Giulio Leoni - Il Romanzo Di Urania Racconto

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Giulio Leoni Il romanzo di Urania. Il grosso quadrimotore, in arrivo dalla Francia, dopo aver superato le Alpi aveva virato sui quartieri settentrionali della città, cercando una strada attraverso il banco di nebbia che rendeva difficile il corto finale su Linate. Ma poi, visto che la massa lattiginosa compatta non dava segno di cedimento per diverse miglia, aveva continuato a volare in cerchio, a circa tremila piedi. Sotto di esso, per le vie della città, a più di un passante si era gelato il sangue, sentendo di nuovo il rombo cupo di quei motori sulla testa. Il controllo aereo stava cercando di fornire il massimo di assistenza possibile, appena preso in carico il velivolo nello spazio aereo italiano. Ma con visibilità a terra di trecento metri c’era soltanto da incrociare le dita, e confidare nella buona sorte. Il comandante militare del campo, un ufficiale delle forze alleate, si teneva in contatto continuo con la torre. Da quando la sala radio gli aveva annunciato l’arrivo stimato del volo, aveva spiato con crescente preoccupazione l’addensarsi della foschia sulla pista. Si avvicinò alla finestra con il binocolo in mano, cercando di scorgere verso nord qualche traccia di un diradamento. Ma il muro biancastro non dava segni di cedimento. Chiese brevemente per telefono se ci fossero novità dal meteo, poi dette ordine che tutti i mezzi disponibili si allineassero lungo la pista, con i fari accesi in modo da tracciare un sentiero luminoso. Almeno quei ragazzi avrebbero forse visto qualcosa dall’alto. Dopo pochi istanti sentì distintamente dal basso il rumore degli autoveicoli che uscivano dalle rimesse, per avviarsi lungo le bretelle del campo. Una decina di mezzi militari per parte, tra Dodge da carico, jeeps e perfino la squadra antincendio con due autoambulanze. Meglio essere pronti a tutto, si disse l’ufficiale stringendosi nelle spalle. Avrebbero fatto prima ad intervenire, in caso di necessità. -Quattrocento chili residui. Ormai siamo quasi a secco. Meglio tentare adesso. Tanto al prossimo giro verremo giù ugualmente come un’oca impallinata- La faccia del pilota era un reticolo di rughe, man mano che accompagnava con le mani la cloche in avanti, affondando nel muro compatto di nulla. Chi aveva detto che volare è per il novantacinque per cento noia e per il cinque terrore? Lindberg, gli sembrava di ricordare. Forse la parte del terrore è un po’ più ampia. Una goccia di sudore gelido stava formandosi all’angolo della visiera del berretto. Controllò con la coda dell’occhio che il motorista alle sue spalle stesse in posizione, pronto a riattaccare i quattro motori stellari da duemila cavalli l’uno, pompando dentro tutta la poca benzina rimasta, e sfiorò dolcemente la coda di serpente a sonagli che portava al collo. Su Amburgo e Berlino aveva funzionato. Forse anche su Milano, sperava. C’erano delle luci tenui, davanti al muso, cinquecento piedi più in basso. Orientò il timone da quella parte. Solo quando sentì le ruote artigliare la griglia metallica della pista, il pilota cominciò lentamente a rilassarsi. I muscoli della mascella gli dolevano per la tensione. Ringraziò silenziosamente Dio, il serpente e il dio dei serpenti. Il fondo rinforzato alla meglio dalla rete metallica riusciva a stento a mascherare gli avvallamenti scavati dalle bombe del ‘44. L’aereo tremava come impazzito e sembrava sul punto di cappottare, come un mustang a un rodeo, ma i colpi violenti che il sedile gli trasmetteva alle reni sembravano adesso il più erotico dei massaggi. Dietro il motorista aveva chiuso le manette, mentre da sotto la carlinga arrivava acuto lo stridore delle ganasce dei freni. Intravide davanti a sé la sagoma scura del veicolo che lo aspettava a fondo pista, per guidarlo alla piazzola di sosta. -Che ci porti stavolta, Bob?- urlò dalla jeep del follow-me nel suo inglese storpiato il caporale italiano, che intanto si era avvicinato al muso del B17. I generatori erano stati disattivati, ma le eliche continuavano a ruotare veloci, bruciando nei cilindri gli ultimi residui di carburante che esplodevano con sbuffi di fumo biancastro.

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Giulio Leoni Il romanzo di Urania.

Il grosso quadrimotore, in arrivo dalla Francia, dopo aver superato le Alpi aveva virato sui quartieri settentrionali della città, cercando una strada attraverso il banco di nebbia che rendeva difficile il corto finale su Linate. Ma poi, visto che la massa lattiginosa compatta non dava segno di cedimento per diverse miglia, aveva continuato a volare in cerchio, a circa tremila piedi. Sotto di esso, per le vie della città, a più di un passante si era gelato il sangue, sentendo di nuovo il rombo cupo di quei motori sulla testa.

Il controllo aereo stava cercando di fornire il massimo di assistenza possibile, appena preso in carico il velivolo nello spazio aereo italiano. Ma con visibilità a terra di trecento metri c’era soltanto da incrociare le dita, e confidare nella buona sorte.

