludendoi sensi più organici e più caldi: il che lo trascina a divi-dere, oltre che a distinguere, la bellezza dagli altri valo-ri, considerando bella la pura linea (bellezza libera) chefa piacere per sè stessa, salvo ad aggiungersi, per cosìdire, dal di fuori (come bellezza «aderente») agli oggettiche hanno altri valori (e quindi puramente ornamentale).Sulla stessa via di un'errata divisione dell'oggetto esteti-co, il romanticismo lo limitò alla «fantasia» e lo esclusedalla sensibilità, come se quegli alberi laggiù non fosse-ro sensibilmente belli, e come se il bello fosse soltantoinvenzione per mezzo d'immagini riprodotte e nuova-mente combinate, e non fosse la sensibilità quella che lerealizza.

5. – Frattanto, però; il discorso è passato dalla discus-sione sulla pura soggettività del bello come piacere este-tico alla inevitabile ricerca d'un oggetto bello; il che ciriporta sul vero terreno del valore estetico che, se fossesolo sentimento, non sarebbe un valore – e il giudizio «èbello» sarebbe una constatazione psicologica come ilgiudizio e mi piace» –, e se è un valore, dev'essere il va-lore di un rapporto cosciente, di un rapporto di soggettoa oggetto.

Noi qui attendevamo il Kant, perchè sentivamo tuttala novità e l'importanza metafisica dei concetti esposti

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di gusto. Ciò conduce il Kant a intendere la bellezzacome un piacere, non del senso (come «Mi piace il vinodelle Canarie») ma della pura intuizione visiva (come ildisegno) e uditiva (come la figura musicale), escludendoi sensi più organici e più caldi: il che lo trascina a divi-dere, oltre che a distinguere, la bellezza dagli altri valo-ri, considerando bella la pura linea (bellezza libera) chefa piacere per sè stessa, salvo ad aggiungersi, per cosìdire, dal di fuori (come bellezza «aderente») agli oggettiche hanno altri valori (e quindi puramente ornamentale).Sulla stessa via di un'errata divisione dell'oggetto esteti-co, il romanticismo lo limitò alla «fantasia» e lo esclusedalla sensibilità, come se quegli alberi laggiù non fosse-ro sensibilmente belli, e come se il bello fosse soltantoinvenzione per mezzo d'immagini riprodotte e nuova-mente combinate, e non fosse la sensibilità quella che lerealizza.

5. – Frattanto, però; il discorso è passato dalla discus-sione sulla pura soggettività del bello come piacere este-tico alla inevitabile ricerca d'un oggetto bello; il che ciriporta sul vero terreno del valore estetico che, se fossesolo sentimento, non sarebbe un valore – e il giudizio «èbello» sarebbe una constatazione psicologica come ilgiudizio e mi piace» –, e se è un valore, dev'essere il va-lore di un rapporto cosciente, di un rapporto di soggettoa oggetto.

Noi qui attendevamo il Kant, perchè sentivamo tuttala novità e l'importanza metafisica dei concetti esposti

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nelle brevi linee sopra citate in nota: prima di porre qua-lunque rapporto fra noi e il mondo sensibile (dice in so-stanza il Kant), e indipendentemente dalla realtà delmondo e dalle idealità in antinomia pratica con esso (an-tinomia mai del tutto placata nelle sintesi approssimati-ve della conoscenza), il pensiero trova, nella sempliceintuizione dello stesso sensibile, un valore che giudicauniversalmente, benchè senza concetto, perchè piaceresenza interesse. Ma (torniamo a chiedere), poi che «sen-za interesse» non è ormai che un ripetere, che tal senti-mento è senza rapporto ai fini pratici e all'essere reale –condizione negativa, distinzione (ma non divisione)dell'estetico dal pratico e dal teoretico –, perchè, a checondizione positiva ci piace dunque l'estetico?

Anche noi siamo convinti che il giudizio «è bello» siaun giudizio di valore alla pari di «è buono», e tuttaviadistinto da questo come dal giudizio di realtà «è vero».Nel contempo, siamo anche noi convinti che il primo,nella sua forma spontanea, si basi di fatto sul sentimen-to piacevole della contemplazione estetica, senza deri-vare il proprio criterio da alcun principio; ma ciò non to-glie che un tal principio ci debba essere (e che la filoso-fia lo debba cercare). Infatti, il medesimo si potrebbedire di tutti i giudizi di valore, presi nella lor forma em-pirica: anche il giudizio «è buono», sulla bocca di tutti,s'ispira al sentimento suscitato alla vista d'una buonaazione, appunto in quanto che questo sentimento basta arappresentarmi spontaneamente il valore morale: manon definisce il bene; come pure, nelle conoscenze per-

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nelle brevi linee sopra citate in nota: prima di porre qua-lunque rapporto fra noi e il mondo sensibile (dice in so-stanza il Kant), e indipendentemente dalla realtà delmondo e dalle idealità in antinomia pratica con esso (an-tinomia mai del tutto placata nelle sintesi approssimati-ve della conoscenza), il pensiero trova, nella sempliceintuizione dello stesso sensibile, un valore che giudicauniversalmente, benchè senza concetto, perchè piaceresenza interesse. Ma (torniamo a chiedere), poi che «sen-za interesse» non è ormai che un ripetere, che tal senti-mento è senza rapporto ai fini pratici e all'essere reale –condizione negativa, distinzione (ma non divisione)dell'estetico dal pratico e dal teoretico –, perchè, a checondizione positiva ci piace dunque l'estetico?

Anche noi siamo convinti che il giudizio «è bello» siaun giudizio di valore alla pari di «è buono», e tuttaviadistinto da questo come dal giudizio di realtà «è vero».Nel contempo, siamo anche noi convinti che il primo,nella sua forma spontanea, si basi di fatto sul sentimen-to piacevole della contemplazione estetica, senza deri-vare il proprio criterio da alcun principio; ma ciò non to-glie che un tal principio ci debba essere (e che la filoso-fia lo debba cercare). Infatti, il medesimo si potrebbedire di tutti i giudizi di valore, presi nella lor forma em-pirica: anche il giudizio «è buono», sulla bocca di tutti,s'ispira al sentimento suscitato alla vista d'una buonaazione, appunto in quanto che questo sentimento basta arappresentarmi spontaneamente il valore morale: manon definisce il bene; come pure, nelle conoscenze per-

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cettive, il sensibile basta a rappresentarmi una «cosa» inuna sintesi spontanea. Ciò non autorizza la critica a con-cludere, che il principio e il fondamento d'un giudiziomorale o teoretico siano il sentimento o il sensibile;anzi, per non cadere nello scetticismo empirista, la criti-ca è obbligata a ricercare le condizioni a priori per lequali sia possibile il valore pratico o teoretico di queigiudizi sentimentali o percettivi.

Piuttosto osserviamo che la critica della ragion pura edella ragion pratica non sarebbero mai state scritte, se ilvero e il bene fosser cose già date e bastasse aprir gli oc-chi per contemplarle; e chi crede di posseder quei valorisol perchè percepisce e agisce, chi non dubita e non hacrisi morali, può fare a meno d'indagare che cosa debba-no essere in sè. Sol in quanto il vero e il bene sono la fa-ticosa e dolorosa ricerca degli uomini, l'inappagata loroaspirazione suprema, sol in quanto cioè sono attività epensiero, sopravviene la filosofia per offrire ad essi unfondamento e un criterio.

Ebbene, anche per il bello, non è mica detto che siasolamente contemplazione, valore già dato, bellezza «dinatura»; nè che si tratti soltanto d'intuizione o sentimen-to, immediatezza e spontaneità (vita) che non divengapoi altro. Noi non crediamo a tutto ciò: e pur mentre di-stingueremo ancora la cosiddetta bellezza di naturadall'arte, intendiamo quest'ultima come pensiero e attivi-tà tesi a un proprio fine; e questo fine ha bisogno che lafilosofia lo ponga in forma pura, per apparire all'autoco-scienza come principio del bello e come finalità

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cettive, il sensibile basta a rappresentarmi una «cosa» inuna sintesi spontanea. Ciò non autorizza la critica a con-cludere, che il principio e il fondamento d'un giudiziomorale o teoretico siano il sentimento o il sensibile;anzi, per non cadere nello scetticismo empirista, la criti-ca è obbligata a ricercare le condizioni a priori per lequali sia possibile il valore pratico o teoretico di queigiudizi sentimentali o percettivi.

Piuttosto osserviamo che la critica della ragion pura edella ragion pratica non sarebbero mai state scritte, se ilvero e il bene fosser cose già date e bastasse aprir gli oc-chi per contemplarle; e chi crede di posseder quei valorisol perchè percepisce e agisce, chi non dubita e non hacrisi morali, può fare a meno d'indagare che cosa debba-no essere in sè. Sol in quanto il vero e il bene sono la fa-ticosa e dolorosa ricerca degli uomini, l'inappagata loroaspirazione suprema, sol in quanto cioè sono attività epensiero, sopravviene la filosofia per offrire ad essi unfondamento e un criterio.

Ebbene, anche per il bello, non è mica detto che siasolamente contemplazione, valore già dato, bellezza «dinatura»; nè che si tratti soltanto d'intuizione o sentimen-to, immediatezza e spontaneità (vita) che non divengapoi altro. Noi non crediamo a tutto ciò: e pur mentre di-stingueremo ancora la cosiddetta bellezza di naturadall'arte, intendiamo quest'ultima come pensiero e attivi-tà tesi a un proprio fine; e questo fine ha bisogno che lafilosofia lo ponga in forma pura, per apparire all'autoco-scienza come principio del bello e come finalità

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dell'arte: come valore. È ciò che ora ci proponiamo.Intanto, dicevo, lo stesso Kant è costretto a dare un

oggetto al soggetto estetico, al piacere, e tal oggetto èl'«immagine» come forma (sensibile), come «figura»:l'immagine in quanto presente nella sintesi a posteriori(spieghiamo noi) indipendentemente da ciò che rappre-senta e che vale praticamente. Il bello dunque, se non èil fenomeno, ossia quell'empirica oggettività che chia-miamo «sensazione», non è nemmeno il solo sentimen-to, empirica soggettività. Ma forse fu il timore di con-fondere – facile confusione, trattandosi della medesimaesistenza immediata – fra real sensazione, presa in sensoastratto e psicologico (o meglio, fisiologico, trattandosid'un concetto di natura), e forma sensibile, qualità o rap-porto fra le qualità sensibili, ciò che spinse il Kant a ri-fiutare ogni obbiettività dell'estetico (e quindi ogni ra-gione di questo valore) per rifugiarsi nel mero piaceresoggettivo. Egli forse dubitava che, dicendo che l'esteti-co appartiene al sensibile, si dovesse inferire che dipen-da dal concetto reale, dal «fuori di me» rappresentatodal sensibile.

Mai come qui il timore fu figlio della colpa! La con-fusione c'era già infatti nello stesso Kant (è l'ultima chegl'imputeremo) laddove spiega la ragione del piacereestetico come una causalità naturale interposta fral'immagine, che «produce in me» un piacere (e dunquedovrebb'esser qualcosa fuori di me), e il mio piacere chene sarebbe il «prodotto» soggettivo. Kantianamente, il«produrre in me» è un concetto causale che serve benis-

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dell'arte: come valore. È ciò che ora ci proponiamo.Intanto, dicevo, lo stesso Kant è costretto a dare un

oggetto al soggetto estetico, al piacere, e tal oggetto èl'«immagine» come forma (sensibile), come «figura»:l'immagine in quanto presente nella sintesi a posteriori(spieghiamo noi) indipendentemente da ciò che rappre-senta e che vale praticamente. Il bello dunque, se non èil fenomeno, ossia quell'empirica oggettività che chia-miamo «sensazione», non è nemmeno il solo sentimen-to, empirica soggettività. Ma forse fu il timore di con-fondere – facile confusione, trattandosi della medesimaesistenza immediata – fra real sensazione, presa in sensoastratto e psicologico (o meglio, fisiologico, trattandosid'un concetto di natura), e forma sensibile, qualità o rap-porto fra le qualità sensibili, ciò che spinse il Kant a ri-fiutare ogni obbiettività dell'estetico (e quindi ogni ra-gione di questo valore) per rifugiarsi nel mero piaceresoggettivo. Egli forse dubitava che, dicendo che l'esteti-co appartiene al sensibile, si dovesse inferire che dipen-da dal concetto reale, dal «fuori di me» rappresentatodal sensibile.

Mai come qui il timore fu figlio della colpa! La con-fusione c'era già infatti nello stesso Kant (è l'ultima chegl'imputeremo) laddove spiega la ragione del piacereestetico come una causalità naturale interposta fral'immagine, che «produce in me» un piacere (e dunquedovrebb'esser qualcosa fuori di me), e il mio piacere chene sarebbe il «prodotto» soggettivo. Kantianamente, il«produrre in me» è un concetto causale che serve benis-

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simo (purchè sia meglio precisato) se riguarda il rappor-to tutto quanto oggettivo fra l'oggetto collocato nellospazio esterno al mio corpo, per es. quel palazzo perce-pito solido e rappresentato dal sensibile, e l'eccitazionesentita la quale, come sensazione «interna» (per le riso-nanze organiche e per i richiami mnemonici d'ogni ecci-tazione) rappresenta, parimenti, la realtà obbiettivadell'io, il corpo (la vita). Qui però la sensazione fa dacontenuto del conoscere: è il contenuto dell'idea sempli-ce del sensibile (per es. «rosso» astratto per analisi) edei concetti sui sensibili ottenuti per sintesi causale(come quello in discussione). Diverso è il discorso sullasensazione in quanto è forma, attuale esistenza: ivi com-presa la forma dei detti concetti, attuale almeno comelinguaggio. Forma, in tutto e per tutto, d'ogni (implicito)valore: il presentarsi (intuitivo) di questo e il suo attualefarsi (pratico) in una figura sensibile, che ne diviene lacontingente individualità.

6. – Fin che la sensazione fa da contenuto del pensie-ro, essa non è che un dato, un punto di partenza, un li-mite e una condizione del conoscere. Il Kant, in sedegnoseologica, la chiamò – provvisoriamente – «sintesi aposteriori» perchè pensava all'analisi, ch'è l'operazioneconoscitiva (attività pratico teoretica, almeno comeguardare, fissare, osservare e quindi distinguere) che viòpera sopra, sia ch'io mi contenti di rilevare e distingue-re nel complesso della mia presente sensibilità questoacuto fischio di sirena che mi lacera l'udito, sia che di

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simo (purchè sia meglio precisato) se riguarda il rappor-to tutto quanto oggettivo fra l'oggetto collocato nellospazio esterno al mio corpo, per es. quel palazzo perce-pito solido e rappresentato dal sensibile, e l'eccitazionesentita la quale, come sensazione «interna» (per le riso-nanze organiche e per i richiami mnemonici d'ogni ecci-tazione) rappresenta, parimenti, la realtà obbiettivadell'io, il corpo (la vita). Qui però la sensazione fa dacontenuto del conoscere: è il contenuto dell'idea sempli-ce del sensibile (per es. «rosso» astratto per analisi) edei concetti sui sensibili ottenuti per sintesi causale(come quello in discussione). Diverso è il discorso sullasensazione in quanto è forma, attuale esistenza: ivi com-presa la forma dei detti concetti, attuale almeno comelinguaggio. Forma, in tutto e per tutto, d'ogni (implicito)valore: il presentarsi (intuitivo) di questo e il suo attualefarsi (pratico) in una figura sensibile, che ne diviene lacontingente individualità.

6. – Fin che la sensazione fa da contenuto del pensie-ro, essa non è che un dato, un punto di partenza, un li-mite e una condizione del conoscere. Il Kant, in sedegnoseologica, la chiamò – provvisoriamente – «sintesi aposteriori» perchè pensava all'analisi, ch'è l'operazioneconoscitiva (attività pratico teoretica, almeno comeguardare, fissare, osservare e quindi distinguere) che viòpera sopra, sia ch'io mi contenti di rilevare e distingue-re nel complesso della mia presente sensibilità questoacuto fischio di sirena che mi lacera l'udito, sia che di

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proposito adoperi i più perfetti mezzi e strumenti d'inda-gine scientifica per risalire alle cause, e cioè a quellesintesi che su l'analisi costruiscono i concetti reali, sosti-tuendo alla sintesi empirica ed extrarazionale (contin-genza qualitativa del fatto) l'identità e universalitàdell'idea.

Però, anche per il Kant, la sintesi a posteriori esistecosì come si presenta nella sua contiguità di qualità di-verse e qualunque sia l'essenza a cui si voglia e si possarisalire per spiegare la diversità qualitativa e la contigui-tà contingente. Invero, le «qualità» di cui discorriamosono già idee – il primo farsi dell'idea: l'idea elementare–, ma si tratta di generalizzazioni d'analisi, che non con-tengono (e i loro termini, come «rosso» e «diverso» nonrappresentano) altra realtà oltre l'esistenza attuale o pos-sibile di sensibili. In una data sintesi a posteriori noipossiamo sempre fare (con l'attenzione) un'analisiastraente che conduce a un'idea di rapporto, ossia a unasintesi conoscitiva; ma, per ora, questa è una generaliz-zazione (universalità, possibilità all'infinito) dell'espe-rienza: per es., rapporto (o idea) di diversità del coloredal suono, del suono «do» dal suono «mi» ecc., che di-viene molteplicità in genere; rapporto di estensione (peres. di quel rosso nella contiguità d'altri colori); e rappor-to di continuità o durata (per es. di questo suono rispettoad altri sensibili contigui che variano mentr'esso dura odurano mentr'esso varia), che divengon rapporti spaziotemporali in genere; ecc. ecc. Anzi, nella medesima su-perfice rossa possiamo distinguere un'infinità di punti e

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proposito adoperi i più perfetti mezzi e strumenti d'inda-gine scientifica per risalire alle cause, e cioè a quellesintesi che su l'analisi costruiscono i concetti reali, sosti-tuendo alla sintesi empirica ed extrarazionale (contin-genza qualitativa del fatto) l'identità e universalitàdell'idea.

Però, anche per il Kant, la sintesi a posteriori esistecosì come si presenta nella sua contiguità di qualità di-verse e qualunque sia l'essenza a cui si voglia e si possarisalire per spiegare la diversità qualitativa e la contigui-tà contingente. Invero, le «qualità» di cui discorriamosono già idee – il primo farsi dell'idea: l'idea elementare–, ma si tratta di generalizzazioni d'analisi, che non con-tengono (e i loro termini, come «rosso» e «diverso» nonrappresentano) altra realtà oltre l'esistenza attuale o pos-sibile di sensibili. In una data sintesi a posteriori noipossiamo sempre fare (con l'attenzione) un'analisiastraente che conduce a un'idea di rapporto, ossia a unasintesi conoscitiva; ma, per ora, questa è una generaliz-zazione (universalità, possibilità all'infinito) dell'espe-rienza: per es., rapporto (o idea) di diversità del coloredal suono, del suono «do» dal suono «mi» ecc., che di-viene molteplicità in genere; rapporto di estensione (peres. di quel rosso nella contiguità d'altri colori); e rappor-to di continuità o durata (per es. di questo suono rispettoad altri sensibili contigui che variano mentr'esso dura odurano mentr'esso varia), che divengon rapporti spaziotemporali in genere; ecc. ecc. Anzi, nella medesima su-perfice rossa possiamo distinguere un'infinità di punti e

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linee, nella medesima durata un'infinità di momenti, econcepir poi quel rosso e questo suono come l'unitàd'elementi in uno spazio e in un tempo puramente nomi-nali che li contengano, convenendo questa scomposizio-ne e ricomposizione al bisogno di misurare. Ma se, permisurarlo, io dico che quel rosso è il risultato di 50 per30 cmq. di rosso, non ne muto minimamente il valorereale, che coincide con l'attuale o la possibile esistenzad'un rosso.

Anche considerando la forma più pura (più vera) delsapere teoretico, la matematica, ch'è l'ultimo gradoastraente del conoscere per analisi dei semplici contenu-ti intuitivi, essa, certo, vale come sintesi a priori costrui-ta su l'analisi – basterebbero, per convincerne, le idee diunità, (ossia di quantità), di x più 1 (ossia d'infinito) e dix = 1 (ossia d'identità) costruite sulla molteplicità quali-tativa –; ma queste sintesi sono formali e la loro realtàcoincide con l'applicabilità delle formule (nessuno esigeche un'equazione matematica, per essere vera, si debbarealizzare in sè, fuori dell'esperienza): sono verità tra-scendentali ma non trascendenti le esistenze. Ora, dellostesso tipo, come sappiamo, sono tutte le sintesi pura-mente a priori, che sono valori in quanto fini obbiettivatiin giudizi sintetici a priori, norme e regole per conosceree per agire. E noi sappiamo che tutti i concetti «reali»s'intercalano fra quei contenuti astratti della pura analisie queste idee pure a priori che divengono valori logiciproprio in quanto si applicano a giudicare per analisi o aunificare (spiegare) per sintesi le qualità e i rapporti

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linee, nella medesima durata un'infinità di momenti, econcepir poi quel rosso e questo suono come l'unitàd'elementi in uno spazio e in un tempo puramente nomi-nali che li contengano, convenendo questa scomposizio-ne e ricomposizione al bisogno di misurare. Ma se, permisurarlo, io dico che quel rosso è il risultato di 50 per30 cmq. di rosso, non ne muto minimamente il valorereale, che coincide con l'attuale o la possibile esistenzad'un rosso.

Anche considerando la forma più pura (più vera) delsapere teoretico, la matematica, ch'è l'ultimo gradoastraente del conoscere per analisi dei semplici contenu-ti intuitivi, essa, certo, vale come sintesi a priori costrui-ta su l'analisi – basterebbero, per convincerne, le idee diunità, (ossia di quantità), di x più 1 (ossia d'infinito) e dix = 1 (ossia d'identità) costruite sulla molteplicità quali-tativa –; ma queste sintesi sono formali e la loro realtàcoincide con l'applicabilità delle formule (nessuno esigeche un'equazione matematica, per essere vera, si debbarealizzare in sè, fuori dell'esperienza): sono verità tra-scendentali ma non trascendenti le esistenze. Ora, dellostesso tipo, come sappiamo, sono tutte le sintesi pura-mente a priori, che sono valori in quanto fini obbiettivatiin giudizi sintetici a priori, norme e regole per conosceree per agire. E noi sappiamo che tutti i concetti «reali»s'intercalano fra quei contenuti astratti della pura analisie queste idee pure a priori che divengono valori logiciproprio in quanto si applicano a giudicare per analisi o aunificare (spiegare) per sintesi le qualità e i rapporti

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qualitativi dell'esperienza. Il che è come dire che le esi-stenze non sono intelligibili che nel dover essere ideale,ma questo non è realizzabile che nell'esistere o attualitàdell'essere.

Perciò, conclude la gnoseologia, in quanto il sensibileè contenuto dell'analisi (per diventare oggetto della sin-tesi), essa lo può impoverire e spogliare di tutte le suequalità – al solo isolarlo lo impoverisce! –, fin a ridurloa semplice rapporto quantitativo spazio temporale: ditutte, ma non dell'esistenza, nè quindi della certezza cheaccompagna la presenza o, in proporzione, la «possibili-tà» del sensibile. E in quanto poi questo diviene oggettonella sintesi a priori, essa può sostituire alle qualità sen-sibili, per antinomia pratica o per opposizione dialettica,tutti i valori puri, che chiamiamo «spirito», dettati dalvolere che dirige l'attività stessa e glie li pone come fini(trascendentali): ma questi valori, rappresentabili in sècome veri, diverranno reali in rapporto all'esistere, chepertanto è l'attuarsi dello «spirito», nel quale rientra la«natura» come finalità obbiettiva del conoscere.

Allora, in sede metafisica, dobbiamo seguire il cam-mino inverso a quello della gnoseologia, ritornando dal-la dialettica all'estetica, che ci definisca l'esperienzapura, la pura esistenza sensibile. Orbene: in quanto ilsensibile non è più o non è ancora un astratto contenuto(a posteriori) di concetti (per es. il concetto stesso di«sensazione»); nè quindi più vale soltanto come rappre-sentazione di cose e di fatti (di sostanze e cause) postifuori ed oltre di esso, che cos'è, se non pura forma, la

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qualitativi dell'esperienza. Il che è come dire che le esi-stenze non sono intelligibili che nel dover essere ideale,ma questo non è realizzabile che nell'esistere o attualitàdell'essere.

Perciò, conclude la gnoseologia, in quanto il sensibileè contenuto dell'analisi (per diventare oggetto della sin-tesi), essa lo può impoverire e spogliare di tutte le suequalità – al solo isolarlo lo impoverisce! –, fin a ridurloa semplice rapporto quantitativo spazio temporale: ditutte, ma non dell'esistenza, nè quindi della certezza cheaccompagna la presenza o, in proporzione, la «possibili-tà» del sensibile. E in quanto poi questo diviene oggettonella sintesi a priori, essa può sostituire alle qualità sen-sibili, per antinomia pratica o per opposizione dialettica,tutti i valori puri, che chiamiamo «spirito», dettati dalvolere che dirige l'attività stessa e glie li pone come fini(trascendentali): ma questi valori, rappresentabili in sècome veri, diverranno reali in rapporto all'esistere, chepertanto è l'attuarsi dello «spirito», nel quale rientra la«natura» come finalità obbiettiva del conoscere.

Allora, in sede metafisica, dobbiamo seguire il cam-mino inverso a quello della gnoseologia, ritornando dal-la dialettica all'estetica, che ci definisca l'esperienzapura, la pura esistenza sensibile. Orbene: in quanto ilsensibile non è più o non è ancora un astratto contenuto(a posteriori) di concetti (per es. il concetto stesso di«sensazione»); nè quindi più vale soltanto come rappre-sentazione di cose e di fatti (di sostanze e cause) postifuori ed oltre di esso, che cos'è, se non pura forma, la

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forma di tutto? Come «esiste», tutto, e quindi ancheogni «valore», reale o ideale che sia, oggettivo o sogget-tivo, se non in un contingente rapporto di qualità, sensi-bilmente? Questo rapporto, noi lo chiameremo per anto-nomasia «immagine» (o «idea» da «video») allorchè dinuovo lo riferiremo a un oggetto in sè (per es. l'immagi-ne di quel palazzo); oppure lo chiameremo «espressio-ne» (o «figura», da «fingo») allorchè lo riferiremo a unafinalità o soggetto in sè (per es. l'espressione di questopensiero): ma quell'oggetto e questo soggetto, che anti-nomizzati ed esplicati (nel pensarli) divengono gli apriori dei contenuti sensibili, sono sempre, inversamen-te, contenuti d'una forma estetica (almeno verbale) cheimplicitamente li «presenta» uniti, e perciò appunto lipuò rappresentare in sè: può diventare, come vide ilKant, condizione esistenziale del giudizio reale (condi-zione della facoltà di giudicare obbiettivamente, verace-mente). Basta ricomporre la sintesi a posteriori e consi-derarla per sè medesima (vale a dire, non più a posterio-ri), per trovare la sua propria forma, il suo immanentevalore.

Il ripiegarsi della filosofia dalla dialettica trascenden-tale all'estetica ond'era partita, segna l'esito naturale delcriticismo verso una metafisica dell'esperienza pura,nella quale infatti s'aggira il pensiero nuovo di questi ul-timi cinquant'anni, dalla «filosofia dell'immanenza» alla«metafisica del finito»: nominalista e prammatista, con-tingentista e intuizionista, soggettivista e attualista.L'insidia mortale che vi si nasconde sta nel pericolo di

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forma di tutto? Come «esiste», tutto, e quindi ancheogni «valore», reale o ideale che sia, oggettivo o sogget-tivo, se non in un contingente rapporto di qualità, sensi-bilmente? Questo rapporto, noi lo chiameremo per anto-nomasia «immagine» (o «idea» da «video») allorchè dinuovo lo riferiremo a un oggetto in sè (per es. l'immagi-ne di quel palazzo); oppure lo chiameremo «espressio-ne» (o «figura», da «fingo») allorchè lo riferiremo a unafinalità o soggetto in sè (per es. l'espressione di questopensiero): ma quell'oggetto e questo soggetto, che anti-nomizzati ed esplicati (nel pensarli) divengono gli apriori dei contenuti sensibili, sono sempre, inversamen-te, contenuti d'una forma estetica (almeno verbale) cheimplicitamente li «presenta» uniti, e perciò appunto lipuò rappresentare in sè: può diventare, come vide ilKant, condizione esistenziale del giudizio reale (condi-zione della facoltà di giudicare obbiettivamente, verace-mente). Basta ricomporre la sintesi a posteriori e consi-derarla per sè medesima (vale a dire, non più a posterio-ri), per trovare la sua propria forma, il suo immanentevalore.

Il ripiegarsi della filosofia dalla dialettica trascenden-tale all'estetica ond'era partita, segna l'esito naturale delcriticismo verso una metafisica dell'esperienza pura,nella quale infatti s'aggira il pensiero nuovo di questi ul-timi cinquant'anni, dalla «filosofia dell'immanenza» alla«metafisica del finito»: nominalista e prammatista, con-tingentista e intuizionista, soggettivista e attualista.L'insidia mortale che vi si nasconde sta nel pericolo di

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adeguare tutto il Valore alla mera esistenza: di prenderel'intuizione sensibile, l'estetico, come conoscenza, o adirittura possesso dell'assoluto reale; e di prender l'attua-lità come eticità, spirito tutto in atto. Il che è rinunciareall'a priori scoperto dal criticismo, al trascendentalestesso logico e pratico; e ritornare al nominalismo me-dievale, salvo, come allora, il rifugiarsi nella mistica in-tuizionistica22.

7. – Evitiàmo d'incedere fra sì dolose ceneri e ritor-niàmo al Kant, nel quale almeno appar chiara l'intenzio-ne di distinguere criticamente il valore estetico dagli al-tri valori, definendo al tempo stesso i loro rapporti. Peril Kant infatti, l'intuizione estetica, quantunque sia con-dizione della conoscenza – non solamente come dato elimite a posteriori, ma anche in quanto la contemplazio-ne disinteressata condiziona psicologicamente il giudi-zio obbiettivo riflettente –, non è una conoscenza, man-cando di concettualità (il bello non è il vero); e il piace-re estetico, quantunque preluda e introduca alla coscien-za etica, con la quale lo sentiamo affine, non è un senti-mento morale (il bello non è il bene), mancando di nor-matività come di finalità pratica.

Però, egli aggiunge (e ciò segna il momento metafisi-co della sua estetica), la forma sensibile, tal quale si pre-senta immediatamente nell'intuizione di un «bello di na-

22 Misticismo e nominalismo sono complementari negli occa-misti, e si risolvono nell'ammissione antifilosofica di una «doppiaverità».

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adeguare tutto il Valore alla mera esistenza: di prenderel'intuizione sensibile, l'estetico, come conoscenza, o adirittura possesso dell'assoluto reale; e di prender l'attua-lità come eticità, spirito tutto in atto. Il che è rinunciareall'a priori scoperto dal criticismo, al trascendentalestesso logico e pratico; e ritornare al nominalismo me-dievale, salvo, come allora, il rifugiarsi nella mistica in-tuizionistica22.

7. – Evitiàmo d'incedere fra sì dolose ceneri e ritor-niàmo al Kant, nel quale almeno appar chiara l'intenzio-ne di distinguere criticamente il valore estetico dagli al-tri valori, definendo al tempo stesso i loro rapporti. Peril Kant infatti, l'intuizione estetica, quantunque sia con-dizione della conoscenza – non solamente come dato elimite a posteriori, ma anche in quanto la contemplazio-ne disinteressata condiziona psicologicamente il giudi-zio obbiettivo riflettente –, non è una conoscenza, man-cando di concettualità (il bello non è il vero); e il piace-re estetico, quantunque preluda e introduca alla coscien-za etica, con la quale lo sentiamo affine, non è un senti-mento morale (il bello non è il bene), mancando di nor-matività come di finalità pratica.

Però, egli aggiunge (e ciò segna il momento metafisi-co della sua estetica), la forma sensibile, tal quale si pre-senta immediatamente nell'intuizione di un «bello di na-

22 Misticismo e nominalismo sono complementari negli occa-misti, e si risolvono nell'ammissione antifilosofica di una «doppiaverità».

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tura» (dato cioè nella sintesi a posteriori), rivela un mi-sterioso accordo fra il mondo sensibile e il mondo intel-ligibile, per i quali la forma estetica fa, per così dire, daterreno d'incontro; come, psicologicamente, l'immagina-zione diviene la facoltà media fra il sentire e il pensare.Infatti il Kant chiama anche «idee dell'immaginazione»i valori estetici, per dire che sono idee senza concetto,valori dati nell'immagine o forma fenomenica della sen-sazione, sentita in accordo con l'intelletto ma non dipen-dente da questo.

L'accordo kantiano fra sensibile e sovrasensibile, sen-tito come piacere della pura contemplazione dell'imma-gine, sarebbe dunque esso il principio del bello e del su-blime, com'è la ragione del piacere estetico. Voglio direche, criticamente, il fondamento del giudizio di gustonon è, nemmeno per il Kant, il piacere, ma la sua ragio-ne, l'accordo intuitivo di sensibile e intelligibile; o me-glio, la soggettività o finalità implicita nella semplice«apprehensio» del dato, e quella, aggiungerei, che noistessi implichiamo nell'arte («exibitio») quando appuntoadoperiamo una forma o immagine sensibile per espri-mere quei valori, che il pensiero invece esplica ne' suoigiudizi conoscitivi.

Adunque, per intanto, l'aver detto che il valore esteti-co è soggettivo perchè fondato sul sentimento estetico,era un malinteso. Ogni valore appare psicologicamentecondizionato dal sentimento perchè ogni giudizio, inquanto giudizio «di valore», è mosso dal sentire: perfinoil più teoretico dei giudizi è pratico in quanto la sua mo-

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tura» (dato cioè nella sintesi a posteriori), rivela un mi-sterioso accordo fra il mondo sensibile e il mondo intel-ligibile, per i quali la forma estetica fa, per così dire, daterreno d'incontro; come, psicologicamente, l'immagina-zione diviene la facoltà media fra il sentire e il pensare.Infatti il Kant chiama anche «idee dell'immaginazione»i valori estetici, per dire che sono idee senza concetto,valori dati nell'immagine o forma fenomenica della sen-sazione, sentita in accordo con l'intelletto ma non dipen-dente da questo.

L'accordo kantiano fra sensibile e sovrasensibile, sen-tito come piacere della pura contemplazione dell'imma-gine, sarebbe dunque esso il principio del bello e del su-blime, com'è la ragione del piacere estetico. Voglio direche, criticamente, il fondamento del giudizio di gustonon è, nemmeno per il Kant, il piacere, ma la sua ragio-ne, l'accordo intuitivo di sensibile e intelligibile; o me-glio, la soggettività o finalità implicita nella semplice«apprehensio» del dato, e quella, aggiungerei, che noistessi implichiamo nell'arte («exibitio») quando appuntoadoperiamo una forma o immagine sensibile per espri-mere quei valori, che il pensiero invece esplica ne' suoigiudizi conoscitivi.

Adunque, per intanto, l'aver detto che il valore esteti-co è soggettivo perchè fondato sul sentimento estetico,era un malinteso. Ogni valore appare psicologicamentecondizionato dal sentimento perchè ogni giudizio, inquanto giudizio «di valore», è mosso dal sentire: perfinoil più teoretico dei giudizi è pratico in quanto la sua mo-

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dalità è ispirata dal dubbio o dalla certezza subiettiva.Ma da tal punto di vista (empirico) il Kant poteva con-cluder lo stesso per il valore morale, come ha fatto l'eti-ca del sentimento (dagli inglesi al Brentano), e per larealtà medesima riducibile a un sentimento di attesa,come fece l'empirismo (dallo Hume allo Schuppe)! Lacritica kantiana è fatta apposta per dimostrare, che ungiudizio morale e un giudizio reale sono validi obbietti-vamente e non soggettivamente, in quanto enunciano unprincipio obbiettivo (universale) totalmente a priori o inquanto ne dipendono; e la loro subiettività empirica nonci serve che a rappresentarci soggettivamente la finalitàche si realizza in quell'atto o in quel giudizio.

Ma qui, o rinunciamo a servirci della critica kantiana,o dobbiam penetrarla meglio di quanto sia stato fatto.Siamo alle conclusioni del vecchio filosofo al suo lungofaticoso lavoro: il suo criticismo converge tutto verso lepoche pagine introduttive alla terza Critica; verso questoarcano, sentito accordo fra il sensibile, su cui e per cuicostruiremo i concetti reali, e il sovrasensibile, trascen-dentalità del valore, dover esser a priori che chiamere-mo spirito, e che per il Kant è una realtà assoluta, sì, mapuro-pratica (non teoretica, come la realtà di natura)proprio perchè non relativizzabile al sensibile, all'espe-rienza.

Ora, si potrebbe chiedere: l'accordo fra l'intelligibilenoumenico e il fenomeno sensibile, non l'aveva già po-sto, il Kant, nella conoscenza fenomenica (teoretica)?che cos'è questa, se non il momento in cui il pensiero,

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dalità è ispirata dal dubbio o dalla certezza subiettiva.Ma da tal punto di vista (empirico) il Kant poteva con-cluder lo stesso per il valore morale, come ha fatto l'eti-ca del sentimento (dagli inglesi al Brentano), e per larealtà medesima riducibile a un sentimento di attesa,come fece l'empirismo (dallo Hume allo Schuppe)! Lacritica kantiana è fatta apposta per dimostrare, che ungiudizio morale e un giudizio reale sono validi obbietti-vamente e non soggettivamente, in quanto enunciano unprincipio obbiettivo (universale) totalmente a priori o inquanto ne dipendono; e la loro subiettività empirica nonci serve che a rappresentarci soggettivamente la finalitàche si realizza in quell'atto o in quel giudizio.

Ma qui, o rinunciamo a servirci della critica kantiana,o dobbiam penetrarla meglio di quanto sia stato fatto.Siamo alle conclusioni del vecchio filosofo al suo lungofaticoso lavoro: il suo criticismo converge tutto verso lepoche pagine introduttive alla terza Critica; verso questoarcano, sentito accordo fra il sensibile, su cui e per cuicostruiremo i concetti reali, e il sovrasensibile, trascen-dentalità del valore, dover esser a priori che chiamere-mo spirito, e che per il Kant è una realtà assoluta, sì, mapuro-pratica (non teoretica, come la realtà di natura)proprio perchè non relativizzabile al sensibile, all'espe-rienza.

Ora, si potrebbe chiedere: l'accordo fra l'intelligibilenoumenico e il fenomeno sensibile, non l'aveva già po-sto, il Kant, nella conoscenza fenomenica (teoretica)?che cos'è questa, se non il momento in cui il pensiero,

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che come finalità e libertà (come pura ragione) si anti-nomizza sempre al sensibile, incontrandosi con la mol-teplicità di quest'ultimo la prende a contenuto della cate-goria facendosi «intelletto»? non è, il concetto reale,l'accordo più vero fra i due mondi, il relativizzarsi delfenomeno al valore a priori e il costituirsi reale di questoin conformità all'esistenze oggettive, alla necessità feno-menica?

Giustissimo! risponderebbe il Kant. Ma, avanti tutto,la conoscenza non è un accordo come unità già data ecerta in sè (un'esistenza, noi diremmo, come la sintesi aposteriori): è un processo di unificazione sempre più va-sta dal particolare all'universale della categoria pura(l'essere è il dover essere dell'esistere). Inoltre, è unifi-cazione dei contenuti per opera del pensiero, non unitàdi contenuto (oggettivo) e di pensiero (soggettivo), chèquesto anzi si esclude dalla sintesi (si nega) per raggiun-gere l'obbiettività dell'oggetto dato, la necessità di natu-ra; e quindi, di nuovo, si antinomizza ad essa come spi-ritualità, finalità puro pratica. Allora, da una parte lamolteplicità del sensibile potrebbe sembrarci senz'alcunvalore, senza trascendentalità, e non si capirebbe che ra-gione abbia il pensiero di oggettivarsi in essa come ne-cessità e natura quando potrebbe liberamente obbietti-varsi come finalità e spirito; dall'altra parte, in quanto ilpensiero è autore delle sintesi conoscitive, il suo mondopotrebb'essere nient'altro che il sogno d'un visionario, ela stessa facoltà di conoscere e di giudicare non avrebbealcun fondamento.

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che come finalità e libertà (come pura ragione) si anti-nomizza sempre al sensibile, incontrandosi con la mol-teplicità di quest'ultimo la prende a contenuto della cate-goria facendosi «intelletto»? non è, il concetto reale,l'accordo più vero fra i due mondi, il relativizzarsi delfenomeno al valore a priori e il costituirsi reale di questoin conformità all'esistenze oggettive, alla necessità feno-menica?

Giustissimo! risponderebbe il Kant. Ma, avanti tutto,la conoscenza non è un accordo come unità già data ecerta in sè (un'esistenza, noi diremmo, come la sintesi aposteriori): è un processo di unificazione sempre più va-sta dal particolare all'universale della categoria pura(l'essere è il dover essere dell'esistere). Inoltre, è unifi-cazione dei contenuti per opera del pensiero, non unitàdi contenuto (oggettivo) e di pensiero (soggettivo), chèquesto anzi si esclude dalla sintesi (si nega) per raggiun-gere l'obbiettività dell'oggetto dato, la necessità di natu-ra; e quindi, di nuovo, si antinomizza ad essa come spi-ritualità, finalità puro pratica. Allora, da una parte lamolteplicità del sensibile potrebbe sembrarci senz'alcunvalore, senza trascendentalità, e non si capirebbe che ra-gione abbia il pensiero di oggettivarsi in essa come ne-cessità e natura quando potrebbe liberamente obbietti-varsi come finalità e spirito; dall'altra parte, in quanto ilpensiero è autore delle sintesi conoscitive, il suo mondopotrebb'essere nient'altro che il sogno d'un visionario, ela stessa facoltà di conoscere e di giudicare non avrebbealcun fondamento.

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Il fatto, dunque, che nel sensibile, così come si pre-senta alla semplice contemplazione della sua forma uni-taria, troviamo (sentiamo) un valore (il bello) datodall'accordo con la finalità in genere – soggettività delfenomeno indipendente dall'azione (oggettiva) che il fe-nomeno produce come causa naturale sulla natura delsoggetto (il corpo, come noi abbiam corretto di sopra) –,risponde all'esigenza metafisica, che la «cosa in sè», ildover essere dalla parte del fenomeno, nell'incontroestetico si unifichi con la libertà noumenica o finalitàpura; e si possa pensare che la natura in sè abbia confor-mità con lo spirito: il che (aggiunge il Kant) ci può an-che servire di canone nell'indagine sulla natura, mentreci autorizza a pensarla come intelligibile, a giudicarlaanche in sè.

Queste le conclusioni metafisiche dell'estetica kantia-na, alla quale riallacceremo la nostra. Se ci riesce diepurare il criticismo dai residui del realismo psicologi-sta – chiamo così il dualismo, cioè il credere che unarealtà fuori di me divenga o produca un realtà in me, op-pure il viceversa spiritualista –, codesta vaga premoni-zione kantiana d'un arcano accordo di soggetto e oggettosospesa a un sentimento estetico di valore puramente su-biettivo, uscirà, mi pare, dalle nebbie così care ai poste-riori romantici, e acquisterà consistenza filosofica, ossiarazionale.

