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1 Estratto da Perelandra. Quadrimestrale di cultura e idee Anno I n. 1 • Maggio-Agosto 2001, pp. 5-29 Giuseppe Caramma LEGATI ALL’ESISTENZA CON LEGAMI DI FERRO __________________________________________ LANALISI DELLA FAMIGLIA MERIDIONALE ATTRAVERSO LE LETTERE DI MONSIGNOR GIUSEPPE VIZZINI L’assioma enunciato alla fine degli anni cinquanta dal sociologo americano Edward C. Banfield sul «familista amorale», identificato come l’artefice principale nella determinazione dell’arretratezza delle comunità del Mezzogiorno, ha connotato per lunghi – troppi – anni l’analisi delle relazioni esistenti all’interno della struttura familiare dell’Italia meridionale. 1 La tesi del «familismo amorale» – inteso come quell’insieme di comportamenti messi in atto da un soggetto per massimizzare i vantaggi materiali della famiglia nucleare e dunque privo di moralità in relazione a tutte le persone estranee alla cerchia della famiglia – poi dilatata, geograficamente e cronologicamente, dall’antropologo Carlo Tullio Altan è stata additata, da alcuni, come la chiave indispensabile per accedere alla comprensione delle molteplici società tradizionali e, da altri, come uno dei più dannosi 1 E. C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata [1958], a cura di D. De Masi, 3ª ed., Bologna, Il Mulino, 1976.

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Estratto da Perelandra. Quadrimestrale di cultura e idee Anno I n. 1 • Maggio-Agosto 2001, pp. 5-29

Giuseppe Caramma

LEGATI ALL’ESISTENZA CON LEGAMI DI FERRO

__________________________________________

L’ANALISI DELLA FAMIGLIA MERIDIONALE ATTRAVERSO LE LETTERE DI MONSIGNOR GIUSEPPE VIZZINI

L’assioma enunciato alla fine degli anni cinquanta dal sociologo americano Edward C. Banfield sul «familista amorale», identificato come l’artefice principale nella determinazione dell’arretratezza delle comunità del Mezzogiorno, ha connotato per lunghi – troppi – anni l’analisi delle relazioni esistenti all’interno della struttura familiare dell’Italia meridionale.1 La tesi del «familismo amorale» – inteso come quell’insieme di comportamenti messi in atto da un soggetto per massimizzare i vantaggi materiali della famiglia nucleare e dunque privo di moralità in relazione a tutte le persone estranee alla cerchia della famiglia – poi dilatata, geograficamente e cronologicamente, dall’antropologo Carlo Tullio Altan è stata additata, da alcuni, come la chiave indispensabile per accedere alla comprensione delle molteplici società tradizionali e, da altri, come uno dei più dannosi 1 E. C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata [1958], a cura di D. De Masi, 3ª ed., Bologna, Il Mulino, 1976.

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stereotipi coniati, nel XX secolo, all’interno delle scienze sociali.2

Procedimenti euristici, di recente promossi nel campo delle teorie sociologiche e nell’ambito delle (re)interpretazioni storiografiche, hanno sconfessato tale avventata dicotomia, mostrando la complessità della storia della società meridionale, non ascrivibile sotto definizioni interpretative di comodo.3

La percezione della famiglia come luogo deputato all’implosione di affettività e di intimità non è molto lontana nel tempo, giacché viene afferrata solamente tra il XV e il XVI secolo, per imporsi pienamente nel XVII secolo, mentre risultava sconosciuta all’uomo medievale.

Tra Quattro e Cinquecento, si assiste, infatti, a una fioritura iconografica che ha per tema centrale questa nuova tendenza, il «sentimento della famiglia», su cui ha indagato minuziosamente Philippe Ariès.4

Per lo storico francese, «la coscienza dell’infanzia e della famiglia – nel senso in cui si parla di coscienza di classe – presupponeva delle zone di intimità fisica e morale che prima non esistevano», dal momento che, fino al Seicento, «nessuno era mai solo», dal più superbo dei re al più umile dei servi, poiché «la densità delle relazioni sociali impediva l’isolamento», ostacolando «la formazione del sentimento della famiglia».5

La produzione scientifica sulla storia della famiglia ha fatto segnare una considerevole ripresa degli studi di settore, grazie alla avvenuta sinergia tra storici, antropologi, demografi e sociologi, che ha permesso di concepire nuovi e convincenti

2 C. Tullio Altan, La nostra Italia. Arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’Unità a oggi, Milano, Feltrinelli, 1986. 3 Per un quadro esauriente sullo stato delle ricerche si rimanda al volume collettaneo Famiglia meridionale senza familismo. Strategie economiche, reti di relazione e parentela, a cura di B. Meloni, Catanzaro, Meridiana Libri, 1997. 4 P. Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, [1960], Roma-Bari, Laterza, 1981. 5 Ivi, p. 469.

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modelli interpretativi, mutuati, in prevalenza, dalle ricerche del Cambridge Group for the History of Population and Social Structure diretto da Peter Laslett.

Le indagini successive hanno consentito di identificare e meglio determinare uno specifico modello familiare «mediterraneo», espressione di un’area culturalmente omogenea come quella dell’Europa meridionale, contrapposto all’idealtipo distinto dell’Europa del Nord e a quello dell’Europa dell’Est.

Il cultural pattern mediterraneo scaturirebbe da molteplici attributi peculiari, quali il predominio patriarcale e della linea parentale maschile, la proibizione del matrimonio delle vedove e la costituzione di un sistema di valori che attribuisce grande importanza all’onore e alla verginità femminile.6

Tale linea interpretativa risente non poco delle suggestioni emanate dalla network analysis – introdotta negli anni quaranta dalla Scuola di Manchester fondata da Max Gluckman – indirizzata su due filoni di ricerca: lo sviluppo antropologico di network sociale, nel quadro di una interpretazione analitica situazionale e processuale e lo sviluppo dell’analisi quantitativa delle relazioni fra i diversi membri del sistema sociale, nel quadro di una interpretazione analitica strutturale.7

Gli approcci metodologici sopra descritti hanno contribuito in maniera rilevante a smontare l’impianto di Banfield, mettendo in rilievo – come ha fatto, tra gli altri, Gabriella Gribaudi – che l’assunto che lega famiglia nucleare meridionale e familismo non si fonda su basi documentarie che lo provino storicamente, dal momento che sembrano essere proprio i «soggetti più

6 Cfr. F. Benigno, «Famiglia mediterranea e modelli anglosassoni», Meridiana 6 (1989): 29-61. Per una esposizione concettuale del tema in questione si rimanda anche a P. Ginsborg, «Famiglia, società civile e stato nella storia contemporanea: alcune considerazioni metodologiche», Meridiana 17 (1993): 179-208. 7 Cfr. Reti. L’analisi di network nelle scienze sociali, a cura di F. Piselli, Roma, Donzelli, 1995.