Il comandante militare del campo, un ufficiale delle forze alleate, si teneva in contatto continuo con la torre. Da quando la sala radio gli aveva annunciato l’arrivo stimato del volo, aveva spiato con crescente preoccupazione l’addensarsi della foschia sulla pista. Si avvicinò alla finestra con il binocolo in mano, cercando di scorgere verso nord qualche traccia di un diradamento. Ma il muro biancastro non dava segni di cedimento. Chiese brevemente per telefono se ci fossero novità dal meteo, poi dette ordine che tutti i mezzi disponibili si allineassero lungo la pista, con i fari accesi in modo da tracciare un sentiero luminoso. Almeno quei ragazzi avrebbero forse visto qualcosa dall’alto. Dopo pochi istanti sentì distintamente dal basso il rumore degli autoveicoli che uscivano dalle rimesse, per avviarsi lungo le bretelle del campo. Una decina di mezzi militari per parte, tra Dodge da carico, jeeps e perfino la squadra antincendio con due autoambulanze. Meglio essere pronti a tutto, si disse l’ufficiale stringendosi nelle spalle. Avrebbero fatto prima ad intervenire, in caso di necessità.

-Quattrocento chili residui. Ormai siamo quasi a secco. Meglio tentare adesso. Tanto al

prossimo giro verremo giù ugualmente come un’oca impallinata- La faccia del pilota era un reticolo di rughe, man mano che accompagnava con le mani la cloche in avanti, affondando nel muro compatto di nulla. Chi aveva detto che volare è per il novantacinque per cento noia e per il cinque terrore? Lindberg, gli sembrava di ricordare. Forse la parte del terrore è un po’ più ampia. Una goccia di sudore gelido stava formandosi all’angolo della visiera del berretto. Controllò con la coda dell’occhio che il motorista alle sue spalle stesse in posizione, pronto a riattaccare i quattro motori stellari da duemila cavalli l’uno, pompando dentro tutta la poca benzina rimasta, e sfiorò dolcemente la coda di serpente a sonagli che portava al collo. Su Amburgo e Berlino aveva funzionato. Forse anche su Milano, sperava. C’erano delle luci tenui, davanti al muso, cinquecento piedi più in basso. Orientò il timone da quella parte.

Solo quando sentì le ruote artigliare la griglia metallica della pista, il pilota cominciò

lentamente a rilassarsi. I muscoli della mascella gli dolevano per la tensione. Ringraziò silenziosamente Dio, il serpente e il dio dei serpenti.

Il fondo rinforzato alla meglio dalla rete metallica riusciva a stento a mascherare gli avvallamenti scavati dalle bombe del ‘44. L’aereo tremava come impazzito e sembrava sul punto di cappottare, come un mustang a un rodeo, ma i colpi violenti che il sedile gli trasmetteva alle reni sembravano adesso il più erotico dei massaggi. Dietro il motorista aveva chiuso le manette, mentre da sotto la carlinga arrivava acuto lo stridore delle ganasce dei freni. Intravide davanti a sé la sagoma scura del veicolo che lo aspettava a fondo pista, per guidarlo alla piazzola di sosta.

-Che ci porti stavolta, Bob?- urlò dalla jeep del follow-me nel suo inglese storpiato il caporale italiano, che intanto si era avvicinato al muso del B17. I generatori erano stati disattivati, ma le eliche continuavano a ruotare veloci, bruciando nei cilindri gli ultimi residui di carburante che esplodevano con sbuffi di fumo biancastro.

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Il pilota si sporse dal finestrino laterale, toccandosi colla mano l’orecchio coperto dalla cuffia. Il soldato ripetè la domanda urlando, accostando come un megafono le mani alla bocca. Stavolta l’altro parve aver capito. Scoppiò a ridere: -Niente che non avrebbe potuto viaggiare per treno, amico. Quei figli di puttana del SAT hanno deciso che non è giusto che ce la spassiamo ancora vivi, visto che i nazi hanno avuto il cattivo gusto di non ammazzarci. E così ci pensano loro, con questi voli fottuti- sporse la testa ancora di più fuori dal finestrino, guardandosi intorno. –Ma questo non era il paese del sole?

-Certo che lo è! O sole mio sta in fronte a teee…- gridò il giovane a squarciagola, mentre voltava la jeep e scivolava sotto l’ala portandosi verso la coda del velivolo. Da dentro avevano intanto aperto il portello di carico, e un sergente nero aspettava a braccia conserte masticando gomma.

-Che avete per me? -Il solito- rispose quello, gettandogli la sacca verde della Military Post. –E anche questo-

aggiunse poi, lanciandogli un pacchetto avvolto in carta scura e legato con lo spago. -Sempre al solito indirizzo?- chiese l’italiano, sbirciando la fascetta di carta incollata. Il

sergente si strinse nelle spalle, mentre cominciava a richiudere il portello. Ogni mese lo stesso pacco. Dovevano conoscere qualche pezzo grosso a Washington, quell’italiano, per avere quel servizio personale.