8. – Rifacciàmoci un istante a quella finestra cheaprimmo all'inizio del presente capitolo: quel rosso è la

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Il fatto, dunque, che nel sensibile, così come si pre-senta alla semplice contemplazione della sua forma uni-taria, troviamo (sentiamo) un valore (il bello) datodall'accordo con la finalità in genere – soggettività delfenomeno indipendente dall'azione (oggettiva) che il fe-nomeno produce come causa naturale sulla natura delsoggetto (il corpo, come noi abbiam corretto di sopra) –,risponde all'esigenza metafisica, che la «cosa in sè», ildover essere dalla parte del fenomeno, nell'incontroestetico si unifichi con la libertà noumenica o finalitàpura; e si possa pensare che la natura in sè abbia confor-mità con lo spirito: il che (aggiunge il Kant) ci può an-che servire di canone nell'indagine sulla natura, mentreci autorizza a pensarla come intelligibile, a giudicarlaanche in sè.

Queste le conclusioni metafisiche dell'estetica kantia-na, alla quale riallacceremo la nostra. Se ci riesce diepurare il criticismo dai residui del realismo psicologi-sta – chiamo così il dualismo, cioè il credere che unarealtà fuori di me divenga o produca un realtà in me, op-pure il viceversa spiritualista –, codesta vaga premoni-zione kantiana d'un arcano accordo di soggetto e oggettosospesa a un sentimento estetico di valore puramente su-biettivo, uscirà, mi pare, dalle nebbie così care ai poste-riori romantici, e acquisterà consistenza filosofica, ossiarazionale.

8. – Rifacciàmoci un istante a quella finestra cheaprimmo all'inizio del presente capitolo: quel rosso è la

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casa d'un mio buon amico, quel blù è il mare dove desi-dero andare; qui passa un'automobile, là una prudentemamma prende in braccio il suo bambino per attraversa-re la strada.

Tutti questi son giudizi «determinanti», già implicitinella percezione dove quel rosso rappresenta una casa ol'atto di questa donna rappresenta l'amor materno. Que-ste determinazioni deduttive presuppongono, si capisce,un precedente processo «riflettente» che, su l'analisicomparativa dell'esperienza, raggruppando alcune quali-tà più stabili e inferendone alcuni rapporti più costanti,abbia formato i concetti, come casa e mare, o come ami-cizia e prudenza; e si capisce del pari che ciascuno liavrà formati, non per illuminazione divina e per scienzainnata, ma diversamente scegliendo e valutando, e poigeneralizzando, fra gl'infiniti aspetti dell'esperienza sollimitata dalle capacità sensibili – limiti che gli strumentie i mezzi d'osservazione posson allargare –, secondo ilproprio interesse e sforzo conoscitivo: quella casa nonsarà la stessa «cosa» per un ingegnere e per la mia do-mestica, questo amor materno non avrà lo stesso «valo-re» per me e per quel bimbo. Se poi ci fosse qui un os-servatore più esatto, quel rosso diventa l'area ottenutamoltiplicandone la base per l'altezza e la velocità di que-sta macchina diventa lo spazio percorso diviso per iltempo; ossia, trattandosi di concetti astraenti, ci vorrà unlinguaggio (un artificio sensibile) per rappresentarceli.

Tutto ciò riguarda l'operazione conoscitiva, la genesidella conoscenza. Ma, determinante o riflettente che sia

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casa d'un mio buon amico, quel blù è il mare dove desi-dero andare; qui passa un'automobile, là una prudentemamma prende in braccio il suo bambino per attraversa-re la strada.

Tutti questi son giudizi «determinanti», già implicitinella percezione dove quel rosso rappresenta una casa ol'atto di questa donna rappresenta l'amor materno. Que-ste determinazioni deduttive presuppongono, si capisce,un precedente processo «riflettente» che, su l'analisicomparativa dell'esperienza, raggruppando alcune quali-tà più stabili e inferendone alcuni rapporti più costanti,abbia formato i concetti, come casa e mare, o come ami-cizia e prudenza; e si capisce del pari che ciascuno liavrà formati, non per illuminazione divina e per scienzainnata, ma diversamente scegliendo e valutando, e poigeneralizzando, fra gl'infiniti aspetti dell'esperienza sollimitata dalle capacità sensibili – limiti che gli strumentie i mezzi d'osservazione posson allargare –, secondo ilproprio interesse e sforzo conoscitivo: quella casa nonsarà la stessa «cosa» per un ingegnere e per la mia do-mestica, questo amor materno non avrà lo stesso «valo-re» per me e per quel bimbo. Se poi ci fosse qui un os-servatore più esatto, quel rosso diventa l'area ottenutamoltiplicandone la base per l'altezza e la velocità di que-sta macchina diventa lo spazio percorso diviso per iltempo; ossia, trattandosi di concetti astraenti, ci vorrà unlinguaggio (un artificio sensibile) per rappresentarceli.

Tutto ciò riguarda l'operazione conoscitiva, la genesidella conoscenza. Ma, determinante o riflettente che sia

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il nostro pensiero, particolare o generale, concreto oastratto – riduciàmoci, se vi piace, a pensare soltanto:«quel rosso è rosso», idest «è vero quel rosso» (in sè) –,un tal giudizio, implicito e spontaneo nella percezione oesplicito e voluto in una proposizione, pone un valore(che nel nostro esempio è «reale») sempre trascendenta-le rispetto all'esistenza o presenza del dato e all'attualitàdella parola. È la constatazione dell'a priori kantiano. Sene inferisce, per ora, che ogni cosa vale oltre il sensibi-le, oltre l'esistenza e presenza attuale.

Il termine «valore» che adoperiamo in filosofia corri-sponde perfettamente al termine psicologico «coscien-za». La critica o riflessione filosofica sui valori divieneperciò analisi della coscienza. Criticamente, valore è ildetto rapporto dell'a priori (universalità del valore) conl'a posteriori dato sensibilmente: non rapporto (causale)fra enti, ma dislivello, antinomia sentita come finalità(pratica), e conosciuta come opposizione (dialettica) deldover essere all'esistere. Nell'analisi della coscienza, ciòdiventa il «rapporto di soggetto a oggetto»; ma diremooggetto prima di tutto il sensibile, e poi, di conseguenza,tutto il resto in quanto si adegua e relativizza all'esisteresensibile nella conoscenza teoretica: la percezione giàrealizzata nel sensibile, e la stessa ragione come concet-to del sensibile, scienza e sapere «reale». E diremo sog-getto della coscienza la finalità: il sentimento avanti tut-to, non come esistenza e sensibile organico (che ritornafra gli oggetti dati), ma in quanto praticità, antinomismosentito nell'esistenza medesima; quindi, il volere come

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il nostro pensiero, particolare o generale, concreto oastratto – riduciàmoci, se vi piace, a pensare soltanto:«quel rosso è rosso», idest «è vero quel rosso» (in sè) –,un tal giudizio, implicito e spontaneo nella percezione oesplicito e voluto in una proposizione, pone un valore(che nel nostro esempio è «reale») sempre trascendenta-le rispetto all'esistenza o presenza del dato e all'attualitàdella parola. È la constatazione dell'a priori kantiano. Sene inferisce, per ora, che ogni cosa vale oltre il sensibi-le, oltre l'esistenza e presenza attuale.

Il termine «valore» che adoperiamo in filosofia corri-sponde perfettamente al termine psicologico «coscien-za». La critica o riflessione filosofica sui valori divieneperciò analisi della coscienza. Criticamente, valore è ildetto rapporto dell'a priori (universalità del valore) conl'a posteriori dato sensibilmente: non rapporto (causale)fra enti, ma dislivello, antinomia sentita come finalità(pratica), e conosciuta come opposizione (dialettica) deldover essere all'esistere. Nell'analisi della coscienza, ciòdiventa il «rapporto di soggetto a oggetto»; ma diremooggetto prima di tutto il sensibile, e poi, di conseguenza,tutto il resto in quanto si adegua e relativizza all'esisteresensibile nella conoscenza teoretica: la percezione giàrealizzata nel sensibile, e la stessa ragione come concet-to del sensibile, scienza e sapere «reale». E diremo sog-getto della coscienza la finalità: il sentimento avanti tut-to, non come esistenza e sensibile organico (che ritornafra gli oggetti dati), ma in quanto praticità, antinomismosentito nell'esistenza medesima; quindi, il volere come

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dislivello fra l'esistere e il fine sentito (e poi rappresen-tato conoscitivamente). Il rapporto tra la finalità el'oggetto costituisce il valore di questo: pratico in quantodover essere soggettivo (obbiettivato in norme e princi-pii), teoretico in quanto oggettivo, legge e dover esseredell'oggetto, «inseità».

Allora, chiameremo «verità» l'obbiettività o universa-lità del valore: la conoscenza pura. Tutti diranno ch'èvero Dio, che son veri una legge morale, o un principiodi giustizia, o una norma d'utile, o anche una formulamatematica pura: tutti i fini, obbiettivabili nel pensiero –attività (reale) di cui il volere si serve per esplicare le fi-nalità implicite nel suo esistere come sentimento e peruniversalizzarle superandolo – si posson dire veri «insè», assolutamente. Ma questa, chiamiàmola così, teore-ticità del valore pratico (l'«idea» kantiana), questa veri-tà, per la critica non è sinonimo di «realtà»; ne costitui-sce soltanto la condizione a priori. Per la critica, comeper la coscienza, reale non può esser che l'«accordo» delvero universale – che divien categoria, dover essere del-la «cosa in sè» – con l'esistere: l'essere. Tale accordo èla sintesi teoretica, il «concetto» kantiano, percepito, oappercepito col pensiero.

E qui, dalle conclusioni tratte dal criticismo passiàmoa quelle che vorremmo trarre dall'hegelismo. Comel'antinomismo pratico di soggetto a oggetto non è divi-sione di due cose o nature, ma opposizione, voluta per-chè sentita, della finalità o libertà subiettiva all'esistenzasensibile o necessità obbiettiva, così il loro accordo non

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dislivello fra l'esistere e il fine sentito (e poi rappresen-tato conoscitivamente). Il rapporto tra la finalità el'oggetto costituisce il valore di questo: pratico in quantodover essere soggettivo (obbiettivato in norme e princi-pii), teoretico in quanto oggettivo, legge e dover esseredell'oggetto, «inseità».

Allora, chiameremo «verità» l'obbiettività o universa-lità del valore: la conoscenza pura. Tutti diranno ch'èvero Dio, che son veri una legge morale, o un principiodi giustizia, o una norma d'utile, o anche una formulamatematica pura: tutti i fini, obbiettivabili nel pensiero –attività (reale) di cui il volere si serve per esplicare le fi-nalità implicite nel suo esistere come sentimento e peruniversalizzarle superandolo – si posson dire veri «insè», assolutamente. Ma questa, chiamiàmola così, teore-ticità del valore pratico (l'«idea» kantiana), questa veri-tà, per la critica non è sinonimo di «realtà»; ne costitui-sce soltanto la condizione a priori. Per la critica, comeper la coscienza, reale non può esser che l'«accordo» delvero universale – che divien categoria, dover essere del-la «cosa in sè» – con l'esistere: l'essere. Tale accordo èla sintesi teoretica, il «concetto» kantiano, percepito, oappercepito col pensiero.

E qui, dalle conclusioni tratte dal criticismo passiàmoa quelle che vorremmo trarre dall'hegelismo. Comel'antinomismo pratico di soggetto a oggetto non è divi-sione di due cose o nature, ma opposizione, voluta per-chè sentita, della finalità o libertà subiettiva all'esistenzasensibile o necessità obbiettiva, così il loro accordo non

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è che il processo, il «divenire» per cui l'una si «attua»nell'altra.

Che significa il termine «atto»? Noi tutti chiamiamocosì quella parte del mondo sensibile (per es, il movi-mento di ritrarre la mano dal fuoco) in accordo, appun-to, con le nostre finalità, perchè attua, realizza, fa esiste-re il fine in una successione sensibile. Si può dire che inun atto pratico il fine è «immanente», proprio in quantola soggettività esiste oggettivamente, è reale di fatto, èvita. Ma l'atto pratico non è che una parte del mondoesistente obbiettivamente come necessità (una parte del-la «natura»); e il fine pratico non è che un momento del-la finalità (dello «spirito»), la quale si sente impeditadall'esistere che ne limita la libertà, e non si può attuaremai tutta in esso. Perciò l'atto pratico si converte in pro-cesso e atto conoscitivo (pensiero e giudizio). Da unaparte ci rappresentiamo il fine stesso preso in sè, univer-salmente – in opposizione all'oggetto dato –; e così ilsoggetto sensibile (il sentimento) si trascende: ma larappresentazione obbiettiva del valore, nella sua formapura, non può esser dunque che una norma, un modello,un archetipo, che ci serve per dare giudizi di valore enon per «fare», per attuare la finalità nel sensibile (mo-dificando il mondo) e, insomma, non immanentizza ilvalore. Dall'altra parte ci rappresentiamo l'essere reale –per mediazione di soggetto e oggetto –, come natura enostra stessa natura, riflettendo su l'analisi dell'esperien-za e determinando (in giudizi esistenziali) il sensibilecome essere in sè; e non è che una parentesi conoscitiva,

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è che il processo, il «divenire» per cui l'una si «attua»nell'altra.

Che significa il termine «atto»? Noi tutti chiamiamocosì quella parte del mondo sensibile (per es, il movi-mento di ritrarre la mano dal fuoco) in accordo, appun-to, con le nostre finalità, perchè attua, realizza, fa esiste-re il fine in una successione sensibile. Si può dire che inun atto pratico il fine è «immanente», proprio in quantola soggettività esiste oggettivamente, è reale di fatto, èvita. Ma l'atto pratico non è che una parte del mondoesistente obbiettivamente come necessità (una parte del-la «natura»); e il fine pratico non è che un momento del-la finalità (dello «spirito»), la quale si sente impeditadall'esistere che ne limita la libertà, e non si può attuaremai tutta in esso. Perciò l'atto pratico si converte in pro-cesso e atto conoscitivo (pensiero e giudizio). Da unaparte ci rappresentiamo il fine stesso preso in sè, univer-salmente – in opposizione all'oggetto dato –; e così ilsoggetto sensibile (il sentimento) si trascende: ma larappresentazione obbiettiva del valore, nella sua formapura, non può esser dunque che una norma, un modello,un archetipo, che ci serve per dare giudizi di valore enon per «fare», per attuare la finalità nel sensibile (mo-dificando il mondo) e, insomma, non immanentizza ilvalore. Dall'altra parte ci rappresentiamo l'essere reale –per mediazione di soggetto e oggetto –, come natura enostra stessa natura, riflettendo su l'analisi dell'esperien-za e determinando (in giudizi esistenziali) il sensibilecome essere in sè; e non è che una parentesi conoscitiva,

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un mezzo per reagire sul mondo sensibile e per modifi-carlo. Il più certo de' nostri giudizi sarà: «Quel rosso èrosso», obbiettivazione dell'oggetto ottenuta per solaanalisi dell'unità sensibile già data; il più vero sarà: «A= A», obbiettivazione della finalità teoretica ottenuta persola sintesi (a priori), e che chiameremo concetto forma-le in quanto s'attua in un mero simbolo, in un sensibilech'è un atto destinato a rappresentare un principio uni-versale, che nessun dato a posteriori bastava a reggeredistintamente. Fra quei due estremi del concetto e giudi-zio esistenziale e del concetto e giudizio puro si forma-no i concetti reali in cui verità ed esistenza si mediano,graduandosi nelle rappresentazioni probabili, dai con-cetti storici al naturalismo scientifico.

9. – Se il giudizio a sua volta si realizza percettiva-mente e si attua praticamente; se l'attività pensante, e laparola in cui si esprime, sono mezzi transitori per ritor-nare alla cosa e alla vita, è esatto dire che il pensiero«diviene» il suo oggetto; o meglio, che nel sensibile siattuano quei valori intelligibili che ormai gli resterannoimmanenti. Immanenti, in quanto il sensibile esiste e lirappresenta: in tal senso, l'esistere (come s'è enunciatodi sopra) è l'attuarsi dello spirito (nel quale rientra la na-tura come finalità teoretica del conoscere). Infatti, adogni istante, nel dato a posteriori troviamo dei valori giàprima pensati.

Tuttavia, la conoscenza – la s'intenda criticamentecome sintesi formale a priori su l'analisi dei contenuti

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un mezzo per reagire sul mondo sensibile e per modifi-carlo. Il più certo de' nostri giudizi sarà: «Quel rosso èrosso», obbiettivazione dell'oggetto ottenuta per solaanalisi dell'unità sensibile già data; il più vero sarà: «A= A», obbiettivazione della finalità teoretica ottenuta persola sintesi (a priori), e che chiameremo concetto forma-le in quanto s'attua in un mero simbolo, in un sensibilech'è un atto destinato a rappresentare un principio uni-versale, che nessun dato a posteriori bastava a reggeredistintamente. Fra quei due estremi del concetto e giudi-zio esistenziale e del concetto e giudizio puro si forma-no i concetti reali in cui verità ed esistenza si mediano,graduandosi nelle rappresentazioni probabili, dai con-cetti storici al naturalismo scientifico.

9. – Se il giudizio a sua volta si realizza percettiva-mente e si attua praticamente; se l'attività pensante, e laparola in cui si esprime, sono mezzi transitori per ritor-nare alla cosa e alla vita, è esatto dire che il pensiero«diviene» il suo oggetto; o meglio, che nel sensibile siattuano quei valori intelligibili che ormai gli resterannoimmanenti. Immanenti, in quanto il sensibile esiste e lirappresenta: in tal senso, l'esistere (come s'è enunciatodi sopra) è l'attuarsi dello spirito (nel quale rientra la na-tura come finalità teoretica del conoscere). Infatti, adogni istante, nel dato a posteriori troviamo dei valori giàprima pensati.

Tuttavia, la conoscenza – la s'intenda criticamentecome sintesi formale a priori su l'analisi dei contenuti

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dati, o la s'intenda hegelianamente come spirito (finali-tà) che si attua in una forma (sensibile) – non realizzache in parte l'antinomismo kantiano di soggetto a ogget-to, di finalità a esistenza, di valore come dover essere apriori e di attualità e contingenza a posteriori. Proprioper questo c'è sviluppo, c'è divenire della conoscenza:perchè in ogni conoscenza c'è un valore trascendentaleche non s'immanentizza ancor del tutto nell'oggetto enell'atto. In modo più semplice basta dire, che la cono-scenza è rappresentazione obbiettiva del valore soggetti-vamente sentito: siccome ormai l'esistenza che rappre-senta i valori è la forma sensibile, il sovrasensibile è ciòche la supera, non soltanto praticamente (dalla parte delsoggetto) come finalità, ma anche teoreticamente (dallaparte dell'oggetto) come verità. Infatti, per rappresentar-ci un valore, e tanto più quanto è più puro, noi dobbia-mo, come s'è visto, scegliere (per analisi) o a diritturainventare una particolar forma sensibile, che nell'uncaso per semplice somiglianza (per es. un'esperienzascientifica), nell'altro per semplice contiguità (per es,una proposizione verbale) ci rappresenti e sostenga i va-lori del pensiero.

Allora, nella riflessione filosofica, che riflette l'anti-nomismo conoscitivo, si riapre il dualismo come antitesitra forme (o atti) «puri» e forme (o esistenze) «reali»,che la contemplazione estetica, secondo Kant, dovrebbeplacare, e il superamento dialettico, secondo Hegel, do-vrebbe comporre nella sintesi idealistica. L'importanteera giungere su questo terreno, e porsi avanti le forme

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dati, o la s'intenda hegelianamente come spirito (finali-tà) che si attua in una forma (sensibile) – non realizzache in parte l'antinomismo kantiano di soggetto a ogget-to, di finalità a esistenza, di valore come dover essere apriori e di attualità e contingenza a posteriori. Proprioper questo c'è sviluppo, c'è divenire della conoscenza:perchè in ogni conoscenza c'è un valore trascendentaleche non s'immanentizza ancor del tutto nell'oggetto enell'atto. In modo più semplice basta dire, che la cono-scenza è rappresentazione obbiettiva del valore soggetti-vamente sentito: siccome ormai l'esistenza che rappre-senta i valori è la forma sensibile, il sovrasensibile è ciòche la supera, non soltanto praticamente (dalla parte delsoggetto) come finalità, ma anche teoreticamente (dallaparte dell'oggetto) come verità. Infatti, per rappresentar-ci un valore, e tanto più quanto è più puro, noi dobbia-mo, come s'è visto, scegliere (per analisi) o a diritturainventare una particolar forma sensibile, che nell'uncaso per semplice somiglianza (per es. un'esperienzascientifica), nell'altro per semplice contiguità (per es,una proposizione verbale) ci rappresenti e sostenga i va-lori del pensiero.

Allora, nella riflessione filosofica, che riflette l'anti-nomismo conoscitivo, si riapre il dualismo come antitesitra forme (o atti) «puri» e forme (o esistenze) «reali»,che la contemplazione estetica, secondo Kant, dovrebbeplacare, e il superamento dialettico, secondo Hegel, do-vrebbe comporre nella sintesi idealistica. L'importanteera giungere su questo terreno, e porsi avanti le forme

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sensibili come il vero e unico «concreto» esistente, sucui esercitare la critica.

Fintanto che noi consideravamo il sensibile comecontenuto e punto di partenza della conoscenza, e gli atticome strumenti de' nostri fini, li dovevamo trascendereper raggiungere il valore puro: la cosa in sè del contenu-to fenomenico, il principio a priori dell'atto volontario.Ma se ormai riguardiamo (contempliamo) il sensibile –perchè ci rappresenta e conserva quei valori – come esi-stenza e attualità del pensiero (o, in termini hegeliani,come realizzazione dello spirito), è il sensibile medesi-mo che ci appare in sè (di fronte alle finalità soggettive),appunto in quanto esistenza e presenza attuale. Se poi cichiediamo, a che questo esistere si riduca, col prescinde-re dai valori rappresentati, ecco ch'esso appare sola for-ma e non più contenuto (salvo a divenirlo d'un nuovopensiero).

Difatti il termine «forma» altro non indica che l'unitàdel puro sensibile: il rapporto, potremmo dire, fra gli(astratti) sensibili presi per sè. Quel rapporto che, comecontenuto, è la sintesi a posteriori, si presenta formal-mente come un'immagine esistente, prima dell'analisiconoscitiva e della scelta pratica, e perciò cede poi l'esi-stenzialità ai valori che rappresenta e li fa reali. Li fareali in quanto vi s'accordano, e si accordano in quantosono concetti probabili, ossia provati appunto dall'espe-rienza scelta a rappresentarli (come accade nella scien-za). In quanto invece i valori si antinomizzano, il pen-siero «forma» le «idee»: però, che altro sono queste for-

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sensibili come il vero e unico «concreto» esistente, sucui esercitare la critica.

Fintanto che noi consideravamo il sensibile comecontenuto e punto di partenza della conoscenza, e gli atticome strumenti de' nostri fini, li dovevamo trascendereper raggiungere il valore puro: la cosa in sè del contenu-to fenomenico, il principio a priori dell'atto volontario.Ma se ormai riguardiamo (contempliamo) il sensibile –perchè ci rappresenta e conserva quei valori – come esi-stenza e attualità del pensiero (o, in termini hegeliani,come realizzazione dello spirito), è il sensibile medesi-mo che ci appare in sè (di fronte alle finalità soggettive),appunto in quanto esistenza e presenza attuale. Se poi cichiediamo, a che questo esistere si riduca, col prescinde-re dai valori rappresentati, ecco ch'esso appare sola for-ma e non più contenuto (salvo a divenirlo d'un nuovopensiero).

Difatti il termine «forma» altro non indica che l'unitàdel puro sensibile: il rapporto, potremmo dire, fra gli(astratti) sensibili presi per sè. Quel rapporto che, comecontenuto, è la sintesi a posteriori, si presenta formal-mente come un'immagine esistente, prima dell'analisiconoscitiva e della scelta pratica, e perciò cede poi l'esi-stenzialità ai valori che rappresenta e li fa reali. Li fareali in quanto vi s'accordano, e si accordano in quantosono concetti probabili, ossia provati appunto dall'espe-rienza scelta a rappresentarli (come accade nella scien-za). In quanto invece i valori si antinomizzano, il pen-siero «forma» le «idee»: però, che altro sono queste for-

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me pure, se non atti e parole, ossia ancor esse dei sensi-bili, scelti e, per così dire, dematerializzati dalle conti-guità sensibili empiriche per rappresentar meglio un va-lore universale, ma pur sempre immagini e figure esi-stenti, almeno come linguaggio?

Perciò, in conclusione, tutto, ripeto, esiste in una for-ma e ogni valore si attua formalmente: il corpo è la for-ma dell'anima, e il mondo in sè ha una forma, o meglioinfinite forme, fra le quali scegliamo analiticamente lepiù rappresentative del suo dover essere e del nostroparticolar essere, come s'è detto nell'esempio di più per-sone affacciate alla stessa finestra, ossia di fronte allastessa sintesi a posteriori.

Orbene: diverso è l'atteggiamento del gusto edell'interesse estetico; chiamo così l'interesse diretto allaforma sensibile, il gusto del puro sensibile. Non più«operazioni» conoscitive, non più analisi, non più rap-presentazione di «altro» oltre il «contenuto» sensibile. Ilsensibile vale per sè, come forma, rapporto (dicevo so-pra) fra gli astratti (dall'analisi) elementi della sintesi aposteriori, la quale è presa in sè, a priori. So benissimo,s'intende, che quei rettangoli di colore sono case, quelblù è il mare ecc.; so anche che queste «qualità» delle«cose» sono al tempo stesso sensazioni (eccitazioni visi-ve ecc.) unificate per mezzo della memoria: ma se rie-sco a guardarle e a sentirle, non come case o mare, vi-sioni e ricordi ecc., ma come figure – per es. macchie dicolore in reciproco accordo o disaccordo, accordo o di-saccordo di suoni fra loro, ecc. – io sono artista (oltre

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me pure, se non atti e parole, ossia ancor esse dei sensi-bili, scelti e, per così dire, dematerializzati dalle conti-guità sensibili empiriche per rappresentar meglio un va-lore universale, ma pur sempre immagini e figure esi-stenti, almeno come linguaggio?

Perciò, in conclusione, tutto, ripeto, esiste in una for-ma e ogni valore si attua formalmente: il corpo è la for-ma dell'anima, e il mondo in sè ha una forma, o meglioinfinite forme, fra le quali scegliamo analiticamente lepiù rappresentative del suo dover essere e del nostroparticolar essere, come s'è detto nell'esempio di più per-sone affacciate alla stessa finestra, ossia di fronte allastessa sintesi a posteriori.

Orbene: diverso è l'atteggiamento del gusto edell'interesse estetico; chiamo così l'interesse diretto allaforma sensibile, il gusto del puro sensibile. Non più«operazioni» conoscitive, non più analisi, non più rap-presentazione di «altro» oltre il «contenuto» sensibile. Ilsensibile vale per sè, come forma, rapporto (dicevo so-pra) fra gli astratti (dall'analisi) elementi della sintesi aposteriori, la quale è presa in sè, a priori. So benissimo,s'intende, che quei rettangoli di colore sono case, quelblù è il mare ecc.; so anche che queste «qualità» delle«cose» sono al tempo stesso sensazioni (eccitazioni visi-ve ecc.) unificate per mezzo della memoria: ma se rie-sco a guardarle e a sentirle, non come case o mare, vi-sioni e ricordi ecc., ma come figure – per es. macchie dicolore in reciproco accordo o disaccordo, accordo o di-saccordo di suoni fra loro, ecc. – io sono artista (oltre

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che uomo pratico e conoscenza teoretica). Qui il termine«accordo» (o «disaccordo») acquista il suo preciso si-gnificato (estetico), che per metafora trasportammo alrapporto conoscitivo posto fra il sensibile e il valorerappresentato (che dev'essere invece assoluto, identitàteoretica o antinomismo pratico).

L'intuizione estetica è l'apprezzamento o valutazionedel sensibile «senza concetto», il valore del sensibile persè medesimo, o, tout court, il valore sensibile, che ormaisi potrebbe chiamare formale, ma coincide perfettamen-te col valore esistenziale. La coscienza estetica, attualitàdi questo valore, si distingue dalla conoscenza perchènon supera il sentimento in un soggetto assoluto nècome «io» nè come Spirito. Errato è l'intender l'esteticocome una natura soggettiva, perchè l'esistere è del sog-getto come dell'oggetto e l'analisi della stessa sensazio-ne può astrattamente risalire all'uno come all'altro neiconcetti reali. Ma del pari errato è il dirlo soggettivo inquanto il giudizio estetico è un giudizio di valore basatosul sentimento di piacere che accompagna l'accordo sen-sibile, già che in tale «accordo»; anche per il Kant, sta ilvalore estetico, e il piacere n'è un risultato.

In tal caso possiamo soltanto concludere che il giudi-zio estetico non può risalire (nemmeno filosoficamente)a un principio puro a priori: non può, perchè il sensibilediviene il fine e l'oggetto assoluto (e non relativizzato ad«altro ») di tale attività o giudizio. Ma ciò non implicache quel valore – che, in luogo di antinomizzarsi al sen-sibile, si attua tutto in esso, vi si trova immanente – sia

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che uomo pratico e conoscenza teoretica). Qui il termine«accordo» (o «disaccordo») acquista il suo preciso si-gnificato (estetico), che per metafora trasportammo alrapporto conoscitivo posto fra il sensibile e il valorerappresentato (che dev'essere invece assoluto, identitàteoretica o antinomismo pratico).

L'intuizione estetica è l'apprezzamento o valutazionedel sensibile «senza concetto», il valore del sensibile persè medesimo, o, tout court, il valore sensibile, che ormaisi potrebbe chiamare formale, ma coincide perfettamen-te col valore esistenziale. La coscienza estetica, attualitàdi questo valore, si distingue dalla conoscenza perchènon supera il sentimento in un soggetto assoluto nècome «io» nè come Spirito. Errato è l'intender l'esteticocome una natura soggettiva, perchè l'esistere è del sog-getto come dell'oggetto e l'analisi della stessa sensazio-ne può astrattamente risalire all'uno come all'altro neiconcetti reali. Ma del pari errato è il dirlo soggettivo inquanto il giudizio estetico è un giudizio di valore basatosul sentimento di piacere che accompagna l'accordo sen-sibile, già che in tale «accordo»; anche per il Kant, sta ilvalore estetico, e il piacere n'è un risultato.

In tal caso possiamo soltanto concludere che il giudi-zio estetico non può risalire (nemmeno filosoficamente)a un principio puro a priori: non può, perchè il sensibilediviene il fine e l'oggetto assoluto (e non relativizzato ad«altro ») di tale attività o giudizio. Ma ciò non implicache quel valore – che, in luogo di antinomizzarsi al sen-sibile, si attua tutto in esso, vi si trova immanente – sia

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soltanto soggettivo, sia senza esistenza, chè anzi è il va-lore del puro esistere preso per sè. Perciò dunque il giu-dizio estetico esplica un valore trascendentale (universa-le) e al tempo stesso immanente nei contenuti: il bello èl'universalità del concreto.

10. – Se il bello è il rapporto di valore immanente alsensibile nella forma data, tutto ciò ch'io vedo, odo o co-munque gùsto, è bello o no, prima di tutto, in quanto sipresenta attualmente, senz'altra condizione che d'esserun sensibile sentito in quanto tale. Perciò i rapporti este-tici tendono a raggrupparsi secondo le sfere della sensi-bilità, e quindi anche le arti si distinguono poi con lostesso criterio (dei suoni, colori ecc.); non v'ha sensibili-tà senza esteticità. Se i sensibili organici, e via via quellitattili o termici, olfattivi o gustativi, presentano minoresteticità della vista o dell'udito, ciò dipende dalla piùintensa praticità dei primi che, per esser più sentiti, ven-gon immediatamente trascesi dal volere; e sopratutto di-pende dalla minor possibilità di rapporti esistenziali, os-sia di forme e configurazioni di tali sensazioni23.

23 Il disprezzo kantiano per i sensibili più organici, credutiinestetici perchè corporei, non è teoretico ma etico, associandosile forme più alte del bello ai valori morali. Molti rifiuterannol'esteticità del buongustaio o della signora elegante e la negheran-no alle morbidezze del tatto e alle armonie di profumi o di saporialla Huysmann, perchè «materialiste». Ma qui si cerca il puroestetico, poi ritorneremo all'unità dei valori: c'è un bello puramen-te sensibile, come c'è un'arte puramente decorativa (la bellezza«libera» o soltanto «aderente» del Kant); e da questo puro valore

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soltanto soggettivo, sia senza esistenza, chè anzi è il va-lore del puro esistere preso per sè. Perciò dunque il giu-dizio estetico esplica un valore trascendentale (universa-le) e al tempo stesso immanente nei contenuti: il bello èl'universalità del concreto.

10. – Se il bello è il rapporto di valore immanente alsensibile nella forma data, tutto ciò ch'io vedo, odo o co-munque gùsto, è bello o no, prima di tutto, in quanto sipresenta attualmente, senz'altra condizione che d'esserun sensibile sentito in quanto tale. Perciò i rapporti este-tici tendono a raggrupparsi secondo le sfere della sensi-bilità, e quindi anche le arti si distinguono poi con lostesso criterio (dei suoni, colori ecc.); non v'ha sensibili-tà senza esteticità. Se i sensibili organici, e via via quellitattili o termici, olfattivi o gustativi, presentano minoresteticità della vista o dell'udito, ciò dipende dalla piùintensa praticità dei primi che, per esser più sentiti, ven-gon immediatamente trascesi dal volere; e sopratutto di-pende dalla minor possibilità di rapporti esistenziali, os-sia di forme e configurazioni di tali sensazioni23.

23 Il disprezzo kantiano per i sensibili più organici, credutiinestetici perchè corporei, non è teoretico ma etico, associandosile forme più alte del bello ai valori morali. Molti rifiuterannol'esteticità del buongustaio o della signora elegante e la negheran-no alle morbidezze del tatto e alle armonie di profumi o di saporialla Huysmann, perchè «materialiste». Ma qui si cerca il puroestetico, poi ritorneremo all'unità dei valori: c'è un bello puramen-te sensibile, come c'è un'arte puramente decorativa (la bellezza«libera» o soltanto «aderente» del Kant); e da questo puro valore

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L'estetica oggi nega che esista un bello sensibile, equindi in natura; e lo riporta all'arte sperando di ridurlotutto a spirito: sì, perchè l'arte sarebbe creatrice del bel-lo, e ne sarebbe creatrice perchè fantastica. Ritorneremosu questa «fantasia creatrice», misteriosa facoltà occultadell'arte. Osserviamo però che, se è vero che un letteratolavora con delle immagini (riprodotte), un pittore invecelavora co' suoi tubetti di colore e un musicista con lenote del suo piano. Anzi, di più, un regista adopera uo-mini e cose reali per comporre le sue scene, una danza-trice forma le sue figure col suo stesso corpo. Del resto,il letterato medesimo è tale in quanto evoca immaginipercepibili in parole, e la sensibilizzazione dell'immagi-ne è il fine artistico della letteratura e si chiama poesia(come meglio vedremo).

L'arte è un fare e implica un fine, il fine estetico;come lo distingueremo dagli altri? Semplice artierechiunque produce, fa un «oggetto», per un qualunquefine pratico (per es. farà un coltello). Sarebbe invece ar-tista chi per es. esprimesse la stessa utilità, o magari lastessa materialità, o un qualsiasi altro valore nella formadi quell'oggetto medesimo: il nostro coltellinaio, dive-nuto artista, snellirà la lama, allungherà la punta, irrobu-stirà la costola e affilerà il taglio del suo coltello per im-primervi il senso d'un bel coltello di buon acciaio prontoa colpire e a penetrare, inesorabile e sicuro... Arte è pri-ma di tutto questo artificio sensibile; e la fantasia

sensibile deve partire l'estetica teoretica.

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L'estetica oggi nega che esista un bello sensibile, equindi in natura; e lo riporta all'arte sperando di ridurlotutto a spirito: sì, perchè l'arte sarebbe creatrice del bel-lo, e ne sarebbe creatrice perchè fantastica. Ritorneremosu questa «fantasia creatrice», misteriosa facoltà occultadell'arte. Osserviamo però che, se è vero che un letteratolavora con delle immagini (riprodotte), un pittore invecelavora co' suoi tubetti di colore e un musicista con lenote del suo piano. Anzi, di più, un regista adopera uo-mini e cose reali per comporre le sue scene, una danza-trice forma le sue figure col suo stesso corpo. Del resto,il letterato medesimo è tale in quanto evoca immaginipercepibili in parole, e la sensibilizzazione dell'immagi-ne è il fine artistico della letteratura e si chiama poesia(come meglio vedremo).

L'arte è un fare e implica un fine, il fine estetico;come lo distingueremo dagli altri? Semplice artierechiunque produce, fa un «oggetto», per un qualunquefine pratico (per es. farà un coltello). Sarebbe invece ar-tista chi per es. esprimesse la stessa utilità, o magari lastessa materialità, o un qualsiasi altro valore nella formadi quell'oggetto medesimo: il nostro coltellinaio, dive-nuto artista, snellirà la lama, allungherà la punta, irrobu-stirà la costola e affilerà il taglio del suo coltello per im-primervi il senso d'un bel coltello di buon acciaio prontoa colpire e a penetrare, inesorabile e sicuro... Arte è pri-ma di tutto questo artificio sensibile; e la fantasia

sensibile deve partire l'estetica teoretica.

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dell'artista non è la facoltà fabulatrice comune ai so-gnanti mortali, sufficiente per il giuoco, contenuto e ma-teria (come il resto) dell'arte; ma è disciplina che scegliee inventa forme che rendano sensibilmente i fini; reali-stici o idealistici che siano.

A rigore, l'arte non è nemmeno obbligata a proporsi«il bello», se con questo termine intendiamo la formasensibile che fa piacere (come tale). In questo senso, ilbello è un risultato, è il valore estetico raggiunto, con-templato, conclamato: l'esistere di un bello (nel tempo),il «fatto» e non il «fare» dell'arte. Un buon artista rifug-ge anzi dal proporsi un bello esistente, qual'è quellocontemplato in natura o in un'opera d'arte (in uno stileraggiunto), perchè il valore estetico è definitivo nellasua attualità sensibile e il riprodurlo lo indebolisce, ilproporselo induce al calligrafico o al decorativo, all'arte(appunto) «piacevole». Lo «stile» è la forma esprimentela finalità artistica; piaccia o non piaccia, lo diranno isecoli. È soggettivo? Sì, in quanto vien riferito alla natu-ra dell'artista; ma è valore proprio perchè immanentizzail sentimento nell'esistere in sè della forma. Nell'operad'arte l'analisi trova sempre l'artista e il suo oggetto, mal'opera supera l'artista: ecco il miracolo dell'arte, la ra-gione per cui qualche pezzo di calcinaccio colorato, unrapporto spaziale fra balcone e portale sottoposto, unafrase di suoni o una semplice parola, ci possono riempi-re di sgomento e di stupore; e niuna ricerca sulla vita esulle fonti di un artista adegua minimamente i motivi e iprecedenti dell'opera alla grandezza terribile di

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dell'artista non è la facoltà fabulatrice comune ai so-gnanti mortali, sufficiente per il giuoco, contenuto e ma-teria (come il resto) dell'arte; ma è disciplina che scegliee inventa forme che rendano sensibilmente i fini; reali-stici o idealistici che siano.

A rigore, l'arte non è nemmeno obbligata a proporsi«il bello», se con questo termine intendiamo la formasensibile che fa piacere (come tale). In questo senso, ilbello è un risultato, è il valore estetico raggiunto, con-templato, conclamato: l'esistere di un bello (nel tempo),il «fatto» e non il «fare» dell'arte. Un buon artista rifug-ge anzi dal proporsi un bello esistente, qual'è quellocontemplato in natura o in un'opera d'arte (in uno stileraggiunto), perchè il valore estetico è definitivo nellasua attualità sensibile e il riprodurlo lo indebolisce, ilproporselo induce al calligrafico o al decorativo, all'arte(appunto) «piacevole». Lo «stile» è la forma esprimentela finalità artistica; piaccia o non piaccia, lo diranno isecoli. È soggettivo? Sì, in quanto vien riferito alla natu-ra dell'artista; ma è valore proprio perchè immanentizzail sentimento nell'esistere in sè della forma. Nell'operad'arte l'analisi trova sempre l'artista e il suo oggetto, mal'opera supera l'artista: ecco il miracolo dell'arte, la ra-gione per cui qualche pezzo di calcinaccio colorato, unrapporto spaziale fra balcone e portale sottoposto, unafrase di suoni o una semplice parola, ci possono riempi-re di sgomento e di stupore; e niuna ricerca sulla vita esulle fonti di un artista adegua minimamente i motivi e iprecedenti dell'opera alla grandezza terribile di

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quell'accordo di colori o di suoni. Perchè? Per ora cer-chiamone il come.

«Esprimere un valore» è diverso dal fare una cosa,come dal rappresentarsela (conoscitivamente). L'artepuò, come nell'arte applicata o nell'architettura, fare unoggetto per un fine, per es. pratico, che lo trascende, manon è questo che la caratterizza; infatti può esser anchearte libera, come la pittura o la poesia, e il suo fare realeconsisterà solo nel costruire delle forme sensibili. Delpari, l'arte può rappresentare, imitando o simboleggian-do, un oggetto o un soggetto, ma può anche non rappre-sentar nulla – non trascendersi nella rappresentazione diqualcosa oltre il sensibile –, come nella pura musica onella pura danza. Esprimere un valore significa dunqueattuare formalmente una finalità, accordare il puro sensi-bile al fine (al valore subiettivo, l'inverso della cono-scenza).

Pertanto sarebbe fonte di malintesi anche il definirl'arte come spontaneità del sentimento (vita) oppurdell'immaginazione (fantasia), senza interporre una verae propria finalità artistica, consistente nella ricerca diquell'accordo tra la finalità in genere e l'espressione.L'arte è pensiero dell'arte. Non è artista chi esprime ge-sticolando un dolore, sì bene l'attore che trova un gestoespressivo di quel dolore, bello o brutto che sia in sè;non è artista il bimbo che scarabocchia un'immagine(che piacerà o no esteticamente a «noi»), ma il disegna-tore – sia pure un «primitivo» – che vuol rendere in unaforma (spesso, perciò, esagerando) ciò ch'egli vede e sa

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quell'accordo di colori o di suoni. Perchè? Per ora cer-chiamone il come.

«Esprimere un valore» è diverso dal fare una cosa,come dal rappresentarsela (conoscitivamente). L'artepuò, come nell'arte applicata o nell'architettura, fare unoggetto per un fine, per es. pratico, che lo trascende, manon è questo che la caratterizza; infatti può esser anchearte libera, come la pittura o la poesia, e il suo fare realeconsisterà solo nel costruire delle forme sensibili. Delpari, l'arte può rappresentare, imitando o simboleggian-do, un oggetto o un soggetto, ma può anche non rappre-sentar nulla – non trascendersi nella rappresentazione diqualcosa oltre il sensibile –, come nella pura musica onella pura danza. Esprimere un valore significa dunqueattuare formalmente una finalità, accordare il puro sensi-bile al fine (al valore subiettivo, l'inverso della cono-scenza).