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moderni a voler circoscrivere i propri spazi e le proprie aspirazioni all’interno della famiglia nucleare».8

La querelle sul familismo altro non sarebbe, dunque, se non un frammento del dibattito più ampio sulle «rappresentazioni del Mezzogiorno che dominano tuttora l’immaginario degli italiani», le quali hanno condotto a una «situazione di asimmetricità» tra Nord e Sud, contrassegnata dal fatto che «l’identità del Mezzogiorno si forma in negativo, come mancanza rispetto a un modello ideale: mancanza di borghesia, di imprenditorialità, di ceti medi, talora di individualismo, talora di solidarietà».9

Il presente contributo intende proporre un possibile percorso alla ricerca dell’identità della famiglia contadina meridionale, confrontando le molteplici ipotesi di ricerca e i diversificati modelli storiografici riconosciuti con l’analisi di un particolare case study, individuato nella disamina della corrispondenza epistolare di monsignor Giuseppe Vizzini, vescovo di Noto.

Un momento centrale nella biografia di Vizzini (nato a Villalba il 10 novembre del 1874 e spirato a Ferla, ove si trovava in visita pastorale, l’8 dicembre del 1935) è rappresentato dalla corrispondenza da lui intessuta con i fratelli Alfonso, Calogero, Ignazio e Salvatore, durante la sua permanenza a Roma, dal 1893 al 1913. Il periodo romano permise a Vizzini di completare la sua formazione spirituale prima e, dipoi, per iniziarvi una carriera accademica ed ecclesiastica prestigiosa – basti pensare che al Pontificio Seminario Romano ebbe come allievi Eugenio Pacelli e Angelo Giuseppe Roncalli – che lo avrebbe portato, il 19 agosto del 1913, a essere chiamato da Pio X alla sede vescovile di Noto, resa vacante dalla scomparsa di monsignor Giovanni Blandini.

8 G. Gribaudi, «Familismo e famiglia a Napoli e nel Mezzogiorno», Meridiana 17 (1993): 13-42, a p. 16. 9 Id., «Mezzogiorno immaginato e scienze sociali», dossier n. 6 Mezzogiorno Mezzogiorni, a cura di D. Frigessi, L’Indice dei libri del mese 11 (2000): X-XII.

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Le lettere indirizzate a Giuseppe Vizzini dai suoi familiari di Villalba, rinvenute da chi scrive presso l’Archivio della Curia Vescovile netina, consentono di scandagliare i processi e le dinamiche sociali interne alla famiglia meridionale e offrono, nel contempo, l’occasione per poter meglio focalizzare i tratti psicologici e storici di una figura ragguardevole e prestigiosa del cattolicesimo italiano di inizio Novecento.10

Se una lectio facilior si dimostra propensa a elargire superficiali etichette interpretative alla famiglia contadina meridionale, la lectio difficilior induce, al contrario, a riconsiderare le diverse categorie interpretative, incitando a investigare sulla rilevanza che vengono ad assumere le opzioni personali all’interno di un milieu che si vorrebbe statico e impermeabile alle vocazioni individuali.

L’Italia meridionale, nel corso della sua complessa vicenda storica, ha assistito alla compresenza di diversi schemi di ménage: dalla famiglia multipla, formata da più unità coniugali, a quella estesa, in cui a un aggregato domestico si aggiunge la presenza della parentela, alla tipologia nucleare, quest’ultima numericamente più diffusa sul territorio.

La popolazione meridionale, tra il XVII e il XIX secolo, viveva, difatti, tendenzialmente in famiglie nucleari, osservando la regola della residenza neolocale e dimorando in centri di medie e grandi dimensioni.

Ragioni storiche, economiche, sociali e di mentalità sono alla base del meccanismo che conduce a un simile sistema di formazione delle famiglie. La struttura nucleare del focolare meridionale trova, di fatto, la sua ragione d’essere in alcune variabili tra loro connesse, quali il regime colturale prevalente, l’ampiezza dei fondi coltivati, le forme di insediamento della

10 Sulla rilevanza degli archivi personali si è soffermata E. Alessandrone Perona, «Gli archivi personali come fonte della storia contemporanea», Contemporanea 2 (1999): 325-30.

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popolazione agricola, la separazione, di norma, tra luoghi di residenza e di lavoro.11

La famiglia contadina del Mezzogiorno, a sua volta, presenta vari archetipi abitativi, con i braccianti che optano per il modello nucleare, laddove i mezzadri mostrano di prediligere l’aggregato esteso.

Dalle innumerevoli inchieste parlamentari condotte dopo l’Unità viene fuori un misero decorrere della vita quotidiana all’interno della struttura familiare dei contadini, con elementi peculiari: «la promiscuità, la commistione e la confusione tra gli esseri viventi (persone ed animali) e tra questi e le cose, i cibi, gli umori, gli odori, i rifiuti, gli agenti atmosferici».12

La famiglia Vizzini non è ascrivibile, a ogni modo, né alla tipologia del vincolo bracciantile, né a quella della famiglia patriarcale mezzadrile. Essa appare, invece, come una famiglia di piccoli proprietari coltivatori, in cui i fratelli si dividono la terra alla morte del padre, laddove alle donne spetta la dote o il suo equivalente in denaro.13

La frammentazione della terra conduce, nondimeno, tale categoria di aggregato domestico verso una precaria situazione economica, alla quale si cerca di porre rimedio facendo appello alle alleanze matrimoniali, al differimento dei matrimoni e della divisione dell’asse indiviso lasciato dal padre, non ultimo, all’allontanamento dei fratelli. 11 Cfr. G. Da Molin, «Struttura della famiglia e personale di servizio nell’Italia meridionale», in Storia della famiglia italiana 1750-1950, a cura di M. Barbagli e D. I. Kertzer, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 219-52. Sulla famiglia urbana meridionale si rimanda a P. Macry, Ottocento. Famiglia, élites e patrimoni a Napoli, Torino, Einaudi, 1988. 12 A. Manoukian, «La famiglia dei contadini», in La famiglia italiana dall’Ottocento a oggi, a cura di P. Melograni, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 3-58, a p. 14. Sulla famiglia contadina cfr. anche L. K. Berkner, «La famiglia-ceppo e il ciclo di sviluppo della famiglia contadina», in Famiglia e mutamento sociale, a cura di M. Barbagli, Bologna, Il Mulino, 1977, pp. 116-40. 13 Su quest’ultimo aspetto, si segnalano i contributi del numero 98 (1998) di Quaderni storici dedicato a «Gestione dei patrimoni e diritti delle donne», a cura di A. Arru.