I due uomini erano entrati senza farsi annunciare. Si erano limitati ad aprire la porta

dell’ufficio, scivolando dentro silenziosamente come ombre. Il colonnello Forrest, il comandante militare del campo, all’inizio non aveva sollevato nemmeno gli occhi dalle carte che stava firmando. Così entrava soltanto il suo attendente e segretario. Oppure O’Connor, l’ufficiale di collegamento inglese. E l’attendente era in licenza. –Prenditi il solito, Mark. E riempine uno anche a me- disse soprapensiero, continuando a fissare quegli elenchi sterminati di conti. Maledetta burocrazia, ci fosse almeno una bella guerra, subito. Forse i Russi, pare che stiano movendo troppo la coda a Berlino. Forse…

-Colonnello, quando arriva il trasporto da Parigi? Forrest aveva alzato di colpo gli occhi. Non era la voce di O’Connor. Assolutamente. Lo

scozzese parlava con una voce nasale, le erre marcate, un vezzo per affermare non sono mica un coglione di inglese. Non era lui. I due uomini lo fissavano dall’alto della loro statura imponente, a un paio di metri. Alti eguali, disposti verso i due angoli della scrivania. Troppo distanti per una visita di cortesia. E troppo vicini per non essere inquietanti. La stanza sembrava diventata all’improvviso troppo piccola. D’istinto prese ad alzarsi, per attenuare quel senso di insicurezza che improvvisamente lo aveva colto di fronte ai due sconosciuti. –Chi siete?

-Colonnello Forrest, quando arriva il trasporto da Parigi?- ripeté quello che aveva parlato prima. Aveva un tono di voce pacato, privo di colore. Senza inflessioni dialettali. Avrebbe potuto essere di qualunque parte dell’Unione. Oppure uno straniero che avesse imparato molto bene l’inglese. In qualche scuola specializzata dei servizi segreti, magari. Il senso di inquietudine andava crescendo. Adesso era in piedi anche lui. Cercò di ricordare in quale cassetto avesse lasciato la Colt d’ordinanza. Eppure sembravano americani, ma se ne sentivano tante, in quei giorni.

-Colonnello. Il trasporto da Parigi. Ne va della sicurezza nazionale. Vi ordino di rispondere. Aveva parlato l’altro, quello a destra. Ma non sembrava quasi esserci differenza tra i due.

Vestiti entrambi di scuro, impermeabili scuri, scarpe di foggia militare, anonime. Cappello, entrambi. Non sembravano della polizia militare. Forse due ragazzi di Hoover? E che facevano a Linate? Che volevano da lui? Si avvicinò alla finestra, che dava direttamente sulla pista d’atterraggio. Quel tono perentorio lo aveva sconcertato. Vi ordino di rispondere? Erano in pochi a poterselo permettere con lui, in tutta Milano. Obbedì meccanicamente indicando il velivolo che si intravedeva appena oltre il vetro opaco, su una piazzola laterale.

-Eccolo. Il B17 del Strategic Air Transport. È arrivato da nemmeno dieci minuti.

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I due si scambiarono una rapida occhiata, poi uscirono rapidamente, senza accennare ad una parola di saluto. Due fantasmi apparsi e poi scomparsi nel nulla. Ma l’atmosfera della stanza sembrava più fredda adesso, come se una folata della nebbia esterna fosse entrata con loro. Il colonnello si avvicinò alla finestra, per guardare in basso. Dopo pochi secondi li vide uscire dall’ingresso della palazzina e salire rapidamente su una Ford verde scuro, senza insegne. La macchina si allontanò con uno sbuffo di fumo dallo scappamento, in direzione del velivolo.

-Chi è il comandante dell’aereo? Robert Armstrong, il capitano pilota, stava tirando fuori dalla botola inferiore la sacca degli

effetti personali. Si dette una rapida occhiata intorno, per vedere se i due uomini scuri fossero soli. Privi di qualunque espressione sulle facce accuratamente sbarbate. Sembravano quelle maschere di porcellana che i giapponesi si dipingono sul volto. Ma questi sembravano anche più cattivi. Intanto passava rapidamente in rassegna gli ultimi due giorni della sosta a Miami, prima del trasferimento in Europa. Non gli veniva in mente niente. Niente di paragonabile alla storia di Tokio, almeno. Lì la polizia dei gialli li stava ancora cercando, per quella discussione con la geisha. Ma a Miami? Gettò un’occhiata rapida al resto dell’equipaggio. Sembravano tutti affaccendati a sistemare l’aereo per l’ormeggio, ipocriti, anche se era chiaro dall’espressione dei visi che erano in realtà attentissimi a quello che accadeva intorno.

-Sono io. Capitano Armstrong, U.S. Air Force. -Arrivate dalla Florida- non era una domanda. –Dov’è il carico che avete imbarcato a Fort

Lauderdale? -Cosa? Nella stiva, naturalmente. Dove volete… I due uomini si avviarono senza una parola verso il portello del vano bombe, che era stato

riattato a stiva per il trasporto. Li vide arrampicarsi veloci sulla scaletta che era stata calata dall’interno, per poi sparire all’interno della carlinga. Adesso che quelli erano fuori vista lanciò un’occhiata rabbiosa agli altri, che intanto si erano avvicinati furtivi. –Avete combinato qualcosa? Che c’è dentro, che dovrei sapere? Avete ricominciato col contrabbando?- sibilò, mentre un coro di teste lo smentiva. –Quelli sono dell’FBI, giurateci. Per cui se…

-Capitano, dove sono i plichi postali?- uno degli uomini scuri, che era tornato ad affacciarsi dal portello. Il sergente mitragliere nero si fece avanti, intimidito dal tono dell’uomo. –Li hanno presi in carico gli italiani, sono loro che si occupano…

-Cosa c’era?- gli tagliò la parola lo scuro, che intanto era sceso rapidamente dalla scaletta insieme col suo compagno e si era avvicinato correndo. La faccia aveva perso il suo aspetto impassibile da maschera orientale, una specie di spiaggia spazzata da un’ondata di delusione che ne avesse alterato i tratti.