Pertanto sarebbe fonte di malintesi anche il definirl'arte come spontaneità del sentimento (vita) oppurdell'immaginazione (fantasia), senza interporre una verae propria finalità artistica, consistente nella ricerca diquell'accordo tra la finalità in genere e l'espressione.L'arte è pensiero dell'arte. Non è artista chi esprime ge-sticolando un dolore, sì bene l'attore che trova un gestoespressivo di quel dolore, bello o brutto che sia in sè;non è artista il bimbo che scarabocchia un'immagine(che piacerà o no esteticamente a «noi»), ma il disegna-tore – sia pure un «primitivo» – che vuol rendere in unaforma (spesso, perciò, esagerando) ciò ch'egli vede e sa

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di vedere.Qui appare il criterio di unità e distinzione fra bello di

natura e arte. Tutto è bello o brutto in natura, nella sinte-si a posteriori (cioè, di fronte a un contemplante), perchèogni «cosa» ha una forma sensibile, quel cielo di nuvolebianche come questo palazzo, il gorgheggio d'un usi-gnuolo come l'uccellino del Siegfried24. Parimenti, ogni«atto» (natura, ossia vita umana) esprime una finalità, ilgesto di quella madre come il Laocoonte, più o menoesteticamente. Ma se lo stile dell'arte, quand'è raggiunto,contemplato, ritorna a esistere come il bello di natura –con la sola differenza che il giudizio d'arte tien sempreconto di quel rapporto fra l'intenzione o finalità dell'arti-sta e la sua attuazione sensibile25 –, il giudizio intuitivo«è bello» riguarda, in quanto estetico, unicamentequest'ultima. Intendo dire, che il bello non è un volere,un dover essere: è l'unico valore ch'è tale in quanto esi-

24 Riprova: se un ingegnere edifica una casa col solo criteriodell'utile, questa casa, avendo una forma, che in tempi di architet-tura «razionale» può anche piacere esteticamente, farà passarequell'ingegnere per un architetto... Viceversa, l'artista «razionali-sta» può cercare una forma così semplice nuda e aderente all'uti-le, da far sì che il contemplante non se n'accorga esteticamente erivolga tutta la sua ammirazione a quell'utilità, ch'è meritodell'arte aver espresso visibilmente.

25 Riprova: infatti i grandi monumenti, le opere definitive, icapolavori dell'arte, ritornano (come fu osservato) ad essere comele bellezze della natura, come le montagne e i grandi paesaggi; ebasta obliare ch'è opera umana perchè la bellezza artistica appari-sca un'espressione della natura o di Dio.

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di vedere.Qui appare il criterio di unità e distinzione fra bello di

natura e arte. Tutto è bello o brutto in natura, nella sinte-si a posteriori (cioè, di fronte a un contemplante), perchèogni «cosa» ha una forma sensibile, quel cielo di nuvolebianche come questo palazzo, il gorgheggio d'un usi-gnuolo come l'uccellino del Siegfried24. Parimenti, ogni«atto» (natura, ossia vita umana) esprime una finalità, ilgesto di quella madre come il Laocoonte, più o menoesteticamente. Ma se lo stile dell'arte, quand'è raggiunto,contemplato, ritorna a esistere come il bello di natura –con la sola differenza che il giudizio d'arte tien sempreconto di quel rapporto fra l'intenzione o finalità dell'arti-sta e la sua attuazione sensibile25 –, il giudizio intuitivo«è bello» riguarda, in quanto estetico, unicamentequest'ultima. Intendo dire, che il bello non è un volere,un dover essere: è l'unico valore ch'è tale in quanto esi-

24 Riprova: se un ingegnere edifica una casa col solo criteriodell'utile, questa casa, avendo una forma, che in tempi di architet-tura «razionale» può anche piacere esteticamente, farà passarequell'ingegnere per un architetto... Viceversa, l'artista «razionali-sta» può cercare una forma così semplice nuda e aderente all'uti-le, da far sì che il contemplante non se n'accorga esteticamente erivolga tutta la sua ammirazione a quell'utilità, ch'è meritodell'arte aver espresso visibilmente.

25 Riprova: infatti i grandi monumenti, le opere definitive, icapolavori dell'arte, ritornano (come fu osservato) ad essere comele bellezze della natura, come le montagne e i grandi paesaggi; ebasta obliare ch'è opera umana perchè la bellezza artistica appari-sca un'espressione della natura o di Dio.

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ste, in quanto è raggiunto, immanente al dato – e quindil'unico piacere che appaghi il volere, che sia solo piace-re –; pertanto ciò che conta, anche nell'arte, è questo esi-stere e il modo com'è espresso nella realtà in sè diun'opera d'arte.

Insomma, la mia tesi va in senso opposto a quellodell'estetica corrente: non esiste realmente altro valoreche il bello, che vale in quanto sensibile, e perciò pròvaempiricamente la possibilità dei valori trascendentali ece li «presenta»; l'arte è quell'attività che si pone perfine la stessa forma sensibile, e sensibilmente si attua,diviene esistenza: fa esistere il soggetto spirituale in unapresenza, che riman poi nello spazio e nel tempo a rap-presentare i valori umani in una forma esistenziale. Ilpensiero estetico è quel pensiero che non riferisce ad«altro» il valore dell'esistere intuitivo fuorchè alla suaforma sensibile: la chiama bella se vale per sè, in natura,anche se son io che la contemplo e fu l'artista che la vol-le a quel modo. Allora, la filosofia dell'arte ci deve sve-lare il segreto del come un valore, esplicito e antinomiz-zato nel pensiero, si attua, si fa sensibile, «diviene» real-mente e non per sola mediazione conoscitiva; infatti,tutto il pensiero può passar nell'arte. E la riflessione sulfondamento del criterio artistico apre la via a risolvere ilproblema del bello in natura: voglio dire, a comprenderel'immanenza d'un valore riferibile alla cosa in sè,all'essere universale, e non solamente alla soggettività diun fine umano.

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ste, in quanto è raggiunto, immanente al dato – e quindil'unico piacere che appaghi il volere, che sia solo piace-re –; pertanto ciò che conta, anche nell'arte, è questo esi-stere e il modo com'è espresso nella realtà in sè diun'opera d'arte.

Insomma, la mia tesi va in senso opposto a quellodell'estetica corrente: non esiste realmente altro valoreche il bello, che vale in quanto sensibile, e perciò pròvaempiricamente la possibilità dei valori trascendentali ece li «presenta»; l'arte è quell'attività che si pone perfine la stessa forma sensibile, e sensibilmente si attua,diviene esistenza: fa esistere il soggetto spirituale in unapresenza, che riman poi nello spazio e nel tempo a rap-presentare i valori umani in una forma esistenziale. Ilpensiero estetico è quel pensiero che non riferisce ad«altro» il valore dell'esistere intuitivo fuorchè alla suaforma sensibile: la chiama bella se vale per sè, in natura,anche se son io che la contemplo e fu l'artista che la vol-le a quel modo. Allora, la filosofia dell'arte ci deve sve-lare il segreto del come un valore, esplicito e antinomiz-zato nel pensiero, si attua, si fa sensibile, «diviene» real-mente e non per sola mediazione conoscitiva; infatti,tutto il pensiero può passar nell'arte. E la riflessione sulfondamento del criterio artistico apre la via a risolvere ilproblema del bello in natura: voglio dire, a comprenderel'immanenza d'un valore riferibile alla cosa in sè,all'essere universale, e non solamente alla soggettività diun fine umano.

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VII.L'ARTE

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1. – Abbiamo così messo il piede sopra la sogliadell'estetica, intesa questa come critica del bello in parti-colare e teoria dell'arte. Questa arte della critica filosofi-ca riflette su l'attività estetica allo scopo di cercare ilfondamento al criterio valido per ogni giudizio estetico.Se io affermo ch'è bello un paesaggio o un quadro, e seimplicitamente un giudizio analogo guidava la mano delpittore, ci dev'essere un principio a cui farne risalire laragione o il torto, ci dev'essere un valore in cui consistail fine e quindi la norma dell'opera d'arte e da cui dipen-da il piacere della contemplazione del bello. Perchè as-serire a priori che l'estetica non debba servire all'arte ealla critica d'arte, sol perchè è filosofia? Anzi, a priori,gli artisti e i critici di letteratura e d'arte hanno tutto ildiritto d'aspettarsi dagli estetisti l'orientamento per i lorogiudizi e di dichiararsi poi insoddisfatti di quella filoso-fia, che non sia riuscita a dargliene uno convincente.

Certo, l'estetica filosofica non può «servire» al crite-rio d'arte nel significato comune di quel termine: vale adire che non può sostituire l'attività o anche la sensibili-tà estetica quando manchino; non può essa fornire i finie i mezzi attuali dell'arte creando le capacità e il gustoestetico. Allo stesso modo che la logica non serve a ra-

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1. – Abbiamo così messo il piede sopra la sogliadell'estetica, intesa questa come critica del bello in parti-colare e teoria dell'arte. Questa arte della critica filosofi-ca riflette su l'attività estetica allo scopo di cercare ilfondamento al criterio valido per ogni giudizio estetico.Se io affermo ch'è bello un paesaggio o un quadro, e seimplicitamente un giudizio analogo guidava la mano delpittore, ci dev'essere un principio a cui farne risalire laragione o il torto, ci dev'essere un valore in cui consistail fine e quindi la norma dell'opera d'arte e da cui dipen-da il piacere della contemplazione del bello. Perchè as-serire a priori che l'estetica non debba servire all'arte ealla critica d'arte, sol perchè è filosofia? Anzi, a priori,gli artisti e i critici di letteratura e d'arte hanno tutto ildiritto d'aspettarsi dagli estetisti l'orientamento per i lorogiudizi e di dichiararsi poi insoddisfatti di quella filoso-fia, che non sia riuscita a dargliene uno convincente.

Certo, l'estetica filosofica non può «servire» al crite-rio d'arte nel significato comune di quel termine: vale adire che non può sostituire l'attività o anche la sensibili-tà estetica quando manchino; non può essa fornire i finie i mezzi attuali dell'arte creando le capacità e il gustoestetico. Allo stesso modo che la logica non serve a ra-

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gionare e l'etica a operar bene: in tal senso, la filosofianon serve a niente... Ma come queste due parti della fi-losofia dànno al pensiero teoretico e pratico la consape-volezza dei fini e dei mezzi, dei limiti e delle condizio-ni, delle distinzioni e dell'unità de' suoi valori, e appuntoservono a illuminarci circa il principio formale di queicontenuti e atti, sul quale fondare il criterio per giudica-re della lor realtà o bontà, così l'estetica è chiamata a il-luminare e dirigere l'attività estetica come una normapuò e deve dirigere una qualsiasi attività, universalmen-te e non particolarmente. Laddove invece una filosofiache non sia applicabile al concreto e non si possa tra-sformare in norma di vita, ritorna ad essere essa medesi-ma un fatto della vita (per es. il piacere di ragionare perragionare, magari in correttissima terminologia filosofi-ca, visibile nel dilettantismo filosofeggiante o in certi li-bri di paranoici), distaccato dagli altri e accanto agli al-tri.

La filosofia spesso ha deluso le esigenze estetiche peraltre ragioni. Di solito considerò questo problema comesecondario e subordinato a quello teoretico e a quellopratico, e violentemente lo trascinò a seguir le sorti dellesoluzioni di questi altri problemi e quasi a venir riassor-bito in essi: ora travolto dal rigorismo etico sotto le ondedell'iconoclastia, ora ridotto dall'intellettualismo teoreti-co a formar quasi una gnoseologia minore: il valoreestetico si perdeva durante la stessa ricerca. Basta che ilfilosofo continui, per tradizione o per abito mentale (ra-ramente egli è «artista»; più spesso è soltanto un po'

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gionare e l'etica a operar bene: in tal senso, la filosofianon serve a niente... Ma come queste due parti della fi-losofia dànno al pensiero teoretico e pratico la consape-volezza dei fini e dei mezzi, dei limiti e delle condizio-ni, delle distinzioni e dell'unità de' suoi valori, e appuntoservono a illuminarci circa il principio formale di queicontenuti e atti, sul quale fondare il criterio per giudica-re della lor realtà o bontà, così l'estetica è chiamata a il-luminare e dirigere l'attività estetica come una normapuò e deve dirigere una qualsiasi attività, universalmen-te e non particolarmente. Laddove invece una filosofiache non sia applicabile al concreto e non si possa tra-sformare in norma di vita, ritorna ad essere essa medesi-ma un fatto della vita (per es. il piacere di ragionare perragionare, magari in correttissima terminologia filosofi-ca, visibile nel dilettantismo filosofeggiante o in certi li-bri di paranoici), distaccato dagli altri e accanto agli al-tri.

La filosofia spesso ha deluso le esigenze estetiche peraltre ragioni. Di solito considerò questo problema comesecondario e subordinato a quello teoretico e a quellopratico, e violentemente lo trascinò a seguir le sorti dellesoluzioni di questi altri problemi e quasi a venir riassor-bito in essi: ora travolto dal rigorismo etico sotto le ondedell'iconoclastia, ora ridotto dall'intellettualismo teoreti-co a formar quasi una gnoseologia minore: il valoreestetico si perdeva durante la stessa ricerca. Basta che ilfilosofo continui, per tradizione o per abito mentale (ra-ramente egli è «artista»; più spesso è soltanto un po'

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«letterato»), a riguardare l'estetico dal punto di vistad'un altro valore – per esempio, logico –, perchè gli di-venti impossibile giunger più a una positiva conclusioneestetica: sia che svaluti la bellezza e l'arte chiamandoleillusione, imitazione, fantasia, soggettività; sia che pon-ga l'arte in cima a tutte le umane potenze, quasi il fioredello spirito, dichiarando che il bello è rivelatore delmondo assoluto, o anzi ch'esso è l'assoluto e che l'artistaè in contatto diretto con la realtà più vera, più essenzia-le, più religiosa; nell'uno e nell'altro caso sapremo, semai, che valore noetico ha l'arte, non sapremo che cos'èo dev'essere l'arte come tale.

Spettacolo interessante! la filosofia è ancor oggi aquesto bivio, dovuto al suo persistente realismo logicoed etico. È costretta a convenire nella distinzione del va-lore estetico, a convenire che il bello non stia nè nellarealtà d'un oggetto, condizionata dalla nostra attivitàteoretica, perchè un oggetto non è bello in quanto ogget-tivamente reale e la verità d'un contenuto non aumentanè diminuisce la sua bellezza; nè che d'altra parte pos-siam porre tal bellezza nei valori morali, che può impli-care ma non è obbligata a farlo per esser bellezza, e anzine vien menomata quando si lasci dirigere da fini praticiinvece che estetici. In tal caso la filosofia, pur se filoso-fia idealista, per mantenere la distinzione si gettaall'empirismo, e nega che si possa ricondurre l'estetico aun fondamento e a una norma che superi il fatto indivi-duale d'esser volta per volta quello che è o si fa: il bellonon è che il piacere del bello; l'arte non è che attività

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«letterato»), a riguardare l'estetico dal punto di vistad'un altro valore – per esempio, logico –, perchè gli di-venti impossibile giunger più a una positiva conclusioneestetica: sia che svaluti la bellezza e l'arte chiamandoleillusione, imitazione, fantasia, soggettività; sia che pon-ga l'arte in cima a tutte le umane potenze, quasi il fioredello spirito, dichiarando che il bello è rivelatore delmondo assoluto, o anzi ch'esso è l'assoluto e che l'artistaè in contatto diretto con la realtà più vera, più essenzia-le, più religiosa; nell'uno e nell'altro caso sapremo, semai, che valore noetico ha l'arte, non sapremo che cos'èo dev'essere l'arte come tale.

Spettacolo interessante! la filosofia è ancor oggi aquesto bivio, dovuto al suo persistente realismo logicoed etico. È costretta a convenire nella distinzione del va-lore estetico, a convenire che il bello non stia nè nellarealtà d'un oggetto, condizionata dalla nostra attivitàteoretica, perchè un oggetto non è bello in quanto ogget-tivamente reale e la verità d'un contenuto non aumentanè diminuisce la sua bellezza; nè che d'altra parte pos-siam porre tal bellezza nei valori morali, che può impli-care ma non è obbligata a farlo per esser bellezza, e anzine vien menomata quando si lasci dirigere da fini praticiinvece che estetici. In tal caso la filosofia, pur se filoso-fia idealista, per mantenere la distinzione si gettaall'empirismo, e nega che si possa ricondurre l'estetico aun fondamento e a una norma che superi il fatto indivi-duale d'esser volta per volta quello che è o si fa: il bellonon è che il piacere del bello; l'arte non è che attività

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spontanea, assolutamente arbitraria e creativa, e ogniopera d'arte è affatto individuale, imparagonabile con lealtre e indeducibile da un criterio che la superi; l'esteticoè soggettività pura, immediatezza prima del sentimento,mera intuitività, ecc. ecc. Ma esteticamente parlando,questa conclusione, che il bello e l'arte non sono nulla,non son neppure pensiero, perchè immediatezza e spon-taneità, e, infine, sentimento, rimanendo empirica, èscettica.

Allora, per superarla, la filosofia ritorna all'oppostatesi, cancellando la distinzione e immedesimando il bel-lo nel pensiero conoscitivo e nel volere pratico, e cer-cando di far rientrare l'attività estetica in quella logica emorale come un lor grado minore, come una conoscenzadell'individuale ma non ancora logica, come un sentirenon ancora volere; o come semplice «momento» sogget-tivo dello spirito, astrattamente immediato e irreale, mache si concretizza e realizza annullandosi (in quantoarte) nei successivi momenti della conoscenza oggettiva(scienza e religione) e dell'autocoscienza del pensiero(storia e filosofia). Ma così il bello ritorna a valere real-mente sol in quanto abbia dei contenuti veri, e ideal-mente sol in quanto sia ispirazione etica. E l'estetica fi-losofica è filosofia sol in quanto riconduce l'estetico adaltri valori, e non può più offrire alcuna norma all'artistao al critico d'arte in quanto tali: è quella filosofia esteti-ca che non è più estetica, ma filosofia senza aggettivi.

Non questo ci chiede il lettore non appena, fattoesperto delle aporie e contraddizioni alle quali va incon-

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spontanea, assolutamente arbitraria e creativa, e ogniopera d'arte è affatto individuale, imparagonabile con lealtre e indeducibile da un criterio che la superi; l'esteticoè soggettività pura, immediatezza prima del sentimento,mera intuitività, ecc. ecc. Ma esteticamente parlando,questa conclusione, che il bello e l'arte non sono nulla,non son neppure pensiero, perchè immediatezza e spon-taneità, e, infine, sentimento, rimanendo empirica, èscettica.

Allora, per superarla, la filosofia ritorna all'oppostatesi, cancellando la distinzione e immedesimando il bel-lo nel pensiero conoscitivo e nel volere pratico, e cer-cando di far rientrare l'attività estetica in quella logica emorale come un lor grado minore, come una conoscenzadell'individuale ma non ancora logica, come un sentirenon ancora volere; o come semplice «momento» sogget-tivo dello spirito, astrattamente immediato e irreale, mache si concretizza e realizza annullandosi (in quantoarte) nei successivi momenti della conoscenza oggettiva(scienza e religione) e dell'autocoscienza del pensiero(storia e filosofia). Ma così il bello ritorna a valere real-mente sol in quanto abbia dei contenuti veri, e ideal-mente sol in quanto sia ispirazione etica. E l'estetica fi-losofica è filosofia sol in quanto riconduce l'estetico adaltri valori, e non può più offrire alcuna norma all'artistao al critico d'arte in quanto tali: è quella filosofia esteti-ca che non è più estetica, ma filosofia senza aggettivi.

Non questo ci chiede il lettore non appena, fattoesperto delle aporie e contraddizioni alle quali va incon-

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tro il giudizio empirico che si suol dare in materia esteti-ca quando anche i più intelligenti (e gli stessi artisti)cercan di giustificare il perchè di tal giudizio e il perchèdel loro piacere e dispiacere estetico, si rivolge a noisperando di trovare qualcosa di analogo a ciò che glidice l'etica circa le sue esigenze morali, o la noetica cir-ca le sue conoscenze; e fosse pure, s'intende, nel contra-sto dialettico delle scuole e degli indirizzi filosofici. Illettore non crede che un suo giudizio, «Il tal quadro èbello», sia da considerarsi assoluto e valga per sè stesso,empiricamente (arbitrariamente); crede che la validità dital giudizio empirico dipenda da «qualcosa», ch'eglideve presupporre affinchè ciò che gli sembra bello lo siaveramente, sia bello anche in sè, sebbene questo in sènon riguardi un trascendente, un oggetto rappresentatoin parole, ma quell'esistere, e magari le parole stesse inquanto valgono esteticamente. E giustamente pretendeche la filosofia glie lo definisca.

2. – La filosofia odierna (ripeto) sbarra questa via allacritica con una pregiudiziale: soggettivo è il bello, sog-gettivissima l'arte e ancor più soggettivo è il giudizio ocriterio estetico. Non vi troveremo sotto altra natura chequella dell'io, il sentimento26.

26 E certamente, se per soggettività intendiamo la subiettività,la relatività a me d'un giudizio, io rincarerei ancora la dose: il giu-dizio estetico è il più fallace contingente volubile dei giudizi, eniuno più di questo è pronto a mutare con gli anni, con l'ambien-te, con le circostanze di fatto, con la cultura. Riguardo all'arte noi

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tro il giudizio empirico che si suol dare in materia esteti-ca quando anche i più intelligenti (e gli stessi artisti)cercan di giustificare il perchè di tal giudizio e il perchèdel loro piacere e dispiacere estetico, si rivolge a noisperando di trovare qualcosa di analogo a ciò che glidice l'etica circa le sue esigenze morali, o la noetica cir-ca le sue conoscenze; e fosse pure, s'intende, nel contra-sto dialettico delle scuole e degli indirizzi filosofici. Illettore non crede che un suo giudizio, «Il tal quadro èbello», sia da considerarsi assoluto e valga per sè stesso,empiricamente (arbitrariamente); crede che la validità dital giudizio empirico dipenda da «qualcosa», ch'eglideve presupporre affinchè ciò che gli sembra bello lo siaveramente, sia bello anche in sè, sebbene questo in sènon riguardi un trascendente, un oggetto rappresentatoin parole, ma quell'esistere, e magari le parole stesse inquanto valgono esteticamente. E giustamente pretendeche la filosofia glie lo definisca.

2. – La filosofia odierna (ripeto) sbarra questa via allacritica con una pregiudiziale: soggettivo è il bello, sog-gettivissima l'arte e ancor più soggettivo è il giudizio ocriterio estetico. Non vi troveremo sotto altra natura chequella dell'io, il sentimento26.

26 E certamente, se per soggettività intendiamo la subiettività,la relatività a me d'un giudizio, io rincarerei ancora la dose: il giu-dizio estetico è il più fallace contingente volubile dei giudizi, eniuno più di questo è pronto a mutare con gli anni, con l'ambien-te, con le circostanze di fatto, con la cultura. Riguardo all'arte noi

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Ma per chi si pone dentro l'estetico, la questione dellasoggettività di questo valore diventa, semplicemente,una questione naturalistica, riguardante le cause naturalidel sentimento e dell'attività estetica; o storica, rispettoal loro divenire nel tempo. Non avremmo difficoltà aconsentire circa la natura soggettiva, e anzi umana, di

siamo soggetti a tutti gli «idola» baconiani assai più che riguardoalla scienza. Tutta la nostra vita affettiva entra e si mescola nelgiudizio estetico conformandolo a esigenze e sentimenti pratici:un'antipatica Teresa ci fa parer brutto il suo nome; se un roman-ziere ci parla di persone e cose che trovino rispondenza nella no-stra vita, egli per qualche tempo diventa il nostro preferito;nell'adolescenza, per es., pur essendo vivo il senso d'arte, cosìstrettamente connesso alla vita sensuale, incertissimo è il giudizioestetico: nove volte su dieci il giovinetto erra, non foss'altro pereccesso e per difetto dovuti alla suggestione di certi contenuti af-fettivi della forma artistica. Ma più d'ogni altro subiettivo e par-ziale è quasi sempre il criterio degli artisti medesimi, legati allapropria arte e ciechi su quella degli altri.

Non basta. Oggi ci meravigliano e ci deludono i giudizi dati daartisti e da critici pure grandissimi (da Leonardo a Goethe!) neiloro scritti, ne' lor viaggi, nelle loro lettere; come ci stupisce lafreddezza con cui venner accolti, mettiamo, i «Sepolcri» o i «Pro-messi sposi» (per es., questi, da un Leopardi!); o le alterne vicen-de della «Divina Commedia» ne' vari secoli. E se da una parte ilgiudizio estetico ne apparisce individualissimo e capricciosamen-te subiettivo, dall'altra ci appar influenzato dalle abitudini, dalleopinioni correnti, e non soltanto la fama, ma anche la gloria, do-vute ad un consenso che si forma, rapidamente o lentamente, perragioni occasionali o sociali che reagiscono sul giudizio soggetti-vo e che, per gran parte, creano esse il merito di un'opera d'arte. Ilgusto muta, non solo perchè interpreta riassume e simboleggia i

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Ma per chi si pone dentro l'estetico, la questione dellasoggettività di questo valore diventa, semplicemente,una questione naturalistica, riguardante le cause naturalidel sentimento e dell'attività estetica; o storica, rispettoal loro divenire nel tempo. Non avremmo difficoltà aconsentire circa la natura soggettiva, e anzi umana, di

siamo soggetti a tutti gli «idola» baconiani assai più che riguardoalla scienza. Tutta la nostra vita affettiva entra e si mescola nelgiudizio estetico conformandolo a esigenze e sentimenti pratici:un'antipatica Teresa ci fa parer brutto il suo nome; se un roman-ziere ci parla di persone e cose che trovino rispondenza nella no-stra vita, egli per qualche tempo diventa il nostro preferito;nell'adolescenza, per es., pur essendo vivo il senso d'arte, cosìstrettamente connesso alla vita sensuale, incertissimo è il giudizioestetico: nove volte su dieci il giovinetto erra, non foss'altro pereccesso e per difetto dovuti alla suggestione di certi contenuti af-fettivi della forma artistica. Ma più d'ogni altro subiettivo e par-ziale è quasi sempre il criterio degli artisti medesimi, legati allapropria arte e ciechi su quella degli altri.

Non basta. Oggi ci meravigliano e ci deludono i giudizi dati daartisti e da critici pure grandissimi (da Leonardo a Goethe!) neiloro scritti, ne' lor viaggi, nelle loro lettere; come ci stupisce lafreddezza con cui venner accolti, mettiamo, i «Sepolcri» o i «Pro-messi sposi» (per es., questi, da un Leopardi!); o le alterne vicen-de della «Divina Commedia» ne' vari secoli. E se da una parte ilgiudizio estetico ne apparisce individualissimo e capricciosamen-te subiettivo, dall'altra ci appar influenzato dalle abitudini, dalleopinioni correnti, e non soltanto la fama, ma anche la gloria, do-vute ad un consenso che si forma, rapidamente o lentamente, perragioni occasionali o sociali che reagiscono sul giudizio soggetti-vo e che, per gran parte, creano esse il merito di un'opera d'arte. Ilgusto muta, non solo perchè interpreta riassume e simboleggia i

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questo (come d'ogni altro) valore! Ma qui prima urgedefinire l'estetico esteticamente, non obbiettivamente(nelle sue cause naturali e circostanze storiche), perchètanto ciò che nella coscienza estetica apparirà la sogget-tività del bello (l'«animazione del mondo», la «liricità»),quanto ciò che ne apparirà l'oggettività (il bello stesso,

tempi – il che sarebbe il suo natural divenire, la storia del gustoestetico in quanto tale –, ma anche, visibilmente, perchè i tempi,le opinioni correnti e lo stesso tenor di vita reagiscon sopra diesso influenzandolo per circostanze estrinseche.

Perfino la qualità dell'interesse estetico e il modo di giudicarl'arte cangiano nei tempi come negli uomini come nelle classi enegli ambienti. Ora l'estetico non è che un diletto e uno svago, unozio concesso alle ore di riposo, ora è una profonda esigenza cheinforma di sè e dirige anche la vita pratica e religiosa; ora il giudi-zio riguarda la capacità e abilità dell'artista, la sua bravura e il suovirtuosismo, oppure la sua originalità, ora invece l'opera, spessoanonima, spesso collettiva, vale per sè; o gli autori trattano e sitrasmettono gli stessi contenuti. Inoltre, nel gusto si determinanodei circoli chiusi, non solo di scuole e correnti, ma anche dei ge-neri d'arte, per cui, mettiamo, il letterato o l'amico delle lettere èspesso sordo alla musica e cieco alla pittura e non apprezza que-ste arti che in una mentale traduzione in letteratura.

Ancora. Nel giudicare un'opera d'arte, o ci mettiamo in una po-sizione, per così dire, passiva, attendendo che il valore si riveli alsuo solo aspetto, e in tal caso mille contingenze posson ugual-mente far variare il nostro giudizio sulla stessa opera, come peres. l'interpretazione (esecuzione musicale, recitazione ecc.) o latraduzione o la riproduzione che ce ne vengon fornite; o anche lasemplice collocazione e qualunque altra causa puramente occa-sionale. Oppure andiamo incontro attivamente all'impressione ar-tistica, e allora infinite ragioni subiettive culturali e ideologiche

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questo (come d'ogni altro) valore! Ma qui prima urgedefinire l'estetico esteticamente, non obbiettivamente(nelle sue cause naturali e circostanze storiche), perchètanto ciò che nella coscienza estetica apparirà la sogget-tività del bello (l'«animazione del mondo», la «liricità»),quanto ciò che ne apparirà l'oggettività (il bello stesso,

tempi – il che sarebbe il suo natural divenire, la storia del gustoestetico in quanto tale –, ma anche, visibilmente, perchè i tempi,le opinioni correnti e lo stesso tenor di vita reagiscon sopra diesso influenzandolo per circostanze estrinseche.

Perfino la qualità dell'interesse estetico e il modo di giudicarl'arte cangiano nei tempi come negli uomini come nelle classi enegli ambienti. Ora l'estetico non è che un diletto e uno svago, unozio concesso alle ore di riposo, ora è una profonda esigenza cheinforma di sè e dirige anche la vita pratica e religiosa; ora il giudi-zio riguarda la capacità e abilità dell'artista, la sua bravura e il suovirtuosismo, oppure la sua originalità, ora invece l'opera, spessoanonima, spesso collettiva, vale per sè; o gli autori trattano e sitrasmettono gli stessi contenuti. Inoltre, nel gusto si determinanodei circoli chiusi, non solo di scuole e correnti, ma anche dei ge-neri d'arte, per cui, mettiamo, il letterato o l'amico delle lettere èspesso sordo alla musica e cieco alla pittura e non apprezza que-ste arti che in una mentale traduzione in letteratura.

Ancora. Nel giudicare un'opera d'arte, o ci mettiamo in una po-sizione, per così dire, passiva, attendendo che il valore si riveli alsuo solo aspetto, e in tal caso mille contingenze posson ugual-mente far variare il nostro giudizio sulla stessa opera, come peres. l'interpretazione (esecuzione musicale, recitazione ecc.) o latraduzione o la riproduzione che ce ne vengon fornite; o anche lasemplice collocazione e qualunque altra causa puramente occa-sionale. Oppure andiamo incontro attivamente all'impressione ar-tistica, e allora infinite ragioni subiettive culturali e ideologiche

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come forma), sono ormai in funzione di questo valoresensibile e non viceversa. Sotto tale aspetto critico,l'estetico, come abbiam visto, non è deducibile nè da unconcetto obbiettivo (nemmeno del «soggetto»), nè dauna norma di tipo pratico, ossia trascendente l'esistenza.Dove lo porremo noi dunque?

s'affollano a forzare il giudizio su quell'opera, che un intenditoretecnico valuterà ben diversamente da un dilettante, e la prima vol-ta diversamente da una seconda. Del pari, un rudere di colonna,un frammento di poesia che ci giunga dal silenzio dei secoli, noili giudichiamo secondo una fantasia e una ricostruzione tutta no-stra. Del pari, le scorrettezze di artisti primitivi o gli sgorbi sche-matici dei ragazzi, noi volentieri li chiamiamo freschezza e inge-nuità perchè tali sono per noi...

Sì, queste e mille altre osservazioni su la variabilità del gusto edel criterio estetico autorizzerebbero a concludere che il giudizioestetico sia soggettivo. Ma in tal senso, della relatività, contingen-za e quindi mutevolezza di un giudizio e d'una particolare espe-rienza, soggettivi sono tutti i giudizi, anche storici o morali, a'quali s'addice appunto il «tot capita tot sententiae»; e soggettivo èogni nostro accadimento in quanto nostro. Si tratta della relativitàpsicologica e storica d'ogni valore, del modo con cui questos'attua in concreto e l'universale s'individualizza; ma ciò non to-glie, anzi presuppone l'universalità dei valori... E come un singologiudizio di verità o di bene, quantunque nel fatto relativo a chi lopronuncia, e psicologicamente e storicamente determinato nellasua contingenza, presuppone tuttavia che ci debban essere unvero e un bene in sè necessari, condizione a priori della validitàd'un tal giudizio, così, se io dico che la tal cosa od opera è bella, och'è più bella di un'altra, giusto o errato che sia il mio giudizio,esso è possibile alla sola condizione che esista un bello (o almenopossa esistere); e sta appunto alla filosofia estetica definire questo

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come forma), sono ormai in funzione di questo valoresensibile e non viceversa. Sotto tale aspetto critico,l'estetico, come abbiam visto, non è deducibile nè da unconcetto obbiettivo (nemmeno del «soggetto»), nè dauna norma di tipo pratico, ossia trascendente l'esistenza.Dove lo porremo noi dunque?

s'affollano a forzare il giudizio su quell'opera, che un intenditoretecnico valuterà ben diversamente da un dilettante, e la prima vol-ta diversamente da una seconda. Del pari, un rudere di colonna,un frammento di poesia che ci giunga dal silenzio dei secoli, noili giudichiamo secondo una fantasia e una ricostruzione tutta no-stra. Del pari, le scorrettezze di artisti primitivi o gli sgorbi sche-matici dei ragazzi, noi volentieri li chiamiamo freschezza e inge-nuità perchè tali sono per noi...

Sì, queste e mille altre osservazioni su la variabilità del gusto edel criterio estetico autorizzerebbero a concludere che il giudizioestetico sia soggettivo. Ma in tal senso, della relatività, contingen-za e quindi mutevolezza di un giudizio e d'una particolare espe-rienza, soggettivi sono tutti i giudizi, anche storici o morali, a'quali s'addice appunto il «tot capita tot sententiae»; e soggettivo èogni nostro accadimento in quanto nostro. Si tratta della relativitàpsicologica e storica d'ogni valore, del modo con cui questos'attua in concreto e l'universale s'individualizza; ma ciò non to-glie, anzi presuppone l'universalità dei valori... E come un singologiudizio di verità o di bene, quantunque nel fatto relativo a chi lopronuncia, e psicologicamente e storicamente determinato nellasua contingenza, presuppone tuttavia che ci debban essere unvero e un bene in sè necessari, condizione a priori della validitàd'un tal giudizio, così, se io dico che la tal cosa od opera è bella, och'è più bella di un'altra, giusto o errato che sia il mio giudizio,esso è possibile alla sola condizione che esista un bello (o almenopossa esistere); e sta appunto alla filosofia estetica definire questo

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Io risponderei: Dove lo posero sempre gli artisti chefecero l'arte! quell'arte che diventa, poi, per il contem-plante, il bello artistico, e che c'insegna anche a cercare,e ci aiuta a trovare il bello in natura, giacchè dai poetiabbiamo imparato a godere il gorgheggio dell'usignuolo,da Giorgione a incantarci d'un umido fondo verde, dalPerugino a commuoverci d'un esile volto, da Leonardo asentire la spiritualità e dal Caravaggio la corporeità de-gli oggetti fra ombra e luce. (Del resto, basta uscire daun cinematografo per sorprenderci a cercare negli aspet-ti di persone e cose prima del tutto indifferenti la lorespressività). È dunque buona norma di prudenza, oltreche di modestia, interrogare prima di tutto la coscienzaartistica, per sapere in che cosa essa faccia consisterel'arte.

Non è necessario indagar questa coscienza istituendol'analisi di supposte facoltà creatrici dell'arte dal subcon-scio di un'«ispirazione», che ne sarebbe la misteriosa es-senza, quasi che l'arte si compia, o anche soltanto s'inizi«nello spirito» prima del suo attuarsi nella real formasensibile, anche il tentativo, l'abbozzo, lo «studio» sonoarte, ma incominciano ad esserlo sulla carta, sulla tela,nella creta e, breve, in quella «materia» di cui l'arte èformata: non se ne cura lo spettatore mancante di sensi-bilità – che nell'arte cercherà i contenuti (le cose rappre-sentate, le idee) e salterà la forma –, ma essa è la delizia

valore in sè, anche se nel detto giudizio si relativizzi al mio mododi sentirlo e d'apprezzarlo.

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Io risponderei: Dove lo posero sempre gli artisti chefecero l'arte! quell'arte che diventa, poi, per il contem-plante, il bello artistico, e che c'insegna anche a cercare,e ci aiuta a trovare il bello in natura, giacchè dai poetiabbiamo imparato a godere il gorgheggio dell'usignuolo,da Giorgione a incantarci d'un umido fondo verde, dalPerugino a commuoverci d'un esile volto, da Leonardo asentire la spiritualità e dal Caravaggio la corporeità de-gli oggetti fra ombra e luce. (Del resto, basta uscire daun cinematografo per sorprenderci a cercare negli aspet-ti di persone e cose prima del tutto indifferenti la lorespressività). È dunque buona norma di prudenza, oltreche di modestia, interrogare prima di tutto la coscienzaartistica, per sapere in che cosa essa faccia consisterel'arte.

Non è necessario indagar questa coscienza istituendol'analisi di supposte facoltà creatrici dell'arte dal subcon-scio di un'«ispirazione», che ne sarebbe la misteriosa es-senza, quasi che l'arte si compia, o anche soltanto s'inizi«nello spirito» prima del suo attuarsi nella real formasensibile, anche il tentativo, l'abbozzo, lo «studio» sonoarte, ma incominciano ad esserlo sulla carta, sulla tela,nella creta e, breve, in quella «materia» di cui l'arte èformata: non se ne cura lo spettatore mancante di sensi-bilità – che nell'arte cercherà i contenuti (le cose rappre-sentate, le idee) e salterà la forma –, ma essa è la delizia

valore in sè, anche se nel detto giudizio si relativizzi al mio mododi sentirlo e d'apprezzarlo.

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e il fine (estetico) dell'artista. Il quale, per lo più, è unserio e buon operaio che lavora le sue tante ore dellagiornata molto pacatamente, senz'altra ispirazione che iltema da svolgere o quella che gli deriva da' suoi stessimezzi, facendo; ma si trattasse anche dell'artista che pia-ce ai romantici, frenetico e dionisiaco, ispirato e imma-ginoso, tutto questo tumulto di sentimenti e di fantasmi,utilissimo per le dispute dei cenacoli, può naufragare neipiù deplorevoli saggi, se non è accompagnato da una«facoltà» molto più modesta, ch'è la sensibilità estetica,la capacità (e l'abilità!) di accordare la forma sensibile aquelle vaste elucubrazioni e profondità spirituali.

Conosciamo troppo bene gli artisti e la loro vita percredere una parola di quell'esoterismo sul divino afflatodell'arte, che a sua volta è un'invenzione della letteraturaromantica, su reminiscenze platoniche. Le buone inten-zioni, son tutto in etica, ma nulla valgono in arte, dov'èquestione di formare in concreto, fosse pure il più umileoggetto («In arte, non s'è padroni del pensiero che quan-do s'è padroni della forma», diceva anche il più romanti-co dei musicisti romantici, lo Schumann). E l'ispirazio-ne, che è tanto nella vita religiosa, in arte conta menodella pazienza: perfino al poeta, fu detto, il primo versoviene da Dio, ma gli altri se li deve trovare col suo fati-coso lavoro (vedere, per credere, come il Leopardi ela-borava i suoi canti più «sinceri»); la «spontaneità» e la«semplicità» dell'arte non sono invece che le forme rag-giunte dal gusto più squisito e dalla tecnica così perfet-tamente conquistata, da sparire come tecnica («l'arte che

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e il fine (estetico) dell'artista. Il quale, per lo più, è unserio e buon operaio che lavora le sue tante ore dellagiornata molto pacatamente, senz'altra ispirazione che iltema da svolgere o quella che gli deriva da' suoi stessimezzi, facendo; ma si trattasse anche dell'artista che pia-ce ai romantici, frenetico e dionisiaco, ispirato e imma-ginoso, tutto questo tumulto di sentimenti e di fantasmi,utilissimo per le dispute dei cenacoli, può naufragare neipiù deplorevoli saggi, se non è accompagnato da una«facoltà» molto più modesta, ch'è la sensibilità estetica,la capacità (e l'abilità!) di accordare la forma sensibile aquelle vaste elucubrazioni e profondità spirituali.

Conosciamo troppo bene gli artisti e la loro vita percredere una parola di quell'esoterismo sul divino afflatodell'arte, che a sua volta è un'invenzione della letteraturaromantica, su reminiscenze platoniche. Le buone inten-zioni, son tutto in etica, ma nulla valgono in arte, dov'èquestione di formare in concreto, fosse pure il più umileoggetto («In arte, non s'è padroni del pensiero che quan-do s'è padroni della forma», diceva anche il più romanti-co dei musicisti romantici, lo Schumann). E l'ispirazio-ne, che è tanto nella vita religiosa, in arte conta menodella pazienza: perfino al poeta, fu detto, il primo versoviene da Dio, ma gli altri se li deve trovare col suo fati-coso lavoro (vedere, per credere, come il Leopardi ela-borava i suoi canti più «sinceri»); la «spontaneità» e la«semplicità» dell'arte non sono invece che le forme rag-giunte dal gusto più squisito e dalla tecnica così perfet-tamente conquistata, da sparire come tecnica («l'arte che

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tutto fa, nulla si scopre») e sembrare natura, immedia-tezza – fare come la natura, consigliava il Kant all'arti-sta (il che è diverso dall'esserlo!) –: debbo citare Man-zoni e Flaubert? Omero, non fu il fiore estremo (e quasiunico superstite) di un'intera, scomparsa civiltà prece-dente?

La psicologia dell'artista non è diversa dalla psicolo-gia dei comuni mortali (e quindi non spiega l'arte). Lavita dell'artista può passare nell'arte, può divenire arte,ma non è ancor arte; e ci sono artisti che prendono icontenuti completamente fuori della loro vita e della loresperienza umana, e che traggono ispirazione fuori dellaloro stessa eticità, magari da nient'altro che dalla stessaforma artistica («l'arte per l'arte»); basta pensare, per es.,a tutto il Seicento, dal Bernini e dal Borromini al Cara-vaggio e al Rosa, artisti dalla vita torbida e passionale edall'arte purissima. Poco monta che Bartolomeo dellaPorta fosse stato un fanatico savonaroliano e Lorenzo diCredi uno scettico: l'arte di questo è soavemente religio-sa, l'arte di quello materialistica e superficiale.

Il problema non è psicologico. Morale o immoraleche sia l'artista, sapiente o ignorante, freddo o sentimen-tale, non se ne deducono affatto gli stessi caratteri perl'opera sua (nè, viceversa, si può risalire, come la simpa-tia e l'ammirazione c'inducono spesso a fare, dall'operaalla personalità umana dell'artista). E abbia o non abbiaegli una propria ispirazione e un proprio contenuto, o liprenda d'accatto e «di maniera», è unicamente nel rap-porto alla forma espressiva, chiamata «stile», che gli

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tutto fa, nulla si scopre») e sembrare natura, immedia-tezza – fare come la natura, consigliava il Kant all'arti-sta (il che è diverso dall'esserlo!) –: debbo citare Man-zoni e Flaubert? Omero, non fu il fiore estremo (e quasiunico superstite) di un'intera, scomparsa civiltà prece-dente?