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La famiglia dei piccoli proprietari coltivatori, in realtà, si trova in una zona sociale marginale intrinsecamente instabile, al di là delle aspettative e delle ipotesi convenzionali. Essa è collocata ai margini tra due diversi strati sociali: può divenire realmente una famiglia di proprietari terrieri e fruire degli istituti successori che, al di là delle leggi, difendono ancora per decenni l’integrità del patrimonio attraverso l’istituto giuridico del maggiorascato, oppure può scendere repentinamente nella gerarchia sociale e ritrovarsi assimilata a una famiglia nullatenente.14

Attorno a tale nucleo familiare orbita poi la cerchia della parentela più o meno vasta, la quale, pur non appartenendo all’aggregato domestico, ne condiziona notevolmente le varie attività e decisioni. Non a caso Leonardo Sciascia, in una serie di racconti, ha chiamato Gli zii di Sicilia tutti quei consanguinei che ruotano attorno alla struttura familiare siciliana, attribuendo a questo termine delle sfumature e una maggiore estensione di quanto non ne abbia nell’uso corrente italiano.

Tali figure parentali si inseriscono all’interno dei complessi meccanismi di compensazione culturale svelati da Claude Lévi-Strauss, il quale ha fatto risaltare come il ruolo dello zio venga giocato in maniera diversa, a seconda della linea seguita nel processo di filiazione, venendo a instaurarsi una corrispondenza tra l’atteggiamento verso lo zio materno e l’atteggiamento verso il padre: «nelle società in cui la relazione tra padre e figlio è cordiale, quella tra zio e nipote è severa; e là dove il padre rappresenta l’austero depositario dell’autorità della famiglia, i rapporti con lo zio sono all’insegna della tenerezza e della liberalità».15

Una descrizione molto pungente dei rapporti personali tra gli zii di Villalba ci è data, nel 1910, da Ignazio (il minore dei fratelli e il preferito da Giuseppe Vizzini, che lo portò bambino

14 Cfr. Manoukian, «La famiglia dei contadini» cit. 15 C. Lévi-Strauss, «I legami di sangue. Quei parenti così arcaici», in la Repubblica, 24 dicembre 1997, pp. 40-1, a p. 40.

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con sé a Roma) di ritorno, suo malgrado, in terra di Sicilia, a causa dell’esilio impostogli dal fratello maggiore.

Villalba non è mutata. I nostri parenti grazie a Dio son tutti vivi e sani. Paiono legati all’esistenza con legami di ferro. [...] Da che mi trovo a Villalba non ho notato nei nostri parenti se non la massima cordialità verso di me. Fanno a gara per colmarmi di attenzioni. Né è da temere una recrudescenza imminente.

Calogero vive a parte di Salvatore, e abita nella casa paterna. Coltiva da sé e per sé la terra del Bonazzo. Ma si vedono tutti i giorni e spesso Calogero viene a cenare da Salvatore. S’industria nella vendita di orologi, rivoltelle, e ogni settimana, il venerdì, va a Mussomeli a far compere di sigari e altri generi per conto dei tabaccai di Villalba. Guadagna un cinque sei lire per volta. Dicono che abbia denaro a parte. Per i suoi giuochi di cabala, per gli oroscopi che trae su le persone, e forse anche per la sua vita solitaria e il suo aspetto alquanto riserbato e misterioso gode nel paese fama di magaldo. Ma comprenderai facilmente che il pettegolezzo e l’esagerazione vi abbiano non poca parte. Tuttavia è sembrato anche a me ch’egli abbia meno devozione a Dio che al Diavolo; racconta fatti di riunioni e di magherie con accento di convinzione come se fossero verità di Vangelo. È strano. È rimasto basso e sottile. È un tipo affatto diverso dagli altri fratelli.

Salvatore vive con Liboria nella casa dello zio Daniele. Hanno due bambini: Daniele, di 17 mesi, bellissimo, e Peppino di quattro mesi, tuttora infante. Abita con noi anche Alfonsa, un rudere di donna, brutta come una strega, bisbetica e permalosa. Della zia Maria Giuseppa e della zia Grazia non dirò altro se non che stanno bene e vivranno ad multos annos ancora. 16

Le preoccupazioni per monsignor Giuseppe Vizzini non provenivano solamente da Villalba, ma anche dall’amato 16 Archivio Curia Vescovile di Noto (d’ora in avanti ACVN), Fondo corrispondenza privata monsignor Giuseppe Vizzini (Fondo c. p. G. V.), busta 16 (lett. V), 7.

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Ignazio, figura fragile e nevrotica di un giovane alla ricerca di un proprio equilibrio interiore.

Un quadro a tinte fosche delle vicende e del destino toccato ai Vizzini è tracciato con minuzia di particolari da Alfonso, il fratello americano emigrato a Trenton, il quale adopera dei toni e delle locuzioni che non possono non rievocare il ciclo verghiano dei «vinti».

Per quanto mi sforzo rassegnarmi ai voleri della Provvidenza, in certi momenti, non conosco me stesso, deliro, impreco rinnego le verità supreme, conchiudendo che per noi impera l’anatema di una sventura retaggio di famiglia e il dolore. Ho passato i cinque lustri; e un momento di gioia, non l’ho provato mai. Dispiaceri e dispiaceri, umiliazioni di tutte le specie, il cuore affranto e morto di desideri che la vita ai viventi prepara, insomma, un calvario continuo, e penoso.17

All’interno della famiglia contadina vige un sistema di rapporti di autorità asimmetrico, accettato dai suoi membri più per convenienza che non per convinzione. I maschi della famiglia insieme alle loro mogli erano, invero, costretti a rimanere in abitazioni patrilocali, in una condizione di dipendenza assoluta dai genitori del marito. La convivenza con i suoceri faceva parte del retaggio ancestrale, cui ogni donna era preparata fin da bambina e cessava solo con la morte del padre e della madre dello sposo, quando la coppia, alla fine, poteva emanciparsi e prendere le redini della famiglia.