-La posta militare. Più un pacco per gli italiani. -Quale pacco? Hai visto dove fosse diretto? Il negro scosse il capo. –Ho visto io amico- disse all’improvviso il marconista. I due si

voltarono verso di lui simultaneamente, come due serpenti. –Beh, veramente non ho proprio visto… ma mi è sembrato lo stesso che portiamo ogni mese, quasi da un anno. È sempre uguale, ve lo ricordate, no?- si era rivolto agli altri, come se fosse in cerca di solidarietà. –Sempre lo stesso indirizzo, no?

-Scrivi. Qui- disse uno dei due scuri, tendendogli un blocchetto e una matita. Sembrava improvvisamente tornato gentile. Il marconista tracciò un paio di righe in fretta e furia, come se volesse liberarsi di un peso. Appena ebbe finito si sentì strappare il libretto dalle mani.

-Deve essere nella parte centrale della città- disse il primo all’altro. -Sì, mi sembra. -Dottore… ci sono… due… L’uomo stava seduto dietro un semplice tavolo, in una stanza piena di libri e riviste

accatastati. Forse uno sguardo attento avrebbe potuto riconoscere una qualche forma di ordine in

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quel caos di carta stampata. Ma ci sarebbe voluto davvero un esame molto attento, e un grande ottimismo. Sembrava che un campione di tutti gli scritti del mondo fossero finiti in quel punto dell’edificio: volumi spaiati di enciclopedie, giornali di prima della guerra, libri italiani e stranieri, manoscritti impilati e coperti di polvere. La stanza in sé evocava un’immagine di antico decoro borghese, quasi sontuosa. Il soffitto alto coperto di stucchi, gli spicchi di parete ancora visibili dietro gli scaffali rivelavano tracce di una tappezzeria di pregio. Ma avrebbe certo avuto bisogno di essere rinfrescata, da tempo. Il fumo delle sigarette, i cui mozziconi riempivano i molti posacenere sparsi in giro, sembrava essere entrato in ogni suo poro. Anche i vetri dell’alta finestra che tagliava la parete alle spalle della scrivania avrebbero avuto bisogno di una bella ripulita. Se l’uomo che la occupava avesse avuto occasione di guardarli, qualche volta. Ma sembrava del tutto assorto in quella marea di carta che era arrivata da lui, dopo il diluvio.

-Cosa, Maria?- disse distrattamente. Aveva appena deposto un pacco davanti a sé, e stava gettando nel cestino i resti dello spago che lo aveva .

-Ci sono due.. persone per lei, dottore- ripetè la segretaria, prima di scansarsi rapidamente. L’uomo ebbe l’impressione che se non lo avesse fatto i due sulla porta l’avrebbero travolta, entrando. Non con cattiveria, né per maleducazione. Perché sembravano non vederla. Sembravano non vedere nulla. Se non quello che guardavano. E stavano guardando lui. Alti, vestiti di scuro. Molto simili uno all’altro. Quasi uguali.

Erano entrati puntando direttamente verso di lui. Poi i loro occhi si erano spostati sul pacco aperto che era restato in un angolo del tavolo. I lembi di pesante carta marrone che lo avevano avvolto giacevano ancora appallottolati accanto alla scatola di cartone. Ma era stato solo un guizzo, prima che la loro attenzione tornasse su di lui. –Avete ricevuto posta dagli Stati Uniti. Un plico- disse uno dei due. –È quello?

-Posso sapere con chi… -Servizio Operazioni Strategiche. Abbiamo bisogno che ci consegniate il contenuto del

plico. È una questione di prioritaria importanza per il Governo degli stati Uniti. Confidiamo che vorrete collaborare con un paese amico.

L’uomo aveva parlato in un italiano perfetto, privo di inflessioni regionali. Un uomo di cultura. Oppure uno straniero che avesse studiato per anni la lingua in una università del centro Italia. Ma non Firenze, forse in provincia. Chi poteva essere, da fare l’agente per gli americani? E che poteva volere da lui? Il plico dall’America. Sempre la stessa storia, pensò con un brivido. Ma non era finita? Quante volte aveva assistito a quella scena, prima della guerra? Allora erano quelli della Milizia, in genere. Più piccoli, coi baffi. Ma uguali, anche quelli. Volse gli occhi verso la scatola. –Questo? Ha importanza per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti? Scherzate? Credo che ci sia un equivoco...

In genere funzionava. C’era sempre un possibile equivoco. Mentre parlava uno dei due si era avvicinato al pacco, e ne stava osservando l’involucro lacerato. Sembrava particolarmente interessato all’etichetta incollata con sopra l’indirizzo. La avvicinò agli occhi dell’altro, sottolineando col dito qualcosa. L’altro si era curvato sulla carta, osservando con attenzione. Sembravano interessati soprattutto al nome del mittente, scritto in alto.