La psicologia dell'artista non è diversa dalla psicolo-gia dei comuni mortali (e quindi non spiega l'arte). Lavita dell'artista può passare nell'arte, può divenire arte,ma non è ancor arte; e ci sono artisti che prendono icontenuti completamente fuori della loro vita e della loresperienza umana, e che traggono ispirazione fuori dellaloro stessa eticità, magari da nient'altro che dalla stessaforma artistica («l'arte per l'arte»); basta pensare, per es.,a tutto il Seicento, dal Bernini e dal Borromini al Cara-vaggio e al Rosa, artisti dalla vita torbida e passionale edall'arte purissima. Poco monta che Bartolomeo dellaPorta fosse stato un fanatico savonaroliano e Lorenzo diCredi uno scettico: l'arte di questo è soavemente religio-sa, l'arte di quello materialistica e superficiale.

Il problema non è psicologico. Morale o immoraleche sia l'artista, sapiente o ignorante, freddo o sentimen-tale, non se ne deducono affatto gli stessi caratteri perl'opera sua (nè, viceversa, si può risalire, come la simpa-tia e l'ammirazione c'inducono spesso a fare, dall'operaalla personalità umana dell'artista). E abbia o non abbiaegli una propria ispirazione e un proprio contenuto, o liprenda d'accatto e «di maniera», è unicamente nel rap-porto alla forma espressiva, chiamata «stile», che gli

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stessi termini psicologici assumon un significato esteti-co, diversissimo da quello che avrebbero in psicologiagenerale: per es., un carattere, un'intenzione realisticapossono condurre a un «idealismo» artistico, e vicever-sa. Se l'artista è un'anima, essa è un'anima alla ricercadel corpo, uno spirito che si attua nell'esistenza, e i suoivalori sono estetici in quanto sono presentativi e nonrappresentativi. L'artista, lo giudico con l'occhio e conl'orecchio.

Il fare l'arte (l'attività artistica), non lo chiamerei«creare» (ch'è di Dio), ma, più semplicemente, lo chia-merei «tecnica». È qui, nella tecnica, che un artista è osi fa quell'artista, grande o piccolo, originale o imitato-re, iniziatore o interprete: è questa la «virtù» dell'artista(che, quando non è che questo, è un «virtuoso»). La tec-nica non è al di fuori dell'arte, «aggiunta» al momentoartistico, come materia aggiunta allo spirito: è quel mo-mento, quell'atto concreto. Se un metallurgico vuol inci-dere il passo d'una vite, se un medico vuol diagnosticareun malato, o un chimico vuol analizzare i componentid'un corpo, per costoro, sì, la tecnica non è che lo stru-mento aggiunto al fine per meglio conseguirlo: il tornio,lo stetoscopio, i reagenti e i modi di usarli son tutte cosesubordinate allo scopo da raggiungere. La scienza e lamorale superano i loro mezzi; non condanneremo il me-dico se non può oggi guarire il cancro nè l'artigiano chenon possiede l'ordigno del suo lavoro. Ma un pittoresenza colori, un musico senza suoni, un oratore senzaparola che cosa «valgono»? Se il primo non ha tubetti di

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stessi termini psicologici assumon un significato esteti-co, diversissimo da quello che avrebbero in psicologiagenerale: per es., un carattere, un'intenzione realisticapossono condurre a un «idealismo» artistico, e vicever-sa. Se l'artista è un'anima, essa è un'anima alla ricercadel corpo, uno spirito che si attua nell'esistenza, e i suoivalori sono estetici in quanto sono presentativi e nonrappresentativi. L'artista, lo giudico con l'occhio e conl'orecchio.

Il fare l'arte (l'attività artistica), non lo chiamerei«creare» (ch'è di Dio), ma, più semplicemente, lo chia-merei «tecnica». È qui, nella tecnica, che un artista è osi fa quell'artista, grande o piccolo, originale o imitato-re, iniziatore o interprete: è questa la «virtù» dell'artista(che, quando non è che questo, è un «virtuoso»). La tec-nica non è al di fuori dell'arte, «aggiunta» al momentoartistico, come materia aggiunta allo spirito: è quel mo-mento, quell'atto concreto. Se un metallurgico vuol inci-dere il passo d'una vite, se un medico vuol diagnosticareun malato, o un chimico vuol analizzare i componentid'un corpo, per costoro, sì, la tecnica non è che lo stru-mento aggiunto al fine per meglio conseguirlo: il tornio,lo stetoscopio, i reagenti e i modi di usarli son tutte cosesubordinate allo scopo da raggiungere. La scienza e lamorale superano i loro mezzi; non condanneremo il me-dico se non può oggi guarire il cancro nè l'artigiano chenon possiede l'ordigno del suo lavoro. Ma un pittoresenza colori, un musico senza suoni, un oratore senzaparola che cosa «valgono»? Se il primo non ha tubetti di

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colore bell'e pronti, se il secondo non ha un piano digrande marca, se l'ultimo non ha memoria, se la sbrighi-no loro e inventino i loro mezzi («Datemi del fango, di-ceva il pittore Delacroix, e ne farò carne di donna d'unatinta deliziosa»); proprio perchè i cosiddetti mezzi tecni-ci non sono più che gli elementi astratti della composi-zione artistica, della tecnica in senso artistico.

3. – Quando il valore consiste tutto nella forma sensi-bile, la ricerca del sensibile come tale, del suono, del co-lore, dell'immagine, diventa essa il fine. Se chiamiamo«tecnica» questa ricerca, la tecnica è l'atto stesso artisti-co, l'attuarsi del valore, prima di cui non c'è valore. In-fatti ogni vero artista appronta la sua tecnica: tutti i mez-zi, in quanto «mezzi» – in quanto «oggetti» dati – sonbuoni e di tutti (magari dei mezzi meccanici) l'artista sipuò servire; ma è il modo d'usarli, il rapporto sensibilein cui li pone, ciò che fòrma lo stile, inscindibile dunquedalla tecnica. Perciò biasimeremmo l'artista che, per es.,sostituisca una fotografia alla propria composizione, manon il cineasta che componga con fotografie; come bia-simeremmo lo scultore che trattasse il marmo pariocome la terracotta e non quello che, avendo l'una ol'altra materia, accordasse il suo stile alle loro qualitàparticolari.

La coscienza artistica si sveglia e si rende autonomacome coscienza tecnica: ciò è ben chiaro nella storiadell'arte; e ancor più nell'abbondantissima trattatisticache gli stessi artisti ci han lasciato dal Rinascimento in

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colore bell'e pronti, se il secondo non ha un piano digrande marca, se l'ultimo non ha memoria, se la sbrighi-no loro e inventino i loro mezzi («Datemi del fango, di-ceva il pittore Delacroix, e ne farò carne di donna d'unatinta deliziosa»); proprio perchè i cosiddetti mezzi tecni-ci non sono più che gli elementi astratti della composi-zione artistica, della tecnica in senso artistico.

3. – Quando il valore consiste tutto nella forma sensi-bile, la ricerca del sensibile come tale, del suono, del co-lore, dell'immagine, diventa essa il fine. Se chiamiamo«tecnica» questa ricerca, la tecnica è l'atto stesso artisti-co, l'attuarsi del valore, prima di cui non c'è valore. In-fatti ogni vero artista appronta la sua tecnica: tutti i mez-zi, in quanto «mezzi» – in quanto «oggetti» dati – sonbuoni e di tutti (magari dei mezzi meccanici) l'artista sipuò servire; ma è il modo d'usarli, il rapporto sensibilein cui li pone, ciò che fòrma lo stile, inscindibile dunquedalla tecnica. Perciò biasimeremmo l'artista che, per es.,sostituisca una fotografia alla propria composizione, manon il cineasta che componga con fotografie; come bia-simeremmo lo scultore che trattasse il marmo pariocome la terracotta e non quello che, avendo l'una ol'altra materia, accordasse il suo stile alle loro qualitàparticolari.

La coscienza artistica si sveglia e si rende autonomacome coscienza tecnica: ciò è ben chiaro nella storiadell'arte; e ancor più nell'abbondantissima trattatisticache gli stessi artisti ci han lasciato dal Rinascimento in

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poi. Quand'è un artista che scrive d'arte, il suo problemacentrale diventa quello tecnico e la soluzione si riduce auna precettistica del comporre. Soltanto i letterati so-glion divagare su l'essenza spirituale dell'arte, perchè inletteratura la questione del valore estetico è deviata ver-so il valore rappresentativo del linguaggio; ma un puroartista, foss'anche un umanista come L. B. Alberti, o uningegno speculativo come Leonardo, non s'inganna enon c'inganna. Che l'arte sia «cosa mentale», frase citataspesso a rovescio, per Leonardo voleva dire che si deb-ba intender l'arte come intelligenza (e non manualità)tecnica – intelligenza di forme, non d'idee –; tanto che(erratamente) egli ne deduceva che la pittura sia piùmentale della scultura perchè richiede un più sottile arti-ficio tecnico, dovendo comporre coi soli colori in super-ficie.

Se teniamo ben presente questa essenzialità della tec-nica nell'arte (e quindi nel giudizio d'arte), per la qualenell'atto artistico (e non prima) s'instaura e si celebra ilvalore estetico, a differenza degli altri valori trascenden-tali – il santo può peccare sette volte al giorno, e il sa-piente errare, ma non perdoneremo al musico (se nonper indulgenza morale) di sbagliare d'un semitono! –,tutti i vecchi problemi d'estetica si troveranno nel lorogiusto foco, e non rischieremo di porre l'estetico inun'oggettività teoretica (nell'imitazione) o in una sogget-tività pratica (il sentimento). Ma naturalmente l'estetistadeve partire di là dove invece termina un genere artisti-co – per es., il «bel canto» è il momento in cui il canto si

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poi. Quand'è un artista che scrive d'arte, il suo problemacentrale diventa quello tecnico e la soluzione si riduce auna precettistica del comporre. Soltanto i letterati so-glion divagare su l'essenza spirituale dell'arte, perchè inletteratura la questione del valore estetico è deviata ver-so il valore rappresentativo del linguaggio; ma un puroartista, foss'anche un umanista come L. B. Alberti, o uningegno speculativo come Leonardo, non s'inganna enon c'inganna. Che l'arte sia «cosa mentale», frase citataspesso a rovescio, per Leonardo voleva dire che si deb-ba intender l'arte come intelligenza (e non manualità)tecnica – intelligenza di forme, non d'idee –; tanto che(erratamente) egli ne deduceva che la pittura sia piùmentale della scultura perchè richiede un più sottile arti-ficio tecnico, dovendo comporre coi soli colori in super-ficie.

Se teniamo ben presente questa essenzialità della tec-nica nell'arte (e quindi nel giudizio d'arte), per la qualenell'atto artistico (e non prima) s'instaura e si celebra ilvalore estetico, a differenza degli altri valori trascenden-tali – il santo può peccare sette volte al giorno, e il sa-piente errare, ma non perdoneremo al musico (se nonper indulgenza morale) di sbagliare d'un semitono! –,tutti i vecchi problemi d'estetica si troveranno nel lorogiusto foco, e non rischieremo di porre l'estetico inun'oggettività teoretica (nell'imitazione) o in una sogget-tività pratica (il sentimento). Ma naturalmente l'estetistadeve partire di là dove invece termina un genere artisti-co – per es., il «bel canto» è il momento in cui il canto si

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disinteressa (si purifica) così de' suoi contenuti letterariicome dei fini sacri o profani (dell'ispirazione religiosa oamorosa), per diventar fine a sè stesso –; o dove terminaun periodo d'arte – per es., il romanticismo finisce colsensibilizzarsi del tutto nell'impressionismo coloristicodi Corot in pittura, di Verlaine in poesia, di Debussy inmusica, diventando «arte per l'arte» senza ancor perdereil carattere romantico (soggettivizzante, al quale si op-pone poi l'espressionismo immediatista e oggettivante)–: in una parola, dobbiamo partire dall'arte «pura».

Questa è la forma che il non artista ha in fastidio o indisprezzo, preferendo Dante a Petrarca o Beethoven aMozart – e, in generale, il genio al gusto –; al punto chequalcuno giunge a defenestrare dall'arte quella squisitez-za sensibile (per es. il «barocco» o i «decadenti») ch'èl'arte stessa. Ciò perchè noi le domandiamo di esaltaregli altri valori, il sovrasensibile: ma non potremo capireperchè l'arte esalti (e renda eterni, attuali e in sè) i valoriumani se prima non ci chiediamo in che consista il suoproprio valore.

Questione dunque d'intenderci. Io chiamo «arte», peres. in musica, la pura musicalità, che incomincia con lanota uscente dal suo alone tonale e diviene figura musi-cale e incontro di figure nel ritmo e nel complesso ar-monico dei temi sonori; in pittura, il colore, a seconda,chiaro e distinto e per sè valente nell'unificazione della«linea» presso i fiorentini, o tonalizzato con gli altri nel-le velature del colorismo veneto, o dissolto, come mosson'è il disegno, nello «sfumato» leonardesco, o dramma-

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disinteressa (si purifica) così de' suoi contenuti letterariicome dei fini sacri o profani (dell'ispirazione religiosa oamorosa), per diventar fine a sè stesso –; o dove terminaun periodo d'arte – per es., il romanticismo finisce colsensibilizzarsi del tutto nell'impressionismo coloristicodi Corot in pittura, di Verlaine in poesia, di Debussy inmusica, diventando «arte per l'arte» senza ancor perdereil carattere romantico (soggettivizzante, al quale si op-pone poi l'espressionismo immediatista e oggettivante)–: in una parola, dobbiamo partire dall'arte «pura».

Questa è la forma che il non artista ha in fastidio o indisprezzo, preferendo Dante a Petrarca o Beethoven aMozart – e, in generale, il genio al gusto –; al punto chequalcuno giunge a defenestrare dall'arte quella squisitez-za sensibile (per es. il «barocco» o i «decadenti») ch'èl'arte stessa. Ciò perchè noi le domandiamo di esaltaregli altri valori, il sovrasensibile: ma non potremo capireperchè l'arte esalti (e renda eterni, attuali e in sè) i valoriumani se prima non ci chiediamo in che consista il suoproprio valore.

Questione dunque d'intenderci. Io chiamo «arte», peres. in musica, la pura musicalità, che incomincia con lanota uscente dal suo alone tonale e diviene figura musi-cale e incontro di figure nel ritmo e nel complesso ar-monico dei temi sonori; in pittura, il colore, a seconda,chiaro e distinto e per sè valente nell'unificazione della«linea» presso i fiorentini, o tonalizzato con gli altri nel-le velature del colorismo veneto, o dissolto, come mosson'è il disegno, nello «sfumato» leonardesco, o dramma-

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tizzato nel chiaroscurismo di Renbrandt o nel lumini-smo del Caravaggio; ecc. ecc. Per valutare musicalmen-te la musica e pittoricamente la pittura, non ho alcun bi-sogno di «tradurre» i suoni in altro: per es. in sentimentiparticolari miei o, tanto meno, nelle disgrazie domesti-che dell'autore che avrebbero ispirato la tal sonata o iltale notturno; e di riferire un ritratto al modello, un pae-saggio al paese, una battaglia alla storia. Tutto questopuò essere il contenuto prima dell'arte, perchè l'artistaprende i contenuti da qualunque parte, dal mondo e dasè medesimo, dalla natura e dalla vita (o anche da nien-te, inventando); e fu detto giustamente che la natura (el'esperienza tutta quanta, propria ed altrui) è come unimmenso vocabolario dal quale l'artista può attingere lesue ispirazioni, i suoi temi, i suoi motivi – la «materia»stessa, un blocco di marmo o una tavolozza o la tastieradel piano, non sono, per così dire, serbatoi di «temi gia-centi» per l'artista? –; ma, sia egli poi fedele e obbiettivooppure libero e fantastico di fronte ai contenuti, essi di-vengono ispirazione, motivo, tema in senso proprio, os-sia artistico, sol in quanto soggettività e oggettività delpuro rapporto formale di suoni colori ecc.

La «realtà» dell'arte non va oltre questa sua formaesistenziale che si attua componendo suoni colori ecc. inun atto, chiamato «stile» proprio in quanto sensibilizza,e in tal senso realizza, l'artista. Il «valore» (artistico) diquesta realtà estetica è, senza dubbio, sentimento, masentimento sensibile, sentimento della forma – per es. ladrammaticità del tale incontro di suoni in Beethoven, il

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tizzato nel chiaroscurismo di Renbrandt o nel lumini-smo del Caravaggio; ecc. ecc. Per valutare musicalmen-te la musica e pittoricamente la pittura, non ho alcun bi-sogno di «tradurre» i suoni in altro: per es. in sentimentiparticolari miei o, tanto meno, nelle disgrazie domesti-che dell'autore che avrebbero ispirato la tal sonata o iltale notturno; e di riferire un ritratto al modello, un pae-saggio al paese, una battaglia alla storia. Tutto questopuò essere il contenuto prima dell'arte, perchè l'artistaprende i contenuti da qualunque parte, dal mondo e dasè medesimo, dalla natura e dalla vita (o anche da nien-te, inventando); e fu detto giustamente che la natura (el'esperienza tutta quanta, propria ed altrui) è come unimmenso vocabolario dal quale l'artista può attingere lesue ispirazioni, i suoi temi, i suoi motivi – la «materia»stessa, un blocco di marmo o una tavolozza o la tastieradel piano, non sono, per così dire, serbatoi di «temi gia-centi» per l'artista? –; ma, sia egli poi fedele e obbiettivooppure libero e fantastico di fronte ai contenuti, essi di-vengono ispirazione, motivo, tema in senso proprio, os-sia artistico, sol in quanto soggettività e oggettività delpuro rapporto formale di suoni colori ecc.

La «realtà» dell'arte non va oltre questa sua formaesistenziale che si attua componendo suoni colori ecc. inun atto, chiamato «stile» proprio in quanto sensibilizza,e in tal senso realizza, l'artista. Il «valore» (artistico) diquesta realtà estetica è, senza dubbio, sentimento, masentimento sensibile, sentimento della forma – per es. ladrammaticità del tale incontro di suoni in Beethoven, il

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patetico di tale incontro di colori in Corot –, che, se èsoggettività (o «ispirazione» in senso proprio), «è» inquanto massima oggettività, esistenzialità della formastessa. L'autore si attua in quei suoni o colori, il contem-platore esiste, diviene, non è più altro che la sua unitàsensibile. Tal'è l'emotività puramente estetica, che dun-que ha la sua eticità, ben diversa dalla moralità praticaperchè non si obbiettiva in un fine trascendentale, manell'immanenza al sensibile trova quella spiritualità,quel trascendersi senza trascendere la forma sensibile,ch'è tutto proprio del mondo estetico.

Del pari, questo mondo estetico, che «è» in quanto«esiste», possiede la sua logicità, la legge della sua for-ma o rapporto sensibile; ma è una legge interna ad esso,che non lo trascende: legge propria d'ogni stile, e, a dif-ferenza dalla logica reale, in perfetto accordo con l'etici-tà estetica sopradetta (per es. il sentimento dell'architet-tura greca è il sentimento dell'armonia delle parti com-ponenti l'unità visibile del tempio greco): appunto per-ciò concludiamo che l'arte è appagante (è piacere), feli-cità raggiunta, che non supera la sua esistenza. Ma nonappena vogliamo astrarre queste leggi logiche di uno sti-le, che cosa troviamo, se non leggi tecniche, regole delcostruire, del comporre l'unità sensibile di quell'arte?

A questo punto, si dica pure che l'arte è sintesi d'intui-zione ed espressione, di sentimento ed immagine: peròquesta sintesi non rimane nel puro soggetto, nello spiri-to, perchè è medesimezza di soggetto e oggetto. Esiste.L'espressione è proprio espressione, atto; l'intuizione è

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patetico di tale incontro di colori in Corot –, che, se èsoggettività (o «ispirazione» in senso proprio), «è» inquanto massima oggettività, esistenzialità della formastessa. L'autore si attua in quei suoni o colori, il contem-platore esiste, diviene, non è più altro che la sua unitàsensibile. Tal'è l'emotività puramente estetica, che dun-que ha la sua eticità, ben diversa dalla moralità praticaperchè non si obbiettiva in un fine trascendentale, manell'immanenza al sensibile trova quella spiritualità,quel trascendersi senza trascendere la forma sensibile,ch'è tutto proprio del mondo estetico.

Del pari, questo mondo estetico, che «è» in quanto«esiste», possiede la sua logicità, la legge della sua for-ma o rapporto sensibile; ma è una legge interna ad esso,che non lo trascende: legge propria d'ogni stile, e, a dif-ferenza dalla logica reale, in perfetto accordo con l'etici-tà estetica sopradetta (per es. il sentimento dell'architet-tura greca è il sentimento dell'armonia delle parti com-ponenti l'unità visibile del tempio greco): appunto per-ciò concludiamo che l'arte è appagante (è piacere), feli-cità raggiunta, che non supera la sua esistenza. Ma nonappena vogliamo astrarre queste leggi logiche di uno sti-le, che cosa troviamo, se non leggi tecniche, regole delcostruire, del comporre l'unità sensibile di quell'arte?

A questo punto, si dica pure che l'arte è sintesi d'intui-zione ed espressione, di sentimento ed immagine: peròquesta sintesi non rimane nel puro soggetto, nello spiri-to, perchè è medesimezza di soggetto e oggetto. Esiste.L'espressione è proprio espressione, atto; l'intuizione è

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proprio immagine, forma sensibile.

4. – Siccome la forma artistica, oltre che valere persè, esteticamente, come pura arte (e quindi nell'artepura), può anche rappresentare al pensiero logico e pra-tico (come ogni sensibile) qualcos'altro che chiamano ilsuo contenuto – il «tema» oggettivo e l'«ispirazione»soggettiva –, nasce il problema del rapporto di forma econtenuto in arte, che ci deve introdurre a comprenderl'unità dei valori nel sensibile, e ha dunque la più altaportata metafisica.

La soluzione sarebbe per tutti intuitiva, se non avessi-mo che le due grandi arti madri e adunatrici di tutte lealtre nello spazio e nel tempo, l'architettura e la musica.Liberate dalle arti vicine – l'una dalla scultura e dallapittura, l'altra dalla poesia, dalla danza e da ogni altra«rappresentazione» che la musica accompagna, com-menta ecc., loro accordando il proprio accento soggetti-vo (come il tono della voce soggettivizza la parola par-lata) –; e prese nel loro momento più tipico, l'una comearchitettura classica, l'altra come musica romantica (os-sia nel significato storico di questi due termini: pensia-mo per es. al Partenone e agli «Scherzi» di Chopin),nell'uno e nell'altro caso la forma è unicamente presen-za, esistenza sensibile, che in tutto coincide con l'ogget-tività della cosa o con la soggettività del sentimento:essa non deve rappresentare o richiamare altre cose oimmagini esterne all'arte, nè per somiglianza, come in-vece accade nelle arti figurative (per es. una statua di

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proprio immagine, forma sensibile.

4. – Siccome la forma artistica, oltre che valere persè, esteticamente, come pura arte (e quindi nell'artepura), può anche rappresentare al pensiero logico e pra-tico (come ogni sensibile) qualcos'altro che chiamano ilsuo contenuto – il «tema» oggettivo e l'«ispirazione»soggettiva –, nasce il problema del rapporto di forma econtenuto in arte, che ci deve introdurre a comprenderl'unità dei valori nel sensibile, e ha dunque la più altaportata metafisica.

La soluzione sarebbe per tutti intuitiva, se non avessi-mo che le due grandi arti madri e adunatrici di tutte lealtre nello spazio e nel tempo, l'architettura e la musica.Liberate dalle arti vicine – l'una dalla scultura e dallapittura, l'altra dalla poesia, dalla danza e da ogni altra«rappresentazione» che la musica accompagna, com-menta ecc., loro accordando il proprio accento soggetti-vo (come il tono della voce soggettivizza la parola par-lata) –; e prese nel loro momento più tipico, l'una comearchitettura classica, l'altra come musica romantica (os-sia nel significato storico di questi due termini: pensia-mo per es. al Partenone e agli «Scherzi» di Chopin),nell'uno e nell'altro caso la forma è unicamente presen-za, esistenza sensibile, che in tutto coincide con l'ogget-tività della cosa o con la soggettività del sentimento:essa non deve rappresentare o richiamare altre cose oimmagini esterne all'arte, nè per somiglianza, come in-vece accade nelle arti figurative (per es. una statua di

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Atena), nè per associazione di contiguità, come accadenella letteratura (per es, la narrazione in parole del Mes-so nei «Persiani»).

Un tempio è per sè medesimo un contenuto, percepitoe pensato come una «cosa» con quei tali scopi pratici ereligiosi; ma l'artista stesso «fa» questa cosa, in cui tro-va anche la sua ispirazione. Per esempio, l'artista grecoera psicologicamente realista, esteticamente idealista. Iltempio greco è logicissimo, essenzialmente spaziale estatico: non c'è un pezzo che non sia strettamente neces-sario all'edificio, dalla base all'architrave e da questo alfrontone; e non c'è un elemento che non mostri anche lasua logica funzione, dal plinto al capitello e al fastigio, oche serva, come in altri stili, a mascherare la struttura ela sua ragione pratica. Tuttavia, quell'architettura inter-preta la statica e l'uso pratico trovando in sè, ne' proprimezzi formali, lo stile che presenta e visualizza estetica-mente quei valori secondo il gusto ellenico, in quellachiarezza e armonia che tutti sanno, e che costituisceun'idealizzazione del reale in quanto appunto, come giàdicemmo, è un artificio tecnico, una ricerca di formapura; come appar evidente anche nel suo esito dallo stiledoricizzante al corinzio e da tutta l'arte ellenica a quellaellenistica.

Il «contenuto» del Partenone è il Partenone, la formastessa in quanto esiste o può esistere sensibilmente;un'altra forma, per es. l'Erettèo, sarebbe un altro tempio.La realtà in sè di questa cosa non è più che la finalitàrealistica dell'architetto, il quale l'ha interpretata, tradot-

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Atena), nè per associazione di contiguità, come accadenella letteratura (per es, la narrazione in parole del Mes-so nei «Persiani»).

Un tempio è per sè medesimo un contenuto, percepitoe pensato come una «cosa» con quei tali scopi pratici ereligiosi; ma l'artista stesso «fa» questa cosa, in cui tro-va anche la sua ispirazione. Per esempio, l'artista grecoera psicologicamente realista, esteticamente idealista. Iltempio greco è logicissimo, essenzialmente spaziale estatico: non c'è un pezzo che non sia strettamente neces-sario all'edificio, dalla base all'architrave e da questo alfrontone; e non c'è un elemento che non mostri anche lasua logica funzione, dal plinto al capitello e al fastigio, oche serva, come in altri stili, a mascherare la struttura ela sua ragione pratica. Tuttavia, quell'architettura inter-preta la statica e l'uso pratico trovando in sè, ne' proprimezzi formali, lo stile che presenta e visualizza estetica-mente quei valori secondo il gusto ellenico, in quellachiarezza e armonia che tutti sanno, e che costituisceun'idealizzazione del reale in quanto appunto, come giàdicemmo, è un artificio tecnico, una ricerca di formapura; come appar evidente anche nel suo esito dallo stiledoricizzante al corinzio e da tutta l'arte ellenica a quellaellenistica.

Il «contenuto» del Partenone è il Partenone, la formastessa in quanto esiste o può esistere sensibilmente;un'altra forma, per es. l'Erettèo, sarebbe un altro tempio.La realtà in sè di questa cosa non è più che la finalitàrealistica dell'architetto, il quale l'ha interpretata, tradot-

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ta, attuata in quella forma. In altri termini, un valore lo-gico, una finalità obbiettiva – ciò che si può chiamarel'«intellettualismo» greco, l'intenzione di costruire untempio statico, equilibrato ecc. – s'è attuata in una formaestetica, ch'è il «bello» artistico in quanto piace per sèstesso, ma che realizza quel fine come armonia sempli-cità chiarezza ecc., caratteri della forma visibile; lo rea-lizza per tutti, in un'esistenza. Prima di questa esistenzanon v'ha nè arte, nè oggetto o contenuto artistico: cisono dei fini, del valori concettuali, rappresentati per es.dalle parole con le quali Pericle dà un'ordinazione; sol-tanto nell'opera d'arte quei valori si rendono presenti,valorizzati esteticamente perchè interpretati dallo stileche ne attua l'esistenza.

E d'ora in poi potremo chiamare classicità dell'arte, insenso più largo, la ricerca della forma estetica (del belloartistico), ossia la forma raggiunta, il valore (qualunqueesso sia come finalità trascendentale) interpretato sensi-bilmente, secondo il gusto. Perciò ogni stile diventaclassico, e tale apparisce alle età successive; ogni artista,almeno, tende a raggiungere una classicità, una formadefinitiva. Classica è per noi anche la cattedrale gotica,sebbene la si definisca romantica perchè soggettivante etrascendentale di fronte all'intellettualismo greco e alnaturalismo romanico, di cui rompe l'equilibrio e la sta-ticità nello stile verticale, instabile e dinamico, del sestoacuto, e ne màschera la schiettezza murale nelle sovra-strutture ornamentali. E classica diverrà a suo tempoquell'odierna architettura detta (psicologicamente) «ra-

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ta, attuata in quella forma. In altri termini, un valore lo-gico, una finalità obbiettiva – ciò che si può chiamarel'«intellettualismo» greco, l'intenzione di costruire untempio statico, equilibrato ecc. – s'è attuata in una formaestetica, ch'è il «bello» artistico in quanto piace per sèstesso, ma che realizza quel fine come armonia sempli-cità chiarezza ecc., caratteri della forma visibile; lo rea-lizza per tutti, in un'esistenza. Prima di questa esistenzanon v'ha nè arte, nè oggetto o contenuto artistico: cisono dei fini, del valori concettuali, rappresentati per es.dalle parole con le quali Pericle dà un'ordinazione; sol-tanto nell'opera d'arte quei valori si rendono presenti,valorizzati esteticamente perchè interpretati dallo stileche ne attua l'esistenza.

E d'ora in poi potremo chiamare classicità dell'arte, insenso più largo, la ricerca della forma estetica (del belloartistico), ossia la forma raggiunta, il valore (qualunqueesso sia come finalità trascendentale) interpretato sensi-bilmente, secondo il gusto. Perciò ogni stile diventaclassico, e tale apparisce alle età successive; ogni artista,almeno, tende a raggiungere una classicità, una formadefinitiva. Classica è per noi anche la cattedrale gotica,sebbene la si definisca romantica perchè soggettivante etrascendentale di fronte all'intellettualismo greco e alnaturalismo romanico, di cui rompe l'equilibrio e la sta-ticità nello stile verticale, instabile e dinamico, del sestoacuto, e ne màschera la schiettezza murale nelle sovra-strutture ornamentali. E classica diverrà a suo tempoquell'odierna architettura detta (psicologicamente) «ra-

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zionalista», perchè anche il fine utilitario deve trovare lasua forma, che pur nella valorizzazione del nudo utilesia uno stile, una sintesi formale, una suggestione sensi-bile. Il medesimo si dica d'ogni arte, e della stessa musi-ca, l'arte romantica per eccellenza. Infatti già chiamam-mo «classica» la musica pura settecentesca: ma se Mo-zart o Cherubini sono musica pura (fine a sè stessa),Chopin e Schumann son anch'essi pura musica (forma);quindi, per es., Beethoven è un romantico rispetto ai pri-mi e un classico rispetto ai secondi, come questi lo sonorispetto a noi.

Insomma, «classico» e «romantico», quando nonusiamo questi vocaboli in senso storico, non designanodue opposti stili, Apollo e Dioniso, ma l'oggettività (for-ma) e la soggettività (liricità) di ogni stile, il carattereestetico e il carattere poetico d'ogni arte. Se noi sceglia-mo i due momenti storici in cui prevalse l'uno o l'altrocarattere e le due arti in cui meglio si attuarono, non èper opporli od escluderli reciprocamente, ma per distin-guere il valore logico e il valore etico dai corrispondentistili delle due arti che ce li realizzano artisticamente, os-sia per dimostrare che la realtà logica del Partenone ètutta passata nella forma esistenziale dell'arte (tutto ilmondo classico, che cos'«è» più se non arte?), come orora vedremo che il sentimento o soggetto artistico passatutto nell'interpretazione musicale, nei sensibili che sichiamano suoni (una sinfonia di Brahms che cos'è, senon un artificio tutto sensibile, e io che l'ascolto checosa più sono, se non queste vibrazioni?) per ora,

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zionalista», perchè anche il fine utilitario deve trovare lasua forma, che pur nella valorizzazione del nudo utilesia uno stile, una sintesi formale, una suggestione sensi-bile. Il medesimo si dica d'ogni arte, e della stessa musi-ca, l'arte romantica per eccellenza. Infatti già chiamam-mo «classica» la musica pura settecentesca: ma se Mo-zart o Cherubini sono musica pura (fine a sè stessa),Chopin e Schumann son anch'essi pura musica (forma);quindi, per es., Beethoven è un romantico rispetto ai pri-mi e un classico rispetto ai secondi, come questi lo sonorispetto a noi.

Insomma, «classico» e «romantico», quando nonusiamo questi vocaboli in senso storico, non designanodue opposti stili, Apollo e Dioniso, ma l'oggettività (for-ma) e la soggettività (liricità) di ogni stile, il carattereestetico e il carattere poetico d'ogni arte. Se noi sceglia-mo i due momenti storici in cui prevalse l'uno o l'altrocarattere e le due arti in cui meglio si attuarono, non èper opporli od escluderli reciprocamente, ma per distin-guere il valore logico e il valore etico dai corrispondentistili delle due arti che ce li realizzano artisticamente, os-sia per dimostrare che la realtà logica del Partenone ètutta passata nella forma esistenziale dell'arte (tutto ilmondo classico, che cos'«è» più se non arte?), come orora vedremo che il sentimento o soggetto artistico passatutto nell'interpretazione musicale, nei sensibili che sichiamano suoni (una sinfonia di Brahms che cos'è, senon un artificio tutto sensibile, e io che l'ascolto checosa più sono, se non queste vibrazioni?) per ora,

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nell'arte, non c'è un contenuto sotto la forma, un valoresopra il sensibile...

5. – Avviciniàmoci meglio al secondo esempio.L'Andante della «Patetica» è già musica romantica el'Allegro dell'«Appassionata» si può considerare a dirit-tura appartenente allo «Sturm und Drang» (con quelcantabile gridato nel tumulto ritmico del tempo), sebbe-ne non siano infrante le regole della sonata settecente-sca. Che cosa dunque indichiamo storicamente con laparola «romantico»? Null'altro che la soggettività (ilsentimento), o meglio la soggettivazione del sensibile,l'accordo di questo alla finalità, alla trascendentalità del-lo spirito. Si può dire che il romantico è l'etico dell'este-tico. Pertanto si può anche in generale chiamar romanti-co l'artista che psicologicamente è «idealista», pur setecnicamente fosse «realista» (come Masaccio) o «sen-sista» (come Wagner); e romanticismo in particolare fu-ron la letteratura e l'arte religiosa, patriottica, moraleg-giante ecc., quantunque si debbano considerar come talianche i contrari (il verismo, l'immoralismo, l'indifferen-tismo ecc.), ch'erano in germe nell'ironia romantica enel concetto di «arte liberatrice» non solo dal mondoesterno, ma anche dal sentimento.

Ciò intanto implica aver essi romantici compreso unpo' meglio di certi loro epigoni, che la soggettivitàdell'arte non è la soggettività psicologica, la vita: se isentimenti e i fini umani sono, secondo loro, contenuti emotivi d'ispirazione preferibili a quelli descrittivi e og-

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nell'arte, non c'è un contenuto sotto la forma, un valoresopra il sensibile...

5. – Avviciniàmoci meglio al secondo esempio.L'Andante della «Patetica» è già musica romantica el'Allegro dell'«Appassionata» si può considerare a dirit-tura appartenente allo «Sturm und Drang» (con quelcantabile gridato nel tumulto ritmico del tempo), sebbe-ne non siano infrante le regole della sonata settecente-sca. Che cosa dunque indichiamo storicamente con laparola «romantico»? Null'altro che la soggettività (ilsentimento), o meglio la soggettivazione del sensibile,l'accordo di questo alla finalità, alla trascendentalità del-lo spirito. Si può dire che il romantico è l'etico dell'este-tico. Pertanto si può anche in generale chiamar romanti-co l'artista che psicologicamente è «idealista», pur setecnicamente fosse «realista» (come Masaccio) o «sen-sista» (come Wagner); e romanticismo in particolare fu-ron la letteratura e l'arte religiosa, patriottica, moraleg-giante ecc., quantunque si debbano considerar come talianche i contrari (il verismo, l'immoralismo, l'indifferen-tismo ecc.), ch'erano in germe nell'ironia romantica enel concetto di «arte liberatrice» non solo dal mondoesterno, ma anche dal sentimento.

Ciò intanto implica aver essi romantici compreso unpo' meglio di certi loro epigoni, che la soggettivitàdell'arte non è la soggettività psicologica, la vita: se isentimenti e i fini umani sono, secondo loro, contenuti emotivi d'ispirazione preferibili a quelli descrittivi e og-

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gettivi tradizionali del classicismo; se parve loro neces-sario (per i fini umani e storici assegnati all'arte) riacco-starla alla vita e alla natura e renderla più «spontanea» e«sincera», la subiettività artistica è però anche per essila soggettività della forma estetica inconfondibile conquella dei contenuti spirituali presi a parte e ad essa con-frontati dalla critica di letteratura e d'arte. Voglio direche anche ai romantici apparve essenziale definire inche modo un contenuto, sia pur scelto di preferenza fra ivalori attuali, storici ed etici, nei quali vive l'artista (peres., l'atmosfera napoleonica per l'«Eroica» di Beetho-ven, la morte cristiana per l'Ermengarda manzoniana),divenga subiettività artistica, e, possiamo oggi dire inuna parola, dopo il Croce, «liricità». (Napoleone non èmai poeta anche se vuol rivoluzionare il mondo; Bee-thoven è un gran lirico anche se privatamente gli stesserpiù a cuore le scappatelle del nipote che le vicendedell'aquila napoleonica).

Infatti, per l'estetica romantica, il mondo della naturaviene sostituito nell'arte da un mondo fantastico creatoper accordarlo con la soggettivazione lirica (o meglio«Einfühlung») in cui consiste il soggetto propriamenteartistico. Concezione profonda, benchè parziale (perchèla fantasia non basta per essere artista, tutt'altro! nè tuttal'arte è fantastica e animistica) e ambigua (perchè inducea credere che l'arte stia nel fantasma mentale, come ilsogno, mentre che l'immagine estetica è concretezzasensibile, realtà del fantasma); ma giusta se pensiamospecialmente a quella letteratura, che il romanticismo

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gettivi tradizionali del classicismo; se parve loro neces-sario (per i fini umani e storici assegnati all'arte) riacco-starla alla vita e alla natura e renderla più «spontanea» e«sincera», la subiettività artistica è però anche per essila soggettività della forma estetica inconfondibile conquella dei contenuti spirituali presi a parte e ad essa con-frontati dalla critica di letteratura e d'arte. Voglio direche anche ai romantici apparve essenziale definire inche modo un contenuto, sia pur scelto di preferenza fra ivalori attuali, storici ed etici, nei quali vive l'artista (peres., l'atmosfera napoleonica per l'«Eroica» di Beetho-ven, la morte cristiana per l'Ermengarda manzoniana),divenga subiettività artistica, e, possiamo oggi dire inuna parola, dopo il Croce, «liricità». (Napoleone non èmai poeta anche se vuol rivoluzionare il mondo; Bee-thoven è un gran lirico anche se privatamente gli stesserpiù a cuore le scappatelle del nipote che le vicendedell'aquila napoleonica).

Infatti, per l'estetica romantica, il mondo della naturaviene sostituito nell'arte da un mondo fantastico creatoper accordarlo con la soggettivazione lirica (o meglio«Einfühlung») in cui consiste il soggetto propriamenteartistico. Concezione profonda, benchè parziale (perchèla fantasia non basta per essere artista, tutt'altro! nè tuttal'arte è fantastica e animistica) e ambigua (perchè inducea credere che l'arte stia nel fantasma mentale, come ilsogno, mentre che l'immagine estetica è concretezzasensibile, realtà del fantasma); ma giusta se pensiamospecialmente a quella letteratura, che il romanticismo

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metteva al sommo di tutte le arti, perchè più ideale (He-gel), e al centro, perchè tutte la debbono servire (Wag-ner).

Però la letteratura romantica, da Schiller a Byron e aVictor Hugo, artisticamente è assai inferiore alla suamusica, oppur si converte in poesia musicale (dalle liri-che di Goethe allo «Stundenbuch» del Rilke). La musicaè l'arte che nel romanticismo raggiunge le sue più altevette perchè è l'arte più soggettivante; insomma, l'artepiù lirica. Ora, la musica è unicamente musica: è tuttaforma, fatta tutta e soltanto di suoni; se qualcosa ne re-sta fuori – un'intenzione dell'artista, un pensiero indotto,e infine quell'alone affettivo che circonda quest'arte –fin che se ne distingue e non vien tradotto nelle leggitecniche dello stile (sian esse armoniche come in Bach odissonantiche come in Bloch; siano diatoniche, cromati-che, semitonali o comunque imponga lo stile), non ap-partiene all'estetico, e il giudizio estetico non riguardatale soggettività più che non riguardi la natura oggettivadei suoni (non attende di «capire» un'armonia dal rap-porto matematico fra le vibrazioni meccaniche, o il rit-mo musicale dal metronomo). E anche se un richiamoobbiettivo (per es. nel titolo «La Pastorale») giova adorientare l'uditore profano, per semplice associazioned'idee, verso la sorgente ispiratrice dell'autore, non èmai costitutivo del valore musicale.

Tutto ciò che vi poteva essere prima dell'arte, e che sichiama ispirazione dal punto di vista della sua eticità,passa nella musica, diviene musica, e scompare (artisti-

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metteva al sommo di tutte le arti, perchè più ideale (He-gel), e al centro, perchè tutte la debbono servire (Wag-ner).

Però la letteratura romantica, da Schiller a Byron e aVictor Hugo, artisticamente è assai inferiore alla suamusica, oppur si converte in poesia musicale (dalle liri-che di Goethe allo «Stundenbuch» del Rilke). La musicaè l'arte che nel romanticismo raggiunge le sue più altevette perchè è l'arte più soggettivante; insomma, l'artepiù lirica. Ora, la musica è unicamente musica: è tuttaforma, fatta tutta e soltanto di suoni; se qualcosa ne re-sta fuori – un'intenzione dell'artista, un pensiero indotto,e infine quell'alone affettivo che circonda quest'arte –fin che se ne distingue e non vien tradotto nelle leggitecniche dello stile (sian esse armoniche come in Bach odissonantiche come in Bloch; siano diatoniche, cromati-che, semitonali o comunque imponga lo stile), non ap-partiene all'estetico, e il giudizio estetico non riguardatale soggettività più che non riguardi la natura oggettivadei suoni (non attende di «capire» un'armonia dal rap-porto matematico fra le vibrazioni meccaniche, o il rit-mo musicale dal metronomo). E anche se un richiamoobbiettivo (per es. nel titolo «La Pastorale») giova adorientare l'uditore profano, per semplice associazioned'idee, verso la sorgente ispiratrice dell'autore, non èmai costitutivo del valore musicale.