In questa tipologia di famiglia a struttura multipla orizzontale, le tensioni latenti e gli attriti continui tra fratelli e cognate sono la regola e, «anche in presenza di meccanismi di mediazione e di controllo dell’aggressività, questi potevano dar luogo a fratture incolmabili».18

Tali tematiche ricorrono anche nelle lettere che i Vizzini spediscono al fratello monsignore, in cui è d’obbligo il parlar 17 ACVN, Fondo c. p. G. V., busta 16 (lett. V), 3. 18 M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 437.

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male delle mogli dei fratelli accusandole di essere le cattive ispiratrici delle nefandezze compiute dai mariti.

Alfonso, in riferimento alle insinuazioni del fratello Salvatore, che aveva accusato sua moglie di essere la responsabile del mancato invio dell’assegno mensile a Ignazio, così tenta di giustificarsi, con empito sospetto, dinanzi a Giuseppe Vizzini:

L’accusa di immeritato rimprovero, motivato da lagnanze fatte da mia moglie, per la più che modesta somma prestata ad Ignazio, mi fece vittima di dolore. [...] Il mio ideale partì di non vedere ripetuta la disgrazia della buona memoria del nostro genitore, in un figlio di questi. Mia moglie?! Ma che essa è padrona delle mie disposizioni. Dei miei fatti? Dei miei vizii? [sic] ...che a parte la modestia non ho? A lei fa meraviglia lo zelo con cui Salvatore tiene a bada certe cose, e paroline...19

Da Villalba, Ignazio rimane invece colpito dall’incapacità decisionale di Salvatore, interamente soggiogato dalla moglie Liboria e dalla ospitalità riprovevole da lei offertagli.

Vorrei poi che tu non ti facessi troppe illusioni sulla generosità dei miei ospiti. Non s’ingannava Rosa, la nostra ex-persona di servizio, quando ti faceva osservare (ella l’ultima sera mi racconto ciò) che le cognate non trattano se non i mariti ed i figli. Nella casa di Salvatore Vizzini comanda la moglie. Nei primi mesi non mancò una certa premura. Ma poi si finì col mangiare tutti insieme alla stessa tavola con i garzoni. Fu da allora che io presi l’abitudine di andare al Bonazzo, ove il nostro cugino P. D. Peppino ha fatto costruire una casetta tuttora rustica ma fornita di cucina, e di cuocermi quivi due soldi di pasta. (Certe cose si possono dire ora che e ci si è passati e tu sembri volerti interessare di me). E passo sotto silenzio molte altre cose che pure potrebbero meglio illuminarti della mia condizione qua giù per non sembrare pedante. E vorrei ingannarmi se penso che tutto l’interessamento usato 19 ACVN, Fondo c. p. G. V., busta 16 (lett. V), 3.

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anche da Liboria per persuaderti a richiamarmi a Roma, non abbia il secondo fine di alleggerirsi della mia presenza. Certo è che non senza ragione mi è venuto questo sospetto. Mi dispiace dir ciò (eppure lo debbo) perché qualunque sia stato il fine secondo o terzo, pure debbo essere grato di quanto ha fatto spontaneamente.20

Altro casus belli, all’interno dei conflitti domestici, era rappresentato dall’avvio delle procedure ereditarie, aperte alla morte del capostipite.

Nelle comunità contadine convivono tre modelli preferenziali di trasmissione ereditaria: quello patrilineare indivisibile, in cui erede universale è il solo primogenito maschio, quello patrilineare divisibile, che permette la ripartizione tra tutti i figli maschi e, infine, quello bilaterale divisibile, nel quale la suddivisione avviene indistintamente tra eredi maschi e femmine.

È inoltre dimostrato come esista una evidente correlazione statistica tra la scarsità di terra della famiglia e il modello di eredità adottato: meno terra è disponibile, più probabilità si hanno di essere in presenza di un sistema di successione patrilineare indivisibile, all’uopo di salvaguardare e tramandare il nome della stirpe.21

La logica ereditaria seguita dalla famiglia contadina non si discosta molto dalla strategia di fedeltà al lignaggio e alla parentela adottata nel sistema successorio nobiliare, il quale assegna priorità assoluta agli interessi permanenti della casata, al suo mantenimento, alla sua continuità e reputa secondari tutti gli altri eventuali interessi e patti di lealtà.22

20 ACVN, Fondo c. p. G. V., busta 16 (lett. V), 7. 21 Cfr. W. Goldschmidt ed E. J. Kunkel, «Sistemi di eredità e struttura della famiglia contadina», in Famiglia e mutamento sociale cit., pp. 187-215. Sul ruolo assistenziale svolto dalla famiglia patriarcale si veda A. Groppi, «Il diritto del sangue. Le responsabilità familiari nei confronti delle vecchie e delle nuove generazioni (Roma, secoli XVIII-XIX)», Quaderni storici 92 (1996): 305-33. 22 Cfr. L. Stone, Famiglia, sesso e matrimonio in Inghilterra tra Cinque e

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Le contese ereditarie trovano terreno fertile anche tra i membri della famiglia Vizzini, i quali non indugiano a entrare in conflitto per spartirsi la roba dei genitori e di alcuni parenti defunti. Sebbene il ramo villalbese evocasse a più riprese un propiziatorio intervento di monsignor Vizzini, al fine di comporre i numerosi contenziosi aperti, questi si guardò bene dall’intervenire nella faccenda, declinando costantemente l’invito, rivoltogli da Salvatore, di far ritorno paese per mettere pace tra i parenti.

Bisogna che lo metta a conoscenza che anche in famiglia esistono motivi non meno importanti che richiedono la sua presenza; e come necessaria è stata la sua visita Apostolica nelle diocesi a lei affidate ancora più necessaria è una sua visita Apostolica per la famiglia. Lei sa in parte i debiti che gravano sulla poca eredità del papà alla quale tutti abbiamo diritto di appartenere e così pure anche per i debiti colla differenza però che il diritto per la proprietà tutti lo vogliamo mentre l’obligo di pagare qualcuno lo nega o senon [sic] lo nega cerca calunnie.23

Monsignor Vizzini non volle mai aprire un negoziato con i fratelli di Villalba, per convincerli a spartirsi serenamente l’eredità materna e paterna, adombrandosi non poco per i disaccordi scatenatisi tra i Vizzini. È stata rinvenuta da chi scrive la prima stesura di un chirografo che il prelato voleva indirizzare ai fratelli, per comunicare loro l’intendimento di voler rinunziare alle quote dell’eredità e con la quale, inoltre, manifestava l’intenzione irrevocabile di voler recidere i legami con tutti i membri della famiglia di Villalba.

Non è dato sapere, purtroppo, allo stato delle ricerche in corso, se la lettera sia stata, in seguito, effettivamente completata e fatta recapitare ai fratelli.