Il secondo uomo, quello che era stato chiamato in causa, assentì con la testa, silenziosamente. Poi tornò a voltarsi verso l’italiano. –Dovete consegnarci il pacco. Con tutto il suo contenuto.

-Ma nemmeno per sogno… fatemi almeno vedere che cosa… Parlando l’italiano aveva teso le mani verso il pacco, afferrandolo e tirandolo a sé dalla sua

parte della scrivania. Gli altri erano scattati a loro volta, ma un attimo troppo tardi, sorpresi evidentemente dalla reazione inaspettata dell’uomo. Aveva vinto il primo round, ma adesso ebbe paura, improvvisa. I due uomini si erano separati, e avevano preso ad aggirare la scrivania dai due lati, stringendolo nel mezzo. D’istinto rovesciò il contenuto del pacco sul tavolo. Per prendere tempo. Ma anche per dare almeno un’occhiata al contenuto, prima che sparisse.

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Due o tre libri rilegati e una piccola massa di fascicoli multicolori si era sparpagliata davanti ai suoi occhi. Copertine multicolori, molte con immagini di donnine non troppo vestite in bella vista. C’erano anche alcuni albi a fumetti, comic books, come li chiamavano loro. Topolino, ma soprattutto quei nuovi personaggi che in America andavano tanto di moda, superuomini dotati di poteri straordinari. Vestiti in maniera incredibile, con strisce e stelle, come in Italia non avrebbero osato nemmeno i benzinai. Oppure gli arditi del fascio, fino a poco prima.

Per un attimo i tre uomini rimasero in silenzio, osservando il mucchio di carta. -Intendete questo? E questi metterebbero in pericolo la sicurezza degli Stati Uniti? Weird

Tales? Batman?- disse l’italiano. Avrebbe voluto assumere il tono ironico che gli era congeniale. Ma non riusciva a liberarsi della tensione che la presenza dei due altri gli aveva trasmesso. La battuta gli uscì dalle labbra falsa. Si infuriò con se stesso: sembrava essere lui ad essere in difetto, adesso. Anni di condizionamento della censura, la guerra, i bombardamenti. Avevano lasciato qualche traccia, evidentemente. Avere a che fare con l’autorità, qualsiasi autorità era ancora angoscioso. Ma quale autorità, maledizione. Sul tavolo c’era un apparecchio telefonico. Valutò se sarebbe riuscito a chiamare la polizia. Forse no.

I due scuri non parevano essersi resi conto del conflitto che lo agitava, evidentemente. Sembravano concentrati sulla massa di carta davanti a loro. Avidamente si erano messi a rovistare tra i fascicoli, come se cercassero qualcosa di nascosto. Ma non c’era nulla. assolutamente. Soltanto una selezione di quello che si sarebbe potuto trovare in ogni edicola americana di qualche mese prima.

All’italiano parve di riconoscere un’ombra di delusione sul volto impassibile degli altri due. -Siete sicuro che nel pacco non ci fosse niente altro?- chiese improvvisamente quello di

destra, fissandolo con uno sguardo particolare. Era quello sguardo di cui aveva letto in tanti di quei fascicoli: uno sguardo molto americano. Oppure no, forse internazionale. Anche i tedeschi sembravano averlo avuto, in certi momenti. Uno sguardo, come dire, premonitore.

-No, è tutto qui, certo. Avevo appena ricevuto il pacco, l’ho aperto un attimo fa. Ma non mi avete ancora spiegato…

Mentre parlava sperò che i due non avessero notato il moto impercettibile del suo sguardo, che era corso per una frazione di secondo al primo cassetto della scrivania. Se quelli se n’erano accorti adesso sarebbe stato nei guai, lo sentiva. Ma i due sembravano ancora concentrati sui fascicoli. Erano poi passati a scrutare con attenzione nella scatola, come in cerca di parti nascoste, doppi fondi o chissà che diavolo. La scatola di Houdini.

Andarono avanti ancora per qualche minuto a palpare ogni centimetro del cartone. Parevano essere meno attenti a lui. Forse la sua bella faccia da intellettuale liberale doveva averli convinti che era troppo fesso per far parte di qualche complotto, qualsiasi cosa fosse. Avrebbe potuto fare l’attore, si disse soprapensiero. In quanti glielo avevano detto? Anche Ernest, una volta che gli aveva inviato la sua fotografia, ai tempi della traduzione del primo romanzo per Mondadori. Gliela aveva chiesta lui, voleva sapere che faccia aveva uno che metteva le mani nella roba sua, aveva detto.

Ernest, che tipo. Intanto i due continuavano a rovistare tra le carte. Avevano preso ciascuno un fascicolo, e lo stavano esaminando accuratamente, pagina per pagina. Uno, quello che in quel momento aveva in mano una copia di Astounding, si avvicinò di colpo alla finestra, mettendosi ad esaminare una delle pagine in trasparenza. Sembrava che stesse cercando qualcosa di nascosto tra le righe della stampa. Spionaggio, ecco la spiegazione. Messaggi segreti. Ma che c’entrava Ernest, con questo? Anche l’altro scuro era passato ad osservare in trasparenza le pagine di altri fascicoli.