Tutto ciò che vi poteva essere prima dell'arte, e che sichiama ispirazione dal punto di vista della sua eticità,passa nella musica, diviene musica, e scompare (artisti-

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camente) come contenuto; tanto che alcuni lo chiamanoforma (perchè spirito). Ma la forma artistica è lo stile,l'attuazione sensibile! Il soggetto si attua completamentee non parzialmente, assolutamente e non relativamente(a differenza dell'atto pratico, «espressione» naturale enon artificio espressivo del volere) in quell'atto ch'è unatraduzione sensibile dello spirito – una stilizzazione del-lo spirito – realizzante un universo più largo del senti-mento, di cui cancella i limiti e fini particolari accordan-dolo con la forma di un esistere, che la sola sensibilità(appartenente all'io come al non io) gli suggerisce. La li-ricità non è l'io pratico, che vale nella finalità, nel doveressere del suo esistere sensibile in antinomia con questo;è una trascendentalità senza trascendenza (e infatti senzaconcetto), una trascendentalità nel sensibile, immanentealla forma.

Il che va poi ripetuto per tutte le arti: la «dolcezza» diRaffaello o la «terribilità» di Michelangelo, non riguar-dano nè i contenuti obbiettivi (p. es., agli Uffizi, il tondodi Michelangelo rappresenta una Madonna comeun'altra Madonna è quella raffaellesca del cardellino),nè i contenuti subiettivi (un presunto temperamento dol-ce e religioso di Raffaello e una presunta fierezza di Mi-chelangelo!), ma unicamente lo stile, di cui quei senti-menti sono la risultante, non la causa. La dolcezzadell'uno sta tutta nell'armoniosa coerenza della lineacurva, la terribilità dell'altro è nel contrasto inerente alsuo stile fra dinamismo della linea e staticità del rilievoplastico: queste invenzioni tecniche sono il loro valore

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camente) come contenuto; tanto che alcuni lo chiamanoforma (perchè spirito). Ma la forma artistica è lo stile,l'attuazione sensibile! Il soggetto si attua completamentee non parzialmente, assolutamente e non relativamente(a differenza dell'atto pratico, «espressione» naturale enon artificio espressivo del volere) in quell'atto ch'è unatraduzione sensibile dello spirito – una stilizzazione del-lo spirito – realizzante un universo più largo del senti-mento, di cui cancella i limiti e fini particolari accordan-dolo con la forma di un esistere, che la sola sensibilità(appartenente all'io come al non io) gli suggerisce. La li-ricità non è l'io pratico, che vale nella finalità, nel doveressere del suo esistere sensibile in antinomia con questo;è una trascendentalità senza trascendenza (e infatti senzaconcetto), una trascendentalità nel sensibile, immanentealla forma.

Il che va poi ripetuto per tutte le arti: la «dolcezza» diRaffaello o la «terribilità» di Michelangelo, non riguar-dano nè i contenuti obbiettivi (p. es., agli Uffizi, il tondodi Michelangelo rappresenta una Madonna comeun'altra Madonna è quella raffaellesca del cardellino),nè i contenuti subiettivi (un presunto temperamento dol-ce e religioso di Raffaello e una presunta fierezza di Mi-chelangelo!), ma unicamente lo stile, di cui quei senti-menti sono la risultante, non la causa. La dolcezzadell'uno sta tutta nell'armoniosa coerenza della lineacurva, la terribilità dell'altro è nel contrasto inerente alsuo stile fra dinamismo della linea e staticità del rilievoplastico: queste invenzioni tecniche sono il loro valore

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lirico.In altri termini, la «materia» diventa «spirito» (sog-

gettività del valore) nella forma, senza cangiar di realtà(senza passare dal sensibile al sovrasensibile); e questoè il prodigio e il fascino dell'arte: di tutte le arti quindi,se prescindiamo dai lor contenuti, dal fatto cioè che vo-gliamo rappresentare («illustrare») qualcosa di esternoad esse (per es. un paesaggio, un accadimento ecc.), ciòche complica il problema. Una pennellata di bianco o dicarminio, al pari di una nota isolata, non ha valore este-tico: ne acquista uno grandissimo nello stile (ossianell'unità formale) per es. dell'arte «barocca», quandodiviene l'impasto robusto, la «pennellata» ribollente, il«tocco» rapido e sicuro di un Ribera; lo scatto di coloreviolento nel velame d'ombre di un Mattia Preti (con quei«toni» di rosso-vivo, di verde tenue, di giallo smaglian-te, mentre l'ombra annulla, come in Caravaggio, ciò chela luce non vivifica); le biacche luminose e vibranti, ar-gentine, in quella saporosa ricchezza d'impasti dalle to-nalità trasparenti e preziose di un Gius. Maria Crespi(per es. nella Fiera di Poggio a Caiano agli Uffizi o nellaConfessione della Regina di Boemia a Gio. Nepomuce-no a Torino). Quel colore che obbiettivamente e analiti-camente è una materia chimica o un elemento di fattoche sfuggiva all'osservazione comune, nel rapporto stili-stico del colorismo viene valorizzato e diventa l'intimabellezza, la succosa polpa, per così dire, della materiastessa, interpretata qualitativamente: la sua liricità. In-fatti, si dice che allora il colore «canta».

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lirico.In altri termini, la «materia» diventa «spirito» (sog-

gettività del valore) nella forma, senza cangiar di realtà(senza passare dal sensibile al sovrasensibile); e questoè il prodigio e il fascino dell'arte: di tutte le arti quindi,se prescindiamo dai lor contenuti, dal fatto cioè che vo-gliamo rappresentare («illustrare») qualcosa di esternoad esse (per es. un paesaggio, un accadimento ecc.), ciòche complica il problema. Una pennellata di bianco o dicarminio, al pari di una nota isolata, non ha valore este-tico: ne acquista uno grandissimo nello stile (ossianell'unità formale) per es. dell'arte «barocca», quandodiviene l'impasto robusto, la «pennellata» ribollente, il«tocco» rapido e sicuro di un Ribera; lo scatto di coloreviolento nel velame d'ombre di un Mattia Preti (con quei«toni» di rosso-vivo, di verde tenue, di giallo smaglian-te, mentre l'ombra annulla, come in Caravaggio, ciò chela luce non vivifica); le biacche luminose e vibranti, ar-gentine, in quella saporosa ricchezza d'impasti dalle to-nalità trasparenti e preziose di un Gius. Maria Crespi(per es. nella Fiera di Poggio a Caiano agli Uffizi o nellaConfessione della Regina di Boemia a Gio. Nepomuce-no a Torino). Quel colore che obbiettivamente e analiti-camente è una materia chimica o un elemento di fattoche sfuggiva all'osservazione comune, nel rapporto stili-stico del colorismo viene valorizzato e diventa l'intimabellezza, la succosa polpa, per così dire, della materiastessa, interpretata qualitativamente: la sua liricità. In-fatti, si dice che allora il colore «canta».

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6. – Ma ora, tra una sinfonia romantica, finzione tuttaformale di sentimenti, e un tempio classico, ch'è un rea-le oggetto co' suoi usi pratici, dovremo collocar l'arteche vuol rappresentare un contenuto a lei esterno, unpercetto (mettiàmo, un tempio romano in un'acquafortedi Piranesi) o a dirittura un concetto (come nell'«Epipsy-chidion» di Shelley). Ciò conduce l'arte a imitare la co-noscenza e la ragione.

Chi potrebbe negare che ogni arte, ciascuna co' proprimezzi, sia o possa esser imitatrice? Anche se non lo di-venisse allo scopo oggettivo e ideologico ora detto, cheraggiunge il suo massimo sviluppo in letteratura; anchese i contenuti rappresentati non fosser che un pretestoper comporre un «bel pezzo», come accade specialmen-te in pittura (p. es. una «Venezia» del Guardi o una «na-tura morta»), non c'è artista che non si serva di formegià esistenti in natura o nell'arte stessa: se ne serve ap-punto perchè forme, e in ciò consiste l'imitazione nelsenso tecnico che c'interessa studiare. Per quantos'inneggi all'arte «creatrice», essa non nasce dal nulla ar-tistico e non crea dal nulla reale. Per esempio, anchesenza uscir dalla musica, la più creatrice e la men conte-nutista di tutte le arti, prima di tutto non v'ha stile musi-cale che non derivi e sviluppi le sue forme da altre esi-stenti, spontaneamente (come Beethoven rispetto aHaydn) o volutamente (come Tzchaikowsky rispetto alprimo); in secondo luogo, non soltanto, per il musicista,tutto diviene musica – le voci della natura e i canti delpopolo, i cieli e gli orizzonti, i fiumi e i venti, come le

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6. – Ma ora, tra una sinfonia romantica, finzione tuttaformale di sentimenti, e un tempio classico, ch'è un rea-le oggetto co' suoi usi pratici, dovremo collocar l'arteche vuol rappresentare un contenuto a lei esterno, unpercetto (mettiàmo, un tempio romano in un'acquafortedi Piranesi) o a dirittura un concetto (come nell'«Epipsy-chidion» di Shelley). Ciò conduce l'arte a imitare la co-noscenza e la ragione.

Chi potrebbe negare che ogni arte, ciascuna co' proprimezzi, sia o possa esser imitatrice? Anche se non lo di-venisse allo scopo oggettivo e ideologico ora detto, cheraggiunge il suo massimo sviluppo in letteratura; anchese i contenuti rappresentati non fosser che un pretestoper comporre un «bel pezzo», come accade specialmen-te in pittura (p. es. una «Venezia» del Guardi o una «na-tura morta»), non c'è artista che non si serva di formegià esistenti in natura o nell'arte stessa: se ne serve ap-punto perchè forme, e in ciò consiste l'imitazione nelsenso tecnico che c'interessa studiare. Per quantos'inneggi all'arte «creatrice», essa non nasce dal nulla ar-tistico e non crea dal nulla reale. Per esempio, anchesenza uscir dalla musica, la più creatrice e la men conte-nutista di tutte le arti, prima di tutto non v'ha stile musi-cale che non derivi e sviluppi le sue forme da altre esi-stenti, spontaneamente (come Beethoven rispetto aHaydn) o volutamente (come Tzchaikowsky rispetto alprimo); in secondo luogo, non soltanto, per il musicista,tutto diviene musica – le voci della natura e i canti delpopolo, i cieli e gli orizzonti, i fiumi e i venti, come le

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vicende i riti le feste le parole degli umani –, ma egli sipuò anche proporre una musica «descrittiva», intenzio-nalmente imitativa di danze carnevali e baccanali, dimormoranti foreste e d'uccelli cinguettanti, in tutto simi-le alla pittura: l'odierno «espressionismo» musicale èper es. rivolto a descrivere l'immediato mondo sensibile,da Strawinsky a Honneger (per es., la gazzarra della fie-ra nel «Petruschka», con quel nostalgico organetto delvecchio tempo).

Riflettendo su questi esempi, sembra che si debba di-stinguere, una prima volta fra imitazione dall'arte, ab-borrita dai creativisti, e imitazione dalla natura, che ognimaestro consiglierà sempre (perchè l'arte rinasce «ritor-nando» all'osservazione della natura); una seconda vol-ta, secondo che l'imitazione appare un mezzo tecnico ascopo artistico e formale, come nei classici, oppure sem-bri necessaria a rappresentare la natura e la vita, comepresso i romantici. La discussione su tali quesiti è utilesol perchè ci riporta all'unico problema strettamenteestetico, il problema dello stile.

La prima distinzione interessa anche la «originalità»dell'opera d'arte. Però, la più modesta cultura musicaleci farà riconoscere la stessa figura musicale cento voltein cento diversi autori senza che ciò diminuisca la lorooriginalità, perchè una variazione nel «tempo», una di-versa armonizzazione, anzi, un diverso «accento» (peres. il «Corale e fuga» di Frank rispetto al corale «AufWasserflüssen Babylon» di Bach) bastano a costituireun nuovo inconfondibile stile: gli alunni di Leonardo

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vicende i riti le feste le parole degli umani –, ma egli sipuò anche proporre una musica «descrittiva», intenzio-nalmente imitativa di danze carnevali e baccanali, dimormoranti foreste e d'uccelli cinguettanti, in tutto simi-le alla pittura: l'odierno «espressionismo» musicale èper es. rivolto a descrivere l'immediato mondo sensibile,da Strawinsky a Honneger (per es., la gazzarra della fie-ra nel «Petruschka», con quel nostalgico organetto delvecchio tempo).

Riflettendo su questi esempi, sembra che si debba di-stinguere, una prima volta fra imitazione dall'arte, ab-borrita dai creativisti, e imitazione dalla natura, che ognimaestro consiglierà sempre (perchè l'arte rinasce «ritor-nando» all'osservazione della natura); una seconda vol-ta, secondo che l'imitazione appare un mezzo tecnico ascopo artistico e formale, come nei classici, oppure sem-bri necessaria a rappresentare la natura e la vita, comepresso i romantici. La discussione su tali quesiti è utilesol perchè ci riporta all'unico problema strettamenteestetico, il problema dello stile.

La prima distinzione interessa anche la «originalità»dell'opera d'arte. Però, la più modesta cultura musicaleci farà riconoscere la stessa figura musicale cento voltein cento diversi autori senza che ciò diminuisca la lorooriginalità, perchè una variazione nel «tempo», una di-versa armonizzazione, anzi, un diverso «accento» (peres. il «Corale e fuga» di Frank rispetto al corale «AufWasserflüssen Babylon» di Bach) bastano a costituireun nuovo inconfondibile stile: gli alunni di Leonardo

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sono di solito deboli artisti, non perchè imitano il mae-stro (anche il Sodoma e il Luino lo imiteranno), ma per-chè lo impoveriscono. La critica analitica, sempre allaricerca di elementi imitativi, non resterà mai senza frut-to, perchè ne troverà sempre in tutti – lo stile si sviluppadallo stile (p. es. Leonardo dal '400 fiorentino; le primeopere attribuitegli, non possiamo chiamarle che «botte-ga del Verrocchio») ma non frutterà mai per la defini-zione di uno stile.

Questo, prima di essere «l'uomo», è, io direi, «gli uo-mini», la razza e il tempo, la scuola e l'ambiente, onde laquantità di errate attribuzioni nei cataloghi delle galleried'arte. L'individualità dell'opera d'arte segna un gradodel suo sviluppo: perciò l'originalità non è creatività as-soluta, ma corrisponde soltanto a quel momento (dato apochi e a pochissime delle loro opere) in cui lo stile ap-pare «definitivo» (per es. il bozzetto dei Magi) perchèha raggiunto o trovato la massima espressività stilistica,quella che non lascia più nulla fuori del valore formale,che parla e dice tutto con la sola sua forma, e diviene unassoluto, il «bello artistico» puro, universale nella suasingolarità, sovrasensibile (simbolico) nella sua estetici-tà. Allora non si tocca più, perchè non appartiene piùnemmeno all'arte, ma è un «modello» di essere: non su-scettibile di sviluppi, ma sol applicabile come «stilizza-zione» (nel significato particolare al gergo artistico)adoperata per «abbellire» qualcosa, ossia retorica. La re-torica non è tanto questione di sincerità (i retori sonospesso sincerissimi) quanto di gusto. Un artista di gusto,

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sono di solito deboli artisti, non perchè imitano il mae-stro (anche il Sodoma e il Luino lo imiteranno), ma per-chè lo impoveriscono. La critica analitica, sempre allaricerca di elementi imitativi, non resterà mai senza frut-to, perchè ne troverà sempre in tutti – lo stile si sviluppadallo stile (p. es. Leonardo dal '400 fiorentino; le primeopere attribuitegli, non possiamo chiamarle che «botte-ga del Verrocchio») ma non frutterà mai per la defini-zione di uno stile.

Questo, prima di essere «l'uomo», è, io direi, «gli uo-mini», la razza e il tempo, la scuola e l'ambiente, onde laquantità di errate attribuzioni nei cataloghi delle galleried'arte. L'individualità dell'opera d'arte segna un gradodel suo sviluppo: perciò l'originalità non è creatività as-soluta, ma corrisponde soltanto a quel momento (dato apochi e a pochissime delle loro opere) in cui lo stile ap-pare «definitivo» (per es. il bozzetto dei Magi) perchèha raggiunto o trovato la massima espressività stilistica,quella che non lascia più nulla fuori del valore formale,che parla e dice tutto con la sola sua forma, e diviene unassoluto, il «bello artistico» puro, universale nella suasingolarità, sovrasensibile (simbolico) nella sua estetici-tà. Allora non si tocca più, perchè non appartiene piùnemmeno all'arte, ma è un «modello» di essere: non su-scettibile di sviluppi, ma sol applicabile come «stilizza-zione» (nel significato particolare al gergo artistico)adoperata per «abbellire» qualcosa, ossia retorica. La re-torica non è tanto questione di sincerità (i retori sonospesso sincerissimi) quanto di gusto. Un artista di gusto,

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che voglia dar «carattere», ossia stile personale, all'ope-ra propria, rifuggirà invece dall'imitare uno stile definiti-vo, un bello artistico (per es. Raffaello), a differenzadallo stile in formazione (p. es. i «primitivi»): adoperan-dolo, o lo indebolisce, facendo un bello senza stile (cal-ligrafico od accademico), o lo esagera, rompendoquell'unità sensibile, quella «linea», che ne costituivaappunto il bello27.

Ma proprio il medesimo si dovrebbe osservare anchecirca l'imitazione della natura. Un «bello di natura» (peres. una «bella» donna, un tramonto a Capri) mal si pre-sta perciò a venir «riprodotto» artisticamente, se non de-bolmente (da «cartolina illustrata»; un artista forte, unavolta se ne serviva solo a sfoggio di virtuosismo pittori-co, ora preferisce un carro di spazzatura che alzi le suestanghe verso un cielo pallido sur una piazza desolata. Il

27 Per es. l'ultima opera attribuita a Leonardo, la testa del Bat-tista al Louvre, mostra esagerati tutti i caratteri leonardeschi: losfumato divien tenebroso, il tipo angelico divien bolsamente an-drogino, il famoso sorriso della Gioconda e della S. Anna èun'equivoca smorfia delle labbra curve in su, il gesto del dito diTomaso nel Cenacelo qui è puramente retorico, e si aggiungonsimboli religiosi ripugnanti al fine gusto del maestro (cfr. infattila Vergine della Grotta al Louvre con la copia di Londra). Tuttequeste esagerazioni farebbero concludere che si tratti di operad'un alunno (lo stesso del Bacco, pure al Louvre) o di opera seni-le: ma il cattivo gusto dei letterati in fatto d'arte vi ha trovato unLeonardo più ambiguo, più arcano, più conforme al mito lettera-rio da loro inventato, imponendosi anche alla critica artistica, chenon sa rinunciare all'autenticità di questo pezzo.

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che voglia dar «carattere», ossia stile personale, all'ope-ra propria, rifuggirà invece dall'imitare uno stile definiti-vo, un bello artistico (per es. Raffaello), a differenzadallo stile in formazione (p. es. i «primitivi»): adoperan-dolo, o lo indebolisce, facendo un bello senza stile (cal-ligrafico od accademico), o lo esagera, rompendoquell'unità sensibile, quella «linea», che ne costituivaappunto il bello27.

Ma proprio il medesimo si dovrebbe osservare anchecirca l'imitazione della natura. Un «bello di natura» (peres. una «bella» donna, un tramonto a Capri) mal si pre-sta perciò a venir «riprodotto» artisticamente, se non de-bolmente (da «cartolina illustrata»; un artista forte, unavolta se ne serviva solo a sfoggio di virtuosismo pittori-co, ora preferisce un carro di spazzatura che alzi le suestanghe verso un cielo pallido sur una piazza desolata. Il

27 Per es. l'ultima opera attribuita a Leonardo, la testa del Bat-tista al Louvre, mostra esagerati tutti i caratteri leonardeschi: losfumato divien tenebroso, il tipo angelico divien bolsamente an-drogino, il famoso sorriso della Gioconda e della S. Anna èun'equivoca smorfia delle labbra curve in su, il gesto del dito diTomaso nel Cenacelo qui è puramente retorico, e si aggiungonsimboli religiosi ripugnanti al fine gusto del maestro (cfr. infattila Vergine della Grotta al Louvre con la copia di Londra). Tuttequeste esagerazioni farebbero concludere che si tratti di operad'un alunno (lo stesso del Bacco, pure al Louvre) o di opera seni-le: ma il cattivo gusto dei letterati in fatto d'arte vi ha trovato unLeonardo più ambiguo, più arcano, più conforme al mito lettera-rio da loro inventato, imponendosi anche alla critica artistica, chenon sa rinunciare all'autenticità di questo pezzo.

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precetto della originalità dell'arte non esclude dunquel'imitazione, ma la vuole «artistica»; si tratta di saperecome l'arte sia imitatrice. Ora, per intenderci subito,all'antitesi posta dall'estetica romantica fra l'arte «crea-trice» a lei cara e l'arte «imitatrice» dell'estetica classica– mal posta, io direi, perchè il creare è una metaforache, se mai, riguarda la forma, e l'imitare degli antichiriguardava il rapporto ai contenuti28 –, vorremmo sosti-tuire il concetto di «interpretazione» già apparso di so-pra, che ci sembra più proprio a comprendere in chemodo uno stile imita una forma già data.

Invero, nè l'imitare (p. es. riproducendo un bastimen-tino o una scarpetta in piccolo), nè lo inventare (p. es.un uomo con dieci gambe o altra fantasticheria qualun-que) sono per sè arte; la stessa fantasia non è che natura(dell'artista) ma non basta a nutrire l'originalità artistica,che riguarda lo stile e non i contenuti in sè: il Rem-brandt, quantunque sia un ritrattista, è più originale delfantastico Rubens. D'altro canto, nessuno ha mai presoper arte una copia, un calco, una fotografia, o per artistaun autopiano o un pantografo: ogni volta che una formavien riprodotta come quella forma e uno stile comequello stile, il valore estetico che possono conservareappartiene evidentemente al modello.

28 Infatti si può, come diceva Orazio, dar nuova forma a uncontenuto imitato. E per Aristotele il problema verteva appuntosul modo in cui l'arte imita la realtà (e il dramma imita la storia)per ottenere il «tipico» e il «verisimile» proprio dell'universalitàdell'estetico.

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precetto della originalità dell'arte non esclude dunquel'imitazione, ma la vuole «artistica»; si tratta di saperecome l'arte sia imitatrice. Ora, per intenderci subito,all'antitesi posta dall'estetica romantica fra l'arte «crea-trice» a lei cara e l'arte «imitatrice» dell'estetica classica– mal posta, io direi, perchè il creare è una metaforache, se mai, riguarda la forma, e l'imitare degli antichiriguardava il rapporto ai contenuti28 –, vorremmo sosti-tuire il concetto di «interpretazione» già apparso di so-pra, che ci sembra più proprio a comprendere in chemodo uno stile imita una forma già data.

Invero, nè l'imitare (p. es. riproducendo un bastimen-tino o una scarpetta in piccolo), nè lo inventare (p. es.un uomo con dieci gambe o altra fantasticheria qualun-que) sono per sè arte; la stessa fantasia non è che natura(dell'artista) ma non basta a nutrire l'originalità artistica,che riguarda lo stile e non i contenuti in sè: il Rem-brandt, quantunque sia un ritrattista, è più originale delfantastico Rubens. D'altro canto, nessuno ha mai presoper arte una copia, un calco, una fotografia, o per artistaun autopiano o un pantografo: ogni volta che una formavien riprodotta come quella forma e uno stile comequello stile, il valore estetico che possono conservareappartiene evidentemente al modello.

28 Infatti si può, come diceva Orazio, dar nuova forma a uncontenuto imitato. E per Aristotele il problema verteva appuntosul modo in cui l'arte imita la realtà (e il dramma imita la storia)per ottenere il «tipico» e il «verisimile» proprio dell'universalitàdell'estetico.

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Però, intanto, appunto perchè si tratta di forme, non ènemmeno da escludere che possan diventare o ridiventa-re artistiche se sono usate come mezzi artistici (anche semeccanici): la sola scelta di un «soggetto»; il «taglio» p.es. d'una fotografia e la ricerca di luci, prospettive ecc.;la semplice collocazione d'un quadro e magari il modostesso in cui uno sa regolare il suo autopiano, ecc. ecc.,sono un minimo di arte ma, in quel minimo, son giàarte. Infatti, in questa medesima sfera d'attività finiamocon l'incontrare l'esecutore che, pur lavorando suun'opera d'arte già perfetta, conquista una propria origi-nalità e un proprio valore artistico «interpretandola».Orbene, io dico che interpretazione era anche quella cheil Caravaggio fa di un cesto di frutta, e, alla fine, quellache Michelangelo fa del Giudizio universale (il proble-ma è uno solo, per tutti i casi elencati a pag. 292).

7. – Consideriàmo alcuni semplicissimi esempi d'artefigurativa, o «imitativa» che dir si voglia. Poniàmo pri-ma che uno scultore, per decorare un capitello (e dunqueper un fine interno all'arte) prenda a imitare la fogliadell'acanto. Chiameremo questa, obbiettivamente, il«tema» da svolgere – il contenuto logico da interpretareesteticamente –; essa diviene pertanto il «motivo» stili-stico dell'ornato: vale a dire che il nostro scultore, unavolta scelto il tema, lo svolge con un'interpretazione piùo meno libera lasciandosi guidare dalla sola forma percomporre una «linea» regolata unicamente dal gusto.Questa sarà la sintesi estetica, tutta forma, or semplice

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Però, intanto, appunto perchè si tratta di forme, non ènemmeno da escludere che possan diventare o ridiventa-re artistiche se sono usate come mezzi artistici (anche semeccanici): la sola scelta di un «soggetto»; il «taglio» p.es. d'una fotografia e la ricerca di luci, prospettive ecc.;la semplice collocazione d'un quadro e magari il modostesso in cui uno sa regolare il suo autopiano, ecc. ecc.,sono un minimo di arte ma, in quel minimo, son giàarte. Infatti, in questa medesima sfera d'attività finiamocon l'incontrare l'esecutore che, pur lavorando suun'opera d'arte già perfetta, conquista una propria origi-nalità e un proprio valore artistico «interpretandola».Orbene, io dico che interpretazione era anche quella cheil Caravaggio fa di un cesto di frutta, e, alla fine, quellache Michelangelo fa del Giudizio universale (il proble-ma è uno solo, per tutti i casi elencati a pag. 292).

7. – Consideriàmo alcuni semplicissimi esempi d'artefigurativa, o «imitativa» che dir si voglia. Poniàmo pri-ma che uno scultore, per decorare un capitello (e dunqueper un fine interno all'arte) prenda a imitare la fogliadell'acanto. Chiameremo questa, obbiettivamente, il«tema» da svolgere – il contenuto logico da interpretareesteticamente –; essa diviene pertanto il «motivo» stili-stico dell'ornato: vale a dire che il nostro scultore, unavolta scelto il tema, lo svolge con un'interpretazione piùo meno libera lasciandosi guidare dalla sola forma percomporre una «linea» regolata unicamente dal gusto.Questa sarà la sintesi estetica, tutta forma, or semplice

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severa e geometrizzante, ora, secondo il gusto del tem-po, fastosa tumultuosa e ridondante, ma sempre lontanadal «vero», anche se questo l'avesse ispirata. Non diver-samente, una danzatrice, imitando le movenze dell'amo-re (ossia, non una cosa, ma un atto espressivo di finalitàumane), comporrà una linea dinamica e musicale,un'arte nel tempo, sia che armonizzi i suoi gesti in quel-la semplice «grazia» propria dello stile classico, sia chesi sbracci e si scosci nello stile burattinesco e grottesco,volutamente sgraziato e disarmonico che (come in musi-ca) risponde al gusto odierno.

L'arte è sempre artificio sensibile, finalità estetica,benchè non apparisca perfetta se non quando sembri na-tura perchè non si scorge più lo sforzo che lega il mezzoal fine, sì che essa appare in sè («come la natura»), re-golata da leggi interne al sensibile stesso; tal che diremoartificiosa e (di nuovo!) retorica, non l'arte raggiunta,ma quella natura che non riesce a raggiungerla (p. es.una danzatrice stupida appare «affettata»). Ma se il pri-mo decoratore, con paziente lavoro d'un tecnicismo sol-tanto logico, riproducesse esattamente il modello (comela famosa uva del classico esempio, che gli uccelli anda-vano a beccare), farebbe una cosa «senza stile», buonaper illustrare un libro di botanica perchè analiticamente«vera» (come una fotografia), una «natura» forse bellain sè ma brutta in arte; e tanto varrebbe imbalsamaredelle reali foglie d'acanto (come certe orribili applica-zioni di conchiglie marine e simili). Per questa via s'arri-va a identificare l'arte con la natura, col solo risultato

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severa e geometrizzante, ora, secondo il gusto del tem-po, fastosa tumultuosa e ridondante, ma sempre lontanadal «vero», anche se questo l'avesse ispirata. Non diver-samente, una danzatrice, imitando le movenze dell'amo-re (ossia, non una cosa, ma un atto espressivo di finalitàumane), comporrà una linea dinamica e musicale,un'arte nel tempo, sia che armonizzi i suoi gesti in quel-la semplice «grazia» propria dello stile classico, sia chesi sbracci e si scosci nello stile burattinesco e grottesco,volutamente sgraziato e disarmonico che (come in musi-ca) risponde al gusto odierno.

L'arte è sempre artificio sensibile, finalità estetica,benchè non apparisca perfetta se non quando sembri na-tura perchè non si scorge più lo sforzo che lega il mezzoal fine, sì che essa appare in sè («come la natura»), re-golata da leggi interne al sensibile stesso; tal che diremoartificiosa e (di nuovo!) retorica, non l'arte raggiunta,ma quella natura che non riesce a raggiungerla (p. es.una danzatrice stupida appare «affettata»). Ma se il pri-mo decoratore, con paziente lavoro d'un tecnicismo sol-tanto logico, riproducesse esattamente il modello (comela famosa uva del classico esempio, che gli uccelli anda-vano a beccare), farebbe una cosa «senza stile», buonaper illustrare un libro di botanica perchè analiticamente«vera» (come una fotografia), una «natura» forse bellain sè ma brutta in arte; e tanto varrebbe imbalsamaredelle reali foglie d'acanto (come certe orribili applica-zioni di conchiglie marine e simili). Per questa via s'arri-va a identificare l'arte con la natura, col solo risultato

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d'impoverire quest'ultima invece di fare anche del (co-siddetto) brutto un bello artistico.

Infatti – è necessario avvertirlo? – il decoratore, perabbellire un capitello o una cornice, o anche per creareun oggetto, p. es. un ninnolo, che piaccia per sè stesso,non ha punto bisogno d'ispirarsi alle eleganti foglie deltradizionale acanto, o a un festone di fiori e frutta: lacosa più ripugnante si presta del pari alla stilizzazioneestetica. «In natura, scrivevo altra volta29, un rospo cisembra brutto e una rosa bella, benchè il rospo formal-mente possa esser bello quanto la rosa. Gli è che i valoriestetici in natura son ancora impliciti in quelli pratici piùurgenti (come la ripugnanza destata da un vero rospo) ein essi attratti e assorbiti; incominciano a emergerequando, come nel caso d'un fiore o d'un frutto, ne pos-siamo ricevere un piacere disinteressato. L'arte, cangian-do in fini estetici i rapporti sensibili, che in natura eranmezzi rappresentativi, ed esplicando così il valore delleforme sensibili, permette a tutti di goderlo e apprezzar-lo: un rospo in ceramica lucida smaltata, con le sue bellechiazze di verde vivido, col suo ventre bianco teneroquasi palpitasse, rivela, pur nella sua stilizzazione esa-gerativa, che un vero rospo non è senza bellezza, e inse-gna a cercarvela». Siamo ora padronissimi di chiamar«fantasia» la libertà dell'artista di fronte al modello, il li-

29 «Natura ed Arte» in Riv. di Filos. A. XXI. N. 3. (1930). Perqueste idee su l'arte, che qui è argomento sussidiario, cfr. anche«Novecentismo» in Glossa Perenne A. unico N. 2. (Bologna1929).

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d'impoverire quest'ultima invece di fare anche del (co-siddetto) brutto un bello artistico.

Infatti – è necessario avvertirlo? – il decoratore, perabbellire un capitello o una cornice, o anche per creareun oggetto, p. es. un ninnolo, che piaccia per sè stesso,non ha punto bisogno d'ispirarsi alle eleganti foglie deltradizionale acanto, o a un festone di fiori e frutta: lacosa più ripugnante si presta del pari alla stilizzazioneestetica. «In natura, scrivevo altra volta29, un rospo cisembra brutto e una rosa bella, benchè il rospo formal-mente possa esser bello quanto la rosa. Gli è che i valoriestetici in natura son ancora impliciti in quelli pratici piùurgenti (come la ripugnanza destata da un vero rospo) ein essi attratti e assorbiti; incominciano a emergerequando, come nel caso d'un fiore o d'un frutto, ne pos-siamo ricevere un piacere disinteressato. L'arte, cangian-do in fini estetici i rapporti sensibili, che in natura eranmezzi rappresentativi, ed esplicando così il valore delleforme sensibili, permette a tutti di goderlo e apprezzar-lo: un rospo in ceramica lucida smaltata, con le sue bellechiazze di verde vivido, col suo ventre bianco teneroquasi palpitasse, rivela, pur nella sua stilizzazione esa-gerativa, che un vero rospo non è senza bellezza, e inse-gna a cercarvela». Siamo ora padronissimi di chiamar«fantasia» la libertà dell'artista di fronte al modello, il li-

29 «Natura ed Arte» in Riv. di Filos. A. XXI. N. 3. (1930). Perqueste idee su l'arte, che qui è argomento sussidiario, cfr. anche«Novecentismo» in Glossa Perenne A. unico N. 2. (Bologna1929).

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bero modo con cui egli si serve di forme esistenti percomporne una nuova (per es, un mostro), che mette invalore rapporti di linee superfici e volumi, di luci e co-lori, di movimenti ed espressioni, ecc.; ma resta intesoche anche il fantastico è qui la raggiunta realtà sensibile(che «si fa» sotto le dita e nella materia artistica, nonprima) obbediente alla sola ragione stilistica. Insomma,la fantasia artistica riguarda la forma, non i contenuti.Lo stile è la ricerca d'una forma capace di esprimere persè stessa un valore, che nel caso fin qui contemplato è ilpuro valore estetico, il bello30.

Opponiàmogli or dunque l'esempio apparentementecontrario, del ritrattista o del paesista, o di un'arte checomunque intenda descrivere o narrare il «vero», restan-do fedele al modello. Sia questo la natura o la vita uma-na, è un mondo, per ora, fuori dell'arte, che l'arte vuolimitare: esigenza che (a parte il ritratto, antichissimo, eil paesaggio che come fine a sè stesso dàta dal '600) ètutta contemporanea, coincidendo col nostro storicismo

30 Da ciò discende un interessante corollario. Le arti dette mi-nori, perchè commercializzate e applicate all'industria, avendo ilsolo fine di ornare e di creare oggetti belli, son esse proprio le artipiù «belle», che piacciono per la sola forma. Il vero artista origi-nale arriccia il naso (per ragioni morali) davanti a una ceramica oa un vetro che oggi, p. es., presènti lo stile di un De Chirico (ilsintetismo delle sue teste ovali, il surrealismo delle sue composi-zioni, i suoi «cavallucci» vaghi su sfondi silenziosi, ecc.) facen-done una «maniera»; ma il profano, al contrario, farà le boccaccedavanti a De Chirico e troverà delizioso il ninnolo divenuto purabellezza formale. Esteticamente, ha ragione lui.

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bero modo con cui egli si serve di forme esistenti percomporne una nuova (per es, un mostro), che mette invalore rapporti di linee superfici e volumi, di luci e co-lori, di movimenti ed espressioni, ecc.; ma resta intesoche anche il fantastico è qui la raggiunta realtà sensibile(che «si fa» sotto le dita e nella materia artistica, nonprima) obbediente alla sola ragione stilistica. Insomma,la fantasia artistica riguarda la forma, non i contenuti.Lo stile è la ricerca d'una forma capace di esprimere persè stessa un valore, che nel caso fin qui contemplato è ilpuro valore estetico, il bello30.

Opponiàmogli or dunque l'esempio apparentementecontrario, del ritrattista o del paesista, o di un'arte checomunque intenda descrivere o narrare il «vero», restan-do fedele al modello. Sia questo la natura o la vita uma-na, è un mondo, per ora, fuori dell'arte, che l'arte vuolimitare: esigenza che (a parte il ritratto, antichissimo, eil paesaggio che come fine a sè stesso dàta dal '600) ètutta contemporanea, coincidendo col nostro storicismo

30 Da ciò discende un interessante corollario. Le arti dette mi-nori, perchè commercializzate e applicate all'industria, avendo ilsolo fine di ornare e di creare oggetti belli, son esse proprio le artipiù «belle», che piacciono per la sola forma. Il vero artista origi-nale arriccia il naso (per ragioni morali) davanti a una ceramica oa un vetro che oggi, p. es., presènti lo stile di un De Chirico (ilsintetismo delle sue teste ovali, il surrealismo delle sue composi-zioni, i suoi «cavallucci» vaghi su sfondi silenziosi, ecc.) facen-done una «maniera»; ma il profano, al contrario, farà le boccaccedavanti a De Chirico e troverà delizioso il ninnolo divenuto purabellezza formale. Esteticamente, ha ragione lui.

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e attualismo, ossia con un realismo contingentista, di cuil'arte, come sempre avvenne, è l'interprete dalla partedel senso, come la filosofia lo è dalla parte della ragio-ne31.

Ma il vero dell'arte non è il vero della scienza e dellapratica. Queste, ripeto, analizzano e accumulano gli«elementi» (p. es. i connotati d'una persona) utili allasintesi logica (anche una fotografia non è che un'analisiche serve per riconoscere, per rappresentare una perso-na, ma non le somiglia che da un punto di vista); l'artistainvece, con due soli tratti, può presentare l'oggetto, so-

31 Dobbiamo ancora spiegarci su l'uso dei vocaboli? Noi chia-miamo «mondo» il concetto di sostanze e cause dei sensibili rap-presentate da questi come indipendenti da noi: e questo «noi» èqui una parola che a sua volta rappresenta l'io pratico, il volere enon l'esistere. Chiamiamo poi «vita» il concetto sui medesimisensibili in quanto dipendenti da noi; ma questo secondo «noi» èinvece una parte del mondo, l'organismo come costituzione (so-stanza) e funzione (causa) corporea e insomma l'essere dell'io. Echiamiamo infine «natura» l'unità di questi due esseri, il loro reci-proco rapporto, l'interdipendenza delle lor azioni e reazioni, equindi la causa obbiettiva delle sensazioni stesse. Ammesso talconcetto della natura del sensibile – perchè siamo costretti a risa-lire da questo a quella –, chiamiamo estetico il rapporto di valoreimmanente alla forma sensibile, coma unità, data (bello di natura)o artificialmente costruita a tal fine (arte), nella quale unità si at-tua a posteriori quell'altro, supposto, rapporto causale: ma si com-prende che l'estetico non appartiene al concetto di natura ma alleesistenze che ce lo rappresentano logicamente mentre nel con-tempo si presentano esteticamente. Perciò la natura, in arte, di-venta una finalità come lo spirito, un contenuto.

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e attualismo, ossia con un realismo contingentista, di cuil'arte, come sempre avvenne, è l'interprete dalla partedel senso, come la filosofia lo è dalla parte della ragio-ne31.

Ma il vero dell'arte non è il vero della scienza e dellapratica. Queste, ripeto, analizzano e accumulano gli«elementi» (p. es. i connotati d'una persona) utili allasintesi logica (anche una fotografia non è che un'analisiche serve per riconoscere, per rappresentare una perso-na, ma non le somiglia che da un punto di vista); l'artistainvece, con due soli tratti, può presentare l'oggetto, so-

31 Dobbiamo ancora spiegarci su l'uso dei vocaboli? Noi chia-miamo «mondo» il concetto di sostanze e cause dei sensibili rap-presentate da questi come indipendenti da noi: e questo «noi» èqui una parola che a sua volta rappresenta l'io pratico, il volere enon l'esistere. Chiamiamo poi «vita» il concetto sui medesimisensibili in quanto dipendenti da noi; ma questo secondo «noi» èinvece una parte del mondo, l'organismo come costituzione (so-stanza) e funzione (causa) corporea e insomma l'essere dell'io. Echiamiamo infine «natura» l'unità di questi due esseri, il loro reci-proco rapporto, l'interdipendenza delle lor azioni e reazioni, equindi la causa obbiettiva delle sensazioni stesse. Ammesso talconcetto della natura del sensibile – perchè siamo costretti a risa-lire da questo a quella –, chiamiamo estetico il rapporto di valoreimmanente alla forma sensibile, coma unità, data (bello di natura)o artificialmente costruita a tal fine (arte), nella quale unità si at-tua a posteriori quell'altro, supposto, rapporto causale: ma si com-prende che l'estetico non appartiene al concetto di natura ma alleesistenze che ce lo rappresentano logicamente mentre nel con-tempo si presentano esteticamente. Perciò la natura, in arte, di-venta una finalità come lo spirito, un contenuto.

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stituire addirittura la cosa. Non nego che vi sia chi cercala somiglianza «copiando» punto per punto, analitica-mente, il modello; ma gli sarà più difficile raggiungeretanto la vita quanto l'arte. I ritratti di Giulio II° odell'Inghirami agli Uffizi sono, invece, il tenace papa eil cardinale umanista; e sono anche belli, son arte. La«verità» di quei ritratti consiste nella loro stupenda indi-vidualità – individualità ch'è un esistere qualitativo, unconcreto còlto dall'artista nella pura sintesi a posteriori:quel vero insomma che l'uomo comune non vede (lovede analiticamente, astrattamente, perchè lo pensa rap-presentativamente), e l'artista glielo fa vedere (gl'inse-gna che «esiste») –; ma nel ritratto artistico, com'è statodetto, son unitamente presenti l'artista e il modello, e lapersonalità dell'artista al pari dell'individualità del con-tenuto apparisce come stile, espressione formale, unifi-cazione in quella linea e in quel rapporto coloristico, cheal primo sguardo diciamo «Raffaello». Perciò il vecchiopapa consunto nel fuoco del suo sguardo e il grasso car-dinale dall'occhio strabico vivono d'una bellezza immor-tale, esprimente, ma esteticamente – cioè come presen-za, non come rappresentazione logica – tutto il loro «es-sere» (il reale).

8. – La «Madonna del cardellino» è invece «idealiz-zata», non soltanto rispetto ai citati ritratti, ma anche inconfronto, p. es., della più realistica e alquanto volgare«Madonna della seggiola». Adunque, con quel primotermine si suol alludere al fatto che il pittore, per inter-

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stituire addirittura la cosa. Non nego che vi sia chi cercala somiglianza «copiando» punto per punto, analitica-mente, il modello; ma gli sarà più difficile raggiungeretanto la vita quanto l'arte. I ritratti di Giulio II° odell'Inghirami agli Uffizi sono, invece, il tenace papa eil cardinale umanista; e sono anche belli, son arte. La«verità» di quei ritratti consiste nella loro stupenda indi-vidualità – individualità ch'è un esistere qualitativo, unconcreto còlto dall'artista nella pura sintesi a posteriori:quel vero insomma che l'uomo comune non vede (lovede analiticamente, astrattamente, perchè lo pensa rap-presentativamente), e l'artista glielo fa vedere (gl'inse-gna che «esiste») –; ma nel ritratto artistico, com'è statodetto, son unitamente presenti l'artista e il modello, e lapersonalità dell'artista al pari dell'individualità del con-tenuto apparisce come stile, espressione formale, unifi-cazione in quella linea e in quel rapporto coloristico, cheal primo sguardo diciamo «Raffaello». Perciò il vecchiopapa consunto nel fuoco del suo sguardo e il grasso car-dinale dall'occhio strabico vivono d'una bellezza immor-tale, esprimente, ma esteticamente – cioè come presen-za, non come rappresentazione logica – tutto il loro «es-sere» (il reale).