Dalla corrispondenza dei Vizzini si deduce, in ogni caso, che se la missiva venne spedita, risultò smussata nei toni che presentava nella prima stesura, anche se viene a rappresentare, Ottocento, Torino, Einaudi, 1983, p. 33. 23 ACVN, Fondo c. p. G. V., busta 16 (lett. V), 8.

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pur sempre, la testimonianza più viva dell’allontanamento che ormai si era consumato tra Vizzini e suoi consanguinei.

Di seguito, presentiamo il testo della lettera.

Ai miei fratelli. Considerando che le mie occupazioni richiedono molta

calma di spirito, ed avendo esperimentato che nulla mi turba più fortemente quanto la ristrettezza dei mezzi finanziari, visto che questa ristrettezza non la soffrirei se pensassi soltanto a me e che se l’ho sofferta, è dipesa sempre dalle persone di famiglia, tenuto conto dell’impossibilità di raggiungere in breve tempo l’equilibrio sia per la gravità dei debiti contratti a mia insaputa, sia per la mancanza di criterio amministrativo, sono venuto alle seguenti determinazioni:

1° Mando in pari data £ 500 alla Cassa Rurale di Villalba per pagare la cambiale firmata da nostro padre.

2° Rinunzio a favore di tutti alla quota che mi spetta, dell’eredità paterna e materna.

3° Prego i miei fratelli di considerarmi come non esistente, e se vorranno farmi avere loro notizie bene, altrimenti ne farò a meno senza turbarmi: ma non mi parlino più di sussidi e di denari.

4° Se Ignazio vuole continuare o cominciare a studiare per la laurea, ricorra ad un prestito e se lo faccia ipotecare sulla quota di sua pertinenza.24

A mettere a repentaglio la sicurezza della famiglia contadina, in aggiunta alle insidie endogene, intervengono, inoltre, cospicue minacce esogene, che possono assumere le sembianze del distacco forzato, della morte o della malattia (individuale e/o sociale) di un elemento interno all’aggregato domestico.

Il distacco forzato viene a configurarsi, sovente, con la pratica migratoria, il cui uso incessante connota distintamente le società rurali del Mezzogiorno d’Italia. Una delle maggiori

24 ACVN, Fondo c. p. G. V., busta 14 (lett. S), 6.

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risultanze sociali arrecate in loco dall’emigrazione meridionale all’estero, a carattere individuale e non familiare, di durata temporanea e non definitiva, è considerato il verificarsi di uno squilibrio demografico, cui essa diede vita in molte comunità dove si manifestarono fenomeni sociali mai sperimentati, quali il neo-matriarcato, contraddistinto dalla presenza di «vedove bianche», «doppio focolare» e matrimoni celebrati per tenere in ostaggio la moglie, nel corso dell’assenza prolungata e imprecisata del coniuge.25

Insieme a tali squilibri sociali e demografici, la ricerca storica, nondimeno, ha indugiato a mettere in risalto i benefici arrecati dalla stagione dell’emigrazione nel cammino verso la modernizzazione italiana.

«In realtà, la rivoluzione silenziosa degli emigranti – ha rilevato accortamente Giuseppe Barone – non può essere valutata col metro del catastrofismo sociale o del pietismo consolatorio. Come fenomeno di massa, l’emigrazione innescò un processo dialettico di spinte innovative e di resistenze alla modernizzazione che non possono passare inosservate sotto la lente dello storico. In primo luogo essa si rivelò funzionale allo sviluppo del capitalismo italiano – prosegue lo storico dell’età contemporanea – almeno sotto una duplice direzione: da un lato permettendo di sanare parzialmente il deficit della bilancia dei pagamenti e di finanziare il processo d’industrializzazione, in atto nel Nord-Ovest del paese, attraverso il rastrellamento delle rimesse [...], dall’altro perché il denaro fresco degli emigranti tonificò la domanda di beni industriali».26

Delle difficoltà d’inserimento e di omologazione in una società con una cultura e con una lingua diversa da quella propria, fa più volte menzione Alfonso Vizzini, costretto a

25 Cfr E. Sori, «Popolazione e insediamenti nel Mezzogiorno contemporaneo», Meridiana 10 (1990): 45-76, alle pp. 57-9. 26 G. Barone, «La modernizzazione italiana dalla crisi allo sviluppo», in Storia d’Italia vol. 3 Liberalismo e democrazia. 1887-1914, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 249-362, alle pp. 332-3.

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emigrare contro il suo volere negli Stati Uniti, dove aveva trovato occupazione presso una fonderia.

Le ripeto la preghiera della cartolina, cioè a qualunque spese [sic], voglio a giro di posta una Grammatica Inglese, due Dizionari It.-Ing. ed Ing.-Italiano e un libro di lettura con la pronunzia all’Italiana. Qui non se ne trovano buoni di questi libri.27

Più inesplicabile, rispetto al tema del distacco, appare, il nesso tra cultura contadina e ideologia della morte.

«Se il nuovo modello della cattiva morte del povero riflette, dunque, sia pure al prezzo di una distorsione interna, la violenza reale di un’epoca rude – ha notato Michel Vovelle in un ponderoso essai editato qualche anno addietro – l’immagine ricevuta esprime altresì la maledizione che fa dei diseredati le vittime elettive delle ultime grandi fiammate epidemiche».28

Il cimitero, nelle società rurali, era parte integrante e armonica della struttura dell’agrotown: «attorno alla chiesa e al cimitero la canonica, il granaio per le decime, i forni bannali, il mercato coperto, l’aula per la giustizia feudale e per le assemblee degli abitanti. […] Non lontano dalle sepolture ci si riuniva, si contrattava e qualche volta il gregge si smarriva fra le tombe. I morti erano strettamente associati alla vita».29

L’organizzazione territoriale delle società contadine – così come è stata scrutata meticolosamente da Luigi M. Lombardi Satriani e Mariano Meligrana – si presenta segnata profondamente dall’ideologia della morte, che ne scandisce strutture e modalità e ne orienta i significati fino a configurare

27 ACVN, Fondo c. p. G. V., busta 16 (lett. V), 3. 28 M. Vovelle, La morte e l’Occidente. Dal 1300 ai giorni nostri, Roma-Bari, Laterza, 1986, p. 544. 29 P. Ariès, L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi [1977], Roma-Bari, Laterza, 1985, p. 650. Sul cimitero come luogo nevralgico della vita del borgo si rimanda altresì al testo postumo di G. Le Bras, La chiesa e il villaggio, Torino, Boringhieri, 1979, pp. 54-65.