-That damned drunkard…- sibilò ad un certo momento quello che aveva appena cessato di esaminare il numero di agosto di Galaxy. –He must have sent it to somebody else… he fucked us.

Maledetto ubriacone. Certo. Se stavano parlando di Ernest, non avevano tutti i torti. Lui non l’avrebbe forse definito così, nei risguardi di copertina della Medusa. Magari forte bevitore? Lo sguardo gli corse di nuovo in basso, d’istinto. Verso il cassetto chiuso.

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Gli scuri sembravano davvero delusi. Parevano improvvisamente incerti, mentre si scambiavano uno sguardo di intesa. Li vide che si stringevano nei loro impermeabili scuri. Forse se ne sarebbero andati, sperò.

-Signor Monicelli. Vorremmo che dimenticaste la nostra visita. È dovuta a problemi di sicurezza nazionale. Meglio dimenticare, per la tranquillità di tutti.

L’uomo aveva accompagnato la frase con una significativa espressione degli occhi. -Ancora una cosa. Se doveste ricevere ancora qualcosa dalla fonte in questione- indicò con l’unghia il nome del mittente sulla carta. Sembrava che per qualche motivo non volesse pronunciate il suo nome. Come se temesse che ci fosse qualcuno in ascolto, oltre la parete dell’ufficio. Ma da fuori della porta arrivava solo il brusio di decine di persone affaccendate, e il ticchettio di altrettante macchine per scrivere. Tutti gli uffici della Mondadori sembravano immersi nel lavoro più intenso, senza alcun avvertimento di quello che stava avvenendo nell’ufficio di uno dei loro dirigenti.

-Nel caso che riceveste in futuro, dal vostro corrispondente- ripetè- qualcosa fuori dell’ordinario, mettetevi subito in contatto con il nostro Consolato.

-Fuori dell’ordinario? Fuori dell’ordinario come? Che intendete? -Fuori dell’ordinario. Qualsiasi cosa.

Tornò a sedere lentamente sulla sua poltrona dietro la scrivania. Nella stanza si avvertiva

ancora netta la presenza dei due uomini, come se non se ne fossero andati ancora del tutto. Forse un leggero odore di dopobarba, un profumo tenue di qualche prodotto sconosciuto, molto diverso dal solito sapone verde usato in Italia. Stava cercando di calmarsi, ma non riusciva ancora a tornare padrone dei suoi movimenti, come se temesse ancora da un momento all’altro di vederli tornare.

Di nuovo lo sguardo gli corse al cassetto sotto il ripiano. Era lì che aveva nascosto subito una busta con una lettera di Ernest, che aveva trovato appena aperto il pacco. Aveva agito d’istinto, senza pensare, mentre rovistava nel resto del contenuto del pacco. Forse per un riflesso condizionato generato dalla censura di prima della guerra, quando gli scritti di Hemingway erano all’indice e bisognava tener segreto ogni contato della Mondadori con lo scrittore americano. E quell’istinto stavolta si era dimostrato felice. Chissà cosa sarebbe successo se quelli lo avessero trovato. Certo non avrebbe potuto leggere la lettera dell’amico, come stava facendo adesso.

Caro Giorgio, eccoti gli ultimi romanzi usciti da noi, e un nuovo mucchio di quella cartaccia che ti piace

tanto. Anche stavolta sono riuscito a farla passare come posta militare, grazie a un tenente che si fa delle gran bevute con me una sera sì e l’altra pure. Mi chiedo come fai ad appassionarti a queste fesserie di razzi e vampiri, dopo aver letto quello che scrivo io. Ma deve essere la fantasia di voi italiani. Tutti figli di Leonardo e di Michelangelo. Divertiti, e alla prossima spedizione.

Comunque stavolta ho qualcosa di più. Penso che sia proprio qualcosa che ti manderà in estasi. Agli inizi di settembre, quando sono andato alla base per farti arrivare il pacco precedente, mi si è messo alle costole un ufficiale dell’Airforce, un certo Marcel. Poi mi è anche venuto a trovare a casa. Ma ha avuto il pessimo gusto di farsi vedere nella mattinata, e tu sai che quella è l’ora meno indicata per discutere con me. Mi ha raccontato una storia di quelle che ti piacerebbero. Io non gli ho dato troppo spago, non ho pazienza con i pazzoidi, ne vedo già uno tutte le mattine nello specchio, e non è che mi piaccia esagerare con la compagnia. Voleva a tutti i costi farmi vedere qualcosa, e che io con la mia autorità (ha detto proprio così autorità) lo rendessi pubblico. Ho detto a quel piccolo bastardo perché non si faceva pubblicità da solo, ma quello ha tirato fuori il servizio e l’onore militare e altre idiozie. L’ho cacciato via a calci, rischiava di farmi perdere la prima bevuta della mattina, giù al bar.

Comunque mi ha lasciato quello per cui era venuto, che troverai nella busta. Dagli un’occhiata e facci quello che vuoi.

Sto pensando con mia moglie di tornare a fare un giro da voi, in Italia. Voglio mostrarle i luoghi delle mie gesta, nella Prima. Forse ci vedremo presto.