8. – La «Madonna del cardellino» è invece «idealiz-zata», non soltanto rispetto ai citati ritratti, ma anche inconfronto, p. es., della più realistica e alquanto volgare«Madonna della seggiola». Adunque, con quel primotermine si suol alludere al fatto che il pittore, per inter-

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pretare l'oggetto preso a tema, «crea» (e qui la parola haun senso ancor più ristretto) un tipo di bellezza, un mo-dello di ciò che l'oggetto dovrebb'essere se esistesse innatura – perciò appunto egli fu chiamato «figliuolo» o«nipote» di Dio –, il che avvenne specialmente in accor-do con le finalità etiche e religiose (deontologiche)quando il pensiero stesso si volgeva ai valori in sè, al ra-zionale e all'ideale. Come il realismo empirista mette invalore artistico (sensibile) l'esistere (la «natura») – pre-sente al contemplatore come individualità del contenutoartistico –, così l'idealismo realistico avrà messo in valo-re, ma sempre sensibilmente, il dover essere, il fine ob-biettivato (lo «spirito»), idealizzando i suoi contenuti inun bello che tale sarebbe – ossia, «piacerebbe» – anchein natura; però, la «verità» degli uni non è men bella, seartistica, dell'«idealità» degli altri, e quest'ultima lo di-venne alla medesima condizione, di avere uno stile. UnaMadonna dipinta non è bella o brutta perchè così ci ap-parirebbe se l'incontrassimo per via, ma perchè esprimeo no il valore dell'oggetto (sia pur oggetto inventato in-vece che visto) in un valore tutto visivo di rapporti colo-ristici o luminosi somma soggettività, onde si può direche l'arte è soggettivazione del mondo e del soggettostesso (della finalità dell'artista), a condizione di esseranche assoluta oggettività, esistenza sensibile; onde sipuò dire che la sola arte attua totalmente un valore.

Se il fine obbiettivo dell'artista (l'«imitazione» o «fin-zione», il tema da interpretare) sono gli oggetti, reali oideali, ch'egli vuol rappresentare, il fine artistico riman

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pretare l'oggetto preso a tema, «crea» (e qui la parola haun senso ancor più ristretto) un tipo di bellezza, un mo-dello di ciò che l'oggetto dovrebb'essere se esistesse innatura – perciò appunto egli fu chiamato «figliuolo» o«nipote» di Dio –, il che avvenne specialmente in accor-do con le finalità etiche e religiose (deontologiche)quando il pensiero stesso si volgeva ai valori in sè, al ra-zionale e all'ideale. Come il realismo empirista mette invalore artistico (sensibile) l'esistere (la «natura») – pre-sente al contemplatore come individualità del contenutoartistico –, così l'idealismo realistico avrà messo in valo-re, ma sempre sensibilmente, il dover essere, il fine ob-biettivato (lo «spirito»), idealizzando i suoi contenuti inun bello che tale sarebbe – ossia, «piacerebbe» – anchein natura; però, la «verità» degli uni non è men bella, seartistica, dell'«idealità» degli altri, e quest'ultima lo di-venne alla medesima condizione, di avere uno stile. UnaMadonna dipinta non è bella o brutta perchè così ci ap-parirebbe se l'incontrassimo per via, ma perchè esprimeo no il valore dell'oggetto (sia pur oggetto inventato in-vece che visto) in un valore tutto visivo di rapporti colo-ristici o luminosi somma soggettività, onde si può direche l'arte è soggettivazione del mondo e del soggettostesso (della finalità dell'artista), a condizione di esseranche assoluta oggettività, esistenza sensibile; onde sipuò dire che la sola arte attua totalmente un valore.

Se il fine obbiettivo dell'artista (l'«imitazione» o «fin-zione», il tema da interpretare) sono gli oggetti, reali oideali, ch'egli vuol rappresentare, il fine artistico riman

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sempre quello di presentarli come valori intuibili nellaforma stessa: come «espressione», si può ben dire, delvalore in sè, soggettivato perchè umanizzato e realizzatoperchè sensibilizzato. Tale valorizzazione sensibile sichiama stile; e in quanto raggiunge una forma definiti-va, senza residuo rappresentativo – senza rinviare a unconcetto e a un'aspirazione di altro, oltre il sensibile, cheesprima meglio il valore –, si chiama il bello artistico. Ilproblema artistico è pertanto sempre il problemadell'immanenza del valore nei rapporti sensibili, della ri-soluzione di tutti i contenuti nella forma estetica.

Se dunque facciam confluire nell'arte tutti gli altri va-lori che le sono storicamente impliciti – tanto che lo sti-le d'un fittile o d'una seggiola, nonchè d'una statua ed'un tempio, basterebbe a renderci intuibile e attualel'intiera mentalità d'un popolo e d'un tempo –, potremmocollocare a' due lati di quel sensismo (o estetismo) arti-stico del primo esempio, sul quale insistemmo per chia-rire l'essenza del bello, l'idealismo (o meglio, spirituali-smo) e il realismo (o meglio, naturalismo) della grandearte: i due poli di questa, come di tutto il pensiero. Main primo luogo, anche qui bisogna poi intender questitermini tecnicamente, in concreto, rispetto allo stile, enon in astratto rispetto ai fini psicologici: un artista elle-nico idealizza anche il reale, mentre che un tirrenio(etrusco o romano) interpreta realisticamente anche ledivinità, gli eroi e le anime dei morti. La moralitàdell'arte non è che l'eticità della sua tecnica; quindi, p.es., oggi «serietà» e «onestà» artistica son come a dire

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sempre quello di presentarli come valori intuibili nellaforma stessa: come «espressione», si può ben dire, delvalore in sè, soggettivato perchè umanizzato e realizzatoperchè sensibilizzato. Tale valorizzazione sensibile sichiama stile; e in quanto raggiunge una forma definiti-va, senza residuo rappresentativo – senza rinviare a unconcetto e a un'aspirazione di altro, oltre il sensibile, cheesprima meglio il valore –, si chiama il bello artistico. Ilproblema artistico è pertanto sempre il problemadell'immanenza del valore nei rapporti sensibili, della ri-soluzione di tutti i contenuti nella forma estetica.

Se dunque facciam confluire nell'arte tutti gli altri va-lori che le sono storicamente impliciti – tanto che lo sti-le d'un fittile o d'una seggiola, nonchè d'una statua ed'un tempio, basterebbe a renderci intuibile e attualel'intiera mentalità d'un popolo e d'un tempo –, potremmocollocare a' due lati di quel sensismo (o estetismo) arti-stico del primo esempio, sul quale insistemmo per chia-rire l'essenza del bello, l'idealismo (o meglio, spirituali-smo) e il realismo (o meglio, naturalismo) della grandearte: i due poli di questa, come di tutto il pensiero. Main primo luogo, anche qui bisogna poi intender questitermini tecnicamente, in concreto, rispetto allo stile, enon in astratto rispetto ai fini psicologici: un artista elle-nico idealizza anche il reale, mentre che un tirrenio(etrusco o romano) interpreta realisticamente anche ledivinità, gli eroi e le anime dei morti. La moralitàdell'arte non è che l'eticità della sua tecnica; quindi, p.es., oggi «serietà» e «onestà» artistica son come a dire

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«verità»: sincerità e naturalismo tecnico.Inoltre, que' due poli che si antinomizzan nel pensiero

esplicito, s'implicano nella sintesi estetica, che li dirigeugualmente verso la linea comune della pura arte, delvalore formale. Se per es. il trascendentismo conducespesso all'arte «piacevole» (al cosiddetto «edonismo»),ossia ad esprimere il nostro ideale in una forma bella insè, come se fosse in natura, il realismo conduce del pariall'arte per l'arte che tratta la natura come se fosse bella,ossia esprime il valore formale32 anche del disvaloreideale. Voglio dire che il naturalismo, non pieno dell'eti-cismo, pur quando intende raggiungere il nudo e arido«vero», si spiritualizza proprio nella valorizzazione chela ricerca stilistica compie anche dei disvalori –dell'empirico individuale e contingente, del male e deldolore, e, insomma, del «brutto» in natura –, e, com'èstato ripetuto, ce ne libera: non perchè l'arte faccia di-ventar piacevole il doloroso, bene il male e vero il falso,chè anzi questi disvalori verranno evidenziati ed esage-rati nell'artificio estetico (un letterato ci farà piangere suciò che nella vita ci passa con indifferenza sotto gli oc-chi): ma perchè risolve in un valore esistenziale – inun'espressione «definitiva», abbiam detto, ossia in ac-cordo con la finalità che qui è obbiettiva – ciò che rima-neva un disvalore fin che veniva rifiutato o negato per

32 Sempre nell'estensione che diamo noi a questo termine, im-plicante qualsiasi rapporto di qualità sensibili (compreso quindi ilcolore, il volume ecc.) e non soltanto la linea o disegno com'erainteso dagli estetisti d'un tempo.

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«verità»: sincerità e naturalismo tecnico.Inoltre, que' due poli che si antinomizzan nel pensiero

esplicito, s'implicano nella sintesi estetica, che li dirigeugualmente verso la linea comune della pura arte, delvalore formale. Se per es. il trascendentismo conducespesso all'arte «piacevole» (al cosiddetto «edonismo»),ossia ad esprimere il nostro ideale in una forma bella insè, come se fosse in natura, il realismo conduce del pariall'arte per l'arte che tratta la natura come se fosse bella,ossia esprime il valore formale32 anche del disvaloreideale. Voglio dire che il naturalismo, non pieno dell'eti-cismo, pur quando intende raggiungere il nudo e arido«vero», si spiritualizza proprio nella valorizzazione chela ricerca stilistica compie anche dei disvalori –dell'empirico individuale e contingente, del male e deldolore, e, insomma, del «brutto» in natura –, e, com'èstato ripetuto, ce ne libera: non perchè l'arte faccia di-ventar piacevole il doloroso, bene il male e vero il falso,chè anzi questi disvalori verranno evidenziati ed esage-rati nell'artificio estetico (un letterato ci farà piangere suciò che nella vita ci passa con indifferenza sotto gli oc-chi): ma perchè risolve in un valore esistenziale – inun'espressione «definitiva», abbiam detto, ossia in ac-cordo con la finalità che qui è obbiettiva – ciò che rima-neva un disvalore fin che veniva rifiutato o negato per

32 Sempre nell'estensione che diamo noi a questo termine, im-plicante qualsiasi rapporto di qualità sensibili (compreso quindi ilcolore, il volume ecc.) e non soltanto la linea o disegno com'erainteso dagli estetisti d'un tempo.

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altro, in cui ponevamo il dover essere e il piacere.Infine (e per conseguenza) le opposte finalità del pen-

siero logico e pratico s'appàgan l'una l'altra incrociando-si, per così dire, sul terreno estetico: come l'arte classica,per es., unifica il fine oggettivo e reale (intellettuale)con la forma soggettiva e ideale, così quella romanticaattua il fine etico in una forma realistica, in un'espressio-ne ch'è o vuol essere «naturale». Però, tal naturalezzasarà sempre quella d'una tecnica e d'uno stile. Inventi odinterpreti forme esistenti (espressioni di sentimenti orappresentazioni di oggetti), il sentimento artistico (liri-cità) come la cosa figurata dall'arte (contenuto) sarannosempre invenzione o interpretazione stilistica di suonicolori chiaroscuri rilievi ecc, che potenziano quei valorinel sensibile divenuto fine a sè stesso; come l'amore,stretto parente dell'arte, può risolver nell'amplesso i piùprofondi bisogni della specie, le più alte e platonicheaspirazioni della persona. Ne consegue, come osservam-mo, che il lirismo romantico non è nè lirismo nè roman-tico se non quando trova la sua espressione formale, ilsuo «classicismo».

Il giudizio e la critica d'arte implicanti sempre l'operae l'autore (senza di che sarebber giudizi sul bello in na-tura), e astrazion fatta dai giudizi puramente storici o inquanto storici s'avviano nelle stesse due direzioni, e do-vrebbero incontrarsi nel medesimo punto, costituente ilfondamento del criterio artistico. Di solito (presso i pro-fani, sempre) il giudizio d'arte va alla forma raggiunta,alla definitività espressiva, da cui riceve il valore; e di

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altro, in cui ponevamo il dover essere e il piacere.Infine (e per conseguenza) le opposte finalità del pen-

siero logico e pratico s'appàgan l'una l'altra incrociando-si, per così dire, sul terreno estetico: come l'arte classica,per es., unifica il fine oggettivo e reale (intellettuale)con la forma soggettiva e ideale, così quella romanticaattua il fine etico in una forma realistica, in un'espressio-ne ch'è o vuol essere «naturale». Però, tal naturalezzasarà sempre quella d'una tecnica e d'uno stile. Inventi odinterpreti forme esistenti (espressioni di sentimenti orappresentazioni di oggetti), il sentimento artistico (liri-cità) come la cosa figurata dall'arte (contenuto) sarannosempre invenzione o interpretazione stilistica di suonicolori chiaroscuri rilievi ecc, che potenziano quei valorinel sensibile divenuto fine a sè stesso; come l'amore,stretto parente dell'arte, può risolver nell'amplesso i piùprofondi bisogni della specie, le più alte e platonicheaspirazioni della persona. Ne consegue, come osservam-mo, che il lirismo romantico non è nè lirismo nè roman-tico se non quando trova la sua espressione formale, ilsuo «classicismo».

Il giudizio e la critica d'arte implicanti sempre l'operae l'autore (senza di che sarebber giudizi sul bello in na-tura), e astrazion fatta dai giudizi puramente storici o inquanto storici s'avviano nelle stesse due direzioni, e do-vrebbero incontrarsi nel medesimo punto, costituente ilfondamento del criterio artistico. Di solito (presso i pro-fani, sempre) il giudizio d'arte va alla forma raggiunta,alla definitività espressiva, da cui riceve il valore; e di

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qui risale all'artista, prestandogli anche i valori moralidell'opera sua (egli sarà un angelo se sa far gli angeli eun «maledetto» se è un pessimista). Ciò che allora contaè l'«opera» e il «monumento»: chiamo così quella formaartistica che vive ormai in sè, staccata dall'artista, perchèappunto definitiva, com'è dei «capolavori» che costitui-ranno, nell'opinione comune, l'arte «classica» d'un datoperiodo. Presso gl'iniziati invece, presso i raffinati e gliaristocratici dell'arte, il giudizio si rivolge di preferenzaall'intenzione dell'artista, all'ispirazione, alla ricerca e altentativo del nuovo; e allora si preferiscono i «primitivi»ai grandi maestri, l'abbozzo e il non finito al «quadro» eall'opera definitiva e non proseguibile se non per imita-zione pedestre. Trattandosi di temperamenti artistici, co-loro godono l'arte in quanto si sentono all'unisono conl'artista, che lasci loro il modo di collaborare all'inter-pretazione e quasi di sostenerlo e incoraggiarlo.

Questo secondo modo di giudicare va incontro al pe-ricolo di scambiar per arte gli sgorbi d'un ragazzo suimuri e per stile i fregacci a colore su tela da sacco d'unartistoide improvvisato a Montmartre. Se ci mettiamo alambiccare sui significati che noi stessi possiamo darloro, la più supina imperizia e la balbuzie più idiota di-verranno «simboli» d'infiniti valori, perchè tutto possia-mo far dire a ciò che non dice niente. Ma l'arte è arte secostruisce, se impone sensibilmente, se attua il valore.Sì, anche il frammento, il «particolare» è artistico (unframmento di Saffo, un pezzetto di Michelangelo), eanzi piace più dell'insieme; ma quando in quel pezzetto

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qui risale all'artista, prestandogli anche i valori moralidell'opera sua (egli sarà un angelo se sa far gli angeli eun «maledetto» se è un pessimista). Ciò che allora contaè l'«opera» e il «monumento»: chiamo così quella formaartistica che vive ormai in sè, staccata dall'artista, perchèappunto definitiva, com'è dei «capolavori» che costitui-ranno, nell'opinione comune, l'arte «classica» d'un datoperiodo. Presso gl'iniziati invece, presso i raffinati e gliaristocratici dell'arte, il giudizio si rivolge di preferenzaall'intenzione dell'artista, all'ispirazione, alla ricerca e altentativo del nuovo; e allora si preferiscono i «primitivi»ai grandi maestri, l'abbozzo e il non finito al «quadro» eall'opera definitiva e non proseguibile se non per imita-zione pedestre. Trattandosi di temperamenti artistici, co-loro godono l'arte in quanto si sentono all'unisono conl'artista, che lasci loro il modo di collaborare all'inter-pretazione e quasi di sostenerlo e incoraggiarlo.

Questo secondo modo di giudicare va incontro al pe-ricolo di scambiar per arte gli sgorbi d'un ragazzo suimuri e per stile i fregacci a colore su tela da sacco d'unartistoide improvvisato a Montmartre. Se ci mettiamo alambiccare sui significati che noi stessi possiamo darloro, la più supina imperizia e la balbuzie più idiota di-verranno «simboli» d'infiniti valori, perchè tutto possia-mo far dire a ciò che non dice niente. Ma l'arte è arte secostruisce, se impone sensibilmente, se attua il valore.Sì, anche il frammento, il «particolare» è artistico (unframmento di Saffo, un pezzetto di Michelangelo), eanzi piace più dell'insieme; ma quando in quel pezzetto

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c'è, inconfondibile, lo stile dell'opera intiera cui esso cispinge a risalire con l'immaginazione, perchè l'espres-sione d'un vero artista è compiuta, senza parti neutre, inogni punto. Sì, il bozzetto è arte (i «Re Magi» di Leo-nardo...), ma perchè c'è già tutto l'autore in quanto stile,anche se il contenuto vien sol accennato. E il «non fini-to» è, sì, una qualità artistica, specialmente in poesia,dove il verso è piuttosto evocazione che descrizione, euna parola scelta e collocata a quel modo, diffondequell'arcana trascendente infinitezza, che diciamo lirici-tà: ma proprio quella parola ci vuole, definitiva, insosti-tuibile, stile raggiunto e, insomma (lo ripetiamo fin allasazietà) esistenza, in cui consiste il valore esteticamenteattuato.

9. – Anche la prima, più comune maniera di giudicarel'arte non va esente da errori e pericoli. Un capolavoro,già lo dicemmo, verrà apprezzato dal pubblico per i suoicontenuti, saltando la forma, proprio perchè non c'è piùche la forma in cui quelli venner tutti risolti; lo spettato-re o il lettore gode e soffre del tema svolto senz'addarsich'è l'arte quella che gli fa amare e odiare ciò che nem-men lo sfiorerebbe se soltanto conosciuto (rappresentatologicamente, saputo). Ne deriva questo curioso parados-so il loggione applaude, per mediocre gusto artistico, unJago ampolloso e declamatorio, perchè ancor sentel'artificio, ossia il dislivello fra il contenuto e la forma;ma getterà tòrsi di broccolo all'attore perfetto, come sefosse un reale odioso Jago; reale Jago ch'egli poi, vice-

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c'è, inconfondibile, lo stile dell'opera intiera cui esso cispinge a risalire con l'immaginazione, perchè l'espres-sione d'un vero artista è compiuta, senza parti neutre, inogni punto. Sì, il bozzetto è arte (i «Re Magi» di Leo-nardo...), ma perchè c'è già tutto l'autore in quanto stile,anche se il contenuto vien sol accennato. E il «non fini-to» è, sì, una qualità artistica, specialmente in poesia,dove il verso è piuttosto evocazione che descrizione, euna parola scelta e collocata a quel modo, diffondequell'arcana trascendente infinitezza, che diciamo lirici-tà: ma proprio quella parola ci vuole, definitiva, insosti-tuibile, stile raggiunto e, insomma (lo ripetiamo fin allasazietà) esistenza, in cui consiste il valore esteticamenteattuato.

9. – Anche la prima, più comune maniera di giudicarel'arte non va esente da errori e pericoli. Un capolavoro,già lo dicemmo, verrà apprezzato dal pubblico per i suoicontenuti, saltando la forma, proprio perchè non c'è piùche la forma in cui quelli venner tutti risolti; lo spettato-re o il lettore gode e soffre del tema svolto senz'addarsich'è l'arte quella che gli fa amare e odiare ciò che nem-men lo sfiorerebbe se soltanto conosciuto (rappresentatologicamente, saputo). Ne deriva questo curioso parados-so il loggione applaude, per mediocre gusto artistico, unJago ampolloso e declamatorio, perchè ancor sentel'artificio, ossia il dislivello fra il contenuto e la forma;ma getterà tòrsi di broccolo all'attore perfetto, come sefosse un reale odioso Jago; reale Jago ch'egli poi, vice-

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versa, saluterebbe affabilmente se abitasse di casa ac-canto a lui. Ma non si creda che la critica dei competentieviti lo stesso errore quando confonde lo stile con la na-tura psicologica dell'artista, e dice per es. che Manzoniscrive «come si parla» (perchè stilizza la parlata tosca-na) o che Dante «va significando» quel che Amore gliditta dentro (perchè interpreta dei contenuti vivi e nonconvenzionali)... Anche di qui nasce il paradosso, di ri-convertire i valori stilistici (realtà sensibili) in realtà psi-chiche, e Michelangelo diventa il «ribelle» per antono-masia (la sua arte, ripeto, è tutta stile e perfin maniera:si confrontino i due «prigioni» del Louvre!), Manzoni ilpiù paterno e buonsensaio degli uomini, ecc. ecc., salvole amare delusioni della ricerca biografica!

Per gli uni e per gli altri c'è poi anche il pericolo difarsi, d'una forma e d'uno stile, sol perchè piace univer-salmente e tradizionalmente, un modello, e quindi unfondamento del giudizio estetico. Noi per es. siamo an-cora sotto l'influenza del modello romantico, onde grandisprezzo di ciò che s'era fatto prima (si rifiuta perfinola grande arte «barocca») e che si fece dopo. Se unicapoesia sono «I Sepolcri» e «La Sera del di' di festa»,D'Annunzio e Pascoli diverranno oreficeria senza poeti-cità (ma anche Orazio e Petrarca, nonchè: Ovidio e Ca-tullo).

Ma «poesia», in senso letterario, non è che il linguag-gio in quanto si fa arte. Nel momento in cui la parolaparlata e scritta prende per fine diretto la forma e poi persuo mezzo cerca d'attuare quei valori e quei fini, logici

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versa, saluterebbe affabilmente se abitasse di casa ac-canto a lui. Ma non si creda che la critica dei competentieviti lo stesso errore quando confonde lo stile con la na-tura psicologica dell'artista, e dice per es. che Manzoniscrive «come si parla» (perchè stilizza la parlata tosca-na) o che Dante «va significando» quel che Amore gliditta dentro (perchè interpreta dei contenuti vivi e nonconvenzionali)... Anche di qui nasce il paradosso, di ri-convertire i valori stilistici (realtà sensibili) in realtà psi-chiche, e Michelangelo diventa il «ribelle» per antono-masia (la sua arte, ripeto, è tutta stile e perfin maniera:si confrontino i due «prigioni» del Louvre!), Manzoni ilpiù paterno e buonsensaio degli uomini, ecc. ecc., salvole amare delusioni della ricerca biografica!

Per gli uni e per gli altri c'è poi anche il pericolo difarsi, d'una forma e d'uno stile, sol perchè piace univer-salmente e tradizionalmente, un modello, e quindi unfondamento del giudizio estetico. Noi per es. siamo an-cora sotto l'influenza del modello romantico, onde grandisprezzo di ciò che s'era fatto prima (si rifiuta perfinola grande arte «barocca») e che si fece dopo. Se unicapoesia sono «I Sepolcri» e «La Sera del di' di festa»,D'Annunzio e Pascoli diverranno oreficeria senza poeti-cità (ma anche Orazio e Petrarca, nonchè: Ovidio e Ca-tullo).

Ma «poesia», in senso letterario, non è che il linguag-gio in quanto si fa arte. Nel momento in cui la parolaparlata e scritta prende per fine diretto la forma e poi persuo mezzo cerca d'attuare quei valori e quei fini, logici

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ed etici, che il linguaggio, in quanto espressione natura-le della vita associata, rappresentava soltanto, in quelmomento istesso (e non prima) acquista liricità, poetici-tà; che sarà per lo meno quella soggettività inerenteall'accento indovinato, alla frase trovata, che, consape-volmente, almeno aggiunge valore alla cosa detta e alsentimento espresso, come l'accompagnamento musica-le, fin dalle origini della poesia, potenzia e mette in va-lore i contenuti recitati. E come un artista mimico, non èartista in quanto si muove e gestisce come tutti, espri-mendo naturalmente bisogni ed affetti o comunicandoliagli altri interessatamente e praticamente, ma in quantoimita gesti e movimenti – li interpreta, li stilizza –, cosìil linguaggio per sè stesso non è arte, ma è la materiadell'arte letteraria, che cercherà la propria forma, più omen imitativa del vero, comunque espressiva d'un «me-glio» estetico (sensibile) che culmina nella poesia.

Pertanto la linguistica non appartiene necessariamen-te all'estetica, o vi appartiene come tutte le scienze chehan per oggetto un fatto di espressione, un mezzodell'arte, che sarà anche estetico, mentre che per noi illinguaggio è sopratutto logico33. Tuttavia, la nota tesi delCroce era suggerita da un concetto più profondo, chia-rendo il quale muoveremo l'ultimo passo verso la defini-zione del rapporto fra il valore sensibile e il dover esserespirituale, di cui la definizione del bello artistico non è

33 Cercai di dimostrarlo in «Estetica e Neo-linguistica», LaCultura, Vol. V, Fasc. 7. (1926).

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ed etici, che il linguaggio, in quanto espressione natura-le della vita associata, rappresentava soltanto, in quelmomento istesso (e non prima) acquista liricità, poetici-tà; che sarà per lo meno quella soggettività inerenteall'accento indovinato, alla frase trovata, che, consape-volmente, almeno aggiunge valore alla cosa detta e alsentimento espresso, come l'accompagnamento musica-le, fin dalle origini della poesia, potenzia e mette in va-lore i contenuti recitati. E come un artista mimico, non èartista in quanto si muove e gestisce come tutti, espri-mendo naturalmente bisogni ed affetti o comunicandoliagli altri interessatamente e praticamente, ma in quantoimita gesti e movimenti – li interpreta, li stilizza –, cosìil linguaggio per sè stesso non è arte, ma è la materiadell'arte letteraria, che cercherà la propria forma, più omen imitativa del vero, comunque espressiva d'un «me-glio» estetico (sensibile) che culmina nella poesia.

Pertanto la linguistica non appartiene necessariamen-te all'estetica, o vi appartiene come tutte le scienze chehan per oggetto un fatto di espressione, un mezzodell'arte, che sarà anche estetico, mentre che per noi illinguaggio è sopratutto logico33. Tuttavia, la nota tesi delCroce era suggerita da un concetto più profondo, chia-rendo il quale muoveremo l'ultimo passo verso la defini-zione del rapporto fra il valore sensibile e il dover esserespirituale, di cui la definizione del bello artistico non è

33 Cercai di dimostrarlo in «Estetica e Neo-linguistica», LaCultura, Vol. V, Fasc. 7. (1926).

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che il termine medio.Invero, c'è una gran differenza fra la «materia» delle

arti (i colori del pittore, le note del musico ecc.) e le pa-role, materia letteraria: la parola era già formale (è la«forma del pensiero»), sintesi volutamente prodottacome «espressione», atto umano, per sostenere e rappre-sentare l'obbiettività d'un valore qualsiasi (anche prati-co) preso logicamente, ossia «fuori di me» (fuori dell'ioattuale) e comunicabile quindi agli altri. In che, questaforma logica, va a coincidere con la forma estetica? que-sta espressione va a coincidere con lo stile artistico?

Quel cubo rosso mi rappresenta percettivamente unacasa; ma le parole «rosso» e «cubo» sono l'aggettivo e ilsostantivo destinati a rappresentare una qualità e una so-stanza in sè; e ancor più i termini «causa» e «cosa» checonnotano il valore reale, presente in tutte le percezioni(come sentimento del conoscere e del riconoscere), mapreso ormai obbiettivamente. Se dunque formiamo undiscorso di tali «concetti» in parole, in quanto ha un fineobbiettivo e utilitario esso è un atto che esprime, comeogni atto, il fine e vi si accorda, ma vi s'accorda nel do-ver essere rappresentato dai contenuti (nel valore ob-biettivo del giudizio), non nell'esistere della forma(nell'atto stesso) che per ora resta un semplice mezzo enon ha un proprio valore.

Il linguaggio tecnico e scientifico, cioè la forma dellinguaggio teoretico – e quindi, poi, tutto il linguaggioin quanto logico (in quanto pone il valore nell'obbietti-vità delle rappresentazioni) – è «prosa». Per farsi lette-

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che il termine medio.Invero, c'è una gran differenza fra la «materia» delle

arti (i colori del pittore, le note del musico ecc.) e le pa-role, materia letteraria: la parola era già formale (è la«forma del pensiero»), sintesi volutamente prodottacome «espressione», atto umano, per sostenere e rappre-sentare l'obbiettività d'un valore qualsiasi (anche prati-co) preso logicamente, ossia «fuori di me» (fuori dell'ioattuale) e comunicabile quindi agli altri. In che, questaforma logica, va a coincidere con la forma estetica? que-sta espressione va a coincidere con lo stile artistico?

Quel cubo rosso mi rappresenta percettivamente unacasa; ma le parole «rosso» e «cubo» sono l'aggettivo e ilsostantivo destinati a rappresentare una qualità e una so-stanza in sè; e ancor più i termini «causa» e «cosa» checonnotano il valore reale, presente in tutte le percezioni(come sentimento del conoscere e del riconoscere), mapreso ormai obbiettivamente. Se dunque formiamo undiscorso di tali «concetti» in parole, in quanto ha un fineobbiettivo e utilitario esso è un atto che esprime, comeogni atto, il fine e vi si accorda, ma vi s'accorda nel do-ver essere rappresentato dai contenuti (nel valore ob-biettivo del giudizio), non nell'esistere della forma(nell'atto stesso) che per ora resta un semplice mezzo enon ha un proprio valore.

Il linguaggio tecnico e scientifico, cioè la forma dellinguaggio teoretico – e quindi, poi, tutto il linguaggioin quanto logico (in quanto pone il valore nell'obbietti-vità delle rappresentazioni) – è «prosa». Per farsi lette-

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raria e oratoria, la prosa si deve dirigere invece all'arte,alla poesia: si deve soggettivare. Ma soggettivare a mo'dell'arte (tipo, la musica) che subiettiva i suoi contenuti(o almeno, la sua materia, le note, i colori) sensibilmen-te, facendo esistere la finalità (o almeno il sentimento)in una sintesi attuale, reale per sè (tipica, l'architettura)ma non in sè (fuori di noi); chè anzi questa forma sensi-bile è l'essere dell'io, la forma del sentimento (o il finesensibilizzato).

Infatti l'arte letteraria costruisce per immagini, comele arti figurative, con la differenza che si deve acconten-tare di evocarle per mezzo di parole: inferiorità larga-mente compensata dalla possibilità che han le parole diimmaginare qualsiasi contenuto. Tutto il pensiero, anchela scienza (come nei dialoghi di Galilei), anche la filoso-fia (da Platone a Schopenhauer e a Nietzche), può ac-quistare stile letterario: ma bisogna che concretizzil'astratto logico, che attui il valore spirituale e rappre-sentativo (il dover essere) in una presenza, in un'eviden-za attuale e sensibile (l'esistere come «immagine»), ch'èla pietra di paragone del valore artistico del linguaggio(Napoleone dev'essere esistito, Madame Bovary esi-ste)34.

Ora, la tecnica artistica di quest'arte letteraria è dinuovo tutta rivolta al mezzo estetico, alla parola (con-frontare l'epistolario del Flaubert), che di materia divie-

34 Chiarii meglio queste idee in Civiltà Moderna, A. III, n. 6(1931), «Il Fenomeno Joyce».

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raria e oratoria, la prosa si deve dirigere invece all'arte,alla poesia: si deve soggettivare. Ma soggettivare a mo'dell'arte (tipo, la musica) che subiettiva i suoi contenuti(o almeno, la sua materia, le note, i colori) sensibilmen-te, facendo esistere la finalità (o almeno il sentimento)in una sintesi attuale, reale per sè (tipica, l'architettura)ma non in sè (fuori di noi); chè anzi questa forma sensi-bile è l'essere dell'io, la forma del sentimento (o il finesensibilizzato).

Infatti l'arte letteraria costruisce per immagini, comele arti figurative, con la differenza che si deve acconten-tare di evocarle per mezzo di parole: inferiorità larga-mente compensata dalla possibilità che han le parole diimmaginare qualsiasi contenuto. Tutto il pensiero, anchela scienza (come nei dialoghi di Galilei), anche la filoso-fia (da Platone a Schopenhauer e a Nietzche), può ac-quistare stile letterario: ma bisogna che concretizzil'astratto logico, che attui il valore spirituale e rappre-sentativo (il dover essere) in una presenza, in un'eviden-za attuale e sensibile (l'esistere come «immagine»), ch'èla pietra di paragone del valore artistico del linguaggio(Napoleone dev'essere esistito, Madame Bovary esi-ste)34.

Ora, la tecnica artistica di quest'arte letteraria è dinuovo tutta rivolta al mezzo estetico, alla parola (con-frontare l'epistolario del Flaubert), che di materia divie-

34 Chiarii meglio queste idee in Civiltà Moderna, A. III, n. 6(1931), «Il Fenomeno Joyce».

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ne spirito, di strumento diviene fine. L'immagine cercala sua forma: il suono, l'accento, l'inflessione, il timbro;i ritmi, le pause, le coincidenze e le rime; gli accordi e icontrasti, di suono, di colorito e chiaroscuro; i tropi e itraslati e tutte le figure e i modi della composizione stili-stica; ma sopratutto l'unità assoluta, definitiva, di sensoe di espressione, la icasticità della parola e la sua capa-cità evocativa (potete concepire i «Sepolcri» fuor dellaloro forma?).

Di solito, la poesia viene invece distinta dall'arte, epoi aggiunta, ora a un particolar genere letterario, dandocosì luogo ai canoni dell'arte poetica, ora a tutte le articome la lor comune liricità. Quella distinzione non chia-risce le idee se prima non si sdoppia il problema del rap-porto di forma a contenuto, che in estetica non è che ilproblema dell'unità o coerenza stilistica, mentre che inteoretica s'allarga nel problema della unità o immanenzadei valori, in quanto trascendentali (questa si può dire laliricità dello spirito), nella forma sensibile, unità esteticache si attua particolarmente in letteratura.

Infatti per un pittore, il contenuto può esserenient'altro che un pretesto per ottenere un rapporto dicolori; ma se questa è l'arte, tutti sentiamo che la lettera-tura è qualcosa di più dell'arte e ci obbliga ad allargare ilproblema. Anche se ci limitassimo a chiamar «arte poe-tica» la tecnica de' suoni accenti e ritmi d'un particolargenere letterario detto per antonomasia «poesia», l'ele-mento sonoro del verso conta meno come musica in sèche come accordo della forma sonora al senso e al con-

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ne spirito, di strumento diviene fine. L'immagine cercala sua forma: il suono, l'accento, l'inflessione, il timbro;i ritmi, le pause, le coincidenze e le rime; gli accordi e icontrasti, di suono, di colorito e chiaroscuro; i tropi e itraslati e tutte le figure e i modi della composizione stili-stica; ma sopratutto l'unità assoluta, definitiva, di sensoe di espressione, la icasticità della parola e la sua capa-cità evocativa (potete concepire i «Sepolcri» fuor dellaloro forma?).

Di solito, la poesia viene invece distinta dall'arte, epoi aggiunta, ora a un particolar genere letterario, dandocosì luogo ai canoni dell'arte poetica, ora a tutte le articome la lor comune liricità. Quella distinzione non chia-risce le idee se prima non si sdoppia il problema del rap-porto di forma a contenuto, che in estetica non è che ilproblema dell'unità o coerenza stilistica, mentre che inteoretica s'allarga nel problema della unità o immanenzadei valori, in quanto trascendentali (questa si può dire laliricità dello spirito), nella forma sensibile, unità esteticache si attua particolarmente in letteratura.

Infatti per un pittore, il contenuto può esserenient'altro che un pretesto per ottenere un rapporto dicolori; ma se questa è l'arte, tutti sentiamo che la lettera-tura è qualcosa di più dell'arte e ci obbliga ad allargare ilproblema. Anche se ci limitassimo a chiamar «arte poe-tica» la tecnica de' suoni accenti e ritmi d'un particolargenere letterario detto per antonomasia «poesia», l'ele-mento sonoro del verso conta meno come musica in sèche come accordo della forma sonora al senso e al con-

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tenuto: una pausa, una rima, un'arsi e una tesi sono benpovera bellezza formale se non riguardano il significato.Dato il carattere obbiettivo e logico (cioè grammaticale)del linguaggio, inscindibile pur dal valore espressivo edemotivo del fonèma – anche una semplice interiezione oil tono della voce divengono linguaggio sol in quantoservono a rappresentare altrui i nostri sentimenti –, al-lorchè da mezzo pratico di comunicazione qual era illinguaggio naturale passa in fine artistico, vi trasporta ipropri valori rappresentativi de' quali non si può maispogliare del tutto essendo fatto per essi.

Non soltanto dunque la linguistica, ma neppur la filo-logia si esaurisce nell'estetica in senso stretto. La lettera-tura esigerebbe un'estetica allargata, connessa al proble-ma metafisico dell'immanenza del pensiero più alto allasua più semplice forma.

10. – Ma ritorniàmo un istante indietro, e concludià-mo prima circa gli stessi problemi nelle arti figurative(imitative) come la pittura. Che cosa intendiamo noi per«contenuto» d'un quadro, se non ciò che il quadro cipresenta? È contenuto per noi che guardiamo, ma perse, è la forma istessa, il dipinto. In che stava dunquel'interesse del porre questa forma pittorica in rapportocon un altro contenuto, con un oggetto esterno e anterio-re ad essa (il modello)? Stava nel bisogno teoretico didistinguere arte e natura, stile (presentativo) e realtà(rappresentata), bello e vero.

Confrontando queste due cose, dicemmo che l'arte

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tenuto: una pausa, una rima, un'arsi e una tesi sono benpovera bellezza formale se non riguardano il significato.Dato il carattere obbiettivo e logico (cioè grammaticale)del linguaggio, inscindibile pur dal valore espressivo edemotivo del fonèma – anche una semplice interiezione oil tono della voce divengono linguaggio sol in quantoservono a rappresentare altrui i nostri sentimenti –, al-lorchè da mezzo pratico di comunicazione qual era illinguaggio naturale passa in fine artistico, vi trasporta ipropri valori rappresentativi de' quali non si può maispogliare del tutto essendo fatto per essi.

Non soltanto dunque la linguistica, ma neppur la filo-logia si esaurisce nell'estetica in senso stretto. La lettera-tura esigerebbe un'estetica allargata, connessa al proble-ma metafisico dell'immanenza del pensiero più alto allasua più semplice forma.

10. – Ma ritorniàmo un istante indietro, e concludià-mo prima circa gli stessi problemi nelle arti figurative(imitative) come la pittura. Che cosa intendiamo noi per«contenuto» d'un quadro, se non ciò che il quadro cipresenta? È contenuto per noi che guardiamo, ma perse, è la forma istessa, il dipinto. In che stava dunquel'interesse del porre questa forma pittorica in rapportocon un altro contenuto, con un oggetto esterno e anterio-re ad essa (il modello)? Stava nel bisogno teoretico didistinguere arte e natura, stile (presentativo) e realtà(rappresentata), bello e vero.

Confrontando queste due cose, dicemmo che l'arte

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imita la natura e la storia (e tanto più se vuole rappre-sentare, «illustrare» il tal contenuto esterno); ma che, inquanto è forma e figura, ne risulta sempre un'interpreta-zione, ottenuta con la scelta di questo o quel mezzo tec-nico (come la plasticità dei romani, il cromatismo deibisantini, la linea o «contorno» dei gotici ecc.) che servea tradurre il contenuto (esterno) analitico e molteplice –poi che in natura linee e colori luci e ombre piani e vo-lumi ecc. son lì semplicemente vicini e per caso e ci ser-vono unicamente per rappresentarci gli oggetti fuori dinoi – a tradurli, dico, in una forma sintetica e unificante,la quale poi ci aiuterà a trovare i valori formali anche innatura. Il valore di quella forma – si chiami esso ogget-tivo perchè si tratta d'una figura più o men «verisimile»ma pur sempre stilisticamente coerente (p. es. in Raf-faello, benchè le figure aderiscano al vero, sono però lamelodiosità dei contorni, la subordinazione delle super-fici colorate, la «composizione» ecc. quelle che lo inter-pretano con la serena grazia e l'armonica dolcezza di-stintive dell'Urbinate); o lo si chiami soggettivo perchèsentimento «espresso» dall'opera d'arte (l'umido tenerod'un fondo giorgionesco, la vibrazione lenta della pe-nombra leornardesca, il solido e profondo del lumini-smo caravaggesco ecc.) – sta tutto quanto compreso neipuri rapporti sensibili, che nel contempo formano la fi-gura obbiettiva, ma con la espressività o «carattere» del-lo stile: rapporti che hanno in sè la loro legge interna,ch'è la detta coerenza stilistica, unificante il contenuto

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imita la natura e la storia (e tanto più se vuole rappre-sentare, «illustrare» il tal contenuto esterno); ma che, inquanto è forma e figura, ne risulta sempre un'interpreta-zione, ottenuta con la scelta di questo o quel mezzo tec-nico (come la plasticità dei romani, il cromatismo deibisantini, la linea o «contorno» dei gotici ecc.) che servea tradurre il contenuto (esterno) analitico e molteplice –poi che in natura linee e colori luci e ombre piani e vo-lumi ecc. son lì semplicemente vicini e per caso e ci ser-vono unicamente per rappresentarci gli oggetti fuori dinoi – a tradurli, dico, in una forma sintetica e unificante,la quale poi ci aiuterà a trovare i valori formali anche innatura. Il valore di quella forma – si chiami esso ogget-tivo perchè si tratta d'una figura più o men «verisimile»ma pur sempre stilisticamente coerente (p. es. in Raf-faello, benchè le figure aderiscano al vero, sono però lamelodiosità dei contorni, la subordinazione delle super-fici colorate, la «composizione» ecc. quelle che lo inter-pretano con la serena grazia e l'armonica dolcezza di-stintive dell'Urbinate); o lo si chiami soggettivo perchèsentimento «espresso» dall'opera d'arte (l'umido tenerod'un fondo giorgionesco, la vibrazione lenta della pe-nombra leornardesca, il solido e profondo del lumini-smo caravaggesco ecc.) – sta tutto quanto compreso neipuri rapporti sensibili, che nel contempo formano la fi-gura obbiettiva, ma con la espressività o «carattere» del-lo stile: rapporti che hanno in sè la loro legge interna,ch'è la detta coerenza stilistica, unificante il contenuto

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alla forma, e non viceversa35.Questa considerazione, che vero contenuto artistico

non siano i contenuti esterni richiamati o rappresentatidall'arte – sotto il quale aspetto, l'arte ha relativamentead essi soltanto un valore «illustrativo» e vale in sècome arte «decorativa»: in tale rapporto, il problemadell'arte si circoscrive come problema della pura forma(della forma bella), per distinguere e non per unificare ivalori –, ma che il contenuto divenga interno all'artenell'interpretazione stilistica, consistente nel rendereogni valore presente e unificato nella forma, è implicita,se non erro, nell'odierna teoria fondamentalmente giustadella «pura visibilità» delle arti figurative (le arti chefingono un oggetto). Paragonata col modello esterno,l'arte appare loro astraente e deformante, e queste di-vengono le leggi dello stile contrapposte ai criteri del

35 In natura, percepisco solido quel tavolo in quanto, date ledue prime dimensioni (forma visiva), mi rappresento la terza (ilcontenuto, la materia). Se ne prendo una buona immagine foto-grafica, ecco una nuova forma: ma, in quanto còpia la natura, vaad identificarsi al contenuto rappresentativo: percepisco stereo-scopicamente l'immagine del tavolo. Consideriàmo invece. p. es.,il formidabile realismo artistico di un Caravaggio: la massicciasolidità, il sentimento della materia e del peso datomi da quel ta-volo dipinto di sbieco sotto la luce radente, e in una parola, il va-lore della sua realtà, incominciano e finiscono qui, nella sua for-ma stilistica. Non si tratta di percepire un tavolo, chè non m'illudoun solo istante che ci sia un tavolo in quel luogo fuori di me; sitratta di sentirne il peso e il «profondo» (o, in genere, la qualità eil valore) interpretati nella forma, ossia, proprio, veduti.