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una «simbolica città sepolta, polo dialettico della città dei viventi».30

Dalla osservazione dei due antropologi siciliani discende che «il rapporto vivi-morti, nell’orizzonte folklorico, non è di due mondi contrapposti, ma si pone come un continuum, come tensione metafisica, che conferisce allusività e ulteriorità al tempo storico e consistenza a quello metastorico».31

Contiguo al concetto della morte, si evidenzia quello della malattia.

Se innumerevoli sono le classificazioni tassonomiche sulle epidemie epocali che trovano terreno fertile nella debolezza biologica strutturale della famiglia contadina,32 non meno trascurabile è la necessità di scandagliare l’impatto, emozionale e razionale, del focolare rurale dinanzi alla implosione di patologie che minacciano i suoi membri.

Anziché indirizzarsi verso la scienza medica, la famiglia contadina si affida di buon grado alla medicina empirica, con tutto il suo armamentario di riti folklorici, tenendo conto che il sistema sanitario della società preindustriale vedeva i medici risiedere prevalentemente in città, lasciando così campo libero a «parroci di campagna depositari di qualche nozione medica, empirici depositari di qualche tecnica consolidata, ciarlatani itineranti depositari di qualche trovato magico, mediconi o santoni residenti depositari di qualche rimedio miracoloso, santi in funzione di guaritori o guaritori in funzione di santi, [che] rappresentano un’offerta non esigua di risorse tecniche e umane sul mercato della salute».33

30 L. M. Lombardi Satriani e M. Meligrana, Il ponte di San Giacomo. L’ideologia della morte nella società contadina del Sud [1982], 2ª ed., Palermo, Sellerio, 1989, p. 27. 31 Ibidem. 32 Cfr. A. L. Forti Messina, «L’Italia dell’Ottocento di fronte al colera» e P. Corti, «Malaria e società contadina nel Mezzogiorno», in Storia d’Italia. Annali vol. 7 Malattia e medicina, a cura di F. Della Peruta, Torino, Einaudi, 1984, rispettivamente pp. 429-94 e pp. 633-78. 33 G. Cosmacini, «L’igiene e il medico di famiglia», in La famiglia italiana cit., pp. 589-627, alle pp. 597-8.

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L’intesa tra curante e curato è facilmente ricercata e trovata con coloro che vengono identificati, in ambito antropologico, come simili, in forza dell’estrazione sociale e dei modelli culturali condivisi.

Ancora più recondito è il comportamento assunto dalla famiglia dinnanzi al disagio psichico, palesato da sintomatologie lievi o gravi, che attanaglia i suoi consanguinei.

La malattia mentale viene percepita dal ménage contadino come un castigo divino e dunque va secretata, rimossa dallo scorrere inesorabile della pratica quotidiana, in attesa che la stessa divinità che l’ha comminata liberi la casa da quell’onta, con una cerimonia funebre che addiviene a configurarsi simultaneamente come catartica e terapeutica.

Tra tutte le lettere dei Vizzini contenute nell’archivio della diocesi di Noto, le più struggenti, le più intense, le più intrise di commozione sono, senza dubbio, quelle stilate da Ignazio, il fratello più giovane dei Vizzini e anche il più vulnerabile nel corpo e nella mente.

Monsignor Vizzini, con ogni probabilità, proiettò nel fratello, più giovane di tredici anni, tutte quelle amorevolezze e quelle attenzioni che avrebbe voluto riversare, non riuscendoci, sull’intera sua famiglia. La risoluzione di portare Ignazio con sé a Roma per fargli proseguire gli studi, fino alla laurea che mai conseguirà, tradiva le aspettative e il desiderio di Giuseppe Vizzini di veder riscattate in quel fratello debole e orgoglioso, tutte le ristrettezze e le delusioni subite dalla sua dinastia.

Quando si rese conto che Ignazio non rispondeva alle sue attese, non indugiò a trattarlo duramente, decidendo, dopo un sofferto travaglio interiore, di cancellarlo dalla sua esistenza.

Dalle lettere, Ignazio viene fuori come un sognatore sempre pronto a inseguire la più irraggiungibile delle illusioni, come un eterno ribelle alle disposizioni del fratello, come una personalità malata e fragile, sempre alle prese con patologie di natura psichica, che lo mineranno nel corpo e nell’intelletto, impedendogli di svolgere un regolare corso di studi.

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Caro Peppino Angelini mi ha già rilasciato il certificato, in cui dichiara

che una gravissima nevrastenia mi impedisce il minimo lavoro mentale. Il certificato, come ha giudicato lo stesso Angelini, è sufficiente per ottenere una sessione suppletoria [agli esami di licenza liceale, non superati nella sessione ordinaria di luglio].

Essa di solito viene accordata, poiché tra quelli che fanno richiesta della sessione di dicembre ci sono quasi sempre dei figli dei senatori e di deputati; e il ministero non potendo loro rispondere picche, finisce col concedere la sessione desiderata.34

Ben presto le posizioni di Ignazio si allontanano sempre più da quelle di monsignor Vizzini, il quale vorrebbe mandare Ignazio in Sicilia, al fine di fargli procurare un lavoro, non ritenendolo in grado di affrontare un corso di studi universitario, a causa dello scarso impegno fino ad allora dimostrato.

Della difficile situazione nei rapporti con il fratello, Ignazio parla ad Alfonso, in una lettera del 16 febbraio 1910, nella quale mette a nudo tutti i disturbi cagionatigli dalla malattia che lo affligge da tempo.

Caro mio, sto molto male. Ho compiuti ventitré anni or sono pochi giorni, ma anziché diventar giovane che invecchio. Vedo invecchiarmi di prima di diventar giovane. Ho subito una mancanza di sviluppo che ha prodotto il maggior danno sulla mia intelligenza. Ho l’intelligenza di quindici anni. E poiché, grazie a chi me l’ha concessa, essa era più tosto discreta, riesco a non fare figure proprio cattive presso coloro che avvicino. Mi accorgo però della fragilità del mio pensiero sopra tutto in quel che riguarda le cose della vita, e ciò mi accora e mi umilia. Prima dominavo l’ambiente ora son l’ultimo. […] Da due anni vado perdendo i [illeggibile] capelli: da due anni non prendo l’iscrizione all’università per mancato pagamento delle tasse (tu che volevi festeggiare il mio addottoramento). E nessuno si cura

34 ACVN, Fondo c. p. G. V., busta 16 (lett. V), 7.

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di me di quelli che ne avrebbero quasi il dovere, se non materiale, morale, di coscienza. Ho tremende amnesie, non riesco a studiare un’ora di seguito, dimentico rapidamente, mi sento incapace di un lavoro originale almeno do concessione; la notte d’insonnia, e se dormo, dormo agitato e interrotto, sogno peggio, e la mattina mi levo, sfiancato smemorato, senza forze né voglia come puoi immaginare, di attendere a un lavoro serio.