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Ernest Hemingway. Giorgio Monicelli estrasse dalla grossa busta di carta gialla quello che sembrava un ritaglio

di giornale ripiegato, e un fascicolo dattiloscritto. Lo depose ancora chiuso sul tavolo. Era il fascicolo ad attirare la sua attenzione, soprattutto. Forse una deformazione professionale, si disse, quella curiosità per i manoscritti, da qualunque parte arrivassero.

Prese in mano il dattiloscritto ripiegato. Sentì al tatto che la carta era appesantita da qualcosa al suo interno. Aprendolo una lastrina argentata cadde sulla scrivania, con un rumore metallico. Sembrava un frammento di qualcosa più grande che si fosse spezzato: i bordi apparivano strappati in maniera irregolare, taglienti e netti come se fossero stati scolpiti con le forbici da lattoniere. Sulla sua superficie gli parve di riconoscere delle screpolature, come delle incisioni. Ma lo sguardo era tornato sul dattiloscritto. Lo prese in mano per osservarlo con maggiore attenzione. Erano diversi fogli di carta intestata della U.S. Air Force – Base di Wright Patterson.

Il testo era in inglese, caratterizzato dalle abbreviazioni e dalla terminologia propria della burocrazia militare. Cominciò a tradurre mentalmente:

Affidavit. Io, Jesse Marcel, maggiore della Usaaf, in servizio attivo presso il 509° Gruppo da

Bombardamento Strategico, di stanza presso la base di Roswell, New Mexico, di fronte alla mia coscienza e consapevole delle responsabilità che mi assumo con le mie parole davanti al mio paese e all’umanità intera, dichiaro quanto segue. Il giorno 11 luglio del corrente anno 1947 ricevetti, nella mia qualità di addetto stampa della base, notizia da parte di un civile residente nei pressi che in una località a circa trenta miglia nel deserto risultava essere precipitato un oggetto volante di provenienza sconosciuta…

Giorgio Monicelli continuò a tradurre lo scritto per tutta l’ora seguente. Verso la metà del

testo si interruppe. Afferrò il frammento metallico che giaceva sulla scrivania e rimase lungamente a soppesarlo nella mano, quasi cercasse di leggerne la natura attraverso il tatto, come un cieco. E si sentiva davvero cieco, in quel momento. Perso nelle tenebre, solo qualche scheggia di luce nelle retine oscurate.

Una luce tenue, appena visibile. Eppure qualcosa si stava dilatando, nella sua visione. Le tracce sulla superficie del frammento, ad un esame più accurato, erano evidentemente delle incisione realizzate ad arte, come una sorta di piccoli marchi incisi regolarmente con un punzone. Provò a piegare la lamina, che sembrava molto sottile, forse appena qualche decimo di millimetro. Ma il metallo sembrava insolitamente robusto. Resisteva alla sua pressione senza accennare nemmeno ad un principio di flessione.

Nell’armadietto della cancelleria doveva esserci una lente. Ingranditi, i segni sembravano inequivocabilmente grafemi di una qualche scrittura, vagamente simili a simboli zodiacali. Riconobbe distintamente un sequenza di cinque segni, che sembravano ripetersi sulla superficie secondo un codice misterioso.

Solo adesso parve ricordarsi del giornale. Spiegò il foglio: era la prima pagina di un quotidiano locale. Luglio, 1947, Nuovo Messico.

Le sue sopracciglia presero a sollevarsi involontariamente, mentre leggeva l’articolo di fondo: era l’estratto commentato di un comunicato ufficiale della locale base aerea, che riferiva del recupero di un piatto volante nel deserto, dalle parti di un posto chiamato Roswell. La fonte dell’articolo citava un certo maggiore Marcel.

L’uomo del memoriale. Mentre leggeva sentì i muscoli della mascella che si allentavano. La sua faccia doveva avere un’espressione davvero strana, adesso. Adesso nessuno gli avrebbe proposto di fare l’attore, di sicuro. Negli ultimi tempi si era scoperto più volte a pensare al futuro. Suo personale, del paese. Come sarebbe finita, alle prossime elezioni? Dell’umanità addirittura, nelle notti in cui il suo umore si faceva di fiele. Ma se quello che c’era scritto su quel giornale era

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vero, allora il futuro era già cominciato. Se era vero quello che raccontava il maggiore Marcel tutto il mondo era impegnato in una rissa insensata, davanti all’enormità di quello che era caduto dal cielo.

Se era vero. Se quei due del servizio segreto non fossero solo le comparse di una commedia impazzita.

Si accorse di aver stretto in mano per tutto il tempo il frammento metallico. Adesso gli pareva che quel pezzetto di ferro fosse divenuto improvvisamente rovente. Davvero aveva tra le mani un pezzo del veicolo spaziale, secondo la testimonianza del maggiore Marcel? Povero maggiore, pensò per un istante, cercando di immaginarselo in testa. Perseguitato da uomini oscuri, come quei due che erano appena scomparsi. Al punto di cercare l’aiuto di Ernest, una mano da uno famoso. L’uomo sbagliato al posto sbagliato, l’ultimo cui chiedere un aiuto per una storia di quelle.