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alla forma, e non viceversa35.Questa considerazione, che vero contenuto artistico

non siano i contenuti esterni richiamati o rappresentatidall'arte – sotto il quale aspetto, l'arte ha relativamentead essi soltanto un valore «illustrativo» e vale in sècome arte «decorativa»: in tale rapporto, il problemadell'arte si circoscrive come problema della pura forma(della forma bella), per distinguere e non per unificare ivalori –, ma che il contenuto divenga interno all'artenell'interpretazione stilistica, consistente nel rendereogni valore presente e unificato nella forma, è implicita,se non erro, nell'odierna teoria fondamentalmente giustadella «pura visibilità» delle arti figurative (le arti chefingono un oggetto). Paragonata col modello esterno,l'arte appare loro astraente e deformante, e queste di-vengono le leggi dello stile contrapposte ai criteri del

35 In natura, percepisco solido quel tavolo in quanto, date ledue prime dimensioni (forma visiva), mi rappresento la terza (ilcontenuto, la materia). Se ne prendo una buona immagine foto-grafica, ecco una nuova forma: ma, in quanto còpia la natura, vaad identificarsi al contenuto rappresentativo: percepisco stereo-scopicamente l'immagine del tavolo. Consideriàmo invece. p. es.,il formidabile realismo artistico di un Caravaggio: la massicciasolidità, il sentimento della materia e del peso datomi da quel ta-volo dipinto di sbieco sotto la luce radente, e in una parola, il va-lore della sua realtà, incominciano e finiscono qui, nella sua for-ma stilistica. Non si tratta di percepire un tavolo, chè non m'illudoun solo istante che ci sia un tavolo in quel luogo fuori di me; sitratta di sentirne il peso e il «profondo» (o, in genere, la qualità eil valore) interpretati nella forma, ossia, proprio, veduti.

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verismo (o meglio, «verisimilismo»).Certo, la stessa unilateralità del mezzo artistico, tanto

più necessaria quanto più esso serve a unificare i conte-nuti nella forma (p. es. colla luce nel luminismo pittori-co, col disegno nel bianco e nero, col rapporto dei pianiin scultura ecc.), rende l'arte «astraente» di fronte al mo-dello; ma questa astrazione o scelta tecnica condizionala concretezza medesima dell'arte, la sua potenzad'attuare un valore nella forma d'un rapporto sensibile:dipingete al vero la Venere di Milo e turberete l'effettoestetico della «linea». Perciò (d'accordo!) sarebbe fuoridell'arte chi giudicasse che nei bisantini fu un «difetto»trascurare il chiaroscuro, o nei gotici la prospettiva. Tan-to varrebbe il dire che un fantoccio meccanico, perchècammina davvero, è più bello della Nike Samotracia checorre sol per effetto del modellato: di qui si giungerebbea porre il massimo dell'arte nella natura, che in tal sensoè l'opposto (l'estremo dell'arte nel senso dell'obbiettivitàè l'architettura). La prospettiva dei fiorentini o il rappor-to tonale dei veneti diverranno a lor volta due mezzid'interpretazione artistica sullo stesso piede della puritàdei colori dei bisantini e del semplice contorno dei goti-ci.

Del pari è giusto affermare, che l'arte «deforma» ilvero perchè modifica e storce, più o meno, le forme del-la natura, se pur non ne prescinde del tutto lor sostituen-do figure fantastiche, come in tanta storia dell'arte orien-tale ed egizia, prefidiaca e romanza; ma deforma il realeesistente per costruire la propria realtà, l'espressività

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verismo (o meglio, «verisimilismo»).Certo, la stessa unilateralità del mezzo artistico, tanto

più necessaria quanto più esso serve a unificare i conte-nuti nella forma (p. es. colla luce nel luminismo pittori-co, col disegno nel bianco e nero, col rapporto dei pianiin scultura ecc.), rende l'arte «astraente» di fronte al mo-dello; ma questa astrazione o scelta tecnica condizionala concretezza medesima dell'arte, la sua potenzad'attuare un valore nella forma d'un rapporto sensibile:dipingete al vero la Venere di Milo e turberete l'effettoestetico della «linea». Perciò (d'accordo!) sarebbe fuoridell'arte chi giudicasse che nei bisantini fu un «difetto»trascurare il chiaroscuro, o nei gotici la prospettiva. Tan-to varrebbe il dire che un fantoccio meccanico, perchècammina davvero, è più bello della Nike Samotracia checorre sol per effetto del modellato: di qui si giungerebbea porre il massimo dell'arte nella natura, che in tal sensoè l'opposto (l'estremo dell'arte nel senso dell'obbiettivitàè l'architettura). La prospettiva dei fiorentini o il rappor-to tonale dei veneti diverranno a lor volta due mezzid'interpretazione artistica sullo stesso piede della puritàdei colori dei bisantini e del semplice contorno dei goti-ci.

Del pari è giusto affermare, che l'arte «deforma» ilvero perchè modifica e storce, più o meno, le forme del-la natura, se pur non ne prescinde del tutto lor sostituen-do figure fantastiche, come in tanta storia dell'arte orien-tale ed egizia, prefidiaca e romanza; ma deforma il realeesistente per costruire la propria realtà, l'espressività

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della forma artistica. Anche qui, pertanto, sarebbe fuoridell'arte il ripetere per es. che l'arte dei «primitivi» era«scorretta» o «infantile» (perchè deformatrice): essi nondovevano affatto correggere le loro anatomie e prospet-tive o scorci per la semplice ragione che vedevano esentivano a quel modo, che quella era l'espressione ade-guata alla lor ispirazione. Tanto varrebbe imputare a unmusicista di esprimersi musicalmente invece che conparole naturali.

Così, l'odierna critica e storia dell'arte – parlo di quel-la che guarda l'arte non soltanto da erudito (ossia col do-cumento) o da letterato (ossia con l'immaginazione), mala guarda proprio da artista: la guarda con gli occhi – èvenuta sempre più orientandosi verso un espressionismoestetico36 che, intendendo lo stile come espressionedell'impressione soggettiva, trasporta il contenuto arti-stico tutt'affatto dentro il soggetto, e respinge ogni con-tenutismo oggettivo, ogni «verismo». L'artista trovasempre in sè medesimo, nel proprio modo di sentire, equindi di vedere, il suo vero contenuto.

Appunto perciò (aggiungono) egli deforma il modello

36 Chiamo così questo secondo momento che si potrebbe an-che dire «attualista», in prosecuzione del primo impressionismo(che si diceva «intuizionista»): si tratta dei due criteri paralleli aidue momenti dell'arte che da un neo romanticismo impressionistas'è andata volgendo ad un neo classicismo espressionista. Fra leopere più intelligenti e rappresentative, cui in queste pagine allu-diamo, cito «Il Gusto dei Primitivi» di Leonello Venturi e «Sapervedere» di Matteo Marangoni.

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della forma artistica. Anche qui, pertanto, sarebbe fuoridell'arte il ripetere per es. che l'arte dei «primitivi» era«scorretta» o «infantile» (perchè deformatrice): essi nondovevano affatto correggere le loro anatomie e prospet-tive o scorci per la semplice ragione che vedevano esentivano a quel modo, che quella era l'espressione ade-guata alla lor ispirazione. Tanto varrebbe imputare a unmusicista di esprimersi musicalmente invece che conparole naturali.

Così, l'odierna critica e storia dell'arte – parlo di quel-la che guarda l'arte non soltanto da erudito (ossia col do-cumento) o da letterato (ossia con l'immaginazione), mala guarda proprio da artista: la guarda con gli occhi – èvenuta sempre più orientandosi verso un espressionismoestetico36 che, intendendo lo stile come espressionedell'impressione soggettiva, trasporta il contenuto arti-stico tutt'affatto dentro il soggetto, e respinge ogni con-tenutismo oggettivo, ogni «verismo». L'artista trovasempre in sè medesimo, nel proprio modo di sentire, equindi di vedere, il suo vero contenuto.

Appunto perciò (aggiungono) egli deforma il modello

36 Chiamo così questo secondo momento che si potrebbe an-che dire «attualista», in prosecuzione del primo impressionismo(che si diceva «intuizionista»): si tratta dei due criteri paralleli aidue momenti dell'arte che da un neo romanticismo impressionistas'è andata volgendo ad un neo classicismo espressionista. Fra leopere più intelligenti e rappresentative, cui in queste pagine allu-diamo, cito «Il Gusto dei Primitivi» di Leonello Venturi e «Sapervedere» di Matteo Marangoni.

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la deformazione del vero obbiettivo diventa anzi l'indicedella soggettività o liricità dell'arte, e si potrebbe dire,della sua romanticità. Ogni volta che l'arte cerca il pro-prio contenuto nell'ispirazione, sia essa mistica oppur li-rica, o anche soltanto impressionista, s'allontanadall'imitazione del vero e costruisce le sue figure libera-mente, obbedendo al bisogno di esprimere, come avven-ne nell'arte medievale e, in genere, nell'arte dei «primiti-vi». Se dunque oggi, di nuovo, un «novecentista» (unMatisse, un Picasso, un Utrillo) deforma la natura, peres, figurando una Vergine senza rispettare le proporzionie tanto meno la regolarità dei lineamenti (ossia, comedirebbe uno del pubblico, facendola «brutta»), egli, con-cludono, ne avrebbe il diritto in quanto lo faccia unica-mente per cercare una forma più espressiva.

Ma eccoci di nuovo sul ciglio d'un abisso, se non citratteniamo in tempo, prima che qualche pseudo pittoreo scultore approfitti di un tal criterio per gabellare comearte qualunque «composizione» (o scomposizione) lasua imperizia tecnica e la sua vanità ci vogliano amman-nire, col pretesto che l'arte è espressione d'un contenutotutto soggettivo, e anzi pura creazione del libero spiritoumano. Prolungando questa tesi, l'arte per eccellenza èsenza forma, ossia deformatrice al punto da negare ogniforma (per non cadere nè nell'«illustrazione» nè nel «de-corativo»); lo stile è l'espressione immediata, naturalecome la parola, e il gesto, anzi lo stesso fare umano epratico (futuristicamente!): la vita (la natura dalla partedel soggetto), ossia, di nuovo, l'opposto dell'arte, che nel

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la deformazione del vero obbiettivo diventa anzi l'indicedella soggettività o liricità dell'arte, e si potrebbe dire,della sua romanticità. Ogni volta che l'arte cerca il pro-prio contenuto nell'ispirazione, sia essa mistica oppur li-rica, o anche soltanto impressionista, s'allontanadall'imitazione del vero e costruisce le sue figure libera-mente, obbedendo al bisogno di esprimere, come avven-ne nell'arte medievale e, in genere, nell'arte dei «primiti-vi». Se dunque oggi, di nuovo, un «novecentista» (unMatisse, un Picasso, un Utrillo) deforma la natura, peres, figurando una Vergine senza rispettare le proporzionie tanto meno la regolarità dei lineamenti (ossia, comedirebbe uno del pubblico, facendola «brutta»), egli, con-cludono, ne avrebbe il diritto in quanto lo faccia unica-mente per cercare una forma più espressiva.

Ma eccoci di nuovo sul ciglio d'un abisso, se non citratteniamo in tempo, prima che qualche pseudo pittoreo scultore approfitti di un tal criterio per gabellare comearte qualunque «composizione» (o scomposizione) lasua imperizia tecnica e la sua vanità ci vogliano amman-nire, col pretesto che l'arte è espressione d'un contenutotutto soggettivo, e anzi pura creazione del libero spiritoumano. Prolungando questa tesi, l'arte per eccellenza èsenza forma, ossia deformatrice al punto da negare ogniforma (per non cadere nè nell'«illustrazione» nè nel «de-corativo»); lo stile è l'espressione immediata, naturalecome la parola, e il gesto, anzi lo stesso fare umano epratico (futuristicamente!): la vita (la natura dalla partedel soggetto), ossia, di nuovo, l'opposto dell'arte, che nel

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senso dell'espressività culmina invece nella musica.Ma come il contenuto artistico, se esiste, incomincia

ad esistere in quella figura che lo attua stilisticamente(lo esprime artisticamente), e la sua soggettività nonl'esime certo dal dovere d'obbiettivarsi nell'arte37, così lalibertà o creatività dell'artista non viene dispensatadall'obbligo di cercare la forma estetica (anche se nonl'intende edonisticamente, come imitazione di un bellogià dato e convenzionale), ch'è poi estetica appunto inquanto è più espressiva (che la natura) di quel valore. Seno, in che l'arte supera la natura?38.

37 La «deformazione» artistica si riduce a un'immagine «fan-tastica». Ebbene? non si può confondere la immaginazione psico-logica con la fantasia artistica proprio per la concretezza di que-sta. Per es. non si può confondere il giuoco, per cui un bimbo im-magina d'andare a cavallo avendo fra le gambe il manico dellascopa, con la fantasia dell'artista che, per quanto voglia darci for-me e figure immaginarie, le deve comporre, realizzare. (Quel pa-rallelo fra giuoco e arte è stato possibile sol pensando alla lettera-tura, dove, come diremo, l'unità di forma e contenuto avviene per«accordo» nell'immagine, invece che per identificazione sensibi-le).

38 Il malinteso criterio che fa contrapporre lo stile comeespressione dell'arte in quanto subiettiva, alla forma estetica repu-tata obbiettiva e imitativa, e fa anteporre l'espressività romanticaal formalismo classico – invece di unificarli come momentid'ogni arte e d'ogni artista, che versano l'uno nell'altro, immetten-do gli altri valori e finalità umane nel valore estetico – appare piùvolte nelle discussioni su l'arte dei primitivi; e riaffiora anche aproposito dell'arte contemporanea, che viene, per la sua libertà edeformazione del vero, riaccostata alle espressioni di quei lontani

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senso dell'espressività culmina invece nella musica.Ma come il contenuto artistico, se esiste, incomincia

ad esistere in quella figura che lo attua stilisticamente(lo esprime artisticamente), e la sua soggettività nonl'esime certo dal dovere d'obbiettivarsi nell'arte37, così lalibertà o creatività dell'artista non viene dispensatadall'obbligo di cercare la forma estetica (anche se nonl'intende edonisticamente, come imitazione di un bellogià dato e convenzionale), ch'è poi estetica appunto inquanto è più espressiva (che la natura) di quel valore. Seno, in che l'arte supera la natura?38.

37 La «deformazione» artistica si riduce a un'immagine «fan-tastica». Ebbene? non si può confondere la immaginazione psico-logica con la fantasia artistica proprio per la concretezza di que-sta. Per es. non si può confondere il giuoco, per cui un bimbo im-magina d'andare a cavallo avendo fra le gambe il manico dellascopa, con la fantasia dell'artista che, per quanto voglia darci for-me e figure immaginarie, le deve comporre, realizzare. (Quel pa-rallelo fra giuoco e arte è stato possibile sol pensando alla lettera-tura, dove, come diremo, l'unità di forma e contenuto avviene per«accordo» nell'immagine, invece che per identificazione sensibi-le).

38 Il malinteso criterio che fa contrapporre lo stile comeespressione dell'arte in quanto subiettiva, alla forma estetica repu-tata obbiettiva e imitativa, e fa anteporre l'espressività romanticaal formalismo classico – invece di unificarli come momentid'ogni arte e d'ogni artista, che versano l'uno nell'altro, immetten-do gli altri valori e finalità umane nel valore estetico – appare piùvolte nelle discussioni su l'arte dei primitivi; e riaffiora anche aproposito dell'arte contemporanea, che viene, per la sua libertà edeformazione del vero, riaccostata alle espressioni di quei lontani

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11. – Per noi è ormai facile rettificare il soggettivismoestetico, affinchè non divenga un contenutismo comequello oggettivo.

L'oggettivismo era presto corretto. Non possiamoporre il bello artistico in un contenuto oggettivo dellaconoscenza, in una cosa o causa trascendente la forma

maestri. Oggi infatti l'arte è esclusivamente espressiva delle pro-prie impressioni. Fu giustappunto l'«impressionismo» che, abban-donando tanto l'edonismo quanto il verismo prima imperanti, inarte come in letteratura aprì una nuova èra d'assoluta libertà arti-stica, col ritorno («apparente», conviene il Marangoni!) alla sem-plicità e immediatezza di mezzi dei primitivi. Però, il parallelo èsol in parte accettabile. Troppo lungo sarebbe approfondire; quiosserviamo soltanto che – a parte il fatto, che un primitivismo vo-luto e consapevole sarebbe una «maniera» come quella degliodiati classicisti – mai come oggi l'arte fu spoglia di misticismoromantico, d'ideologie e perfin di concetti (tre pesci appesi per lacoda valgono per un pittore odierno quanto la Sacra Famiglia);mai come oggi, la sincerità, e l'onestà dell'artista son poste nellosdegno delle idealizzazioni e amplificazioni e nell'ardente bramadel nudo vero.

L'«impressionismo», da cui discende questo «espressionismo»,non fu, secondo me, che un contingentismo (in accordo con tuttolo spirito dei tempi) e divenne a dirittura sensismo, da Rénoir aVerlaine ed a Proust. Scontento delle forme fisse ed esteriori delprecedente realismo, polverizzò il reale penetrandolo ne' suoi ele-menti sensibili, e di queste sensazioni ricompose le sue forme, ilsuo stile: l'atmosfera coloristica del «plein air», la pennellata deimacchiaiuoli, la vibrazione cromatica del divisionismo in pitturacome in musica (Debussy), lo «sfocato» perfino in scultura (Me-dardo Rosso), ecc. ecc. Di conseguenza, mai come oggi l'arte cer-cò unicamente e affannosamente la forma corrispondente al suo

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11. – Per noi è ormai facile rettificare il soggettivismoestetico, affinchè non divenga un contenutismo comequello oggettivo.

L'oggettivismo era presto corretto. Non possiamoporre il bello artistico in un contenuto oggettivo dellaconoscenza, in una cosa o causa trascendente la forma

maestri. Oggi infatti l'arte è esclusivamente espressiva delle pro-prie impressioni. Fu giustappunto l'«impressionismo» che, abban-donando tanto l'edonismo quanto il verismo prima imperanti, inarte come in letteratura aprì una nuova èra d'assoluta libertà arti-stica, col ritorno («apparente», conviene il Marangoni!) alla sem-plicità e immediatezza di mezzi dei primitivi. Però, il parallelo èsol in parte accettabile. Troppo lungo sarebbe approfondire; quiosserviamo soltanto che – a parte il fatto, che un primitivismo vo-luto e consapevole sarebbe una «maniera» come quella degliodiati classicisti – mai come oggi l'arte fu spoglia di misticismoromantico, d'ideologie e perfin di concetti (tre pesci appesi per lacoda valgono per un pittore odierno quanto la Sacra Famiglia);mai come oggi, la sincerità, e l'onestà dell'artista son poste nellosdegno delle idealizzazioni e amplificazioni e nell'ardente bramadel nudo vero.

L'«impressionismo», da cui discende questo «espressionismo»,non fu, secondo me, che un contingentismo (in accordo con tuttolo spirito dei tempi) e divenne a dirittura sensismo, da Rénoir aVerlaine ed a Proust. Scontento delle forme fisse ed esteriori delprecedente realismo, polverizzò il reale penetrandolo ne' suoi ele-menti sensibili, e di queste sensazioni ricompose le sue forme, ilsuo stile: l'atmosfera coloristica del «plein air», la pennellata deimacchiaiuoli, la vibrazione cromatica del divisionismo in pitturacome in musica (Debussy), lo «sfocato» perfino in scultura (Me-dardo Rosso), ecc. ecc. Di conseguenza, mai come oggi l'arte cer-cò unicamente e affannosamente la forma corrispondente al suo

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che ce le rappresenti soltanto. P. es. il contenuto di que-sto rettangolo bianco è la sua materia (è un rettangolo dicarta) rispetto a quest'oggetto, l'arte non consisterà nelpresentarmi un nuovo foglio di carta, ma, o nell'ornaredecorando quest'oggetto, nel qual caso si rende autono-ma come pura arte, rètta unicamente dal gusto della for-ma divenuta fine a sè medesima; oppure nel realismo ar-tistico, dove «realtà» non è un oggetto trascendente laforma, ma la finalità realistica, che l'artista esprime edattua nello stile. Superfluo qui ripetere, che l'artista lopuò fare scegliendo e inventando forme più espressivedi quelle naturali per interpretare la realtà della natura (edi noi stessi come natura), superandola39: il contenuto,da oggetto s'è mutato in finalità oggettiva, e da «natura»immediatismo (ma non immediata!), non avendo altro fine chel'arte, l'espressività del mezzo adoperato. Si dovrebbe dunque direpiuttosto che oggi l'arte non è che ansiosa, commovente ricerca diuna forma più «vera»; e che quando la raggiunge (cito fra i nostrimigliori l'Andreotti e il Carena), il nuovo romanticismo rifioriscedi tutte le classiche grazie!

39 Siamo pertanto ben lontani dall'escludere dall'arte il reali-smo (di cui il «verismo» non fu che il momento corrispondente alpositivismo); tanto meno dalle arti figurative che sono perciòorientate verso l'oggettività della figura, salvo a darle un signifi-cato allegorico (che le diminuisce) e in tal senso ideale. Masaccioo Caravaggio furon potenti realisti: chiamarli ora idealisti perchèusano uno stile fortemente caustico e sintetico, è uno spostare ilproblema dal valore estetico alla causalità psicologica; come, peropposto errore, si chiama idealista quel naturalismo, proprio inparticolare della letteratura (il romanzo), che prende a contenuti isentimenti e la vita umana.

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che ce le rappresenti soltanto. P. es. il contenuto di que-sto rettangolo bianco è la sua materia (è un rettangolo dicarta) rispetto a quest'oggetto, l'arte non consisterà nelpresentarmi un nuovo foglio di carta, ma, o nell'ornaredecorando quest'oggetto, nel qual caso si rende autono-ma come pura arte, rètta unicamente dal gusto della for-ma divenuta fine a sè medesima; oppure nel realismo ar-tistico, dove «realtà» non è un oggetto trascendente laforma, ma la finalità realistica, che l'artista esprime edattua nello stile. Superfluo qui ripetere, che l'artista lopuò fare scegliendo e inventando forme più espressivedi quelle naturali per interpretare la realtà della natura (edi noi stessi come natura), superandola39: il contenuto,da oggetto s'è mutato in finalità oggettiva, e da «natura»immediatismo (ma non immediata!), non avendo altro fine chel'arte, l'espressività del mezzo adoperato. Si dovrebbe dunque direpiuttosto che oggi l'arte non è che ansiosa, commovente ricerca diuna forma più «vera»; e che quando la raggiunge (cito fra i nostrimigliori l'Andreotti e il Carena), il nuovo romanticismo rifioriscedi tutte le classiche grazie!

39 Siamo pertanto ben lontani dall'escludere dall'arte il reali-smo (di cui il «verismo» non fu che il momento corrispondente alpositivismo); tanto meno dalle arti figurative che sono perciòorientate verso l'oggettività della figura, salvo a darle un signifi-cato allegorico (che le diminuisce) e in tal senso ideale. Masaccioo Caravaggio furon potenti realisti: chiamarli ora idealisti perchèusano uno stile fortemente caustico e sintetico, è uno spostare ilproblema dal valore estetico alla causalità psicologica; come, peropposto errore, si chiama idealista quel naturalismo, proprio inparticolare della letteratura (il romanzo), che prende a contenuti isentimenti e la vita umana.

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in «spirito».Ma neppure lo spirito è mai un contenuto in senso

proprio, se non per lo psicologismo che lo obbiettìva inuna sostanza o causa su l'analogia degli oggetti della co-noscenza. Per noi, lo spirito – lo s'intenda empiricamen-te come «io» («io esisto» non è che la posizione praticadella sensazione), o filosoficamente come finalità rivol-ta al più che l'io (dover essere trascendentale), e quindianche all'essere, al non io (presente come stimolo e op-posto come limite nell'esistenza stessa dell'io) – è sem-pre valore e non è mai uno de' suoi contenuti.

Il mondo, lo sappiamo, è un mondo di forme, ed il va-lore si attua nella forma40. Tra le forme distinguiamo gliatti (forme del corpo), perchè non soltanto ci rappresen-tano obbiettivamente noi stessi e il nostro rapporto colmondo, ma anche perchè attuano subiettivamente la fi-nalità (appagando il sentimento), e così la esprimono(per gli altri). Esprimere, non è rappresentare conosciti-vamente, ma comunicare per partecipazione la subietti-vità di un valore (se uno scoppia in una risata tutti rido-no con lui, e non solamente se ne rappresentano la gio-

40 Nè credo necessaria per meglio spiegare di ricorrere al «da-sein» dello Heidegger e a tutto lo schematismo eidetico e tipolo-gico che aduggia l'odierna filosofia tedesca, dallo Husserl alloSpranger. Esso però è un sintomo significativo dell'esigenza didefinire i valori come valori formali e attuali al tempo stesso, in-dipendentemente dalle rappresentazioni trascendenti la forma delloro esistere, delle quali li spoglia appunto la «epochè» o riduzio-ne fenomenologica dello Husserl.

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in «spirito».Ma neppure lo spirito è mai un contenuto in senso

proprio, se non per lo psicologismo che lo obbiettìva inuna sostanza o causa su l'analogia degli oggetti della co-noscenza. Per noi, lo spirito – lo s'intenda empiricamen-te come «io» («io esisto» non è che la posizione praticadella sensazione), o filosoficamente come finalità rivol-ta al più che l'io (dover essere trascendentale), e quindianche all'essere, al non io (presente come stimolo e op-posto come limite nell'esistenza stessa dell'io) – è sem-pre valore e non è mai uno de' suoi contenuti.

Il mondo, lo sappiamo, è un mondo di forme, ed il va-lore si attua nella forma40. Tra le forme distinguiamo gliatti (forme del corpo), perchè non soltanto ci rappresen-tano obbiettivamente noi stessi e il nostro rapporto colmondo, ma anche perchè attuano subiettivamente la fi-nalità (appagando il sentimento), e così la esprimono(per gli altri). Esprimere, non è rappresentare conosciti-vamente, ma comunicare per partecipazione la subietti-vità di un valore (se uno scoppia in una risata tutti rido-no con lui, e non solamente se ne rappresentano la gio-

40 Nè credo necessaria per meglio spiegare di ricorrere al «da-sein» dello Heidegger e a tutto lo schematismo eidetico e tipolo-gico che aduggia l'odierna filosofia tedesca, dallo Husserl alloSpranger. Esso però è un sintomo significativo dell'esigenza didefinire i valori come valori formali e attuali al tempo stesso, in-dipendentemente dalle rappresentazioni trascendenti la forma delloro esistere, delle quali li spoglia appunto la «epochè» o riduzio-ne fenomenologica dello Husserl.

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ia). In natura, l'espressività d'un atto non è che la subiet-tività d'una forma. E in arte?

Uno che arrossisca di vergogna o se la dia a gambeper la paura, sebbene «esprima» benissimo questi senti-menti e fini subiettivi, non è per nessuno un artista: arti-sta è, p. es., l'attore che «imita» il pudore o la paura, os-sia prende per suo fine quei gesti che nella vita eranospontanei oppur pratici e, condivida o no quei sentimen-ti, li rende tragici o comici o farseschi nello stile. Dinuovo parrebbe, che dei contenuti, questa volta soggetti-vi, passino con la loro espressività nell'arte a renderlaespressiva.

Ma no: l'artista che semplicemente trasporta in arteun vero riso e un vero pianto, è l'ultimo degli artisti, ilpiù povero e inespressivo41. Di nuovo, l'arte, o «aderi-sce», come pura arte, al contenuto che prende a pretestoo che vuol illustrare, e ci darà un riso e un pianto stiliz-zati, resi belli per sè, divenuti elementi della pura forma;e pertanto si può dire, «idealizzati»; ovvero l'eticità diquel dolore o di quella gioia arde l'anima dell'artista,

41 La «naturalezza» subiettiva e obiettiva di un'espressionesarà, già lo dicemmo, una conseguenza e non una premessadell'arte, una forma e non un contenuto. Al sommo del buon gu-sto, il mezzo estetico si fa così semplice e trasparente da parerenatura. A questo punto, la deformazione degli espressivisti, inve-ce che «ingenua» o «fresca» (com'è quella dell'arte dei fanciulli edei barbari, vista da noi, che in sè è ancor troppo natura), ci appa-re retorica (fra qualche anno. p. es., i lunghi colli alla Modiglianici sembreranno quanto mai enfatici e pretenziosi).

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ia). In natura, l'espressività d'un atto non è che la subiet-tività d'una forma. E in arte?

Uno che arrossisca di vergogna o se la dia a gambeper la paura, sebbene «esprima» benissimo questi senti-menti e fini subiettivi, non è per nessuno un artista: arti-sta è, p. es., l'attore che «imita» il pudore o la paura, os-sia prende per suo fine quei gesti che nella vita eranospontanei oppur pratici e, condivida o no quei sentimen-ti, li rende tragici o comici o farseschi nello stile. Dinuovo parrebbe, che dei contenuti, questa volta soggetti-vi, passino con la loro espressività nell'arte a renderlaespressiva.

Ma no: l'artista che semplicemente trasporta in arteun vero riso e un vero pianto, è l'ultimo degli artisti, ilpiù povero e inespressivo41. Di nuovo, l'arte, o «aderi-sce», come pura arte, al contenuto che prende a pretestoo che vuol illustrare, e ci darà un riso e un pianto stiliz-zati, resi belli per sè, divenuti elementi della pura forma;e pertanto si può dire, «idealizzati»; ovvero l'eticità diquel dolore o di quella gioia arde l'anima dell'artista,

41 La «naturalezza» subiettiva e obiettiva di un'espressionesarà, già lo dicemmo, una conseguenza e non una premessadell'arte, una forma e non un contenuto. Al sommo del buon gu-sto, il mezzo estetico si fa così semplice e trasparente da parerenatura. A questo punto, la deformazione degli espressivisti, inve-ce che «ingenua» o «fresca» (com'è quella dell'arte dei fanciulli edei barbari, vista da noi, che in sè è ancor troppo natura), ci appa-re retorica (fra qualche anno. p. es., i lunghi colli alla Modiglianici sembreranno quanto mai enfatici e pretenziosi).

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strabocca oltre il contenuto nell'idea morale per farne unsimbolo tragico o comico di dolore o di gioia (e magariil riso diverrà tragico e il pianto, comico), e allora il«carattere» o espressività dello stile interpreterà in talsenso la figura ridente o piangente: ma sempre con glielementi stilistici, attuali nella forma, inesistenti primadi questa nel contenuto soggettivo, nell'ispirazione. In-fatti, a un pittore basta un chiaroscuro movimentato(anzi, a un fotografo, il giuoco delle luci) per rendereespressivo anche il vero, per dar «carattere» (soggettivi-tà) alla figura.

Ma dal momento che i sentimenti e le finalitàdell'artista, divenendo finalità del gusto, debbono risul-tare come valori sensibili dal loro esistere in quella for-ma (chiamata poi, perciò, «bella», a modello di nuovestilizzazioni e a guida della contemplazione estetica), lacontinua diatriba dell'espressivismo contro l'estetismo42,che quasi oppone lo stile alla forma, la subiettività dina-mica dell'espressione all'obbiettività statica del «bello»,la liricità romantica alla purità classica ecc. ecc., si ridu-

42 Per es., oggi è di prammatica, per rivalutare i caravagge-schi, dir corna dei Carraci, come se Lodovico non fosse l'autoredella Madonna con Putto e Santi della pinacoteca di Bologna, eAgostino della Comunione di S. Gerolamo; e come se Annibale, apalazzo Farnese, non aprisse la schiera di quei fastosi decoratori,che dal Cortonese e da Luca Giordano giungeranno fino al Tiepo-lo, gioia degli occhi, bellezza della vita? Del resto, la protestaascetica contro il bello, se è artistica (e non soltanto moralista),metterà sempre capo a un nuovo estetismo, inevitabilmente: lastoria del prerafaelismo insegni.

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strabocca oltre il contenuto nell'idea morale per farne unsimbolo tragico o comico di dolore o di gioia (e magariil riso diverrà tragico e il pianto, comico), e allora il«carattere» o espressività dello stile interpreterà in talsenso la figura ridente o piangente: ma sempre con glielementi stilistici, attuali nella forma, inesistenti primadi questa nel contenuto soggettivo, nell'ispirazione. In-fatti, a un pittore basta un chiaroscuro movimentato(anzi, a un fotografo, il giuoco delle luci) per rendereespressivo anche il vero, per dar «carattere» (soggettivi-tà) alla figura.

Ma dal momento che i sentimenti e le finalitàdell'artista, divenendo finalità del gusto, debbono risul-tare come valori sensibili dal loro esistere in quella for-ma (chiamata poi, perciò, «bella», a modello di nuovestilizzazioni e a guida della contemplazione estetica), lacontinua diatriba dell'espressivismo contro l'estetismo42,che quasi oppone lo stile alla forma, la subiettività dina-mica dell'espressione all'obbiettività statica del «bello»,la liricità romantica alla purità classica ecc. ecc., si ridu-

42 Per es., oggi è di prammatica, per rivalutare i caravagge-schi, dir corna dei Carraci, come se Lodovico non fosse l'autoredella Madonna con Putto e Santi della pinacoteca di Bologna, eAgostino della Comunione di S. Gerolamo; e come se Annibale, apalazzo Farnese, non aprisse la schiera di quei fastosi decoratori,che dal Cortonese e da Luca Giordano giungeranno fino al Tiepo-lo, gioia degli occhi, bellezza della vita? Del resto, la protestaascetica contro il bello, se è artistica (e non soltanto moralista),metterà sempre capo a un nuovo estetismo, inevitabilmente: lastoria del prerafaelismo insegni.

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ce a una questione tecnica riguardante la libertà dell'arti-sta di fronte al tema. Ora, l'artista in quanto fa della puraarte (come nella pura musica) è padronissimo de' suoimezzi, diretti sol dal gusto; ma è proprio in quanto eglisi proponga d'interpretare con essi un altro valore (comel'architetto che intende costruire un'abitazione o unachiesa), che vi deve accordare la forma, se non vuol ap-punto ch'esso resti un contenuto esterno a cui l'artes'aggiunge, ma non lo attua.

Perciò, quando un valoroso critico e storico dell'arte(il Marangoni nel libro citato) chiede perchè, se un lette-rato può dire che una donna ha «un collo di cigno», nonsi concederebbe a un pittore di disegnarla in tal guisa,risponderei subito che il «collo di cigno» in letteratura èuna metafora, ossia un'immagine (di cattivo gusto) evo-cata accanto a quella dell'oggetto in questione; ma inpittura, o si figura una donna, o un cigno (o, se mai,l'una accanto all'altro), per la ragione che diceva Oraziodell'uomo cavallo, della donna pesce e del cipresso sulleonde. Il disegno è contorno di qualche cosa e ne deveinterpretare la realtà. Per quanto subiettiva, un'arte figu-rativa finge le forme degli oggetti, e i suoi valori spiri-tuali si debbon esprimere nella concretezza propria dellafigura, nel che sta appunto il bello artistico di tali arti: cidebbono far sembrar reale lo spirituale, ivi compresa laspiritualità del reale, la poesia della natura.

Poesia: ecco la soggettività estetica, l'eticità del bello.Ma chi la cercasse nella sola soggettività empirica d'unsentimento e pratica d'una finalità, non la troverebbe

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ce a una questione tecnica riguardante la libertà dell'arti-sta di fronte al tema. Ora, l'artista in quanto fa della puraarte (come nella pura musica) è padronissimo de' suoimezzi, diretti sol dal gusto; ma è proprio in quanto eglisi proponga d'interpretare con essi un altro valore (comel'architetto che intende costruire un'abitazione o unachiesa), che vi deve accordare la forma, se non vuol ap-punto ch'esso resti un contenuto esterno a cui l'artes'aggiunge, ma non lo attua.

Perciò, quando un valoroso critico e storico dell'arte(il Marangoni nel libro citato) chiede perchè, se un lette-rato può dire che una donna ha «un collo di cigno», nonsi concederebbe a un pittore di disegnarla in tal guisa,risponderei subito che il «collo di cigno» in letteratura èuna metafora, ossia un'immagine (di cattivo gusto) evo-cata accanto a quella dell'oggetto in questione; ma inpittura, o si figura una donna, o un cigno (o, se mai,l'una accanto all'altro), per la ragione che diceva Oraziodell'uomo cavallo, della donna pesce e del cipresso sulleonde. Il disegno è contorno di qualche cosa e ne deveinterpretare la realtà. Per quanto subiettiva, un'arte figu-rativa finge le forme degli oggetti, e i suoi valori spiri-tuali si debbon esprimere nella concretezza propria dellafigura, nel che sta appunto il bello artistico di tali arti: cidebbono far sembrar reale lo spirituale, ivi compresa laspiritualità del reale, la poesia della natura.

Poesia: ecco la soggettività estetica, l'eticità del bello.Ma chi la cercasse nella sola soggettività empirica d'unsentimento e pratica d'una finalità, non la troverebbe

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mai, così come il bello non s'incontra dalla sola partedell'oggettività percepita o pensata. Lirico, non è l'amo-re, è il ramicello di fiori col quale l'amante «batte allechiuse imposte». Il primo libro dell'Etica spinoziana, perquanto altri lo chiamerebbe «un poema d'idee», non èpoesia; lo è l'ultimo canto del Paradiso, dove quelle ideesono vedute («O somma Luce...»).

Fin che soggetto e oggetto si antinomizzano e si tra-scendono, per quanto l'uno salga all'eticità e libertà delloSpirito e l'altro alla Ragione e al determinismo della Na-tura; o fino a che il valore, ideale o reale, trascenda ilsensibile, adoperandolo come strumento e ostacolo dasuperare, o come contenuto a posteriori delle forme apriori, avremo il pensiero e l'azione, non avremo la poe-sia. Essa scaturisce dall'incontro dei valori trascendenta-li e antinomici dentro la forma sensibile: subiettivazionedel mondo (sentimento del finalismo immanenteall'oggetto, come quando diciamo «riso della terra» o«lacrime delle cose»), a condizione che l'io si senta nelpiù che l'io che lo rasserena e lo concilia con l'Essere.Perciò appunto, e con licenza parlando! (preferisco dirlagrossolanamente che riprender le noiose tiritere sulla«catarsi» artistica) è più lirico far pipì in piena campa-gna che sparare una revolverata al seduttore della pro-pria sorella.

12. – Psicologicamente, la poesia è sentimento? Sirinnova la questione fatta sul «bello» ed è questioned'intenderci. È sentimento in quanto è sensibilità pura:

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mai, così come il bello non s'incontra dalla sola partedell'oggettività percepita o pensata. Lirico, non è l'amo-re, è il ramicello di fiori col quale l'amante «batte allechiuse imposte». Il primo libro dell'Etica spinoziana, perquanto altri lo chiamerebbe «un poema d'idee», non èpoesia; lo è l'ultimo canto del Paradiso, dove quelle ideesono vedute («O somma Luce...»).

Fin che soggetto e oggetto si antinomizzano e si tra-scendono, per quanto l'uno salga all'eticità e libertà delloSpirito e l'altro alla Ragione e al determinismo della Na-tura; o fino a che il valore, ideale o reale, trascenda ilsensibile, adoperandolo come strumento e ostacolo dasuperare, o come contenuto a posteriori delle forme apriori, avremo il pensiero e l'azione, non avremo la poe-sia. Essa scaturisce dall'incontro dei valori trascendenta-li e antinomici dentro la forma sensibile: subiettivazionedel mondo (sentimento del finalismo immanenteall'oggetto, come quando diciamo «riso della terra» o«lacrime delle cose»), a condizione che l'io si senta nelpiù che l'io che lo rasserena e lo concilia con l'Essere.Perciò appunto, e con licenza parlando! (preferisco dirlagrossolanamente che riprender le noiose tiritere sulla«catarsi» artistica) è più lirico far pipì in piena campa-gna che sparare una revolverata al seduttore della pro-pria sorella.