Il nostro fratello mi rinfaccia spesso e volentieri le due o tre miserabili migliaia di lire spese per me in tanti anni. Egli piange i suoi denari e non c’è nessuno che piange il tesoro della mia giovinezza che [illeggibile] mi vedo sfuggire per sempre.35

Monsignor Vizzini rimarrà insensibile alle prolungate lamentazioni di Ignazio e confermerà il suo proponimento di allontanarlo da Roma e inviarlo, contro il suo volere, a Villalba. Ignazio, disperatamente e caparbiamente, cerca di resistere alle decisioni del fratello, rinfacciandogli una certa durezza d’animo, in quella che forse è la più commovente lettera a lui scritta.

Se io vado a Villalba, sono rovinato senza speranza di risurrezione e di far rifiorire gl’ideali appassiti. Non serve dilungarsi per dimostrare la verità di tale asserzione.

Credi tu che fare una simile fine valeva la pena di trarmi a undici anni dalla Sicilia? Per fare il mestiere di mio padre occorreva forse che studiassi ginnasio e liceo e prendessi le licenze ginnasiale e liceale? Perché farmi balenare la luce di migliori speranze per piombarmi poi nella tenebra più fitta? Perché allevarmi in una condizione agiata, che rese odiosa la condizione primaria, per poi rigettarmi in questa? Perché farmi prendere odio per un mestiere, che non avrei vergogna di professare oggi, se dopo avermi aiutato ad aspirare a cose più alte, mi dovevi far subire tutta l’altra umiliazione di dover ad esso rivolgermi per campare la vita? Perché dopo tanti anni di studi fruttuosi, togliermi di mano la penna per pormi la vanga? Occorre forse aggiungere che troppo grave riuscirebbe il peso

35 ACVN, Fondo c. p. G. V., busta 16 (lett. V), 7.

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di questa alla mano avvezza a quella? che un organismo non assuefatto alle rudi fatiche materiali, mal sopporterebbe il lavoro faticoso e le intemperie e la sferza del sole e lo scroscio della pioggia?

[...] Perché farmi impartire in un collegio la più balorda educazione che neanche una mummia possa immaginare, perché farmi in esso rimbecillire, farmi concepire della vita un concetto falso, di cui ora raccolgo le amarezze e i disinganni, perché, domando, perché in esso farmi rovinare la salute, che avrei potuto conservare sana altrimenti, perché farmi contrarre in esso una malattia che mi accompagnerà indivisibile ed insopportabile fardello fino agli ultimi istanti della mia vita? Non parlo della nevrastenia vera e propria, che non è essa che mi preoccupa, ma di quell’altro malanno, notato dal Dott. Angelini, per cui non resiste rimedio di sorta, che tarpa le ali al mio slancio, che paralizza i miei movimenti, che mi impedisce di compiere un’azione pubblica condannandomi ad un’azione destinata all’ombra e all’ignoranza, che per due anni di me ha fatto un imbecille, per tre anni uno squilibrato ed un matto, e che farà di me un inetto negli anni a venire.

Non ti prego di guardar le cose con occhi fraterni, giacché a ciò ti ricusi, ma guardale almeno con occhi umani, con mente chiara, con animo puro e sincero. [...]

Credi tu forse che con il mio carattere orgoglioso ed insofferente potrò rassegnarmi al destino a cui vuoi condannarmi? Credi tu che io, in cui così forte grida la voce dell’alterigia, in cui così potente vibra il sentimento del personale decoro, in cui tanto pianto di dolore spreme un’umiliazione anche lieve, credi tu che mi rassegnerò a subire l’umiliazione che mi vuoi infliggere? È possibile che un così fitto velo adombri il tuo intelletto? che tanta tenebra avvolga la tua intelligenza? che un così grave errore ingombri la tua mente? 36

36 ACVN, Fondo c. p. G. V., busta 16 (lett. V), 7.

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Nell’aprile del 1910, Ignazio giunge a Villalba. Le sue condizioni di salute hanno subito un peggioramento, ma monsignor Vizzini sarà irriducibile nelle sue decisioni fino all’anno successivo, quando acconsentirà che Ignazio riprenda gli studi, ponendo come condizione che si iscriva all’Università di Palermo e non a quella di Roma, da lui precedentemente frequentata.

Sulla sua infelice condizione, Ignazio, come in un diario intimo, si confida con il fratello, confessandogli le numerose angosce che lo attanagliano.

Tu non hai idea di quanto ho dimenticato con la mia dimora quaggiù. Leggendo qualche libro latino che ho potuto capitare rovistando nelle casse dello zio P. Daniele (la maggior parte dei libri hanno subito la sorte che il Boccaccio lamentava per i codici della Biblioteca di Montecassino) mi parve da principio di sentire una lingua obsoleta e non udita da gran tempo. E per comprendere dovevo leggere tre o quattro volte, io che pure intendevo un anno fa Orazio e Tacito a prima vista. E non oso aprire l’Anabasi di Senofonte che mi è capitato pure tra le mani per tema di non capirci niente. E tutti i miei libri di latino e greco sono a Roma, ché non prevedendo un così lungo soggiorno non avevo portato se non pochi libri letterarii. [...]

Ti ringrazio poi di quanto vuoi fare per me. Se pensi ancora che negli anni passati io non abbia proprio voluto studiare e dare esami, io potrei mostrarti lettere di qualche amico carissimo che mi supplicava di studiare e al quale io non potevo fare che promesse che non avevo poi la forza di mantenere. E per un anno non volle vedermi, perché pensava che dipendesse da cattiva volontà. Questo ricordo per volerti in qualche modo dimostrare che tutti gl’incitamenti allo studio che mi sono venuti e dalla tua severità e dalle preghiere degli amici potevano bensì spuntarsi sulla mia debolezza e sul turbamento del mio spirito non sulla mia cattiva volontà: io che pure ho fatto dello studio una lunga abitudine di tutti i miei giorni. La ragione c’è stata,

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ignota allora, nel male di cui son [solo] un anno fa son guarito.37

A riprova di quanto affermato in precedenza sull’importanza rivestita dalle scelte individuali nell’ambito della struttura culturale familiare, va ricordato che monsignor Vizzini era imparentato con un celebre personaggio villalbese, agli antipodi per stile di vita e per valori sostenuti.