Era totalmente sconcertato. Lo sguardo gli cadde su una copia di Amazing Stories. Con la sua copertina a colori rutilanti, una pioggia di razzi dallo spazio, con le loro code di fuoco che sembravano tante fontane alla rovescia, un trionfo di fuochi artificiali per un capodanno futuro. Il futuro. Ma perché nessuno ne aveva detto di più, perché quella storia era stata tenuta segreta? Avrebbe dovuto essere la notizia del secolo. E invece circolava soltanto in una specie di scatola di scarpe, inseguita per mezzo mondo dal servizio segreto americano.

Forse era tutto un sogno. Un’idiozia, come diceva Ernest. Ma allora perché cercare di metterci le mani sopra? E poi la notizia era già stata pubblicata

da un giornale, che c’era ormai da nascondere? Il pezzo di metallo gli bruciava in mano. Non era possibile che quel fatto morisse così, soffocato dalla caccia che il governo americano aveva scatenato contro di lui.

C’era un modo, per raccontare quella storia? E tante altre storie come quella? Perché, di questo era sicuro, se quella storia di Roswell era vera, non era possibile che si trattasse di un fatto isolato. C’era intorno a noi, sulle nostre teste, il peso di una presenza diversa. Era come se il cielo si stesse aprendo sopra di noi. Scorse con lo sguardo le centinaia di libri allineati sugli scaffali, ammucchiati negli angoli. Storie. Racconti di ciò che era avvenuto. Di uomini e donne che erano vissuti.

Ma forse era venuto il tempo di raccontare la storia di quello che non è ancora avvenuto. Era quella la nuova storia che ci attendeva tutti, ne era sicuro. La guerra appena finita aveva chiuso per sempre, col suo disastro, la narrazione del passato. Adesso era il tempo di scrivere la storia del futuro. Gli americani avevano già cominciato, nonostante il loro governo. Chissà che in questo momento, si disse, nella redazione di Astounding, Galaxy, Amazing, uomini come lui non fossero anche loro alla presa con una scatola di cartone, piena dei pezzi di un altro mondo caduti sul nostro.

Sì, forse era arrivato il momento di cominciare anche in Italia. Si pubblicava di tutto, alla Mondadori. Forse sarebbe riuscito a convincerli. Cominciare con qualche romanzo, poi dei racconti. Preparare il terreno. Sì, una rivista, come quelle che aveva davanti agli occhi. Da vendersi nelle edicole, perché potessero comprarla anche i ragazzini. Soprattutto loro, ripetè soprapensiero. Soprattutto loro.

Ma intanto bisognava proteggere quella prova. Al momento opportuno avrebbe pubblicato tutto, memoriale, fotografie del pezzo del disco. Prima qualche decina di numeri, per preparare il terreno. Idee, prospettive diverse. E soprattutto disegni, per preparare le menti alle nuove forme che ci aspettavano. Cercò una grossa busta commerciale, e la sigillò con dentro le carte e il frammento metallico. L’archivio della Mondadori era il luogo migliore per nascondere per il momento tutto. Lì nessuno l’avrebbe trovato mai. Nessuno l’avrebbe nemmeno mai cercato.

Rimase per qualche istante con la penna sospesa sulla busta, cercando mentalmente un codice di riferimento, per ritrovarlo al momento opportuno. Universo. Pianeta lontano. Cielo? Coelum. Ouranos.

Urania. Sì, Urania sembra la parola giusta, decise appoggiando la penna sulla carta.

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NdA. – Il progetto di realizzare una collana di libri di fantascienza non incontrò l’immediato favore degli amministratori della Mondadori, e vide la luce solo cinque anni dopo, in forme probabilmente diverse da quelle che Monicelli aveva immaginato in quel giorno del tardo autunno del 1947.

Le carte ricevute da Hemigway rimasero sicuramente negli archivi della casa editrice per tutto il tempo in cui lo scrittore collaborò con la Mondadori. Una busta corrispondente alla descrizione, riportante la dicitura Urania, fu vista ancora nel 1954 dall’allora segretaria di redazione, che ha reso una dichiarazione in merito in una conversazione privata. Resta invece incerto il destino finale dei documenti e soprattutto del frammento metallico all’indomani dell’abbandono della direzione della rivista, da parte dello scrittore, alla fine degli anni cinquanta. Si può pensare che egli li abbia portati con sé, naturalmente, e che il tutto abbia seguito le sue sorti. Ma non escluderei che una comprensibile forma di cautela, per i rischi evidenti legati al possesso di quel materiale, possa aver indotto Giorgio Monicelli a lasciare in un primo tempo il plico nel suo nascondiglio, magari ripromettendosi di tornare a riprenderlo in un momento più opportuno. E che questo momento favorevole non si sia più ripresentato, a seguito delle dolorose vicissitudini che oscurarono i suoi ultimi anni di vita.

Sarebbe senz’altro opportuno che gli attuali responsabili della rivista effettuassero una verifica dei contenuti degli archivi, esplorando con cura gli antichi uffici di via Bianca Maria di Savoia. Forse l’unica testimonianza della discesa di “qualcosa” dalle stelle che sia sfuggita alla minuziosa caccia dei funzionari governativi americani è ancora lì, da qualche parte. Da qualche parte c’è nascosto ancora un piccolo frammento di meraviglia.