12. – Psicologicamente, la poesia è sentimento? Sirinnova la questione fatta sul «bello» ed è questioned'intenderci. È sentimento in quanto è sensibilità pura:

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vale a dire, non sentimento dello stimolo sensibile(come un'emozione) – soggettività dell'oggettività anti-nomizzata, e pertanto valore pratico (volere) e conosciti-vo (dover essere) rappresentati per mezzo, del sensibilee realizzati per mezzo dell'atto –, ma trascendentalitàdel sensibile senza trascendenza. Quel valore che si rea-lizza nel pensiero pensato e perciò nell'atto voluto, è giàin atto esteticamente; e con ciò dimostra (accerta) lapossibilità della sua realtà, ideale, dell'accordo cioè disovrasensibile e di sensibile. Poesia, allora, è il senti-mento del trascendentale (dello «spirito») dalla parte delsoggetto, indipendentemente dalla realtà in sè; bellezzaè lo stesso sentimento dalla parte dell'oggetto, indipen-dentemente dalla praticità per noi,

Ma come son aride queste definizioni! Poesia e bel-lezza, quando si presentano in natura, sono unite comesentimento di un bello esistente, già dato, che accordal'io col mondo e con la vita. Bello e poetico insieme è ilfiore blù della genzianella, allorchè lo incontriamo suipascoli d'alta montagna: tutto il mondo e noi stessi pos-siam essere o non essere; l'ieri e il dimani, la finalità e lacausalità, ogni vero e ogni bene, ogni principio e ognifine, che cosa «sono»? Tutto fugge, nello spazio e neltempo, fuori di me, e Dio mi sembra infinitamente lon-tano e inaccessibile: ma quel fiore blù esiste, è attuale,infinitamente piccolo nella sua concretezza ma infinita-mente poetico nel suo valore, simbolo del mondo, bellodell'esser sensibile, del sentirlo e dell'esser visto,dell'esser io lui e lui me. «Perchè» sia bello, non so:

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vale a dire, non sentimento dello stimolo sensibile(come un'emozione) – soggettività dell'oggettività anti-nomizzata, e pertanto valore pratico (volere) e conosciti-vo (dover essere) rappresentati per mezzo, del sensibilee realizzati per mezzo dell'atto –, ma trascendentalitàdel sensibile senza trascendenza. Quel valore che si rea-lizza nel pensiero pensato e perciò nell'atto voluto, è giàin atto esteticamente; e con ciò dimostra (accerta) lapossibilità della sua realtà, ideale, dell'accordo cioè disovrasensibile e di sensibile. Poesia, allora, è il senti-mento del trascendentale (dello «spirito») dalla parte delsoggetto, indipendentemente dalla realtà in sè; bellezzaè lo stesso sentimento dalla parte dell'oggetto, indipen-dentemente dalla praticità per noi,

Ma come son aride queste definizioni! Poesia e bel-lezza, quando si presentano in natura, sono unite comesentimento di un bello esistente, già dato, che accordal'io col mondo e con la vita. Bello e poetico insieme è ilfiore blù della genzianella, allorchè lo incontriamo suipascoli d'alta montagna: tutto il mondo e noi stessi pos-siam essere o non essere; l'ieri e il dimani, la finalità e lacausalità, ogni vero e ogni bene, ogni principio e ognifine, che cosa «sono»? Tutto fugge, nello spazio e neltempo, fuori di me, e Dio mi sembra infinitamente lon-tano e inaccessibile: ma quel fiore blù esiste, è attuale,infinitamente piccolo nella sua concretezza ma infinita-mente poetico nel suo valore, simbolo del mondo, bellodell'esser sensibile, del sentirlo e dell'esser visto,dell'esser io lui e lui me. «Perchè» sia bello, non so:

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esso è puro anche del conoscere; so che testimonia divalori reali e spirituali insieme, senza che ce li dobbiamrappresentare per concetti inadeguati e schematici.

L'arte è lo stesso «sinolo», divenuto un fine dell'atti-vità e del pensiero. Esplicando il valore sensibile in cuiora essa implica gli altri (inversamente al pensiero logi-co ed etico), attinge l'unità formale (il bello) per mezzodello stile (l'espressività, la liricità). Per questo appunto– per la sua artificiosità, per esser voluta – l'arte oltre-passa la natura. O meglio, ne oltrepassa tutto ciò chequesta ha d'analitico, di astratto, di rappresentativo, eche il buon gusto artistico inesorabilmente rigetta, perfar esprimere le sole forme delle cose (arti figurative),anzi la materia stessa (come suoni e colori); s'allontana(intendo dire) dalla natura «contenuto» (conoscitivo) perritornare a lei nel concreto sensibile, nell'espressivitàdella forma. Se a un «brutto» di natura facciam esprime-re la sua bruttezza, diventa artisticamente bello perchèesplica nella forma l'essenza di quella (prima creduta)bruttezza. Questa, che al puro gusto era un disvalore,può infatti venire valorizzata almeno in quanto realtàespressa nell'arte dal realismo artistico.

Si deve concludere, che le arti figurative, interpretan-do il reale logico, v'immanentizzano espressivamente isuoi valori subiettivi e obiettivi, attuati nella forma; eche qui l'accordo di soggetto e oggetto nel sensibile èconcreto, perchè è un fare una cosa, «poieticamente».Ma come accordare nel concreto artistico i valori puri eassoluti? Essi eran già «forme», espressioni cercate col

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esso è puro anche del conoscere; so che testimonia divalori reali e spirituali insieme, senza che ce li dobbiamrappresentare per concetti inadeguati e schematici.

L'arte è lo stesso «sinolo», divenuto un fine dell'atti-vità e del pensiero. Esplicando il valore sensibile in cuiora essa implica gli altri (inversamente al pensiero logi-co ed etico), attinge l'unità formale (il bello) per mezzodello stile (l'espressività, la liricità). Per questo appunto– per la sua artificiosità, per esser voluta – l'arte oltre-passa la natura. O meglio, ne oltrepassa tutto ciò chequesta ha d'analitico, di astratto, di rappresentativo, eche il buon gusto artistico inesorabilmente rigetta, perfar esprimere le sole forme delle cose (arti figurative),anzi la materia stessa (come suoni e colori); s'allontana(intendo dire) dalla natura «contenuto» (conoscitivo) perritornare a lei nel concreto sensibile, nell'espressivitàdella forma. Se a un «brutto» di natura facciam esprime-re la sua bruttezza, diventa artisticamente bello perchèesplica nella forma l'essenza di quella (prima creduta)bruttezza. Questa, che al puro gusto era un disvalore,può infatti venire valorizzata almeno in quanto realtàespressa nell'arte dal realismo artistico.

Si deve concludere, che le arti figurative, interpretan-do il reale logico, v'immanentizzano espressivamente isuoi valori subiettivi e obiettivi, attuati nella forma; eche qui l'accordo di soggetto e oggetto nel sensibile èconcreto, perchè è un fare una cosa, «poieticamente».Ma come accordare nel concreto artistico i valori puri eassoluti? Essi eran già «forme», espressioni cercate col

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linguaggio, «atti puri» in cui esiste il pensiero puro, per-ciò detto formale; e spetta invece alla letteratura estetiz-zarle, farle valere anche per noi oltre che in sè; ridiscen-dere, direi, dalla poesia (o trascendentalità) del sensibilealla sensibilità (o immanenza) della poesia pura.

Perciò, come dicemmo, la letteratura è qualcosa dipiù di un'arte, o, se preferiamo dir così, non è mai puraarte. Vi s'accosta però due volte, al principio e alla fined'ogni suo ciclo di sviluppo: in principio come «teatro»,arte plebea imitatrice della vita, che sta al livello dellamimica; in fine, come alessandrinismo o parnassianismodi raffinati della bella forma indifferente ai contenuti,«verso che suona e che non crea», che sta al livello delladanza. L'una ascende alla poesia drammatica ed epica,l'altra discende («decade»?) dalla lirica. Ne' due casi, laricerca del principio dello stile letterario sarebbe la me-desima riguardante, p, es., un'arte figurativa, in quantoper un verso è imitatrice, ossia illustra un contenuto, eper l'altro è un edonismo decorativo e formale. Ma pro-prio per questo in letteratura esse sono considerate for-me «minori».

All'estremo opposto sta la prosa scientifica storica efilosofica, l'esposizione e la spiegazione teorica, l'enun-ciazione pratica e dialettica: prosa, linguaggio tecnico,mero artificio destinato a presentare il pensiero nella suapurezza. Una formula matematica, un giudizio sinteticoa priori, un principio puro pratico o una legge universa-le, ecco dei valori puri, che esistono unicamente nellaforma che li esprime, forma sensibile per sè pratica, arti-

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linguaggio, «atti puri» in cui esiste il pensiero puro, per-ciò detto formale; e spetta invece alla letteratura estetiz-zarle, farle valere anche per noi oltre che in sè; ridiscen-dere, direi, dalla poesia (o trascendentalità) del sensibilealla sensibilità (o immanenza) della poesia pura.

Perciò, come dicemmo, la letteratura è qualcosa dipiù di un'arte, o, se preferiamo dir così, non è mai puraarte. Vi s'accosta però due volte, al principio e alla fined'ogni suo ciclo di sviluppo: in principio come «teatro»,arte plebea imitatrice della vita, che sta al livello dellamimica; in fine, come alessandrinismo o parnassianismodi raffinati della bella forma indifferente ai contenuti,«verso che suona e che non crea», che sta al livello delladanza. L'una ascende alla poesia drammatica ed epica,l'altra discende («decade»?) dalla lirica. Ne' due casi, laricerca del principio dello stile letterario sarebbe la me-desima riguardante, p, es., un'arte figurativa, in quantoper un verso è imitatrice, ossia illustra un contenuto, eper l'altro è un edonismo decorativo e formale. Ma pro-prio per questo in letteratura esse sono considerate for-me «minori».

All'estremo opposto sta la prosa scientifica storica efilosofica, l'esposizione e la spiegazione teorica, l'enun-ciazione pratica e dialettica: prosa, linguaggio tecnico,mero artificio destinato a presentare il pensiero nella suapurezza. Una formula matematica, un giudizio sinteticoa priori, un principio puro pratico o una legge universa-le, ecco dei valori puri, che esistono unicamente nellaforma che li esprime, forma sensibile per sè pratica, arti-

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ficio tutto subiettivo per attuare un dover essere total-mente obbiettivo nel valore. In questo caso non esisteche il soggetto pratico – esiste in un contingente sensibi-le, la parola, sempre sostituibile per convenzione conqualunque altra –; il valore obiettivo (universale e ne-cessario) è tutto un dover essere. L'arte letteraria si pro-porrà invece di render sensibile – di far esistere, di pre-sentare nella forma espressiva del valore – i contenutiideali del linguaggio logico ed etico. Così la prosa divie-ne, almeno, eloquenza e arte del persuadere; così la let-teratura diviene alla fine poesia letteraria. In questo mo-mento, la parola (la forma espressiva) ha raggiunto lasua necessità e universalità ideale: è insostituibile.

Valorizzare, esteticamente, il linguaggio: dall'accentoche intensifica e sottolinea la modalità d'un sostantivo,d'un aggettivo, d'un verbo, al canto che la estetizza for-malmente43; dalla scelta della parola più pura e più pro-pria, ossia pregnante per tradizione ed uso di un più

43 Nella musica, il canto è infatti canto e non soltanto musica.Esso vi pòrta sempre quell'accento umano insostituibile con lostrumento, ossia con l'intensità del timbro. Quei musicisti che sene dimenticano e che adoperano il canto come un semplice stru-mento (p, es. Beethoven nella Nona e nella Missa solemnis) pro-ducono perciò un effetto sgradevole (come d'incompiutezza e in-soddisfazione) sugli orecchi esercitati. I cantanti stessi senton be-nissimo se la musica è fatta per il canto (come in Verdi, sensibi-lissimo al valore umano del canto), nel qual caso si «sentono por-tare» dalle note, o se viceversa il canto è conformato a musica(come in Wagner, che col recitativo cantato voleva «illustrare»musicalmente i contenuti poetici).

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ficio tutto subiettivo per attuare un dover essere total-mente obbiettivo nel valore. In questo caso non esisteche il soggetto pratico – esiste in un contingente sensibi-le, la parola, sempre sostituibile per convenzione conqualunque altra –; il valore obiettivo (universale e ne-cessario) è tutto un dover essere. L'arte letteraria si pro-porrà invece di render sensibile – di far esistere, di pre-sentare nella forma espressiva del valore – i contenutiideali del linguaggio logico ed etico. Così la prosa divie-ne, almeno, eloquenza e arte del persuadere; così la let-teratura diviene alla fine poesia letteraria. In questo mo-mento, la parola (la forma espressiva) ha raggiunto lasua necessità e universalità ideale: è insostituibile.

Valorizzare, esteticamente, il linguaggio: dall'accentoche intensifica e sottolinea la modalità d'un sostantivo,d'un aggettivo, d'un verbo, al canto che la estetizza for-malmente43; dalla scelta della parola più pura e più pro-pria, ossia pregnante per tradizione ed uso di un più

43 Nella musica, il canto è infatti canto e non soltanto musica.Esso vi pòrta sempre quell'accento umano insostituibile con lostrumento, ossia con l'intensità del timbro. Quei musicisti che sene dimenticano e che adoperano il canto come un semplice stru-mento (p, es. Beethoven nella Nona e nella Missa solemnis) pro-ducono perciò un effetto sgradevole (come d'incompiutezza e in-soddisfazione) sugli orecchi esercitati. I cantanti stessi senton be-nissimo se la musica è fatta per il canto (come in Verdi, sensibi-lissimo al valore umano del canto), nel qual caso si «sentono por-tare» dalle note, o se viceversa il canto è conformato a musica(come in Wagner, che col recitativo cantato voleva «illustrare»musicalmente i contenuti poetici).

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chiaro e distinto significato, alla costruzione d'immaginiche traducano, ossia interpretino e provino sensibilmen-te i valori del pensiero. Allorquando il linguaggio haraggiunto l'accordo perfetto della sua capacità emotiva oespressiva con la sua capacità evocativa o immaginativa– l'accordo, per così dire, di valori musicali e di valorifigurativi –, siamo alla poesia nel significato più strettodella parola. Essa è l'arte della letteratura, e la letteraturaè arte, ripeto, sol in quanto è poesia44.

44 Pertanto è superficiale il dire, p. es., che oggi non c'è piùpoesia, che siamo in tempi di prosa. In letteratura, s'è già detto,non c'è la prosa da una parte e la poesia dall'altra: la letteraturaaspira alla poesia come alla sua «arte», alla sua forma. Si chiamaprosa quella che corrisponde a un contenuto più reale, a un'ispira-zione più obbiettiva; ma se la prosa fosse soltanto realtà e obbiet-tività, non sarebbe più nemmen letteratura, non sarebbe più arte.Ora, a mio modesto avviso, quel che distingue la nuova dalla vec-chia letteratura, ossia la vecchia dalla nuova poesia, sta in ciò:prima, la poesia, per così dire, discendeva alla prosa; anche se sidoveva fare il conto della serva, o scriver una lettera d'affari, si ri-vestivan d'un certo paludamento poetico, di sonorità esteriori, di«bello eloquio» che nobilitasse il più povero dei contenuti. Lostorico, il giurista, il naturalista, quando si mettevan a scrivere,gonfiavan le gote al bel periodare, ch'era poi il modo di poetizza-re la loro materia nel senso d'una bellezza aderente e ornamenta-le, sopra detto «idealistico». Oggi invece la letteratura deve per-correre il cammino inverso, e salire dalla prosa alla poesia. Oggi,è vero, sentiamo più realisticamente, più direttamente; non cipiaccion più gli svolazzi e gli adornamenti superflui. Un giova-notto di buon senso non dichiarerebbe più il suo amore a una fan-ciulla costringendolo in un madrigale, e la rispettiva fanciulla

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chiaro e distinto significato, alla costruzione d'immaginiche traducano, ossia interpretino e provino sensibilmen-te i valori del pensiero. Allorquando il linguaggio haraggiunto l'accordo perfetto della sua capacità emotiva oespressiva con la sua capacità evocativa o immaginativa– l'accordo, per così dire, di valori musicali e di valorifigurativi –, siamo alla poesia nel significato più strettodella parola. Essa è l'arte della letteratura, e la letteraturaè arte, ripeto, sol in quanto è poesia44.

44 Pertanto è superficiale il dire, p. es., che oggi non c'è piùpoesia, che siamo in tempi di prosa. In letteratura, s'è già detto,non c'è la prosa da una parte e la poesia dall'altra: la letteraturaaspira alla poesia come alla sua «arte», alla sua forma. Si chiamaprosa quella che corrisponde a un contenuto più reale, a un'ispira-zione più obbiettiva; ma se la prosa fosse soltanto realtà e obbiet-tività, non sarebbe più nemmen letteratura, non sarebbe più arte.Ora, a mio modesto avviso, quel che distingue la nuova dalla vec-chia letteratura, ossia la vecchia dalla nuova poesia, sta in ciò:prima, la poesia, per così dire, discendeva alla prosa; anche se sidoveva fare il conto della serva, o scriver una lettera d'affari, si ri-vestivan d'un certo paludamento poetico, di sonorità esteriori, di«bello eloquio» che nobilitasse il più povero dei contenuti. Lostorico, il giurista, il naturalista, quando si mettevan a scrivere,gonfiavan le gote al bel periodare, ch'era poi il modo di poetizza-re la loro materia nel senso d'una bellezza aderente e ornamenta-le, sopra detto «idealistico». Oggi invece la letteratura deve per-correre il cammino inverso, e salire dalla prosa alla poesia. Oggi,è vero, sentiamo più realisticamente, più direttamente; non cipiaccion più gli svolazzi e gli adornamenti superflui. Un giova-notto di buon senso non dichiarerebbe più il suo amore a una fan-ciulla costringendolo in un madrigale, e la rispettiva fanciulla

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Conclusione: – Mentre su l'Acropoli biancheggia ilPartenone, per le vicine pendici qualche povero ilota an-cor oggi costruirà il suo abituro di pietre e fango. Il pas-sante qui storce lo sguardo e mormora: «Che brutto!»,non soltanto in confronto con quell'armoniosa chiarità,ma perchè la vista di questa catapecchia gli rappresenta

(questo stesso nome ci sembra lezioso, «fanciulla!») non gli ri-sponderebbe più coi «cieli azzurri» delle nostre care mamme.Una casa, vogliamo che sia una casa nelle nude linee corrispon-denti alla sua utilità; una musica, preferiamo ch'esprima quel chedeve senza «variazioni», «a capo», fronzoli vocalizzi e code. Ciònondimeno, un'architettura moderna è architettura, una musicamoderna è musica. Se realistica è l'odierna visione della vita, larealtà, l'esperienza, il contingente, il «fatto» ci posson ispirarenon meno di quanto lo potessero la fantasia, l'immaginazionepoetica del romanticismo: e quella ispirazione è ancora poesia.C'è un'ispirazione realistica più rovente d'ogni «idealismo», c'èun'ansia di vita, un amore del vero, una disperazione dell'inevita-bile, un rovellio di sentimenti e passioni reali altrettanto profondiardenti e dunque liricizzabili, quanto lo furon gli slanci trascen-dentali verso un mondo di divinità poste nell'azzurro che rapida-mente s'oscura. Questa prosa del contenuto cercherà la sua forma,cercherà la sua poesia. È quello che sta avvenendo. Gli schemimetrici, le equilibrate dolci armonie della poetica romantica nonservono più ad esprimere l'immediatezza della nuova ispirazione.Allora, ecco i tentativi di rompere le forme, di liberar le parole, disaltare il mezzo tecnico (ma pur sempre tecnica anche questa!)per raggiunger più direttamente i contenuti, per esprimer più di-rettamente i sentimenti. L'odierno frammentarismo è come lafoga d'una pennellata che con immediatezza più o men felice fér-mi sulla tela la gioia di far cantare la stessa materia coloristica.L'odierna prosa, nervosa, irrequieta, è già, appunto per la sua fre-

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Conclusione: – Mentre su l'Acropoli biancheggia ilPartenone, per le vicine pendici qualche povero ilota an-cor oggi costruirà il suo abituro di pietre e fango. Il pas-sante qui storce lo sguardo e mormora: «Che brutto!»,non soltanto in confronto con quell'armoniosa chiarità,ma perchè la vista di questa catapecchia gli rappresenta

(questo stesso nome ci sembra lezioso, «fanciulla!») non gli ri-sponderebbe più coi «cieli azzurri» delle nostre care mamme.Una casa, vogliamo che sia una casa nelle nude linee corrispon-denti alla sua utilità; una musica, preferiamo ch'esprima quel chedeve senza «variazioni», «a capo», fronzoli vocalizzi e code. Ciònondimeno, un'architettura moderna è architettura, una musicamoderna è musica. Se realistica è l'odierna visione della vita, larealtà, l'esperienza, il contingente, il «fatto» ci posson ispirarenon meno di quanto lo potessero la fantasia, l'immaginazionepoetica del romanticismo: e quella ispirazione è ancora poesia.C'è un'ispirazione realistica più rovente d'ogni «idealismo», c'èun'ansia di vita, un amore del vero, una disperazione dell'inevita-bile, un rovellio di sentimenti e passioni reali altrettanto profondiardenti e dunque liricizzabili, quanto lo furon gli slanci trascen-dentali verso un mondo di divinità poste nell'azzurro che rapida-mente s'oscura. Questa prosa del contenuto cercherà la sua forma,cercherà la sua poesia. È quello che sta avvenendo. Gli schemimetrici, le equilibrate dolci armonie della poetica romantica nonservono più ad esprimere l'immediatezza della nuova ispirazione.Allora, ecco i tentativi di rompere le forme, di liberar le parole, disaltare il mezzo tecnico (ma pur sempre tecnica anche questa!)per raggiunger più direttamente i contenuti, per esprimer più di-rettamente i sentimenti. L'odierno frammentarismo è come lafoga d'una pennellata che con immediatezza più o men felice fér-mi sulla tela la gioia di far cantare la stessa materia coloristica.L'odierna prosa, nervosa, irrequieta, è già, appunto per la sua fre-

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la miseria fisica e morale. Egli del resto è pronto a chia-mar brutto anche il tempo nuvolo, e bello il sereno. Maun pittore troverà bellissima la desolata casupola, bellis-sime le nuvole cariche di pioggia; e forse preferirà im-piantar qui il suo cavalletto anzichè presso i Propilei. Eanche noi dovremmo dar tutti i torti al primo passante, ilquale ci rappresenta l'ignoranza e la confusione di queivalori che abbiamo pazientemente distinto... Ma, primadi dichiarare in fallo la coscienza comune (il «senso co-mune»), conviene cercar di comprenderne le ragioni.

Le ragioni del pittore, le conosciamo. Esteticamente,il tempo sereno val quanto la pioggia. Se noi contem-pliamo il mondo sensibile così come si presenta; e se laforma sensibile divien l'unico criterio del nostro giudi-zio, non più basato sui valori morali e ideativi mediatidalle (astratte) sensazioni, tutto è parimenti estetico in

schezza, poesia, la nuova poesia. L'indifferentismo, il pessimi-smo, la psicanalisi della letteratura contemporanea portan in sèuna disperata rude poesia, che sceglie le sue forme rapide, senzaincisi e senza virgole, adeguate al suo freddo dolore, al suo altierodisprezzo dei conforti del mito. Se mi chiedete dove sia la «poe-sia poetica» la letteratura in versi, l'immagine evocata dal suono,rispondo che la troverete se riuscirete a liberarvi del preconcetto,che i «versi», le forme poetiche, siano soltanto i vecchi metri.Oggi è la prosa che risale verso la poesia; e vi s'avvia a traversotravagli e tentativi, or grotteschi e pietosi (come sempre, quandonon si tratta di poeti, ma di poveri disgraziati che allineano parolein libertà e le intitolano versi), ora degni della più alta attenzionee simpatia umana, perchè apron la strada a più moderne formepoetiche.

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la miseria fisica e morale. Egli del resto è pronto a chia-mar brutto anche il tempo nuvolo, e bello il sereno. Maun pittore troverà bellissima la desolata casupola, bellis-sime le nuvole cariche di pioggia; e forse preferirà im-piantar qui il suo cavalletto anzichè presso i Propilei. Eanche noi dovremmo dar tutti i torti al primo passante, ilquale ci rappresenta l'ignoranza e la confusione di queivalori che abbiamo pazientemente distinto... Ma, primadi dichiarare in fallo la coscienza comune (il «senso co-mune»), conviene cercar di comprenderne le ragioni.

Le ragioni del pittore, le conosciamo. Esteticamente,il tempo sereno val quanto la pioggia. Se noi contem-pliamo il mondo sensibile così come si presenta; e se laforma sensibile divien l'unico criterio del nostro giudi-zio, non più basato sui valori morali e ideativi mediatidalle (astratte) sensazioni, tutto è parimenti estetico in

schezza, poesia, la nuova poesia. L'indifferentismo, il pessimi-smo, la psicanalisi della letteratura contemporanea portan in sèuna disperata rude poesia, che sceglie le sue forme rapide, senzaincisi e senza virgole, adeguate al suo freddo dolore, al suo altierodisprezzo dei conforti del mito. Se mi chiedete dove sia la «poe-sia poetica» la letteratura in versi, l'immagine evocata dal suono,rispondo che la troverete se riuscirete a liberarvi del preconcetto,che i «versi», le forme poetiche, siano soltanto i vecchi metri.Oggi è la prosa che risale verso la poesia; e vi s'avvia a traversotravagli e tentativi, or grotteschi e pietosi (come sempre, quandonon si tratta di poeti, ma di poveri disgraziati che allineano parolein libertà e le intitolano versi), ora degni della più alta attenzionee simpatia umana, perchè apron la strada a più moderne formepoetiche.

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quanto possiede qualità intuibili, appartengan esse, ob-biettivamente, al delicato corpo d'un efebo, ispiratoredel Cristo apollineo che Michelangelo ha posato sulleginocchia della Vergine in S. Pietro, o al ripugnante ca-davere che, con non minore bellezza, ispira il Cristomorto del Mantegna alla Brera. Allora, si dovrebbe con-cludere che in natura, o tutto è bello, o niente lo è e ilbello ve l'aggiunge l'arte.

Ma l'arte non crea un valore inesistente. Lo stile,come pura arte, consiste sol nel prendere come finedell'attività quel valore sensibile che di solito è mezzo aifini intellettivi: nel porre in valore il sensibile (di un og-getto come d'una persona, d'un atto pratico come d'ungesto e d'una parola), mostrandoci che ogni valore esistein quei rapporti di colori suoni ecc. che costituiscono laforma di quella cosa, di quella persona, di quel pensieroparlato o comunque espresso. La teoria dello stile intro-duce a comprendere che se in ogni atto umano (il pialla-re del falegname come lo scrivere del filosofo) si espri-me la finalità subiettiva, questa però si attualizza comevalore formale (del tavolo piallato come del trattatoscritto) in quanto la finalità si accordi con l'esistenza; ela «bellezza» comprova, vorrei dire, la bontà obbiettivadell'atto. Adunque, dal problema della pura arte – dal«momento» estetico distinto – si è ritornati al problemadella realtà dei valori, della lor reale unità.

Ogni cosa vale sensibilmente in quanto esiste neces-sariamente in quella data forma; essa è così il nostrostesso esistere attuale ed immediato, dal quale il pensie-

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quanto possiede qualità intuibili, appartengan esse, ob-biettivamente, al delicato corpo d'un efebo, ispiratoredel Cristo apollineo che Michelangelo ha posato sulleginocchia della Vergine in S. Pietro, o al ripugnante ca-davere che, con non minore bellezza, ispira il Cristomorto del Mantegna alla Brera. Allora, si dovrebbe con-cludere che in natura, o tutto è bello, o niente lo è e ilbello ve l'aggiunge l'arte.

Ma l'arte non crea un valore inesistente. Lo stile,come pura arte, consiste sol nel prendere come finedell'attività quel valore sensibile che di solito è mezzo aifini intellettivi: nel porre in valore il sensibile (di un og-getto come d'una persona, d'un atto pratico come d'ungesto e d'una parola), mostrandoci che ogni valore esistein quei rapporti di colori suoni ecc. che costituiscono laforma di quella cosa, di quella persona, di quel pensieroparlato o comunque espresso. La teoria dello stile intro-duce a comprendere che se in ogni atto umano (il pialla-re del falegname come lo scrivere del filosofo) si espri-me la finalità subiettiva, questa però si attualizza comevalore formale (del tavolo piallato come del trattatoscritto) in quanto la finalità si accordi con l'esistenza; ela «bellezza» comprova, vorrei dire, la bontà obbiettivadell'atto. Adunque, dal problema della pura arte – dal«momento» estetico distinto – si è ritornati al problemadella realtà dei valori, della lor reale unità.

Ogni cosa vale sensibilmente in quanto esiste neces-sariamente in quella data forma; essa è così il nostrostesso esistere attuale ed immediato, dal quale il pensie-

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ro esplicito attuantesi nella forma logica della parola edel giudizio risale conoscitivamente al dover essere spi-rituale – al dover essere nominale a priori, voluto dalsentimento –, per ridiscendere al dover essere reale,all'Essere in sè del sensibile fuori dell'io attuale; senzaperò riuscir mai del tutto a colmare l'antinomia. A metàstrada, per così dire, fra la «cosa in sè», realtà del pen-siero puro ma tutta a priori e senza più alcuna certezzateoretica – siamo certi ch'essa sia necessaria per pensare(siamo certi del pensiero), ma non della sua esistenzaassoluta –, e la nostra esistenza sensibile, realtà empiricaa posteriori senza universalità, troviamo la «natura»come un accordo concettuale, sintesi di pensiero (comefinalità e dover essere) ed esperienza percettiva (ossia,in fondo, sensibile).

Ma il criticismo, stringendo le somme, trova che que-sta sintesi non è che un compromesso fra i «contenuti»sensibili dati soggettivamente e il valore formale che liimplica obbiettivandoli, e quindi li adopera come mezzima li nega come fini, Infatti, o l'accordo si attua pratica-mente, nell'atto pratico, nel «fare», e consiste nel con-formarsi alle condizioni date dall'esperienza: ma questirapporti di fatto vengon tuttavia subordinati al nostrofine che sempre li supera, e la natura, concepita comevita, appare concatenata teleologicamente. Oppurel'accordo si esplica teoreticamente, nelle forme del pen-siero, che si rappresenta il mondo per mezzo di espres-sioni formali, di giudizi e leggi di natura; ma se qui laragione si conforma al dato empirico, lo fa sempre prov-

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ro esplicito attuantesi nella forma logica della parola edel giudizio risale conoscitivamente al dover essere spi-rituale – al dover essere nominale a priori, voluto dalsentimento –, per ridiscendere al dover essere reale,all'Essere in sè del sensibile fuori dell'io attuale; senzaperò riuscir mai del tutto a colmare l'antinomia. A metàstrada, per così dire, fra la «cosa in sè», realtà del pen-siero puro ma tutta a priori e senza più alcuna certezzateoretica – siamo certi ch'essa sia necessaria per pensare(siamo certi del pensiero), ma non della sua esistenzaassoluta –, e la nostra esistenza sensibile, realtà empiricaa posteriori senza universalità, troviamo la «natura»come un accordo concettuale, sintesi di pensiero (comefinalità e dover essere) ed esperienza percettiva (ossia,in fondo, sensibile).

Ma il criticismo, stringendo le somme, trova che que-sta sintesi non è che un compromesso fra i «contenuti»sensibili dati soggettivamente e il valore formale che liimplica obbiettivandoli, e quindi li adopera come mezzima li nega come fini, Infatti, o l'accordo si attua pratica-mente, nell'atto pratico, nel «fare», e consiste nel con-formarsi alle condizioni date dall'esperienza: ma questirapporti di fatto vengon tuttavia subordinati al nostrofine che sempre li supera, e la natura, concepita comevita, appare concatenata teleologicamente. Oppurel'accordo si esplica teoreticamente, nelle forme del pen-siero, che si rappresenta il mondo per mezzo di espres-sioni formali, di giudizi e leggi di natura; ma se qui laragione si conforma al dato empirico, lo fa sempre prov-

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visoriamente, per una specie d'analogia induttiva: laconvenienza ai contenuti non è che il metodo per ag-giunger certezza all'ipotesi e garantirne l'applicabilitàpratica, ma la sintesi è a priori, è dalla parte del doveressere obbiettivo.

Ebbene, l'arte è un accordo come la natura, ma, si po-trebbe dire, arrovesciato, perchè la sintesi avviene dallaparte dei sensibili. In questo arrovesciamento – ch'è ilsuo artificio, la sua «finzione» –, il valore, come finalitàe dover essere (e solo in tal senso) divien contenuto im-plicito della forma sensibile, pensata e voluta in quantotale, ed esplicata nello stile. L'arte è anch'essa pensiero eattività (non è sol intuizione e dato); ma è pensiero sen-za concetto, perchè non cerca le rappresentazioni – nonè conoscenza, di nessun grado –, bensì l'immanenza delloro valore obbiettivo all'immagine percettiva, e subiet-tivo all'espressione istessa (p. es. al linguaggio, in lette-ratura). Ed è attività – non è contemplazione e fantasia–, che si dà per fine l'atto medesimo, il fare sensibilmen-te, sia che fingendo imiti, sia che inventi formando unapresenza o figura che attualizza i valori senza trascen-dersi.

Se dunque chiamiamo bello artistico il grado di talaccordo dei valori reali e ideali, ispiratori dei temi e mo-tivi dell'arte, alla forma che li interpreta – grado misura-to dal piacere estetico che ne risulta, come in generale ilpiacere misura l'accordo dell'atto al fine –, il bello arti-stico è quella forma definitiva, quella sensibilità tuttaraggiunta, la quale ci dimostra con l'esperienza, quan-

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visoriamente, per una specie d'analogia induttiva: laconvenienza ai contenuti non è che il metodo per ag-giunger certezza all'ipotesi e garantirne l'applicabilitàpratica, ma la sintesi è a priori, è dalla parte del doveressere obbiettivo.

Ebbene, l'arte è un accordo come la natura, ma, si po-trebbe dire, arrovesciato, perchè la sintesi avviene dallaparte dei sensibili. In questo arrovesciamento – ch'è ilsuo artificio, la sua «finzione» –, il valore, come finalitàe dover essere (e solo in tal senso) divien contenuto im-plicito della forma sensibile, pensata e voluta in quantotale, ed esplicata nello stile. L'arte è anch'essa pensiero eattività (non è sol intuizione e dato); ma è pensiero sen-za concetto, perchè non cerca le rappresentazioni – nonè conoscenza, di nessun grado –, bensì l'immanenza delloro valore obbiettivo all'immagine percettiva, e subiet-tivo all'espressione istessa (p. es. al linguaggio, in lette-ratura). Ed è attività – non è contemplazione e fantasia–, che si dà per fine l'atto medesimo, il fare sensibilmen-te, sia che fingendo imiti, sia che inventi formando unapresenza o figura che attualizza i valori senza trascen-dersi.

Se dunque chiamiamo bello artistico il grado di talaccordo dei valori reali e ideali, ispiratori dei temi e mo-tivi dell'arte, alla forma che li interpreta – grado misura-to dal piacere estetico che ne risulta, come in generale ilpiacere misura l'accordo dell'atto al fine –, il bello arti-stico è quella forma definitiva, quella sensibilità tuttaraggiunta, la quale ci dimostra con l'esperienza, quan-

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tunque sembri miracolo, che un valore, per quanto uni-versale e assoluto, si può attuare in un particolar sensibi-le senza residuo; e che l'unità di soggetto e oggetto, anti-nomizzati nei concetti opposti di spirito e natura, è lìsotto i nostri occhi, in quei materialissimi suoni coloriecc. ne' quali il divenire dello spirito ormai esiste pertutti, reale realtà del soggetto nell'oggetto divenuto tuttoforma (universalità dell'arte).

Qui volevamo noi giungere, chè il miracolo dell'artec'insegna a scoprire il miracolo della natura, l'inseità,per così dire, dei valori soggettivamente sentiti nei sen-sibili obbiettivamente conosciuti. L'arte c'insegna a con-templare, primo e ultimo «momento» del pensiero; cieduca questa coscienza della forma, dove l'io fa da con-tenuto, materia che aspira a una forma, sentimento (sipuò dire «anima» o «inconscio») che si attua nella esi-stenza, finalismo che si realizza causalmente45.

45 La contemplazione è pensiero che, come ogni mododell'attenzione (in cui sta, psicologicamente, il pensiero), sospen-de (inibisce) la praticità o libertà del valore per unificarsi con lapresenza o contingenza dell'essere. Infatti il Kant, sul noto esem-pio della gocciolina inclusa in un cristallo, fece della contempla-zione estetica la condizione psicologica della riflessione conosci-tiva. L'attenzione vien prima attratta passivamente dal valore sen-sibile per poi rivolgersi attivamente alla sua spiegazione raziona-le. Il «disinteresse» estetico – proprio perchè è un interesse porta-to all'esistere invece che al dover essere dell'io pratico – condizio-na dunque, per intanto, l'obbiettività e universalità dei concetti. Equando poi la conoscenza, cangiando in contenuto la forma esteti-ca, la supera nei concetti puri (meditazione filosofica sulla con-

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tunque sembri miracolo, che un valore, per quanto uni-versale e assoluto, si può attuare in un particolar sensibi-le senza residuo; e che l'unità di soggetto e oggetto, anti-nomizzati nei concetti opposti di spirito e natura, è lìsotto i nostri occhi, in quei materialissimi suoni coloriecc. ne' quali il divenire dello spirito ormai esiste pertutti, reale realtà del soggetto nell'oggetto divenuto tuttoforma (universalità dell'arte).

Qui volevamo noi giungere, chè il miracolo dell'artec'insegna a scoprire il miracolo della natura, l'inseità,per così dire, dei valori soggettivamente sentiti nei sen-sibili obbiettivamente conosciuti. L'arte c'insegna a con-templare, primo e ultimo «momento» del pensiero; cieduca questa coscienza della forma, dove l'io fa da con-tenuto, materia che aspira a una forma, sentimento (sipuò dire «anima» o «inconscio») che si attua nella esi-stenza, finalismo che si realizza causalmente45.

45 La contemplazione è pensiero che, come ogni mododell'attenzione (in cui sta, psicologicamente, il pensiero), sospen-de (inibisce) la praticità o libertà del valore per unificarsi con lapresenza o contingenza dell'essere. Infatti il Kant, sul noto esem-pio della gocciolina inclusa in un cristallo, fece della contempla-zione estetica la condizione psicologica della riflessione conosci-tiva. L'attenzione vien prima attratta passivamente dal valore sen-sibile per poi rivolgersi attivamente alla sua spiegazione raziona-le. Il «disinteresse» estetico – proprio perchè è un interesse porta-to all'esistere invece che al dover essere dell'io pratico – condizio-na dunque, per intanto, l'obbiettività e universalità dei concetti. Equando poi la conoscenza, cangiando in contenuto la forma esteti-ca, la supera nei concetti puri (meditazione filosofica sulla con-

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La contemplazione estetica giudica nella forma sensi-bile i valore spirituali, che in tal rapporto chiama «bellodi natura». Lasciandoci guidare dal solo gusto, giudi-chiamo il fine dalla forma dell'atto, l'anima dalla formadel corpo, Dio e l'Essere dalla forma del mondo, il pen-siero dalla parola. È un giudizio per partecipazione, inquanto nell'unità sensibile la soggettività resta un conte-nuto della sua oggettività o presenza. Di qui la parente-la, ugualmente notata dal Kant, fra eticità ed esteticitàd'una forma bella. Aveva dunque la sua ragione quelpassante che giudicava brutto l'abituro dell'ilota. Tal giu-dizio è estetico, perchè disinteressato (senza finalità no-stra) e aconcettuale (senza rappresentazioni); tuttavial'esteticità viene attratta nella sfera pratica dalla parteci-pazione del nostro sentimento al sensibile, simpatetica-mente sentito come espressione d'una finalità fuori dinoi.

Ma basta che la contemplazione si affini e divengagusto essenziale della pura forma, di cui senta l'assolutovalore nel mero rapporto qualitativo (p. es. coloristico),adeguandovisi in tutto il sentimento (p. es. come liricitàdi rapporti tonali alla Corot, o drammaticità di chiaro-scuri ecc.); basta che l'occhio spazi per una sintesi piùlarga (p. es. guardando quella casupola di contro al va-sto cielo), e che il senso incontri un rapporto, una forma

templazione del mondo), che altro «fa» se non costruir nuove for-me, attuare i valori assoluti in una forma che li esprime, e checonvince-logicamente se persuade anche esteticamente (letteraria-mente)?

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La contemplazione estetica giudica nella forma sensi-bile i valore spirituali, che in tal rapporto chiama «bellodi natura». Lasciandoci guidare dal solo gusto, giudi-chiamo il fine dalla forma dell'atto, l'anima dalla formadel corpo, Dio e l'Essere dalla forma del mondo, il pen-siero dalla parola. È un giudizio per partecipazione, inquanto nell'unità sensibile la soggettività resta un conte-nuto della sua oggettività o presenza. Di qui la parente-la, ugualmente notata dal Kant, fra eticità ed esteticitàd'una forma bella. Aveva dunque la sua ragione quelpassante che giudicava brutto l'abituro dell'ilota. Tal giu-dizio è estetico, perchè disinteressato (senza finalità no-stra) e aconcettuale (senza rappresentazioni); tuttavial'esteticità viene attratta nella sfera pratica dalla parteci-pazione del nostro sentimento al sensibile, simpatetica-mente sentito come espressione d'una finalità fuori dinoi.

Ma basta che la contemplazione si affini e divengagusto essenziale della pura forma, di cui senta l'assolutovalore nel mero rapporto qualitativo (p. es. coloristico),adeguandovisi in tutto il sentimento (p. es. come liricitàdi rapporti tonali alla Corot, o drammaticità di chiaro-scuri ecc.); basta che l'occhio spazi per una sintesi piùlarga (p. es. guardando quella casupola di contro al va-sto cielo), e che il senso incontri un rapporto, una forma

templazione del mondo), che altro «fa» se non costruir nuove for-me, attuare i valori assoluti in una forma che li esprime, e checonvince-logicamente se persuade anche esteticamente (letteraria-mente)?

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nuova, ed ecco che l'io a sua volta si sentirà nel «più dime», che al tempo stesso è presenza del suo esistere alsuo volere. Sotto questo punto di vista, la «natura», con-cettualizzata come «io» e «non io», è la forma della loressenziale identità, e quindi anche della lor coincidenzapratica. Infatti acquistiamo quel senso concreto dellaforma, che si dice anche senso tecnico, e che dirige l'attopratico senza regole nè concetti, avendo negli occhi esotto i polpastrelli la premonizione del modo in cui sidebbon incontrare la finalità soggettiva e la sua obbietti-va attualità; mentre che, in quanto è meditazione con-templativa, vòlta alla metafisica unità del Bene col Vero,giudica il vero dal bello, arazionalmente, formandoneun simbolo e un mito.

Con ciò non intendo concludere à un pancalismo o aun misticismo estetico: «ancor più preziosa della filoso-fia è la prudenza!» scriveva Epicuro a Meneceo. La cri-tica del bello qui ha giovato unicamente a dimostrare,che il mondo sensibile, oltre che contenuto teoretico emezzo pratico di concetti e di fini che lo trascendono, èpensabile per sè stesso come forma dell'esistenza, e per-ciò anche esistenza e prova (l'unica!) di quei medesimivalori detti formali: «momento» della coscienza in cui larealtà del valore subiettivo e il valore della realtà obbiet-tiva coincidono assolutamente (metafisicamente); e aconciliare così l'antinomia sui sensibili.

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nuova, ed ecco che l'io a sua volta si sentirà nel «più dime», che al tempo stesso è presenza del suo esistere alsuo volere. Sotto questo punto di vista, la «natura», con-cettualizzata come «io» e «non io», è la forma della loressenziale identità, e quindi anche della lor coincidenzapratica. Infatti acquistiamo quel senso concreto dellaforma, che si dice anche senso tecnico, e che dirige l'attopratico senza regole nè concetti, avendo negli occhi esotto i polpastrelli la premonizione del modo in cui sidebbon incontrare la finalità soggettiva e la sua obbietti-va attualità; mentre che, in quanto è meditazione con-templativa, vòlta alla metafisica unità del Bene col Vero,giudica il vero dal bello, arazionalmente, formandoneun simbolo e un mito.

Con ciò non intendo concludere à un pancalismo o aun misticismo estetico: «ancor più preziosa della filoso-fia è la prudenza!» scriveva Epicuro a Meneceo. La cri-tica del bello qui ha giovato unicamente a dimostrare,che il mondo sensibile, oltre che contenuto teoretico emezzo pratico di concetti e di fini che lo trascendono, èpensabile per sè stesso come forma dell'esistenza, e per-ciò anche esistenza e prova (l'unica!) di quei medesimivalori detti formali: «momento» della coscienza in cui larealtà del valore subiettivo e il valore della realtà obbiet-tiva coincidono assolutamente (metafisicamente); e aconciliare così l'antinomia sui sensibili.

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