Da Palermo, Ignazio così riferisce del suo incontro con il “padrino” don Calò Vizzini.

Per ottenere qualche impiego in Palermo faccio assegnamento su Calogero il nostro cugino di zio Beniamino. Egli è affittuario del feudo di Belice [Belìci], che è a confinare con quello di Miccichè, per la somma di 45 mila lire. Delle 300 e più salme di terra che formano il feudo, cento del miglior terreno le ha tenute per sé, il resto lo ha dato in gabella e si dice (con grande fondamento di verità) che ricavi dalle gabelle quasi o senza quasi l’intera somma dell’affitto. Egli a fine d’anno, calcolando il prodotto delle due cento salme di terra, ha un guadagno netto di almeno 50 mila lire. Aggiungi ch’egli commercia in cereali e in ogni sorta di generi. A Palermo ha relazioni estesissime. Ha avuta gran parte nelle recenti elezioni. Ha amici dal deputato al mafioso. Per ora però egli è partito, e non è dato prevedere il suo ritorno.38

Risultato vano il tentavo di ottenere un prestito per poter far ritorno nella capitale, Ignazio, il 19 maggio 1911, indirizza al prelato una drammatica lettera in cui analizza puntigliosamente l’eziologia dei suoi insuccessi universitari, individuandola, ancora una volta, nel suo indomabile temperamento ribelle.

37 ACVN, Fondo c. p. G. V., busta 16 (lett. V), 7. 38 ACVN, Fondo c. p. G. V., busta 16 (lett. V), 7.

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Caro Peppino Poiché mi sembri un po’ troppo ingrandire i miei demeriti,

con tutto che tu non voglia udire giustificazioni, credo opportuno una mia confessione sincera.

Il mio maggior mancamento è stato di non aver dati abbastanza esami nei primi due anni di Università. [...] Il male che mi afflisse negli anni seguenti (che non è una mia fisima) e che mi rese infelicissimo nel corpo e nello spirito perché non mi sentivo giovane quando più dovevo esserlo, per me e per chi vuol mettersi nei miei panni, dovrebbe giustificare o per lo meno attenuare qualche mancanza di quegli esami. Io allora ero malato nel corpo, ma molto di più nello spirito e in nessun altro periodo della mia vita ricordo di essere stato in preda ad un così nero pessimismo e di avere tante volte concepito il pensiero del suicidio. Ricordo questo per mettere nella vera luce il mio agire di quegli anni e non per ripetere quella sempiterna nota di cui non si farà più parola tra noi.39

Rivolgendoglisi con un distaccato «Caro Monsignore», Ignazio, gli indirizza poi la più dura delle lettere, cercando di ferirlo persino nei suoi sentimenti religiosi più intrinseci.

Una sola cosa rilevo dalle tue parole, che tu non ne vuoi più sapere di me, e questo cozza talmente con le leggi divine ed umane, sarebbe una tale infamia, che non sarò per crederci giammai, per quanto tu batta per conficcarmi questa idea nella testa. Ho la più ferma speranza che non farai cosa contraria alla tua coscienza, e mi affido completamente ad essa. [...]

A voi gente di curia piace vedere le persone inginocchiarsi ai vostri piedi (ex. per confessarsi) e pronunziare la parola obbedisco (come un Fogazzaro o un Sanguier) per quanto strazio possa costare un tale atto o una tale parola. Gregorio VII vi ha male insegnati! V’è gente che protesta. Non posso tacere (Tolstoi) ma finisce con lo star zitto. Per quanto sia

39 ACVN, Fondo c. p. G. V., busta 16 (lett. V), 7.

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insignificante la persona da cui viene (a paragone di quella nominata) anche il mio atto ti sia dunque grato.40

Alla data del 30 aprile 1912 la corrispondenza tra i due fratelli si interrompe, per ricominciare il 22 maggio dell’anno successivo, quando Ignazio informa Giuseppe di aver trovato ospitalità presso una famiglia romana, ricoprendo il ruolo di precettore del figlio dei conti Macchi. Finalmente ha trovato un lavoro, potendosi così affrancare dalla protezione del fratello.

Ignazio Vizzini è, infine, guarito dallo strano male che lo inseguiva, riuscendo a crescere e a saper ora vivere senza stare accanto all’ombra ingombrante del fratello-padre Giuseppe.

La «vicinanza dei corpi», l’esasperato diuturno confronto/scontro, la ricerca di un modus vivendi tra normalità (presunta) e devianza (presunta anch’essa), l’incontro di due linguaggi diseguali, l’investigazione dell’Altro, sono tutte tematiche composite che hanno impegnato a fondo la cultura europea, in un contesto, per ovvie ragioni, borghese piuttosto che rurale.

Il rapporto reale tra Ignazio e Giuseppe ricorda quello letterario di un inquietante testo del Novecento, che racconta la vita di un uomo con un fratello malato, nel cuore di una città italiana.

Vogliamo concludere citando un passo da un testo letterario, per ribadire, se ce ne fosse ancora bisogno, come le etichettature sociologiche e le categorie storiografiche in voga di rado si dimostrino adeguate per racchiudere e ghermire tutta la storia degli uomini e delle loro passioni.

«Io devo assistere mio fratello, aiutarlo a lavarsi e a vestirsi, provvedere al suo nutrimento; lui mi aiuta, per quanto può, nelle faccende domestiche. Coinvolti da tempo nella lenta tirannia della coppia, cerchiamo di sfruttarne anche i più piccoli suggerimenti, gli effetti materiali meno gravosi. Un severo ordinamento binario regola le nostre azioni. Ciascuno dei due rappresenta, per l’altro, secondo i casi, il compagno di giochi, 40 ACVN, Fondo c. p. G. V., busta 16 (lett. V), 7.

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l’interlocutore paziente, l’oppositore imprevedibile. Ci scrutiamo. I movimenti dei nostri corpi soggiacciono a un confronto obbligatorio e continuo; le nostre volontà si fronteggiano; combinazioni diverse, simili, spesso, a lunghi e complicati rituali, nascono dalla coscienza di essere in due. Nell’attesa, lunga o più raramente istantanea, che il gesto dell’uno si riproduca o si smonti nelle reazioni dell’altro, fasi di accomodamento e di tolleranza, attimi di speranza, ammicchi, brevi contemplazioni si alternano a momenti di inquietudine, di sofferenza e di opaca stanchezza».41

41 C. Samonà, Fratelli, Torino, Einaudi, 1978, pp. 6-7.